venerdì 4 gennaio 2019


IL RITRATTO
I racconti di Pietroburgo
Nicolaj Gogol'

Parte prima

In nessun posto si fermava tanta gente come davanti alla bottega di quadri dello Šèukìn Dvor. Questa bottega costituiva infatti la più eterogenea collezione di cose strane e rare: i quadri per la maggior parte erano dipinti a olio, ricoperti da una vernice verde cupo, montati in cornici pretenziose color giallo scuro. Un inverno con i suoi alberi bianchi; un tramonto completamente rosso, simile al bagliore di un incendio; un contadino fiammingo con la pipa e il braccio spezzato, più simile a un gallo indiano con i polsini che non a un uomo; ecco i loro abituali soggetti. A ciò bisogna aggiungere alcune stampe: il ritratto di KhozrevMirza con il beretto di pelo di montone, altri ritratti di chissà quali generali con il tricorno e con i nasi storti. Alla porta d'una bottega come questa sono inoltre di solito appesi fasci di incisioni popolari su grandi fogli, che testimoniano del nativo talento dell'uomo russo. Su uno di questi fogli c'era la zarevna Miliktrisa Kirbitievna; su un altro la città di Gerusalemme sulle cui case e chiese era profusa senza tanti complimenti una tinta rossastra che dilagava anche in una parte del terreno e perfino su due contadini russi coi guantoni in preghiera. Gli acquirenti di opere del genere di solito non sono molti, ma gli spettatori in compenso sono una folla. Di certo lì davanti c'è qualche servitore ubriacone che sbadiglia, tenendo in mano i recipienti con il pranzo di trattoria per il suo signore che senza dubbio mangerà una minestra non troppo calda. Di certo lì c'è anche un soldato col cappotto, questo cavaliere dei robivecchi, che vende appuntapenne; e una venditrice ambulante del sobborgo di Ochta con una scatola piena di scarpe. Ciascuno si entusiasma a modo suo: i contadini di solito segnano a dito; i cavalieri esaminano con aria seria; i ragazzi che fanno i domestici e i garzoni artigiani ridono e si scherniscono a vicenda mostrandosi le caricature; i vecchi servitori in cappotti di frisia si limitano a guardare al solo scopo di oziare un poco in qualche posto, mentre le venditrici, giovani donne russe, accorrono d'istinto per ascoltare le ciance della gente.
In un momento del genere, per caso, si fermò davanti alla bottega il giovane artista Èartkòv che passava di lì. Il vecchio cappotto e l'abito non certo elegante mostravano in lui una persona che è devota al proprio lavoro sino all'abnegazione e non ha il tempo di prendersi cura del proprio abbigliamento, sebbene esso abbia pur sempre una misteriosa attrattiva sui giovani. Egli si fermò davanti alla bottega e dapprima rise dentro di sè di quei quadretti mostruosi. Alla fine, però, si trovò a fare un'involontaria riflessione; si mise a pensare a chi potessero essere necessarie opere come quelle. Che il popolo russo ammirasse cose come Eruslàn Lazarèviè, il Mangione e il Bevone, Fomà ed Eremà non gli pareva cosa da stupire: gli oggetti raffigurati erano oltremodo accessibili e comprensibili per il popolo; ma dov'erano i compratori di quelle pitture variopinte, sudicie, lucide di olio? A chi potevano servire quei contadini olandesi, quei paesaggi rossi e turchini che rivelavano qualche pretesa d'arte, ma in cui si manifestava tutta la profonda umiliazione dell'arte stessa? Secondo ogni apparenza non si trattava per nulla delle fatiche d'un bambino autodidatta. Altrimenti, nonostante l'insipido carattere caricaturale dell'insieme, vi si sarebbe avvertito un certo slancio. Lì, invece, si vedevano solamente dell'ottusità, un'impotente e decrepita mancanza di talento che arbitrariamente si schierava nelle file dell'arte, mentre il suo posto era fra i bassi mestieri; una mancanza di talento, tuttavia, così fedele alla propria vocazione, da trasmettere all'arte il proprio carattere di mestiere. Sempre gli stessi colori, la stessa maniera, la stessa mano addestrata e impratichita, che apparteneva più a un rozzo automa che non a un essere umano!... Egli sostò a lungo davanti a quei sudici quadri nemmeno più pensando ad essi; intanto il padrone della bottega, un uomo grigio, con il cappotto di frisia, con una barba non rasa almeno dalla domenica prima, prese a spiegargli qualcosa, a offrire e a contrattare ancor prima di sapere che cosa fosse piaciuto od occorresse a Èartkòv.
«Ecco, per questi contadini e per il piccolo paesaggio prendo un biglietto bianco. Che pittura! Ti ferisce addirittura l'occhio, li ho appena ricevuti dalla sala vendite, la vernice non s'è ancora asciugata. Oppure, ecco un inverno, prendete l'inverno! Quindici rubli! Solamente la cornice che cosa vale... Guardate che inverno!»
A questo punto il mercante diede un leggero colpetto alla tela, probabilmente per mostrare tutta la buona qualità dell'inverno.
«Ordinate di legarli insieme e di portarveli a casa? Dove abitate? Ehi, ragazzo, passami dello spago.»
«Aspetta, caro, non così in fretta,» disse come destandosi l'artista, vedendo che lo sbrigativo mercante s'era già messo sul serio a legare i quadri.
Gli era venuta una certa vergogna di non prendere nulla dopo essere rimasto così a lungo nella bottega e perciò disse:
«Aspetta, voglio vedere in giro se per caso non c'è qualcosa che mi vada», e, chinatosi, si mise a tirar su dal pavimento delle vecchie pitture consunte e impolverate, buttate in un mucchio, che evidentemente non godevano di alcuna considerazione. C'erano vecchi ritratti di famiglia, i cui discendenti probabilmente non esistevano più, figure del tutto irriconcscibili con la tela rotta, cornici ormai prive della doratura; insomma, ogni sorta di decrepiti rifiuti. Ma l'artista si accinse a quest'esame, pensando entro di sè: «Forse qualcosa si può trovare.» Più d'una volta aveva sentito raccontare che in certi casi, presso i venditori di stampacce popolari, in mezzo al bailamme erano stati ritrovati dei quadri di grandi maestri. Il padrone, vedendo dov'egli mirava, aveva abbandonato le sue premure e, assunta la sua posizione abituale e una conveniente imponenza, s'era messo di nuovo davanti alla porta a invitare i passanti e a indicare con una mano la bottega...
«Qui, bàtjuška, ecco i quadri! Entrate, entrate, sono arrivati dalla sala vendite.»
Già aveva strillato a sazietà, e per lo più infruttuosamente, aveva pure a sazietà chiacchierato con un venditore di pezze di stoffa, che stava anch'egli sulla porta della sua bottega proprio di fronte a lui, quando, alla fine, ricordandosi che in bottega aveva un compratore, voltò le spalle alla gente e si diresse verso l'interno.
«Allora, bàtjuška, avete scelto qualcosa?»
Già da qualche minuto l'artista stava immobile davanti a un ritratto in una grande cornice, che una volta doveva essere stata sontuosa ma sulla quale adesso luccicava appena qualche scaglia della doratura. Si trattava d'un vecchio con una faccia color bronzo, con forti zigomi, dall'aria scarnita; i lineamenti parevano esser stati colti in un istante di contrazione febbrile ed emanavano un vigore non settentrionale. Su di essi era stampato un infuocato mezzogiorno. L'uomo era drappeggiato in un ampio abito asiatico. Per quanto il ritratto fosse impolverato e danneggiato, Èartkòv aveva visto subito, non appena era riuscito a togliere la polvere dalla faccia, l'impronta dell'opera d'un grande artista. Il ritratto sembrava incompiuto, ma la potenza della pennellata era eccezionale. Più straordinari di tutto erano gli occhi: pareva che l'artista vi avesse messo tutta la forza del suo pennello e tutta la passione della sua arte. Essi guardavano, guardavano, si sarebbe detto, fuori del ritratto, quasi distruggendone l'armonia con la loro strana vivezza. Anche la folla ne riceveva la stessa impressione. Una donna che s'era fermata dietro Èartkòv si mise a gridare: «Mi guarda, mi guarda!» e indietreggiò. Èartkòv provò un turbamento incomprensibile, e posò il ritratto a terra.
«Allora, lo prendete?» disse il padrone.
«E... quanto?» domandò l'artista.
«Non ne voglio molto. Datemi tre èetvertàk!»
«No.»
«Be', e cosa volete darmi?»
«Una ventina di copechi,» disse l'artista accingendosi ad andarsene.
«Eh, che razza di prezzo mi tirate fuori! Ma per venti copechi non si compra nemmeno la cornice. Si vede che avete intenzione di comprare domani. Signore, signore, venite qua! E va bene, datemi venti copechi. Prendetelo, prendetelo, va bene per venti copechi! Ma è solo per cominciare, solo perchè oggi siete il primo cliente.»
Così dicendo fece un gesto con la mano, come a dire: «Se così dev'essere, pazienza per il quadro!»
In questo modo Èartkòv si trovò del tutto inaspettatamente ad acquistare il vecchio quadro e nello stesso tempo pensò: «Perchè l'ho comprato? Che cosa me ne faccio?» Ma ormai era andata. Tirò fuori di tasca venti copechi, li diede al padrone, prese il ritratto sotto braccio e se lo portò via. Per strada si ricordò che i venti copechi che aveva dato erano gli ultimi che possedeva. E a un tratto, i suoi pensieri si fecero neri: immediatamente l'assalirono un sentimento di stizza e un gran vuoto nell'anima.
«Al diavolo! È davvero schifoso vivere al mondo!» si disse con lo stato d'animo del russo a cui le cose vanno male. E quasi meccanicamente si mise a camminare a passi lesti, pieno d'indifferenza verso tutto. La luce rossa del tramonto copriva metà del cielo; le case rivolte in quella direzione erano ancora illuminate dal suo tiepido fulgore, mentre già si accentuava il freddo, azzurrastro, chiarore della luna. A terra cadevano leggere ombre semitrasparenti che venivano riflesse dalle case e dalle gambe dei passanti. L'artista cominciò a poco a poco a guardare il cielo rischiarato da una luce diafana, sottile, incerta, e quasi senza volerlo gli sfuggirono dalla bocca le parole: «Che tonalità leggera!» ma poi subito dopo: «Che rabbia, al diavolo!» E, mettendo a posto il ritratto che gli scivolava continuamente di sotto il braccio, accelerò il passo. Stanco e tutto sudato riuscì finalmente a trascinarsi sino a casa, alla quindicesima linea dell'Isola Vasilièvskij. Con fatica e il fiato mozzo s'arrampicò per le scale inondate di risciacquature e costellate di tracce di gatti e di cani. Al suo colpo alla porta non ci fu risposta: il servitore non era in casa. Allora egli si appoggiò alla finestra e si dispose ad attendere con pazienza; finalmente echeggiarono alle sue spalle i passi d'un ragazzo in camicia blu, il suo galoppino, modello, mesticatore di colori e spazzapavimenti, che subito però sporcava con i suoi stessi stivali. Il ragazzo si chiamava Nikìta e trascorreva tutto il tempo fuori del portone quando il padrone non era in casa. Nikìta si sforzò a lungo di infilare la chiave nel buco della serratura, che non si vedeva assolutamente a cagione dell'oscurità. Infine la porta fu aperta. Èartkòv entrò nella sua anticamera, intollerabilmente fredda, come sempre succede in casa degli artisti, benchè loro non se ne accorgano. Senza dare il cappotto a Nikìta, passò nel suo studio, una stanza quadrata, grande ma bassa, con le finestre gelate, ingombra d'ogni genere di cianfrusaglie artistiche: frammenti di braccia di gesso, cornici avvolte nella tela, schizzi incominciati e abbandonati, drappeggi appesi sugli studi. Era molto stanco: gettò via il cappotto, posò distrattamente fra due piccole tele il ritratto che aveva portato con sè e si buttò su un basso divanetto del quale non si poteva dire che fosse foderato di pelle, perchè la fila di chiodini di rame che una volta la fissava, da tempo se ne stava per conto suo, e anche la pelle rimasta attaccata ai chiodini si era rigonfiata per conto suo, tanto che Nikìta ci ficcava sotto calzini neri, camicie e tutta la biancheria sporca. Sedutosi e poi sdraiatosi per quanto ci si poteva sdraiare su quello stretto divano, egli chiese una candela.
«Di candele non ce n'è,» disse Nikita.
«Come non ce n'è?»
«Da ieri non ce n'è,» disse Nikita.
Allora l'artista si ricordò che effettivamente anche la sera prima già mancavano le candele, si mise l'animo in pace e tacque. Si fece svestire e indossò il suo pigiama fortemente e abbondantemente logoro.
«Ancora una cosa,» disse Nikita, «è venuto il padrone di casa.»
«Be', è venuto per i soldi. Lo so,» disse l'artista con un gesto vago della mano.
«Ma non è venuto solo,» disse Nikita.
«E con chi?»
«Non lo so con chi... credo una guardia.»
«E perchè la guardia?»
«Non lo so perchè; ha detto perchè l'alloggio non è stato pagato.»
«E che vogliono allora?»
«Io non so cosa vogliono; ha detto: ‹Se non vuole pagare se ne vada allora dall'alloggio.› Torneranno tutt'e due domani.»
«Che tornino pure,» disse con mesta indifferenza Èartkòv, e fu invaso da una profonda depressione.
Il giovane Èartkòv era un artista di talento che prometteva molto: a tratti, a lampi il suo pennello rivelava spirito d'osservazione, acutezza, e un vivo slancio verso la natura.
«Bada, mio caro,» gli aveva detto più d'una volta il professore, «hai del talento; sarebbe un peccato se tu lo rovinassi. Ma sei impaziente. Se qualcosa ti attira, se qualcosa ti piace, tutto il resto per te non conta più nulla, nemmeno vuoi guardarlo. Sta attento a non diventare un pittore alla moda. Già adesso cominci a far gridare troppo il colore. Il tuo disegno non è rigoroso e certe volte persino debole, la linea non si vede; ti metti già a correr dietro alla luce, com'è la moda, a ciò che colpisce di primo acchito; sta attento a non cadere nel genere inglese. Bada, il mondo comincia ad attirarti; certe volte ti vedo addosso un fazzoletto da elegantone, un cappello con il nastro... È una cosa che seduce, ci si lascia andare a dipingere quadretti alla moda, ritrattini per far soldi. Ma, in questa maniera il talento, anzichè svilupparsi, viene meno. Pazienta. Rifletti su ogni lavoro, lascia stare l'eleganza, e che gli altri facciano pure quattrini. Ciò che hai di tuo non lo perderai mai.»
Il professore aveva solo in parte ragione. Effettivamente, certe volte al nostro artista veniva voglia di far baldoria, di sfoggiare eleganza, insomma di mostrare in qualche modo la sua giovinezza. Ma, nonostante questo, sapeva anche dominarsi. A volte, prendendo in mano il pennello riusciva a dimenticare tutto e si staccava dalla tela come da un meraviglioso sogno interrotto a metà. Il suo gusto si sviluppava in modo sensibile. Non comprendeva ancora tutta la profondità di Raffaello, ma era già attratto dal pennello rapido e arioso di Guido Reni, si soffermava sui ritratti di Tiziano, s'entusiasmava ai Fiamminghi. Ancora l'aspetto annerito che avvolgeva i vecchi quadri gli faceva da schermo, ma già intravedeva in essi qualcosa, sebbene intimamente non fosse d'accordo con il professore che i maestri antichi fossero ormai in modo irraggiungibile lontani da noi; gli sembrava persino che il diciannovesimo secolo in qualcosa li avesse notevolmente superati, che l'imitazione della natura si fosse fatta ora, in qualche misura, più evidente, più viva, più vicina; insomma, egli a questo proposito pensava come la pensano i giovani che hanno già raggiunto qualcosa e lo avvertono nella loro coscienza orgogliosa. Talvolta si sentiva preso dal dispetto quando vedeva che un pittore di passaggio, francese o tedesco, in certi casi neanche pittore per vocazione, ma solo dotato di una maniera divenuta abitudine, suscitava con la destrezza del suo pennello e la vivacità dei colori un gran chiasso, e in un battibaleno si metteva da parte un grosso capitale. Questo non gli veniva in mente quando, tutto preso dal suo lavoro, si dimenticava di bere, di mangiare, e del mondo intero, ma quando alla fine non era più possibile ignorare le necessità, quando non c'era di che comperare pennelli e colori, quando l'ossessionante padrone di casa veniva anche dieci volte al giorno a chiedere l'affitto dell'alloggio, nella sua immaginazione affamata si disegnava allora con invidia la figura del pittore che si arricchiva; gli balenava persino un pensiero che spesso balena nella testa dei russi: abbandonare decisamente tutto e buttarsi allo sbaraglio. Anche adesso era in uno stato d'animo del genere.
«Sì! pazienta! pazienta!» mormorò con dispetto. «C'è pure un limite anche alla pazienza in fin dei conti! Pazienta! E con quali soldi pranzerò domani? Nessuno mi fa un prestito. E se portassi a vendere tutti i miei quadri e i miei disegni, per tutti insieme mi darebbero venti copeche. Mi sono serviti, certo, questo lo capisco: nessuno è stato fatto per caso, ognuno di essi mi ha insegnato qualcosa. Ma che vantaggio ne ho? Studi, tentativi, e saranno sempre studi, tentativi, e non ci sarà una fine. E chi li comprerà, dato che nessuno conosce il mio nome? A chi interessano i miei disegni che si ispirano agli antichi, oppure il mio incompiuto Amore di Psiche, oppure la prospettiva della mia stanza, o il ritratto del mio Nikìta, benchè sia davvero migliore dei ritratti d'un qualsiasi pittore alla moda? E dunque? Perchè mi tormento e seguito a fare esercizi come uno scolaretto quando potrei brillare non meno degli altri ed essere pieno di soldi come loro?»
Detto questo, d'improvviso l'artista si mise a tremare e impallidì: protendendosi dalla tela posata a terra, lo fissava una faccia febbrilmente contratta. Due occhi terribili erano puntati proprio su di lui, come pronti a divorarlo; sulle labbra era dipinto l'ordine minaccioso di tacere. Spaventato, fu per gridare e chiamare Nikìta, che in anticamera aveva già cominciato a russare bellicosamente; ma poi, di colpo, si fermò e scoppiò a ridere. La sensazione di terrore si dileguò istantaneamente. Si trattava del ritratto che aveva acquistato e di cui s'era del tutto dimenticato. La luce della luna, entrata nella stanza, era caduta anche su di esso e gli aveva conferito una strana vivezza. Èartkòv si accinse a esaminarlo e a pulirlo. Inzuppò nell'acqua una spugna, la passò varie volte sulla tela, ne tolse quasi tutta la polvere e il sudiciume che vi si erano accumulati e depositati sopra, lo appese davanti a sè alla parete e non potè fare a meno di meravigliarsi ancora di quell'opera straordinaria: il volto appariva quasi vivo, e gli occhi lo guardavano in modo tale che, alla fine, egli trasalì e, indietreggiando, mormorò con voce stupita:
«Mi guarda, mi guarda con occhi umani!»
D'improvviso gli venne in mente una storia udita molto tempo prima dal suo professore a proposito d'un ritratto del celebre Leonardo da Vinci, ritratto a cui il grande maestro aveva lavorato per vari anni e continuava a considerare non finito, mentre, secondo le parole del Vasari, era già da tutti riconosciuto come la migliore e la più completa opera d'arte. Più belli di tutto il resto erano gli occhi, che suscitarono la meraviglia dei contemporanei: persino le più sottili vene, quelle appena visibili, non erano state trascurate, ma rese sulla tela. Lì, però, in quel ritratto che adesso stava davanti a lui, c'era qualcosa di strano. Non era più arte: era qualcosa che persino distruggeva l'armonia del ritratto. Erano occhi vivi, occhi umani! Sembrava che fossero stati presi da un uomo vivente e messi lì. Non c'era nemmeno più l'alto godimento che invade l'anima quando si guarda l'opera d'un artista, per quanto orrido sia il soggetto scelto; no, lì c'era qualcosa come una sensazione morbosa, opprimente.
«Che cos'è questo?» si domandò involontariamente l'artista. «Eppure è natura, natura vivente; perchè dunque questa strana sensazione sgradevole? O forse un'imitazione troppo vera, troppo letterale della natura è già una colpa e sembra un grido stridente, disarmonico? O forse, se tratti un soggetto freddamente, senza sentimento, senza partecipazione, è naturale che esso si presenti nella sua realtà più orribile, non illuminata dalla luce dell'irraggiungibile pensiero che è nascosto in tutte le cose; si presenti come la realtà che scoprirebbe chi, volendo carpire il segreto di una bellissima figura umana, si armasse d'un coltello, la sventrasse, e scoprisse un essere ripugnante. Perchè anche la natura più semplice, più infima, appare in un artista in una certa luce e non genera alcuna impressione di disgusto; al contrario, sembra di provar di fronte ad essa godimento, e dopo tutto scorre e si muove intorno a noi in modo più armonico e regolare? E perchè, invece, la stessa natura in un altro artista sembra bassa, sudicia, sebbene anch'egli sia stato altrettanto fedele alla natura? Perchè non c'è, non c'è quel qualcosa che illumina. È come per un panorama: per quanto stupendo, gli manca sempre qualcosa se in cielo non c'è il sole.»
Si avvicinò nuovamente al ritratto per esaminare quegli occhi sorprendenti e notò allora con orrore che essi sembravano seguitare a guardare proprio lui. Non si trattava più d'una copia della natura; era la strana vivezza che potrebbe illuminare la faccia d'un cadavere uscito dalla tomba. Fosse la luce della luna, che reca con sè il delirio del sogno e a tutto conferisce altre sembianze, opposte a quelle positive del giorno, o fosse un'altra causa, fatto è che a un tratto, senza sapere perchè, egli aveva cominciato a provar terrore di restare solo nella stanza. Si allontanò in silenzio dal ritratto, si voltò dall'altra parte e si sforzò di non guardarlo, ma intanto, senza volerlo, lo sbirciava di traverso. Finalmente ebbe paura persino di camminare per la stanza; gli sembrava che subito qualcun altro si mettesse a camminargli dietro, e quindi di continuo, timorosamente, si voltava a guardare. Non era mai stato un pauroso, ma la sua immaginazione e i suoi nervi erano delicati, e quella sera non sapeva spiegarsi nemmeno lui il suo timore. Si sedette in un angolo, ma anche qui gli parve che da dietro le spalle qualcuno gli puntasse gli occhi addosso. Neanche il russare di Nikìta, che si udiva dall'anticamera, riusciva a scacciare il suo terrore. Finalmente si alzò, impaurito, senza alzare gli occhi, si ritirò dietro il paravento e si mise a letto. Attraverso le fessure del paravento vedeva la sua stanza illuminata dalla luna e vedeva anche il ritratto appeso proprio di fronte, sul muro. Quegli occhi si fissarono su di lui in modo ancor più terribile, più carico di significato, e parve che volessero guardare solo lui. Pieno d'una sensazione d'angoscia, si decise ad alzarsi dal letto, afferrò il lenzuolo e, accostatosi al ritratto, ve lo avvolse. Fatto questo, si mise a letto più tranquillo; cominciò a pensare alla povertà e al misero destino degli artisti, allo spinoso cammino che lo attendeva nel mondo; e intanto i suoi occhi involontariamente guardavano attraverso una fessura del paravento il ritratto avvolto dal lenzuolo. Lo scintillio della luna rafforzava il biancore del lenzuolo, ed egli ebbe l'impressione che quegli occhi terribili avessero cominciato a brillare persino attraverso il lenzuolo. Con terrore guardò più fissamente, come se volesse sincerarsi che si trattava d'una assurdità. Ma ecco che davvero... ecco che vede, vede chiaramente che il lenzuolo non c'è più... che il ritratto è scoperto e, oltrepassando tutto ciò che c'è intorno, guarda dritto verso di lui, guarda proprio dentro di lui... Gli si gela il cuore. E vede: il vecchio si è mosso e a un tratto si è appoggiato alla cornice con entrambe le mani. Infine si solleva sulle braccia, allunga fuori le gambe, si stacca dalla cornice... Attraverso la fessura del paravento non si vede ormai che la cornice vuota. Nella camera rintrona un rumore di passi, che si fa sempre più vicino, più vicino al paravento. Il cuore del povero artista cominciò a battere furiosamente. Con il respiro che gli veniva meno per il terrore aspettava che da un momento all'altro il vecchio si affacciasse a guardarlo da dietro il paravento. Ed ecco che avvenne proprio questo, egli s'affacciò da dietro il paravento a guardarlo, sempre con quel suo viso bronzeo e muovendo i suoi grandi occhi. Èartkòv fece uno sforzo per gridare e sentì di non avere voce; si sforzò di muoversi, di fare un movimento qualsiasi, ma le sue membra restarono ferme. Con la bocca spalancata e il respiro mozzo guardava quel terribile fantasma, alto, ricoperto da una specie d'ampia veste asiatica, aspettando di vedere che cosa avrebbe fatto. Il vecchio si sedette quasi ai suoi piedi e tirò fuori qualcosa di sotto le pieghe del suo ampio abito. Era un sacchetto. Il vecchio lo slegò e, afferratolo per le due estremità, lo scosse: con un rumore sordo caddero a terra dei rotoli piuttosto pesanti simili a lunghe colonnine; ognuno era avvolto in una carta azzurra e su ognuno stava scritto: 1000 ducati. Con le sue lunghe mani ossute il vecchio cominciò a svolgere i rotoli. L'oro scintillò. Per quanto forti fossero la sensazione d'angoscia e il folle terrore dell'artista, egli si concentrò tutto sull'oro, guardando immobile come esso usciva dalle mani ossute, e scintillava, e tintinnava con un suono squillante, e poi di nuovo s'avvolgeva in rotolo. A questo punto notò un involto che era rotolato più lontano dagli altri, proprio accanto a uno dei piedi del letto, vicino al capezzale. L'afferrò quasi convulsamente e, pieno di terrore, guardò se il vecchio non se ne fosse accorto. Ma il vecchio pareva molto occupato. Radunò tutti i suoi involti, li rimise nel sacco e, senza nemmeno dare un'occhiata a Èartkòv, scomparve dietro il paravento. Il cuore di Èartkòv battè forte quand'egli sentì echeggiare nella stanza il fruscio dei passi che si allontanavano. Strinse con più forza l'involto nella mano, tremando in tutto il corpo, e, a un tratto, sentì che i passi si avvicinavano di nuovo al paravento: evidentemente il vecchio s'era accorto che mancava un rotolo. Ed eccolo: di nuovo lo guardava da dietro il paravento. Pieno di disperazione, Èartkòv strinse con tutta l'energia che aveva il rotolo nella mano, si sforzò di muoversi, gettò un grido e si svegliò. Era tutto coperto di un freddo sudore; sentiva nel petto un'oppressione come se stesse per emettere l'ultimo respiro.
«Possibile che sia stato un sogno?» disse, afferrandosi la testa con tutt'e due le mani. La tremenda vivezza della visione non somigliava a un sogno... Già da sveglio aveva visto il vecchio ritirarsi dentro la cornice, e gli era persino apparsa una falda dell'ampia veste; la sua mano serbava, come un istante prima, il senso preciso di qualcosa di pesante. La luce della luna rischiarava la stanza facendo emergere dagli angoli bui là una tela, qui una mano di gesso, o un drappeggio abbandonato su una sedia, o i pantaloni e gli stivali sporchi. Soltanto a questo punto egli si accorse che non si trovava a letto, ma era in piedi, proprio davanti al ritratto. Come fosse arrivato sin lì, questo non riusciva assolutamente a capirlo. Ancor più lo stupiva il fatto che il ritratto fosse scoperto e su di esso non vi fosse più il lenzuolo. Èartkòv fissò il quadro con immobile terrore e vide quei viventi occhi umani conficcarsi dritti dentro i suoi. Un freddo sudore gli coprì il viso; avrebbe voluto allontanarsi, ma sentiva che le sue gambe erano come inchiodate al pavimento. E allora vide che non era più un sogno, che i lineamenti del vecchio si muovevano e le sue labbra cominciavano a protendersi verso di lui come se volessero succhiarlo... Con un urlo di disperazione fece un balzo indietro e si destò.
«Possibile che anche questo sia stato un sogno?» Con il cuore che gli batteva tanto da spezzarsi tastò con le mani intorno a sè. Sì, era a letto ed esattamente nella stessa posizione in cui s'era addormentato. Davanti a lui, il paravento: la luce della luna riempiva la stanza. Attraverso, la fessura del paravento si vedeva il ritratto ben coperto dal lenzuolo, come lui stesso l'aveva avvolto. Dunque era stato un sogno! Ma la sua mano contratta provava ancora la sensazione di stringere qualcosa. Il battito del cuore era violento, pauroso; il peso sul petto insopportabile. Puntò gli occhi sulla fessura e guardò attentamente il lenzuolo. Ed ecco: vide chiaramente che il lenzuolo cominciava ad aprirsi, come se sotto di esso delle braccia si agitassero e si sforzassero di allontanarlo.
«Signore Iddio, ma cosa succede?» gridò egli facendosi disperatamente il segno della croce. E si svegliò. E dunque anche questo era stato un sogno! Saltò giù dal letto, impazzito, fuori di sè.. senza saper spiegare cosa gli stesse accadendo, se fosse l'oppressione d'un incubo o di un fantasma della casa, il delirio della febbre o uno spettro vivo. Sforzandosi di calmare in qualche modo l'agitazione dello spirito e il sangue in tumulto che pulsava con ritmo frenetico in tutte le sue vene, si avvicinò alla finestra e aprì l'imposta.
Il vento freddo e profumato lo rianimò. La luce della luna si posava ancora sui tetti e sui muri bianchi delle case, benchè grandi nuvole avessero cominciato a passare più frequenti nel cielo. Tutto era silenzioso: di lontano giungeva all'udito il tintinnio della carrozza d'un vetturino che dormiva in qualche invisibile vicolo, cullato dalla sua pigra rozza, in attesa d'un cliente ritardatario. Sporgendo la testa dalla finestra egli guardò a lungo. Nel cielo si avvertivano già i segni dell'alba vicina; sentì infine che la sonnolenza l'assaliva, chiuse l'imposta, si allontanò dalla finestra, si buttò sul letto e ben presto sprofondò come morto nel sonno.
Si destò molto tardi e sentì una sensazione spiacevole come se avesse respirato a lungo aria malsana, e ne fosse quasi asfissiato: la testa gli doleva. Nella camera c'era una luce fioca: una sgradevole umidità era diffusa nell'aria e filtrava attraverso le fessure delle finestre, le pareti erano ricoperte di quadri e di tele preparate. Rannuvolato, scontento come un gallo bagnato, si sedette sul suo divano rotto non sapendo nemmeno lui cosa mettersi a fare, e finalmente rammentò tutto il suo sogno. Man mano che lo ricordava, esso gli si presentava all'immaginazione come qualcosa di penosamente vivo, così che egli cominciò persino a dubitare se si fosse trattato d'un sogno o d'un semplice delirio, o se non fosse stato qualcosa d'altro, se non fosse stata un'apparizione. Tolto il lenzuolo, esaminò alla luce del giorno il terribile ritratto. Gli occhi, sì, colpivano per la loro insolita vivezza, ma egli non vi trovò nulla di particolarmente pauroso; soltanto, in un certo modo, gli lasciavano nell'anima una sorta d'impressione inspiegabile, sgradevole. Però, malgrado tutto, non riusciva ancora a convincersi che si fosse trattato solo d'un sogno. Gli pareva che in mezzo al sogno ci fosse qualcos'altro, una specie di spaventoso frammento di realtà. Gli pareva che persino nello sguardo e nell'espressione del vecchio qualcosa, non so come, rivelasse che egli era stato da lui quella notte; la sua mano serbava l'impressione di qualcosa di pesante, che qualcuno gli avesse strappato non più di un minuto prima. Gli pareva che se solo avesse tenuto un po' più forte il rotolo, esso gli sarebbe rimasto in mano anche dopo il risveglio.
«Dio mio, avere anche soltanto una parte di quei soldi!» disse dopo un profondo sospiro, e nella sua immaginazione cominciarono a riversarsi dal sacco tutti i rotoli su cui aveva visto la scritta seducente: 1000 ducati. I rotoli si aprivano, l'oro scintillava, poi si riavvolgevano, e lui sedeva, gli occhi immobili e insensati fissi nel vuoto, incapace di distaccarsi da quella vista, come un bambino che sta seduto di fronte a un dolce e, inghiottendo la saliva, vede che altri se lo mangiano. Finalmente alla porta echeggiò un colpo che lo costrinse a tornare sgradevolmente in sè. Entrò il padrone di casa con il commissario del quartiere, la cui comparsa, com'è noto, è per la piccola gente ancora più spiacevole di quanto sia per i ricchi la faccia d'un questuante. Il padrone dell'appartamentino in cui abitava Èartkòv era un essere del genere di tutti i proprietari di case situate nella quindicesima linea dell'Isola Vasilièvskij, o nel Quartiere Peterburgskij o nella parte più remota del Quartiere Kolòmna, un essere come in Russia ce ne sono in quantità e il cui carattere è tanto difficile da definire quanto il colore d'una giacca troppo usata. Nella sua giovinezza era stato un urlante capitano, poi aveva svolto anche funzioni civili, era un maestro nel fustigare, un uomo accorto, e un elegantone, e in definitiva uno stupido; ma in vecchiaia tutte queste particolarità si erano fuse in una opaca indeterminatezza. Era vedovo, ormai in pensione, aveva perso ogni pretesa d'eleganza, non si vantava, non si dava arie, gli piaceva semplicemente bere il tè chiacchierando d'ogni sciocchezza; passeggiava per la stanza, rimetteva a posto il mozzicone della candela di sego; accuratamente, allo scadere d'ogni mese, si faceva vedere dai suoi inquilini per riscuotere l'affitto, usciva in strada con la chiave in mano per guardare il tetto della sua casa; aveva cacciato varie volte il portiere dal suo covo, dove si nascondeva per dormire: insomma, era un tipo di pensionato a cui, dopo tutta una vita sregolata e gli scossoni delle carrozze di posta, restavano solamente abitudini meschine.
«Degnatevi voi stesso di vedere, Varùch Kuzmìè,» disse il padrone rivolgendosi al commissario del quartiere e allargando le braccia, «non mi paga l'alloggio, non paga.»
«Che posso farci, se non ho soldi? Aspettate e pagherò.»
«Io, carissimo, non posso aspettare,» disse il padrone furioso, facendo un gesto con la chiave che teneva in mano, «da me ci vive il colonnello Potogònkin, ci vive già da sette anni; Anna Petròvna Buchmistèrova affitta pure la rimessa e la stalla, due stallaggi, ha tre persone di servizio: ecco che inquilini ho io. Io, per dirvela sinceramente, non ho una stanza dove non si paghi l'affitto. Degnatevi di pagare immediatamente oppure d'andarvene a spasso.»
«Già, dato che così è stabilito, vedete di pagare,» disse il commissario del quartiere, scuotendo leggermente la testa e mettendo un dito su un bottone della sua uniforme.
«E con cosa pago? È una parola! Attualmente non ho neppure un centesimo.»
«In tal caso, potreste soddisfare Ivàn Petroviè con i prodotti della vostra professione,» disse il commissario, «forse lui accetta di prendere dei quadri.»
«No, bàtjuška, per i quadri tante grazie. Fossero almeno dei quadri con un contenuto virtuoso, da poter appendere alle pareti, magari un generale con una decorazione o un ritratto del principe Kutuzòv, ma lui si mette a disegnare un contadino, un contadino in camiciotto, il servitore che gli mescola i colori! Doveva disegnare proprio il ritratto di quel maiale! Ma io gli torco il collo, perchè m'ha strappato tutti i chiodi dai chiavistelli, farabutto! Ecco, guardate che soggetti: disegna la stanza! Almeno avesse scelto la camera bene in ordine, rassettata, ma ecco come l'ha disegnata: con tutte le cianfrusaglie e la sporcizia che c'è intorno. Ecco, guardate come mi ha insudiciato tutta la stanza; degnatevi voi stesso di constatare. Ma da me vivono inquilini già da sette anni, colonnelli, la Buchmistèrova Anna Petròvna... No, ve lo dico io, non c'è inquilino peggiore d'un pittore: vive come un porco, davvero come un pagano.»
Il povero pittore stava ad ascoltare tutto questo con rassegnazione. Nel frattempo il commissario del quartiere si era messo a esaminare i quadri e i disegni e mostrava d'avere un'anima più ricettiva di quella del padrone, persino non insensibile all'arte.
«Eh,» disse, puntando il dito su una tela dov'era raffigurata una donna nuda, «un soggetto, direi... giocoso. E perchè qui è così scuro, sotto il naso? Si rimpinzava di tabacco forse?»
«È un'ombra,» rispose severamente Èartkòv senza rivolgergli lo sguardo.
«Be', si poteva mettere in qualche altro posto, perchè sotto il naso è un posto troppo in vista,» disse il commissario, «e questo ritratto di chi è?» proseguì, avvicinandosi al ritratto del vecchio, «questo, poi, è proprio spaventoso. Chissà se è stato davvero così terribile! Accidenti, sembra proprio che guardi. Eh, che razza di Capitan Tempesta! A chi l'avete fatto?»
«Ah, questo, a un...» disse Èartkòv, ma non terminò la frase: si udì uno scricchiolio.
Evidentemente il commissario a causa delle sue rudi mani poliziesche aveva afferrato con troppa forza la cornice del ritratto; le assicelle laterali si ruppero, una di esse cadde sul pavimento e, insieme ad essa, cadde con un pesante tintinnio un rotolo di carta blu. A Èartkòv balzò subito agli occhi la scritta: 1000 ducati. Come un pazzo si precipitò a raccattare il rotolo, l'afferrò e lo strinse febbrilmente nella mano che si abbassò per il peso.
«A quanto pare, sono soldi che hanno fatto quel tintinnio,» disse il commissario del quartiere che aveva udito il rumore di qualcosa caduto sul pavimento, ma non aveva fatto in tempo a vedere di che si trattasse per la rapidità con cui Èartkòv s'era precipitato a raccattare.
«E a voi che importa sapere cosa sono?»
«Importa per il fatto che adesso voi dovete pagare il padrone per l'alloggio; che avete soldi, ma non volete pagare, ecco com'è.»
«D'accordo, pagherò oggi.»
«Bene. E perchè non avete voluto pagarlo prima, causando fastidio al padrone e mettendo in allarme anche la polizia?»
«Perchè non volevo toccare questi soldi; questa sera gli pagherò tutto e me ne andrò dall'alloggio domani stesso, perchè non voglio restare presso un simile padrone.»
«Orsù, Ivàn Ivànoviè, lui vi pagherà ,» disse il commissario rivolgendosi al padrone. «Ma se stasera stessa non doveste essere soddisfatto come si deve, allora, signor pittore, ci scuserete...»
Detto questo, si mise il suo tricorno e uscì nel vestibolo; dietro di lui uscì il padrone con la testa bassa e, almeno sembrava, con l'aria alquanto meditabonda.
«Grazie a Dio, che il diavolo se li porti!» disse Èartkòv non appena udì chiudersi la porta dell'anticamera.
Diede un'occhiata in anticamera, spedì via Nikìta per qualche faccenda in modo da essere completamente solo, chiuse alle sue spalle la porta, e, ritornato nella sua stanza, con il cuore in tumulto si accinse a svolgere il rotolo.
Era pieno di ducati, tutti nuovi dal primo all'ultimo, brillanti come il fuoco. Quasi impazzito, egli si sedette davanti al mucchietto d'oro, chiedendosi ancora se tutto non fosse un sogno. Nell'involto ce n'erano esattamente mille; e avevano lo stesso aspetto di come li aveva sognati. Per alcuni minuti li contò, li esaminò, e non riusciva ancora a tornare in sè. Nella sua immaginazione riemersero a un tratto tutte le storie di tesori, di scrigni con cassettini segreti, lasciati dagli avi per i loro nipoti in miseria, nella ferma convinzione della loro futura situazione fallimentare. Pensava così: forse anche adesso qualche nonnino aveva avuto l'idea di lasciare a suo nipote un regalo nascondendolo nella cornice d'un ritratto di famiglia. Pieno di romantico delirio, si mise persino a pensare se lì non ci fosse qualche misterioso nesso con il suo destino, se l'esistenza del ritratto non si legasse con la sua esistenza, e lo stesso acquisto di esso non fosse già una sorta di predeterminazione. Si accinse a esaminare con curiosità la cornice del ritratto. In un fianco di essa era stato intagliato un incavo, nascosto da un'assicella in modo così abile e invisibile che se la mano robusta del commissario del quartiere non avesse provocato la rottura, i ducati se ne sarebbero rimasti tranquilli in quel posto fino alla fine dei secoli. Esaminando il ritratto egli si stupì di nuovo per la perfezione dell'opera, per la straordinaria fattura degli occhi: essi non gli sembravano ormai più terribili, eppure ogni volta che li guardava gli restava nell'anima, senza che lo volesse, una sensazione spiacevole.
«Bene,» disse a se stesso, «chiunque tu fossi, nonnino, io ti metterò sotto vetro e ti farò una cornice d'oro.»
A questo punto la sua mano si appoggiò sul mucchio d'oro che gli stava dinanzi e a questo contatto il cuore gli battè con forza.
«Che cosa farne?» pensò, fissandovi sopra gli occhi. «Adesso sono tranquillo almeno per tre anni; posso chiudermi in una stanza, lavorare. Ce n'è per i colori, per mangiare, per il tè, per il mantenimento, per l'alloggio; nessuno ora verrà più a disturbarmi e a seccarmi: mi comprerò un ottimo manichino, ordinerò un busto di gesso, modellerò dei piedi, mi metterò qui una Venere, mi comprerò le riproduzioni dei principali quadri. E se lavorerò tre anni per me stesso, senz'aver fretta, non per vendere, supererò tutti e potrò diventare un grande artista.»
Così parlava secondo quanto gli suggeriva la ragione; ma dentro di lui echeggiava un'altra voce più forte e più chiara. E quando diede ancora una volta un'occhiata all'oro, ecco che in lui cominciarono a far sentire la loro voce i suoi ventidue anni e la sua giovinezza. Adesso era in suo potere tutto ciò a cui sinora aveva guardato con occhi pieni d'invidia, che aveva ammirato da lontano, inghiottendo la saliva. Oh, come gli battè il cuore non appena pensò a questo! Indossare un frac alla moda, mangiare a volontà dopo lunghi digiuni, prendere in affitto un appartamento di lusso, andare subito a teatro, in pasticceria... e tutto il resto; e così, afferrato il denaro, eccolo già in strada. Prima di tutto andò da un sarto, si rivestì da capo a piedi, e, come un bambino, non si stancava di ammirarsi; comprò dei profumi, delle pomate; senza contrattare prese in affitto il primo sontuoso appartamento che gli capitò sulla Prospettiva Nevskij, con specchi e vetri intatti; in un negozio comprò con disinvoltura un costoso occhialino, in un altro, sempre con gran disinvoltura, un mucchio di cravatte d'ogni sorta, più di quante gliene occorressero; da un barbiere si fece fare i riccioli, per due volte fece il giro della città in carrozza senza alcun motivo, si rimpinzò di dolciumi in una pasticceria e poi andò in un ristorante francese del quale fino allora aveva sentito parlare in modo non meno vago che dell'impero cinese. Qui pranzò dandosi delle arie, gettando sguardi sdegnosi verso gli altri e aggiustandosi di continuo i riccioli davanti allo specchio. Bevve una bottiglia di champagne; anche di questo, fino allora, ne sapeva solo per sentito dire. Il vino gli ronzava un po' nella testa e allora uscì in strada, vivace, arzillo; secondo il detto russo: un vero diavolaccio.
Prese a camminare sul marciapiede come un galletto, puntando su tutti il suo occhialino. Sul ponte scorse il suo professore e sgattaiolò baldanzosamente davanti a lui come se non l'avesse notato affatto, tanto che il professore, allibito, rimase per un bel pezzo a guardarlo con la faccia a punto interrogativo. Tutti gli oggetti e quanto possedeva: cavalletto, tela, quadri furono trasportati quella sera stessa nell'appartamento sontuoso. Dispose quanto aveva di meglio nei punti in vista, gettò in un angolo le cose peggiori e si mise a passeggiare per le stupende stanze sbirciandosi continuamente nello specchio. Nella sua anima nacque il desiderio invincibile di afferrare subito la gloria per la coda e di mostrarsi al mondo. Già gli pareva di sentir gridare:
«Èartkòv! Èartkòv! Avete visto il quadro di Èartkòv? Che pennello veloce ha quel Èartkòv! Che genio quel Èartkòv!»
Camminava per la sua stanza in uno stato d'esaltazione, si sentiva trasportare chissà dove. Subito, il giorno seguente, presa una decina di ducati, si diresse dal direttore di un giornale di larga diffusione chiedendo una disinteressata collaborazione; fu accolto cordialmente dal giornalista che subito lo chiamò «riveritissimo», gli strinse tutt'e due le mani, gli domandò dettagliatamente nome, patronimico, indirizzo; e il giorno dopo apparve sul giornale, subito dopo la notizia di certe candele di sego di nuova invenzione, un articolo dal seguente titolo:

LE STRAORDINARIE DOTI DI ÈARTLÒV

Ci affrettiamo a far cosa gradita agli abitanti istruiti della capitale informandoli d'una scoperta che, possiamo dire, è meravigliosa sotto tutti i riguardi. Tutti sanno che da noi esistono meravigliose fisionomie e meravigliosi volti, ma finora non c'era il mezzo di riportarli sulla tela al fine di trasmetterli alla posterità; adesso questa lacuna è stata colmata: s'è trovato un artista che possiede quanto necessario. Adesso una bella donna può essere sicura d'essere riprodotta in tutta la grazia della propria venustà, aerea, leggera, incantevole, leggiadra, simile alle farfalle che volteggiano fra i fiori di primavera. Un riverito padre di famiglia si vedrà circondato dai suoi cari. Un mercante, un guerriero, un cittadino, un uomo di stato: ciascuno con nuovo zelo continuerà ad esser vivo nella sua opera. Affrettatevi, affrettatevi, accorrete dal passeggio, sia che siate in strada per andare da un amico, o da una cugina, o in un negozio alla moda, affrettatevi, dovunque vi troviate. Lo stupendo studio dell'artista (Prospettiva Nevskij, numero tale) è tutto tappezzato di ritratti usciti dal suo pennello degno dei Van Dyck e dei Tiziano. Non si sa di che cosa più stupirsi, se della fedeltà e della somiglianza agli originali o della straordinaria freschezza del pennello. Lode a te, artista. Tu hai estratto il biglietto vincente della lotteria. Vivat, Andrèj Petròvic (il giornalista, come si vede, amava la familiarità)! Copri di gloria te stesso e noi! Noi sapremo apprezzarti. L'affluenza generale e, insieme con questo, il denaro - benché certuni della nostra confraternita giornalistica parlino male di esso - saranno la tua ricompensa!
L'artista lesse quest'articolo con segreto piacere; la sua faccia era raggiante. Dunque, di lui si parlava sulla stampa: questa era una novità e lesse e rilesse parecchie volte quelle righe. Il paragone con Van Dick e con Tiziano lo lusingò. La frase «Vivat, Andrèj Petròviè!» gli piacque anch'essa moltissimo; sulla stampa lo chiamavano per nome e patronimico: un onore che finora gli era completamente sconosciuto.
Cominciò a camminare a passi rapidi per la stanza, scompigliandosi i capelli, sedendosi ora su una seggiola, poi balzando su e sedendosi sul divano, immaginando continuamente come avrebbe ricevuto i visitatori e le visitatrici; si avvicinava a una tela e vi tracciava un'ardita pennellata, cercando di conferire un movimento aggraziato alla mano.
E giorno dopo suonò il campanello della sua porta; egli corse ad aprire; entrò una signora accompagnata da un lacchè con un cappotto di pelliccia e, insieme con la signora, una giovane fanciulla diciottenne, sua figlia.
«Voi siete monsieur Èartkòv?» disse la signora.
L'artista s'inchinò.
«Di voi scrivono moltissimo; i vostri ritratti, si dice, sono la perfezione stessa.» Detto questo, la signora portò l'occhialino al naso e corse a esaminare rapidamente le pareti sulle quali però non c'era nulla. «Ma dove sono i vostri ritratti?»
«Li hanno portati via,» disse l'artista confondendosi un poco, «ho traslocato appena adesso in quest'appartamento, così sono ancora in viaggio... non sono ancora arrivati.»
«Eravate in Italia?» disse la signora puntando l'occhialino su di lui dato che non aveva altro da esaminare.
«No, non ci sono stato, ma volevo andarci... insomma, per il momento ho rimandato... Ecco una poltrona, sarete stanca...»
«Vi ringrazio, sono rimasta a lungo seduta in carrozza. Ah, ecco finalmente vedo un vostro lavoro!» disse la signora correndo verso la parete opposta e puntando l'occhialino sui suoi studi, programmi, prospettive e ritratti che stavano sul pavimento: «C'est charmant, Lise, Lise, venez ici: un interno nel gusto di Téniers, vedi: disordine, disordine, un tavolo, su di esso un busto, una mano, una tavolozza, ecco la polvere, vedi com'è disegnata la polvere! C'est charmant. Ed ecco su quell'altra tela una donna che si lava la faccia, quelle jolie figure! Ah, un contadinello! Lise, Lise, un contadinello in camicia russa! Guarda: un contadinello! Durique voi non fate soltanto ritratti?»
«Oh, queste sono sciocchezze... Così, per gioco... Sono studi...»
«Dite, che opinione avete dei ritrattisti d'oggi? Non è vero che oggi non ne esistono più come Tiziano? Non c'è quella forza nel colore, non c'è nulla... che peccato che io non sappia esprimervi in russo quel che penso.» La signora era un appassionata di pittura e aveva fatto il giro di tutte le gallerie dell'Italia con il suo occhialino. «E tuttavia monsieur Nol... ah, come dipinge! Che pennello straordinario! Io trovo che c'è' persino più o espressione nei suoi visi che in quelli di Tiziano. Voi non conoscete monsieur Nol?»
«Chi è questo Nol?» domandò l'artista.
«Monsieur Nol. Ah, che ingegno! Ha dipinto il suo ritratto quando aveva dodici anni. Bisogna che voi veniate assolutamente a casa nostra. Lise. gli mostrerai il tuo album. Sapete, siamo venute perchè voi cominciate immediatamente il suo ritratto.»
«Certo, posso cominciare subito.»
E, in un istante, egli avvicinò il cavalletto con una tela già pronta, prese in mano la tavolozza, fissò lo sguardo nel volto pallido della figlia. Se fosse stato un conoscitore della natura umana, egli vi avrebbe letto a prima vista il nascere d'una passione infantile per i balli, la noia per la lunghezza del tempo prima di pranzo e dopo il pranzo, il desiderio di correre alla passeggiata con un abito nuovo, le tracce pesanti di un'applicazione alle varie arti che la lasciava del tutto fredda, ma era suggerita dalla madre per elevare l'anima e i sentimenti. Invece, in quel tenero visetto l'artista vide soltanto la trasparenza di porcellana dell'incarnato, un lieve affascinante languore, il sottile collo luminoso e l'aristocratica sottigliezza della vita. E già in anticipo si preparava a trionfare, a mostrare come fosse delicato e brillante il suo pennello, che finora aveva avuto a che fare solo con i lineamenti duri di rozzi modelli, con i severi antichi e con le copie dei maestri classici. Già s'immaginava nel pensiero come gli sarebbe riuscito quel volto delicato.
«Sapete,» disse la signora con un'espressione del volto quasi commovente, «vorrei... adesso lei ha quest'abito; ma lo confesso, vorrei che adesso non indossasse questo che conosciamo troppo bene; vorrei che fosse vestita in modo semplice e sedesse all'ombra degli alberi, sullo sfondo dei campi, che ci fosse un gregge in lontananza, oppure un bosco... che non avesse l'aria di stare andando da qualche parte come a un ballo o a una serata brillante. I nostri balli, lo riconosco, uccidono in tal modo l'anima, in tal modo mortificano ogni residuo di sentimento... di semplicità, ci vorrebbe più semplicità.» (Ahimè! sulle facce della madre e della figlia stava scritto che s'erano talmente consumate nei balli da diventare tutt'e due quasi come di cera.)
Èartkòv si mise all'opera, fece sedere la signorina, stabilì mentalmente cosa dovesse fare; mosse nell'aria il pennello fissando nella sua mente i punti; socchiuse un poco un occhio, indietreggiò, guardò da lontano e nello spazio di un'ora incominciò e terminò il primo abbozzo. Soddisfatto, si mise a dipingere; il lavoro lo ispirava. Già aveva dimenticato tutto, aveva dimenticato persino di trovarsi in presenza di dame aristocratiche, aveva persino cominciato a esibire ogni tanto certi modi da pittore, pronunciando ad alta voce vari suoni, talvolta canterellando, come accadde a un artista immerso con tutta l'anima nel suo lavoro. Senza nessuna cerimonia, solo con un movimento del pennello indicava alla sua modella come dovesse sollevare il capo: alla fine la fanciulla cominciò ad agitarsi e a dare segni di stanchezza.
«Basta per la prima volta, basta,» disse la signora.
«Ancora un poco,» disse l'artista dimentico di tutto.
«No, basta! Lise, tre ore!» disse la signora estraendo un piccolo orologio appeso con una catenella d'oro alla cintura, e aggiunse con un gridolino: «Ah, com'è tardi!»
«Solo un momentino ancora,» disse Èartkòv con la voce ingenua e supplichevole d'un bambino.
Ma la signora a quanto pare non era affatto disposta a compiacere le sue esigenze artistiche, e promise invece di rimanere più a lungo un'altra volta.
«Però è seccante,» pensò fra sè Èartkòv, «m'ero appena sciolta la mano.»
E si ricordò che nessuno lo interrompeva, nè lo fermava quando lavorava nel suo studio all'Isola Vasilièvskij. Nikìta di solito se ne stava seduto senza muoversi sempre nello stesso posto, lo si poteva dipingere quanto si voleva, dato che lui si addormentava addirittura nella posizione che gli era stata ordinata. Scontento, posò il suo pennello e la tavolozza sulla sedia e si fermò torvo davanti alla tela.
Un complimento detto dalla dama di mondo lo destò dal suo torpore. Si precipitò svelto verso la porta per accompagnarle; sulle scale fu invitato ad andare a pranzo da loro la settimana successiva, e ritornò allegro nella sua stanza. L'aristocratica signora l'aveva completamente affascinato. Sino a quel momento egli aveva guardato le persone di quel genere come qualcosa d'inaccessibile, nate solamente per correre in belle carrozze con lacchè in livrea e un cocchiere azzimato, gettando sguardi indifferenti su chi arrancava a piedi con un modesto paltoncino. Ed ecco che, tutt'a un tratto, una di queste persone era entrata nella sua stanza; egli ne faceva il ritratto, era invitato a pranzo in una casa aristocratica. Una contentezza insolita si impadronì di lui; era completamente inebriato e per questo si premiò con un sontuoso pranzo e con uno spettacolo serale; poi, di nuovo, senza alcun bisogno, andò in giro in carrozza per la città.
Nelle giornate successive trascurò del tutto il consueto lavoro. Non fece altro che prepararsi e aspettare il momento in cui avrebbe sentito suonare il campanello. Finalmente l'aristocratica dama e la sua pallida figlia arrivarono. Egli le fece accomodare, si avvicinò alla tela ormai con disinvoltura e con una certa pretesa di maniere mondane, e si mise a dipingere. La giornata piena di sole e di vivida luce gli furono di grande aiuto. Nel suo originale vedeva molte cose che, una volta colte e rese sulla-tela, avrebbero potuto conferire un alto pregio al ritratto: vedeva che ne sarebbe uscito qualcosa di speciale se avesse eseguito tutto con la perfezione con cui in quel momento gli si presentava il modello.
Il cuore cominciò a battergli forte quando sentì che stava esprimendo qualcosa che gli altri non avevano ancora notato. Il lavoro lo prese interamente, egli si immerse tutto nel pennello, dimenticandosi di nuovo dell'aristocratica origine della sua modella. Con il fiato che gli si mozzava vedeva come gli venivano bene i lineamenti delicati e il corpo quasi diafano della fanciulla diciassettenne. Coglieva ogni sfumatura, un giallo leggero, un turchino appena visibile sotto gli occhi e già si preparava a dipingere persino un piccolo foruncoletto spuntato sulla fronte, quando a un tratto udì sopra di sè la voce della madre:
«Ah, questo perchè? Questo non è necessario,» disse la signora. «E poi... ecco, in certi punti... c'è un po' troppo giallo, e qui, ecco, non mi piacciono queste macchioline scure.»
L'artista si mise a spiegare che proprio quelle macchioline e quel giallo rendevano l'effetto, davano un tono naturale e leggero al viso. Ma gli fu risposto che non davano nessun tono e che non avevano nulla a che vedere con l'effetto, e che quelle erano semplicemente sue impressioni.
«Permettete che almeno qui, solo in questo punto, ritocchi leggermente con un po' di giallo,» disse ingenuamente l'artista.
Ma non gli fu permesso nemmeno questo. Dissero che Lise quel giorno era soltanto un poco indisposta e che non aveva nessun giallore e il suo viso colpiva specialmente per la freschezza del colorito. Con tristezza egli cominciò a cancellare ciò che il suo pennello aveva fatto emergere dalla tela. Scomparvero molti tratti quasi inavvertibili e, insieme con essi, in parte scomparve anche la somiglianza. Senza alcuna partecipazione egli si mise a dare al ritratto quel colorito generale che si dà a memoria e fa apparire i visi colti dal vero simili a quelli ideati a freddo che si vedono nelle esercitazioni degli allievi. Ma la signora era soddisfatta che l'offensivo colorito di prima fosse stato eliminato. Manifestò solo meraviglia che il lavoro durasse tanto e aggiunse d'aver sentito dire che lui in due sedute poteva finire un ritratto. L'artista non seppe che cosa rispondere. Le signore si alzarono e si accinsero a uscire. Egli posò il pennello, le accompagnò alla porta, poi si fermò a lungo immobile e torvo davanti al ritratto. Lo guardava ottusamente e nella sua testa rivedeva intanto quei lievi tratti femminili, quelle sfumature e quei toni aerei che il suo pennello aveva colti, e poi spietatamente cancellati. Tutto pieno di essi, mise il ritratto in disparte e cercò fra le sue cose una piccola testa di Psiche abbandonata, che una volta, molto tempo prima, aveva abbozzato sulla tela. Era una testa dipinta abilmente, ma del tutto ideale, fredda, fatta soltanto di lineamenti generici, una cosa priva di vita. Poichè non aveva nulla da fare, si mise a ritoccarla, trasferendovi tutto ciò che aveva notato nel volto della sua aristocratica modella. I tratti, le sfumature, i toni che egli aveva colto si deponevano ora qui nella forma pura in cui essi appaiono quando l'artista, dopo aver guardato a sufficienza la natura, se ne distacca e crea qualcosa pari ad essa. La Psiche cominciò ad acquistar vita e l'idea appena trapelata a poco a poco prese corpo. Senza che lui lo volesse, il tipo di volto d'una fanciulla della buona società si trasmise alla testa di Psiche, che grazie a ciò acquistò quella particolare espressione, tutta sua, che distingue una vera opera d'arte. Era come se il pittore avesse fuso varie parti nell'insieme presentatogli dall'originale, integrando alla perfezione ogni particolare nella sua opera. Per alcuni giorni non si occupò che d'essa. L'arrivo delle signore lo colse intento a questo lavoro. Non fece in tempo a togliere dal cavalletto il quadro. Entrambe levarono un gioioso grido di stupore e batterono le mani.
«Lise! Lise! Ah, che somiglianza! Superbe, superbe! Che bell'idea avete avuto di abbigliarla in costume greco. Ah, che sorpresa!»
L'artista non sapeva come spiegare alle signore il loro piacevole equivoco. Vergognoso, con la testa bassa, disse sommessamente:
«È una Psiche.»
«In veste di Psiche? C'est charmant!» disse la madre con un sorriso, dopo di che sorrise pure la figlia. «Non è vero, Lise, che a te più di tutto s'addice d'essere dipinta in veste di Psiche? Quelle idée délicieuse! Ma che lavoro! È un Correggio. Lo confesso, avevo letto e sentito di voi, ma non pensavo che aveste un simile talento. No, dovete assolutamente fare il ritratto anche a me.»
È chiaro che anche la signora voleva apparire in veste di Psiche.
«Cosa devo fare?» pensò l'artista, «se lo vogliono, che la Psiche passi pure per ciò che vogliono,» e ad alta voce disse: «Cercate di posare ancora un poco; farò qualche ritocco.»
«Ah, ho paura che voi... è tanto somigliante così!»
Ma l'artista capì che i timori riguardavano il giallo e la tranquillizzò, dicendo che intendeva solo dare più brillantezza ed espressione agli occhi. In realtà, però, provava vergogna e voleva conferire al ritratto almeno un po' più di somiglianza con l'originale per non essere considerato uno spudorato. In effetti i lineamenti della pallida fanciulla cominciarono infine ad uscire più distinti dalla testa di Psiche.
«Basta!» disse la madre, che cominciava ad aver paura che la somiglianza risultasse alla fine troppo accentuata.
L'artista fu ricompensato in ogni modo: sorrisi, denari, complimenti, sincere strette di mano, inviti a pranzo; insomma, ricevette mille attestati lusinghieri. Il ritratto fece scalpore in città. La signora lo mostrò alle sue amiche; tutte si stupirono dell'arte con cui il pittore aveva saputo conservare la somiglianza e nello stesso tempo aggiungere bellezza all'originale. Quest'ultima cosa, s'intende, fu osservata non senza una leggera sfumatura d'invidia sul viso. E l'artista si trovò a un tratto sommerso dalle richieste. Sembrava che tutta la città volesse farsi fare il ritratto da lui. Alla porta il campanello trillava di continuo. Da una parte ciò poteva essere un bene, in quanto la varietà e la moltitudine delle fisionomie gli offriva grandi possibilità di far pratica. Ma, disgraziatamente, si trattava sempre di persone con le quali era difficile lavorare in pace: gente frettolosa, occupata, o appartenente all'alta società, ossia più affaccendata di chiunque altro, e perciò estremamente impaziente. Tutti chiedevano solo che il lavoro fosse fatto bene e presto. L'artista vide che rifinire era assolutamente impossibile, che tutto si doveva compensare con l'abilità e l'audace rapidità del pennello. Afferrare soltanto l'insieme, l'espressione generale, e non approfondire i dettagli minuti: insomma, seguire la natura nei suoi particolari era assolutamente impossibile. Si deve inoltre aggiungere che quasi tutti coloro che si facevano fare il ritratto avevano anche altre pretese. Le signore esigevano che nei loro ritratti fossero messi in evidenza l'anima e il carattere, che il rimanente magari non vi apparisse affatto, che tutti gli angoli venissero arrotondati, tutti i difetti attenuati e persino, se possibile, ignorati. Insomma, che il loro volto apparisse almeno guardabile, se non tale da far innamorare. Di conseguenza, sedendosi per posare, esse assumevano talvolta delle espressioni che gettavano nello stupore l'artista: una si sforzava di atteggiare il viso a malinconia, un'altra prendeva un'aria sognante, un'altra ancora voleva rimpicciolire la bocca e la stringeva talmente che alla fine essa diventava un puntino grande come una capocchia di spillo. E, nonostante tutto questo, esigevano da lui somiglianza e spontanea naturalezza. E gli uomini non erano affatto meglio delle signore. Uno esigeva che lo si raffigurasse con un atteggiamento forte, energico del capo; un altro con gli occhi ispirati rivolti in alto; un colonnello della guardia voleva assolutamente che nel suo sguardo si vedesse Marte; un alto dignitario civile si preoccupò che sul suo viso ci fossero una grande dirittura e nobiltà e che la sua mano poggiasse sopra un libro dov'era scritto a grandi lettere: «Fu sempre per la verità». In un primo tempo simili esigenze facevano sudare l'artista: queste richieste ponevano dei problemi su cui si doveva pensare, riflettere, e gli si concedeva invece così poco tempo. Ma alla fine capì meglio la situazione e non si affaticò più tanto. Bastavano due o tre parole per fargli comprendere come una persona volesse venir raffigurata. C'era chi voleva Marte, e lui gli stampava Marte in faccia; chi puntava a Byron, e lui gli dava un atteggiamento byroniano. Se le signore volevano essere una Korina, un'Ondina, un'Aspasia, lui acconsentiva di buon grado a tutto e, da parte sua, aggiungeva per ognuno una buona dose di avvenenza, cosa che, com'è noto, non guasta mai e talvolta fa perdonare all'artista anche il difetto di somiglianza. Ben presto cominciò egli stesso a meravigliarsi della stupefacente rapidità e dell'ardire del proprio pennello. I clienti erano entusiasti e lo proclamavano un genio.
Èartkòv diventò un pittore alla moda sotto tutti gli aspeti. Cominciò a frequentare i pranzi, ad accompagnare le signore nelle gallerie e persino a passeggio, a vestirsi da dandy e ad affermare apertamente che un artista deve far parte del bel mondo, deve tener alto il proprio titolo, mentre di solito i pittori si vestono come calzolai, non sanno comportarsi ammodo, non hanno stile e sono privi d'ogni educazione. A casa sua e nello studio egli aveva introdotto grande ordine e pulizia, assunse due magnifici servitori, si circondò di eleganti allievi; si cambiava d'abito varie volte al giorno, si faceva i riccioli, cercava di ricevere sempre meglio i suoi visitatori, di abbellire in ogni modo il proprio aspetto per produrre un'impressione gradevole sulle signore; insomma, ben presto non si sarebbe assolutamente più riconosciuto in lui il modesto artista che una volta lavorava inosservato nella sua stamberga dell'Isola Vasilièvskij. Sugli artisti e l'arte adesso si esprimeva con asprezza: affermava che agli artisti del passato si attribuiva in fin dei conti troppo valore, che tutti loro fino a Raffaello non dipingevano figure ma aringhe; che era solo una fantasia degli osservatori l'idea che in esse si avvertisse la presenza della santità; che lo stesso Raffaello non aveva poi dipinto tutto bene e che molte delle sue opere dovevano la loro gloria soltanto alla leggenda; che Michelangelo era un borioso che non pensava ad altro che a farsi bello della sua cultura anatomica, ma era del tutto privo di grazia; e che il vero fulgore, la forza del pennello e dei colori si trovano soltanto adesso, nel nostro secolo. Qui, naturalmente, quasi, senza apparire, la cosa arrivava a toccarlo da vicino.
«No, io non capisco,» egli diceva, «l'ostinazione di alcuni a faticare e sgobbare davanti a un'opera. Chi studia per mesi e mesi un quadro, per me non è un artista ma un lavoratore. Non posso credere che abbia dell'ingegno. Il genio crea audacemente, velocemente. Ecco, guardate me,» diceva di solito rivolgendosi ai visitatori, «questo ritratto l'ho dipinto in due giorni, questa piccola testa in un giorno, questo qui in qualche ora, quest'altro in un'ora o poco più. No, io... io, lo confesso, non considero arte ciò che viene modellato linea per linea; è mestiere, non arte.»
Così parlava ai suoi visitatori, e i visitatori si stupivano della forza e dell'ardire del suo pennello, e persino lanciavano esclamazioni quando venivano a sapere della rapidità con cui egli creava, e si dicevano l'un l'altro: «È un genio, un vero genio! Guardate soltanto come parla, come gli brillano gli occhi! Il y a quelque chose d'extraordinaire dans toute sa figure!»
L'artista era lusingato di sentire voci del genere sul suo conto. Quando sulle riviste venivano pubblicate lodi su di lui, ne gioiva come un bambino, sebbene quelle lodi se le fosse comprate col suo denaro. Poi diffondeva la pubblicazione dappertutto e, senza dare l'impressione di farlo apposta, la mostrava agli amici e ai conoscenti e in ciò provava la più sciocca e ingenua soddisfazione. La sua gloria cresceva, i lavori e le commissioni aumentavano. Già avevano cominciato ad annoiarlo sempre quegli stessi ritratti e visi le cui posizioni ed atteggiamenti ormai conosceva a memoria. Ormai li dipingeva svogliatamente, limitandosi ad abbozzare alla meno peggio la testa e lasciando che gli allievi facessero il resto. Prima, bene o male, cercava di mettere il capo in qualche nuova posizione, di ottenere con un tratto un effetto originale. Ora questo gli era venuto a noia. La sua mente si era stancata di inventare e di riflettere. Non ne aveva più la forza nè il tempo: la vita dissipata e la società in cui recitava la sua parte d'uomo di mondo lo allontanavano dal lavoro e dalla meditazione. La sua pennellata cominciò a diventar fredda e smorta, ed egli insensibilmente si chiuse in forme monotone, convenzionali, logore. I visi uniformi, freddi, perennemente sistemati e per così dire abbottonati, dei funzionari, dei militari e dei civili non offrivano molta libertà al pennello: esso dimenticò i sontuosi drappeggi, i gesti e le passioni violente. Di composizioni, di tensione drammatica, d'impegno elevato non era neppure il caso di parlare. Davanti a lui non posavano altro che uniformi, corsetti, o frac, di fronte al quali un artista prova sempre una sensazione di freddo e ogni immaginazione si dilegua. Nelle sue opere non si vedevano più neppure i pregi più comuni; e tuttavia continuavano a godere di celebrità, sebbene i veri conoscitori e gli artisti, guardando i suoi ultimi lavori, si limitassero a stringersi nelle spalle. Qualcuno che conosceva Èartkòv da prima, non riusciva a capire come fosse potuto scomparire in lui quel talento i cui segni apparivano chiari agli inizi, e si domandava perchè si fosse già spento l'ingegno in un uomo che aveva appena raggiunto il pieno sviluppo delle proprie forze.
Ma l'artista inebriato non sentiva queste voci. Era ormai alle soglie del tempo in cui gli anni e l'intelletto diventano posati, cominciava a ingrassare visibilmente. Sui giornali e sulle riviste leggeva aggettivi come: il nostro riverito Andrèj Petròviè, l'emerito nostro Andrèj Petròviè. Presero a proporgli incarichi onorifici, a invitarlo a presiedere agli esami, a far parte di comitati. E lui cominciava già, come sempre accade negli anni rispettabili, a schierarsi con tutto il suo peso dalla parte di Raffaello e degli antichi pittori, non perchè si fosse pienamente convinto del loro alto valore, ma perchè gli servivano per opporsi agli artisti giovani. Già cominciava, come accade a tutti coloro che entrano in quest'età, ad accusare senza eccezione di sorta i giovani di immoralità e di cattivo indirizzo spirituale. Già cominciava a credere che tutto al mondo avvenisse in modo semplice, che non ci fosse nulla di superiore all'ispirazione e che bastasse sottoporre tutto alla regola severa dell'accuratezza e dell'uniformità. Insomma la sua esistenza sfiorava il tempo in cui tutto ciò che è slancio si rattrappisce nell'uomo, quando il potente archetto risuona più debolmente nell'anima e non diffonde la sua musica penetrante intorno al cuore: quando il contatto della bellezza non trasforma più vergini forze in fuoco e in fiamme, ma tutti i sentimenti, che hanno ormai finito di bruciare, diventano più accessibili al suono dell'oro, prestano un orecchio più attento alla sua seducente musica, e a poco a poco, insensibilmente, se ne lasciano addormentare. La gloria non dà piacere a chi l'ha rubata, non meritata; essa produce un costante fremito solamente in chi ne è degno. Perciò ogni slancio del pittore si volse all'oro. L'oro divenne la sua passione, il suo ideale, il suo terrore, piacere, scopo. Nei suoi buali si ammucchiavano i mazzi di banconote e, come tutti coloro che ricevono in sorte questo terribile dono, egli diventò monotono, inaccessibile a tutto ciò che non riguardasse l'oro, uno spilorcio senza ragione, un fanatico collezionista; era ormai pronto a trasformarsi in uno di quei curiosi esseri, così numerosi nel nostro insensibile mondo e a cui guarda con spavento l'uomo dotato di vita e di cuore, simili ad ambulanti tombe di pietra con un cadavere al posto del cuore. Ma un avvenimento sconvolse con violenza e risvegliò tutta la sua sostanza vitale.
Trovò un giorno sul suo tavolo un biglietto in cui l'Accademia delle Arti lo pregava, in quanto suo degno membro, di recarsi a dare il suo giudizio su una nuova opera mandata dall'Italia da un artista russo che era andato laggiù per perfezionarsi. Quest'artista era uno dei suoi compagni d'un tempo, che sin dall'adolescenza nutriva in sè la passione per l'arte, e con spirito ardente, con tutta la sua anima vi si era consacrato, si era allontanato dagli amici, dai parenti, dalle piccole abitudini, e si era precipitato là dove, sullo sfondo di cieli stupendi, matura il maestoso vivaio delle arti, in quella portentosa Roma il cui nome fa battere con forza il cuore d'ogni artista. Come un eremita si era immerso nel lavoro, con una dedizione che nulla poteva distrarre. Non gli importava che criticassero il suo carattere, la sua insofferenza nel trattare con la gente, il suo disdegno per convenzioni mondane, il disdoro che causava al titolo di artista con la sua trascuratezza, con il suo abbigliamento misero. Non gl'importava che i suoi colleghi cercassero o no la sua compagnia. Disprezzava tutto, dava tutto all'arte. Visitava tutte le gallerie, sostava per ore davanti alle opere dei grandi maestri, cercando di cogliere il segreto del loro pennello portentoso. Non portava nulla a termine senza confrontare più volte la sua opera con quella dei grandi maestri e senza leggere nelle loro creazioni una muta ma eloquente risposta per se stesso. Non prendeva parte alle conversazioni rumorose e alle discussioni; non era nè per i puristi, nè contro i puristi. A tutti in modo equanime dava quanto spettava, da tutti prendeva ciò che c'era di bello; alla fine aveva eletto a sommo modello e a suo maestro solo il divino Raffaello. Aveva fatto come un poeta che dopo aver letto molte opere d'ogni genere, piene di tutto il fascino e di tutte le bellezze possibili, scelga in ultimo come libro da capezzale solamente l'Iliade d'Omero, perchè scopre che in essa c'è già tutto e che non esiste nulla che non sia già riflesso in una così profonda e grande perfezione. In tal modo il nostro pittore aveva tratto da Raffaello un'idea sublime della creazione, la possente bellezza del pensiero, l'alto fascino d'un tocco divino.
Entrando nella sala, Èartkòv trovò raccolta davanti al quadro una grande folla di visitatori. Dappertutto regnava un profondo silenzio, come di rado accade quando in un posto c'è tanta gente. Egli si affrettò ad assumere l'aria ispirata del conoscitore e si avvicinò al quadro; ma, Dio mio, che cosa vide!
L'opera dell'artista stava davanti a lui pura, mirabile come una sposa. Divina, innocente e semplice com'è il genio, essa si librava su ogni cosa. Pareva persino che quelle figure celestiali, stupite da tanti sguardi rivolti su di loro, abbassassero pudicamente le stupende ciglia. I conoscitori contemplavano con un senso d'involontario stupore quella nuova e mai veduta creazione pittorica. Tutto sembrava qui fuso: lo studio di Raffaello, che si rivelava nell'alta nobiltà degli atteggiamenti, l'insegnamento del Correggio che alitava nella minuziosa perfezione della pennellata. Ma più imperiosamente di tutto s'imponeva la forza creativa racchiusa nell'anima stessa dell'artista. Il minimo oggetto era stato da lui penetrato; di ogni cosa egli aveva colto la norma e la legge intima. Ovunque era stata raggiunta quella fluida rotondità delle linee che è racchiusa nella natura e che soltanto l'occhio dell'artista creatore sa vedere, mentre l'imitatore ne ottiene soltanto angolosità. Si vedeva che, l'artista aveva dapprima chiuso nella sua anima le impressioni attinte al mondo esterno e di lì, poi, dalla sorgente dell'anima, le aveva liberate come un'armoniosa, trionfale canzone. Ed appariva chiaro anche ai non iniziati quale incommensurabile abisso esista fra la creazione e la semplice copia dalla natura. È impossibile descrivere l'insolito silenzio che tutti mantenevano, come legati da un patto involontario, mentre tenevano gli occhi fissi sul quadro: non un fruscio, non un rumore, mentre il quadro a ogni istante sembrava elevarsi sempre più, sempre più luminosamente e più meravigliosamente staccarsi da tutto per trasformarsi infine in una visione balenante, frutto d'un'idea ispirata all'artista dal cielo, cui tutta l'esistenza d'un uomo serve solo da preparazione. Involontarie lacrime gonfiavano gli occhi dei visitatori che circondavano il quadro. Pareva che tutti i gusti, tutte le temerarie e sbagliate deviazioni del gusto si fossero fuse in una specie di muto inno a quell'opera divina.
Èartkòv stava davanti al quadro, immobile, con la bocca aperta; quando infine a poco a poco visitatori e conoscitori cominciarono a far rumore e a discutere sui pregi dell'opera, e si rivolsero a lui pregandolo di palesare il suo parere, avrebbe voluto assumere un'aria indifferente, normale, avrebbe voluto pronunciare l'abituale abbietto giudizio degli artisti ormai mummificati, del genere: «Sì, certo, non si può negare l'ingegno dell'artista; c'è qualcosa, si vede che voleva esprimere qualcosa, tuttavia, per quanto riguarda l'essenziale...» E aggiungere poi, naturalmente, qualcuna di quelle lodi che non hanno mai giovato ad alcun artista. Avrebbe voluto far questo, ma la frase gli morì sulle labbra; per tutta risposta proruppe in lacrime e singhiozzi e fuggì come impazzito dalla sala.
Rimase poi per qualche tempo, nel suo studio lussuoso, immobile e insensibile a tutto. L'intero suo essere, l'intera sua vita erano state risvegliate in un istante, come se la giovinezza gli fosse stata restituita di nuovo. Tutt'a un tratto la benda cadde dai suoi occhi. Dio! Distruggere così spietatamente gli anni migliori della giovinezza; annientare, spegnere la scintilla del fuoco che forse gli covava nel petto, che forse si sarebbe sviluppata in grandezza e in bellezza, e far sì che anche lui ispirasse lacrime di stupore e di riconoscenza! Distruggere tutto questo, distruggere senza pietà! Parve che in quell'istante, di colpo, rivivessero nella sua anima quelle tensioni e quegli slanci che un tempo anch'egli conosceva. Afferrò il pennello e si avvicinò alla tela. Il sudore dello sforzo gli coprì la fronte, egli si trasformò tutto in un solo desiderio e s'infiammò d'un solo pensiero: raffigurare un angelo caduto. Quest'idea era la più consona allo stato in cui si trovava il suo spirito. Ma, ahimè! Le figure, le pose, i gruppi, i pensieri stessi si deponevano sulla tela in modo forzato e incoerente. Troppo a lungo il suo pennello e la sua immaginazione erano rimasti chiusi in un'unica dimensione, e ora il suo impotente impulso a superare i confini e le catene che egli stesso s'era dato si manifestava come un'aberrazione e un errore. Egli aveva sdegnato il lungo e faticoso tirocinio dell'acquisizione graduale, le leggi prime e basilari della futura grandezza. Lo prese il dispetto. Ordinò di portar fuori dallo studio tutte le sue opere precedenti, tutti i quadri alla moda e senza vita, tutti i ritrati di ussari, di signore e di consiglieri di stato. Si chiuse, solo, nella sua stanza, ordinò di non far entrare nessuno e s'immerse tutto nel lavoro. Come un giovinetto paziente, come un allievo, si accinse al suo lavoro. Ma com'era spietatamente mediocre tutto quello che usciva dal suo pennello! A ogni passo era frenato dall'ignoranza degli elementi più rudimentali; un artificio semplice, insignificante, bloccava tutto lo slancio e si ergeva come una soglia invalicabile per l'immaginazione. Il pennello involontariamente seguiva i modelli imparati a memoria, le mani si atteggiavano sempre nella stessa maniera, la testa non sapeva prendere una posizione che non fosse convenzionale, persino le pieghe dell'abito apparivano fissate dalla consuetudine e non riuscivano a drappeggiarsi secondo un atteggiamento nuovo del corpo. E il pittore lo sentiva, lo sentiva e lo vedeva egli stesso!
«Ma avevo veramente del talento?» si disse infine. «Non mi sarò ingannato?»
E, pronunciate queste parole, si avvicinò alle sue prime opere, a cui un tempo aveva lavorato in modo pulito, disinteressato, laggiù, nella povera stamberga dell'Isola Vasilièvskij, lontano dalla gente, dalla ricchezza e da ogni vanità. Si avvicinò ora ad esse e si mise a esaminarle attentamente,mentre le guardava, cominciò a riandare col pensiero alla sua misera vita d'un tempo. «Sì,» disse con disperazione, «avevo talento. Dappertutto, su tutto se ne vedono i segni e le tracce...»
Si fermò e, a un tratto, sussultò in tutto il corpo: i suoi occhi s'erano incrociati con altri occhi che lo fissavano immobili. Era il non comune ritratto che aveva comprato allo Šèukìn Dvor. Durante tutto quel tempo era rimasto nascosto, occultato dagli altri quadri, e lui se n'era completamente dimenticato. Adesso che erano stati portati via tutti i ritratti e i quadri alla moda che prima riempivano lo studio, come di proposito esso era riemerso alla luce insieme alle sue prime opere di gioventù. Quando il pittore rammentò la strana storia, quando ripensò che in un certo modo quel ritratto era stato la causa della sua trasformazione, che il tesoro così prodigiosamente ricevuto aveva generato in lui tutti quegli impulsi vani che poi avevano ucciso il suo talento, per poco la sua mente non fu sopraffatta dalla follia. Subito diede l'ordine di portar via l'odioso ritratto. Ma questo non bastò a placare la sua agitazione: tutti i suoi sensi e tutto il suo essere erano completamente sconvolti ed egli provò quell'orribile supplizio che, in casi eccezionali, si presenta talvolta nella natura quando un talento debole si sforza di esprimersi in una dimensione che lo oltrepassa, e non riesce; quel supplizio che in un giovane può generare qualcosa di grande ma in chi ha superato la frontiera dei sogni si trasforma in sterile sete; quel supplizio terribile che rende l'uomo capace di spaventosi misfatti. Di lui s'impadronì una tremenda invidia, un'invidia che rasentava la follia. Il fiele gli affluiva al viso quando vedeva un'opera che recava l'impronta del genio. Digrignava i denti e la divorava con lo sguardo del serpente. Nella sua anima nacque il più infernale proposito che mai un uomo abbia nutrito, ed egli si mise a realizzarlo con folle energia. Cominciò a raccogliere i migliori prodotti dell'arte. Dopo aver acquistato un quadro a caro prezzo, lo portava con cautela nella sua stanza e qui si gettava su di esso con la rabbia d'una tigre, lo strappava, lo lacerava, lo faceva a pezzi e lo calpestava, accompagnando questo con risa di piacere. Slegò i suoi sacchi d'oro, aprì i suoi forzieri. Mai alcun mostro d'ignoranza distrusse tante opere stupende quante ne distrusse quel furibondo vendicatore. Alle aste dov'egli si mostrava, tutti abbandonavano subito la speranza di poter acquistare un'opera d'arte. Pareva che il cielo irato avesse di proposito inviato sulla terra quello spaventoso flagello per distruggere ogni bellezza. Questa spaventosa passione conferì una tinta terribile al suo viso, perennemente bilioso. Il vituperio e la negazione del mondo si manifestavano già nei suoi lineamenti. Pareva che in lui si fosse impersonificato il terribile demone che Pùškin ha voluto raffigurare idealmente. Le sue labbra non proferivano null'altro che parole velenose e un'eterna negazione di tutto. Appariva sulla strada simile a un'arpia; anche i suoi amici, vedendolo di lontano, scantonavano e cercavano di evitarne l'incontro, perchè, dicevano, questo era sufficiente ad avvelenar loro l'intera giornata.
Per fortuna del mondo e dell'arte, un'esistenza così tesa e forsennata, non poteva durare a lungo: la dimensione delle passioni era troppo grande e contorta per le sue deboli energie. Gli accessi di furore e di follia cominciarono a manifestarsi più spesso, e tutto ciò, infine, sfociò nella più spaventosa delle malattie. Una febbre crudele, che s'accompagnò a una forma rapida di tubercolosi, s'impadronì di lui in modo così feroce che in tre giorni del pittore rimase solamente l'ombra. A ciò si aggiunsero i sintomi di una pazzia senza speranza. Talvolta non riuscivano a reggerlo neanche diverse persone. Cominciò ad avere una visione: vedeva gli occhi vivi, pur dimenticati da tempo, dell'inconsueto ritratto, e allora la sua furia era terribile. Tutte le persone che attorniavano il suo letto gli sembravano spaventosi ritratti. Esso si sdoppiava, si quadruplicava ai suoi occhi; tutte le pareti gli sembravano coperte di ritratti che fissavano su di lui i loro occhi vivi e immobili. Ritratti orribili lo guardavano dal soffitto, dal pavimento; la camera si dilatava e si estendeva all'infinito per meglio contenere quegli occhi immobili. Il dottore che lo curava, e che già aveva sentito raccontare qualcosa della sua strana storia, cercò con ogni mezzo di trovare un rapporto segreto fra le visioni che gli apparivano e gli avvenimenti della sua esistenza, ma senza riuscire a nulla. Il malato non comprendeva e non sentiva altro che i propri tormenti ed emetteva solamente orrendi gemiti e frasi incoerenti. Finalmente la sua vita si spezzò nell'ultimo e ormai muto accesso di sofferenza. Il suo cadavere era spaventoso. Delle sue enormi ricchezze non si trovò più nulla; ma i frammenti delle opere d'arte distrutte, il cui prezzo era di parecchi milioni, fecero capire quale spaventoso uso egli ne avesse fatto.

Parte seconda


Un gran numero di carrozze, calessi e carrozzini era fermo davanti all'ingresso di una casa dove si effettuava la vendita all'asta degli oggetti di uno di quei ricchi amatori d'arte che per tutta la loro vita hanno dolcemente sonnecchiato, sprofondati fra gli Zefiri e gli Amorini, innocentemente hanno avuto fama di mecenati, e ingenuamente hanno sperperato per questo i milioni accumulati dai loro positivi padri o magari da loro stessi col loro lavoro di gioventù. Com'è noto, oggi di questi mecenati non se ne trovano più, e il nostro XIX secolo già da tempo ha assunto la noiosa fisionomia d'un banchiere che si gode i suoi milioni solo sotto forma di cifre allineate sulla carta.
La lunga sala era piena della più variopinta folla di visitatori accorsi come uccelli da preda su un cadavere insepolto. C'era tutta una schiera di mercanti russi del Gostìnyj Dvor' e persino del mercato dei robivecchi, con i loro azzurri cappotti tedeschi. Il loro aspetto e l'espressione delle facce erano qui in un certo senso più duri, più liberi, non improntati a quell'affettato servilismo che è tanto evidente nel mercante russo quando sta in bottega davanti al cliente. Qui complimenti non ne facevano, sebbene nella stessa sala si trovasse un gran numero di quegli aristocratici dinanzi ai quali in altro luogo sarebbero stati pronti a spazzare a furia di inchini la polvere portata dagli stessi loro stivali. Qui si comportavano senza cerimonie, tastavano disinvolti i libri e i quadri per constatare la bontà della merce e contestavano a voce alta il prezzo annunciato da aristocratici esperti. Nè mancavano i soliti appassionati d'arte, gente che ogni giorno, invece di andare a pranzo, va a un'asta; nobili intenditori, che reputano doveroso non farsi sfuggire l'occasione di aumentare la propria collezione anche perchè non hanno altro da fare da mezzogiorno all'una; e, infine, degni signori il cui abito e le cui tasche sono assai male in arnese e che compaiono ogni giorno senza alcun fine interessato, ma unicamente per vedere come vanno le cose, chi dia di più, chi di meno, chi batta un altro sul prezzo e a chi resti un dato oggetto. Una gran quantità di quadri era sparsa qua e là senza alcun criterio, ad essi si mescolavano mobili e libri con il monogramma del vecchio possessore, il quale forse non aveva avuto nemmeno la lodevole curiosità di darvi un'occhiata. Vasi cinesi, lastre di marmo per tavoli, mobili moderni e antichi dalle linee ricurve, con grifi, sfingi e zampe di leone, dorati e senza doratura, lampadari, lumi, tutto era ammassato, e non certo nell'ordine in cui lo si trova in un negozio. L'insieme dava insomma l'idea di una sorta di caos artistico. In generale la sensazione che si prova ad un'asta è terribile: in essa tutto fa pensare a un funerale. La sala in cui si tiene l'asta è sempre tetra; le finestre, ingombre di mobili e di quadri, lasciano filtrare avaramente la luce; il silenzio diffuso sulle facce e la funebre voce del banditore che batte con il martello e canta le esequie alle povere arti così stranamente raccolte in questo luogo, tutto ciò sembra rafforzare la sgradevole e bizzarra impressione.
L'asta, era al suo culmine. Un'intera folla di gente per bene, che si spostava tutta insieme, discuteva a gara di qualcosa. Le parole «rubli, rubli, rubli» che echeggiavano da tutte le parti non davano al banditore il tempo di ripetere il prezzo raggiunto, che era già quadruplicato rispetto a quello d'apertura. La folla discuteva d'un ritratto che in verità non poteva non colpire chiunque avesse una minima nozione di pittura. In esso si avvertiva a prima vista lo stile vigoroso del pittore. Il ritratto, che doveva essere già stato varie volte restaurato e ritoccato, rappresentava un asiatico con i lineamenti olivastri, una larga veste, e il viso atteggiato a un'espressione strana, inconsueta; ma la gente intorno era soprattutto colpita dall'eccezionale vivezza degli occhi. Più li si guardava, più essi parevano penetrare nell'intimo stesso dell'osservatore. Questa stranezza, questo insolito giuoco dell'artista colpiva tutti. Ma già molti di coloro che se lo contendevano si erano ritirati, per l'altezza del prezzo ormai raggiunto. Erano rimasti in lizza solo due signori, due nobili conosciuti, amatori di pittura, che per nessun motivo intendevano rinunciare all'acquisto. Si erano scaldati e probabilmente avrebbero alzato il prezzo sino all'impossibile se improvvisamente uno dei presenti non avesse esclamato:
«Permettete che interrompa per un momento la vostra disputa. Forse io ho diritto a questo quadro più di chiunque altro.»
Queste parole attirarono immediatamente su di lui l'attenzione di tutti. Era un uomo slanciato, sui trentacinque anni, con lunghi riccioli neri. Il volto piacevole, pervaso da una sorta di luminosa spensieratezza, rivelava un'anima estranea alle spossanti fatiche mondane; nel suo abbigliamento non c'era nessuna pretesa di seguire la moda: tutto manifestava in lui l'artista. Ed egli era appunto il pittore B., che molti dei presenti conoscevano di persona.
«Per quanto strane vi sembrino le mie parole,» continuò, vedendo l'attenzione generale rivolta su di lui, «se accettate di ascoltare una piccola storia, forse vi convincerete che avevo il diritto di pronunciarle. Tutto mi fa credere che questo ritratto è appunto quello che stavo cercando.»
Una naturale curiosità si accese sulle facce dei presenti, e lo stesso banditore, spalancata la bocca, si fermò con il martello sollevato nella mano, accingendosi ad ascoltare. All'inizio del racconto molti rivolsero involontariamente gli occhi al ritratto, ma poi tutti li fissarono soltanto sull'artista via via che la sua storia diventava più interessante.
«Conoscete quel quartiere della città chiamato Kolòmna,» così egli esordì. «Là tutto è diverso dagli altri quartieri di Pietroburgo; là non è provincia e non è capitale; quando passi per le strade di Kolòmna sembra che tutti i desideri e gli slanci giovanili ti abbandonino. Là il futuro non esiste, e tutto è quiete e silenzio. Là si trova tutto ciò che s'è tirato indietro dal movimento della capitale. Là si trasferiscono a vivere i funzionari in pensione, le vedove, le persone non ricche che hanno a che fare col Senato e perciò si sono condannate a viver qui per tutta la vita; cuoche disoccupate che tutto il giorno si danno spintoni ai mercati, chiacchierano di sciocchezze con un contadino in una drogheria e comprano ogni giorno cinque copeche di caffè e quattro di zucchero; insomma, quella categoria di persone che si può definire con una sola parola, «cinerea»; gente che nel vestito, nel viso, nei capelli, negli occhi ha un colorito spento, fioco, cinereo appunto come la giornata quando in cielo non c'è nè tempesta nè sole, ma semplicemente nè questo nè quello. Si aggiungano gli inservienti teatrali in pensione, i consiglieri titolari in pensione, i pupilli di Marte in pensione, privi d'un occhio e con il labbro cascante. Questa gente è indifferente a tutto: cammina senza guardare nulla, tace senza pensare a nulla. Nelle loro stanze non ci sono molte cose: talvolta soltanto un boccale di pura vodka russa, che essi sorseggiano monotonamente il giorno intero senza che dia loro alla testa, come accade invece al giovanotto di Via Mešèànskaja, l'artigiano tedesco, che nei giorni di festa se ne serve una robusta dose, e poi resta unico padrone di tutto il marciapiede dopo la mezzanotte.
«La vita a Kolòmna è terribilmente solitaria: di rado appare una carrozza, eccetto forse quella di una compagnia di attori; essa turba il generale silenzio con il suo strepito. Là tutti sono pedoni; molto spesso un vetturino di piazza si trascina senza clienti portando del fieno per il suo peloso cavalluccio. Si può trovare un alloggio per cinque rubli al mese, persino con il caffè al mattino. Le vedove con pensione rappresentano qui il ceto più aristocratico; esse si comportano bene, spazzano sovente la loro stanza, chiacchierano con le amiche del rincaro della carne di vitello e del cavolo; spesso hanno una figlia giovane, una creatura silenziosa, intristita, non di rado graziosa; può darsi anche che abbiano un brutto cagnolino e un orologio a muro con il pendolo che batte tristemente. Poi vengono gli attori ai quali lo stipendio non permette di andarsene da Kolòmna, gente libera, come tutti gli artisti che vivono per il piacere. Seduti in pigiama, essi puliscono la rivoltella, fanno ogni sorta di cosette utili per la casa incollando del cartone, giocano a dama e a carte con gli amici che vengono a trovarli, e così trascorrono la mattina e quasi lo stesso fanno la sera con l'aggiunta qualche volta di un punch. Dopo questa bella gente, questi artistocratici, a Kolòmna c'è la solita minutaglia e robetta. È difficile distinguere tra questa com'è difficile contare la miriade di insetti che nasce nell'aceto vecchio. Ci sono vecchie che pregano; vecchie che si ubriacano; vecchie che pregano e che si ubriacano a un tempo; vecchie che campano con mezzi inimmaginabili, che come formiche trascinano vecchi stracci e biancheria dal Ponte Kalinìn sino al mercato dei robivecchi cercando di venderli là per quindici copechi; insomma, si tratta del più infelice sedimento dell'umanità, di cui nessun benefico amministratore potrebbe in alcun modo migliorare la sorte. Ho parlato di questa gente per farvi capire che spesso essa si trova nella necessità di avere sia pure solo un aiuto temporaneo, ma immediato, ossia di ricorrere a prestiti; ragion per cui fra loro s'insediano usurai d'ogni genere, che li forniscono di piccole somme su pegno e dietro forti interessi. Questi piccoli usurai sono molto peggiori di quelli importanti, perchè spuntano in mezzo alla povertà e agli stracci più miserabili sciorinati al sole, a differenza dell'usuraio ricco, il quale ha a che fare solamente con persone che arrivano da lui in carrozza. Quindi anche troppo presto muore nelle loro anime ogni sentimento d'umanità. Fra questi usurai ce n'era uno... ma è necessario premettere che la storia che vi racconto risale al secolo scorso e precisamente al regno di Caterina II. Sapete da voi che l'aspetto del Quartiere Kolòmna e la vita che vi si svolge sono oggi molto cambiati. Dunque fra quegli usurai ce n'era uno che appariva come un essere insolito sotto tutti gli aspetti. Si era stabilito da tempo in quella parte della città. Andava in giro con un'ampia veste asiatica; il colore scuro del viso indicava la sua provenienza meridionale, ma nessuno avrebbe potuto dire con sicurezza se fosse indiano, greco o persiano; l'alta statura, quasi eccezionale; la faccia abbronzata, magra, riarsa e il colorito inconcepibile, pauroso della sua pelle; i grandi occhi d'un fuoco non comune; i folti sopraccigli pendenti, tutto ciò lo distingueva nettamente da tutti i cinerei abitanti della capitale. La sua stessa abitazione non assomigliava alle altre piccole casette di legno. Era una costruzione di pietra del genere di quelle che una volta costruivano i mercanti genovesi, con finestre irregolari, di diversa grandezza, con imposte e catenacci di ferro. Quest'usuraio differiva dagli altri anche per il fatto che poteva rifornire chiunque di qualsiasi somma, una vecchia in miseria o un dignitario di corte dalle tasche bucate. Ferme davanti alla sua casa si vedevano non di rado lussuose carrozze, dai cui finestrini occhieggiava un'elegante dama di mondo. Correva fama che i suoi forzieri di ferro fossero colmi di denaro, preziosi, brillanti e pegni d'ogni genere, al punto da non poterli contare, e che tuttavia egli non avesse l'avidità che è propria agli altri usurai. Concedeva denaro volentieri, fissando in apparenza vantaggiosi termini di pagamento. Ma, attraverso certi curiosi calcoli aritmetici, faceva salire gli interessi a percentuali spropositate. Così, almeno, dicevano le voci. La cosa più eccezionale, tuttavia, e tale da stupire molti, era lo strano destino di tutti quelli che ottenevano denaro da lui: tutti, infatti, terminavano la vita in modo infelice. Fosse semplicemente l'opinione della gente, assurda superstizione, o voce diffusa ad arte, tuttora non si sa. Ma diversi esempi, verificatisi in un breve periodo di tempo davanti agli occhi di tutti, erano vivi e sbalorditivi. Nell'ambiente aristocratico d'allora aveva in poco tempo attirato su di sè l'attenzione di tutti un giovane d'ottima famiglia, il quale già nella sua età giovanile s'era distinto nel campo delle attività di governo, ardente estimatore di ogni cosa elevata, appassionato di tutto ciò che ha creato l'arte e l'intelligenza dell'uomo, promettente futuro mecenate. Ben presto egli fu benignamente notato dalla stessa imperatrice, la quale gli affidò un posto importante, in armonia con le sue aspirazioni, un posto dov'egli poteva far molto per le scienze e per le arti in genere. Il giovane dignitario si circondò di artisti, di poeti, di scienziati. Egli voleva dare a tutti un lavoro, incoraggiare tutti. Iniziò a proprie spese un gran numero di utili pubblicazioni, distribuì molte commissioni, annunciò premi d'incoraggiamento, gettò in questa attività mucchi di denaro e, infine, cadde in miseria. Ma, pieno di magnanimo slancio, non volle rinunciare alla propria impresa; dappertutto cercava denaro in prestito e infine si rivolse al celebre usuraio. Dopo aver contratto con lui un notevole prestito, in poco tempo quest'uomo mutò completamente: diventò un oppressore, un persecutore dell'intelligenza e del talento. In tutte le opere cominciò a vedere un aspetto negativo, interpretava falsamente ogni parola. Proprio in quel tempo, purtroppo, ci fu la rivoluzione francese. Ciò gli servì di pretesto per tutte le possibili infamie. Cominciò a vedere in tutto un indirizzo rivoluzionario, in tutto gli sembrava di scorgere allusioni. Diventò sospettoso al punto che, alla fine, sospettava persino di se stesso, cominciò a compilare terribili, ingiuste denunce, a creare un gran numero di infelici. Va da sè che la voce di simili azioni non poteva, a un certo punto, non arrivare sino al trono. La magnanima imperatrice ne fu atterrita e, piena di quella nobiltà d'animo che abbellisce i regnanti, pronunciò parole che non hanno potuto arrivare fino a noi con assoluta esattezza, ma il cui profondo significato s'impresse nel cuore di molti. L'imperatrice osservò che sotto il governo monarchico non si opprimono gli alti e nobili slanci dell'animo, non si disprezzano e si perseguitano le opere dell'intelligenza, della poesia e delle arti; che, al contrario, proprio i monarchi sono sempre stati i protettori di queste cose: che gli Shakespeare, i Molière, sono fioriti sotto la loro magnanima protezione, mentre Dante non potè trovare un angolo dove riprarsi nella sua patria repubblicana; che i veri geni nascono nei periodi di splendore e di potenza dei regnanti e degli Stati e non nei tempi di fenomeni politici mostruosi e di terrorismo repubblicano, che finora non hanno donato al mondo un solo poeta; che occorre dare un riconoscimento ai poeti e agli artisti, giacchè essi inducono nell'anima la pace e il silenzio della bellezza, e non l'agitazione e le mormorazioni; che gli scienziati, i poeti e tutti i creatori d'arte sono perle e diamanti nella corona imperiale; che l'epoca d'un grande regnante ne è abbellita e ne riceve ancora maggior splendore. Insomma, pronunciando quelle parole, l'imperatrice fu in quel momento divinamente magnifica. Ricordo che i vecchi non potevano parlar di questo senza lacrime. Tutti si sentirono colpiti da quelle parole. A onore del nostro orgoglio nazionale giova notare che nel cuore russo sempre alberga il bellissimo sentimento che spinge a prendere le parti dell'oppresso. Il dignitario che aveva tradito la fiducia in lui riposta fu esemplarmente punito e allontanato dal posto. Ma egli lesse una punizione assai più terribile sui volti dei suoi compatrioti. Era un disprezzo definitivo e generale. Non si può dire quanto soffrisse quell'anima vanagloriosa; orgoglio, amor proprio deluso, speranze che crollavano: tutto si mescolava e la sua vita terminò fra attacchi di spaventosa follia e di furore.
«Un altro esempio stupefacente accadde anch'esso sotto gli occhi di tutti. Fra le belle donne di cui allora non era povera la nostra nordica capitale, una aveva decisamente conquistato la supremazia su tutte. Era una specie di meravigliosa fusione della nostra bellezza settentrionale con la bellezza del mezzogiorno, un brillante come se ne vedono di rado al mondo. Mio padre confessava che in tutta la sua vita non aveva mai visto niente di simile. Tutto pareva essersi fuso in lei: la ricchezza, l'intelligenza e il fascino dell'anima. I pretendenti erano una folla e fra' loro maggiormente in vista era il principe R., il più nobile, il migliore dei giovani, il più bello sia nel volto che per i suoi magnanimi e cavallereschi impulsi, perfetto ideale dei romanzi e delle donne, un Grandinson sotto tutti gli aspetti. Il principe R. era innamorato in modo appassionato e folle; ed era corrisposto da un amore altrettanto ardente. Ma il partito non sembrava abbastanza buono ai parenti della ragazza. Le tenute avite del principe da tempo ormai non gli appartenevano più, la famiglia era in disgrazia e la cattiva situazione dei suoi affari era nota a tutti. D'improvviso il principe lasciò la capitale, per andare a rimettere in sesto i suoi affari; ricomparve dopo non molto tempo, circondato da un lusso e da uno splendore incredibili. I suoi balli e le sue feste sfavillanti lo rendono noto a corte. Il padre della ragazza si convince e così si celebra uno splendido matrimonio. Nessuno sapeva spiegare con certezza a cosa attribuire quel cambiamento e l'inaudita ricchezza dello sposo; ma si diceva sotto sotto che egli avesse concluso un patto con un misterioso usuraio, ottenendone un prestito. Comunque fosse, il matrimonio interessò l'intera città. Sia lo sposo sia la sposa erano oggetto dell'invidia generale. A tutti era noto il loro ardente, tenace amore, i lunghi struggimenti sofferti da entrambi, le alte qualità di tutti e due. Le donne appassionate si figuravano già in anticipo le delizie paradisiache che avrebbero assaporato i giovani coniugi. Ma tutto andò diversamente. Nello spazio di un anno nel marito avvenne un terribile mutamento. Il veleno di una gelosia sospettosa, dell'intolleranza e di inesauribili capricci contagiò quel carattere fino allora nobile e buono. Egli divenne il tiranno e il torturatore di sua moglie e, cosa che nessuno avrebbe potuto prevedere, ricorse alle azioni più disumane, persino alle percosse. In un solo anno nessuno avrebbe più riconosciuto quella donna che ancora poco tempo prima brillava e attirava folle di docili spasimanti. Finalmente , non avendo la forza di sopportare oltre il suo pesante destino, ella parlò di divorzio. Il marito montò su tutte le furie al solo pensiero d'una cosa simile. Nel suo primo gesto di rabbia irruppe nella stanza di lei con un coltello e l'avrebbe senza dubbio scannata su due piedi se non l'avessero trattenuto e fermato. Allora, in un impulso di frenesia e di disperazione, egli rivolse il coltello contro di sè e terminò la sua vita fra i più spaventosi tormenti.
«Oltre a questi due esempi, avvenuti sotto gli occhi di tutta la buona società, se ne raccontavano moltissimi accaduti nelle classi inferiori, quasi tutti terminati in modo terribile. Un uomo sobrio e onesto diventava un ubriacone; un commesso di mercante derubava il proprio padrone; un vetturino che per anni aveva lavorato onestamente, uccideva per pochi centesimi il cliente. Era naturale che simili avvenimenti, raccontati spesso con le debite aggiunte, suscitassero una specie d'involontario terrore fra i modesti abitanti di Kolòmna. Nessuno dubitava della presenza d'una forza demoniaca in quell'uomo. Dicevano che egli proponesse condizioni che facevano rizzare i capelli in testa e che poi l'infelice non osava mai riferire ad alcuno; che il suo denaro avesse una proprietà magnetica, che si arroventasse da solo e avesse certi strani segni... insomma, correvano molte voci assurde d'ogni genere. Ed è sintomatico il fatto che tutta la popolazione di Kolòmna, tutto quel mondo di vecchie in miseria, di piccoli funzionari, di mediocri artisti e, insomma, d'ogni genere di minutaglia, di cui ho testè parlato, preferisse sopportare la miseria più squallida piuttosto che rivolgersi al terribile usuraio; erano state trovate morte di fame delle vecchie, rassegnate a lasciar estinguere il proprio corpo piuttosto di uccidere l'anima. Incontrandolo per stada, la gente provava un inconscio terrore. Il passante indietreggiava cautamente e poi si voltava ancora a lungo, seguendo la sua altissima figura che si dileguava lontano. Il suo stesso aspetto era così insolito che chiunque era spinto suo malgrado ad attribuirgli facoltà soprannaturali. Quei lineamenti forti, intagliati così profondamente come non accade di vederne in un essere umano; l'ardente, bronzeo colore del volto; l'incredibile foltezza dei sopraccigli; gli occhi terribili e dallo sguardo insostenibile; e persino le larghe pieghe della sua veste asiatica, tutto pareva dire che, rispetto alle passioni che si agitavano in quel corpo, le passioni degli altri erano sbiadite. Mio padre si fermava e restava immobile ogni volta che lo incontrava e ogni volta non sapeva trattenersi dall'esclamare: ‹Un diavolo, un vero diavolo!›
«Ma occorre che vi presenti ora mio padre, che fra l'altro il vero soggetto di questa storia. Mio padre era un uomo notevole sotto molti riguardi. Era un artista come ce ne sono pochi, uno di quei prodigi che solamente la Russia fa uscire dalle sue intatte viscere, un artista autodidatta, che da solo, senza maestri e scuole, aveva trovato nella propria anima le regole e le leggi, affascinato solamente dalla sete di perfezione, e che, per ragioni che forse neppure egli conosceva, seguiva sempre e soltanto la strada indicatagli dall'anima. Era uno di quei fenomeni spontanei che sovente i contemporanei gratificano dell'offensivo epiteto di ‹ignoranti›, e che non si scoraggiano per gli schemi e gli insuccessi, ma anzi ne traggono nuovo slancio e nuove forze, e arrivano a superare in se stessi le opere per cui furono chiamati ignoranti. Con un istinto interiore egli fiutava la presenza di un'idea in ogni oggetto; da solo aveva compreso l'autentico significato dell'espressione: ‹pittura storica›; aveva compreso perchè una semplice testa, un semplice ritratto di Raffaello, di Leonardo da Vinci, di Tiziano, di Correggio è una ‹pittura storica›, mentre un enorme quadro di soggetto storico rimane sempre un tableau de genre, per quanto l'artista pretenda di fare della pittura storica. Sia il sentimento interiore, sia le sue personali convinzioni avevano rivolto il suo pennello ai soggetti cristiani, supremo e ultimo grado dell'eccelso. Egli non era ambizioso e suscettibile, caratteri che si ritrovano così spesso in molti artisti. Era di indole ferma, un uomo onesto, rettilineo, persino rozzo, esteriormente coperto da una scorza piuttosto dura, non privo d'un certo orgoglio; nei confronti degli altri si esprimeva con indulgenza e asprezza insieme. ‹Cosa vuoi che li guardi,› diceva solitamente, ‹non è per loro che lavoro. Non è in un salotto che porto i miei quadri, ma li metteranno in una chiesa. Chi li capirà, mi ringrazierà; chi non li capirà, pregherà egualmente Dio. Non c'è da incolpare l'uomo di mondo, egli non s'intende di pittura; s'intende di carte da giuoco, è esperto di buoni vini, di cavalli; perchè un signore dovrebbe saperne di più? Se poi vuole assaggiare questo e quello, e se ne va in giro a sputar sentenze, non ti lascia più vivere! A ciascuno il suo, che ciascuno si occupi del suo. Secondo me, è meglio chi ti dice apertamente di non capirne nulla, di chi fa l'ipocrita, dice di sapere ciò che non sa e riesce solo a rovinare e sciupare tutto.› Egli dipingeva per pochi soldi, per quanto gli era necessario per il sostentamento della famiglia e per portare avanti il lavoro. Per di più non rifiutava mai di aiutare gli altri o di porgere una mano a un pittore povero; credeva con la fede semplice e pia degli avi e forse per questo dai volti dipinti da lui emanava naturalmente quell'espressione elevata che ingegni anche più brillanti non riescono a raggiungere. Insomma, con la costanza del suo lavoro e la fedeltà alla via che egli stesso s'era tracciato, cominciò a conquistare anche il rispetto di quelli che l'avevano chiamato ignorante e autodidatta casalingo. Aveva continue commissioni per le chiese e il lavoro non gli mancava mai. Uno di questi lavori lo impegnò fortemente. Non ricordo più in che cosa precisamente consistesse il soggetto, so soltanto che nel quadro occorreva raffigurare lo spirito delle tenebre. Egli pensò a lungo quale aspetto dargli; voleva che il suo volto esprimesse tutto ciò che angoscia e opprime l'uomo. Durante queste riflessioni gli veniva talvolta in mente l'immagine del misterioso usuraio ed egli pensava senza volerlo: ‹Ecco chi dovrei dipingere in veste di diavolo.› Giudicate dunque del suo stupore quando una volta, mentre lavorava nel suo studio, udì bussare alla porta e subito dopo vide venire verso di lui il terribile usuraio. Mio padre sentì come un fremito interno che gli percorse tutto il corpo.
«‹Sei pittore?› chiese senza tanti complimenti l'usuraio a mio padre.
«‹Sì, pittore,› rispose mio padre perplesso, in attesa di vedere che cosa ne sarebbe seguito.
«‹Bene. Fammi il ritratto. Forse io presto morirò, non ho figli; ma non voglio morire del tutto, voglio vivere ancora. Puoi dipingere un ritratto che sia veramente vivo?›
«Mio padre pensò: ‹Che c'è di meglio? È lui stesso che chiede di fare da diavolo nel mio quadro.› E diede la sua parola. Si misero d'accordo sul tempo e sul prezzo e il giorno dopo, presi i pennelli e la tavolozza, mio padre era già dall'usuraio. L'alto cortile, i cani, le porte e i catenacci di ferro, le finestre ad arco, i forzieri ricoperti di strani tappeti e, infine, lo stesso non comune padrone che stava seduto immobile davanti a lui, tutto questo gli produsse una strana impressione. Come a farlo apposta, le finestre erano ostruite dal basso all'alto da cumuli di roba ammucchiata, sicchè davano luce solamente dalla sommità. ‹Al diavolo, come è illuminata bene adesso la sua faccia!› disse fra sè mio padre e si accinse avidamente a dipingere, come temendo che quella felice illuminazione scomparisse. ‹Che forza!› ripetè fra sè, ‹se mi riesce di ritrarlo anche solo in parte com'è ora, questo mi ammazza tutti i miei santi e angeli! Li fa impallidire tutti! Che forza demoniaca! Se posso avvicinarmi al vero anche solo un poco, questo mi salta fuori dalla tela. Che lineamenti straordinari!› ripeteva di continuo, accrescendo il suo zelo, e già vedeva egli stesso come certi tratti cominciassero a passare sulla tela.
«Ma, quanto più si avvicinava a quei lineamenti tanto più provava una sorta di senso d'oppressione e d'ansia, che gli riusciva incomprensibile. Malgrado ciò, si propose di perseguire con fedeltà letterale ogni più minuta fattezza ed espressione. Prima di tutto volle portare a compimento gli occhi. In quegli occhi c'era tanta forza che pareva non si potesse nemmeno pensare di renderli fedelmente, così com'erano in realtà. Egli però decise di scoprire in essi anche l'ultima e minima sfumatura, di capirne il segreto... Ma, appena cominciò a entrare, a inoltrarsi in essi con il pennello, nella sua anima nacque una così strana repulsione, un così incomprensibile senso di angoscia, che per un certo tempo dovette posare il pennello; solo dopo un poco potè riprenderle, e mettersi di nuovo al lavoro. Ma alla fine non potè più resistere; sentiva che quegli occhi gli si infiggevano nell'anima e vi producevano un'agitazione indicibile. Il secondo, il terzo giorno questa sensazione fu ancor più forte. Egli cominciò ad aver paura. Lasciò il pennello e disse senza mezzi termini che non poteva più dipingere. Bisognava vedere come cambiò a quelle parole lo strano usuraio. Gli si gettò ai piedi e lo supplicò di terminare il ritratto, dicendo che da questo dipendevano il suo destino e la sua esistenza al mondo, che con il suo pennello lui aveva già sfiorato i suoi tratti vivi; che, se li avesse resi con fedeltà, la sua vita, per forza soprannaturale, sarebbe rimasta nel ritratto, e lui non sarebbe mai morto del tutto, perchè doveva continuare a esser presente nel mondo. Mio padre provò orrore a queste parole: esse gli parvero talmente strane e terribili, che gettò via tavolozza e pennelli e si precipitò all'impazzata fuori della stanza. Il pensiero di ciò che era accaduto lo agitò per tutta la giornata e per tutta la notte. Il mattino dopo, ricevette da parte dell'usuraio il ritratto, portatogli da una donna, l'unica persona al suo servizio, la quale dichiarò che il padrone non voleva più il ritratto, non gli avrebbe pagato nulla e glielo mandava indietro. Tutto questo gli sembrò molto strano. Da quel momento, il carattere di mio padre cominciò a cambiare: avvertiva un'inquietudine, un'ansia, di cui egli stesso non sapeva capire la causa, e ben presto corrimise un atto che nessuno si sarebbe mai aspettato da lui: da un certo tempo i lavori d'un suo allievo avevano cominciato ad attrarre l'attenzione di una piccola cerchia di conoscitori e di amatori. Mio padre aveva sempre viste, in lui del talento e per questo l'aveva seguito con particolare simpatia. Improvvisamente provò per lui dell'invidia. La simpatia di tutti per quel giovane, il bene che se ne diceva, gli diventarono insopportabili. Infine, a compimento del suo disappunto, venne a sapere che al suo allievo era stato proposto di dipingere un quadro per una ricca chiesa di nuova costruzione. Questo lo fece esplodere: ‹No, non lascerò che quel poppante trionfi!› disse. ‹Troppo presto s'è messo in testa di gettare i vecchi nel fango! Ma ho ancora forza, grazie a Dio. Vedremo chi cascherà prima nel fango!›
«E quell'uomo rettilineo, d'animo onesto, ricorse a intrighi e manovre di cui fino allora aveva sempre avuto repugnanza; ottenne infine che per il quadro fosse bandito un concorso e vi potessero partecipare anche altri artisti con i loro lavori. Dopo di che si chiuse nella sua stanza e si impegnò con ardore nella pittura. Pareva che volesse mettervi tutte le sue forze, tutto se stesso. Ed effettivamente ne uscì una delle sue opere migliori. Nessuno dubitava che il primato spettasse a lui. Vennero presentati i quadri e tutti sembrarono come la notte rispetto al giorno in confronto al suo. Quando a un tratto uno dei giudici presenti, se non sbaglio un religioso, fece un'osservazione che stupì i presenti:
«‹Effettivamente in questo quadro c'è molto talento,› disse, ‹ma non c'è santità nei volti; al contrario, c'è persino qualcosa di demoniaco negli occhi, come se un sentimento impuro avesse guidato la mano dell'artista.›
«Tutti guardarono e non poterono non persuadersi della verità di queste parole. Mio padre si precipitò avanti, verso il suo quadro, come per difenderlo da un'osservazione così offensiva; ma vide con orrore che a quasi tutte le figure aveva dato gli occhi dell'usuraio. Essi guardavano in modo così diabolicamente distruttivo, che lui stesso tremò. Il quadro venne respinto e, con sua indescrivibile stizza, egli vide che la preferenza veniva data al suo allievo. Non è possibile dire il furore in preda al quale fece ritorno a casa. Per poco non percosse mia madre, cacciò via i figli, spezzò pennelli e tavolozza, chiese un coltello, afferrò dalla parete il ritratto dell'usuraio, e ordinò di accendere il fuoco nel camino con l'intenzione di bruciarlo. Così lo trovò un amico entrato in quel momento nella stanza, anche lui pittore, buontempone sempre contento di sè, che non si poneva mai mete irrealizzabili, che faceva allegramente qualunque cosa e ancor più allegramente si dedicava a pranzi e banchetti.
«‹Che fai, cosa vuoi bruciare?› disse, e si avvicinò al ritratto. ‹Caspita, ma questa è una delle tue opere migliori! È quell'usuraio morto da poco; mi sembra molto bello, perfetto direi. Non solo l'hai fatto identico, ma gli sei entrato dentro gli occhi. Quegli occhi in vita non hanno mai guardato così come guardano adesso.›
«‹E adesso starò a vedere come guarderanno quando saranno dentro il fuoco, › disse mio padre facendo il gesto di scaraventare il ritratto nel caminetto.
«‹Fermati, per amor di Dio!› disse l'amico trattenendolo. ‹Dallo piuttosto a me, se ti offende a tal punto la vista.›
«Dapprima mio padre si oppose, ma infine acconsentì e il buontempone, felicissimo del suo acquisto, si portò il ritratto a casa.
«Appena se ne fu andato, di colpo mio padre si sentì più tranquillo. Come se, insieme con il ritratto, gli fosse caduto un peso dall'anima. Si stupì allora dei suoi bassi sentimenti, della sua invidia, e del palese mutamento del suo carattere. Esaminato il proprio modo d'agire, fu preso dalla tristezza e non senza un'intima afflizione disse:
«‹No, è stato Dio a punirmi; il mio quadro ha subìto un'onta meritata. L'avevo ideato per danneggiare un fratello. A stato il sentimento infernale dell'invidia a guidare il mio pennello, ed era giusto che un sentimento infernale si riflettesse nel quadro.›
«Si recò immediatamente dal suo ex allievo, lo abbracciò con forza, gli chiese perdono e cercò in ogni modo di cancellare la sua colpa dinanzi a lui. Ricominciò a lavorare tranquillamente; ma il suo viso diventava sempre più pensieroso. Adesso pregava di più, era più spesso taciturno e non s'esprimeva più così bruscamente sulle persone; la stessa apparenza rozza del suo carettere in un certo senso si raddolcì. Ben presto una circostanza lo scosse ancora di più. Da tempo non vedeva il collega che gli aveva chiesto il ritratto. Un giorno che si accingeva ad andarlo a trovare, d'improvviso questi entrò nella sua stanza. Dopo alcune parole e domande da entrambe le parti, disse:
«‹Bene, mio caro, avevi ragione di voler bruciare il ritratto. Il diavolo lo porti, ha qualcosa di strano... Io non credo alle streghe, ma, di' quel che ti pare, in esso c'è una forza impura...›
«‹Come?› disse mio padre.
«‹Già, da quando l'ho appeso in casa, ho cominciato a sentire una tale oppressione... come se avessi voglia di ammazzare qualcuno. In vita mia non ho mai saputo che cosa fosse l'insonnia e invece non solo soffro d'insonnia, ma faccio certi sogni... non saprei dire nemmeno io se si tratta di sogni o di qualcos'altro: è come se un folletto venisse a strangolarmi; e poi ho sempre la visione di quel maledetto vecchio. Insomma, mi è difficile descriverti cosa provo. Non mi era mai successo nulla di simile. Per tutti questi giorni ho vagato come un pazzo: sentivo una specie di paura, quasi mi aspettassi qualcosa di sgradevole. Sentivo che non potevo dire a nessuno una parola allegra e sincera, come se avessi sempre accanto qualcuno, una spia. E solo da quando ho dato il ritratto a un nipote che me l'ha chiesto, mi è sembrato che mi cadesse una pietra dalle spalle: tutt'a un tratto mi sono sentito allegro, come puoi vedere. Già, mio caro, hai fatto un diavolo!›
«Durante questo racconto mio padre l'ascoltò con un'attenzione che nulla poteva distrarre e infine domandò:
«‹E il ritratto adesso è da tuo nipote?›
«‹Macchè dal nipote! Non ha resistito!› disse il buontempone. ‹Si vede che ci si è proprio trasferita dentro l'anima dell'usuraio: salta fuori dalla cornice, passeggia per la stanza; e quel che mi ha raccontato mio nipote è semplicemente inconcepibile. L'avrei preso per matto se in parte non avessi provato anch'io lo stesso. L'ha ceduto a un collezionista di quadri, ma nemmeno quello ha resistito e l'ha venduto.›
«Questo racconto produsse una forte impressione su mio padre. S'impensierì seriamente, cadde in uno stato d'ipocondria e infine si persuase definitivamente che il suo pennello fosse servito da strumento del diavolo, che una parte della vita dell'usuraio fosse passata in qualche modo nel ritratto e turbasse adesso la gente, suscitando impulsi diabolici, facendo deviare gli artisti dalla loro strada, suscitando i terribili tormenti dell'invidia, e così via. Tre disgrazie sopravvenute quasi di seguito, le tre morti improvvise della moglie, della figlia e d'un figlio piccolo, furono da lui considerate un castigo celeste, ed egli decise di abbandonare il mondo. Non appena compii i nove anni, egli mi collocò presso l'Accademia delle Arti e, fattosi pagare da tutti i debitori, si ritirò in un creeremo lontano dove ben presto si tonsurò e si fece monaco. Là, con il rigore della sua vita, con l'incessante osservanza di tutte le regole monastiche, stupì tutta la confraternita. Il priore del monastero, avendo saputo dell'arte del suo pennello, gli chiese di dipingere l'immagine grande per la chiesa. Ma l'umile fratello disse categoricamente che non era degno di prendere in mano il pennello, perchè esso era contaminato; che doveva purificare la propria anima con la fatica e le privazioni, prima di essere degno di accingersi a un'opera simile. Egli stesso, per quanto poteva, aggravava il rigore della vita monastica. Ma alla fine neanche questa gli bastò, neanche questa gli sembrò abbastanza severa, e con la benedizione del priore si ritirò nel deserto per vivervi completamente solo. Là si costruì una rozza capanna, si nutrì soltanto di radici crude, trascinò pietre da un luogo all'altro, rimase immobile nello stesso posto, dal sorger del sole al tramonto, con le mani protese verso il cielo, pregò senza tregua. Per farla breve, ricercò le prove più dure, quell'irraggiungibile rinuncia a se stesso i cui esempi si possono forse trovare solo nelle vite dei santi. Così mortificò a lungo, durante molti anni, il proprio corpo, temprandolo nello stesso tempo con la forza vivificante della preghiera. Infine, un giorno ritornò all'eremo e disse con fermezza al priore:
«‹Adesso sono pronto. Se a Dio piace, eseguirò il mio lavoro.›
«Il tema che scelse era la natività di Gesù. Vi lavorò un anno senza uscire dalla sua cella, nutrendosi appena di parco cibo, pregando di continuo. Allo scadere di dodici mesi il quadro era pronto. Esso era davvero un miracolo del pennello. È bene sapere che nè i confratelli nè il priore avevano grandi cognizioni di pittura, eppure tutti furono sbalorditi dall'eccezionale santità delle figure. Il sentimento di divina mitezza e umiltà sul viso della Madre purissima china sul neonato, la profonda pensosità negli occhi del divino fanciullo, che parevano già penetrare nel futuro, il solenne silenzio dei Re Magi colpiti dal divino miracolo e prosternati ai suoi piedi; e, infine, la sacra ineffabile calma di cui era soffuso l'intero quadro - tutto questo apparve con tanta armoniosa forza e potente bellezza che l'impressione fu magica. L'intera comunità cadde in ginocchio di fronte alla nuova immagine e il priore commosso disse:
«‹No, un uomo, con l'aiuto della sola arte umana, non può creare un quadro simile: una santa forza superiore ha guidato il tuo pennello e la benedizione del cielo riposa nella tua fatica.›
«In quel tempo io terminai i miei studi all'Accademia, ottenni la medaglia d'oro e, insieme con essa, la gioiosa speranza d'un viaggio in Italia: il sogno più bello per un artista ventenne. Mi restava soltanto da congedarmi da mio padre, dal quale ero separato già da dodici anni. Avevo molto sentito dire della santità della sua vita, e m'immaginavo di trovare un anacoreta incartapecorito, estraneo ad ogni cosa al mondo eccetto la sua cella e la preghiera, macerato, inaridito dai digiuni e dalle veglie. E come mi meravigliai invece quando vidi davanti a me un vecchio meraviglioso, quasi divino! Sul suo viso non si scorgeva traccia di privazioni: esso scintillava della luce della beatitudine celeste. La barba bianca come la neve e i capelli sottili, quasi aerei, dello stesso colore argenteo, si spandevano in modo pittoresco sul petto e sulle pieghe della sua tonaca nera e cadevano fino alla cintura che cingeva il suo povero abito monastico, ma più sorprendente di tutto fu per me sentire dalle sue labbra parole e pensieri sull'arte che, vi assicuro, custodirò a lungo nell'anima con il sincero desiderio che ogni mio collega faccia lo stesso.
«‹Ti aspettavo, figlio mio,› diss'egli quando mi accostai per averne la benedizione. ‹Ti attende il cammino per il quale d'ora innanzi procederà la tua vita. Il tuo cammino è pulito, non deviare da esso. Tu hai talento; il talento è un dono prezioso di Dio, non ucciderlo. Esplora, studia ogni cosa, assoggetta al pennello tutto ciò che vedi, ma in tutto sappi trovare l'idea interiore e in primo luogo sforzati di comprendere il grande mistero della creazione. Beato l'eletto che lo possiede. Per lui non v'è soggetto spregevole nella natura. Nell'insignificante l'artista creatore è grande come nell'eccelso; la cosa più bassa per lui non è bassa, perchè invisibilmente trapela in essa l'anima meravigliosa di chi crea, e la cosa bassa viene così sublimemente espressa, perchè passa attraverso il purgatorio della sua anima. Nell'arte, è racchiusa un'allusione al divino, al paradiso celeste, e già per questo essa è più alta d'ogni altra cosa. E quanto la quiete solenne è più alta d'ogni agitazione mondana, la creazione della distruzione, l'angelo con la sola pura innocenza della sua anima luminosa di tutte le innumerevoli forze e le orgogliose passioni di Satana, tanto una sublime creazione dell'arte è più alta d'ogni altra cosa che esista al mondo. Sacrificale tutto e amala con tutta la passione, non con la passione che alita terrestre concupiscenza, ma con la quieta passione celeste; senza di essa l'uomo non ha il potere di sollevarsi da terra e non può emettere i mirabili suoni che danno la pace. Giacchè è per acquietare e pacificare che scende nel mondo la sublime opera d'arte. Essa non spinge l'anima all'insoddisfazione, ma con risonante preghiera eternamente tende a Dio. Ma vi sono momenti, oscuri momenti...›
«Egli si fermò ed io vidi d'un tratto rabbuiarsi il suo volto luminoso, come se vi fosse passata una nube subitanea.
«‹C'è un avvenimento nella mia vita,› proseguì. ‹Non riesco a capire ancor oggi chi fosse quella strana figura di cui dipinsi un giorno il ritratto. Ma certo era qualcosa di diabolico. Lo so, il mondo nega l'esistenza del diavolo, e perciò non parlerò di questo; dirò soltanto che dipinsi quel ritratto con repulsione, che non provai durante quel tempo nessun amore per la mia opera. Pure, volli vincermi con la violenza e, soffocato tutto, essere passivamente fedele al vero. Ma quella non fu una creazione dell'arte e perciò i sentimenti di chiunque la guardi sono sentimenti di rivolta, sentimenti di angoscia, non i sentimenti che genera un artista, perchè un artista anche nell'angoscia esprime tranquillità. Mi hanno detto che quel ritratto passa di mano in mano suscitando impressioni funeste, generando nell'artista il sentimento dell'invidia, d'un cupo odio verso il fratello, la malvagia bramosia di attuare persecuzioni e oppressioni. Ti protegga l'Altissimo da queste passioni! Non c'è niente di più terribile di esse. Meglio sopportare noi stessi l'amarezza di tutte le persecuzioni che infliggerne ad altri anche una sola. Salva la purezza della tua anima. Chi racchiude in sè del talento deve aver l'anima più pura di ogni altro. A un altro molto si perdona, ma a lui non si perdonerà. A chi è uscito di casa con un chiaro abito festivo basta una sola macchia di fango schizzata da una ruota perchè tutta la gente lo circondi e lo segni a dito e parli della sua sporcizia, mentre la stessa gente non nota le molte macchie sugli altri passanti vestiti di abiti quotidiani. Perchè sugli abiti di tutti i giorni non si notano le macchie.›
«Egli mi benedisse e mi abbracciò. Nella mia vita non mi ero mai sentito trasportato così in alto. Con venerazione, più ancora che con sentimento filiale, mi strinsi al suo petto e lo baciai sui fluenti capelli d'argento. Una lacrima brillò nei suoi occhi.
«‹Esaudisci, figlio mio, una mia preghiera,› mi disse quando ormai ci congedavamo. ‹Forse ti accadrà di vedere in qualche posto il ritratto di cui ti ho parlato. Lo riconoscerai subito dagli occhi insoliti e dalla loro espressione innaturale; distruggilo a ogni costo...›
«Potete voi stessi giudicare se avrei potuto non promettere, non giurare di esaudire quella preghiera. Per quindici anni non mi è mai capitato di trovare nulla che in qualche modo assomigliasse alla descrizione fattami da mio padre, quando a un tratto, adesso, a quest'asta...»
Qui l'artista, senza terminare la frase, rivolse gli occhi alla parete per guardare ancora una volta il ritratto. Lo stesso movimento fece istantaneamente la folla degli ascoltatori, cercando con gli occhi l'insolito ritratto. Ma, con somma meraviglia di tutti, esso non era più sulla parete. Un parlottio indistinto e un brusio corsero per tutta la folla e subito dopo si udì chiaramente la parola «...rubato». Qualcuno era già riuscito a portarlo via, approfittando dell'attenzione degli ascoltatori assorti nel racconto. E a lungo tutti i presenti restarono perplessi, non sapendo se avessero effettivamente visto quegli occhi terribili o se non si fosse trattato solo di una visione balenata un istante ai loro sguardi, affaticati dall'aver per tanto tempo contemplato vecchi quadri.