lunedì 28 gennaio 2019

Zio Petros e la congettura di Goldbach
Apostolos Doxiadis
Trama
Zio Petros è la “pecora nera” della famiglia Papachristos: i due fratelli minori si sono impegnati nella ditta di famiglia, mentre lui si dedica al giardinaggio e agli scacchi, dopo aver sprecato il suo grande dono, il talento per la matematica.

Il nipote resta però affascinato da questo zio e, alimentato da una forte passione per la matematica, cerca il suo appoggio nel proseguimento degli studi. Al contrario delle aspettative, lo zio non sembra lusingato dall’interesse del nipote e cerca di fargli cambiare strada. Infatti, gli propone un difficile problema di matematica: se non riuscirà a risolverlo, dovrà rinunciare a studiare matematica. Al termine dell’estate, il nipote non è giunto alla soluzione del problema e lo zio gli fa firmare un foglio nel quale dichiara che non cercherà mai di ottenere una laurea in matematica. Il nipote, sfiduciato, parte per gli Stati Uniti, dove decide di conseguire una laurea in economia. All’inizio del terzo anno di studi, il suo compagno di stanza, Sammy, studente di matematica, gli rivela che il problema che gli aveva sottoposto lo zio non era altro che la Congettura di Goldbach, uno dei tre problemi più difficili della matematica....
Christian Goldbach formulò questa congettura alla corte dello zar, come tutore dello zar erede. Nel libro però non appare solo il nome di Goldbach, ma anche di altri scienziati più o meno importanti come EuleroCarl Friedrich GaussGodfrey Harold HardyJohn Edensor LittlewoodAlan TuringSrinivasa RamanujanPitagoraPierre de FermatBernhard Riemann e il matematico indispensabile per lo svolgimento della vicenda: Kurt Gödel, autore del teorema dell'incompletezza. (Wikipedia)



Zio Petros e la Congettura di Goldbach 
Apostolos Doxiadis
Titolo originale: Uncle Petros and Goldbach’s Conjecture 
Traduzione dall’inglese di Ettore Capriolo
 1
Ogni famiglia ha la sua pecora nera – nella nostra era zio Petros. 
Mio padre e zio Anargyros, i suoi fratelli minori, fecero in modo che i miei cugini e io ereditassimo, incontestata, l’opinione che avevano di lui. 
«Quel buono a nulla di mio fratello Petros è uno dei prototipi del fallito», diceva mio padre, ogni volta che se ne presentava l’occasione. E zio Anargyros, durante le riunioni famigliari, abitualmente disertate da zio Petros, accompagnava sempre ogni menzione del suo nome con sbuffi e smorfie che esprimevano, a seconda del suo umore, disapprovazione, disprezzo o semplice rassegnazione. 
Devo però dire una cosa a loro merito: nelle faccende finanziarie i due fratelli lo trattavano con scrupolosa correttezza. Benché zio Petros non avesse mai condiviso, neanche in minima parte, le fatiche e le responsabilità della gestione della fabbrica che i tre avevano congiuntamente ereditato da mio nonno, mio padre e zio Anargyros gli versavano immancabilmente la sua quota di profitti. (Questo per un forte senso della famiglia, altra eredità comune.) E zio Petros li ripagò della stessa moneta. Non essendosi mai fatto una famiglia, quando morì lasciò a noi, suoi nipoti, figli dei suoi magnanimi fratelli, il patrimonio che si era moltiplicato nel suo conto in banca, rimasto praticamente intatto nella sua interezza. 
A me in particolare, il “nipote prediletto” (parole sue), lasciò inoltre la sua enorme biblioteca, che io, a mia volta, donai alla Società Matematica Ellenica. Tenni per me soltanto due pezzi, il diciassettesimo volume dell’Opera omnia di Leonard Eulero e il numero 38 della rivista scientifica tedesca Monatshefte für Mathematik und Physik. Questi piccoli ricordi avevano un valore simbolico, in quanto delineavano i confini di quella che fu, in essenza, la sua vita. Il punto di partenza è in una lettera del 1742, inclusa nella prima raccolta, dove il modesto matematico Christian Goldbach richiama l’attenzione del grande Eulero su una certa osservazione aritmetica. E la conclusione, per così dire, possiamo trovarla alle pagine 183-198 dell’erudita rivista tedesca, in uno studio dal titoloSu proposizioni formalmente indecidibili in «Principia Mathematica» e in sistemi affini, scritto nel 1931 dal matematico viennese Kurt Gödel, allora totalmente sconosciuto. 

Fino a metà dell’adolescenza, vedevo zio Petros solo una volta all’anno, nella rituale visita del giorno del suo compleanno, il 29 giugno, festa di San Pietro e Paolo. La consuetudine di questa riunione annuale era stata avviata da mio nonno ed era diventata di conseguenza un sacro obbligo per la nostra famiglia ipertradizionalista. L’intera tribù si metteva in viaggio per Ekali, oggi un sobborgo di Atene ma allora una sorta di isolato borgo silvano, dove zio Petros viveva da solo in una piccola casa circondata da un grande giardino e da un frutteto. 
Lo sprezzante atteggiamento di mio padre e di zio Anargyros nei confronti del fratello maggiore mi aveva sconcertato fin dai più teneri anni ed ero arrivato a considerarlo un vero mistero. La discrepanza fra le loro descrizioni e l’impressione che m’aveva fatto nei nostri rari contatti personali era talmente clamorosa che anche una mente immatura come la mia non poteva fare a meno di interrogarsi. 
Invano tenevo d’occhio zio Petros durante le nostre visite annuali, cercando nel suo aspetto o nel suo comportamento segni di dissolutezza, d’indolenza o di altre caratteristiche dei reprobi. Ogni raffronto, anzi, tornava indiscutibilmente a suo vantaggio. I fratelli minori erano collerici e spesso decisamente villani nei rapporti con la gente, mentre zio Petros era cortese e rispettoso, e i suoi azzurri occhi infossati brillavano di gentilezza. I due erano grandi bevitori e fumatori, mentre lui non beveva che acqua e aspirava soltanto l’aria profumata del suo giardino. Inoltre, a differenza di mio padre, che era corpulento, e di zio Anargyros, che era addirittura obeso, Petros aveva la sana magrezza che deriva da una vita frugale e fisicamente attiva. 
La mia curiosità cresceva col passare degli anni. Con mia grande delusione, però, mio padre si rifiutava di darmi informazioni su zio Petros, all’infuori della solita sprezzante formula stereotipata, “uno dei prototipi del fallito”. Da mia madre, seppi invece qualcosa delle sue attività quotidiane (non si poteva certo parlare di un’occupazione): si alzava ogni mattina allo spuntar dell’alba e passava quasi tutte le ore di luce sgobbando nel suo giardino, senza l’aiuto di un giardiniere o di qualche moderna macchina per risparmiar fatica – e i fratelli, sbagliando, per questo lo tacciavano di spilorceria. Usciva raramente di casa, se non per recarsi una volta al mese in una piccola istituzione filantropica fondata da mio nonno, dove offriva gratuitamente i propri servigi di tesoriere. E a volte andava in “un altro posto” che lei non specificava. La sua casa era un vero eremo; a parte l’annuale invasione della famiglia, non riceveva mai visite. Zio Petros non aveva, insomma, nessuna vita sociale. La sera rimaneva in casa e – a questo punto mia madre aveva abbassato la voce fin quasi a un sussurro – “s’immergeva nei suoi studi”. 
Allora la mia attenzione toccò improvvisamente il massimo.
«Quali studi?» 
«Lo sa Dio», rispose mia madre, evocando nella mia immaginazione fanciullesca visioni di alchimia, di esoterismo o peggio. 
Un’altra informazione inaspettata mi permise di identificare il misterioso “altro posto” frequentato da zio Petros. La fornì una sera un signore invitato a cena da mio padre. 
«L’altro giorno, al club ho visto tuo fratello Petros. Mi ha distrutto con una “Karo-Cann”», aveva aggiunto, e io allora intervenni, guadagnandomi un’occhiata irritata di mio padre. 
«Cosa intende dire? Cos’è una “Karo-Cann”?» 
Il nostro ospite spiegò che aveva voluto alludere a una particolare apertura degli scacchi che prendeva nome dai suoi inventori, i signori Karo e Cann. Evidentemente, zio Petros aveva l’abitudine di andare ogni tanto in un circolo scacchistico di Patissia, dove sbaragliava regolarmente i suoi malcapitati avversari. 
«Che giocatore!» sospirò l’ospite, con ammirazione. «Gli sarebbe bastato iscriversi a un torneo ufficiale per diventare un gran maestro.» 
A questo punto, mio padre cambiò discorso.
La riunione annuale della famiglia si teneva in giardino. Gli adulti sedevano intorno a un tavolo approntato nel patio pavimentato, bevendo, mangiucchiando e chiacchierando del più e del meno, con i due fratelli minori che si sforzavano – di solito senza molto successo – di essere gentili col festeggiato. Io e i miei cugini giocavamo fra gli alberi del frutteto. 
Una volta, ormai deciso a cercar di risolvere il mistero di zio Petros, chiesi di andare in bagno; speravo di poter esaminare l’interno della casa. Ma, con mia grande delusione, zio Petros mi indicò un piccolo gabinetto esterno, annesso al capanno degli attrezzi. L’anno dopo (avevo allora quattordici anni), il maltempo venne in aiuto alla mia curiosità. Un temporale costrinse mio zio ad aprire la porta-finestra e a condurci in uno spazio che l’architetto aveva chiaramente previsto come un soggiorno. Era altrettanto chiaro che il padrone di casa non lo usava per ricevere gli ospiti. Conteneva un divano, ma in una posizione del tutto inappropriata, rivolto verso una parete. Si portarono sedie dal giardino, e su di esse, disposte a semicerchio, prendemmo posto come dolenti a una veglia funebre di provincia. 
Feci una frettolosa ricognizione, con rapide occhiate in ogni direzione. I soli mobili che sembrassero d’uso quotidiano erano una logora e profonda poltrona davanti al caminetto e, accanto, un tavolino, sul quale stava una scacchiera con i pezzi disposti come durante una partita in corso. Di fianco, sul pavimento, vidi una grande pila di libri e periodici scacchistici. Era dunque qui che zio Petros veniva a sedersi ogni sera. Gli studi menzionati da mia madre dovevano essere studi sugli scacchi. Ma lo erano davvero? 
Non potevo permettermi di saltare a conclusioni affrettate, poiché si erano aperte nuove possibili ipotesi. La caratteristica principale della stanza in cui eravamo, così diversa dal soggiorno di casa nostra, era l’invadente presenza dei libri, innumerevoli e ovunque. Non solo tutte le pareti visibili della stanza, del corridoio e dell’ingresso erano coperte da terra al soffitto di scaffali stipati fino a traboccare, ma alte pile di volumi nascondevano anche quasi tutti i pavimenti. E sembravano in maggioranza vecchi e molto consultati. 
Per soddisfare la mia curiosità sul loro contenuto scelsi dapprima la via diretta. Gli chiesi:
«Cosa sono tutti quei libri, zio Petros?» 
Seguì un silenzio glaciale, come se avessi parlato di corda in casa di un impiccato.
«Sono... vecchi», mormorò esitante lo zio, dopo una rapida occhiata a mio padre. Ma sembrava così turbato nel cercare una risposta, e il suo sorriso era così debole, che non potei risolvermi a chiedere altre spiegazioni. 
Ricorsi ancora a un urgente bisogno fisiologico. Stavolta zio Petros mi condusse in un piccolo gabinetto adiacente alla cucina. Tornando in soggiorno, solo e inosservato, approfittai dell’occasione che io stesso avevo creato. Presi il libro in cima alla pila più vicina nel corridoio e lo sfogliai frettolosamente. Purtroppo era in tedesco, una lingua che mi era allora – e mi è tuttora – del tutto sconosciuta. Per di più, quasi tutte le pagine erano adorne di simboli che non avevo mai visto:
e
f e
. Notai anche segni più comprensibili: +, = e √ s inframmezzati con numeri e lettere sia latine che greche. La mia mente razionale disperse le fantasie cabalistiche: era matematica! 
Quel giorno lasciai Ekali totalmente assorto nella mia scoperta e indifferente ai rimproveri di mio padre durante il viaggio di ritorno ad Atene e alle sue ipocrite reprimende per la mia “maleducazione nei confronti dello zio” e per le “domande invadenti e indiscrete”. Come se a infastidirlo fosse stata la mia violazione delle norme delsavoir-vivre! 
La mia curiosità sull’altra faccia, sconosciuta, di zio Petros divenne, nei mesi successivi, qualcosa di molto simile a un’ossessione. Ricordo che, spinto da non so quale impulso irresistibile, nelle ore di lezione disegnavo sui miei quaderni ghirigori che mescolavano simboli matematici e scacchistici. Matematica e scacchi: in uno di questi ambiti si nascondeva probabilmente la soluzione del mistero che circondava lo zio, ma nessuno dei due forniva una spiegazione del tutto soddisfacente, né giustificava l’atteggiamento sprezzante dei suoi fratelli. Certo, questi due campi d’interesse (o era più che un semplice interesse?) non erano in sé biasimevoli. Da qualsiasi parte si volesse considerare la cosa, essere uno scacchista a livello di gran maestro o un matematico capace di divorare centinaia di formidabili tomi non ti poteva classificare automaticamente come “il prototipo del fallito”. 
Avevo bisogno di sapere, e per questo arrivai a ipotizzare un’impresa simile a quelle dei miei eroi letterari preferiti, un progetto degno dei Secret Seven di Enid Blyton, degli Hardy Boys o della loro incarnazione greca, “l’eroico Ragazzo Fantasma”. Studiai nei minimi particolari un’irruzione a casa dello zio, durante una delle sue spedizioni all’istituzione filantropica o al circolo scacchistico, per poter mettere finalmente le mani su qualche prova concreta di trasgressione. 

Ma come si misero le cose, per placare la mia curiosità non ebbi bisogno di ricorrere al crimine. Nel mio caso, Maometto non dovette andare alla montagna – fu la montagna che andò a lui. La risposta che cercavo mi piombò, per così dire, addosso. Ecco come successe. 
Un pomeriggio, mentre ero solo in casa a fare i compiti, suonò il telefono e andai a rispondere.
«Buona sera», disse una voce maschile che non conoscevo. «Chiamo per conto della Società Matematica Ellenica. Potrei parlare col professore, per piacere?» 
Automaticamente lo corressi:
«Deve aver sbagliato numero. Qui non c’è nessun professore.» 
«Oh, mi scusi», disse lui. «Avrei dovuto informarmi meglio. Ma non è casa Papachristos?» 
Ebbi un improvviso lampo d’ispirazione e agii di conseguenza. 
«Cerca forse il signor PetrosPapachristos?» domandai. 
«Sì», disse lui, «il professor Papachristos.» 
“Professore!”: permettimi, caro lettore, di ricorrere a un logoro cliché verbale in quella che, per il resto, è una storia piuttosto insolita: mi cadde quasi di mano il ricevitore. Repressi però l’eccitazione, per non perdere questa occasione inaspettata. 
«Oh, non avevo capito che si riferisse al professor Papachristos», dissi, in tono suadente. «Vede, questa è la casa di suo fratello, ma siccome il professore non ha il telefono [verità], siamo noi che riceviamo le sue telefonate [bugia sfacciata].» 
«Potrei allora avere il suo indirizzo?» domandò l’altro. Ma a questo punto avevo ritrovato il mio sangue freddo, e lui non poteva certo tenermi testa. 
«Il professore tiene moltissimo alla sua privacy», dissi con alterigia. «Riceviamo noi anche la sua posta.» 
Non gli avevo lasciato alternative.
«Allora può essere così gentile da darmi il vostro indirizzo. Vorremmo mandargli un invito per conto della Società Matematica Ellenica.» 
Nei giorni seguenti mi finsi malato per farmi trovare in casa nell’ora in cui di solito ci consegnavano la posta. Non dovetti aspettare molto. Il terzo giorno dopo la telefonata, ebbi in mano quella preziosa busta. Attesi fin dopo mezzanotte che i miei genitori si fossero addormentati e, raggiunta in punta di piedi la cucina, aprii la busta col vapore (altra lezione appresa dalla narrativa per ragazzi). 
Spiegai la lettera e lessi:

Signor Petros Papachristos
g. Professore di analisi
Università di Monaco

Onorevole professore,
la nostra Società sta organizzando una seduta speciale per commemorare il duecentocinquantesimo anniversario della nascita di Leonard Eulero con una conferenza su “La logica formale e i fondamenti della matematica”. 
Saremmo molto onorati, caro professore, se lei intervenisse e rivolgesse un breve saluto alla Società e ai partecipanti.

Insomma, quest’uomo, abitualmente liquidato dal mio caro babbo come “il prototipo del fallito”, era professore d’analisi all’università di Monaco – mi sfuggiva il significato della “g” minuscola che precedeva il suo titolo inaspettatamente prestigioso. In quanto alle imprese di quel Leonard Eulero, ancora ricordato e onorato a duecentocinquant’anni dalla nascita – non ne avevo la più vaga idea. 
La domenica successiva uscii di casa vestito da boy-scout, ma anziché andare alla riunione settimanale, presi l’autobus per Ekali, con in tasca la lettera della Società Matematica Ellenica. Trovai mio zio che, con un vecchio cappello in testa, le maniche rimboccate e una vanga in mano, stava tramutando il terreno in un appezzamento vegetale. Fu sorpreso di vedermi. 
«Come mai qui?» domandò. 
Gli diedi la busta sigillata.
«Non dovevi disturbarti», disse, dopo averla guardata appena. «Potevi mandarmela per posta». Poi sorrise con gentilezza. «Grazie comunque, boy-scout. Lo sa tuo padre che sei qui?» 
«Be’, no», mormorai. 
«Allora è meglio che ti porti a casa in macchina. I tuoi genitori saranno preoccupati.» 
Protestai dicendo che non era necessario, ma lui insistette. Montò sul suo vecchio e malconcio Maggiolino Volkswagen, con gli scarponi infangati e il resto, e ci avviammo verso Atene. Durante il viaggio, tentai più di una volta di avviare una conversazione sul tema dell’invito, ma zio Petros la spostò sempre su argomenti irrilevanti come il tempo e la stagione migliore per potare gli alberi. 
Mi fece scendere all’angolo più vicino a casa nostra. 
«Vuoi che salga a scusarti?» 
«No, grazie, zio. Non occorre.» 
Risultò tuttavia che le scuse sarebbero state necessarie. Per grande sfortuna, mio padre aveva telefonato alla sezione per chiedermi di comprare qualcosa mentre tornavo a casa, e aveva così saputo della mia assenza. Per mera ingenuità, gli raccontai sconsideratamente tutta la verità. Risultò che era stata la peggior scelta possibile. Se gli avessi detto, mentendo, che avevo marinato la riunione per godermi qualche sigaretta proibita nel parco, o anche per andare in una casa di malaffare, non si sarebbe agitato tanto.
«Non ti avevo espressamente proibito di avere rapporti con quell’uomo?» urlò, e la sua faccia divenne così paonazza che mia madre lo implorò di pensare alla sua pressione. 
«No, babbo», replicai sinceramente. «In realtà, non me l’hai mai proibito. Mai!» 
«Ma non sai che tipo è? Non ti ho parlato mille volte di mio fratello Petros?» 
«Oh, mi hai solo detto mille volte che è “il prototipo del fallito”, e allora? È pur sempre tuo fratello – mio zio. È stato davvero terribile portare a quel pover’uomo la sua lettera? E, ora che ci penso, non vedo come la definizione di “prototipo del fallito” possa applicarsi a un uomo con la qualifica di professore d’analisi di una grande università!» 
«La qualifica di già professore d’analisi», ringhiò mio padre, risolvendo così la questione della “g” minuscola. 
Ancora furioso, pronunciò allora la sentenza per quello che definì il mio “abominevole atto d’imperdonabile disobbedienza”. Quasi non riuscivo a credere alla sua severità: sarei rimasto confinato per un mese in camera mia, tranne che nelle ore di scuola. Vi avrei consumato anche i pasti e non sarei stato autorizzato a comunicare verbalmente né con lui né con mia madre né con nessun altro. 
Andai in camera per cominciare a scontare la mia condanna, sentendomi un Martire della Verità.

Più tardi, quella sera stessa, mio padre bussò piano alla mia porta ed entrò. Io, che stavo leggendo alla scrivania, obbedii alla sua ingiunzione e non pronunciai neppure una parola di saluto. Si sedette allora sul letto, di fronte a me, e capii dalla sua espressione che qualcosa era cambiato. Adesso sembrava calmo, e addirittura tormentato dal rimorso. Esordì comunicandomi che la punizione inflittami era “forse un po’ troppo severa” e quindi non era più valida, e subito dopo mi chiese perdono per i suoi modi – un comportamento senza precedenti e del tutto alieno dal suo carattere. Si rendeva conto che il suo sfogo era stato ingiusto. Era irragionevole, disse, e io naturalmente mi trovai d’accordo: aspettarsi che io capissi una cosa che non si era mai preso la briga di spiegarmi. Non mi aveva mai parlato apertamente della questione di zio Petros, ma era venuto il momento di rimediare a questo “deplorevole errore”. Voleva raccontarmi di suo fratello maggiore. E io, è ovvio, ero tutt’orecchi. 
Ecco che cosa mi disse.
Fin dalla prima fanciullezza, zio Petros aveva dato prova di un’eccezionale predisposizione alla matematica. Alle elementari aveva impressionato i maestri per la sua bravura in aritmetica e alle medie si era impadronito con incredibile facilità delle astrazioni dell’algebra, della geometria e della trigonometria. Gli si riferivano appellativi come “prodigio” e perfino “genio”. Benché uomo di scarsa cultura, il loro padre, mio nonno, si dimostrò di larghe vedute. Anziché indirizzare Petros a studi più pratici, che lo avrebbero preparato a lavorare al suo fianco nell’azienda famigliare, lo incoraggiò a seguire la sua inclinazione. Lo zio si iscrisse a un’età precoce all’Università di Berlino, dove si laureò appena diciannovenne. L’anno dopo, ottenne il dottorato ed entrò a far parte del corpo docenti dell’Università di Monaco; divenne professore ordinario alla stupefacente età di ventiquattro anni – l’uomo più giovane che fosse mai arrivato a tanto. 
Io ascoltavo impressionato. 
«Non mi pare la storia di un “prototipo del fallito”», commentai. 
«Non ho ancora finito», m’avvertì mio padre. 
A questo punto, fece una digressione. Senza alcuna sollecitazione da parte mia, parlò di se stesso, di zio Anargyros e dei loro sentimenti nei confronti di Petros. I due fratelli minori seguivano i suoi successi con orgoglio. Non provarono mai, neanche per un istante, la minima invidia – dopo tutto, anche loro andavano benissimo a scuola, sia pure senza avvicinarsi nemmeno lontanamente agli esiti spettacolosi di quel genio del fratello. Ma non si erano mai sentiti molto legati a lui. Fin dall’infanzia, Petros era sempre stato un solitario. Anche quando viveva ancora in casa, mio padre e zio Anargyros passavano con lui pochissimo tempo; mentre loro giocavano con gli amici, Petros se ne stava in camera sua a risolvere problemi di geometria. Quando poi andò all’estero per frequentare l’università, il nonno li obbligava a scrivergli lettere cortesi (“Caro fratello, noi stiamo bene... ecc”.), mentre loro ricevevano in cambio laconici saluti su cartoline postali. Nel 1925, quando l’intera famiglia andò a trovarlo in Germania, Petros li frequentò pochissimo, comportandosi ogni volta come un perfetto estraneo, distratto, ansioso, chiaramente impaziente di tornare alle sue occupazioni. Da allora non lo rividero più fino al 1940, quando la Grecia entrò in guerra con la Germania, e lui fu costretto a tornare. 
«Perché?» domandai a mio padre. «Per arruolarsi?» 
«Certo che no! Tuo zio non ha mai avuto sentimenti patriottici – né d’altro genere, del resto. Solo che, una volta dichiarata la guerra, lo considerarono uno straniero nemico e l’obbligarono a lasciare la Germania.» 
«E perché non andò altrove, in Inghilterra o in America, in un’altra grande università? Se era davvero un grande matematico...» 
Mio padre m’interruppe con un grugnito d’approvazione, accompagnato da una rumorosa manata su una coscia. 
«È questo il punto», ribatté. «Esattamente questo. Non era più un grande matematico.» 
«Che intendi dire?» domandai. «Com’è possibile?» 
Ci fu una pausa lunga e piena di significati, segno che era ormai arrivato a un punto critico del racconto, al momento esatto in cui la trama cambia direzione e non va più in su ma in giù. Mio padre si protese verso di me con un inquietante cipiglio, e le sue parole successive furono un mormorio profondo, quasi un gemito. 
«Tuo zio, figlio, commise il più grave dei peccati.» 
«Ma dimmi cos’ha fatto, babbo! Ha rubato, ha rapinato, ha ucciso?» 
«No, no, questi sono piccoli misfatti in confronto al suo delitto! Bada, non sono io a giudicarlo tale, ma il Vangelo, Nostro Signore in persona. “Non bestemmierai contro lo Spirito!” Tuo zio Petros gettò perle ai porci, prese qualcosa di santo, di sacro e di grande e lo insozzò spudoratamente!» 
Per un momento, questa inaspettata variazione teologica mi indusse a mettermi in guardia.
«Che cosa esattamente?» 
«Il suo dono, è ovvio», gridò mio padre. «Il grande, unico dono che Dio gli aveva elargito: il suo fenomenale talento matematico senza precedenti! Quel miserabile buffone lo sprecò, lo sperperò, lo gettò nella spazzatura. Ma te lo immagini? Quell’ingrato bastardo non fece più un giorno di lavoro matematico utile. Mai più! Niente!Finito!1 Kaputt! 
«Ma perché?» domandai. 
«Oh, perché Sua Eccellenza Illustrissima doveva occuparsi della “Congettura di Goldbach”.» 
«Di che?» 
Mio padre fece una smorfia di disgusto.
«Oh, una specie d’enigma, una cosa che non interessa a nessuno, tranne che a un pugno di perdigiorno che si divertono con i giochetti intellettuali.» 
«Un enigma? Vuoi dire come un cruciverba?» 
«No, un problema matematico – ma non uno qualsiasi. Questa Congettura di Goldbach è considerata uno dei problemi più difficili dell’intera matematica. Te lo immagini? I più grandi cervelli del pianeta non erano riusciti a risolverlo, ma quel sapientone di tuo zio decise a ventun anni che lui ce l’avrebbe fatta... E sprecò la sua vita per questo!» 
Ero un po’ confuso dalla linea del suo ragionamento. 
«Un momento, babbo», dissi. «Questo sarebbe un delitto? Cercar di risolvere il problema più difficile dell’intera storia della matematica? Parli sul serio? Ma è magnifico, è assolutamente fantastico!» 
Mio padre mi guardò torvo.
«Se fosse riuscito a risolverlo, sarebbe stato davvero “magnifico”, o “assolutamente fantastico”, o quello che preferisci – pur restando, naturalmente, del tutto inutile. Ma non ci riuscì!» 
Si era ormai spazientito, era tornato a essere l’uomo di sempre. 
«Tu conosci, figlio, il grande segreto della vita?» mi domandò, con cipiglio. 
«No.» 
Prima di svelarmelo, si soffiò il naso – con un rumore di tromba – nel suo fazzoletto di seta col monogramma. 
«Il grande segreto della vita è di porsi sempre obiettivi raggiungibili. Possono essere facili o difficili, a seconda delle circostanze e del tuo carattere e delle tue capacità, ma devono sempre essererag-giun-gi-bi-li! Penso che appenderò in camera tua il ritratto di zio Petros con questa didascalia: “esempio da evitare”!» 

Mi è impossibile, ora che sono arrivato alla mezza età, descrivere il turbamento prodotto nel mio cuore d’adolescente da questo primo racconto, sia pure tendenzioso e incompleto, delle vicende di zio Petros. Mio padre intendeva ovviamente mettermi in guardia ma, su di me, le sue parole ebbero esattamente l’effetto opposto: anziché farmi stare alla larga dal suo anomalo fratello maggiore, mi spingevano verso di lui come se fosse una stella luminosa. 
Ciò che avevo appreso mi lasciò sgomento. Cosa fosse precisamente quella famosa Congettura di Goldbach non lo sapevo (doveva senza dubbio essere di un 100% al di sopra della mia comprensione), e allora non m’interessava molto scoprirlo. Mi affascinava il fatto che quel mio zio gentile, modesto e riservato era in realtà un uomo che, per propria scelta, si era battuto per anni ai limiti estremi dell’ambizione umana. Colui che conoscevo fin dalla nascita, che era addirittura un mio parente stretto, aveva passato l’intera esistenza sforzandosi di risolvere uno dei problemi più difficili della storia della matematica! Mentre i suoi fratelli erano occupati a studiare e a sposarsi, a crescere i figli e a gestire l’azienda di famiglia, consumando la propria vita come il resto dell’umanità, nel tran-tran quotidiano della sussistenza, della procreazione e dell’ammazzare il tempo, lui, come Prometeo, aveva lottato per illuminare l’angolo più buio e inaccessibile della conoscenza. 
Che alla fine il suo sforzo fosse fallito, non solo non lo sminuiva ai miei occhi ma, al contrario, lo elevava al picco più alto dell’eccellenza: in fin dei conti, non era questa la definizione stessa della condizione dell’eroe romantico ideale, combattere la grande battaglia pur sapendo che era una lotta disperata? In che cosa mio zio era differente da Leonida e dagli spartani che avevano difeso le Termopili? Gli ultimi versi di una poesia di Kavafis, che avevo imparato a scuola, mi sembravano perfettamente applicabili alla sua vicenda: 

... Ma l’onore più grande spetta a chi previde, 
come molti infatti previdero,
che apparirà infine Efialte, il traditore, 
e così i persiani finalmente
passeranno per le strette gole 2. 

Anche prima d’aver ascoltato la storia di zio Petros, le frasi sprezzanti dei suoi fratelli, oltre a stimolare la curiosità, mi avevano ispirato simpatia verso di lui. (Questa reazione, fra parentesi, si contrapponeva a quella dei miei due cugini che accettavano in blocco il disprezzo dei loro genitori.) Ora che conoscevo la verità – sia pure in una versione molto tendenziosa – feci subito di zio Petros un modello di comportamento. 
La prima conseguenza fu un diverso atteggiamento nei confronti della matematica, materia scolastica che fino ad allora mi era sembrata piuttosto noiosa, cui fece seguito un miglioramento clamoroso del mio rendimento. Quando mio padre vide che, nella pagella successiva i miei voti in algebra, geometria e trigonometria erano improvvisamente saliti a un livello d’eccellenza, inarcò perplesso le sopracciglia e mi scoccò una strana occhiata. È possibile che la cosa lo insospettisse, ma naturalmente non poteva farne un dramma. Mica poteva criticarmi perché ero riuscito a eccellere! 
Il giorno in cui la Società Matematica Ellenica doveva commemorare il duecentocinquantesimo anniversario della nascita di Leonard Eulero, arrivai nell’auditorium in anticipo, pieno di aspettative. Benché la matematica che s’insegnava alle medie non mi desse alcun aiuto per penetrarne l’esatto significato, il titolo della conferenza annunciata – “La logica formale e i fondamenti della matematica” – mi aveva affascinato da quando avevo letto l’invito. Avevo sentito parlare di “risposte formali” e di “logica elementare”, ma come potevano combinarsi questi due concetti? Avevo imparato che gli edifici hanno delle fondamenta – ma la matematica? 
Attesi invano, mentre pubblico e oratori prendevano posto, di vedere fra loro la figura magra e ascetica di mio zio. Come avrei dovuto immaginare, non venne. Sapevo già che non accettava mai inviti; appresi ora che non faceva eccezione neppure per la matematica.
Il primo oratore, il presidente della Società, citò il suo nome con particolare rispetto.
«Il professor Petros Papachristos, il matematico greco di fama mondiale, non sarà purtroppo in grado di rivolgerci il suo breve saluto, a causa di una lieve indisposizione.» 
Sorrisi compiaciuto, fiero di essere l’unico dei presenti al corrente del fatto che la sua “lieve indisposizione” era d’ordine diplomatico, una scusa per proteggere la propria tranquillità. 
Malgrado l’assenza di zio Petros, rimasi lì fino alla fine. Ascoltai affascinato un breve riassunto della vita del personaggio celebrato (a quel che si disse, Leonard Eulero aveva fatto scoperte epocali in tutti – o quasi – i settori della matematica). Poi, quando l’oratore principale sali sul podio e cominciò a sviluppare il tema dei “Fondamenti delle teorie matematiche secondo la logica formale”, rimasi incantato. Benché avessi capito completamente soltanto le prime parole, la mia anima sguazzava in una beatitudine mai provata di concetti e definizioni sconosciuti, simboli di un mondo che, per quanto misterioso, mi s’impose fin dall’inizio come quasi sacro nella sua insondabile saggezza. Nomi magici, mai uditi prima, si susseguivano quasi senza interruzione, ammaliandomi con la loro musica sublime: il Problema del continuo, Aleph, Tarski, Gottlob Frege, Ragionamento induttivo, Programma di Hilbert, Teoria della dimostrazione, Geometria riemanniana, Verificabilità e non-verificabilità, Prove di coerenza, Prove di completezza, Insieme di insiemi, Macchine universali di Turing, Automi di von Neumann, Paradosso di Russell, Algebra booleana... A un certo punto, mentre queste inebrianti ondate verbali si riversavano su di me, per un momento mi sembrò di riconoscere le fondamentali parole “Congettura di Goldbach”, ma prima che potessi mettere a fuoco la mia attenzione, il soggetto si era sviluppato in nuovi magici tracciati: gli Assiomi di Peano per l’aritmetica, il Teorema dei numeri primi, Sistemi aperti e chiusi, Assiomi, Euclide, Eulero, Cantor, Zenone, Gödel... 
Paradossalmente, la conferenza sui “Fondamenti delle teorie matematiche secondo la logica formale” operò la sua insidiosa magia sulla mia anima adolescente proprio perché non svelò nessuno dei segreti che aveva presentato – non so se avrebbe avuto lo stesso effetto se ne avesse dato spiegazioni dettagliate. Capii finalmente il significato dell’insegna all’ingresso dell’Accademia di Platone: Oudeis ageometretos eiseto, “Non entri nessuno ignaro di geometria”. La morale della serata emerse con chiarezza cristallina: la matematica era qualcosa d’infinitamente più interessante della soluzione delle equazioni di secondo grado o del calcolo del volume dei solidi, i compiti meschini sui quali sgobbavamo a scuola. Coloro che l’esercitavano abitavano un autentico paradiso concettuale, un maestoso reame poetico assolutamente inaccessibile al volgo ignaro di quella scienza. 
La serata alla Società Matematica Ellenica segnò una svolta. Fu lì e allora che decisi per la prima volta di diventare un matematico. 

Alla fine di quell’anno scolastico mi diedero il premio per il migliore della classe in matematica. Mio padre se ne vantò con zio Anargyros – come se avesse potuto fare altrimenti! 
A questo punto, avevo completato il mio penultimo anno delle superiori e si era già deciso che avrei fatto l’università negli Stati Uniti. Poiché il sistema americano non obbliga gli studenti a dichiarare il loro principale campo d’interesse al momento dell’iscrizione, potevo aspettare qualche anno prima di rivelare a mio padre l’orribile verità – poiché tale l’avrebbe senza dubbio considerata. (Per fortuna, i miei due cugini avevano già espresso una preferenza che assicurava all’azienda famigliare una nuova generazione di manager.) Di fatto, mentre stavo già ordendo il mio piano, lo fuorviai per qualche tempo con vaghi discorsi sul progetto di studiare economia: una volta all’università, con tutto l’Oceano Atlantico fra me e la sua autorità, avrei potuto seguire la rotta verso il mio Destino. 
Quell’anno, nel giorno di San Pietro e Paolo, non ce la feci più a trattenermi. 
«Zio, sto pensando di diventare un matematico.» 
Il mio entusiasmo, però, non suscitò una reazione immediata. Mio zio rimase silenzioso e impassibile, fissandomi improvvisamente con estrema serietà – mi resi conto, con un brivido, che quello doveva essere il suo aspetto quando si sforzava di scoprire i misteri della Congettura di Goldbach. 
«Che cosa sai di matematica, giovanotto?» domandò, dopo una breve pausa. 
Il suo tono non mi piacque, ma proseguii come avevo progettato:
«Ero il primo della classe, zio Petros. Ho vinto anche il premio della scuola!» 
Per un po’, sembrò riflettere su questa informazione, poi alzò le spalle. 
«È una decisione importante», disse. «Non devi prenderla senza averci pensato bene. Perché non vieni qui un pomeriggio e ne parliamo?» 
Poi aggiunse, senza che fosse necessario:
«È meglio che non lo dica a tuo padre.» 
Ci andai qualche giorno dopo, appena trovai una buona scusa.
Zio Petros mi condusse in cucina e mi offrì una bibita fredda, preparata con le amarene del suo albero. Poi si sedette di fronte a me, assumendo un atteggiamento solenne e professorale.
«Dimmi, allora, cos’è la matematica secondo la tua opinione?» chiese. L’enfasi data all’ultima parola sembrava sottintendere che qualsiasi risposta sarebbe stata probabilmente sbagliata. 
Tirai fuori qualche luogo comune sulla “più eccelsa delle scienze” e sulle sue meravigliose applicazioni nell’elettronica, nella medicina e nell’esplorazione spaziale. 
Zio Petros si accigliò.
«Se t’interessano le applicazioni, perché non fai l’ingegnere? O il fisico. Anche questi hanno a che fare con qualche specie di matematica. 
Un’altra enfatizzazione significativa: era evidente che di questa “specie” non aveva un’opinione molto alta. Prima di sentirmi ancor più a disagio, decisi che non ero in grado di battermi con lui da pari a pari, e lo confessai. 
«Zio, non sono capace di esprimere il “perché” in parole. So soltanto che voglio diventare un matematico – pensavo che mi avresti capito.» 
Meditò per un momento, poi chiese:
«Conosci gli scacchi?» 
«Più o meno. Ma, per piacere, non chiedermi di giocare. Posso dirti fin d’ora che perderei!» 
Sorrise.
«Non ti proponevo una partita. Voglio solo farti un esempio che potrai capire. Vedi, la vera matematica non ha nulla a che fare con le applicazioni o con le procedure di calcolo che impari a scuola. Studia costrutti intellettuali astratti che, almeno finché se ne occupa il matematico, non hanno alcun rapporto con il mondo fisico, percepibile.» 
«Questo per me va bene», dissi. 
«I matematici», continuò, «trovano nei loro studi lo stesso godimento che gli scacchisti traggono dagli scacchi. In realtà, la conformazione psicologica del vero matematico è vicina a quella del poeta o del compositore o, in altre parole, di una persona interessata alla creazione della bellezza e alla ricerca dell’armonia e della perfezione. Insomma, si situa all’opposto dell’uomo pratico, dell’ingegnere, del politico o del...». S’interruppe, riflettendo un momento per cercare qualcosa di ancor più aborrito nella sua scala dei valori. «... Ma sì, dell’uomo d’affari.» 
Se intendeva dire tutto questo per scoraggiarmi, aveva scelto la strada sbagliata.
«È proprio quello che cerco, zio Petros», replicai, tutto eccitato. «Non voglio fare l’ingegnere. Non voglio lavorare nell’azienda di famiglia. Voglio immergermi nella vera matematica, proprio come te... proprio come per la Congettura di Goldbach!» 
Accidenti, avevo rovinato tutto! Prima di partire per Ekali, avevo deciso di evitare come il diavolo qualsiasi riferimento alla Congettura per tutta la nostra conversazione. Ma ero così eccitato e sventato che non seppi controllarmi.
Zio Petros rimase impassibile, ma potei notare che gli tremava leggermente la mano.
«Chi ti ha parlato della Congettura di Goldbach?» domandò, con tono pacato. 
«Mio padre», mormorai. 
«E che ti ha detto di preciso?» 
«Che hai cercato di dimostrarla.» 
«Solo questo?» 
«E... che non ci sei riuscito.» 
La sua mano era di nuovo ferma. «Nient’altro?» 
«Nient’altro.» 
«Uhm», disse. «Cosa ne diresti se facessimo un patto?» 
«Che genere di patto?» 
«Ascolta: a mio modo di vedere, nella matematica come nelle arti – o negli sport, del resto –, se non sei il migliore, non sei nulla. Un ingegnere civile, un avvocato o un dentista che sia soltanto capace può avere ugualmente una vita professionale creativa e soddisfacente. Un matematico che sia soltanto di media levatura – parlo di un ricercatore, naturalmente, non di un professore di liceo – è invece una tragedia ambulante...» 
«Ma zio», lo interruppi, «io non ho nessuna intenzione di essere “soltanto di media levatura”. Voglio diventare il numero uno!» 
Sorrise. «Almeno in questo, è chiaro che mi assomigli. Anch’io ero estremamente ambizioso. Ma vedi, ragazzo, le buone intenzioni purtroppo non bastano. Non è come in altri campi, dove conta molto l’applicazione. In matematica, per arrivare al vertice occorre anche un’altra cosa, assolutamente indispensabile per riuscire. 
«E sarebbe?» 
Mi guardò perplesso, vedendo che ignoravo una cosa così ovvia.
«Ma il talento! La predisposizione naturale nella sua manifestazione più estrema. Non dimenticarlo mai:Mathematicus nascitur, non fit, “Matematico si nasce, non si diventa”. Se non hai questa particolare attitudine nei tuoi geni, faticherai invano per tutta la vita e non uscirai mai dalla mediocrità. Da un’aurea mediocrità, forse, ma sempre mediocrità!» 
Lo guardai negli occhi.
«Che specie di patto mi proponi, zio?» 
Esitò per un momento, come se ci stesse pensando. Poi disse:
«Non voglio vederti seguire una strada che ti porterà al fallimento e all’infelicità. Ti chiedo dunque di promettermi solennemente che diventerai un matematico se – e solo se – sei estremamente dotato. Accetti?» 
Ero sconcertato. «Ma come posso stabilirlo, zio?» 
«Non puoi farlo e non ne hai bisogno», disse, con un sorrisetto sornione. «Lo stabilirò io.» 
«Tu?» 
«Sì. Ti proporrò un problema. Te lo porterai a casa e tenterai di risolverlo. Dal tuo successo, o dal tuo fallimento, potrò valutare con estrema precisione le tue possibilità di diventare un grande matematico.» 
La proposta suscitò in me sentimenti contrastanti: odiavo i test, ma adoravo le sfide.
«Quanto tempo avrò?» domandai 
Zio Petros socchiuse gli occhi per riflettere. «Uhm... Diciamo fino all’inizio della scuola, il 1° ottobre. Quasi tre mesi.» 
Ignorante com’ero, credevo che in tre mesi avrei potuto risolvere ben più di un unico problema matematico. 
«Così tanti?!» 
«Be’, sarà un problema difficile», mi fece notare lui. «Non di quelli che chiunque o quasi potrebbe risolvere. Ma tu, se hai quel che occorre per diventare un grande matematico, ci riuscirai. Naturalmente, devi giurarmi che non ti farai aiutare da nessuno e che non consulterai nessun libro.» 
«Lo giuro», dissi. 
Mi fissò.
«Ciò significa che accetti il patto?» 
Respirai a fondo.
«Sì.» 
Senza una parola, zio Petros uscì per un momento e tornò con carta e matita. Divenne professionale, un matematico che si rivolge a un altro matematico. 
«Ecco il problema. Saprai, immagino, che cos’è un numero primo.» 
«Certo che lo so, zio! Un numero primo è un numero intero maggiore di 1 che non ha altri divisori che se stesso e l’unità. Per esempio, 2, 3, 5, 7, 11, 13 ecc.» 
Parve soddisfatto dell’esattezza della mia risposta. «Magnifico. E adesso dimmi, per piacere, quanti numeri primi ci sono.» 
All’improvviso, mi trovai incapace di rispondere. 
«Quanti?» 
«Sì, quanti. Non te l’hanno insegnato a scuola?» 
«No.» 
Mio zio trasse un sospiro profondo, deluso dal basso livello del moderno insegnamento della matematica in Grecia.
«E va bene, te lo dirò io, perché ne avrai bisogno. I numeri primi sono infiniti, un fatto dimostrato per la prima volta da Euclide nel III secolo avanti Cristo. La sua dimostrazione è un gioiello di bellezza e di semplicità. Col metodo della reductio ad absurdum,Euclide suppone dapprima il contrario di ciò che intende dimostrare, cioè che i numeri primi siano finiti. Così...» 
Con rapidi e vigorosi tocchi di matita e alcune parole esplicative, zio Petros ricostruì a mio beneficio la dimostrazione del nostro saggio predecessore e mi diede contemporaneamente il primo esempio di vera matematica.
«... Che però», concluse, «è contrario alla nostra supposizione iniziale. Supporre la finitudine porta a una contraddizione, ergo i numeri primi sono infiniti. Quod erat demonstrandum 
«Ma è fantastico, zio», dissi, eccitato dall’ingegnosità della dimostrazione. «Ed è così semplice!» 
«Sì», sospirò lui, «semplicissimo. Eppure, prima di Euclide nessuno lo aveva pensato. Rifletti sulla lezione che si può trarne: a volte le cose appaiono semplici solo a posteriori.» 
Non ero in vena di filosofare.
«Forza, zio. Enuncia il problema che dovrei risolvere.» 
Lo scrisse su un foglio e me lo lesse.
«Voglio che tu cerchi di dimostrare», disse, «che ogni numero pari maggiore di 2 è la somma di due numeri primi.» 
Meditai per un momento, pregando con fervore perché un lampo d’ispirazione lo spazzasse via con una soluzione immediata. Ma, vedendo che non arrivava, mi limitai a dire: 
«Tutto qui?» 
Zio Petros agitò un dito per mettermi in guardia.
«Ma non è tanto semplice! In ogni caso particolare che puoi prendere in considerazione – 4=2+2, 6=3+3, 8=3+5, 10=3+7, 12=7+5, 14=7+7 ecc. – è ovvio, anche se più i numeri sono alti più complessi sono i calcoli che richiedono. Tuttavia, essendoci un’infinità di numeri pari, non si può affrontare il problema caso per caso. Devi trovare una dimostrazione generale, e questo – sospetto – ti sarà forse più difficile di quel che pensi.» 
Mi alzai.
«Difficile o no», dissi, «voglio farcela! Mi metterò subito al lavoro». Mentre mi stavo avvicinando al cancello, lo zio mi chiamò dalla finestra della cucina. 
«Ehi! Non lo prendi il foglio con il problema?» 
Soffiava un vento gelido, e io respiravo le esalazioni del terreno bagnato. Credo che mai in vita mia, né prima né dopo quel breve momento, mi sono sentito così felice, così pieno di fiducia e di ottimismo, e di speranze di gloria.
«Non ne ho bisogno, zio», risposi. «Me lo ricordo perfettamente: “Ogni numero pari maggiore di 2 è la somma di due numeri primi”. Ci vediamo il 1° ottobre con la soluzione!» 
Il suo monito severo mi arrivò quando ero già in strada.
«Non scordarti del nostro patto», gridò. «Solo se saprai risolvere il problema, potrai diventare un matematico!» 

Mi aspettava una dura estate.
Per fortuna nei mesi caldi, luglio e agosto, i miei genitori mi spedivano a Pylos, a casa di uno zio materno. Ciò significava che, fuori della portata di mio padre, se non altro non avevo l’ulteriore problema (come se quello che mi aveva posto zio Petros non fosse stato sufficiente) di dover lavorare in segreto. Appena arrivato a Pylos, disposi le mie carte sul tavolo da pranzo (d’estate mangiavamo sempre fuori) e annunciai ai miei cugini che fino a nuovo ordine non sarei stato disponibile per nuotate, giochi e serate al cinema all’aperto. Lavoravo al problema dalla mattina alla sera, salvo brevi interruzioni. 
Mia zia manifestava la sua preoccupazione in maniera bonaria.
«Stai lavorando troppo, ragazzo. Prenditela comoda. Sei in vacanza. Lascia un po’ da parte i libri. Sei qui per riposare.» 
Ma io ero deciso a non riposare fino alla vittoria finale. Sgobbavo senza sosta, riempiendo fogli su fogli, affrontando il problema ora da un lato e ora dall’altro. Spesso, quando mi sentivo troppo stanco per un ragionamento deduttivo astratto, esaminavo casi specifici, nel timore che zio Petros mi avesse teso una trappola, chiedendomi di dimostrare qualcosa di palesemente falso. Dopo innumerevolidivisioni avevo creato una tavola dei primi cento numeri primi (una sorta di primitivo Crivello di Eratostene3) che passai poi a sommare, in tutte le coppie possibili, per confermare la validità del principio. Inutilmente cercai entro questi limiti un numero pari che non rispondesse alla condizione richiesta – erano tutti esprimibili come la somma di due numeri primi. 


A un certo punto, verso la metà d’agosto, dopo una serie di notti insonni e innumerevoli tazze di caffè greco, per poche ore felici pensai d’avercela fatta, di aver trovato la soluzione. Riempii parecchie pagine coi miei ragionamenti e le spedii per espresso a zio Petros. 
Godetti del mio trionfo soltanto per qualche giorno, fino a quando il postino mi portò questo telegramma:

la sola cosa che hai dimostrato è che ogni numero pari può essere espresso
come la somma di un numero primo e di un numero dispari, un fatto ovvio.

Mi ci volle una settimana per riavermi dal fallimento del mio primo tentativo e dal colpo inferto al mio orgoglio. Ma mi ripresi e, senza molto entusiasmo, tornai al lavoro, ricorrendo stavolta al metodo della reductio ad absurdum. 
«Supponiamo che esista un numero pari che non possa essere espresso come la somma di due numeri primi. In tal caso...». Quanto più mi arrovellavo sul problema, tanto più diventava evidente che esso esprimeva una verità fondamentale sui numeri interi, materia prima dell’universo matematico. Arrivai presto a interrogarmi su quale sia precisamente la distribuzione dei numeri primi fra gli interi o sulla procedura che, dato un certo numero primo, conduce a quello successivo. Sapevo che questa informazione, se me ne fossi impadronito, mi sarebbe stata estremamente utile nella situazione in cui mi trovavo, e per un paio di volte fui tentato di cercarla in un libro. Ma, fedele all’impegno di non ricorrere ad aiuti esterni, non lo feci mai. 
Esponendomi la dimostrazione euclidea dell’infinità dei numeri primi, zio Petros aveva detto di avermi dato l’unico strumento di cui avevo bisogno per arrivare alla mia dimostrazione. Eppure non stavo facendo progressi. 

Alla fine di settembre, pochi giorni prima che cominciasse il mio ultimo anno di scuola, mi ritrovai, imbronciato e abbattuto, a Ekali. Poiché zio Petros non aveva il telefono, mi toccò sottopormi alla prova di persona.
«Be’?» mi domandò appena ci sedemmo, dopo che avevo seccamente respinto la sua offerta di una bibita a base di amarene. «Hai risolto il problema? 
«No», dissi, «non ci sono riuscito.» 
L’ultima cosa che desideravo in quel momento era di dover ricostruire il percorso del mio fallimento o di lasciare che lo analizzasse lui per me. Non solo, ma non ero per niente curioso di conoscere la soluzione, la dimostrazione di quel principio. Volevo soltanto dimenticare ogni cosa che avesse una pur vaga attinenza con i numeri, pari o dispari – per non parlare dei primi. 
Ma zio Petros non voleva che me la cavassi troppo a buon mercato.
«Allora il discorso è chiuso», disse. «Ricordi, no, il nostro patto?» 
Questo suo bisogno di ratificare ufficialmente la propria vittoria (poiché, per qualche ragione, ero convinto che tale fosse ai suoi occhi la mia sconfitta), per me era estremamente seccante. Ma non intendevo rendergli la cosa ancor più piacevole facendogli capire che mi sentivo in qualche modo ferito. 
«Certo che lo ricordo, zio, e sono sicuro che lo ricordi anche tu. Il nostro patto era che non sarei diventato un matematico se non fossi riuscito a risolvere il problema...» 
«No», m’interruppe, con improvvisa veemenza. «Il patto era che, se non avessi risolto il problema, avresti fattouna solenne promessa di non diventare un matematico!» 
Lo guardai torvo.
«Esattamente», ammisi. «E non avendo risolto il problema, io...» 
«Farai ora una solenne promessa»,m’interruppe, completando per la seconda volta una mia frase, e sottolineando le parole come se ne dipendesse la sua vita (o meglio, la mia). 
«Certo», dissi, sforzandomi di apparire indifferente. «Se questo ti fa piacere, farò una solenne promessa.» 
La sua voce divenne aspra, perfino crudele.
«Non si tratta di far piacere a me, giovanotto, ma di tener fede al nostro patto! Devi impegnarti a stare lontano dalla matematica!» 
La mia irritazione si trasformò all’istante in un vero e proprio odio. 
«E va bene, zio», dissi freddamente. «M’impegno a star lontano dalla matematica. Contento, adesso?» 
Ma mentre mi alzavo per andarmene, lui sollevò minacciosamente una mano.
«Non così in fretta!» 
Con un rapido gesto, trasse di tasca un foglio, lo spiegò e me lo cacciò davanti al naso.
Eccone il contenuto;

Io sottoscritto, in pieno possesso delle mie facoltà, giuro solennemente con questo documento che, non avendo superato l’esame teso a dimostrare una capacità matematica elevata, e in conformità con il patto stipulato con mio zio, Petros Papachristos, non cercherò mai di ottenere una laurea in matematica in un istituto d’insegnamento superiore, né tenterò in qualsiasi altro modo di perseguire una carriera professionale nel campo della matematica. 

Lo guardai incredulo.
«Firma!» ordinò. 
«Ma a che serve?» borbottai, senza cercare più di nascondere ciò che pensavo. 
«Firma», ripeté lui, inflessibile. «Un patto è un patto!» 
Lasciai sospesa a mezz’aria la sua mano che mi offriva una stilografica, tirai fuori la mia biro e apposi la firma. Poi, senza lasciargli il tempo di aggiungere altro, gli gettai il foglio e corsi furiosamente verso il cancello. 
«Aspetta!» gridò, ma io ero già fuori. 
Continuai a correre e correre e correre, finché fui certo di non essere più alla portata dei suoi orecchi; poi, ancora senza fiato, crollai e mi misi a piangere come un bambino: lacrime di rabbia e frustrazione e umiliazione mi rigavano il viso.

Non vidi più zio Petros, né ebbi occasione di parlargli, per tutto il mio ultimo anno di scuola. A giugno, trovai una scusa con mio padre e me ne restai a casa durante la tradizionale visita a Ekali della famiglia.
La mia esperienza dell’estate precedente aveva avuto le conseguenze che zio Petros aveva senza dubbio premeditato e previsto. Indipendentemente dall’obbligo di rispettare il nostro “patto”, avevo perso del tutto il desiderio di diventare un matematico. Per fortuna, gli effetti collaterali del mio fallimento non erano estremi, il rifiuto non era totale, e il rendimento scolastico rimaneva altissimo. Fui così ammesso in una delle migliori università degli Stati Uniti. Al momento dell’iscrizione, scelsi economia come materia di specializzazione, e mi attenni a questa scelta fino al terzo anno4. A parte le materie obbligatorie fondamentali, calcolo elementare e algebra lineare (fra parentesi, presi in entrambe il massimo dei voti), nel primo biennio non seguii altri corsi di matematica. 
Il successo (almeno iniziale) dello stratagemma di zio Petros era basato sull’applicazione del determinismo assoluto della matematica alla mia vita. Aveva corso un rischio, naturalmente, ma un rischio calcolato. Le possibilità che io scoprissi l’identità del problema che mi aveva assegnato durante le lezioni universitarie di matematica elementare erano minime. Il campo cui esso appartiene è la Teoria dei numeri, che è materia facoltativa riservata a chi si specializza in matematica. Da parte sua era quindi ragionevole supporre che, fin quando avessi onorato il mio impegno, sarei arrivato alla fine dei miei studi (e presumibilmente anche della vita) senza scoprire la verità. 
Ma la realtà non è affidabile come la matematica, e le cose andarono diversamente.
Il primo giorno del mio terzo anno, appresi che il fato (chi altri infatti può predisporre simili coincidenze?) aveva stabilito di farmi condividere la mia camera del dormitorio con Sammy Epstein, un esile ragazzo di Brooklyn, noto fra gli studenti per essere un matematico fenomenale. Appena diciassettenne, Sammy si sarebbe diplomato quello stesso anno; ma, pur essendo ancora un semplice studente, stava già seguendo corsi avanzati di specializzazione. E aveva già cominciato a lavorare alla sua tesi di dottorato in topologia algebrica.
A questo punto, convinto com’ero che le ferite della mia breve e traumatica storia di aspirante matematico si fossero più o meno cicatrizzate, mi rallegrò, e addirittura mi divertì, scoprire la specializzazione del mio nuovo compagno di stanza. La prima sera, mentre, per conoscerci meglio, cenavamo insieme nella mensa dell’università, gli dissi casualmente: 
«Visto che sei un genio matematico, Sammy, scommetto che ti sarà facile dimostrare che ogni numero pari maggiore di 2 è la somma di due numeri primi.» 
Scoppiò a ridere.
«Se sapessi dimostrare questo, amico, non sarei qui a mangiare con te, sarei già professore. E forse forse mi avrebbero già assegnato la Fields Medal, il Nobel della matematica!» 
Già mentre parlava, in un lampo rivelatore intuii l’orribile verità. E Sammy me la confermò con le sue parole successive: 
«Quella che hai enunciato è la Congettura di Goldbach, uno dei più difficili problemi irrisolti dell’intera matematica!» 
Le mie reazioni attraversarono le quattro fasi note come – se ricordo bene ciò che appresi durante il corso di psicologia al college – i quattro stadi del lutto: Rifiuto, Rabbia, Depressione e Rassegnazione. 
Il primo fu quello che durò meno.
«Non... Non può essere!» balbettai, appena Sammy ebbe pronunciato quelle orribili parole, sperando di aver frainteso. 
«In che senso dici che non può essere?» domandò. «Può essere, eccome! La Congettura di Goldbach – è questo il nome dell’ipotesi, poiché si tratta solo di un’ipotesi, non essendo mai stata dimostrata – è che tutti i numeri pari sono la somma di due numeri primi. La enunciò per primo un matematico di nome Goldbach in una lettera a Eulero5. Ma, sebbene sia stata controllata e verificata per un’enorme quantità di numeri pari, nessuno è riuscito a darne una dimostrazione generalmente valida.» 
Non udii le parole successive di Sammy, poiché ero già passato allo, stadio della Rabbia.
«Quel vecchio bastardo!» urlai in greco. «Quel figlio di puttana! Che Dio lo maledica! Che lo faccia marcire all’inferno!» 
Il mio nuovo compagno di stanza, totalmente sbalordito nel constatare che un’ipotesi della Teoria dei numeri poteva provocare una tale esplosione di violenta passione mediterranea, mi supplicò di dirgli che cosa stesse accadendo. Ma io non ero in condizioni di spiegare. 
Avevo diciannove anni, e finora avevo avuto una vita “protetta”. A parte un unico scotch bevuto con mio padre per celebrare, “fra adulti”, la mia licenza liceale, e il rituale sorso di vino ai matrimoni dei parenti, non avevo mai assaggiato alcool. Di conseguenza, bisogna moltiplicare le grandi quantità che tracannai quella sera in un bar vicino all’università (cominciai con la birra, passai al bourbon e finii col rum) per un numero piuttosto alto per descriverne adeguatamente gli effetti. 
Arrivato al terzo o al quarto boccale di birra, e ancora relativamente in possesso delle mie facoltà mentali, scrissi a zio Petros. In seguito, entrato nella fase di una fatalistica certezza della mia morte imminente, e prima di perdere i sensi, consegnai la lettera al barman con l’indirizzo e con quanto rimaneva del mio assegno mensile, chiedendogli di esaudire la mia ultima volontà e di spedirla. La parziale amnesia che ammanta gli eventi di quella sera ha cancellato per sempre i particolari di quella lettera. (Non ebbi la forza emotiva di cercarla fra le carte di mio zio quando, molti anni dopo, ereditai il suo archivio.) Ma, per quel poco che ricordo, non può esistere parolaccia, volgarità, insulto, vituperio e maledizione che essa non contenesse. Il succo era che lui aveva distrutto la mia vita e che, di conseguenza, appena tornato in Grecia, lo avrei ammazzato, ma solo dopo avergli inflitto le torture più atroci che mente umana potesse concepire. 
Non so per quanto tempo rimasi privo di sensi, a lottare con incubi assurdi. Dovetti arrivare al tardo pomeriggio dell’indomani per cominciare a rendermi conto di dove mi trovavo. Ero nel mio letto del dormitorio, e Sammy era lì, alla sua scrivania, chino sui libri. Gemetti. Lui mi venne vicino e mi spiegò: a ricondurmi lì erano stati alcuni studenti che mi avevano trovato profondamente addormentato nel prato davanti alla biblioteca. Mi avevano portato in infermeria, dove il medico di guardia non aveva avuto difficoltà a diagnosticare il mio stato di salute. Non ebbe neanche bisogno di visitarmi: avevo i vestiti sporchi di vomito e puzzavo di alcool. 
Il mio nuovo compagno di stanza, ovviamente preoccupato per il futuro della nostra coabitazione, mi domandò se avevo spesso crisi del genere. Umiliato, borbottai che quella era la prima volta.
«E la colpa è tutta della Congettura di Goldbach», bisbigliai, e sprofondai nel sonno. 

Mi ci vollero due giorni per rimettermi da un terribile mal di testa. A quel punto (evidentemente quel torrente di alcool mi aveva trascinato oltre la fase Rabbia), ero entrato nello stadio successivo del lutto: la Depressione. Per due giorni e due notti, rimasi accasciato su una poltrona della sala comune del nostro piano, osservando distrattamente le immagini in bianco e nero che fluttuavano sullo schermo di un televisore.
Fu Sammy che mi aiutò a uscire dalla letargia che io stesso mi ero inflitto, mostrando un sentimento di solidarietà in radicale contrasto con la caricatura del matematico egocentrico e distratto. La sera del terzo giorno dopo la sbronza, lo vidi in piedi accanto a me che mi stava guardando.
«Sai che domani è il termine ultimo per iscriversi?» 
«Mmm...». gemetti. 
«E allora ti sei iscritto?» 
Scossi debolmente il capo.
«Hai almeno scelto i corsi che intendi seguire?» 
Scossi di nuovo il capo e lo vidi accigliarsi.
«Non sono affari miei, ma non pensi che ti converrebbe dedicare la tua attenzione a queste faccende piuttosto urgenti, invece che startene seduto lì tutto il giorno a fissare quello stupido elettrodomestico?» 
Come mi confessò in seguito, non era stato soltanto il bisogno di assistere un essere umano in crisi che lo aveva spinto ad assumersi una responsabilità – predominava la curiosità di scoprire quale rapporto ci fosse fra il suo nuovo compagno di stanza e quel famoso problema matematico. Una cosa è certa: quali che fossero i suoi motivi, la lunga discussione che ebbi con lui quella sera mi cambiò la vita. Senza la sua comprensione e il suo sostegno, non avrei mai potuto superare l’ultimo ostacolo. E con ogni probabilità, cosa ancor più importante, non avrei mai perdonato zio Petros. 
Cominciammo a parlare a tavola, durante la cena, e continuammo per l’intera notte, bevendo caffè nella nostra stanza. Gli raccontai tutto. Della mia famiglia, del fascino esercitato su di me fin da bambino dalla remota figura di zio Petros, della mia graduale scoperta dei suoi talenti, della sua genialità di scacchista, dei suoi libri, dell’invito della Società Matematica Ellenica e della cattedra all’Università di Monaco. Del breve riassunto della sua vita fattomi da mio padre, dei suoi primi successi e del ruolo (almeno per me) misterioso della Congettura di Goldbach nel suo triste fallimento successivo. Accennai alla mia decisione iniziale di studiare matematica e alla discussione con zio Petros nella sua cucina di Ekali, in un pomeriggio estivo di tre anni prima. Gli dissi infine del nostro “patto”. 
Sammy ascoltò senza mai interrompermi, con quei suoi occhi piccoli e profondi estremamente concentrati. Solo quando conclusi il racconto ed enunciai il problema che lo zio mi aveva chiesto di risolvere per dimostrare le mie potenzialità di grande matematico, esplose con furia improvvisa.
«Che stronzo!» gridò. 
«Esattamente quello che penso io», dissi. 
«Quell’uomo è un sadico», continuò Sammy. «È un pazzo criminale. Solo a un pervertito poteva venire in mente di costringere un liceale a passare un’estate nel cercar di dimostrare la Congettura di Goldbach, facendogli credere che doveva soltanto affrontare una prova un po’ impegnativa. Che lurido animale!» 
Il rimorso che provavo per il vocabolario usato nella mia delirante lettera a zio Petros mi indusse per un attimo a cercare di difenderlo e di trovare una giustificazione logica al suo comportamento.
«Forse le sue intenzioni non erano così cattive», mormorai. «Forse voleva proteggermi da una delusione più grande.» 
«Con quale diritto?» tuonò Sammy, battendo una mano sulla mia scrivania. (Diversamente da me, era cresciuto in una società dove non ci si aspettava che i figli si conformassero di regola alle attese dei genitori e degli anziani in genere.) «Ogni persona ha il diritto di esporsi a tutte le delusioni che si è scelta», disse, con fervore. «E poi cosa sono quelle cazzate sull’essere il migliore e sull’aurea mediocrità o che so io. Tu potevi diventare un grande...» 
Sammy s’interruppe a mezza frase, e rimase a bocca aperta per la meraviglia. 
«Un momento. Perché sto usando l’imperfetto?» disse, con un gran sorriso. «Puoi ancora diventare un grande matematico!» 
Alzai gli occhi, sbalordito. «Ma cosa stai dicendo, Sammy? È troppo tardi, lo sai benissimo!» 
«Niente affatto! Il termine ultimo per comunicare la materia di specializzazione scade domani.» 
«Non era questo che intendevo. Ho già perso tanto tempo facendo altre cose e...» 
«Sciocchezze», disse lui, con fermezza. «Se lavori sodo, puoi recuperare il tempo perduto. Per te, l’importante è ritrovare l’entusiasmo, la passione che avevi per la matematica prima che tuo zio vergognosamente la distruggesse. Ce la puoi fare, credimi – e io ti aiuterò!» 
Fuori stava spuntando il giorno ed era venuto il momento del quarto e ultimo stadio che avrebbe completato il processo del lutto: la Rassegnazione. Il ciclo si era chiuso. Avrei ripreso la mia vita dal punto in cui si era interrotta quando zio Petros, con il suo tiro mancino, mi aveva allontanato da quella che ancora consideravo la mia vera strada.
Sammy e io, consumata una sostanziosa colazione alla mensa, ci mettemmo a sedere con l’elenco dei corsi programmati dal dipartimento di matematica. Mi spiegò il contenuto di ognuno nei toni in cui un abile maîtrepresenta i piatti più prelibati del menu. Presi appunti e, nel tardo pomeriggio, andai in segreteria a compilare l’elenco dei corsi che avrei seguito nel semestre appena cominciato: Introduzione all’analisi, Introduzione all’analisi complessa, Introduzione all’algebra moderna e Topologia generale. E, naturalmente, precisai il mio nuovo campo di specializzazione: la matematica. 

Pochi giorni dopo l’inizio delle lezioni, nella fase più difficile dei miei sforzi per addentrarmi nella nuova disciplina, arrivò un telegramma di zio Petros. Appena vidi l’avviso, non ebbi alcun dubbio sull’identità del mittente e, in un primo tempo, pensai di non ritirarlo neppure. Ma poi prevalse la curiosità. 
Scommisi con me stesso che: o cercava di difendersi o voleva semplicemente rimproverarmi per il tono della mia lettera. Scelsi la seconda ipotesi e persi. Aveva scritto:

capisco benissimo la tua reazione stop per capire il mio comportamento 
dovresti conoscere il teorema d’incompletezza di kurt gödel

A quei tempi, non avevo idea di che cosa fosse il Teorema d’incompletezza di Kurt Gödel. E non avevo alcun desiderio di scoprirlo – era già abbastanza faticoso imparare quelli di Lagrange, Cauchy, Fatou, Bolzano, Weierstrass, Heine, Borel, Lebesgue, Tihonov ecc. per i miei vari corsi. E comunque avevo ormai più o meno accettato il giudizio di Sammy, secondo il quale il comportamento di zio Petros nei miei confronti mostrava segni inconfondibili di squilibrio mentale. L’ultimo messaggio ne era una conferma: cercava di difendere il modo spregevole in cui mi aveva trattato con un teorema matematico! Le ossessioni di quel vecchio sciagurato avevano cessato d’interessarmi. 
Non parlai del telegramma al mio compagno di stanza e non ci pensai più.

Passai le vacanze di Natale studiando con Sammy nella biblioteca di matematica6. 
La notte di Capodanno m’invitò a festeggiare con lui e con la sua famiglia nella loro casa di Brooklyn. Avevamo bevuto parecchio ed eravamo piuttosto allegri quando mi condusse in un angolo tranquillo. 
«Te la senti di parlare un po’ di tuo zio?» domandò. Dopo quella prima conversazione durata tutta una notte, non eravamo più tornati, come per un tacito accordo, sull’argomento. 
«Certo», gli dissi, con una risata. «Ma cos’altro c’è da dire?» 
Sammy trasse di tasca un foglio e lo spiegò.
«Da un po’ di tempo, sto facendo qualche indagine discreta su di lui», disse. 
Ero sorpreso.
«Che specie di “indagine discreta”?» 
«Oh, non immaginare niente di efferato. È soprattutto una ricerca bibliografica.» 
«E allora?» 
«Sono arrivato alla conclusione che il tuo caro zio Petros è un impostore!» 
«Un impostore?» Era l’ultima cosa che mi aspettavo di sentir dire e, poiché il sangue non è certo acqua, mi ersi immediatamente in sua difesa. 
«Come puoi affermare una cosa simile, Sammy? È un fatto incontestabile che era professore d’analisi all’Università di Monaco. Non è un impostore!» 
Spiegò:
«Ho scorso gli indici bibliografici di tutti gli articoli pubblicati sulle riviste di matematica nel corso di questo secolo. Ho trovato tre pezzi con il suo nome, ma niente – non una sola parola – sulla Congettura di Goldbach o su qualcosa che abbia anche solo un vago rapporto con essa!» 
Non capivo come, da questo, fosse arrivato ad accusare zio Petros d’impostura. 
«Perché ti sorprende? Mio zio è il primo ad ammettere di non essere riuscito a dimostrare la Congettura. Non aveva quindi nulla da pubblicare. Lo trovo perfettamente comprensibile!» 
Sammy sorrise, con condiscendenza.
«È perché tu non sai niente delle ricerche», disse. «Sai cosa rispose il grande David Hilbert quando i colleghi gli chiesero perché non avesse mai tentato di dimostrare l’Ipotesi di Riemann, un altro famoso problema irrisolto?» 
«No. Illuminami.» 
«Disse: “Perché dovrei uccidere la gallina dalle uova d’oro?” Intendeva dire che quando grandi matematici tentano di risolvere grandi problemi, si fanno tante grandi scoperte matematiche – i cosiddetti “risultati intermedi” –, anche se i problemi di partenza restano irrisolti. Tanto per farti un esempio che puoi capire, alla teorizzazione del Gruppo di ordine finito si arrivò in seguito agli sforzi di Evariste Galois per risolvere in termini generali l’equazione di quinto grado...». 
Questo il succo del ragionamento di Sammy: era impossibile che un matematico professionista di prim’ordine, come tutto faceva pensare che fosse stato zio Petros da giovane, avesse passato la vita a lottare con un grande problema quale la Congettura di Goldbach senza scoprire lungo il cammino un solo risultato intermedio di qualche valore. Ora, poiché non aveva mai pubblicato nulla, bisognava necessariamente concludere – e qui Sammy applicava una sorta di reductioad absurdum – che stava mentendo: non aveva mai tentato di dimostrare la Congettura di Goldbach. 
«Ma con quale scopo avrebbe raccontato una simile bugia?» domandai perplesso al mio amico. 
«Oh, è più che probabile che abbia escogitato la storia della Congettura di Goldbach per spiegare la propria inattività di matematico – per questo ho usato una parola dura come “impostore”. Il problema, vedi, è così notoriamente difficile che nessuno avrebbe potuto imputargli di non essere riuscito a risolverlo.» 
«Ma è assurdo», protestai. «Per zio Petros, la matematica era la vita, il suo solo interesse, la sua unica passione! Perché avrebbe deciso di abbandonarla e di inventare scuse per giustificare la sua inattività? Non ha senso!» 
Sammy scosse il capo.
«La spiegazione, temo, è piuttosto deprimente. Me l’ha suggerita un illustre professore del nostro dipartimento, con il quale mi è accaduto di discutere il caso». Doveva avermi letto in faccia una certa irritazione, poiché s’affrettò ad aggiungere: «... Naturalmente non ho fatto il nome di tuo zio!» 
Sammy mi espose per sommi capi la teoria dell’“illustre professore”. «È molto probabile che a un certo punto, all’inizio della carriera, tuo zio abbia perduto le capacità intellettuali o la forza di volontà (o forse le due cose insieme) per fare matematica. Purtroppo è abbastanza comune in chi raggiunge presto la maturità. Esaurirsi e crollare è il destino di tanti geni precoci...» 
Nella mente gli era evidentemente balenata la dolorosa possibilità che, un giorno, questo amaro destino potesse essere anche il suo. Pronunciò quindi la sua conclusione con solennità, addirittura con tristezza.
«Vedi, non è che a un certo punto il tuo povero zio Petros non volesse più occuparsi di matematica – è che non poteva.» 

Dopo questa conversazione con Sammy nella notte di Capodanno, il mio atteggiamento verso zio Petros subì un altro cambiamento. La collera di quando avevo scoperto che mi aveva imbrogliato spronandomi a dimostrare la Congettura di Goldbach aveva lasciato il posto a sentimenti più caritatevoli. E c’era anche un elemento di simpatia: come doveva essere stato terribile per lui se, dopo inizi così brillanti, aveva improvvisamente cominciato ad accorgersi che il suo grande dono, la sua sola forza, la sua unica gioia lo stava abbandonando. Povero zio Petros! 
Quanto più ci pensavo, tanto più ero irritato con l’anonimo “illustre professore” che aveva potuto pronunciare un atto d’accusa così feroce contro un uomo che neanche conosceva, e senza disporre di alcun dato oggettivo. E anche con Sammy. Come poteva accusarlo a cuor leggero di essere un “impostore”? 
Alla fine, decisi che bisognava concedere a zio Petros la possibilità di difendersi e di replicare sia alle facili generalizzazioni dei fratelli (“il prototipo del fallito” ecc.) sia alle sprezzanti analisi dell’“illustre professore” e dell’arrogante ragazzo prodigio Sammy. Per l’imputato era venuto il momento di difendersi. Decisi anche – inutile aggiungerlo – che la persona più adatta ad ascoltarlo ero proprio io, il suo parente più stretto e la sua vittima. Dopo tutto, me lo doveva. 
Ma avevo bisogno di prepararmi.
Pur avendo strappato in mille pezzi il suo telegramma di scuse, non ne avevo dimenticato il contenuto. Mio zio mi aveva ingiunto di studiare il Teorema d’incompletezza di Gödel; era lì che si nascondeva, in qualche insondabile maniera, la spiegazione del suo spregevole comportamento. (Pur non avendo la più vaga idea di quel teorema – era un suono che non mi piaceva: il prefisso negativo “in” si portava appresso un pesante bagaglio emotivo –, il vuoto che suggeriva sembrava avere implicazioni metaforiche.) 
Alla prima occasione, cioè mentre sceglievo i corsi di matematica che avrei seguito nel semestre successivo, domandai a Sammy, stando bene attento a non lasciargli sospettare che la domanda avesse qualcosa a che fare con zio Petros:
«Sai qualcosa del Teorema d’incompletezza di Kurt Gödel?» 
Sammy alzò le braccia, in un gesto comicamente esagerato.
«Oy vey!» esclamò. «Mi chiede se so qualcosa del Teorema d’incompletezza di Kurt Gödel!» 
«A che ramo appartiene? Alla topologia?» 
Sammy mi guardò sbalordito.
«Il Teorema d’incompletezza? Ma alla logica matematica, ignorantone!» 
«Smettila di fare il pagliaccio e rispondi. Dimmi che cosa dice.» 
Sammy passò a spiegarmi in linea di massima il contenuto della grande scoperta di Gödel. Cominciò con Euclide e la sua visione della solida costruzione delle teorie matematiche, che aveva gli assiomi come fondamenta e procedeva per induzione logica fino ai teoremi. Poi saltò ventidue secoli per parlare del Secondo Problema di Hilbert e toccare i fondamenti dei Principia Mathematica 7di Russell e Whitehead, concludendo con il Teorema d’incompletezza, che mi spiegò in termini molto semplici. 
«Ma è possibile?» domandai quando ebbe finito, guardandolo sbalordito. 
«Non è solo possibile», rispose Sammy. «È dimostrato 

  1.  In italiano nel testo. (N.d.T.) 
  2.  Da Termopili, poesia anteriore al 1911. La poesia richiama il famosissimo episodio delle Termopili (480 a.C., narrato da Erodoto, VII, 213-233), dove trecento spartani agli ordini di Leonida resistettero per tre giorni allo sterminato esercito persiano guidato da Serse all’invasione della Grecia, e trovarono infine la morte. Efialte è il traditore che condusse i nemici alle spalle degli eroi. (N.d.R.) 
  3.  Metodo per individuare i numeri primi, inventato dal matematico greco Eratostene. 
  4.  Secondo il sistema americano, nei primi due anni d’università uno studente non è obbligato a dichiarare su quale disciplina intenda concentrare i propri studi per arrivare alla laurea; e, se la comunica, è libero di cambiare idea fino all’inizio del terzo. 
  5.  In realtà, la lettera del 1742 di Christian Goldbach contiene la congettura che «ogni numero intero può essere espresso come la somma di tre numeri primi». Tuttavia poiché, se questo è vero, uno dei tre numeri primi che esprimono numeri pari non può che essere il 2 (la somma di tre numeri primi dispari è necessariamente dispari, e il 2 è il solo numero primo pari), è ovvio dedurre che ogni numero pari è la somma di due numeri primi. Così, ironicamente, non fu Goldbach ma Eulero a formulare la Congettura che porta il nome dell’altro – un fatto poco noto, perfino fra i matematici. 
  6.  «La principale ragione d’essere di questa narrazione non è di carattere autobiografico, per cui non opprimerò ulteriormente il lettore con i particolari dei miei personali progressi nella matematica. (Per soddisfare i curiosi, in sintesi potrei dire che furono lenti ma costanti.) D’ora in avanti s’accennerà alla mia storia solo nella misura in cui ha a che fare con quella di zio Petros. 
  7.  Principia Mathematica è la monumentale opera, pubblicata in tre volumi tra il 1910 e il 1913, nella quale i logici Russell e Whitehead affrontano la titanica impresa di gettare le fondamenta dell’edificio delle Teorie matematiche sulle solide basi della logica. 

2




Andai a Ekali due giorni dopo il mio ritorno in Grecia per le vacanze estive. Non volendo prenderlo alla sprovvista, avevo combinato l’incontro con zio Petros per lettera. Per usare un linguaggio giudiziario, gli avevo dato tutto il tempo di “preparare la sua difesa”. 
Arrivai all’ora stabilita e andammo a sederci in giardino. 
«E allora, nipote mio prediletto...». Era la prima volta che mi chiamava così. «... Che notizie mi porti dal Nuovo Mondo?» 
Se pensava che gli avrei permesso di fingere che era soltanto un’occasione mondana, la visita di un nipote rispettoso a uno zio affezionato, si sbagliava di grosso. 
«E allora, zio», dissi, in tono bellicoso, «fra un anno prenderò la laurea e mi sto già preparando per l’ammissione alla scuola di perfezionamento. La tua manovra è fallita. Ti piaccia o no, diventerò un matematico.» 
Si strinse nelle spalle e alzò le mani al cielo, in un gesto di rassegnazione all’inevitabile. 
«Chi è destinato ad annegare non morirà mai nel suo letto», disse, citando un proverbio greco. «L’hai detto a tuo padre? È contento?» 
«Come mai questo interesse improvviso per mio padre?» ringhiai. «Era stato lui a suggerirti il nostro cosiddetto “patto”? Ad avere l’idea perversa di indurmi a dimostrare il mio valore affrontando la Congettura di Goldbach? O ti sentivi così in debito per esserti fatto mantenere in tutti questi anni che lo hai ripagato umiliando quel presuntuoso di suo figlio?» 
Zio Petros accettò questi colpi sotto la cintura senza mutare espressione.
«Non ti rimprovero di essere arrabbiato», disse. «Ma devi cercar di capire. Il mio metodo è stato certamente discutibile, ma le mie motivazioni erano pure come gigli.» 
Risi con disprezzo.
«Non c’era niente di puro nel far sì che il tuo fallimento determinasse lamia vita!» 
Sospirò.
«Hai tempo a disposizione?» 
«Tutto quello che vuoi.» 
«Sei seduto comodo?» 
«Comodissimo.» 
«Allora ascolta la mia storia. Ascolta e giudica con la tua testa.» 

 STORIA DI PETROS PAPACHRISTOS 

Non posso pretendere di ricordare ancora con esattezza, mentre sto scrivendo, le parole e le espressioni usate da mio zio in quel pomeriggio estivo di tanti anni fa. Ho preferito ricostruire il suo racconto in terza persona, puntando sulla completezza e la coerenza. Dove la memoria non mi assisteva, ho consultato la sua corrispondenza tuttora esistente con i famigliari e i colleghi matematici, nonché i grossi volumi rilegati in pelle dei diari personali, nei quali aveva tracciato il percorso della sua ricerca.

Petros Papachristos nacque ad Atene nel novembre 1895.
Passò la prima fanciullezza in un virtuale isolamento, come primogenito di un uomo d’affari che si era fatto da sé, e il cui unico interesse era il lavoro, e di una casalinga il cui unico interesse era il marito. 
I grandi amori nascono spesso dalla solitudine, e ciò è certamente vero per la relazione, durata l’intera vita, fra mio zio e i numeri. Scoprì ben presto la sua particolare attitudine al calcolo e non ci volle molto perché, in assenza di altri diversivi emozionali, si tramutasse in autentica passione. Fin da ragazzino, trascorreva le ore libere facendo somme complicate, in genere mentalmente. Quando l’arrivo dei due fratellini ravvivò la vita nella casa natia, era già talmente impegnato in questa direzione che nessun cambiamento della dinamica famigliare poteva più distoglierlo. 
La scuola di Petros, un istituto religioso gestito da gesuiti francesi, confermava la brillante tradizione di questo Ordine nel campo della matematica. Fratello Nicolas, il suo primo insegnante, riconobbe immediatamente la sua inclinazione e lo prese sotto le proprie ali. Guidato da lui, il ragazzo cominciò ad affrontare problemi ben al di sopra delle capacità dei compagni di classe. Come quasi tutti i matematici gesuiti, Fratello Nicholas era specializzato nella geometria classica, già allora antiquata. Passava il tempo inventando esercizi che, pur essendo spesso ingegnosi e di regola mostruosamente difficili, non potevano dirsi molto interessanti in termini matematici. Petros li risolveva con stupefacente facilità, al pari di quelli che il suo insegnante ricavava dai testi di matematica gesuitici.
Tuttavia, fin dall’inizio, aveva mostrato una passione particolare per la Teoria dei numeri, un campo nel quale i Fratelli non erano particolarmente agguerriti. Il suo innegabile talento, unito a un esercizio costante, aveva affinato in maniera quasi incredibile le sue capacità. Quando, a undici anni, apprese che ogni numero positivo intero poteva essere espresso come la somma di quattro quadrati, Petros sbalordì i buoni Fratelli scomponendo qualsiasi numero che gli veniva proposto dopo pochi secondi di riflessione. 
«Come scomponi il 99, Pierredomandavano. 
«99 è uguale a 8² più 5² più 3² più 1²», rispondeva. 
«E 290?» 
«290 è uguale a 12² più 9² più 7² più 4².» 
«Ma come fai a scomporlo così in fretta?» 
Petros spiegava allora un metodo che a lui sembrava ovvio, ma che per i suoi insegnanti era difficile da capire e impossibile da applicare senza carta, matita e tempo a disposizione. La procedura si basava su salti logici che scavalcavano i gradini intermedi del calcolo, chiara dimostrazione del fatto che l’intuito matematico del ragazzo aveva già raggiunto un livello straordinario. 
Dopo avergli insegnato più o meno tutto quello che sapevano, quando Petros aveva una quindicina d’anni, i Fratelli si resero conto di non saper più rispondere al flusso costante delle domande matematiche di questo dotatissimo allievo. Fu allora che il rettore andò dal genitore del ragazzo. Papachristos padre non aveva forse molto tempo per i figli, ma sapeva quale fosse il proprio dovere per ciò che riguardava la fede greco-ortodossa. Aveva iscritto il figlio maggiore a una scuola gestita da stranieri scismatici perché dava prestigio in quell’élite sociale nella quale aspirava di entrare. Ma quando il rettore gli propose di mandare il figlio in un monastero francese per coltivare ulteriormente il suo talento matematico, attaccò subito il proselitismo. 
«I maledetti papisti vogliono mettere le mani su mio figlio», pensò. Comunque, pur non avendo fatto studi superiori, Papachristos senior era tutt’altro che uno sprovveduto. Sapendo per esperienza personale che un uomo riesce meglio nel campo per il quale ha una predisposizione naturale, non aveva nessuna intenzione di porre ostacoli alle scelte del figlio. Chiese informazioni negli ambienti giusti e venne a sapere che in Germania viveva un grande matematico, per di più di fede greco-ortodossa, il famoso professor Constantin Caratheodory. 
S’affrettò a scrivergli per chiedere un appuntamento. 
Padre e figlio si recarono a Berlino, dove Caratheodory, vestito come un banchiere, li ricevette nel suo studio all’università. Dopo una breve conversazione con Papachristos senior, lo studioso chiese di rimanere solo col figlio. Lo condusse alla lavagna, gli mise un gesso in mano e cominciò a interrogarlo. Petros risolse degli integrali, calcolò le somme di serie e dimostrò vari enunciati, come gli era stato chiesto. Poi, quando l’illustre professore ebbe concluso il suo esame, il ragazzo gli riferì ciò che aveva scoperto: elaborate costruzioni geometriche, complesse identità algebriche e, in particolare, osservazioni sulle proprietà dei numeri interi. 
Una di esse era questa:
«Ogni numero pari maggiore di 2 può essere scritto come la somma di due numeri primi.» 
«Ma non sei in grado di dimostrarlo», disse il famoso matematico. 
«Non ancora», rispose Petros. «Ma sono convinto che sia un principio generale. L’ho verificato fino a 10.000!» 
«E cos’hai da dire sulla distribuzione dei numeri primi?» domandò Caratheodory. «Sai calcolare quanti siano quelli minori di un dato numeron 
«No», rispose Petros, «ma man mano che n s’avvicina all’infinito, la quantità si approssima sempre di più al suo rapporto con il logaritmo naturale.» 
Caratheodory boccheggiò.
«Devi averlo letto da qualche parte!» 
«No, signore. Mi è solo sembrata una ragionevole estrapolazione dalle mie tavole. E poi, a scuola, i miei libri sono tutti di geometria.» 
L’espressione severa del professore lasciò il posto a un sorriso radioso. Fece rientrare il padre di Petros e gli disse che sottoporre il figlio ad altri due anni di superiori sarebbe stato uno spreco totale di tempo prezioso. Negare al suo dotatissimo ragazzo il meglio che l’insegnamento della matematica poteva offrire equivaleva, affermò, a un atto di “criminale negligenza”. Caratheodory avrebbe fatto in modo che Petros venisse subito ammesso nella sua università – naturalmente se il suo superiore era d’accordo. Al mio povero nonno non fu mai concessa una possibilità di scelta: non aveva alcun desiderio di commettere un delitto, men che meno contro il suo primogenito. 

 Furono presi gli accordi necessari e, qualche mese dopo, Petros tornò a Berlino e andò ad abitare a Charlottenburg, in casa di un socio in affari del padre.
Nei mesi precedenti l’inizio del nuovo anno accademico, la figlia maggiore del padrone di casa, la diciottenne Isolde, si offrì di aiutare il giovane ospite straniero a imparare il tedesco. Poiché era estate, le lezioni venivano spesso impartite in angoli appartati del giardino. Quando cominciò a far freddo, ricordava zio Petros con un sorrisetto, «le lezioni continuarono a letto». 
Isolde fu il primo e – a giudicare dal suo racconto – l’unico amore di mio zio. Fu una relazione di breve durata e fu portata avanti in gran segreto. Si davano appuntamento a ore irregolari e in luoghi improbabili: a mezzogiorno o a mezzanotte o all’alba, nel boschetto o nell’attico o in cantina, ovunque e ogni volta che si presentava un’occasione d’invisibilità. Se il padre di Isolde li avesse scoperti, «lo avrebbe impiccato con le sue stesse mani», come ricordava ripetutamente la ragazza al giovane amante. 
Per qualche tempo, Petros fu totalmente sviato dall’amore. Divenne quasi indifferente a tutto ciò che non riguardava la sua diletta, tanto che per un po’ Caratheodory temette d’essersi sbagliato nella valutazione iniziale delle sue potenzialità. Ma dopo qualche mese di ambigua felicità – «Troppo pochi, ahimè», diceva mio zio, con un sospiro –, Isolde lasciò la casa paterna e le braccia del giovane amante per sposare un affascinante tenente dell’artiglieria prussiana. 
Petros, naturalmente, era disperato.
Se l’intensità della sua passione infantile per i numeri era servita in parte a compensare l’assenza di tenerezza in famiglia, l’immersione nella matematica superiore all’Università di Berlino fu sicuramente accentuata dalla perdita della donna amata. Quanto più a fondo scavava nell’oceano sconfinato dei concetti astratti e dei simboli arcani, tanto più – grazie al Cielo – s’allontanava dal ricordo tormentosamente dolce della “carissima Isolde”. Che, assente, era diventata per Petros «molto più utile» (parole sue). La prima volta che erano andati a letto insieme (o più precisamente che lei lo aveva gettatosul suo letto), Isolde gli aveva sussurrato all’orecchio che ciò che l’aveva attratta era la sua fama diWunderkind, di “piccolo genio”. Ora, per riconquistarne il cuore, Petros decise che non erano sufficienti le mezze misure. Per ammaliarla a un’età più matura, doveva compiere straordinarie imprese intellettuali: diventare, insomma, un grande matematico. 
Ma come si diventa un grande matematico? È semplice: risolvendo un grande problema matematico! 
«Qual è il problema di matematica più difficile, professore?» domandò a Caratheodory durante il loro incontro successivo, cercando di fingere una mera curiosità accademica. 
«Ti dirò quali sono i tre maggiori contendenti», replicò il saggio, dopo un attimo d’esitazione. «L’Ipotesi di Riemann, l’Ultimo – o il Grande – Teorema di Fermat e, ultima ma non meno importante, la Congettura di Goldbach, secondo la quale ogni numero pari è la somma di due numeri primi – uno dei grandi problemi irrisolti della Teoria dei numeri.» 
Pur non essendo ancora una ferma decisione, il primo seme del sogno di riuscire un giorno a dimostrare la Congettura fu probabilmente piantato nel suo cuore da questo breve dialogo. Il fatto che enunciasse un’osservazione da lui stesso fatta molto prima di conoscere i nomi di Goldbach o di Eulero, gli rendeva il problema ancora più caro. La sua formulazione lo attirò fin dall’inizio. La combinazione fra semplicità apparente e notoria difficoltà era necessariamente segno di una verità profonda. Per il momento, però, Caratheodory non intendeva concedere a Petros il tempo di fantasticare. 
«Prima che tu possa fruttuosamente intraprendere una ricerca originale», gli disse chiaro e tondo, «devi impadronirti di un poderoso arsenale. Devi conoscere alla perfezione tutti gli strumenti del matematico moderno: dall’analisi semplice all’analisi complessa, alla topologia e all’algebra.» 
Anche per un giovane col suo straordinario talento ciò richiese tempo e una concentrazione assoluta. 
Dopo la laurea, Caratheodory gli assegnò per la tesi di dottorato un problema riguardante la Teoria delle equazioni differenziali. Petros sorprese il suo maestro completando il lavoro in meno di un anno, e con un successo clamoroso. Il metodo per la soluzione di un particolare tipo d’equazione che aveva proposto nella tesi (chiamato da allora “Metodo Papachristos”) gli guadagnò immediati consensi per la sua utilità nel risolvere certi problemi di fisica. Tuttavia, e qui cito le sue parole, «non aveva un interesse matematico particolare: era soltanto un calcolo del genere “conto del droghiere”.» 

Petros conseguì il dottorato nel 1916. Immediatamente dopo, il padre, preoccupato per l’imminente entrata della Grecia nella mischia della Grande Guerra, fece in modo di mandarlo a vivere per qualche tempo nella neutrale Svizzera. A Zurigo, finalmente padrone del proprio destino, Petros poté dedicarsi interamente al suo primo ed eterno amore: i numeri. 
Seguì un corso di specializzazione all’università, assistette a conferenze e seminari, e passò il resto del tempo in biblioteca, a divorare libri e riviste scientifiche. Si rese presto conto che per spingersi il più rapidamente possibile alle frontiere della conoscenza, doveva mettersi in viaggio. I matematici che in quel tempo stavano facendo un lavoro di prim’ordine sulla Teoria dei numeri erano gli inglesi G.H. Hardy e J.E. Littlewood e lo straordinario autodidatta indiano Srinivasa Ramanujan. Tutti e tre lavoravano al Trinity College di Cambridge. 
La guerra aveva diviso geograficamente l’Europa, e l’Inghilterra era isolata dal continente a causa dei sommergibili tedeschi che pattugliavano la Manica. Ma il desiderio intenso di Petros, unito al totale sprezzo del pericolo e ai mezzi più che cospicui a disposizione, gli permisero di raggiungere ben presto la sua meta. 
«Arrivai in Inghilterra che ero solo un principiante», mi disse, «e ne ripartii, tre anni dopo, come un esperto della Teoria dei numeri.» 
In effetti, il periodo di Cambridge costituì la preparazione indispensabile ai lunghi e duri anni che seguirono. Non aveva una carica accademica ufficiale, ma le sue condizioni finanziarie, o meglio quelle di suo padre, gli permettevano il lusso di farne a meno. Prese alloggio in una pensioncina, il Bishop Hostel, dove viveva anche Srinivasa Ramanujan. Fecero presto amicizia, e insieme seguirono le lezioni di G.H. Hardy.
Hardy incarnava il prototipo del ricercatore matematico moderno. Maestro autentico, affrontava la Teoria dei numeri con brillante lucidità, usando i metodi matematici più sofisticati per abbordarne i maggiori problemi, molti dei quali – come la Congettura di Goldbach – apparivano di un’ingannevole semplicità. Seguendo le sue lezioni, Petros apprese le tecniche che gli sarebbero servite nel suo lavoro e cominciò ad acquisire il profondo intuito matematico necessario per la ricerca avanzata. Imparava in fretta, e presto cominciò a progettare il labirinto in cui era destinato a entrare. 
Ma, nonostante la fondamentale importanza di Hardy nella sua evoluzione di matematico, fu il contatto con Ramanujan a ispirarlo.
«Oh, era un fenomeno assolutamente unico», mi raccontò Petros, con un sospiro. «Come diceva spesso Hardy, in termini di potenzialità matematiche, Ramanujan era lo zenit assoluto: aveva la stessa stoffa di Archimede, Newton e Gauss – e forse anche superiore. Tuttavia, l’assenza quasi totale di una preparazione matematica basilare durante gli anni della formazione lo aveva irrimediabilmente condannato a tradurre in atto solo una minuscola frazione del suo genio.» 
Guardare Ramanujan che faceva matematica era un’esperienza umiliante. Reverenza e stupore erano le sole reazioni possibili alla sua mirabolante capacità di concepire, in lampi improvvisi, le formule e le identità più incredibilmente complesse. (Con grande frustrazione dell’iperrazionalista Hardy, sosteneva spesso che gliele aveva rivelate in sogno la dea indù Namakiri.) Era inevitabile chiedersi: se l’estrema miseria in cui era nato non avesse privato Ramanujan di quegli insegnamenti assicurati al medio e ben nutrito studente occidentale, quali altezze avrebbe potuto raggiungere? 
Un giorno, Petros sollevò timidamente con lui il tema della Congettura di Goldbach. Lo fece con molta cautela, nell’intento di suscitare il suo interesse per questo problema. 
La risposta di Ramanujan fu una sgradevole sorpresa.
«Vedi, ho il sospetto che la Congettura possa non applicarsi a numeri molto, molto alti.» 
Petros rimase attonito. Possibile? Venendo da lui, non era un’osservazione da prendere alla leggera. Alla prima occasione, dopo una lezione, avvicinò Hardy e gliela ripeté, cercando però di non mostrarsi troppo interessato. 
«Il nostro caro Ramanujan è famoso per i suoi meravigliosi “sospetti”», disse, «e ha capacità intuitive fenomenali. Tuttavia, a differenza di Sua Santità il Papa, non pretende di essere infallibile.» 
Poi Hardy lo fissò, con un lampo d’ironia negli occhi. 
«Ma mi dica, mio caro, perché questo improvviso interesse per la Congettura di Goldbach?» 
Petros mormorò qualche banalità sul proprio “interesse generale per il problema” e gli chiese, con tutta l’innocenza possibile: 
«C’è qualcuno che ci sta lavorando?» 

«Vuoi dire che stia cercando di dimostrarla?» disse Hardy. «No di certo. Provarci direttamente sarebbe pura follia!» Questo avvertimento non bastò a dissuaderlo: anzi, gli indicò il cammino da seguire. Il senso delle parole di Hardy era chiaro: affrontare il problema in maniera diretta, “elementare”, significava fallire. Il modo giusto era il metodo analitico trasversale che, dopo il recente grande successo dei matematici francesi Hadamard e de la Vallée-Poussin, era diventato très à la mode nella Teoria dei numeri. Ben presto, si dedicò totalmente al suo studio. 

Ci fu un periodo a Cambridge in cui Petros, che non aveva ancora preso una decisione definitiva su quale sarebbe stato il lavoro della sua vita, meditò seriamente se dedicare le proprie energie a un altro problema. Ciò avvenne in seguito alla sua inaspettata cooptazione nella ristretta cerchia Hardy-Littlewood-Ramanujan.
In quegli anni di guerra, Littlewood non passava molto tempo all’università. Si faceva vivo ogni tanto per una conferenza o una riunione, per poi sparire chissà dove, in quell’aura di mistero che circondava ogni sua attività. Per Petros, che non l’aveva mai incontrato, fu una grossa sorpresa quando, all’inizio del 1917, Littlewood andò a cercarlo al Bishop Hostel. 
«È lei Petros Papachristos di Berlino?» gli domandò, dopo una stretta di mano e un sorriso guardingo. «L’allievo di Constantin Caratheodory?» 
«Sì, sono io», rispose Petros, perplesso. 
Littlewood sembrava piuttosto a disagio quando passò a spiegare le ragioni della sua visita: era allora alla guida di un gruppo di scienziati che effettuavano ricerche balistiche per l’Artiglieria Reale, per contribuire allo sforzo bellico. Il controspionaggio militare aveva ultimamente richiamato la loro attenzione sulla grande precisione del fuoco nemico sul fronte occidentale, che veniva attribuita a una nuova e innovativa tecnica di calcolo, il “Metodo Papachristos”. 
«Sono certo, vecchio mio, che non avrà alcuna obiezione a rendere partecipe di questa scoperta il Governo di Sua Maestà», concluse Littlewood. «Dopo tutto, la Grecia è dalla nostra parte.» 
La prima reazione di Petros fu di sgomento: temeva che lo obbligassero a sprecare tempo prezioso con problemi che avevano cessato d’interessarlo da tempo. Ma non fu necessario. Il testo della sua dissertazione, di cui per fortuna aveva con sé una copia, conteneva una dose di matematica più che sufficiente per le necessità dell’Artiglieria Reale. Littlewood ne fudoppiamente soddisfatto poiché il “Metodo Papachristos”, oltre a essere immediatamente utile allo sforzo bellico, alleggeriva di molto il suo carico di lavoro, lasciandogli più tempo da dedicare ai propri interessi matematici. 
Insomma, lungi dallo sviarlo, il precedente successo di Petros con le equazioni differenziali gli diede modo di entrare a far parte di una delle più famose associazioni dell’intera storia della matematica. Avendo scoperto con gioia che, al pari del suo, il cuore del dotato collega greco apparteneva alla Teoria dei numeri, Littlewood lo invitò presto ad accompagnarlo in una visita a casa di Hardy. I tre parlarono di matematica per ore. (In questo incontro, e in tutti quelli che seguirono, Littlewood e Petros evitarono qualsiasi accenno a ciò che aveva determinato il loro primo colloquio; Hardy era un pacifista fanatico, risolutamente contrario all’impiego delle scoperte scientifiche per facilitare la condotta bellica.) 
Dopo l’armistizio, Littlewood, rientrato a Cambridge a tempo pieno, invitò Petros a collaborare con lui e con Hardy a una memoria su cui avevano cominciato a lavorare insieme a Ramanujan. (Il quale intanto, gravemente ammalato, passava la maggior parte del tempo in sanatorio.) In quel periodo, i due grandi teorici dei numeri avevano concentrato i propri sforzi sull’Ipotesi di Riemann, epicentro di quasi tutti i più importanti risultati non dimostrati del metodo analitico. Una dimostrazione dell’intuizione di Bernhard Riemann sugli zeri della sua “Funzione z” avrebbe provocato un vero e proprio effetto domino, fornendo le prove di molti teoremi fondamentali della Teoria dei numeri. Petros accettò la proposta (e quale giovane matematico ambizioso non l’avrebbe accettata?), e i tre pubblicarono congiuntamente, nel 1918 e nel 1919,due memorie – quelle che il mio amico Sammy Epstein aveva trovato sotto il suo nome nell’indice bibliografico.n Ironicamente, sarebbero anche state le ultime opere da lui pubblicate.
Dopo questa prima collaborazione Hardy, giudice rigoroso di talenti matematici, propose a Petros di accettare una Fellowship, una borsa di studio per laureati, al Trinity e di stabilirsi a Cambridge, diventando un membro permanente della loro prestigiosa équipe. 
Petros chiese un po’ di tempo per pensarci. Di certo, la proposta era estremamente lusinghiera, e la prospettiva di proseguire quella collaborazione esercitava, a prima vista, un grande fascino. Un’associazione continuativa con Hardy e Littlewood avrebbe sicuramente prodotto altri eccellenti lavori, assicurandogli così una rapida ascesa nella comunità scientifica. Inoltre, i due uomini gli erano simpatici. Frequentarli era non solo gradevole, ma immensamente stimolante. Anche l’aria stessa che respiravano risultava permeata di brillanti e importanti intuizioni matematiche. 
Ma, nonostante tutto questo, la prospettiva di restare lo riempiva d’apprensione. 
Se fosse rimasto a Cambridge, avrebbe seguito una rotta prevedibile. Avrebbe prodotto un buon lavoro, perfino un lavoro eccellente, ma la sua carriera sarebbe stata determinata da Hardy e Littlewood. I loro problemi sarebbero diventati i suoi e, peggio ancora, la loro fama avrebbe inevitabilmente eclissato la sua. Se – come sperava Petros – col tempo fossero riusciti a dimostrare l’Ipotesi di Riemann, certamente sarebbe stata un’impresa di grande rilievo, un successo di straordinarie proporzioni che avrebbe sconvolto il mondo. Ma sarebbe stato suo? Gli avrebbero riconosciuto anche solo quel terzo del merito che gli spettava di diritto? Non era più probabile che la sua parte in questa impresa sarebbe stata offuscata dalla fama dei due illustri colleghi? 
Chiunque sostenga che gli scienziati, anche i più puri dei puri, anche i più astratti e utopistici dei matematici, siano mossi esclusivamente dal perseguimento della verità per il bene del genere umano, o non ha la più vaga idea di quel che sta dicendo oppure mente in modo sfacciato. Benché i membri della comunità scientifica con una visione più spirituale possano essere indifferenti ai guadagni materiali, non ce n’è uno che non sia soprattutto motivato dall’ambizione e da un forte impulso competitivo. (Naturalmente, nel caso di una grande scoperta matematica il campo dei contendenti è necessariamente limitato. Poiché i rivali per la conquista del trofeo sono i pochi eletti, la crème, la competizione diventa una veragigantomachia, una battaglia di giganti.) L’intenzione dichiarata di un matematico nel momento in cui intraprende una ricerca importante può essere benissimo la scoperta della verità, ma la materia prima dei suoi sogni è la gloria. 
E lo zio Petros non faceva eccezione – lo ammise con assoluta sincerità raccontandomi la sua storia. Dopo Berlino e la delusione subita a opera della “carissima Isolde”, aveva cercato nella matematica, un grande – e quasi trascendente – successo, un trionfo totale che gli avrebbe dato fama mondiale e, nelle sue speranze, avrebbe portato quell’insensibile Mädchen a gettarsi supplice ai suoi piedi. Ma per essere completo, questo trionfo doveva essere soltanto suo, non condiviso fra due o tre persone. 
Sull’ipotesi di rimanere a Cambridge influiva negativamente anche una questione di tempo. La matematica è un lavoro da giovani. È una delle poche attività umane (simile in questo agli sport) dove la gioventù è una condizione necessaria per la grandezza. Petros, come ogni giovane matematico, conosceva i deprimenti dati statistici: nella storia della disciplina non era quasi mai successo che a fare una grande scoperta fosse stato un uomo che avesse superato i trentacinque o i quarant’anni. Riemann era morto a trentanove anni, Niels Henrik Abel a ventisette e Evariste Galois si era spento tragicamente quando ne aveva soltanto venti, e tuttavia i loro nomi erano incisi a lettere d’oro nelle pagine della storia della matematica, la Funzione z di Riemann, gli Integrali abeliani e i Gruppi di Galois costituivano un’eredità imperitura per i futuri matematici. Certo Eulero e Gauss avevano continuato a lavorare e a produrre teoremi fino alla vecchiaia, ma le loro scoperte fondamentali risalivano alla prima giovinezza. In ogni altro campo, il ventiquattrenne Petros sarebbe stato un promettente principiante, con davanti anni e anni di ricche possibilità creative; in matematica, invece, era al culmine delle sue capacità.