LA TREGUA
Primo Levi
[...] Presto udremo ancora
Il comando straniero:
«Wstawaç»[..]
Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare;mangiare;raccontare. Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:
«Wstawaç»;
E si spezzava in petto il cuore.
Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre è sazio,
abbiamo finito di raccontare.
È tempo.
Presto udremo ancora
Il comando straniero:
«Wstawaç».
11 gennaio 1946
IL DISGELO
Nei primi giorni del gennaio 1945, sotto la spinta dell’Armata Rossa ormai vicina, i tedeschi avevano evacuato in tutta fretta il bacino minerario slesiano. Mentre altrove, in analoghe condizioni, non avevano esitato a distruggere col fuoco o con le armi i Lager insieme con i loro occupanti, nel distretto di Auschwitz agirono diversamente: ordini superiori (a quanto pare dettati personalmente da Hitler) imponevano di «recuperare», a qualunque costo, ogni uomo abile al lavoro. Perciò tutti i prigionieri sani furono evacuati, in condizioni spaventose, su Buchenwald e su Mauthausen, mentre i malati furono abbandonati a loro stessi. Da vari indizi è lecito dedurre la originaria intenzione tedesca di non lasciare nei campi di concentramento nessun uomo vivo; ma un violento attacco aereo notturno, e la rapidità dell’avanzata russa, indussero i tedeschi a mutare pensiero, e a prendere la fuga lasciando incompiuto il loro dovere e la loro opera.
Nell’infermeria del Lager di Buna-Monowitz eravamo rimasti in ottocento. Di questi, circa cinquecento morirono delle loro malattie, di freddo e di fame prima che arrivassero i russi, ed altri duecento, malgrado i soccorsi, nei giorni immediatamente successivi.
La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. Fummo Charles ed io i primi a scorgerla: stavamo trasportando alla fossa comune il corpo di Sómogyi, il primo dei morti fra i nostri compagni di camera. Rovesciammo la barella sulla neve corrotta, ché la fossa era ormai piena, ed altra sepoltura non si dava: Charles si tolse il berretto, a salutare i vivi e i morti.
Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi.
A noi parevano mirabilmente corporei e reali, sospesi (la strada era piú alta del campo) sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo.
Ci pareva, e cosí era, che il nulla pieno di morte in cui da dieci giorni ci aggiravamo come astri spenti avesse trovato un suo centro solido, un nucleo di condensazione: quattro uomini armati, ma non armati contro di noi; quattro messaggeri di pace, dai visi rozzi e puerili sotto i pesanti caschi di pelo.
Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.
Cosí per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempí gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso di pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai piú sarebbe potuto avvenire di cosí buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.
Queste cose, allora mal distinte, e avvertite dai piú solo come una improvvisa ondata di fatica mortale, accompagnarono per noi la gioia della liberazione. Perciò pochi fra noi corsero incontro ai salvatori, pochi caddero in preghiera. Charles ed io sostammo in piedi presso la buca ricolma di membra livide, mentre altri abbattevano il reticolato; poi rientrammo con la barella vuota, a portare la notizia ai compagni.
Per tutto il resto della giornata non avvenne nulla, cosa che non ci sorprese, ed a cui eravamo da molto tempo avvezzi. Nella nostra camera la cuccetta del morto Sómogyi fu subito occupata dal vecchio Thylle, con visibile ribrezzo dei miei due compagni francesi.
Thylle, per quanto io ne sapevo allora, era un «triangolo rosso», un prigioniero politico tedesco, ed era uno degli anziani del Lager; come tale, aveva appartenuto di diritto alla aristocrazia del campo, non aveva lavorato manualmente (almeno negli ultimi anni), ed aveva ricevuto alimenti e vestiti da casa. Per queste stesse ragioni i «politici» tedeschi erano assai raramente ospiti dell’infermeria, in cui d’altronde godevano di vari privilegi: primo fra tutti, quello di sfuggire alle selezioni. Poiché, al momento della liberazione, era lui l’unico, dalle SS in fuga era stato investito della carica di capobaracca del Block 20, di cui facevano parte, oltre alla nostra camerata di malati altamente infettivi, anche la sezione TBC e la sezione dissenteria.
Essendo tedesco, aveva preso molto sul serio questa precaria nomina. Durante i dieci giorni che separarono la partenza delle SS dall’arrivo dei russi, mentre ognuno combatteva la sua ultima battaglia contro la fame, il gelo e la malattia, Thylle aveva fatto diligenti ispezioni del suo nuovissimo feudo, controllando lo stato dei pavimenti e delle gamelle e il numero delle coperte (una per ogni ospite, vivo o morto che fosse). In una delle sue visite alla nostra camera aveva perfino encomiato Arthur per l’ordine e la pulizia che aveva saputo mantenere; Arthur, che non capiva il tedesco, e tanto meno il dialetto sassone di Thylle, gli aveva risposto «vieux dégoû- tant» e «putain de boche»; ciononostante Thylle, da quel giorno in poi, con evidente abuso di autorità, aveva preso l’abitudine di venire ogni sera nella nostra camera per servirsi del confortevole bugliolo che vi era installato: in tutto il campo, l’unico alla cui manutenzione si provvedesse regolarmente, e l’unico situato nelle vicinanze di una stufa.
Fino a quel giorno, il vecchio Thylle era dunque stato per me un estraneo, e perciò un nemico; inoltre un potente, e perciò un nemico pericoloso. Per la gente come me, vale a dire per la generalità del Lager, altre sfumature non c’erano: durante tutto il lunghissimo anno trascorso in Lager, io non avevo avuto mai né la curiosità né l’occasione di indagare le complesse strutture della gerarchia del campo. Il tenebroso edificio di potenze malvage giaceva tutto al di sopra di noi, e il nostro sguardo era rivolto al suolo. Eppure fu questo Thylle, vecchio militante indurito da cento lotte per il suo partito ed entro il suo partito, e pietrificato da dieci anni di vita feroce ed ambigua in Lager, il compagno e il confidente della mia prima notte di libertà.
Per tutto il giorno, avevamo avuto troppo da fare per aver tempo di commentare l’avvenimento, che pure sentivamo segnare il punto cruciale della nostra intera esistenza; e forse, inconsciamente, l’avevamo cercato, il da fare, proprio allo scopo di non aver tempo, perché di fronte alla libertà ci sentivamo smarriti, svuotati, atrofizzati, disadatti alla nostra parte.
Ma venne la notte, i compagni ammalati si addormentarono, si addormentarono anche Charles e Arthur del sonno dell’innocenza, poiché erano in Lager da un solo mese, e ancora non ne avevano assorbito il veleno: io solo, benché esausto, non trovavo sonno, a causa della fatica stessa e della malattia. Avevo tutte le membra indolenzite, il sangue mi pulsava convulsamente nel cranio, e mi sentivo invadere dalla febbre. Ma non era solo questo: come se un argine fosse franato, proprio in quell’ora in cui ogni minaccia sembrava venire meno, in cui la speranza di un ritorno alla vita cessava di essere pazzesca, ero sopraffatto da un dolore nuovo e piú vasto, prima sepolto e relegato ai margini della coscienza da altri piú urgenti dolori: il dolore dell’esilio, della casa lontana, della solitudine, degli amici perduti, della giovinezza perduta, e dello stuolo di cadaveri intorno.
Nel mio anno di Buna avevo visto sparire i quattro quinti dei miei compagni, ma non avevo mai subito la presenza concreta, l’assedio della morte, il suo fiato sordido a un passo, fuori della finestra, nella cuccetta accanto, nelle mie stesse vene. Giacevo perciò in un dormiveglia malato e pieno di pensieri funesti.
Ma mi accorsi ben presto che qualcun altro vegliava. Ai respiri pesanti dei dormienti si sovrapponeva a tratti un ansito rauco e irregolare, interrotto da colpi di tosse e da gemiti e sospiri soffocati. Thylle piangeva, di un faticoso ed inverecondo pianto di vecchio, insostenibile come una nudità senile. Si avvide forse, nel buio, di un qualche mio movimento; e la solitudine, che fino a quel giorno entrambi, per diversi motivi, avevamo cercato, doveva pesargli quanto a me, poiché a metà della notte mi chiese «Sei sveglio?», e senza attendere la risposta si arrampicò a gran fatica fino alla mia cuccetta, e d’autorità mi sedette accanto.
Non era facile intendersi con lui; non solo per ragioni di linguaggio, ma anche perché i pensieri che ci sedevano in petto in quella lunga notte erano smisurati, meravigliosi e terribili, ma soprattutto confusi. Gli dissi che soffrivo di nostalgia; e lui, che aveva smesso di piangere, «dieci anni», mi disse, «dieci anni!»: e dopo dieci anni di silenzio, con un filo di voce stridula, grottesco e solenne ad un tempo, prese a cantare l’Internazionale, lasciandomi turbato, diffidente e commosso.
Il mattino ci portò i primi segni di libertà. Giunsero (evidentemente precettati dai russi) una ventina di civili polacchi, uomini e donne, che con pochissimo entusiasmo si diedero ad armeggiare per mettere ordine e pulizia fra le baracche e sgomberare i cadaveri. Verso mezzogiorno arrivò un bambino spaurito, che trascinava una mucca per la cavezza; ci fece capire che era per noi, e che la mandavano i russi, indi abbandonò la bestia e fuggí come un baleno. Non saprei dire come, il povero animale venne macellato in pochi minuti, sventrato, squartato, e le sue spoglie si dispersero per tutti i recessi del campo dove si annidavano i superstiti.
A partire dal giorno successivo, vedemmo aggirarsi per il campo altre ragazze polacche, pallide di pietà e di ribrezzo: ripulivano i malati e ne curavano alla meglio le piaghe. Accesero anche in mezzo al campo un enorme fuoco, che alimentavano con i rottami delle baracche sfondate, e sul quale cucinavano la zuppa in recipienti di fortuna. Finalmente, al terzo giorno, si vide entrare in campo un carretto a quattro ruote, guidato festosamente da Yankel, uno Häftling: era un giovane ebreo russo, forse l’unico russo fra i superstiti, ed in quanto tale si era trovato naturalmente a rivestire la funzione di interprete e di ufficiale di collegamento coi comandi sovietici. Tra sonori schiocchi di frusta, annunziò che aveva incarico di portare al Lager centrale di Auschwitz, ormai trasformato in un gigantesco lazzaretto, tutti i vivi fra noi, a piccoli gruppi di trenta o quaranta al giorno, e a cominciare dai malati piú gravi.
Era intanto sopravvenuto il disgelo, che da tanti giorni temevamo, ed a misura che la neve andava scomparendo, il campo si mutava in uno squallido acquitrino. I cadaveri e le immondizie rendevano irrespirabile l’aria nebbiosa e molle. Né la morte aveva cessato di mietere: morivano a decine i malati nelle loro cuccette fredde, e morivano qua e là per le strade fangose, come fulminati, i superstiti piú ingordi, i quali, seguendo ciecamente il comando imperioso della nostra antica fame, si erano rimpinzati delle razioni di carne che i russi, tuttora impegnati in combattimenti sul fronte non lontano, facevano irregolarmente pervenire al campo: talora poco, talora nulla, talora in folle abbondanza.
Ma di tutto quanto avveniva intorno a me io non mi rendevo conto che in modo saltuario e indistinto. Pareva che la stanchezza e la malattia, come bestie feroci e vili, avessero atteso in agguato il momento in cui mi spogliavo di ogni difesa per assaltarmi alle spalle. Giacevo in un torpore febbrile, cosciente solo a mezzo, assistito fraternamente da Charles, e tormentato dalla sete e da acuti dolori alle articolazioni. Non c’erano medici né medicine. Avevo anche male alla gola, e metà della faccia mi era gonfiata: la pelle si era fatta rossa e ruvida, e mi bruciava come per una ustione; forse soffrivo di piú malattie ad un tempo. Quando venne il mio turno di salire sul carretto di Yankel, non ero piú in grado di reggermi in piedi.
Fui issato sul carro da Charles e da Arthur, insieme con un carico di moribondi da cui non mi sentivo molto dissimile. Piovigginava, e il cielo era basso e fosco. Mentre il lento passo dei cavalli di Yankel mi trascinava verso la lontanissima libertà, sfilarono per l’ultima volta sotto i miei occhi le baracche dove avevo sofferto e mi ero maturato, la piazza dell’appello su cui ancora si ergevano, fianco a fianco, la forca e un gigantesco albero di Natale, e la porta della schiavitú, su cui, vane ormai, ancora si leggevano le tre parole della derisione: «Arbeit Macht Frei», «Il lavoro rende liberi».
IL CAMPO GRANDE
A Buna non si sapeva molto del «Campo Grande», di Auschwitz propriamente detto: gli Häftlinge trasferiti da campo a campo erano pochi, non loquaci (nessuno Häftling lo era), né facilmente creduti.
Quando il carro di Yankel varcò la soglia famosa, rimanemmo sbalorditi. Buna-Monowitz, coi suoi dodicimila abitanti, era un villaggio al confronto: quella in cui entravamo era una sterminata metropoli. Non «Blocks» di legno a un piano, ma innumerevoli tetri edifici quadrati di mattoni nudi, a tre piani, tutti eguali fra loro; fra questi correvano strade lastricate, rettilinee e perpendicolari, a perdita d’occhio. Il tutto era deserto, silenzioso, schiacciato sotto il cielo basso, pieno di fango e di pioggia e di abbandono.
Anche qui, come ad ogni svolta del nostro cosí lungo itinerario, fummo sorpresi di essere accolti con un bagno, quando di tante altre cose avevamo bisogno. Ma non fu quello un bagno di umiliazione, un bagno grottesco-demoniaco-sacrale, un bagno da messa nera come l’altro che aveva segnato la nostra discesa nell’universo concentrazionario, e neppure un bagno funzionale, antisettico, altamente tecnicizzato, come quello del nostro passaggio, molti mesi piú tardi, in mano americana: bensí un bagno alla maniera russa, a misura umana, estemporaneo ed approssimativo.
Non intendo già mettere in dubbio che un bagno, per noi in quelle condizioni, fosse opportuno: era anzi necessario, e non sgradito. Ma in esso, ed in ciascuno di quei tre memorabili lavacri, era agevole ravvisare, dietro all’aspetto concreto e letterale, una grande ombra simbolica, il desiderio inconsapevole, da parte della nuova autorità che volta a volta ci assorbiva nella sua sfera, di spogliarci delle vestigia della nostra vita di prima, di fare di noi degli uomini nuovi, conformi ai loro modelli, di imporci il loro marchio.
Ci deposero dal carro le braccia robuste di due infermiere sovietiche: «Po malu, po malu!» («adagio, adagio!»); furono le prime parole russe che udii. Erano due ragazze energiche ed esperte. Ci condussero in uno degli impianti del Lager che era stato sommariamente rimesso in efficienza, ci spogliarono, ci fecero cenno di coricarci sui tralicci di legno che coprivano il pavimento, e con mani pietose, ma senza tanti complimenti, ci insaponarono strofinarono, massaggiarono e asciugarono dalla testa ai piedi.
L’operazione andò liscia e spedita con tutti noi, a meno di qualche protesta moralistico-giacobina di Arthur, che si proclamava «libre citoyen», e nel cui subconscio il contatto di quelle mani femminili sulla pelle nuda veniva a conflitto con tabú ancestrali. Ma trovò un grave intoppo quando venne il turno dell’ultimo del gruppo.
Nessuno di noi sapeva chi fosse costui, perché non era in grado di parlare. Era una larva, un ometto calvo, nodoso come una vite, scheletrico, accartocciato da una orribile contrattura di tutti i muscoli: lo avevano deposto dal carro di peso, come un blocco inanimato, e ora giaceva a terra su un fianco, acciambellato e rigido, in una disperata posizione di difesa, con le ginocchia premute fin contro la fronte, i gomiti serrati ai fianchi, e le mani a cuneo con le dita puntate contro le spalle. Le sorelle russe, perplesse, cercarono invano di distenderlo sul dorso, al che egli emise strida acute da topo: del resto, era fatica inutile, le sue membra cedevano elasticamente sotto lo sforzo, ma appena abbandonate scattavano indietro alla loro posizione iniziale. Allora presero partito, e lo portarono sotto la doccia cosí com’era; e poiché avevano ordini precisi, lo lavarono ugualmente del loro meglio, forzando spugna e sapone nel groviglio legnoso di quel corpo; alla fine, lo sciacquarono coscienziosamente, versandogli sopra un paio di secchi d’acqua tiepida.
Charles e io, nudi e fumanti, assistevamo alla scena con pietà e orrore. Mentre una delle braccia era distesa, si vide per un istante il numero tatuato: era un 200 000, uno dei Vosgi. – Bon Dieu, c’est un français! – fece Charles, e si volse in silenzio contro il muro.
Ci assegnarono camicia e mutande, e ci condussero dal barbiere russo affinché, per l’ultima volta della nostra carriera, ci fossero rasi i capelli a zero. Il barbiere era un gigante bruno, dagli occhi selvaggi e spiritati: esercitava la sua arte con inconsulta violenza) e per ragioni a me ignote portava un mitragliatore a tracolla. «Italiano Mussolini», mi disse bieco, e ai due francesi: «Fransé Laval»; dove si vede quanto poco soccorrano le idee generali alla comprensione dei casi singoli.
Qui ci separammo: Charles e Arthur, guariti e relativamente ben portanti, si ricongiunsero al gruppo dei francesi, e sparirono dal mio orizzonte. Io, malato, fui introdotto nell’infermeria, visitato sommariamente, e relegato d’urgenza in un nuovo «Reparto Infettivi».
Questa infermeria era tale nelle intenzioni, e inoltre perché effettivamente rigurgitava di infermi (infatti i tedeschi in fuga avevano lasciato a Monowitz, Auschwitz e Birkenau solo i malati piú gravi, e questi erano stati tutti radunati dai russi nel Campo Grande): non era, né poteva essere, un luogo di cura perché i medici, per lo piú malati essi stessi, erano poche decine, le medicine e il materiale sanitario mancavano del tutto, mentre avevano bisogno di cure i tre quarti almeno dei cinquemila ospiti del campo.
Il locale a cui venni assegnato era una camerata enorme e buia, piena fino al soffitto di sofferenze e di lamenti. Per forse ottocento malati, non vi era che un medico di guardia, e nessun infermiere: erano i malati stessi che dovevano provvedere alle loro necessità piú urgenti, e a quelle dei loro compagni piú gravi. Vi trascorsi una sola notte, che ricordo come un incubo; al mattino, i cadaveri nelle cuccette, o abbandonati scomposti sul pavimento, si contavano a dozzine.
Il giorno seguente fui trasferito in un locale piú piccolo, che conteneva solo venti cuccette: in una di queste giacqui per tre o quattro giorni, oppresso da una febbre altissima, cosciente solo ad intervalli, incapace di mangiare, e tormentato da una sete atroce.
Al quinto giorno la febbre era sparita: mi sentivo leggero come una nuvola, affamato e gelato, ma la mia testa era sgombra, gli occhi e gli orecchi come affinati dalla forzata vacanza, ed ero in grado di riprendere contatto col mondo.
Nel corso di quei pochi giorni, intorno a me si era verificato un mutamento vistoso. Era stato l’ultimo grande colpo di falce, la chiusura dei conti: i moribondi erano morti, in tutti gli altri la vita ricominciava a scorrere tumultuosamente. Fuori dai vetri, benché nevicasse fitto, le funeste strade del campo non erano piú deserte, anzi brulicavano di un viavai alacre, confuso e rumoroso, che sembrava fine a se stesso. Fino a tarda sera si sentivano risuonare grida allegre o iraconde, richiami, canzoni. Ciononostante la mia attenzione, e quella dei miei vicini di letto, raramente riusciva ad eludere la presenza ossessiva, la mortale forza di affermazione del piú piccolo ed inerme fra noi, del piú innocente, di un bambino, di Hurbinek.
Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giú, ed aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena.
Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek passava accanto alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno piú che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare; certo meglio che dalle ragazze polacche, troppo tenere e troppo vane, che lo ubriacavano di carezze e di baci, ma fuggivano la sua intimità.
Henek invece, tranquillo e testardo, sedeva accanto alla piccola sfinge, immune alla potenza triste che ne emanava; gli portava da mangiare, gli rassettava le coperte, lo ripuliva con mani abili, prive di ripugnanza; e gli parlava, naturalmente in ungherese, con voce lenta e paziente. Dopo una settimana, Henek annunciò con serietà, ma senza ombra di presunzione, che Hurbinek «diceva una parola». Quale parola? Non sapeva, una parola difficile, non ungherese: qualcosa come «mass-klo», «matisklo». Nella notte tendemmo l’orecchio: era vero, dall’angolo di Hurbinek veniva ogni tanto un suono, una parola. Non sempre esattamente la stessa, per verità, ma era certamente una parola articolata. O meglio, parole articolate leggermente diverse, variazioni sperimentali attorno a un tema, a una radice, forse a un nome.
Hurbinek continuò finché ebbe vita nei suoi esperimenti ostinati. Nei giorni seguenti, tutti lo ascoltavano in silenzio, ansiosi di capire, e c’erano fra noi parlatori di tutte le lingue d’Europa: ma la parola di Hurbinek rimase segreta. No, non era certo un messaggio, non una rivelazione: forse era il suo nome, se pure ne aveva avuto uno in sorte; forse (secondo una delle nostre ipotesi) voleva dire «mangiare», o «pane»; o forse «carne» in boemo, come sosteneva con buoni argomenti uno di noi, che conosceva questa lingua.
Hurbinek, che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero; Hurbinek, che aveva combattuto come un uomo, fino all’ultimo respiro, per conquistarsi l’entrata nel mondo degli uomini, da cui una potenza bestiale lo aveva bandito; Hurbinek, il senza-nome, il cui minuscolo avambraccio era pure stato segnato col tatuaggio di Auschwitz; Hurbinek morí ai primi giorni del marzo 1945, libero ma non redento. Nulla resta di lui: egli testimonia attraverso queste mie parole.
Henek era un buon compagno, ed una perpetua fonte di sorpresa. Anche il suo nome, come quello di Hurbinek, era convenzionale: il suo nome vero, che era König, era stato alterato in Henek, diminutivo polacco di Enrico, dalle due ragazze polacche, le quali, benché piú anziane di lui di dieci anni almeno, provavano per Henek una simpatia ambigua che presto divenne desiderio aperto.
Henek-König, solo del nostro microcosmo di afflizione, non era né malato né convalescente, anzi, godeva di una splendida sanità di corpo e di spirito. Era di piccola statura e di aspetto mite, ma aveva una muscolatura da atleta; affettuoso e servizievole con Hurbinek e con noi, albergava tuttavia istinti pacatamente sanguinari. Il Lager, trappola mortale, «mulino da ossa» per gli altri, era stato per lui una buona scuola: in pochi mesi aveva fatto di lui un giovane carnivoro pronto, sagace, feroce e prudente.
Nelle lunghe ore che trascorremmo insieme, mi narrò l’essenziale della sua breve vita. Era nato ed abitava in una fattoria, in Transilvania, in mezzo al bosco, vicino al confine rumeno. Andava spesso col padre per il bosco, alla domenica, entrambi col fucile. Perché col fucile? per cacciare? Sí, anche per cacciare; ma anche per sparare ai rumeni. E perché sparare ai rumeni? Perché sono rumeni, mi spiegò Henek con semplicità disarmante. Anche loro, ogni tanto, sparavano a noi.
Era stato catturato, e deportato ad Auschwitz con tutta la famiglia. Gli altri erano stati uccisi subito: lui aveva dichiarato alle SS di avere diciotto anni e di essere muratore, mentre ne aveva quattordici ed era studente. Cosí era entrato a Birkenau: ma a Birkenau aveva invece insistito sulla sua età vera, era stato assegnato al Block dei bambini, ed essendo il piú anziano e il piú robusto era diventato il loro Kapo. I bambini erano a Birkenau come uccelli di passo: dopo pochi giorni, erano trasferiti al Block delle esperienze, o direttamente alle camere a gas. Henek aveva subito capito la situazione, e da buon Kapo si era «organizzato», aveva stabilito solide relazioni con un influente Häftling ungherese, ed era rimasto fino alla liberazione. Quando c’erano selezioni al Block dei bambini, era lui che sceglieva. Non provava rimorso? No: perché avrebbe dovuto? esisteva forse un altro modo per sopravvivere?
Alla evacuazione del Lager, saviamente, si era nascosto: dal suo nascondiglio, attraverso la finestrella di una cantina, aveva visto i tedeschi sgomberare in gran fretta i favolosi magazzini di Auschwitz, e aveva notato come, nel trambusto della partenza, avessero sparso sulla strada una buona quantità di alimenti in scatola. Non si erano attardati a recuperarli, ma avevano cercato di distruggerli passandoci sopra con i cingoli dei loro mezzi corazzati. Molte scatole si erano confitte nel fango e nella neve senza sfasciarsi: a notte, Henek era uscito con un sacco, e aveva radunato un fantastico tesoro di scatole, deformate, appiattite, ma ancora piene: carne, lardo, pesce, frutta, vitamine. Non lo aveva detto al nessuno, naturalmente: lo diceva a me, perché ero suo vicino di letto, e potevo essergli utile come sorvegliante. In effetti, poiché Henek passava molte ore in giro per il Lager, in misteriose faccende, mentre io ero nella impossibilità di muovermi, la mia opera di custodia gli fu abbastanza utile. In me aveva fiducia: sistemò il sacco sotto il mio letto, e nei giorni seguenti mi corrispose una giusta mercede in natura, autorizzandomi a prelevare quelle razioni di conforto che riteneva adatte, come qualità e quantità, alla mia condizione di malato e alla misura dei miei servizi.
Non era Hurbinek il solo bambino. Ce n’erano altri, in condizioni di salute relativamente buone: avevano costituito un loro piccolo «club», molto chiuso e riservato, in cui l’intrusione degli adulti era visibilmente sgradita. Erano animaletti selvaggi e giudiziosi, che si intrattenevano fra di loro in lingue che non comprendevo. Il piú autorevole membro del clan non aveva piú di cinque anni, e si chiamava Peter Pavel.
Peter Pavel non parlava con nessuno e non aveva bisogno di nessuno. Era un bel bambino biondo e robusto, dal viso intelligente e impassibile. Al mattino scendeva dalla sua cuccetta, che era al terzo piano, con movimenti lenti ma sicuri, andava alle docce a riempire d’acqua la sua gamella, e si lavava meticolosamente. Spariva poi per tutta la giornata, facendo solo una breve comparsa a mezzogiorno per riscuotere la zuppa in quella stessa sua gamella. Tornava infine per la cena; mangiava, usciva nuovamente, rientrava poco dopo con un vaso da notte, lo collocava nell’angolo dietro la stufa, vi sedeva per qualche minuto, ripartiva col vaso, tornava senza, si arrampicava piano piano al suo posto, sistemava puntigliosamente le coperte e il cuscino, e dormiva fino al mattino senza mutare posizione.
Pochi giorni dopo il mio arrivo, vidi con disagio apparire un viso noto; la sagoma patetica e sgradevole del Kleine Kiepura, la mascotte di Buna-Monowitz. Tutti lo conoscevano a Buna: era il piú giovane dei prigionieri, non aveva che dodici anni. Tutto era irregolare in lui, a partire dalla sua stessa presenza in Lager, dove di norma i bambini non entravano vivi: nessuno sapeva come e perché vi fosse stato ammesso, e ad un tempo tutti lo sapevano fin troppo. Irregolare era la sua condizione, poiché non marciava al lavoro, ma risiedeva in semiclausura nel Block dei funzionari; vistosamente irregolare, infine, il suo aspetto.
Era cresciuto troppo e male: dal busto tozzo e corto sporgevano braccia e gambe lunghissime, da ragno; e di sotto il viso pallido, dai tratti non privi di grazia infantile, balzava in avanti una enorme mandibola, piú prominente del naso. Il Kleine Kiepura era l’attendente e il protetto del Lager-Kapo, il Kapo di tutti i Kapos.
Nessuno lo amava, salvo il suo protettore. All’ombra dell’autorità, ben nutrito e vestito, esente dal lavoro, aveva condotto fino all’ultimo giorno un’esistenza ambigua e frivola di favorito, intessuta di pettegolezzi, di delazioni e di affetti distorti: il suo nome, a torto, come spero, veniva sempre sussurrato nei casi piú clamorosi di denunzie anonime alla Sezione politica e alle SS. Perciò tutti lo temevano e lo fuggivano.
Ora il Lager-Kapo, destituito di ogni potere, era in marcia verso occidente, e il Kleine Kiepura, convalescente di una leggera malattia, aveva seguito il nostro destino. Ebbe un letto e una scodella, e si inserí nel nostro limbo. Henek ed io gli rivolgemmo poche e caute parole, poiché provavamo verso di lui diffidenza e una pietà ostile; ma quasi non ci rispose. Tacque per due giorni: se ne stava in cuccetta tutto raggomitolato, con lo sguardo fisso nel vuoto e i pugni serrati sul petto. Poi prese ad un tratto a parlare, e rimpiangemmo il suo silenzio. Il Kleine Kiepura parlava da solo, come in sogno: e il suo sogno era di avere fatto carriera, di essere diventato un Kapo. Non si capiva se fosse follia o un gioco puerile e sinistro: senza tregua, dall’alto della sua cuccetta vicino al soffitto, il ragazzo cantava e fischiava le marce di Buna, i ritmi brutali che scandivano i nostri passi stanchi ogni mattina e ogni sera; e vociferava in tedesco imperiosi comandi ad uno stuolo di schiavi inesistenti.
– Alzarsi, porci, avete capito? Rifare i letti, ma presto: pulirsi le scarpe. Tutti adunata, controllo dei pidocchi, controllo dei piedi. Mostrare i piedi, carogne! Di nuovo sporco, tu, sacco di m….: fai attenzione, io non scherzo. Ancora una volta che ti pesco, e te ne vai in crematorio –. Poi, urlando alla maniera dei militari tedeschi: – In fila, coperti, allineati. Giú il colletto: al passo, seguire la musica. Le mani sulla cucitura dei pantaloni –. E poi ancora, dopo una pausa, con voce arrogante e stridula: – Questo non è un sanatorio. Questo è un Lager tedesco, si chiama Auschwitz, e non se ne esce che per il Camino. Se ti piace è cosí; se non ti piace, non hai che da andare a toccare il filo elettrico.
Il Kleine Kiepura sparí dopo pochi giorni, con sollievo di tutti. In mezzo a noi, deboli e malati, ma pieni della letizia timida e trepida della libertà ritrovata, la sua presenza offendeva come quella di un cadavere, e la compassione che egli suscitava in noi era commista ad orrore. Tentammo invano di strapparlo al suo delirio: l’infezione del Lager aveva fatto in lui troppa strada.
Le due ragazze polacche, che svolgevano (in realtà assai male) le mansioni di infermiere, si chiamavano Hanka e Jadzia. Hanka era una ex Kapo, come si poteva dedurre dalla sua chioma non rasata, e anche piú sicuramente dai suoi modi protervi. Non doveva avere piú di ventiquattro anni: era di media statura, di carnagione olivastra e di lineamenti duri e volgari. In quella atmosfera di purgatorio, piena di sofferenze passate e presenti, di speranze e di pietà, passava le giornate davanti allo specchio, o a limarsi le unghie delle mani e dei piedi, o a pavoneggiarsi davanti all’indifferente e ironico Henek.
Era, o si considerava, piú elevata in grado di Jadzia; ma in verità bastava ben poco per superare in autorità una creatura cosí dimessa. Jadzia era una ragazza piccola e timida, dal colorito roseo malato; ma il suo involucro di carne anemica era tormentato, lacerato dall’interno, sconvolto da una segreta continua tempesta.
Aveva voglia, bisogno, necessità impellente di un uomo, di un uomo qualsiasi, subito, di tutti gli uomini. Ogni maschio che passasse nel suo campo la attirava: la attirava materialmente, pesantemente, come la calamita attira il ferro. Jadzia lo fissava con occhi incantati e attoniti, si alzava dal suo angolo, avanzava verso di lui con passo incerto da sonnambula, ne cercava il contatto; se l’uomo si allontanava, lo seguiva a distanza, in silenzio, per qualche metro, poi, con gli occhi bassi, ritornava alla sua inerzia; se l’uomo la attendeva, Jadzia lo avvolgeva, lo incorporava, ne prendeva possesso, con i movimenti ciechi, muti, tremuli, lenti, ma sicuri, che le amebe manifestano sotto il microscopio.
Il suo obiettivo primo e principale era naturalmente Henek: ma Henek non la voleva, la scherniva, la insultava. Tuttavia, da quel ragazzo pratico che era, non si era disinteressato del caso, e ne aveva fatto cenno a Noah, suo grande amico.
Noah non abitava nella nostra camerata, anzi, non abitava in nessun luogo e in tutti. Era un uomo nomade e libero, lieto dell’aria che respirava e della terra che calcava. Era il Scheissminister di Auschwitz libera, il Ministro delle latrine e pozzi neri: ma nonostante questo suo incarico da monatto (che d’altronde egli aveva assunto volontariamente) non c’era nulla di turpe in lui, o se qualcosa c’era, era sopraffatto e cancellato dall’impeto del suo vigore vitale. Noah era un giovanissimo pantagruele, forte come un cavallo, vorace e salace. Come Jadzia voleva tutti gli uomini, cosí Noah voleva tutte le donne: ma mentre la tenue Jadzia si limitava a tendere intorno a sé le sue reti inconsistenti, come un mollusco di scoglio, Noah, uccello d’alto volo, incrociava dall’alba a notte per tutte le strade del campo, a cassetta del suo carro ripugnante, schioccando la frusta e cantando a gola spiegata: il carro sostava davanti all’ingresso di ogni Block, e mentre i suoi gregari, lerci e fetidi, sbrigavano imprecando la loro immonda bisogna, Noah si aggirava per le camerate femminili come un principe d’oriente, vestito di una giubba arabescata e variopinta, piena di toppe e di alamari. I suoi convegni d’amore sembravano uragani. Era l’amico di tutti gli uomini e l’amante di tutte le donne. Il diluvio era finito: nel cielo nero di Auschwitz Noah vedeva splendere l’arcobaleno, e il mondo era suo, da ripopolare.
Frau Vitta, anzi Frau Vita, come tutti la chiamavano, amava invece tutti gli esseri umani di un amore semplice e fraterno. Frau Vita, dal corpo disfatto e dal dolce viso chiaro, era una giovane vedova di Trieste, mezza ebrea, reduce da Birkenau. Passava molte ore accanto al mio letto, parlandomi di mille cose a un tempo con volubilità triestina, ridendo e piangendo: era in buona salute, ma ferita profondamente, ulcerata da quanto aveva subito e visto in un anno di Lager, e in quegli ultimi orribili giorni. Infatti era stata «comandata» al trasporto dei cadaveri, di pezzi di cadaveri, di miserande anonime spoglie, e quelle ultime immagini le pesavano addosso come una montagna: cercava di esorcizzarle, di lavarsene, buttandosi a capofitto in una attività tumultuosa.
Era lei la sola che si occupasse dei malati e dei bambini; lo faceva con pietà frenetica, e quando le avanzava tempo lavava i pavimenti e i vetri con furia selvaggia, sciacquava fragorosamente le gamelle e i bicchieri, correva per le camerate a portare messaggi veri o fittizi; tornava poi trafelata, e sedeva ansante sulla mia cuccetta, con gli occhi umidi, affamata di parole, di confidenza, di calore umano. Alla sera, quando tutte le opere del giorno erano finite, incapace di resistere alla solitudine, balzava a un tratto dal suo giaciglio, e danzava da sola fra letto e letto, al suono delle sue stesse canzoni stringendo affettuosamente al petto un uomo immaginario.
Fu Frau Vita a chiudere gli occhi a André e ad Antoine. Erano due giovani contadini dei Vosgi, entrambi miei compagni dei dieci giorni di interregno, entrambi ammalati di difterite. Mi sembrava di conoscerli da secoli. Con strano parallelismo, furono colpiti simultaneamente da una forma dissenterica, che presto si rivelò gravissima, di origine tubercolare; e in pochi giorni la bilancia del loro destino diede il tracollo. Erano in due letti vicini, non si lamentavano, sopportavano le coliche atroci a denti stretti, senza comprenderne la natura mortale; parlavano solo fra di loro, timidamente, e non chiedevano soccorso a nessuno. André fu il primo a partire, mentre parlava, a metà di una frase, come si spegne una candela. Per due giorni nessuno venne a rimuoverlo: i bambini lo venivano a guardare con curiosità smarrita, poi continuavano a giocare nel loro angolo.
Antoine rimase silenzioso e solo, tutto chiuso in una attesa che lo trasfigurava. Il suo stato di nutrizione era discreto, ma in due giorni subí una metamorfosi struggente, come risucchiato dal vicino. Insieme con Frau Vita riuscimmo, dopo molti tentativi vani, a far venire un dottore: gli chiesi, in tedesco, se c’era qualcosa da fare, se c’erano speranze, e gli raccomandai di non rispondere in francese. Mi rispose in yiddisch, con una frase breve che non compresi: allora tradusse in tedesco: «Sein Kamerad ruft ihn», il suo compagno lo chiama. Antoine obbedí al richiamo quella sera stessa. Non avevano ancora vent’anni, ed erano stati in Lager un solo mese.
E venne finalmente Olga, in una notte piena di silenzio, a portarmi la notizia funesta del campo di Birkenau, e del destino delle donne del mio trasporto. La attendevo da molti giorni: non la conoscevo di persona, ma Frau Vita, che malgrado i divieti sanitari frequentava anche i malati degli altri reparti, in cerca di pene da alleviare e di colloqui appassionati, ci aveva informati delle rispettive presenze, e aveva organizzato l’illecito incontro, a notte fonda, mentre tutti dormivano.
Olga era una partigiana ebrea croata, che nel 1942 si era rifugiata nell’astigiano con la sua famiglia, e qui era stata internata; apparteneva quindi a quella ondata di varie migliaia di ebrei stranieri che avevano trovato ospitalità, e breve pace, nella paradossale Italia di quegli anni, ufficialmente antisemita. Era una donna di grande intelligenza e cultura, forte, bella e consapevole; deportata a Birkenau, vi aveva sopravvissuto, sola della sua famiglia.
Parlava l’italiano perfettamente; per gratitudine e per temperamento, si era trovata presto amica delle italiane del campo, e piú precisamente di quelle che erano state deportate col mio convoglio. Mi raccontò la loro storia con gli occhi rivolti a terra, a lume di candela. La luce furtiva sottraeva alle tenebre solo il suo viso, accentuandone le rughe precoci, e mutandolo in una maschera tragica. Un fazzoletto le copriva il capo: lo snodò a un tratto, e la maschera si fece macabra come un teschio. Il cranio di Olga era nudo: lo copriva solo una breve peluria grigia.
Erano morti tutti. Tutti i bambini e tutti i vecchi, subito. Delle cinquecentocinquanta persone di cui avevo perso notizia all’ingresso in Lager, solo ventinove donne erano state ammesse al campo di Birkenau: di queste, cinque sole erano sopravvissute. Vanda era andata in gas, in piena coscienza, nel mese di ottobre: lei stessa, Olga, le aveva procurato due pastiglie di sonnifero, ma non erano bastate.
IL GRECO
Verso la fine di febbraio, dopo un mese di letto, mi sentivo non già guarito, ma stazionario. Avevo l’impressione netta che, finché non mi fossi rimesso (magari con sforzo) in posizione verticale, e non mi fossi messo scarpe ai piedi, non avrei ritrovato la salute e le forze. Perciò, in uno dei rari giorni di visita, chiesi al medico di essere messo in uscita. Il medico mi visitò, o fece mostra di visitarmi; constatò che la desquamazione della scarlattina era terminata; mi disse che per conto suo potevo andare; mi raccomandò visibilmente di non espormi alla fatica e al freddo, e mi augurò buona fortuna.
Allora mi ritagliai un paio di pedule da una coperta, arraffai quante piú giacche e calzoni di tela potei trovare in giro (poiché altri indumenti non si trovavano), mi congedai da Frau Vita e da Henek, e me ne andai.
Stavo in piedi piuttosto male. Appena fuori della porta, c’era un ufficiale sovietico: mi fotografò e mi regalò cinque sigarette. Poco oltre, non mi riuscí di evitare un tale in borghese, che stava cercando uomini per sgomberare la neve; mi catturò, sordo alle mie proteste, mi consegnò una pala e mi aggregò a una squadra di spalatori.
Gli offersi le cinque sigarette, ma le respinse con stizza. Era un ex Kapo, e naturalmente era rimasto in servizio: chi altro infatti sarebbe riuscito a fare spalare neve a gente come noi? Provai a spalare, ma mi era materialmente impossibile. Se fossi riuscito a girare l’angolo, nessuno mi avrebbe piú visto, ma era essenziale librarsi dalla pala: venderla sarebbe stato interessante, ma non sapevo a chi, e portarmela dietro, anche per pochi passi, era pericoloso. Non c’era abbastanza neve per seppellirla. La lasciai cadere infine nella finestrella di una cantina, e mi ritrovai libero.
Mi infilai dentro un Block: c’era un guardiano, un ungherese anziano, che non mi voleva lasciare entrare, ma le sigarette lo convinsero. Dentro era caldo, pieno di fumo e di fracasso e di facce sconosciute; ma a sera la zuppa la diedero anche a me. Speravo in qualche giorno di riposo e di allenamento graduale alla vita attiva, ma non sapevo di essere caduto male. Non piú tardi del mattino seguente, incappai in un trasporto russo verso un misterioso campo di sosta.
Non posso dire di ricordare esattamente come e quando il mio greco scaturí dal nulla. In quei giorni e in quei luoghi, poco dopo il passaggio del fronte, un vento alto spirava sulla faccia della terra: il mondo intorno a noi sembrava ritornato al Caos primigenio, e brulicava di esemplari umani scaleni, difettivi, abnormi; e ciascuno di essi si agitava, in moti ciechi o deliberati, in ricerca affannosa della propria sede, della propria sfera, come poeticamente si narra delle particelle dei quattro elementi nelle cosmogonie degli antichi.
Travolto anch’io dal turbine, in una gelida notte, dopo una copiosa nevicata, molte ore prima dell’alba, mi trovai dunque caricato su di una carretta militare a cavalli, insieme con una decina di compagni che non conoscevo. Il freddo era intenso; il cielo, fittamente stellato, si andava schiarendo a levante, a promessa di una di quelle meravigliose aurore di pianura a cui, al tempo della nostra schiavitú, assistevamo interminabilmente dalla piazza dell’appello del Lager.
Nostra guida e scorta era un soldato russo. Sedeva a cassetta cantando alle stelle con voce spiegata, e rivolgendosi ogni tanto ai cavalli in quel loro modo stranamente affettuoso, con inflessioni gentili e lunghe frasi modulate. Lo avevamo interrogato sulla nostra destinazione, naturalmente, ma senza cavarne nulla di comprensibile, salvo che, a quanto pareva da certi suoi sbuffi ritmici e dal movimento dei gomiti piegati a stantuffo, il suo compito doveva limitarsi a condurci fino ad una ferrovia.
Cosí infatti avvenne. Al sorgere del sole, la carretta si arrestò al piede di una scarpata: sopra correvano i binari, interrotti e sconvolti per una cinquantina di metri da un recente bombardamento. Il soldato ci indicò uno dei due tronconi, ci aiutò a scendere dal carro (ed era necessario: il viaggio era durato quasi due ore, il carro era piccolo, e molti di noi, per la posizione incomoda e il freddo penetrante, erano talmente intorpiditi da non potersi muovere), ci saluto con gioviali parole incomprensibili, voltò i cavalli e se ne andò cantando dolcemente.
Il sole, appena sorto, era scomparso dietro un velo di caligine; dall’alto della scarpata ferroviaria non si vedeva che una sterminata campagna piatta e deserta, sepolta nella neve, senza un tetto, senza un albero. Passarono altre ore: nessuno di noi aveva un orologio.
Come ho detto, eravamo una decina. C’era un «Reichsdeutscher» che, come molti altri tedeschi «ariani», dopo la liberazione aveva assunto modi relativamente cortesi e francamente ambigui (era questa una divertente metamorfosi, che già in altri avevo visto avvenire: talora progressivamente, talora in pochi minuti, al primo apparire dei nuovi padroni dalla stella rossa, sui cui larghi visi era facile leggere la tendenza a non andare troppo per il sottile). C’erano due alti e magri fratelli, ebrei viennesi sulla cinquantina, silenziosi e cauti come tutti i vecchi Häftlinge; un ufficiale dell’esercito regolare jugoslavo, che pareva non fosse ancora riuscito a scuotersi di dosso la remissione e l’inerzia del Lager, e ci guardava con occhi vuoti. C’era una specie di rottame umano, dall’età indefinibile, che parlava senza tregua da solo in yiddisch: uno dei molti che la vita feroce del campo aveva distrutti a mezzo, lasciandoli poi sopravvivere involti (e forse protetti) da una spessa corazza di insensibilità o di aperta follia. E c’era finalmente il greco, con cui il destino doveva congiungermi per una indimenticabile settimana randagia.
Si chiamava Mordo Nahum, e a prima vista non presentava nulla di notevole, salvo le scarpe (di cuoio, quasi nuove, di modello elegante: un vero portento, dato il tempo e il luogo), e il sacco che portava sul dorso, che era di mole cospicua e di peso corrispondente, come io stesso avrei dovuto constatare nei giorni che seguirono. Oltre alla sua lingua, parlava spagnolo (come tutti gli ebrei di Salonicco), francese, un italiano stentato ma di buon accento, e, seppi poi, il turco, il bulgaro e un po’ di albanese. Aveva quarant’anni: era di statura piuttosto alta, ma camminava curvo, con la testa in avanti come i miopi. Rosso di pelo e di pelle, aveva grossi occhi scialbi ed acquosi e un gran naso ricurvo; il che conferiva all’intera sua persona un aspetto insieme rapace ed impedito, quasi di uccello notturno sorpreso dalla luce, o di pesce da preda fuori del suo naturale elemento.
Era convalescente di una malattia imprecisata, che gli aveva provocato accessi di febbre altissima, sfibrante; anche allora, nelle prime notti di viaggio, cadeva talvolta in uno stato di prostrazione, con brividi e delirio. Pur senza sentirci particolarmente attirati l’uno dall’altro, eravamo avvicinati dalle due lingue in comune, e dal fatto, assai sensibile in quelle circostanze, di essere i soli due mediterranei del piccolo gruppo.
L’attesa era interminabile; avevamo fame e freddo, ed eravamo costretti a stare in piedi o a sdraiarci nella neve, perché a perdita d’occhio non si vedeva un tetto né un riparo. Doveva essere press’a poco mezzogiorno quando, annunciata di lontano dall’ansito e dal fumo, si tese caritatevolmente verso di noi la mano della civiltà, sotto forma di uno striminzito convoglio di tre o quattro carri merci trainati da una piccola locomotiva, di quelle che in tempi normali servono a manovrare i vagoni all’interno delle stazioni.
Il convoglio si arrestò davanti a noi, al limite del tratto interrotto. Ne scesero alcuni contadini polacchi, da cui non riuscimmo a cavare alcuna informazione sensata: ci guardavano con facce chiuse, e ci evitavano come se fossimo stati appestati. In realtà lo eravamo, probabilmente anche in senso proprio, e comunque il nostro aspetto non doveva essere gradevole: ma dai primi «civili» che incontravamo dopo la nostra liberazione, ci eravamo illusi di ricevere un’accoglienza piú cordiale. Salimmo tutti su uno dei vagoni, e il trenino ripartí quasi subito a ritroso, sospinto e non piú trainato dalla locomotiva-giocattolo. Alla fermata successiva salirono due contadine, dalle quali, superata la prima diffidenza e la difficoltà del linguaggio, apprendemmo alcuni importanti dati geografici, e una notizia che, se vera, ai nostri orecchi suonava poco meno che disastrosa.
L’interruzione dei binari era poco lontana da una località denominata Neu Berun, a cui a suo tempo faceva capo una diramazione per Auschwitz, allora distrutta. I due tronconi che si dipartivano dall’interruzione conducevano l’uno a Katowice (a ponente), l’altro a Cracovia (a levante). Entrambe queste località distavano da Neu Berun sessanta chilometri circa, il che, nelle condizioni spaventose in cui la guerra aveva lasciato la linea, significava almeno due giorni di viaggio, con un numero imprecisato di tappe e di trasbordi. Il convoglio su cui ci trovavamo era in viaggio verso Cracovia: su Cracovia i russi avevano smistato fino a pochi giorni prima un numero enorme di ex prigionieri, ed ora tutte le caserme, le scuole, gli ospedali, i conventi traboccavano di gente in stato di bisogno acuto. Le stesse strade di Cracovia, a detta delle nostre informatrici, brulicavano di uomini e donne di tutte le razze, che in batter d’occhio si erano trasformati in contrabbandieri, in mercanti clandestini, o addirittura in ladri e banditi.
Da vari giorni ormai, gli ex prigionieri venivano concentrati in altri campi, nei dintorni di Katowice: le due donne erano molto stupite di trovarci in viaggio verso Cracovia, dove, dicevano, la stessa guarnigione russa soffriva la carestia. Ascoltato il nostro racconto, si consultarono brevemente, indi si dichiararono persuase che doveva semplicemente trattarsi di un errore del nostro accompagnatore, il carrettiere russo, il quale, poco pratico del paese, ci aveva indirizzati al troncone est invece che a quello ovest.
La notizia ci precipitò in un intrico di dubbi e di angosce. Avevamo sperato in un viaggio breve e sicuro, verso un campo attrezzato per accoglierci, verso un surrogato accettabile delle nostre case; e questa speranza faceva parte di una ben piú grande speranza, quella in un mondo diritto e giusto, miracolosamente ristabilito sulle sue naturali fondamenta dopo una eternità di stravolgimenti, di errori e di stragi, dopo il tempo della nostra lunga pazienza. Era una speranza ingenua, come tutte quelle che riposano su tagli troppo netti fra il male e il bene, fra il passato e il futuro: ma noi ne vivevamo.
Quella prima incrinatura, e le molte altre inevitabili, piccole e grandi, che seguirono, furono per molti di noi occasione di dolore, tanto piú sensibile quanto meno previsto: poiché non si sogna per anni, per decenni, un mondo migliore senza raffigurarlo perfetto.
Invece no: era avvenuto qualcosa che solo pochissimi savi tra noi avevano previsto. La libertà, l’improbabile, impossibile libertà, cosí lontana da Auschwitz che solo nei sogni osavamo sperare era giunta: ma non ci aveva portati alla Terra Promessa. Era intorno a noi, ma sotto forma di una spietata pianura deserta. Ci aspettavano altre prove, altre fatiche, altre fami, altri geli, alte paure.
Io ero digiuno ormai da ventiquattro ore. Sedevamo sul pavimento di legno del vagone, addossati l’uno contro l’altro per proteggerci dal freddo; i binari erano sconnessi, e ad ogni sobbalzo le nostre teste, malferme sui colli, urtavano contro le tavole del parete. Mi sentivo stremato, non solo corporalmente: come un atleta che abbia corso per ore, spendendo tutte le proprie risorse, quelle di natura prima, e poi quelle che si spremono, che si creano dal nulla nei momenti di bisogno estremo; e che arrivi alla meta e che nell’atto in cui si abbandona esausto al suolo venga rimesso brutalmente in piedi, e costretto a ripartire di corsa, nel buio, verso un altro traguardo non si sa quanto lontano. Meditavo pensieri amari: che la natura concede raramente indennizzi, e cosí il consorzio umano, in quanto è timido e tardo nello scostarsi dai grossi schemi della natura; e quale conquista rappresenti nella storia del pensiero umano, il giungere a vedere nella natura non piú un modello da seguire, ma un blocco informe da scolpire, o un nemico a cui opporsi.
Il treno viaggiava lentamente. Comparvero a sera villaggi bui, apparentemente deserti; poi scese una notte totale, atrocemente gelida, senza luci in cielo né in terra. Solo i sobbalzi del vagone ci impedivano di scivolare in un sonno che il freddo avrebbe reso mortale. Dopo interminabili ore di viaggio, forse verso le tre di notte, ci arrestammo finalmente in una stazioncina sconvolta e oscura. Il greco delirava: degli altri, quale per paura, quale per pura inerzia, quale nella speranza che il treno ripartisse presto, nessuno volle scendere dal vagone. Io scesi, e mi aggirai nel buio col mio bagaglio ridicolo finché vidi una finestrella illuminata. Era la cabina del telegrafo, gremita di gente: c’era una stufa accesa. Entrai, guardingo come un cane randagio, pronto a sparire al primo gesto di minaccia, ma nessuno badò a me. Mi buttai sul pavimento e mi addormentai all’istante, come si impara a fare in Lager.
Mi svegliai qualche ora dopo, all’alba. La cabina era vuota. Il telegrafista mi vide alzare il capo, e mi pose accanto, a terra, una gigantesca fetta di pane e formaggio. Ero sbalordito (oltre che mezzo paralizzato dal freddo e dal sonno) e temo di non averlo ringraziato. Mi infilai il cibo nello stomaco e uscii all’aperto: il treno non si era mosso. Nel vagone, i compagni giacevano inebetiti; al vedermi si riscossero, tutti salvo il jugoslavo, che cercò invano di muoversi. Il gelo e la immobilità gli avevano paralizzato le gambe: a toccarlo urlava e gemeva. Dovemmo massaggiarlo a lungo, e poi smuovergli cautamente le membra, come si sblocca un meccanismo rugginoso.
Era stata per tutti una notte terribile, forse la peggiore dell’intero nostro esilio. Ne parlai col greco: ci trovammo d’accordo nella decisione di stringere sodalizio allo scopo di evitare con ogni mezzo un’altra notte di gelo, a cui sentivamo che non avremmo sopravvissuto.
Penso che il greco, grazie alla mia sortita notturna, abbia in qualche modo sopravvalutato le mie qualità di «débrouillard et démerdard», come elegantemente allora si soleva dire. Quanto a me, confesso di aver tenuto conto principalmente del suo grosso sacco, e della sua qualità di salonichiota, che, come ognuno ad Auschwitz sapeva, equivaleva ad una garanzia di raffinate abilità mercantili, e di sapersela cavare in tutte le circostanze. La simpatia, bilaterale, e la stima, unilaterale, vennero dopo.
Il treno ripartí, e con tragitto tortuoso e vago ci condusse in un luogo chiamato Szczakowa. Qui la Croce Rossa polacca aveva istituito un meraviglioso servizio di cucina calda: si distribuiva una zuppa abbastanza sostanziosa, a tutte le ore del giorno e della notte, e a chiunque indistintamente si presentasse. Un miracolo che nessuno di noi avrebbe osato sognare nei suoi sogni piú audaci: in certo modo, il Lager a rovescio. Non ricordo il comportamento dei miei compagni: io mi dimostrai talmente vorace che le sorelle polacche, pure avvezze alla famelica clientela del luogo, si facevano il segno della croce.
Ripartimmo nel pomeriggio. C’era il sole. Il nostro povero treno si fermò al tramonto, in avaria: rosseggiavano lontani i campanili di Cracovia. Il greco ed io scendemmo dal vagone, e andammo a interrogare il macchinista, che stava in mezzo alla neve tutto indaffarato e sporco, combattendo con lunghi getti di vapore che scaturivano da non so che tubo spaccato. – Maschína kaputt, – ci rispose lapidariamente. Non eravamo piú servi, non eravamo piú protetti, eravamo usciti di tutela. Per noi suonava l’ora della prova.
Il greco, ristorato dalla zuppa calda di Szczakowa, si sentiva abbastanza in forze. – On y va? – On y va –. Cosí lasciammo il treno e i compagni perplessi, che non avremmo piú dovuto rivedere, e ce ne partimmo a piedi alla ricerca problematica del Consorzio Civile.
Dietro sua perentoria richiesta, io mi ero caricato il famoso fardello. – Ma è roba tua! – avevo cercato invano di protestare – Appunto perché è mia. Io l’ho organizzata e tu la porti. È la divisione del lavoro. Piú tardi ne profitterai anche tu –. Cosí c’incamminammo, lui primo ed io secondo, sulla neve compatta di una strada di periferia; il sole era tramontato.
Ho già detto delle scarpe del greco; quanto a me, calzavo un paio di curiose calzature quali in Italia ho visto portare solo dai preti: di cuoio delicatissimo, alte fin sopra il malleolo, senza legacci, con due grosse fibbie, e due pezze laterali di tessuto elastico che avrebbero dovuto assicurare la chiusura e l’aderenza. Indossavo inoltre ben quattro paia sovrapposte di pantaloni di tela da Häftling, una camicia di cotone, una giacca pure a righe, e basta. Il mio bagaglio consisteva di una coperta e di una scatola di cartone in cui avevo prima conservato qualche pezzo di pane, ma che era ormai vuota: tutte Cose che il greco sogguardava con non celato disprezzo e dispetto.
Ci eravamo ingannati grossolanamente sulla distanza da Cracovia: avremmo dovuto percorrere almeno sette chilometri. Dopo venti minuti di cammino, le mie scarpe erano andate: la suola di una si era staccata, e l’altra stava scucendosi. Il greco aveva conservato fino allora un silenzio pregnante: quando mi vide deporre il fardello, e sedere su di un paracarro per constatare il disastro, mi domandò:
Quanti anni hai?
– Venticinque, – risposi.
– Qual è il tuo mestiere?
– Sono chimico.
– Allora sei uno sciocco, – mi disse tranquillamente. – Chi non ha scarpe è uno sciocco.
Era un grande greco. Poche volte nella mia vita, prima e dopo, mi sono sentito incombere sul capo una saggezza cosí concreta. C’era ben poco da replicare. La validità dell’argomento era palpabile, evidente: i due rottami informi ai miei piedi, e le due meraviglie lucenti ai suoi. Non c’era giustificazione. Non ero piú uno schiavo: ma dopo i primi passi sulla via della libertà, eccomi seduto su un paracarro, coi piedi in mano, goffo e inutile come la locomotiva in avaria che da poco avevamo lasciata. Meritavo dunque la libertà? il greco sembrava dubitarne.
– … ma avevo la scarlattina, la febbre, stavo all’infermeria: il magazzino delle scarpe era molto lontano, era proibito avvicinarsi, e poi si diceva che fosse stato saccheggiato dai polacchi. E non avevo il diritto di credere che i russi avrebbero provveduto?
– Parole, – disse il greco. – Parole tutti sanno dirne. Io avevo la febbre a quaranta, e non capivo se era giorno o notte: ma una cosa capivo, che mi occorrevano scarpe e altro; allora mi sono alzato, e sono andato fino al magazzino per studiare la situazione. E c’era un russo col mitra davanti alla porta: ma io volevo le scarpe, e ho girato dietro, ho sfondato una finestrella e sono entrato. Cosí ho avuto le scarpe, e anche il sacco e tutto quello che sta nel sacco, che verrà utile piú avanti. Questa è previdenza; la tua è stupidità, è non tenere conto della realtà delle cose.
Sei tu ora che fai parole, – dissi io. – Avrò sbagliato, ma adesso si tratta di arrivare a Cracovia prima che sia notte, con le scarpe o senza –; e cosí dicendo mi andavo arrabattando con le dita intorpidite, e con certi pezzi di fil di ferro che avevo trovato per strada, per legare almeno provvisoriamente le suole alle tomaie.
– Lascia stare, cosí non concludi niente –. Mi porse due pezzi di tela robusta che aveva cavati dal fagotto, e mi mostrò il modo di impacchettare scarpe e piedi, tanto da poter camminare alla meglio. Poi proseguimmo in silenzio.
La periferia di Cracovia era anonima e squallida. Le strade erano rigorosamente deserte: le vetrine delle botteghe erano vuote, tutte le porte e le finestre erano sbarrate o sfondate. Giungemmo al capo di una linea tranviaria; io esitavo, poiché non avremmo avuto di che pagare la corsa, ma il greco disse: – Saliamo, poi si vedrà –. La carrozza era vuota; dopo un quarto d’ora arrivò il manovratore, e non il bigliettario (dal che si vide che ancora una volta il greco aveva ragione; e come si vedrà, avrebbe avuto ragione in tutte le successive vicende, salvo una); partimmo, e durante il percorso scoprimmo con gioia che uno dei passeggeri saliti ne frattempo era un militare francese. Ci spiegò che era ospitato in un antico convento, davanti al quale il nostro tram sarebbe passato fra poco; alla fermata successiva, avremmo trovato una caserma requisita dai russi e piena di militari italiani. Il mio cuore esultava: avevo trovato una casa.
In realtà, non tutto fu poi cosí piano. La sentinella polacca di guardia alla caserma ci invitò dapprima seccamente ad andarcene. – Dove? – Che mi importa? Via di qui, in qualunque altro luogo –. Dopo molte insistenze e preghiere, si indusse infine ad andare a chiamare un maresciallo italiano, da cui dipendevano evidentemente le decisioni sull’ammissione di altri ospiti. Non era semplice, ci spiegò questi: la caserma era già piena zeppa, le razioni erano misurate; che io fossi un italiano, poteva ammetterlo, ma non ero un militare; quanto al mio compagno, era greco, ed era impossibile introdurlo fra ex combattenti di Grecia e di Albania: ne sarebbero nati certamente disordini e zuffe. Io ribattei con la mia migliore eloquenza, e con genuine lacrime agli occhi: garantii che ci saremmo trattenuti una notte sola (e pensavo fra me: una volta dentro…), e che il greco parlava bene italiano e comunque avrebbe aperto bocca il meno possibile. I miei argomenti erano deboli, e io lo sapevo: ma il greco conosceva il funzionamento di tutte le naje del mondo, e mentre io parlavo andava frugando nel sacco appeso alle mie spalle. Ad un tratto mi spinse da parte, e in silenzio pose sotto il naso del cerbero una abbagliante scatola di «Pork», adorna di una etichetta multicolore, e di futili istruzioni in sei lingue sul giusto modo di manipolare il contenuto. Cosí ci conquistammo un tetto e un letto a Cracovia.
Era ormai notte. Contrariamente a quanto il maresciallo aveva voluto farci credere, all’interno della caserma regnava la piú suntuosa abbondanza: c’erano stufe accese, candele e lampade a carburo, da mangiare e da bere, e paglia per dormire. Gli italiani erano sistemati in dieci-dodici per camerata, ma noi a Monowitz eravamo in due per metro cubo. Avevano indosso buoni indumenti militari, giacche imbottite, molti portavano l’orologio al polso, tutti avevano i capelli lucidi di brillantina; erano chiassosi, allegri e gentili, e ci colmarono di cortesie. Quanto al greco, per poco non fu portato in trionfo. Un greco! è arrivato un greco! La voce corse di camerata in camerata, e in breve intorno al mio arcigno socio si radunò una folla festante. Parlavano greco, alcuni con disinvoltura, questi reduci dalla piú misericorde occupazione militare che la storia ricordi: rievocavano con colorita simpatia luoghi e fatti, in un cavalleresco tacito riconoscimento del disperato valore del paese invaso. Ma c’era qualcosa di piú, che apriva loro la strada: il mio non era un greco qualunque, era visibilmente un maestro, un’autorità, un supergreco. In pochi minuti di conversazione, aveva compiuto un miracolo, aveva creato un’atmosfera.
Possedeva l’adatta attrezzatura: sapeva parlare italiano, e (ciò che piú importa, e manca a molti italiani stessi) sapeva di che cosa si parla in italiano. Mi sbalordí: si dimostrò esperto di ragazze e di tagliatelle, di Juventus e di musica lirica, di guerra e di blenorragia, di vino e di borsa nera, di motociclette e di espedienti. Mordo Nahum, con me tanto laconico, divenne in breve il centro della serata. Percepivo che la sua eloquenza, il suo fortunato sforzo di «captatio benevolentiae», non muovevano soltanto da considerazioni di opportunità. Aveva fatto anche lui la campagna di Grecia, col grado di sergente: dall’altra parte del fronte, s’intende, ma questo particolare in quel momento sembrava trascurabile a tutti. Era stato a Tepeleni, anche molti italiani c’erano stati, aveva sofferto come loro il freddo, la fame, il fango e i bombardamenti, e alla fine, come loro, era stato catturato dai tedeschi. Era un collega, un commilitone.
Raccontava curiose storie di guerra; di quando, dopo lo sfondamento del fronte da parte dei tedeschi, si era trovato con sei suoi soldati a rovistare il primo piano di una villa bombardata e abbandonata, in cerca di vettovaglie; e aveva sentito rumori sospetti al piano di sotto, era sceso cautamente per le scale col mitra all’anca, e si era incontrato con un sergente italiano che con sei soldati stava facendo il suo stesso mestiere al piano terreno.
L’italiano aveva spianato a sua volta il mitra, ma lui gli aveva fatto notare che in quelle condizioni una sparatoria sarebbe stata particolarmente insulsa, che si trovavano entrambi, greci e italiani, nel medesimo brodo, e che non vedeva perché non avrebbero potuto concludere una piccola pace separata locale e continuare le ricerche nei rispettivi territori di occupazione: alla quale proposta l’italiano aveva prontamente accondisceso.
Anche per me fu una rivelazione. Sapevo che non era altro se non un mercante un po’ furfante, esperto nel raggiro e privo di scrupoli, egoista e freddo: eppure sentivo fiorire in lui, favorito dalla simpatia dell’uditorio, un calore nuovo, una umanità insospettata, singolare ma genuina, ricca di promesse.
A notte alta, saltò fuori non so di dove nulla meno che un fiasco di vino. Fu il colpo di grazia: per me tutto naufragò celestialmente in una calda nebbia purpurea, e riuscii a stento a trascinarmi carponi fino alla lettiera di paglia che gli italiani, con cura materna, avevano preparato in un angolo per il greco e per me.
Spuntava appena il giorno quando il greco mi svegliò. Ahi disinganno! dove era sparito il gioviale convitato della sera avanti? Il greco che mi stava davanti era duro, segreto, taciturno. – Alzati, – mi disse con tono che non ammetteva replica, – mettiti le scarpe, prendi il sacco e andiamo.
– Andiamo dove?
– Al lavoro. Al mercato. Ti pare bello farci mantenere?
A questo argomento mi sentivo del tutto refrattario. Mi sembrava, oltre che comodo, estremamente naturale che qualcuno mi mantenesse, ed anche bello: avevo trovata bella, esaltante, la esplosione di solidarietà nazionale, anzi, di spontanea umanità della sera prima. Inoltre, pieno com’ero di autocommiserazione, mi appariva giusto, buono, che il mondo provasse infine pietà di me. D’altronde, non avevo scarpe, ero malato, avevo freddo, ero stanco; e infine, in nome del cielo, che cosa mai avrei potuto fare al mercato?
Gli esposi queste considerazioni, per me ovvie. Ma, «c’est pas des raisons d’homme», mi rispose secco: dovetti rendermi conto che avevo leso un suo importante principio morale, che era seriamente scandalizzato, che su quel punto non era disposto a transigere né a discutere. I codici morali, tutti, sono rigidi per definizione: non ammettono sfumature, né compromessi, né contaminazioni reciproche. Vanno accolti o rifiutati in blocco. È questa una delle principali ragioni per cui l’uomo è gregario, e ricerca piú o meno consapevolmente la vicinanza non già del suo prossimo generico, ma solo di chi condivide le sue convinzioni profonde (o la sua mancanza di tali convinzioni). Mi dovetti accorgere, con disappunto e stupore, che tale appunto era Mordo Nahum: un uomo dalle convinzioni profonde, e per di piú molto lontane dalle mie. Ora, ognuno sa quanto sia malagevole avere rapporti in affari, anzi convivere, con un avversario ideologico.
Fondamento della sua etica era il lavoro, che egli sentiva come sacro dovere, ma che intendeva in senso molto ampio. Era lavoro tutto e solo ciò che porta a guadagno senza limitare la libertà. Il concetto di lavoro comprendeva quindi, oltre ad alcune attività lecite, anche ad esempio il contrabbando, il furto, la truffa (non la rapina: non era un violento). Considerava invece riprovevoli, perché umilianti, tutte le attività che non comportano iniziativa né rischio, o che presuppongono una disciplina e una gerarchia: qualunque rapporto di impiego, qualunque prestazione d’opera, che egli, anche se ben retribuita, assimilava in blocco al «lavoro servile». Ma non era lavoro servile arare il proprio campo, o vendere false antichità in porto ai turisti.
Quanto alle attività piú elevate dello spirito, al lavoro creativo, non tardai a comprendere che il greco era diviso. Si trattava di giudizi delicati, da dare caso per caso: lecito ad esempio perseguire il successo in sé, anche spacciando falsa pittura o sottoletteratura, o comunque nuocendo al prossimo; riprovevole ostinarsi a inseguire un ideale non redditizio; peccaminoso ritirarsi dal mondo in contemplazione; lecita invece, anzi commendevole, la via di chi si dedichi a meditare e ad acquistare saggezza, purché non ritenga di dover ricevere gratis il proprio pane dal consorzio civile: anche la saggezza è una merce, e può e deve essere scambiata.
Poiché Mordo Nahum non era uno sciocco, si rendeva conto chiaramente che questi suoi principî potevano non essere condivisi da individui di altra provenienza e formazione, e nella fattispecie da me; ne era peraltro fermamente persuaso, ed era sua ambizione tradurli in atto, per dimostrarmene la validità generale.
In conclusione, il mio proponimento di starmene tranquillo ad aspettare il pane dei russi non poteva che apparirgli detestabile: perché era «pane non guadagnato»; perché comportava un rapporto di sudditanza; e perché ogni forma di ordinamento, di struttura, era per lui sospetta, sia che portasse a una pagnotta al giorno, sia ad una busta paga al mese.
Cosí seguii il greco al mercato; non tanto perché convinto dai suoi argomenti, quanto per inerzia e per curiosità. La sera prima mentre io già navigavo in un mare di vapori vinosi, lui si era diligentemente informato sulla ubicazione, usanze, tariffe, domande e offerte del libero mercato di Cracovia, e il dovere lo chiamava.
Partimmo, lui col sacco (che portavo io), io dentro le mie scarpe fatiscenti, in virtú delle quali ogni singolo passo diventava un problema. Il mercato di Cracovia era fiorito spontaneo, subito dopo il passaggio del fronte, e in pochi giorni aveva invaso un intero quartiere. Vi si vendeva e comperava di tutto, e tutta la città vi faceva capo: borghesi vendevano mobili, libri, quadri, abiti e argenteria; contadine imbottite come materassi offrivano carne, polli, uova, formaggio; bambini e bambine, naso e gote rubicondi per il vento gelato, cercavano amatori per le razioni di tabacco che l’amministrazione militare sovietica distribuiva con stravagante munificenza (trecento grammi al mese a tutti, anche ai lattanti).
Incontrai con gioia un gruppetto di connazionali: gente esperta, tre soldati e una ragazza, gioviali e spendaccioni, che in quei giorni facevano ottimi affari con certe loro frittelle calde, confezionate con strani ingredienti sotto un portone poco lontano.
Dopo un primo giro d’orizzonte, il greco decise per le camicie. Eravamo soci? Ebbene, lui avrebbe contribuito col capitale e con l’esperienza mercantile; io, con la mia (tenue) conoscenza del tedesco e col lavoro materiale. – Vai, – mi disse, – gira tutti i banchetti dove vendono camicie, chiedi quanto costano, rispondi che è troppo caro, poi torni e mi riferisci. Non farti notare troppo –. Mi accinsi di mala voglia a svolgere questa inchiesta di mercato: albergavo in me fame vecchia e freddo, e inerzia, ed insieme curiosità, spensieratezza, e una nuova e saporita voglia di attaccare discorsi, di intavolare rapporti umani, di fare pompa e spreco della mia smisurata libertà. Ma il greco, alle spalle dei miei interlocutori, mi seguiva con occhio severo: presto, perbacco, il tempo è moneta, e gli affari sono affari.
Ritornai dal mio giro con alcuni prezzi di riferimento, di cui il greco prese nota mentalmente; e con un buon numero di nozioni filologiche sgangherate: che camicia si dice qualcosa come «kosciúla»; che i numerali polacchi ricordano quelli greci; che «quanto costa» e «che ora è» si dice su per giú «ile kostúie» e «ktura gogína»; una desinenza del génitivo in «-ego» che mi rese chiaro il senso di alcune imprecazioni polacche spesso udite in Lager; e altri brandelli di informazione che mi riempivano di una gioia insulsa e puerile.
Il greco calcolava fra sé. Una camicia, si poteva vendere da cinquanta a cento zloty; un uovo costava cinque o sei zloty; con dieci zloty, secondo informazioni degli italiani delle frittelle, si poteva mangiare minestra e pietanza alla mensa dei poveri, dietro la cattedrale. Il greco decise di vendere una sola delle tre camicie che aveva, e di mangiare a questa mensa; il di piú sarebbe stato investito in uova. Poi avremmo visto il da farsi.
Mi consegnò dunque la camicia, e mi prescrisse di metterla in mostra, e di gridare: «Camicia, signori, camicia». Per «camicia», già ero documentato; quanto a «signori», ritenni che la forma corretta fosse «Panowie», voce che avevo sentito usare pochi minuti prima dai miei concorrenti, e che interpretai come vocativo plurale di «Pan», signore. Su quest’ultimo termine, poi, non avevo dubbi: si trova in un importante dialogo dei Fratelli Karamàzov. Doveva proprio essere il vocabolo corretto, perché vari clienti si rivolsero a me in polacco, facendomi domande incomprensibili circa la camicia. Ero in imbarazzo: il greco intervenne d’autorità, mi spinse da parte e condusse direttamente la contrattazione, che fu lunga e laboriosa ma si concluse felicemente. Su invito dell’acquirente, il passaggio di proprietà ebbe luogo non sulla pubblica piazza, bensí sotto un portone.
Settanta zloty, pari a sette pasti o a una dozzina di uova. Non so il greco: io, da quattordici mesi non disponevo di una tale somma di generi alimentari, tutti in una volta. Ma ne disponevo veramente? C’era da dubitarne: il greco aveva intascato la somma in silenzio, e con tutto il suo atteggiamento dava a capire che l’amministrazione dei proventi intendeva tenersela per sé.
Girammo ancora per i banchetti delle venditrici di uova, dove apprendemmo che, allo stesso prezzo, se ne potevano acquistare di sode e di crude. Ne comperammo sei, con cui cenare: il greco procedette all’acquisto con estrema diligenza, scegliendo le piú grosse dopo minuziosi confronti e dopo molte perplessità e pentimenti, totalmente insensibile allo sguardo critico della venditrice.
La mensa dei poveri era dunque dietro alla cattedrale: restava da stabilire quale, fra le molte e belle chiese di Cracovia, fosse la cattedrale. A chi chiedere, e come? Passava un prete: avrei chiesto al prete. Ora quel prete, giovane e di aspetto benigno, non intendeva né il francese né il tedesco; di conseguenza, per la prima e unica volta nella mia carriera postscolastica, trassi frutto dagli anni di studi classici intavolando in latino la piú stravagante ed arruffata delle conversazioni. Dalla iniziale richiesta di informazioni («Pater optime, ubi est mensa pauperorum?») venimmo confusamente a parlare di tutto, dell’essere io ebreo, del Lager («castra»? Meglio Lager, purtroppo inteso da chiunque), dell’Italia, della inopportunità di parlare tedesco in pubblico (che meglio avrei compreso poco dopo, per esperienza diretta), e di innumerevoli altre cose, a cui l’inusitata veste della lingua dava un curioso sapore di trapassato remoto.
Avevo del tutto dimenticato la fame e il freddo, tanto è vero che il bisogno di contatti umani è da annoverarsi fra i bisogni primordiali. Avevo dimenticato anche il greco; ma questi non aveva dimenticato me, e si fece vivo brutalmente dopo pochi minuti, interrompendo senza pietà la conversazione. Non già che ai contatti umani fosse negato e non ne intendesse la bontà (lo si era visto la sera prima in caserma): ma erano cose fuori orario, festive, accessorie, da non mescolare con quel negozio serio e strenuo che è il lavoro quotidiano. Alle mie deboli proteste, non rispose che con uno sguardo torvo. Ci incamminammo; il greco tacque a lungo, poi, a giudizio conclusivo sulla mia collaborazione mi disse in tono pensieroso: – Je n’ai pas encore compris si tu es idiot ou fainéant.
Sulla scorta delle preziose indicazioni del prete, giungemmo alla cucina dei poveri, luogo assai deprimente, ma riscaldato e pieno di odori voluttuosi. Il greco ordinò due minestre e una sola razione di fagioli col lardo: era la punizione per il modo sconveniente e fatuo con cui mi ero comportato nella mattinata. Era in collera; ma dopo trangugiata la minestra si ammorbidí sensibilmente, tanto da lasciarmi un buon quarto dei suoi fagioli. Fuori aveva cominciato a nevicare, e soffiava un vento selvaggio. Fosse pietà per il mio abito a strisce, o incuria del regolamento, il personale della cucina ci lasciò in pace per buona parte del pomeriggio, a meditare e a fare piani per l’ avvenire. Il greco sembrava aver cambiato luna: forse gli era tornata la febbre, o forse, dopo i discreti affari della mattina, si sentiva in vacanza. Si sentiva anzi in vena benevolmente pedagogica; a mano a mano che passavano le ore, il tono del suo discorso andava insensibilmente intiepidendosi, e in parallelo andava mutando il rapporto che ci univa: da padrone-schiavo a mezzogiorno, a titolare-salariato alla una, a maestro-discepolo alle due, a fratello maggiore - fratello minore alle tre. Il discorso tornò sulle mie scarpe, che nessuno dei due, per ragioni diverse, poteva dimenticare. Mi spiegò che essere senza scarpe è una colpa molto grave. quando c’è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo alla roba da mangiare; e non viceversa, come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovar da mangiare, mentre non vale l’inverso. – Ma la guerra è finita, – obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso molto piú universale di quanto si osi pensare oggi. – Guerra è sempre, – rispose memorabilmente Mordo Nahum.
È noto che nessuno nasce con un decalogo in corpo, e ciascuno si costruisce invece il proprio per strada o a Cose fatte, sulla scorta delle esperienze proprie, o altrui assimilabili alle proprie; per cui l’universo morale di ognuno, opportunamente interpretato, viene a identificarsi con la somma delle sue esperienze precedenti, e rappresenta quindi una forma compendiaria della sua biografia. La biografia del mio greco era lineare: quella di un uomo forte e freddo, solitario e laico, che si era mosso fin dall’infanzia per entro le maglie rigide di una società mercantile. Era (o era stato) accessibile anche ad altre istanze: non era indifferente al cielo e al mare del suo paese, ai piaceri della casa e della famiglia, agli incontri dialettici; ma era stato condizionato a ricacciare tutto questo ai margini della sua giornata e della sua vita, affinché non turbasse quello che lui chiamava il «travail d’homme». La sua vita era stata di guerra, e considerava vile e cieco chi rifiutasse questo suo universo di ferro. Era venuto il Lager per entrambi: io lo avevo percepito come un mostruoso stravolgimento, una anomalia laida della mia storia e della storia del mondo; lui, come una triste conferma di cose notorie. «Guerra è sempre», l’uomo è lupo all’uomo: vecchia storia. Dei suoi due anni di Auschwitz non mi parlò mai.
Mi parlò invece, con eloquenza, delle sue molteplici attività in Salonicco, delle partite di merce comprate, vendute, contrabbandate per mare, o di notte attraverso la frontiera bulgara; delle frodi vergognosamente subite e di quelle gloriosamente perpetrate; e finalmente, delle ore liete e serene trascorse in riva al suo golfo, dopo la giornata di lavoro, con i colleghi mercanti, in certi caffè su palafitte che mi descrisse con inconsueto abbandono, e dei lunghi discorsi che quivi si tenevano. Quali discorsi? Di moneta, di dogane, di noli, naturalmente; ma di altro ancora. Cosa abbia ad intendersi per «conoscere», per «spirito», per «giustizia», per «verità». Di quale natura sia il tenue legame che vincola l’anima al corpo, come esso si instauri col nascere, e si sciolga col morire. Cosa sia libertà, e come si concilii il conflitto fra la liberà dello spirito e il destino. Cosa segua la morte, anche: ed altre grandi cose greche. Ma tutto questo a sera, beninteso, a traffici ultimati, davanti al caffè o al vino o alle olive, lucido gioco di intelletto fra uomini attivi anche nell’ozio: senza passione.
Perché il greco raccontasse queste cose a me, perché si confessasse a me, non è chiaro. Forse, davanti a me cosí diverso, cosí straniero, si sentiva ancora solo, e il suo discorso era un monologo.
Uscimmo dalla mensa a sera, e ritornammo alla caserma degli italiani: dopo molte insistenze, avevamo ottenuto dal colonnello italiano capocampo il permesso di pernottare in caserma ancora una volta, una sola. Rancio niente, e che non ci facessimo troppo notare, non voleva avere seccature coi russi. Al mattino dopo, avremmo dovuto andarcene.
Cenammo con due uova a testa di quelle acquistate la mattina, serbando le ultime due per la prima colazione. Dopo i fatti della giornata, mi sentivo molto «minore» nei confronti del greco. Quando si venne alle uova, gli chiesi se sapeva distinguere dal di fuori fra un uovo crudo e uno sodo (si fa girare rapidamente l’uovo, per esempio su un tavolo; se è sodo gira a lungo, se è crudo si ferma quasi subito): era una piccola arte di cui andavo fiero, speravo che il greco non la conoscesse, e quindi di potermi riabilitare ai suoi occhi, sia pure in piccola misura.
Ma il greco mi guardò coi suoi freddi occhi di savio serpente: – Per chi mi prendi? Mi credi nato ieri? Pensi che io non abbia mai commerciato in uova? Su, dimmi qualche articolo in cui io non abbia mai commerciato!
Dovetti battere in ritirata. L’episodio, in sé trascurabile, mi doveva ritornare a mente molti mesi dopo, in piena estate, nel cuore della Russia Bianca, in occasione di quello che fu il mio terzo ed ultimo incontro con Mordo Nahum.
Partimmo al mattino seguente, all’alba (questo è un racconto intessuto di albe gelide), con Katowice per meta: ci era stato confermato che là veramente esistevano vari centri di raccolta per dispersi italiani, francesi, greci eccetera. Katowice non dista da Cracovia che un’ottantina di chilometri: poco piú di un’ora di treno in tempi normali. Ma in quei giorni non c’erano venti chilometri di binario senza un trasbordo, molti ponti erano saltati, e per il pessimo stato della linea i treni procedevano di giorno con estrema lentezza, e di notte non viaggiavano affatto. Fu un viaggio labirintico, che durò tre giorni, con soste notturne in luoghi assurdamente lontani dalla congiungente fra i due estremi: un viaggio di gelo e fame, che ci condusse il primo giorno in un luogo detto Trzebinia. Qui il treno si arrestò, ed io scesi sulla banchina per sgranchirmi le gambe intorpidite dal freddo. Forse ero fra i primi vestiti da «zebra» a comparire in quel luogo detto Trzebinia: mi trovai subito al centro di un fitto cerchio di curiosi, che mi interrogavano volubilmente in polacco. Risposi del mio meglio in tedesco; e di mezzo al gruppetto di operai e contadini si fece avanti un borghese, in cappello di feltro, con occhiali e una busta di cuoio in mano: un avvocato.
Era polacco, parlava bene francese e tedesco, era una persona molto cortese e benevola: insomma, possedeva tutti i requisiti perché io finalmente, dopo il lunghissimo anno di schiavitú e di silenzio, ravvisassi in lui il messaggero, il portavoce del mondo civile: il primo che incontrassi.
Avevo una valanga di cose urgenti da raccontare al mondo civile: cose mie ma di tutti, cose di sangue, cose che, mi pareva, avrebbero dovuto scuotere ogni coscienza sulle sue fondamenta. In realtà, l’avvocato era cortese e benevolo: mi interrogava, ed io parlavo vertiginosamente di quelle mie cosí recenti esperienze, di Auschwitz vicina, eppure, pareva, a tutti sconosciuta, dell’ecatombe a cui io solo ero sfuggito, tutto. L’avvocato traduceva in polacco a favore del pubblico. Ora io non conosco il polacco, ma so come si dice «ebreo» e come si dice «politico»: e mi accorsi ben presto che la traduzione del mio resoconto, benché partecipe, non era fedele. L’avvocato mi descriveva al pubblico non come un ebreo italiano, ma come un prigioniero politico italiano.
Gliene chiesi conto, stupito e quasi offeso. Mi rispose imbarazzato: – C’est mieux pour vous. La guerre n’est pas finie –. Le parole del greco.
Sentii l’onda calda del sentirsi libero, del sentirsi uomo fra uomini, del sentirsi vivo, rifluire lontano da me. Mi trovai a un tratto vecchio, esangue, stanco al di là di ogni misura umana: la guerra non è finita, guerra è sempre. I miei ascoltatori se ne andavano alla spicciolata: dovevano aver capito. Qualcosa del genere avevo sognato, tutti avevamo sognato, nelle notti di Auschwitz: di parlare e di non essere ascoltati, di ritrovare la libertà e di restare soli. In breve, rimasi solo con l’avvocato; dopo pochi minuti, anche lui mi lasciò, scusandosi urbanamente. Mi raccomandò, come già il prete, di evitare di parlare tedesco; alle mie richieste di spiegazioni, rispose vagamente: – La Polonia è un triste paese –. Mi augurò buona fortuna, mi offerse del denaro che rifiutai: mi pareva commosso.
La locomotiva fischiava per ripartire. Risalii sul vagone-merci, dove mi aspettava il greco, ma non gli raccontai l’episodio.
Non fu l’unica sosta: altre seguirono, e in una di queste, a sera, ci rendemmo conto che Szczakowa, il luogo della zuppa calda per tutti, non era lontano. Era bensí a nord, e noi dovevamo andare verso ovest, ma poiché a Szczakowa c’era zuppa calda per tutti, e non avevamo altro programma che quello di sfamarci, perché non puntare su Szczakowa? Cosí scendemmo, aspettammo che passasse un treno adatto, e ci ripresentammo piú e piú volte al bancone della Croce Rossa; credo che le sorelle polacche mi abbiano riconosciuto agevolmente, e mi ricordino tuttora.
Come scese la notte, ci disponemmo a dormire per terra, nel bel mezzo della sala d’aspetto, poiché tutti i posti perimetrali erano già occupati. Forse impietosito o incuriosito dal mio abito, arrivò dopo qualche ora un gendarme polacco, baffuto, rubicondo e corpulento; mi interrogò invano nella sua lingua; risposi con la prima frase che si impara di ogni lingua sconosciuta, e cioè «nie rozumiem po polsku», non capisco il polacco. Aggiunsi, in tedesco, che ero italiano, e che parlavo un poco il tedesco. Al che, miracolo! il gendarme prese a parlare italiano.
Parlava un pessimo italiano, gutturale ed aspirato, trapunto di nuovissime bestemmie. Lo aveva imparato, e questo spiega tutto, in una valle del bergamasco, dove aveva lavorato qualche anno come minatore. Anche lui, ed era il terzo, mi raccomandò di non parlare tedesco. Gli chiesi perché: mi rispose con un gesto eloquente, passandosi l’indice e il medio, di coltello, fra il mento e la laringe, e aggiungendo tutto allegro: – Stanotte tutti tedeschi kaputt.
Si trattava certamente di una esagerazione, e comunque di una opinione–speranza: ma in effetti incrociammo il giorno dopo un lungo treno di vagoni merci, chiusi dall’esterno; era diretto verso levante, e dalle feritoie si vedevano molti visi umani in cerca d’aria. Questo spettacolo, fortemente evocatore, suscitò in me un groviglio di sentimenti confusi e contrastanti, che ancora oggi stenterei a districare.
Il gendarme, molto gentilmente, propose a me e al greco di passare il resto della notte al caldo, in camera di sicurezza; accettammo di buon grado, e ci risvegliammo nell’insolito ambiente solo a tardo mattino, dopo un sonno ristoratore.
Partimmo da Szczakowa il giorno dopo, per l’ultima tappa del viaggio. Giungemmo senza incidenti a Katowice, dove realmente esisteva un campo di raccolta per gli italiani, e un altro per i greci.
Ci separammo senza molte parole: ma nel momento del congedo, in modo fugace eppure distinto, sentii muovere da me verso lui una solitaria onda di amicizia, venata di tenue gratitudine, di disprezzo, di rispetto, di animosità, di curiosità, e del rimpianto di non doverlo piú vedere.
Lo vidi ancora, invece: due volte. Lo vidi in maggio, nei giorni gloriosi e turbolenti della fine della guerra, quando tutti i greci di Katowice, un centinaio, uomini e donne, sfilarono cantando davanti al nostro campo, diretti alla stazione: partivano per la patria, per la casa. In testa alla colonna era lui, Mordo Nahum, signore fra i greci, e reggeva il vessillo bianco-celeste: ma lo depose quando mi vide, uscí dalla schiera per salutarmi (un po’ ironicamente, ché lui partiva e io rimanevo: ma era giusto, mi spiegò, perché la Grecia apparteneva alle Nazioni Unite), e con gesto inconsueto estrasse dal famoso sacco un dono: un paio di pantaloni, del tipo usato in Auschwitz negli ultimi mesi, e cioè con una grossa «finestra» sull’anca sinistra, chiusa da una toppa di tela a strisce. Poi scomparve.
Ma doveva ricomparire un’altra volta, molti mesi piú tardi, sul piú improbabile dei fondali e nella piú inaspettata delle incarnazioni.
KATOWICE
Il campo di sosta di Katowice, che mi accolse affamato e stanco dopo la settimana di peregrinazioni col greco, era situato su di una piccola altura, in un sobborgo della città denominato Bogucie. A suo tempo, era stato un minuscolo Lager tedesco, ed aveva albergato i minatori-schiavi addetti ad una miniera di carbone che si apriva nelle vicinanze. Era costituito da una dozzina di baracche in muratura, di dimensioni ridotte, a un solo piano: esisteva ancora il duplice recinto di filo spinato, ormai puramente simbolico. La porta era sorvegliata da un solo soldato sovietico, dall’aria sonnolenta e neghittosa; sul lato opposto si apriva nel reticolato un grosso buco, da cui si poteva uscire senza neppure curvarsi: il comando russo pareva non preoccuparsene minimamente. Le cucine, la mensa, l’infermeria, i lavatoi erano esterni al recinto per cui la porta era sede di un andirivieni continuo.
La sentinella era un mongolo gigantesco sulla cinquantina, armato di mitra e baionetta, dalle enormi mani nodose, dai grigi baffi spioventi alla Stalin e dagli occhi di fuoco: ma il suo aspetto feroce e barbarico era assolutamente incongruente con le sue innocue mansioni. Non veniva mai avvicendato, e perciò moriva di noia. Il suo comportamento nei confronti di chi entrava e usciva era imprevedibile: a volte pretendeva il «propusk», vale a dire il lasciapassare; altre volte chiedeva solo il nome; altre ancora, un po’ di tabacco, o anche nulla. Certi altri giorni, invece, respingeva ferocemente tutti, ma non trovava nulla da obiettare se li vedeva poi uscire dal buco nel fondo, che pure era visibilissimo. Quando faceva freddo, piantava tranquillamente il suo posto di guardia, si infilava in una delle camerate su cui vedeva fumare bene un camino, buttava il mitra su una branda, accendeva la pipa, e offriva vodka se ne aveva, o se non ne aveva la chiedeva in giro, e bestemmiava sconsolato se non gliene davano. Qualche volta consegnava addirittura il mitra al primo fra noi che gli capitava sotto mano, e a gesti e urlacci gli faceva capire di andarlo a sostituire al posto di guardia; poi si appisolava vicino alla stufa.
Quando vi giunsi con Mordo Nahum, il campo era occupato da una popolazione fortemente promiscua, di quattrocento persone circa. Vi erano francesi, italiani, olandesi, greci, cèchi, ungheresi ed altri: alcuni erano stati operai civili della Organizzazione Todt, altri internati militari, altri ancora ex Häftlinge. C’era anche un centinaio di donne.
Di fatto, l’organizzazione del campo era largamente affidata alle iniziative singole o di gruppo: ma nominalmente il campo sottostava ad una Kommandantur sovietica, che era il piú pittoresco esemplare di accampamento zingaro che si possa immaginare. C’era un capitano, Ivan Antonovič Egorov, un ometto non piú giovane, dall’aria rustica e scostante; tre «tenenti anziani»; un sergente, atletico e gioviale; una dozzina di territoriali (fra cui la sentinella baffuta sopra descritta); un furiere; una «doktorka»; un medico, Pjotr Grigorjevič Dancenko, giovanissimo, gran bevitore, fumatore, amatore e pococurante; una infermiera, Marja Fjodorovna Prima, che divenne presto mia amica; ed un nugolo indefinito di ragazze solide come querce, non si capiva se militari o militarizzate o ausiliarie o civili o dilettanti. Queste avevano mansioni varie e vaghe: lavandaie, cuoche, dattilografe, segretarie, cameriere, amorose pro tempore di questo e di quello, fidanzate intermittenti, mogli, figlie.
L’intera carovana viveva in buona armonia, senza orario né regole, nelle adiacenze del campo, accampata nei locali di una scuola elementare abbandonata. L’unico che si curasse di noi era il furiere, che pareva essere il piú elevato in autorità, se non in grado, dell’intero comando. D’altronde, tutti i loro rapporti gerarchici erano indecifrabili: si intrattenevano fra di loro per lo piú con semplicità amichevole, come una grossa famiglia provvisoria, senza formalismi militareschi; scoppiavano talvolta litigi furibondi e pugilati, anche fra ufficiali e soldati, ma si concludevano rapidamente senza conseguenze disciplinari e senza rancori, come se nulla fosse stato.
La guerra stava per finire, la lunghissima guerra che aveva devastato il loro paese; per loro era già finita. Era la grande tregua: finché non era ancora cominciata l’altra dura stagione che doveva seguire, né ancora era stato pronunciato il nome nefasto della guerra fredda. Erano allegri, tristi e stanchi, e si compiacevano del cibo e del vino, come i compagni di Ulisse dopo tirate in secco le navi. E tuttavia, sotto le apparenze sciatte ed anarchiche, era agevole ravvisare in loro, in ciascuno di quei visi rudi e aperti, i buoni soldati dell’Armata Rossa, gli uomini valenti della Russia vecchia e nuova, miti in pace e atroci in guerra, forti di una disciplina interiore nata dalla concordia, dall’amore reciproco e dall’amore di patria; una disciplina piú forte, appunto perché interiore, della disciplina meccanica e servile dei tedeschi. Era agevole intendere, vivendo fra loro, perché quella, e non questa, avesse da ultimo prevalso.
Uno dei capannoni del campo era abitato solo da italiani, quasi tutti operai civili, che si erano trasferiti in Germania piú o meno volontariamente. Erano muratori e minatori, non piú giovani, gente tranquilla, sobria, laboriosa, e di animo gentile.
Il capocampo degli italiani, a cui venni indirizzato per essere «preso in forza», era invece molto diverso. Il ragionier Rovi era diventato capocampo non per elezione dal basso, né per investitura russa, ma per autonomia: infatti, pur essendo un individuo di qualità intellettuali e morali piuttosto povere, possedeva in misura assai spiccata la virtú che, sotto ogni cielo, è la piú necessaria per la conquista del potere, e cioè l’amore per il potere medesimo.
L’assistere al comportamento dell’uomo che agisce non secondo ragione, ma secondo i propri impulsi profondi, è uno spettacolo di estremo interesse, simile a quello di cui gode il naturalista che studia le attività di un animale dagli istinti complessi. Rovi aveva conquistato la sua carica agendo con la stessa atavica spontaneità con cui il ragno costruisce la sua tela; poiché come il ragno senza tela, cosí Rovi senza carica non sapeva vivere. Aveva subito incominciato a tessere: era fondamentalmente sciocco, e non sapeva una parola di tedesco né di russo, ma fin dal primo giorno si era assicurati i servizi di un interprete, e si era presentato cerimoniosamente al comando sovietico in qualità di plenipotenziario per gli interessi italiani. Aveva organizzato una scrivania, con moduli (scritti a mano, in bella scrittura con svolazzi), timbri, matite di vari colori e libro mastro; pur non essendo colonnello, anzi, neppure militare, aveva appeso fuori della porta un vistoso cartello «Comando Italiano – Colonnello Rovi», si era circondato di una piccola corte di sguatteri, scritturali, sagrestani, spie, messaggeri e bravacci, che egli rimunerava in natura, con viveri sottratti alle razioni della comunità, ed esentandoli da tutti i lavori di comune interesse. I suoi cortigiani, che come sempre avviene erano molto peggiori di lui, curavano (anche con la forza, il che di rado era necessario) che i suoi ordini fossero eseguiti, lo servivano, raccoglievano per lui informazioni, e lo adulavano intensamente.
Con chiaroveggenza sorprendente, che è come dire con un procedimento mentale altamente complesso e misterioso, aveva capito l’importanza, anzi la necessità, di possedere una uniforme, dal momento che doveva trattare con gente in uniforme. Se ne era combinata una non priva di fantasia, abbastanza teatrale, con un paio di stivaloni sovietici, un berretto da ferroviere polacco, e giacca e pantaloni trovati non so dove, che sembravano di orbace, e forse lo erano: si era fatto cucire mostrine al bavero, filetti dorati sul berretto, greche e gradi sulle maniche, ed aveva il petto pieno di medaglie.
Peraltro, non era un tiranno, e neppure un cattivo amministratore. Aveva il buon senso di contenere vessazioni, concussioni e soprusi entro limiti modesti, e possedeva per le scartoffie una vocazione innegabile. Ora, poiché quei russi erano curiosamente sensibili al fàscino delle scartoffie (delle quali tuttavia sfuggiva loro l’eventuale significato razionale), e sembrava amassero la burocrazia di quell’amore platonico e spirituale che non giunge al possesso e non lo desidera, Rovi era benevolmente tollerato, se non proprio stimato, nell’ambiente della Kommandantur. Inoltre, era legato al capitano Egorov da un paradossale, impossibile vincolo di simpatia fra misantropi: poiché sia l’uno che l’altro erano individui tristi, compunti, stomacati e dispeptici, e nell’euforia generale cercavano l’isolamento.
Nel campo di Bogucice trovai Leonardo, già accreditato come medico, e assediato da una clientela poco redditizia ma molto numerosa: veniva come me da Buna, ed era arrivato a Katowice già da qualche settimana, seguendo vie meno intricate delle mie. Fra gli Häftlinge di Buna i medici erano in soprannumero, e ben pochi (praticamente, solo quelli padroni della lingua tedesca, o abilissimi nell’arte del sopravvivere) erano riusciti a farsi riconoscere come tali dal medico capo delle SS. Perciò Leonardo non aveva fruito di alcun privilegio: era stato sottoposto ai lavori manuali piú duri, e aveva vissuto il suo anno di Lager in modo estremamente precario. Sopportava male la fatica e il gelo, ed era stato ricoverato in infermeria infinite volte, per edemi ai piedi, ferite infettate e deperimento generale. Per tre volte, in tre selezioni di infermeria, era stato scelto per la morte in gas, e per tre volte la solidarietà dei suoi colleghi in carica lo aveva sottratto fortunosamente al suo destino. Possedeva però anche, oltre alla fortuna, un’altra virtú essenziale in quei luoghi: una illimitata capacità di sopportazione, un coraggio silenzioso, non nativo, non religioso, non trascendente, ma deliberato e voluto ora per ora, una pazienza virile, che lo sosteneva miracolosamente al limite del collasso.
L’infermeria di Bogucice era sistemata nella stessa scuola che albergava il Comando russo, in due camerette abbastanza pulite. Era stata creata dal nulla da Marja Fjodorovna: Marja era una infermiera militare sulla quarantina, simile a un gatto di bosco per gli occhi obliqui e selvatici, il naso breve dalle narici frontali, e le movenze agili e silenziose. Del resto, dai boschi veniva: era nata nel cuore della Siberia.
Marja era una donna energica, brusca, arruffona e sbrigativa. Si procurava i medicinali, parte per normali vie amministrative, prelevandoli da depositi militari sovietici, parte attraverso i molteplici canali della borsa nera, parte ancora (ed era la parte maggiore) cooperando attivamente al saccheggio dei magazzini degli ex Lager tedeschi e delle infermerie e farmacie tedesche abbandonate; le cui scorte, a loro volta, erano frutto di precedenti saccheggi condotti dai tedeschi in tutte le nazioni d’Europa. Perciò, ogni giorno l’infermeria di Bogucice riceveva rifornimenti senza piano né metodo: centinaia di scatole di specialità farmaceutiche, recanti etichette e istruzioni d’uso in tutte le lingue, che dovevano essere smistate e catalogate per un possibile impiego.
Fra le cose che avevo imparato in Auschwitz, una delle piú importanti era, che bisogna sempre evitare di essere «qualunque». Tutte le vie sono chiuse a chi appare inutile, tutte sono aperte a chi esercita una funzione, anche la piú insulsa. Perciò, dopo essermi consigliato con Leonardo, mi presentai a Marja, e proposi i miei servizi come farmacista-poliglotta.
Marja Fjodorovna mi investigò con occhio esperto nel pesare un maschio. Ero «doktor»? Sí, lo ero, sostenni, aiutato nell’equivoco dal forte attrito linguistico: la siberiana infatti non parlava il tedesco, ma (pur non essendo ebrea) conosceva un po’ di yiddisch, imparato chissà dove. Non avevo un aspetto molto professionale né molto attraente, ma per stare in un retrobottega forse potevo andare: Marja trasse di tasca un pezzo di carta tutto spiegazzato, e mi chiese come mi chiamavo.
Quando a «Levi» aggiunsi «Primo», i suoi occhi verdi si illuminarono, dapprima sospettosi, poi interrogativi, infine benevoli. Ma allora eravamo quasi parenti, mi spiegò. Io «Primo» e lei «Prima»: «Prima» era il suo cognome, la sua «família», Marja Fjodorovna Prima. Benissimo, potevo prendere servizio. Scarpe e vestiti? Mah, non era un affare semplice, ne avrebbe parlato con Egorov e con certe sue conoscenze, forse piú tardi qualcosa si sarebbe potuto trovare. Si scarabocchiò il mio nome sul pezzo di carta, e il giorno seguente mi consegnò solennemente il «propusk», un lasciapassare dall’aspetto assai casalingo, che mi autorizzava a entrare e uscire dal campo a qualsiasi ora del giorno e della notte.
Abitavo in una camera con otto operai italiani, e tutte le mattine mi recavo all’infermeria per servizio. Marja Fjodorovna mi consegnava centinaia di scatolette variopinte da classificare, e mi faceva piccoli regali amichevoli: scatole di glucosio (graditissime); pasticche di liquirizia e di menta; stringhe da scarpe; qualche volta un pacchetto di sale o di polvere per budini. Mi invitò una sera a prendere il tè nella sua camera, e notai che alla parete sopra il suo letto erano appese sette od otto fotografie di uomini in divisa: erano quasi tutti ritratti di visi noti, e cioè di soldati e ufficiali della Kommandantur. Marja li chiamava tutti famigliarmente per nome, e parlava di loro con semplicità affettuosa: li conosceva da tanti anni ormai, e avevano fatto tutta la guerra insieme.
Dopo qualche giorno, poiché il lavoro di farmacista mi lasciava molto tempo libero, Leonardo mi chiamò ad aiutarlo in ambulatorio. Nelle intenzioni dei russi, quest’ultimo avrebbe dovuto fare servizio solo per gli ospiti del campo di Bogucice: in realtà, poiché le cure erano gratuite e prive di qualsiasi formalità, vi si presentavano a chiedere visita o medicazioni anche militari russi, civili di Katowice, gente di passaggio, mendicanti, e figure dubbie che non volevano avere a che fare con le autorità.
Sia Marja sia il dottor Dancenko non trovavano nulla a ridire su questo stato di cose (già Dancenko non trovava mai a ridire su nulla, non si occupava di nulla se non di corteggiare le ragazze con divertenti maniere da granduca di operetta, e al mattino di buonora, quando veniva da noi in rapida ispezione, era già ubriaco e pieno di letizia): tuttavia, qualche settimana piú tardi, Marja mi convocò, e con aria molto officiosa mi comunicò che, «per ordine di Mosca», era necessario che l’attività dell’ambulatorio fosse sottoposta a un minuzioso controllo. Perciò avrei dovuto tenere un registro, e annotarvi ogni sera il nome e l’età dei pazienti, la loro malattia, e la qualità e la quantità dei medicamenti somministrati o prescritti.
In sé, la cosa non sembrava insensata; ma era necessario definire alcuni particolari pratici, che discussi con Marja. Ad esempio: come ci saremmo accertati della identità dei pazienti? Ma Marja ritenne trascurabile l’obiezione: che scrivessi le generalità dichiarate, «Mosca» si sarebbe certamente accontentata. Emerse però una difficoltà piú grave: in che lingua tenere la registrazione? Non in italiano né in francese né in tedesco, che né Marja né Dancenko conoscevano. In russo allora? No, il russo non lo conoscevo io. Marja meditò perplessa, poi si illuminò, ed esclamò: – Galina! – Galina avrebbe risolto la situazione.
Galina era una delle ragazze aggregate alla Kommandantur: conosceva il tedesco, cosí avrei potuto dettarle i verbali in tedesco, e lei li avrebbe tradotti in russo seduta stante. Marja mandò immediatamente a chiamare Galina (l’autorità di Marja, benché di natura mal definita, appariva grande), e cosí ebbe inizio la nostra collaborazione.
Galina aveva diciott’anni, ed era di Kazàtin, in Ucraina. Era bruna, allegra e graziosa: aveva un viso intelligente dai tratti sensibili e minuti, e fra tutte le sue colleghe era la sola che vestisse con una certa eleganza, e che avesse spalle, mani e piedi di dimensioni accettabili. Parlava il tedesco discretamente: col suo ausilio i famosi verbali venivano faticosamente confezionati sera per sera, con un mozzicone di matita, su un fascicolo di carta grigiastra che Marja mi aveva consegnato come una reliquia. Come si dice «asma» in tedesco? e «caviglia»? e «slogatura»? e quali sono i termini russi corrispondenti? Ad ogni scoglio lessicale eravamo costretti ad arrestarci in preda al dubbio, e a ricorrere a complicate gesticolazioni, che finivano in squillanti risate da parte di Galina.
Molto piú raramente da parte mia. Di fronte a Galina mi sentivo debole, malato e sporco; ero dolorosamente conscio del mio aspetto miserevole, della mia barba mal rasa, dei miei abiti di Auschwitz; ero acutamente conscio dello sguardo di Galina, ancora quasi infantile, in cui una pietà incerta si accompagnava con una definita repulsione.
Tuttavia, dopo qualche settimana di lavoro comune, si era stabilita fra noi una atmosfera di tenue confidenza reciproca. Galina mi fece capire che la faccenda dei verbali non era poi tanto seria, che Marja Fjodorovna era «vecchia e matta» e le bastava che i fogli le venissero riconsegnati comunque coperti di scrittura, e che il dottor Dancenko era affaccendato in tutt’altre faccende (note a Galina con strabiliante copia di particolari) con la Anna, con la Tanja, con la Vassilissa, e che i verbali gli interessavano «come la neve dell’anno scorso». Cosí il tempo dedicato ai malinconici dèi burocratici si andò assottigliando, e Galina approfittò degli intervalli per raccontarmi la sua storia, sfumacchiando, a pezzi e a bocconi.
In piena guerra, due anni prima, sotto il Caucaso dove si era rifugiata con la famiglia, era stata reclutata da quella stessa Kommandantur; reclutata nel modo piú semplice, vale a dire fermata per strada, e condotta al Comando per scrivere a macchina alcune lettere. C’era andata e c’era rimasta; non era piú riuscita a sganciarsi (o piú probabilmente, pensavo io, non aveva neppure tentato). La Kommandantur era diventata la sua vera famiglia: la aveva seguita per decine di migliaia di chilometri, per le retrovie sconvolte e lungo il fronte sterminato, dalla Crimea alla Finlandia. Non aveva una divisa, e neppure una qualifica né un grado: ma era utile ai suoi compagni combattenti, era loro amica, e perciò li seguiva, perché c’era la guerra, e ognuno doveva fare il suo dovere; il mondo poi era grande e vario, ed è bello girarlo quando si è giovani e senza preoccupazioni.
Preoccupazioni Galina non ne aveva, neppure l’ombra. La si incontrava al mattino che andava al lavatoio, con un sacco di biancheria in bilico sul capo, e cantava come un’allodola; o negli uffici del Comando, scalza, che tempestava sulla macchina per scrivere; o alla domenica a spasso sui bastioni, a braccetto con un soldato, mai lo stesso; o di sera al balcone, romanticamente rapita, mentre uno spasimante belga, tutto sbrindellato, le faceva la serenata sulla chitarra. Era una ragazza di campagna, sveglia, ingenua, un po’ civetta, molto vivace, non particolarmente colta, non particolarmente seria; eppure si sentiva operante in lei la stessa virtú, la stessa dignità dei suoi compagni-amicifidanzati, la dignità di chi lavora e sa perché, di chi combatte e sa di aver ragione, di chi ha la vita davanti.
A metà maggio, pochi giorni dopo la fine della guerra, venne a salutarmi. Partiva: le avevano detto che poteva tornare a casa. Aveva il foglio di via? aveva i soldi per il treno? – No, – rispose ridendo, – «njé nada», non ce n’è bisogno, per queste cose ci si arrangia sempre –; e scomparve, risucchiata dalla vacuità dello spazio russo, per i cammini del suo paese sconfinato, lasciando dietro di sé un profumo aspro di terra, di giovinezza e di gioia.
Avevo anche altre incombenze: aiutare Leonardo in ambulatorio, naturalmente; e aiutare Leonardo nel controllo quotidiano dei pidocchi.
Quest’ultimo servizio era necessario in quei paesi e in quei tempi, in cui il tifo petecchiale serpeggiava endemico e mortale. L’incarico era poco attraente: dovevamo girare tutte le baracche, e invitare ciascuno a spogliarsi fino alla cintura e a presentarci la camicia, nelle cui pieghe e cuciture i pidocchi sogliono nidificare e appendere le uova. Quel tipo di pidocchi hanno una macchiolina rossa sul dorso: secondo una piacevolezza che veniva ripetuta instancabilmente dai nostri clienti, essa, osservata con adeguato ingrandimento, si rivelerebbe costituita da una minuscola falce e martello. Si chiamano anche «la fanteria», laddove le pulci sono l’artiglieria, le zanzare l’aviazione, le cimici i paracadutisti, e le piattole gli zappatori. In russo si chiamano «vši»: lo appresi da Marja, che mi aveva consegnato un secondo fascicolo, su cui avrei dovuto segnare il numero e il nome dei pidocchiosi del giorno, e sottolineati in rosso i recidivi.
I recidivi erano rari, con la sola notevole eccezione del Ferrari. Il Ferrari, al cui cognome si addice l’articolo perché era milanese, era un portento di inerzia. Faceva parte di un gruppetto di criminali comuni, già detenuti a San Vittore, a cui nel 1944 i tedeschi avevano proposto la scelta fra le prigioni italiane e il servizio del lavoro in Germania, e avevano optato per quest’ultimo. Erano circa quaranta, quasi tutti ladri o ricettatori: costituivano un microcosmo chiuso, variopinto e turbolento, fonte perpetua di grane per il Comando russo e per il ragionier Rovi.
Ma il Ferrari era trattato dai suoi colleghi con palese disprezzo, e si trovava quindi relegato in una solitudine forzata. Era un ometto sulla quarantina, magro e giallo, quasi calvo, dall’espressione assente. Passava le sue giornate sdraiato sulla branda, ed era un lettore infaticabile. Leggeva tutto quanto gli capitava sotto mano: giornali e libri italiani, francesi, tedeschi, polacchi. Ogni due o tre giorni, all’atto del controllo, mi diceva: – Quel libro l’ho finito. Ne hai un altro da imprestarmi? Ma non in russo: sai che il russo non lo capisco bene –. Non era già un poliglotta: anzi, era praticamente analfabeta. Ma «leggeva» ugualmente ogni libro, dal primo rigo all’ultimo, identificando con soddisfazione le singole lettere, pronunciandole a fior di labbra, e ricostruendo faticosamente le parole, del cui significato non si curava. A lui bastava: come, a differenti livelli, altri provano diletto nel risolvere parole incrociate, o integrare equazioni differenziali, o calcolare le orbite degli asteroidi.
Era dunque un individuo singolare: e me lo confermò la sua storia, che molto volentieri mi raccontò, e che qui riporto.
– Ho seguito per molti anni la scuola dei ladri di Loreto. C’era il manichino coi campanelli e il portafogli in tasca: bisognava sfilarlo senza che i campanelli suonassero, e io non ci sono mai riuscito. Cosí non mi hanno mai autorizzato a rubare: mi mettevano a fare il palo. Ho fatto il palo per due anni. Si guadagna poco e si rischia: non è un bel lavorare.
– Pensa e ripensa, un bel giorno ho pensato che, licenza o mica licenza, se volevo guadagnarmi il pane bisognava che mi mettessi in proprio.
– C’era la guerra, lo sfollamento, la borsa nera, un mucchio di gente sui tranvai. Era sul 2, a Porta Lodovica, perché da quelle parti nessuno mi conosceva. Vicino a me c’era una con una gran borsa; in tasca del cappotto, si sentiva al tasto, c’era il portafoglio. Ho tirato fuori il saccagno, piano piano…
Devo aprire una breve parentesi tecnica. Il saccagno, mi spiegò il Ferrari, è uno strumento di precisione che si ottiene spezzando in due la lama di un comune rasoio a mano libera. Serve a tagliare le borse e le tasche, perciò deve essere affilatissimo. Occasionalmente, serve anche a sfregiare, nelle questioni d’onore; ed è per questo che gli sfregiati sono anche detti «saccagnati».
– …piano piano, e ho cominciato a tagliare la tasca. Avevo quasi finito, quando una donna, mica quella della tasca, capisci, ma un’altra, si mette a gridare «Al ladro, al ladro». A lei non le facevo niente, non mi conosceva, e non conosceva neppure quella della tasca. Non era neanche della polizia, era una che non c’entrava per niente. Sta di fatto che il tram si è fermato, mi hanno pescato, sono finito a San Vittore, di lí in Germania, e di Germania qui. Vedi? ecco cosa può capitare a prendersi certe iniziative.
Da allora, il Ferrari iniziative non ne aveva piú prese. Era il piú remissivo e il piú docile dei miei clienti: si spogliava subito senza protestare, presentava la camicia con gli immancabili pidocchi, e il mattino dopo si sottoponeva alla disinfestazione senza assumere arie da principe offeso. Ma l’indomani i pidocchi, chissà come, c’erano di nuovo. Era cosí: non prendeva piú iniziative, non opponeva piú resistenza; neppure ai pidocchi.
La mia attività professionale comportava almeno due vantaggi: il «propusk» e una migliore alimentazione.
La cucina del campo di Bogucice, per verità, non era scarsa: ci veniva assegnata la razione militare russa, che consisteva in un chilo di pane, due minestre al giorno, una «kaša» (vale a dire una pietanza con carne, lardo, miglio o altri vegetali), e un tè all’uso russo, diluito, abbondante e zuccherato. Ma Leonardo e io avevamo da riparare i guasti provocati da un anno di Lager: eravamo tuttora in preda ad una fame incontrollata, in buona parte psicologica, e la razione non ci bastava.
Marja ci aveva autorizzati a consumare il pasto di mezzogiorno all’infermeria. La cucina dell’infermeria era gestita da due «maquisardes» parigine, operaie non piú giovani, reduci dal Lager anche loro, dove avevano perso i mariti; erano donne taciturne e dolorose, sui cui visi precocemente invecchiati le sofferenze passate e recenti apparivano dominate e contenute dalla energica coscienza morale dei combattenti politici.
Una, Simone, serviva alla nostra mensa. Scodellava la minestra una volta, e una seconda. Poi mi guardava, quasi con apprensione: – Vous répétez, jeune homme? – io accennavo timidamente di sí, vergognoso di quella mia voracità animalesca. Sotto lo sguardo severo di Simone, raramente osavo «répéter» una quarta volta.
Quanto al «propusk», esso costituiva piuttosto un segno di distinzione sociale che un vantaggio specifico: infatti chiunque poteva benissimo uscire attraverso il buco nei reticolati, e andarsene in città libero come un uccello del cielo. Cosí facevano ad esempio molti fra i ladri, per andare a esercitare la loro arte a Katowice o anche piú lontano: non facevano piú ritorno, oppure rientravano in campo dopo vari giorni, spesso dichiarando altre generalità, fra l’indifferenza generale.
Tuttavia, il «propusk» permetteva di puntare su Katowice evitando il lungo giro attraverso il fango che circondava il campo. Col ritornare delle forze e della buona stagione, sentivo anch’io sempre piú viva la tentazione di partire in crociera per la città sconosciuta: a che serviva essere stati liberati, se poi passavamo ancora i nostri giorni in una cornice di filo spinato? D’altronde la popolazione di Katowice ci guardava con simpatia, e ci era concesso ingresso libero sui tram e nei cinematografi.
Ne parlai una sera con Cesare, e decidemmo per i giorni successivi un programma di massima, in cui avremmo unito l’utile al dilettevole, vale a dire gli affari al vagabondaggio.
CESARE
Avevo conosciuto Cesare negli ultimi giorni di Lager, ma era un altro Cesare. Nel campo di Buna abbandonato dai tedeschi la camera degli infettivi, in cui i due francesi e io eravamo riusciti a sopravvivere e ad instaurare una parvenza di civiltà, rappresentava un’isola di relativo benessere: nel reparto contiguo, il reparto dei dissenterici, la morte dominava incontrastata.
Attraverso la parete di legno, a pochi centimetri dalla mia testa, sentivo parlare in italiano. Una sera, mobilitando le poche energie che mi restavano, mi ero deciso ad andare a vedere chi viveva ancora là dietro. Avevo percorso il corridoio buio e gelato, avevo aperto la porta, e mi ero trovato precipitato nel regno dell’orrore.
Erano un centinaio di cuccette: la metà almeno erano occupate da cadaveri irrigiditi dal freddo. Solo due o tre candele rompevano l’oscurità: le pareti e il soffitto si perdevano nelle tenebre, talché sembrava di penetrare in una enorme spelonca. Non vi era alcun riscaldamento, ad eccezione degli aliti infetti dei cinquanta malati ancora vivi. Malgrado il gelo, il tanfo di feci e di morte era Cosí intenso che mozzava il fiato, e bisognava fare violenza ai propri polmoni per costringerli ad attingere quell’aria corrotta. Pure cinquanta vivevano ancora. Stavano raggomitolati sotto le coperte; alcuni gemevano o urlavano, altri scendevano con pena alle cuccette per evacuare sul pavimento. Chiamavano nomi, pregavano, imprecavano, imploravano aiuto in tutte le lingue d’Europa.
Mi trascinai a tastoni lungo una delle corsie fra le cuccette a e piani, incespicando e barcollando nel buio sullo strato di escrementi gelati. Udendo il mio passo, le grida raddoppiarono: mani lunghe uscivano di sotto le coperte, mi trattenevano per gli abiti, mi toccavano fredde il viso, tentavano di sbarrarmi la strada. Giunsi infine alla parete divisoria, in fondo alla corsia, e trovai chi cercavo. Erano due italiani in una sola cuccetta, stretti fra loro in un viluppo per difendersi dal gelo: Cesare e Marcello.
Conoscevo bene Marcello: veniva da Cannaregio, l’antichissimo ghetto di Venezia, era stato a Fossoli con me, e aveva passato il Brennero nel vagone attiguo al mio. Era sano e forte, e fino alle ultime settimane di Lager aveva tenuto duro, sopportando valorosamente la fame e la fatica: ma il freddo dell’inverno lo aveva piegato. Non parlava piú, ed io, al lume del fiammifero che accesi, stentai a riconoscerlo: un viso giallo e nero di barba, tutto naso e denti; gli occhi lucidi e dilatati dal delirio, fissi nel vuoto. Per lui c’era poco da fare.
Cesare, invece, lo conoscevo appena, poiché era arrivato a Buna da Birkenau pochi mesi prima. Mi chiese acqua, prima che cibo: acqua, perché da quattro giorni non beveva, e lo bruciava la febbre, e la dissenteria lo svuotava. Gliene portai, insieme con gli avanzi della nostra minestra: e non sapevo di porre cosí le basi di una lunga e singolare amicizia.
Le sue capacità di ripresa dovevano essere straordinarie, poiché lo ritrovai nel campo di Bogucice due mesi dopo, non solo ristabilito, ma poco meno che florido, e vispo come un grillo; eppure era reduce da una avventura addizionale che aveva messo a estrema prova le naturali qualità del suo ingegno, consolidate alla dura scuola del Lager.
Dopo l’arrivo dei russi, era stato ricoverato anche lui in Auschwitz fra i malati, e siccome la sua malattia non era grave, e la sua fibra robusta, era guarito presto; anzi, un po’ troppo presto. Verso la metà di marzo, le armate tedesche in rotta si erano concentrate attorno a Breslavia, e avevano tentato una ultima disperata controffensiva in direzione del bacino minerario slesiano. I russi erano stati colti di sorpresa: forse sopravvalutando l’iniziativa avversaria, si erano affrettati ad approntare una linea difensiva. Occorreva una lunga trincea anticarro, che sbarrasse la valle dell’Oder fra Oppeln e Gleiwitz: le braccia erano scarse, l’opera colossale, la necessità urgente, e i russi provvidero secondo le loro consuetudini, in modo estremamente sbrigativo e sommario.
Un mattino, verso le nove, armati russi avevano improvvisamente bloccato alcune strade centrali di Katowice. A Katowice, e in tutta la Polonia, mancavano gli uomini: la popolazione maschile in età di lavoro era sparita, prigioniera in Germania e in Russia, dispersa nelle bande partigiane, massacrata in battaglia, nei bombardamenti, nelle rappresaglie, nei Lager, nei ghetti. La Polonia era un paese in lutto, un paese di vecchi e di vedove. Alle nove di mattina non c’erano che donne in strada: massaie con la borsa o il carrettino, in cerca di viveri e di carbone per le botteghe e i mercati. I russi le avevano messe in fila per quattro con la borsa e tutto, le avevano condotte alla stazione e spedite a Gleiwitz.
Simultaneamente, e ciò cinque o sei giorni prima che io vi arrivassi col greco, avevano circondato a un tratto il campo di Bogucice: urlavano come cannibali, e sparavano colpi in aria per intimorire chi tentasse di svignarsela. Avevano messo a tacere senza molti complimenti i colleghi tranquilli della Kommandantur, che avevano cercato timidamente di interporsi, erano penetrati nel campo coi mitra all’anca, e avevano fatto uscire tutti dalle baracche.
Sullo spiazzo centrale del campo si era quindi svolta una sorta di versione caricaturale delle selezioni tedesche. Una versione assai meno sanguinosa, poiché si trattava di andare al lavoro e non alla morte; in compenso, molto piú caotica ed estemporanea.
Mentre alcuni soldati andavano per le baracche a snidare i renitenti, e li inseguivano poi in corsa pazza come in un gran gioco di rimpiattino, altri si erano messi sulla porta, ed esaminavano uno per uno gli uomini e le donne che a mano a mano venivano loro presentati dai cacciatori, o si presentavano spontaneamente. Il giudizio se «bolnoj» o «zdorovyj» (ammalato o sano) veniva pronunziato collegialmente, per acclamazione, non senza dispute rumorose nei casi controversi. I «bolnoj» venivano rimandati in baracca; gli «zdorovyj» messi in fila davanti al reticolato.
Cesare era stato fra i primi a capire la situazione («a svagare il movimento», diceva lui), si era condotto con lodevole perspicacia e per un pelo non era riuscito a farla franca: si era nascosto nella legnaia, un posto a cui nessuno aveva pensato, e ci era rimasto fino alla fine della caccia, ben zitto e fermo sotto i tronchetti, una spalliera dei quali si era fatta crollare addosso. Ed ecco, uno schiappino qualsiasi, in cerca di rifugio, era venuto a cacciarsi là dentro tirandosi dietro un russo che lo inseguiva. Cesare era stato pescato, e dichiarato sano: per pura rappresaglia, perché era uscito di fra la legna che sembrava un Cristo in croce, anzi, uno storpio deficiente, e avrebbe commosso un sasso: tremolava tutto, si era fatto venire la bava alla bocca, e camminava tutto sbilenco, arrancando, trascinando una gamba, con gli occhi strabici e spiritati. Lo avevano ugualmente aggregato alla fila dei sani: dopo qualche secondo, con una fulminea inversione di tattica, aveva tentato di darsela a gambe, e di rientrare nel campo per il buco nel fondo.
Ma era stato raggiunto, aveva rimediato una sventola e un calcio negli stinchi, e si era rassegnato alla sconfitta.
I russi li avevano portati fino oltre Gleiwitz a piedi, piú di trenta chilometri; laggiú li avevano sistemati alla meglio in stalle e fienili, e gli avevano fatto fare una vita da cani. Mangiare poco, e sedici ore al giorno di picco e pala, pioggia o sole che fosse, col russo sempre lí col mitra puntato: gli uomini alla trincea, e le donne (quelle del campo e le polacche trovate in strada) a pelare patate, fare cucina e le pulizie.
Era dura; ma a Cesare piú che il lavoro e la fame cuoceva lo smacco. Farsi castigare cosí, come un pivetto, lui che aveva tenuto banco a Porta Portese! Tutto Trastevere ne avrebbe riso. Bisognava che si riabilitasse.
Lavorò tre giorni; il quarto, barattò la pagnotta contro due sigari. Uno lo mangiò; l’altro, lo fece macerare nell’acqua e se lo tenne tutta notte sotto l’ascella. Il giorno dopo era pronto per marcare visita: aveva tutto quanto occorreva, una febbre da cavallo, coliche orrende, vertigini, vomito. Lo misero a letto, ci stette fino a che l’intossicazione fu smaltita, poi di notte se ne andò liscio come l’olio, e se ne tornò a Bogucice a piccole tappe, con la coscienza tranquilla. Trovai modo di farlo sistemare nella mia camera, e non ci separammo piú fino al viaggio di ritorno.
– Qui ci risiamo, – disse Cesare infilandosi le brache, cupo in viso, quando, pochi giorni dopo il suo ritorno, la quiete notturna del campo fu drammaticamente rotta.
Era un finimondo, una esplosione: soldati russi correvano su e giú per i corridoi, battevano contro le porte delle camerate col calcio dei mitra, urlando comandi concitati e incomprensibili; poco dopo arrivò lo stato maggiore, Marja in cernecchi, Egorov e Dancenko vestiti a mezzo, seguiti dal ragionier Rovi, smarrito e insonnolito ma in alta uniforme. Bisognava alzarsi e vestirsi, subito. Perché? Erano tornati i tedeschi? Ci trasferivano? Nessuno sapeva niente.
Riuscimmo infine a catturare Marja. No, i tedeschi non avevano sfondato il fronte, ma la situazione era ugualmente molto grave. «Inspektsija»: quel mattino stesso arrivava un generale da Mosca, a ispezionare il campo. L’intera Kommandantur era in preda al panico e alla disperazione, in uno stato d’animo da dies irae.
L’interprete di Rovi galoppava di camerata in camerata, vociferando ordini e contrordini. Comparvero scope, stracci, secchi; tutti erano mobilitati, bisognava pulire i vetri, fare sparire i cumuli di immondizie, spazzare i pavimenti, lucidare le maniglie, togliere le ragnatele. Tutti si misero al lavoro, sbadigliando e imprecando. Passarono le due, le tre, le quattro.
Verso l’alba, si cominciò a sentire parlare di «ubornaja»: la latrina del campo rappresentava infatti un brutto problema.
Era un edificio in muratura, situato nel bel mezzo del campo, ampio, vistoso, impossibile a nascondere o a mascherare. Da mesi nessuno provvedeva alla pulizia e alla manutenzione: all’interno, il pavimento era sommerso da un palmo di lordura stagnante, tanto che vi avevamo confitto grossi sassi e mattoni, e per entrare si doveva saltellare dall’uno all’altro in equilibrio precario. Dalle porte e dalle crepe dei muri il liquame traboccava all’esterno, attraversava il campo sotto forma di rigagnolo fetido, e si perdeva a valle in mezzo ai prati.
Il capitano Egorov, che sudava sangue e aveva perduto compiutamente la testa, scelse fra noi una corvée di dieci uomini, e li fece mandare sul posto con scope e secchi di cloro, con l’incarico di fare pulizia. Ma era chiaro a un bambino che dieci uomini, anche se muniti di strumenti adatti, e non solo di scope, ci avrebbero impiegato almeno una settimana; e quanto al cloro, tutti i profumi d’Arabia non sarebbero bastati a bonificare il luogo.
Non è infrequente che dall’urto fra due necessità scaturiscano decisioni insensate, là dove sarebbe piú savio lasciare che il dilemma si sciolga per virtú propria. Un’ora piú tardi (e l’intero campo ronzava come un alveare disturbato) la corvée venne richiamata, e si videro arrivare tutti e dodici i territoriali del comando, con legname, chiodi, martelli, e rotoli di filo spinato. In un batter d’occhio tutte le porte e le finestre della scandalosa latrina furono chiuse, sbarrate, sigillate con tavole di abete spesse tre dita, e tutte le pareti, fino al tetto, furono coperte da un groviglio inestricabile di filo spinato. La decenza era salva: il piú diligente degli ispettori non avrebbe potuto materialmente mettervi piede.
Venne mezzogiorno, venne sera, e del generale nessuna traccia. Il mattino dopo se ne parlava già un po’ meno; il terzo giorno non se ne parlava piú affatto, i russi della Kommandantur erano ritornati alla loro abituale e benefica incuria e sciatteria, due tavole erano state schiodate dalla porta di dietro della latrina, e tutto era rientrato nell’ordine.
Un ispettore venne, tuttavia, qualche settimana piú tardi; venne a controllare l’andamento del campo, e piú precisamente le cucine, e non era un generale, ma un capitano che portava un bracciale con la sigla NKVD, di fama lievemente sinistra. Venne, e dovette trovare particolarmente gradevoli le sue mansioni, o le ragazze della Kommandantur, o l’aria dell’Alta Slesia, o la vicinanza dei cuochi italiani: perché non se ne andò piú, e restò a ispezionare la cucina tutti i giorni fino a giugno, quando partimmo, senza esercitare visibilmente alcun’altra attività utile.
La cucina, gestita da un barbarico cuoco bergamasco e da un numero imprecisato di assistenti volontari grassi e lustri, era situata subito fuori della recinzione, ed era costituita da un capannone riempito quasi per intero dalle due grosse marmitte di cottura, che riposavano su fornelli di cemento. Vi si entrava salendo due scalini, e non c’era porta.
L’ispettore fece la sua prima ispezione con molta dignità e serietà, prendendo appunti su un libretto. Era un ebreo sulla trentina, lunghissimo e dinoccolato, con un bel volto ascetico da Don Chisciotte. Ma il secondo giorno aveva scovato chissà dove una motocicletta, e fu folgorato da un cosí ardente amore, che da allora in poi non furono piú visti disgiunti mai.
La cerimonia della ispezione divenne un pubblico spettacolo, a cui assistevano sempre piú numerosi i borghesi di Katowice. L’ispettore arrivava verso le undici come una tromba d’aria: frenava di colpo con stridore orribile, e facendo perno sulla ruota anteriore faceva sbandare quella posteriore di un quarto di cerchio. senza arrestarsi, puntava verso la cucina a testa bassa, come un toro che carichi; superava i due gradini con paurosi sobbalzi; descriveva due 8 frettolosi, con tutto lo scappamento aperto, intorno alle marmitte; volava nuovamente gli scalini all’ingiú, salutava militarmente il pubblico con un sorriso radioso, si curvava sul manubrio, e spariva in una nuvola di fumo glauco e di fracasso.
Il gioco andò liscio per varie settimane; poi, un giorno non si vide né motocicletta né capitano. Questo stava in ospedale, con una gamba rotta; quella era nelle mani amorevoli di un cenacolo di aficionados italiani. Ma furono rivisti ben presto in circolazione: il capitano aveva fatto adattare una mensolina al telaio, e vi teneva appoggiata la gamba ingessata, in posizione orizzontale. Il suo viso dal nobile pallore era atteggiato a felicità estatica; cosí combinato, riprese con impeto appena ridotto le sue quotidiane ispezioni.
Solo quando venne aprile, le ultime nevi si furono sciolte, e il forte sole ebbe prosciugato il fango polacco, incominciammo a sentirci veramente liberi. Cesare era già Stato in città varie volte, e insisteva perché lo seguissi nelle sue spedizioni: mi decisi infine a superare l’inerzia, e partimmo insieme in una splendida giornata primaverile.
Su richiesta di Cesare, a cui interessava l’esperimento, non uscimmo dal buco nel reticolato. Uscii io per primo dalla porta grande; la sentinella mi domandò come mi chiamavo, poi mi chiese il lasciapassare ed io lo presentai. Controllò: il nome corrispondeva. Io girai l’angolo, e attraverso il filo spinato passai il rettangolino di cartone a Cesare. La sentinella domandò a Cesare come si chiamava; Cesare rispose «Primo Levi». Gli chiese il lasciapassare: il nome corrispondeva nuovamente, e Cesare uscí in piena legalità. Non che Cesare tenga molto ad agire legalmente: ma gli piacciono le eleganze, i virtuosismi, mettere il prossimo nel sacco senza farlo soffrire.
Eravamo entrati in Katowice allegri come scolari in vacanza, ma il nostro umore spensierato urtava ad ogni passo con lo scenario in cui ci addentravamo. Ad ogni passo ci imbattevamo nelle vestigia della tragedia immane che ci aveva sfiorati e miracolosamente risparmiati. Tombe ad ogni quadrivio, tombe mute e frettolose, senza croce ma sormontate dalla stella rossa, di militari sovietici morti in combattimento. Uno sterminato cimitero di guerra in un parco della città, croci e stelle commiste, e quasi tutte recavano la stessa data: la data della battaglia per le vie, o forse dell’ultimo sterminio tedesco. In mezzo alla via principale, tre, quattro carri armati tedeschi, apparentemente intatti, trasformati in trofei e in monumenti; il prolungamento ideale del cannone di uno fra questi faceva capo a un enorme foro, a metà altezza della casa di fronte: il mostro era morto distruggendo. Ovunque rovine, scheletri di cemento, travi di legno carbonizzate, baracche di lamiera, gente in stracci, dall’aria selvaggia e famelica. Ai crocicchi importanti, segnalazioni stradali infisse a cura dei russi, e curiosamente contrastanti con il nitore e la precisione prefabbricata delle analoghe insegne tedesche, viste prima, e di quelle americane che avremmo viste dopo: rozze tavole di legno greggio, con su scarabocchiati i nomi a mano, col catrame, in caratteri cirillici ineguali; Gleiwitz, Cracovia, Czenstochowa: anzi, poiché il nome era troppo lungo, «Czenstoch» su una tavola, e poi «owa» su di un’altra tavola piú piccola, inchiodata sotto.
Eppure la città viveva, dopo gli anni di incubo della occupazione nazista e l’uragano del passaggio del fronte. Molte botteghe e caffè erano aperti; addirittura proliferante il mercato libero; in funzione i tram, i pozzi di carbone, le scuole, i cinematografi. Per quel primo giorno, poiché fra tutti e due non avevamo un soldo, ci accontentammo di un giro di ricognizione. Dopo qualche ora di marcia in quell’aria frizzante, la nostra fame cronica si era riacutizzata: – Vieni con me, – disse Cesare, – andiamo a fare colazione.
Mi condusse al mercato, nell’ala dove stavano le bancarelle della frutta. Sotto gli occhi malevoli della fruttivendola, colse dal primo banco una fragola, una sola, ma ben grossa, la masticò piano piano, con aria di intenditore, poi scosse il capo: – Nié ddobre, – disse severamente. (– È in polacco, – mi spiegò; – vuol dire che non sono buone –). Passò al banco successivo, e ripeté la scena; e cosí con tutti fino all’ultimo. – Beh? Che aspetti? – mi disse poi con cinica fierezza: – Se hai fame, non hai che da fare come me.
Certo, non era con la tecnica delle fragole che ci saremmo messi a posto: Cesare aveva capito la situazione, e cioè che quello era il momento di dedicarsi seriamente al commercio.
Mi spiegò il suo sentimento: con me era amico, e non mi chiedeva niente, se volevo potevo andare sul mercato con lui, magari dargli anche una mano e imparare il mestiere, ma era indispensabile che lui si trovasse un vero socio, che disponesse di un piccolo capitale iniziale e di una certa esperienza. Anzi, per verità lo aveva già trovato, un certo Giacomantonio dalla faccia da galera, suo vecchio conoscente di San Lorenzo. La forma della società era estremamente semplice: Giacomantonio avrebbe comperato, lui avrebbe venduto, e si sarebbero divisi gli utili in parti uguali.
Comperato che cosa? Di tutto, mi disse: qualunque cosa capitava. Cesare, benché avesse poco piú di vent’anni, vantava una preparazione merceologica sorprendente, paragonabile a quella del greco. Ma, superate le analogie superficiali, mi resi conto ben presto che fra il greco e lui correva un abisso. Cesare era pieno di calore umano, sempre, in tutte le ore della sua vita, e non solò fuori orario come Mordo Nahum. Per Cesare il «lavoro» era volta a volta una sgradevole necessità, o una divertente occasione di incontri, e non una gelida ossessione, né una luciferesca affermazione di se stesso. L’uno era libero, l’altro schiavo di sé; l’uno avaro e ragionevole, l’altro prodigo ed estroso. Il greco era un lupo solitario, in eterna guerra contro tutti, vecchio anzitempo, chiuso nel cerchio della sua ambizione trista; Cesare era un figlio del sole, un amico di tutto il mondo, non conosceva l’odio né il disprezzo, era vario come il cielo, festoso, furbo e ingenuo, temerario e cauto, molto ignorante, molto innocente e molto civile.
Nella combinazione con Giacomantonio io non volli entrare, ma accettai di buon grado l’invito di Cesare ad accompagnarlo qualche volta al mercato, come apprendista, interprete e portatore. Lo accettai, non solo per amicizia, e per fuggire la noia del campo, ma soprattutto perché assistere alle imprese di Cesare, anche alle piú modeste e triviali, costituiva una esperienza unica, uno spettacolo vivo e corroborante, che mi riconciliava col mondo, e riaccendeva in me la gioia di vivere che Auschwitz aveva spenta.
Una virtú quale quella di Cesare è buona in sé, in senso assoluto; è sufficiente a conferire nobiltà a un uomo, a riscattarne molti eventuali difetti, a salvarne l’anima. Ma in pari tempo, e su di un piano piú pratico, essa costituisce una scorta preziosa per chi intenda esercitare il commercio sulle pubbliche piazze: infatti al fascino di Cesare non era insensibile nessuno, né i russi del comando, né i compagni assortiti del campo, né i cittadini di Katowice che frequentavano il mercato. Ora, è chiaro altresí che, per le dure leggi del commercio, quanto è di vantaggio a chi vende è svantaggioso a chi compra, e viceversa.
Aprile volgeva al fine, e il sole era già caldo e franco, quando Cesare venne ad aspettarmi dopo la chiusura dell’ambulatorio. Il suo socio patibolare aveva fatto una serie di colpi brillanti: aveva comperato per cinquanta zloty complessivi una penna stilografica che non scriveva, un contasecondi, e una camicia di lana in discrete condizioni. Questo Giacomantonio, dal fiuto esperto di ricettatore, aveva avuto la eccellente idea di mettersi di piantone alla stazione di Katowice, in attesa dei convogli russi che rientravano dalla Germania: quei soldati, ormai smobilitati e sulla strada di casa, erano i contraenti piú faciloni che si possano immaginare. Erano pieni di allegria, di noncuranza e di preda, non conoscevano le quotazioni locali, e avevano bisogno di soldi.
D’altronde, metteva conto di passare qualche ora alla stazione anche al di fuori di ogni fine utilitario, ma solo per assistere allo straordinario spettacolo dell’Armata Rossa in rimpatrio: spettacolo ad un tempo corale e solenne come una migrazione biblica, e ramingo e variopinto come una trasferta di saltimbanchi. Sostavano a Katowice lunghissimi convogli di carri merci adibiti a tradotta: erano attrezzati per viaggiare mesi, forse fino al Pacifico, ed ospitavano alla rinfusa, a migliaia, militari e civili, uomini e donne, ex prigionieri, tedeschi a loro volta prigionieri; e inoltre merci, mobilia, bestiame, impianti industriali smobilitati, viveri, materiale bellico, rottami. Erano villaggi ambulanti: alcuni carri contenevano quanto appariva un nucleo familiare, una o due paia di letti matrimoniali, un armadio a specchi, una stufa, una radio, sedie e tavoli. Fra un vagone e l’altro erano tesi fili elettrici di fortuna, provenienti dal primo vagone che conteneva un generatore; servivano per l’illuminazione, e in pari tempo a stendervi la biancheria ad asciugare (e a sporcarsi di fuliggine). Quando al mattino si aprivano le porte scorrevoli, sullo sfondo di quegli interni domestici apparivano uomini e donne vestiti a mezzo, dalle larghe faccie assonnate: si guardavano intorno frastornati, senza saper bene in quale punto del mondo si trovavano, poi scendevano a lavarsi all’acqua gelida degli idranti, e offrivano in giro tabacco e fogli della «Pravda» per arrotolare sigarette.
Partii dunque per il mercato con Cesare, che si proponeva di rivendere (magari ai russi stessi) i tre oggetti sopra descritti. Il mercato aveva ormai perso il suo primitivo carattere di fiera delle miserie umane. Il razionamento era stato abolito, o piuttosto era caduto in disuso; dalla ricca campagna circostante arrivavano i carri dei contadini con quintali di lardo e di formaggio, con uova, polli, zucchero, frutta, burro: giardino di tentazioni, sfida crudele alla nostra fame ossessiva e alla nostra mancanza di quattrini, incitamento imperioso a procurarcene.
Cesare vendette la penna al primo colpo, per venti zloty, senza contrattazione. Non aveva assolutamente bisogno di interprete: parlava soltanto italiano, anzi romanesco, anzi ancora, il gergo del ghetto di Roma, costellato di vocaboli ebraici storpiati. Certo non aveva altra scelta, perché altre lingue non conosceva: ma, a sua insaputa, questa ignoranza giocava fortemente a suo vantaggio. Cesare «giocava nel suo campo», per dirla in termini sportivi: per contro, i suoi clienti, tesi a interpretare la sua parlata incomprensibile e i suoi gesti mai visti, erano distolti dalla necessaria concentrazione; se facevano controfferte, Cesare non le comprendeva, o fingeva testardamente di non comprenderle.
L’arte del ciarlatano non è cosí diffusa come io pensavo: il pubblico polacco pareva la ignorasse, e ne era affascinato. Cesare poi era un mimo di gran classe: sventolava la camicia nel sole, tenendola ben stretta per il colletto (sotto il colletto c’era un buco, ma Cesare la teneva in mano proprio nel punto dove c’era il buco), e ne proclamava le lodi con eloquenza torrenziale, con inserti e divagazioni inedite ed insulse, apostrofando a tratti questo o quello fra il pubblico con nomignoli osceni che si inventava sul momento.
Si interruppe bruscamente (conosceva per istinto il valore oratorio delle pause), baciò la camicia con affetto, e poi, con voce risoluta e insieme commossa, come se gli piangesse il cuore a separarsene, e vi si inducesse solo per amore del suo prossimo, – Tu, panzone, – disse: – quanto mi daresti per ‘sta cosciuletta?
Il panzone rimase interdetto. Guardava la «cosciuletta» con desiderio, e con la coda dell’occhio si sbirciava ai fianchi, mezzo sperando e mezzo temendo che qualcun altro facesse la prima offerta. Poi avanzò esitando, tese una mano incerta e borbottò qualcosa come «pingí- sci». Cesare ritirò la camicia al seno come se avesse visto un aspide. – Che ha detto, quello? – mi chiese, come se sospettasse di aver ricevuto una offesa mortale; ma era una domanda retorica, poiché riconosceva (o indovinava) i numerali polacchi molto piú prontamente di me.
– Tu sei matto, – disse poi perentorio, puntandosi un indice alla tempia e girandolo come un trapano. Il pubblico rumoreggiava e rideva, parteggiando visibilmente per lo straniero fantastico, venuto dai confini del mondo a far portenti sulle loro piazze. Il panzone se ne stava a bocca aperta, dondolandosi come un orso da un piede all’altro. – Du ferík, – riprese Cesare spietato (intendeva dire «verrückt»); indi, a maggior chiarimento, aggiunse: – Du meschuge –. Esplose un uragano di risa selvagge: questo l’avevano capito tutti. «Meschuge» è un termine ebraico che sopravvive nel yiddisch, e pertanto è universalmente compreso in tutta l’Europa centrale e orientale: vale «matto», ma contiene l’idea accessoria di follia vuota, melanconica, ebete e lunare.
Il panzone si grattava la testa e si tirava su i pantaloni, pieno di imbarazzo. – Sto, – disse poi, cercando pace: – Sto zlotych, cento zloty.
L’offerta era interessante. Cesare, alquanto mansuefatto, si rivolse al panzone da uomo a uomo, con voce suadente, come a convincerlo di una qualche sua involontaria ma pur grossolana trasgressione. Gli parlò a lungo, a cuore aperto, con calore e confidenza, dicendogli: – Vedi? capisci? non sei d’accordo?
– Sto zlotych, – ripeté quello, testardo.
– Questo è de Capurzio! – mi disse Cesare. Poi, come colto da improvvisa stanchezza, e in un estremo tentativo di accordo, gli mise una mano sulla spalla e gli disse maternamente: – Senti. Senti, compare. Tu non mi hai capito bene. Facciamo cosí, mettiamoci d’accordo. Te me dài tanto cosí – (e gli disegnò 150 col dito sul ventre), – te me dài Sto Pingisciu, e io te la mollo sulla groppa. Va bene?
Il panzone bofonchiava e faceva di no col capo, con gli occhi rivolti in giú; ma l’occhio clinico di Cesare aveva colto il segno della capitolazione: un movimento impercettibile della mano verso la tasca posteriore dei pantaloni.
– E dài! Caccia ‘ste pignonze! – incalzò Cesare, battendo il ferro finché era caldo. Le pignonze (il termine polacco, dall’ostica grafia ma dall’assonanza cosí curiosamente nostrana, affascinava Cesare e me) furono infine cacciate, e la camicia mollata; ma subito; Cesare mi strappò energicamente alla mia ammirazione estatica.
– A compà: famo resciutte, sennò questi svagano er búcio –. Cosí, per timore che il cliente si accorgesse prematuramente del buco, facemmo resciutte (ossia prendemmo congedo), rinunciando a piazzare l’invendibile contasecondi. Camminammo con dignitosa lentezza fino alla cantonata piú vicina, poi svicolammo con la maggior rapidità che le gambe ci permettevano, e ritornammo al campo per vie traverse.