SCONTRO DI CIVILTÀ PER UN ASCENSORE A PIAZZA VITTORIO
Amara Lakhous
Questo "Scontro di civiltà", racconto un po' Rashomon un po' "Pasticciaccio' gaddiano , è la storia di una comunità i cui componenti non hanno niente in comune, se non il fatto di vivere in un quartiere di Roma divenuto multietnico e di essere chiamati a testimoniare in qualità di potenziali testimoni di un crimine. Questo romanzo di Lakhous è una sollecitazione a vedere con gli occhi dell'altro, a cogliere la diversità non solo con l'ironia, ma anche con l'amarezza, per cercare di comprendere le difficoltà di integrazione e le resistenze delle culture dei migranti.
La verità di Parviz Mansoor Samadi
Qualche giorno fa, non erano nemmeno le otto di mattina, seduto su un sedile della metropolitana, stropicciandomi gli occhi e lottando contro il sonno a causa di quel risveglio così mattiniero, ho visto una ragazza italiana che divorava una pizza grande come un ombrello. Mi è venuta la nausea e per poco non vomitavo!
Grazie a Dio è scesa alla fermata successiva.
Davvero una scena insopportabile! La legge dovrebbe punire chi si permette di turbare la tranquillità dei buoni cittadini che vanno al lavoro la mattina e tornano a casa la sera. Il danno provocato da chi mangia pizza in metropolitana supera di molto quello causato dalle sigarette.
Spero che le autorità competenti non sottovalutino questa delicata questione e procedano immediatamente ad affiggere cartelli del tipo “Proibito mangiare pizza”, accanto a quelli che campeggiano all’ingresso delle gallerie della metro con la scritta “Vietato fumare!”. Vorrei capire come fanno gli italiani a divorare una impressionante quantità di pasta mattina e sera.
Il mio odio per la pizza non ha paragoni, ma questo non significa che io odii tutte le persone che la mangiano. Vorrei che le cose fossero chiare fin dall’inizio: non ho nessun odio verso gli italiani.
Non sto dicendo cose fuori luogo, anzi, parlo proprio di Amedeo. Vi prego di avere pazienza nei miei confronti. Come sapete, Amedeo è il mio unico amico a Roma, anzi, è più di un amico, e non esagero se dico che gli voglio bene come a mio fratello Abbas. Amo molto Amedeo, nonostante sia un pizzadipendente.
Come vedete, il mio odio per la pizza non deriva da una mia ostilità verso gli italiani.
In effetti, non ha alcuna importanza che Amedeo sia italiano o no. La mia preoccupazione è di evitare a tutti i costi le conseguenze dovute alla mia avversione alla pizza. Per esempio, qualche settimana fa mi hanno licenziato dal posto di lavapiatti in un ristorante vicino a piazza Navona quando hanno scoperto casualmente che odiavo la pizza. Figli di puttana.
Dopo questo scandalo c’è ancora chi sostiene che la libertà di gusto, di espressione, di fede e la democrazia sono garantite in questo paese!
Vorrei sapere: la legge punisce chi odia la pizza? Se la risposta è sì, siamo di fronte a un vero scandalo, se è no, allora io ho tutti i diritti di essere risarcito.
Non abbiate fretta. Permettetemi di dirvi che il vostro grande difetto è la fretta. La vostra parola d’ordine si chiama impazienza. Bevete il caffè come il cowboy il suo whisky! Il caffè è come il tè, bisogna evitare di ingoiarlo tutto d’un fiato, va sorseggiato. Amedeo è come un tè caldo in un giorno freddo. Anzi, Amedeo è proprio come la frutta che si gusta alla fine dei pasti, dopo aver mangiato la bruschetta al pomodoro o alle olive, poi il famoso primo che riunisce tutte le diverse paste che io proprio non sopporto, come gli spaghetti e compagnia bella (ravioli, fettuccine, lasagne, fusilli, orecchiette, rigatoni ecc.) e infine i secondi piatti di carne e pesce con contorni di verdure. Tutte cose che ho imparato a conoscere durante i miei lavori saltuari nei ristoranti italiani. Amo tantissimo la frutta, quindi non c’è da meravigliarsi per il paragone tra Amedeo e la frutta. Diciamo che Amedeo è buono e dolce come l’uva. Com’è buono il succo d’uva!
E’ inutile insistere con questa domanda: Amedeo è italiano? Qualsiasi risposta non risolverà il problema. Ma poi chi è italiano? Chi è nato in Italia, ha passaporto italiano, carta d’identità, conosce bene la lingua, porta un nome italiano e risiede in Italia? Come vedete la questione è molto complessa. Non dico che Amedeo è un enigma. Piuttosto è come una poesia di Omar Khayyam, ti ci vuole una vita per comprenderne il significato, e solo allora il cuore si aprirà al mondo e le lacrime ti riscalderanno le guance fredde. Adesso, almeno, vi basti sapere che Amedeo conosce l’italiano meglio di milioni di italiani sparsi come cavallette ai quattro angoli del mondo. Non sono ubriaco. Non volevo offendervi.
Non disprezzo la cavalletta, anzi, la rispetto perché si procura il cibo con dignità, senza contare su nessuno. Poi mica è colpa mia se gli italiani amano viaggiare ed emigrare. Ancora oggi mi meraviglio ogni volta che ascolto i discorsi di alcuni politici italiani nei notiziari e nelle trasmissioni televisive. Prendiamo l’esempio di Roberto Bossosso.
Non sapete chi è Roberto Bossosso? E’ il leader del partito Forza Nord che considera nemici gli immigrati musulmani! Ogni volta che sento la sua voce mi assale il dubbio, perplesso mi guardo in giro e chiedo al primo che incontro: «Ma la lingua che parla Bossosso è davvero italiano?». Finora non ho ricevuto risposte convincenti. Spesso mi dicono: «Tu non sai l’italiano», oppure: «Prima devi perfezionare la lingua», oppure: «Spiacente, il tuo italiano è molto scarso». Di solito sento queste frasi velenose quando cerco lavoro nei ristoranti come cuoco e alla fine mi sbattono in cucina a lavare i piatti.
«Sembra che l’unica cosa che sai fare, caro Parviz, sia lavare i piatti!». A Stefania piace provocarmi e prendermi in giro così. Non c’è dubbio che sia rimasta delusa da me, visto che è stata la prima a insegnarmi l’italiano, o per essere più precisi ha tentato di insegnarmelo. Io non sono Amedeo, questo è chiaro come la stella nel cielo sereno di Shiraz. Però mi dispiace dirvi che non sono l’unico che non conosce l’italiano in questo paese. Ho lavorato nei ristoranti di Roma con molti giovani napoletani, calabresi, sardi, siciliani, e ho scoperto che il nostro livello linguistico è quasi lo stesso. Mario, il cuoco del ristorante della stazione Termini, non aveva torto quando diceva: «Ricordati, Parviz, siamo tutti stranieri in questa città!». Non ho mai visto in vita mia uno come Mario; beve vino proprio come fosse acqua, non gli fa nessun effetto.
D’accordo, vi parlerò di Mario il Napoletano in un’altra occasione. Adesso volete sapere tutto su Amedeo, e cioè iniziare la cena direttamente con il dessert? Fate pure. Il cliente è re.
Ricordo ancora la prima volta che l’ho visto.
Era seduto su uno dei banchi della prima fila vicino alla lavagna. Mi sono avvicinato, c’era un posto libero vicino al suo, gli ho sorriso e mi sono seduto accanto a lui dopo avergli detto l’unica parola italiana che conoscevo: «Ciao!».
Questa parola è molto utile, si pronuncia sia quando ci si incontra che quando ci si lascia.
Esiste un’altra parola altrettanto importante: cazzo. Si utilizza per esprimere rabbia e per calmare i nervi, e non è monopolio maschile.
Anche Benedetta, la vecchia portiera, la usa spesso senza pudore. A proposito, la vecchia Benedetta è la portiera del palazzo dove vive Amedeo a piazza Vittorio. Questa maledetta ha il vizio di nascondersi dietro l’ascensore, pronta a litigare con qualsiasi persona voglia usarlo. Io adoro l’ascensore, lo uso non per pigrizia ma per meditare. Premi il pulsante senza nessuno sforzo, vai su o scendi giù, potrebbe guastarsi mentre sei dentro. È esattamente come la vita, piena di guasti. Ora sei su, ora sei giù. Ero su… in paradiso… a Shiraz, felice con mia moglie e i miei figli, mentre adesso sono giù… nell’inferno, soffro di nostalgia. L’ascensore è uno strumento di meditazione. Come vi ho detto, sono abituato a praticare questo passatempo: salire e scendere è un esercizio mentale come lo yoga.
Sfortunatamente Benedetta mi sorveglia come una gatta litigiosa, e non appena metto i piedi in ascensore mi grida in faccia: «Guaglio’! Guaglio’!».
Guaglio’ è la parola preferita di Benedetta.
Come sapete, guaglio’ vuol dire cazzo in napoletano. Così mi hanno detto tanti napoletani con cui ho lavorato. Ogni volta che mi vede andare verso l’ascensore, si mette a urlare: « Guaglio’! Guaglio’! Guaglio’!». In Iran siamo abituati a rispettare i vecchi ed evitare le parolacce. Per questo, invece di rispondere all’offesa con un’altra offesa come fanno in tanti, mi limito a una breve risposta: «Merci!». La lascio e vado via senza guardarla. A proposito, sapete che merci è una parola francese che significa grazie? Me l’ha detto Amedeo, che conosce il francese molto bene.
L’ho conosciuto a un corso gratuito di italiano per gli immigrati di piazza Vittorio. Ero appena arrivato a Roma. Amedeo era diverso dagli altri perché frequentava le lezioni di Stefania senza saltarne una. All’inizio non capivo perché tanta assiduità e tanta bravura. Però la passione è come il sole splendente e nessuno può resistere ai suoi raggi, è la migliore compagna della gioventù. C’è un proverbio persiano che dice: l’ebbrezza di gioventù è intensa come quella del vino. Qualche mese dopo Amedeo ha deciso di andare a vivere con Stefania nel suo appartamento che si affaccia sui giardini di piazza Vittorio, e inoltre ha smesso di venire a scuola perché non aveva bisogno di lezioni per principianti come ne avevo io. Ma siamo rimasti in contatto; ci incontravamo quasi tutti i giorni nel bar di Sandro per prendere un cappuccino o un tè. Sandro è una persona buona, però si arrabbia facilmente. Basta che tu gli dica: «Forza Lazio!» per farlo incazzare, invece se sei un romanista ti tratta come un amico di lunga data. Una volta mi ha chiesto se esistono tifosi romanisti in Iran, io per non deluderlo gli ho risposto: «Certo», allora lui mi ha abbracciato.
Ovviamente ci vedevamo anche a casa sua.
Sono molto affezionato alla sua piccola cucina.
E’ l’unico spazio che dia tranquillità al mio cuore ferito. Quando ricordo i miei bambini: Shadi, Said, Surab, Omar e mia moglie Zeinab mi rattristo molto. Dove saranno adesso? Staranno vagando chissà dove. Vorrei baciarli e abbracciarli tutti. Solo le lacrime e queste bottiglie di Chianti spengono il fuoco della nostalgia.
Piango molto e bevo ancora di più per dimenticare le disgrazie che mi sono capitate. Ho preso l’abitudine di sedermi tutti i giorni vicino alla fontana di fronte all’ingresso della chiesa di Santa Maria Maggiore per dare il mangime ai piccioni o per piangere. Nessuno può togliermi il Chianti dalle mani, tranne Amedeo, l’unico che osi tirarmi fuori dall’inferno della tristezza. Si siede accanto a me in silenzio, mi lascia piangere e bere per pochi minuti, poi improvvisamente si alza come morso da un serpente e mi dice con voce confusa: «Mio Dio, siamo in ritardo!
Dobbiamo preparare da mangiare, oggi è la festa di Stefania. Te lo sei scordato, Parviz?».
Ripete sempre le stesse parole, allo stesso modo e con la stessa serietà. Io lo guardo e rido fino all’esaurimento, la risata mi aiuta a respirare. Nel frattempo Amedeo mi stordisce di barzellette così esilaranti che ridiamo come pazzi di fronte ai turisti. Prima di andare a casa sua passiamo da Iqbal il bengalese a piazza Vittorio per comprare il necessario per la festa: riso, pollo, spezie, frutta, birra e vino. Dopo aver fatto una doccia mi cambio, ed ecco Amedeo che mi apre la porta della cucina: «Benvenuto nel tuo regno, Shahrayar, grande sultano della Persia!».
Chiude la porta e mi lascia da solo per molte ore. Mi metto subito a preparare i vari piatti iraniani, come il ghormeh sabzi e il kabab kubideh, i kashk badinjan e i kateh. Gli odori che riempiono la cucina mi fanno dimenticare la realtà e mi sembra di essere tornato nella mia cucina a Shiraz. Dopo un po’ il profumo delle spezie si trasforma in incenso, ed è questo che mi fa ballare e cantare come un derviscio, ahi ahi ahi… Così in pochi minuti la cucina si trasforma in una trance sufi. Quando finisco di cucinare apro la porta e trovo gli ospiti ad aspettarmi nel salotto. In quel momento inizia la festa.
Ognuno di noi ha un luogo dove si trova a suo agio. C’è chi si trova bene in una chiesa, in una moschea, in un santuario, in un cinema, in uno stadio oppure in un mercato. Io mi trovo bene in cucina. E non c’è da meravigliarsene, perché sono un bravo cuoco. Ho imparato il mestiere tramandato da mio nonno a mio padre. Non sono un lavapiatti, come si dice di me nei ristoranti di Roma. A Shiraz avevo un bel ristorante. Maledetto chi mi ha rovinato, in un batter d’occhio ho perso tutto: famiglia, casa, ristorante, soldi. Mi è stato detto molte volte: «Se vuoi lavorare come cuoco in Italia devi imparare i segreti della cucina italiana». Che ci posso fare se non sopporto la pizza, gli spaghetti e compagnia bella? E poi è inutile imparare la cucina italiana, perché non rimarrò molto a Roma.
Tra poco tornerò a Shiraz. Ne sono certo.
Mi chiedo perché le autorità italiane continuino a negare quello che tutti i medici onesti sanno: la pasta fa ingrassare e causa l’obesità. Il grasso inizia piano piano a ostruire le vene finché il povero cuore non cessa di battere. È accaduto anche a Elvis. Vi ricordate quanto era magro e bello quando cantava Baba bluma bib bab a blue… In quel periodo mangiava riso tutti i giorni, ma sfortunatamente si abituò alla pizza che gli arrivava dai ristoranti italiani di Hollywood perché non aveva il tempo di cucinare e sedersi a tavola. Il povero Elvis aveva troppi impegni, e il risultato fu che divenne in poco tempo grosso come un elefante e morì per il grasso che gli sommerse il cuore, i polmoni, gli occhi, tutto il corpo. Nessuno può contenere il diluvio del grasso. Ho consigliato più volte alla colf Maria Cristina di evitare la pasta.
Quando l’ho conosciuta due anni fa era magra anche lei, poi si è abituata agli spaghetti e si è gonfiata come una mongolfiera. Una volta le ho detto: «Perché hai abbandonato le tue origini visto che il riso è il cibo preferito dai filippini?».
Povera Maria Cristina, recentemente hanno deciso di vietarle di usare l’ascensore per timore che si guasti. «Il tuo peso supera quello di tre persone», così hanno giustificato la sua esclusione. E allora perché il ministero della Sanità non aggiunge sulle etichette delle confezioni di pasta le parole “Nuoce gravemente alla salute”?
Amedeo è come un bel porto da cui partiamo e a cui torniamo sempre. Quando mi mandano via dal lavoro mi ritrovo come un naufrago, e solo Amedeo mi dà una mano. Mi dice sempre: «Non ti preoccupare, Parviz, vieni, diamo un’occhiata a Porta Portese». E così ci sediamo nel bar di Sandro. Amedeo apre il giornale e con una crocetta evidenzia gli annunci importanti, poi andiamo a casa sua per fare le telefonate. Lo guardo stupito come un bambino davanti all’arcobaleno. Amedeo è meraviglioso.
Lo ascolto mentre parla nel suo italiano elegante. Dopo qualche telefonata prende il Tuttocittà e dà un’occhiata veloce alle pagine per assicurarsi dell’esattezza dei nomi delle strade, scrive qualche appunto sul suo taccuino e poi mi guarda e dice: «I ristoranti di Roma ti stanno aspettando, signor Parviz!». Andiamo insieme a incontrare i proprietari dei ristoranti, e ovviamente io rimango zitto e Amedeo parla al mio posto.
Com’è convincente, fantastico! Molto spesso inizio a lavorare lo stesso giorno come aiuto cuoco, anche se vengo scaraventato a lavare i piatti nei giorni seguenti. Mi riesce difficile accettare gli ordini in cucina. Io odio fare l’aiuto cuoco, anzi, preferisco lavare i piatti e sopportare il dolore alla schiena e le piccole artrosi piuttosto che accettare ordini: «Parviz, sbuccia la cipolla!», «Parviz, metti l’acqua a scaldare!», «Parviz, prepara la pasta!», «Parviz, prendi la carota dal frigorifero!», «Parviz, controlla gli spaghetti!», «Parviz, lava la frutta!», «Parviz, pulisci il pesce!». Per me la cucina è proprio come una nave. Parviz Mansoor Samadi non mette piede su una nave se non è lui a comandare, questa è la verità. Amedeo mi accompagna sempre nelle trafile burocratiche, come rinnovare il permesso di soggiorno, sbrigare pratiche amministrative… Quando andavo da solo negli uffici del Comune perdevo facilmente il controllo, mi mettevo a gridare, e ogni volta mi cacciavano come un cane rognoso. Mi sentivo gridare dietro frasi come: «Se torni qui un’altra volta chiamiamo la polizia!». Non so perché minacciano sempre di chiamare la polizia!
Dov’è adesso? Chi lo sa. Tutto quello che so è che Amedeo lascerà un vuoto spaventoso nelle nostre vite. Anzi, non posso immaginare Roma senza Amedeo. Ricordo ancora quel maledetto giorno nella questura di via Genova, dove ero andato a ritirare la risposta dell’Alto Commissariato per i Rifugiati. Le parole dell’ispettore di polizia mi avevano scioccato: «La tua richiesta è stata rifiutata, non ti rimane che fare ricorso». Sono entrato nel primo bar che ho trovato lungo la strada, ho comprato alcune bottiglie di Chianti, non ricordo quante, e mi sono diretto verso Santa Maria Maggiore per sedermi vicino alla fontana come al solito, ma quella volta per bere e piangere. Mi aveva fatto così male che la mia richiesta fosse stata rifiutata, perché io non sono un bugiardo. Sono fuggito da Shiraz perché minacciato, se torno in Iran troverò la corda ad aspettarmi! Mi hanno preso per un truffatore e un bugiardo. Non mi è mai passato per la mente di lasciare l’Iran.
Durante la guerra contro l’Iraq ho combattuto in prima linea e sono rimasto ferito più volte. E poi come avrei potuto abbandonare i miei bambini, mia moglie, la mia casa, il mio ristorante e Shiraz, se non per sfuggire alla morte! Io sono un rifugiato, non un immigrato.
Eh no! Questo è un fatto importante, ha a che fare con il mio amico Amedeo. Vi ho detto, ho pianto a lungo e ho bevuto tanto, poi mi è venuta un’idea geniale. Sono tornato subito al centro di accoglienza dove abitavo, ho preso ago e filo e ho realizzato la mia idea. Ricordo ancora le grida dell’assistente sociale: «Dio mio, Parviz si è cucito la bocca!», «Oddio mio, Parviz si è cucito la bocca!». Sono intervenuti in molti per convincermi a ritornare sui miei passi, ma io ho rifiutato. Hanno chiamato un’ambulanza, il medico ha tentato di farmi desistere, ma inutilmente. Dopo vari tentativi durati ore hanno chiamato i poliziotti, che hanno provato in tutti i modi a portarmi in ospedale. Ma io ho lottato con tutte le mie forze. Ho chiuso gli occhi e mi è sembrato di dormire vicino al mausoleo di Hafiz a Shiraz come quando ero bambino. Ho fatto uno sforzo tremendo per convincermi che tutto quello che mi stava succedendo era solo un fastidioso incubo o un delirio dovuto all’alcol. Poi ho aperto gli occhi alle grida di un poliziotto che agitava il manganello dicendo: «O vai al pronto soccorso di tua volontà o ti portiamo legato con una camicia di forza all’ospedale psichiatrico». Ho detto tra me e me: «Da qui mi muoverò solo dentro una bara». Ho chiuso gli occhi di nuovo come fossi un cadavere. A un certo punto ho sentito una mano molto calda, ho aperto gli occhi con difficoltà e ho visto di fronte a me Amedeo. Era la prima volta che lo vedevo piangere. Mi ha abbracciato come fa una mamma con il figlio che trema dal freddo perché colto di sorpresa dalla pioggia al ritorno da scuola. Ho pianto a lungo fra le sue braccia in un diluvio di lacrime.
Quando ho smesso Amedeo mi ha accompagnato al pronto soccorso, dove mi hanno tolto il filo dalla bocca e ho ripreso a respirare con grande fatica. Amedeo ha insistito che quella notte la passassi a casa sua. La verità è che Amedeo è l’unico che mi vuole bene in questa città.
È impossibile! Amedeo un assassino! Non crederò mai a quello che mi dite. Io lo conosco come conosco il sapore del Chianti e del ghormeh sabzi. Sono sicuro della sua innocenza.
Che c’entra Amedeo con quel delinquente che piscia in ascensore? L’ho visto con i miei occhi, gli ho detto: «Questo non è mica un bagno pubblico». Mi ha guardato con odio dicendo: «Se lo dici ancora ti piscio in bocca! Tu sei a casa mia, non hai il diritto di parlare! Hai capito, pezzo di merda?». E poi ha continuato a gridarmi in faccia: «L’Italia agli italiani! L’Italia agli italiani!». Non ho voluto litigare con quello perché è pazzo. Avete sentito di un uomo sano di mente che piscia nell’ascensore senza vergogna e si fa chiamare il Gladiatore?
Francamente io non sono dispiaciuto per la sua morte. Il giovane Gladiatore non è l’unico matto nel palazzo. C’è una vicina di casa di Amedeo che chiama il suo cagnolino Amore! Lo tratta come un figlio o un marito, anzi, una volta l’ho sentita dire che dorme accanto a lei, nello stesso letto. Questo non è il massimo della follia? Dio ha creato i cani per fare da guardiani e proteggere Il gregge dall’assalto dei lupi, per allontanare i ladri, non per farli dormire fra le braccia delle donne!
Cercate la verità altrove. Ho dei sospetti sul giovane biondo che abitava con il Gladiatore nello stesso appartamento. E’ di sicuro una spia o un agente di qualche servizio segreto. L’ho visto più volte seguirmi e controllarmi da lontano mentre davo da mangiare ai piccioni di Santa Maria Maggiore. Una volta mi ha sommerso di strane domande: «Perché ti piacciono tanto i piccioni?», «Perché usi sempre l’ascensore?», «Perché bevi continuamente Chianti?», «Perché sei così legato ad Amedeo?», «Come mai odi tanto la pizza?». Allora gli ho gridato in faccia: «Che vuoi da me, spia?». Maledette spie, sono sempre a caccia di segreti! In quel momento mi ha guardato sorpreso: «Non capisci che ho bisogno di tutte le informazioni sulla tua vita per il mio film». Gli ho domandato stupito: «Cosa dici?» e lui: «Parlo del film che farò e di cui tu, Parviz, sarai il protagonista». In quel momento mi sono chiesto, perplesso, se questo maledetto biondo fosse una spia o un pazzo.
Quando gli ho parlato della questione, Amedeo mi ha sorriso: «Parviz, non avere paura del Biondo, lui sogna di diventare un giorno un regista cinematografico. L’essere umano ha bisogno dei sogni come il pesce dell’acqua». Non ho capito molto bene le parole di Amedeo, ma non importa, quello che conta veramente è che io mi fido ciecamente di lui.
Sono sicuro che c’è un errore. Dopo la vicenda del mio sciopero della parola, Amedeo mi ha convinto a presentare ricorso accollandosi le spese. Dopo un po’ hanno riesaminato il mio caso e hanno ammesso che ho detto solo la verità, che non ho mentito a nessuno. Così alla fine mi hanno concesso l’asilo politico. Io sono onesto e franco anche perché non ho altro da perdere dopo aver perso i miei bambini, mia moglie, la mia casa, il mio ristorante. Quindi lasciatemi dire che non mi fido molto della polizia italiana. Quante volte mi hanno portato alla questura per interrogarmi come un pericoloso criminale!
Non sto dicendo cose senza senso.
Rispondete alla mia domanda, per favore: dare il mangime ai piccioni è un reato punito dalla legge italiana? Ora mi spiego: come sapete, piazza Santa Maria Maggiore è un luogo frequentato dai piccioni. Io li adoro, provo un grande piacere a dar loro da mangiare. Essere circondato dai piccioni è una scena che suscita l’ammirazione dei turisti, e questo li spinge a scattare delle foto ricordo. Quindi io contribuisco alla promozione del turismo a Roma. Questo però non mi salva, visto che la polizia mi ha impedito più volte di avvicinarmi ai piccioni. Ho obiettato: «Qual è questa legge che vieta di dare da mangiare ai piccioni?». Ho fatto del mio meglio per spiegare che la colomba è simbolo di pace in tutte le tradizioni, è addirittura il simbolo dell’Onu! Mi domando come fa l’Italia a impedirmi di dare da mangiare ai piccioni se è membro dell’Onu. Mi hanno trattato male nonostante non abbia commesso nulla di grave, anzi, mi hanno offeso dicendo: «Vuoi trasformare la bella Roma in una discarica? Ritorna da dove sei venuto e lì fai quello che vuoi!». Non mi sono rassegnato alle loro minacce e ho lottato senza tregua, ho giurato di rimanere fedele ai piccioni. Non li lascerò morire di fame. Amedeo ha fatto da mediatore tra me e la polizia e così mi hanno imposto di prendere il mangime da dare ai piccioni dal Comune stesso. Non ho capito il senso di questo accordo, ma l’importante è non avere più guai con la polizia e potermi procurare il mangime senza spendere un soldo.
Ma lasciamo perdere il cattivo trattamento che ricevo dalla polizia. Parliamo della portiera Benedetta che non la smette di fare la stronza per darmi fastidio. Le ho detto una volta, dopo aver perso la pazienza: «E’ vergognoso che una donna alla tua età dica Guaglio’!», però lei ha continuato a ripeterlo senza vergogna. Le offese di questa maledetta non hanno né capo né coda. Una volta mi ha chiesto in modo arrogante: «Mangiate i cani e i gatti in Albania?».
Ho mantenuto saldi i nervi, le ho risposto: « Conosci Omar Khayyam? Conosci Saadi? Conosci Hafiz? Non siamo selvaggi che mangiano i gatti e i cani! Poi che diavolo c’entro io con l’Albania?». Mi sono abituato fin da piccolo a rispettare gli anziani, per questo l’ho lasciata dicendo: «Merci, signora!».
Ma torniamo ad Amedeo. Non è lui l’assassino!
Non può avere niente a che fare con questo crimine. Amedeo non si è macchiato del sangue del Gladiatore. Sono triste per la sua assenza. Non so cosa gli sia successo esattamente, però sono sicuro di una cosa: da oggi in poi nessuno si accorgerà di me quando piangerò e berrò a piazza Santa Maria Maggiore. Chi mi toglierà dalle mani la bottiglia di Chianti?
Penso seriamente di andarmene. Se Amedeo non torna nei prossimi giorni, abbandonerò Roma e non tornerò più. Cari signori, Roma, senza Amedeo, non vale nulla. E’ come un piatto persiano senza le spezie!
***
Primo ululato
Mercoledì 5 marzo, ore 22.45.
Stamattina mi ha chiamato il sig. Benardi, proprietario del ristorante “Capri” in piazza Navona dove lavora Parviz come aiuto cuoco. Ha detto che Parviz non fa ciò che gli viene chiesto perché non sa parlare italiano, e non riesce a distinguere tra una padella e una pentola, tra una zucchina e una carota, tra basilico e prezzemolo.
Dopo una lunga lamentela ha offerto a Parviz di scegliere se andare via o lavare i piatti, e lui ha scelto la seconda possibilità.
*
Martedì 19 marzo, ore 23.49.
Il sig. Benardi mi ha chiamato un’altra volta, dicendomi che è dispiaciuto di dover licenziare Parviz perché le sue labbra non lasciano mai la bottiglia di vino durante il lavoro. L’ha ripreso più volte senza ottenere nessun risultato. Povero Parviz, è convinto che i ripetuti licenziamenti siano dovuti al suo odio per la pizza e non per il suo scarso italiano e per il fatto che beve mentre lavora. Adesso il problema è che Parviz si ritrova disoccupato, quindi la sua tristezza cresce e lui beve il doppio. Domani, tornando a casa, passerò da piazza Santa Maria Maggiore e lo troverò come al solito vicino alla fontana a piangere e bere. Ci vuole una cena persiana per farlo uscire da quella malinconia. Devo ricordare a Stefania d’invitare qualche amico per la cena di domani sera, così Parviz potrà cucinare i suoi piatti preferiti.
*
Sabato 24 giugno, ore 23.57.
Sono ingrassato. Sembra che Parviz abbia ragione quando dice: «Tu sei un tossicodipendente molto particolare, la tua droga è la pizza!». Mi sono accorto della mia avidità per la pizza solo ultimamente. Non c’è dubbio che la pizza sia il mio cibo preferito, non posso farne a meno. Ormai tutti i sintomi della dipendenza sono evidenti. La pizza si è mescolata con il mio sangue e così sono diventato un alcolizzato di pizza e non di vino. Fra poco mi scioglierò nella pasta e diventerò a mia volta una pizza.
*
Giovedì 3 novembre, ore 22.15.
Parviz non sbaglia quando dice che ognuno ha un luogo dove si tranquillizza. Basta vederlo in cucina. Assomiglia a un re nel suo reame perché ritrova la quiete e la calma in pochi secondi. Mi sembra di vedere Shahrayar, il sultano delle Mille e una notte, sereno e felice dopo aver ascoltato un racconto di Shahrazad. Il bagno è l’unico posto che ci garantisca la pura tranquillità e la dolce solitudine, non a caso da noi viene chiamata la stanza del riposo. Io trovo la mia tranquillità in questo piccolo bagno. E’ il mio nido, e questa tazza bianca dove mi siedo per fare i bisogni è il mio trono!
*
Sabato 3 luglio, ore 23.04.
Ho provato a convincere più volte Parviz a imparare i segreti della cucina italiana, però ha rifiutato. Questa questione suscita molti interrogativi che vanno oltre l’ambito gastronomico.
Credo che Parviz abbia paura di dimenticare la cucina iraniana se impara quella italiana. È l’unica spiegazione al suo odio per la pizza in particolare e per la pasta in generale. Come dice il proverbio arabo, “E’ impossibile tenere due spade in un fodero solo“. Parviz è convinto dell’impossibilità di farle convivere pacificamente.
Per lui la cucina iraniana con le sue spezie e i suoi odori è ciò che rimane della sua memoria.
Anzi, è la memoria, la nostalgia e l’odore dei suoi cari tutti insieme. Questa cucina è il filo che lo lega a Shiraz, che non ha mai lasciato. E’ strano Parviz, non vive a Roma ma a Shiraz!
Allora perché lo costringiamo a imparare l’italiano e a cucinare all’italiana? La gente parla l’italiano a Shiraz? Si mangiano pizza, spaghetti, fettuccine, lasagne, ravioli, tortellini, la parmigiana a Shiraz? Auuuuuuuuu… *
Venerdì 14 aprile, ore 23.36.
Oggi ho pianto! Non credevo ai miei occhi, le lacrime scendevano senza che me ne accorgessi. Non pensavo di trovare Parviz in quello stato. L’assistente sociale non è scesa nei dettagli nel corso della telefonata, mi ha solo detto: «Parviz sta male, venga prima che sia troppo tardi». Ho detto tra me e me che forse aveva bevuto più del solito. Sono corso al centro di accoglienza per rifugiati, mi sono fatto largo tra i poliziotti e gli infermieri. Quando l’ho visto con la bocca cucita ho sentito un terribile terremoto in ogni parte del corpo. Non ero in grado di parlare, ho preso la sua mano e l’ho abbracciato forte. Oh, mio Dio! Da dove viene tanta tristezza? Cos’è il silenzio? È utile parlare? Ci sono altri modi per dire la verità senza muovere le labbra? Hanno detto a Parviz che la storia che ha raccontato sulla sua fuga dall’Iran è un’invenzione, è una vicenda che non c’entra con la politica, è una questione più vicina alla cucina!
Gli hanno detto: «La tua istanza è stata respinta». Non hanno creduto che era fuggito da Shiraz dopo che i Guardiani della Rivoluzione avevano scoperto alcuni volantini anti-governativi di Mudjahidin del Popolo nel suo ristorante. E’ vero che Parviz non è un militante politico e non ha nessun rapporto con i partiti, ma la sua vita era in pericolo. E’ fuggito in una notte disperata senza baciare i suoi piccoli né sua moglie, non aveva tempo per dire addio alla sua Shiraz!
Io chiedo a gran voce da questo tugurio che emana una puzza da togliere il fiato: chi possiede la verità? Anzi, cos’è la verità? La verità si dice con le parole? Parviz ha detto la sua verità con la bocca cucita e ha parlato col suo silenzio!
Oggi il mio odio per la verità è aumentato e la mia passione per l’ululato è cresciuta. Ululerò il resto della notte da questo stretto buco e so che il mio ululato non lo ascolterà nessuno.
Affiderò a questo piccolo registratore il mio incessante ululato, poi mi consolerò ascoltandolo. Auuuuuuu… *
Lunedì 5 agosto, ore 22.49.
Pace fatta tra Parviz e la polizia! La controversia per i piccioni di piazza Santa Maria Maggiore è andata per le lunghe. Non era facile convincerlo a non nutrire più i suoi piccioni.
Parviz adora i piccioni perché è convinto che un giorno un piccione gli si poserà sulla spalla portando una lettera di sua moglie e dei suoi bambini. Aspetta ancora il messaggio promesso, soprattutto dopo aver sentito la storia del miracolo accaduto a Santa Maria Maggiore nell’anno 356, quando nevicò nel mese di agosto. In attesa di tutto questo, il Comune ha deciso di mettere alle strette i piccioni nelle grandi piazze di Roma con il pretesto che sono troppi e cacano sui cittadini e soprattutto sui turisti. Così ha deciso di vietare che si dia loro da mangiare nelle piazze pubbliche. Anzi, è andato oltre, introducendo alcuni prodotti chimici anticoncezionali insieme al mangime offerto gratuitamente. Ho proposto al commissario Bettarini di affidare a Parviz il compito di dar da mangiare ai piccioni usando il mangime del Comune, e dopo una lunga esitazione la polizia ha accettato. Non ho avuto difficoltà a convincere Parviz, e ovviamente non gli ho detto niente sulla natura del mangime fornito dal Comune. A volte è meglio ignorare la verità. Ad esempio, sono d’accordo con i medici che nascondono ai loro pazienti la vera natura della loro malattia. Quale stupidità spinge un medico a dire a un paziente: «Morirai tra due mesi»? Disgraziato, lascialo vivere altri due mesi risparmiandogli almeno il fardello di conoscere l’ora della fine! La verità è un rimedio che cura i nostri mali o un veleno che ci ammazza lentamente? Cercherò la risposta nell’ululato. Auuuuuuuuu… *
Sabato 25 febbraio, ore 23.07.
Non sono riuscito a convincere Parviz che Johan Van Marten non è una spia, ma uno studente olandese che studia cinema e sogna di restituire la gloria al Neorealismo facendo magari rinascere un De Sica o un Rossellini. Johan o il Biondo – come lo chiamano i condomini del palazzo – tenta di raccogliere informazioni sulla vita di Parviz, della portiera Benedetta, di Sandro, di Antonio Marini, di Elisabetta Fabiani, di Iqbal il bengalese e di tutti gli altri. Johan sogna di realizzare un film a piazza Vittorio in bianco e nero e di raccontare le loro storie. Mi ha chiesto con grande insistenza di aiutarlo a convincere Parviz, Benedetta, Iqbal, Maria Cristina e il resto degli abitanti a partecipare al film. Ha detto che Parviz è un attore di talento, ha notevoli doti artistiche. Basta vederlo piangere in modo spontaneo e dare da mangiare ai piccioni vicino alla fontana di Santa Maria Maggiore per scoprire i tanti punti in comune tra lui e il fantastico Anthony Queen. Poi si è soffermato sul nome. Ha proposto di chiamarlo con un nome degno di una star emergente del cinema: Parvi Bravo al posto di Parviz Mansoor Samadi.
La verità di Benedetta Esposito
Sono di Napoli, lo dico forte e senza mettermi scuorno. Poi perché dovrei vergognarmi?
Per caso Totò non è nato a Napoli? È il più grande attore del mondo, ha vinto cinque volte l’Oscar. Io sono un’ammiratrice di Totò, non me ne perdo neanche uno dei suoi film e me li ricordo tutti a memoria. E’ l’unico che mi fa ridere pure quando sto triste. Non riesco a trattenermi dalle risate quando rivedo la scena in cui cerca di vendere la Fontana di Trevi a quel fesso di turista! Vi ricordate quel bel film?
Mi chiamo Benedetta, però a molti piace chiamarmi la Napoletana. Questo soprannome non mi dà fastidio. So che molti inquilini del palazzo non mi sopportano e mi odiano senza motivo anche se io sono brava nel mio lavoro.
Chiedete un po’ qual è il palazzo più pulito di tutta piazza Vittorio, vi risponderanno senza esitare: «Il palazzo di Benedetta Esposito».
Non voglio dire che questo palazzo è di mia proprietà, sia chiaro, non voglio guai con il vero proprietario, il signor Carnevale. Io sono una semplice portinaia e niente di più. In questo palazzo ci ho passato quarant’anni, sono la portinaia più anziana di tutta Roma. Mi merito veramente un premio, lo dovrei ricevere direttamente dalle mani del sindaco. Il problema è che siamo in Italia: premiamo gli incompetenti e disprezziamo i bravi! Guardate che cosa è successo al povero Giulio Andreotti: dopo aver servito lo stato per decenni, è stato accusato di essere uno della mafia! Maro’, aiutace tu! Anzi, l’hanno accusato di aver baciato in bocca Riina!
Che scuorno! Che scandalo! Chi può credere a questa menzogna? Quel povero cristo di Andreotti è un vero cattolico. Non si perde mai una messa, è un vero signore, e come dice Totò: “Signori si nasce”. Io sono pronta a testimoniare al tribunale di Palermo a voce alta: « Andreotti ha baciato solo una mano, quella del Santo Padre!». La sua schiena si è ingobbita per la fatica. Anch’io ho problemi di schiena dovuti al lavoro pesante e i dolori ai tendini non mi danno pace. Non ce la faccio più a sopportare questi lavori di pulizia, ma non tengo alternativa visto che la pensione non basta nemmeno a comprare i medicinali. La disgrazia sta nel fatto che hanno distrutto la DC dopo aver ucciso Aldo Moro. In passato votavo sempre per i democristiani, mentre adesso c’è una tale confusione! Non so a chi devo dare il voto. Mio figlio Gennaro mi ha consigliato di votare per Forza Italia, dice di aver sentito Berlusconi in televisione giurare sulla testa dei figli che ci trasformerà in ricconi come lui.
Che dite? Il signor Amedeo è forestiero?
Non ci credo che non è italiano! Non ho ancora perso la testa, sono in grado di distinguere tra gli italiani e gli stranieri. Pigliate per esempio lo studente biondo. Non c’è dubbio, viene dalla Svezia. Basta guardarlo e sentire come parla per essere sicuri che è forestiero, con quel suo modo di parlare. Fa troppi errori ridicoli, come quando ripete: «Io non sono GENTILE!». Come si fa a dire: «Io sono scostumato!»? Mi chiama Anna Magnani! Gliel’ho detto più volte che Anna Magnani è nata a Roma, è romana, mentre io sono nata a Napoli e parlo napoletano. Mi ha chiesto di partecipare a un film. Gli ho risposto che mi piacciono assai assai i film, soprattutto quelli di Totò, però non so recitare. Io sono una portiera, non un’attrice! A quel punto mi ha preso per mano e mi ha fatto ballare.
Stavo per cadere a terra, e lui mi ha guardato seriamente: «Sei la nuova Anna Magnani!».
Questo guaglione biondo è forestiero dalla capa ai piedi perché è fesso e pazzo. Spesse volte durante l’inverno incontro turisti biondi, maschi e femmine, che portano delle magliette a maniche corte, e allora mi fermo perplessa e stupita mi dico: «Ma questa gente non tiene paura del raffreddore?».
Ma che volete, ormai mi sono fatta vecchia, non ci capisco più niente. Mannaggia ‘a vecchiaia! E vabbuo’, se il signor Amedeo è forestiero come dite voi, chi sarebbe l’italiano vero?
Mi viene il dubbio anche di me stessa. Magari viene il giorno in cui si dirà che Benedetta Esposito è albanese o filippina o pakistana. Chi vivrà vedrà! Amedeo parla l’italiano meglio di mio figlio Gennaro. Anzi, meglio del professore all’università di Roma, Antonio Marini, che sta di casa al quarto piano, interno 16. So tutto dei condomini del mio palazzo, perciò mi accusano di inciuciare. È questa la ricompensa che merito? Io tengo a cuore il loro interesse e sono sempre a disposizione loro. Ditemi voi: questo significa forse entrare nei fatti loro? San Genna’, mettece ‘a mana toja!
Me lo ricordo bene, era primavera. Sono passati cinque anni. L’ho visto entrare dal portone del palazzo che andava verso l’ascensore, gli ho chiesto: «Guaglio’, addo’ vaje?».
«Sto andando al secondo piano».
Ho insistito per avere altri particolari e ho scoperto che stava andando da Stefania Massaro. Mentre stava per aprire la porta dell’ascensore gli ho detto: «Gentilmente, non sbattere la porta. Vedi se hai chiuso bene, non premere assai il bottone!».
Mi ha guardato con un sorriso e mi ha detto: «Ho cambiato idea, vado a piedi».
Credevo che mi stava facendo fessa, che mi si rivolgesse male come fanno gli altri, ma ha fatto un sorriso più dolce di prima e mi ha detto salutandomi: «Buona giornata, signora!».
Non credevo alle mie orecchie e mi sono domandata: ancora ci sono degli uomini che rispettano le femmine in questo paese? Quel giorno ho sofferto di uno strano senso di colpa.
Ho giurato, quant’è vero San Gennaro, che l’avrei trattato bene se fosse tornato un’altra volta. Dovete sapere che il signor Amedeo è il solo che non usa l’ascensore in questo palazzo per rispetto alla sottoscritta, perché ha capito quali problemi ricadono sulle mie spalle ogni volta che si scassa. Le disgrazie di questo ascensore non finiscono mai. Ci sta perfino chi piscia di nascosto! Così rischio di perdere il lavoro.
Abbiamo fatto tante riunioni per cercare di risolvere questo problema, ma purtroppo non siamo riusciti a trovare una soluzione. Ho pensato di chiamare quelli di Striscia la notizia che si occupano dei problemi dei cittadini e li risolvono velocemente, poi però c’ho ripensato per non danneggiare la reputazione del mio palazzo. Alla fine mi sono ispirata a James Bond, pensando di installare una piccola telecamera annascosta nell’ascensore per scoprire il colpevole. Soltanto che ho dovuto lasciar perdere, per via della spesa e per paura di essere accusata di fare la spiona e di non farmi i fatti miei.
Parlavo del signor Amedeo, giusto? Dopo un po’ di tempo è venuto a stare di casa con Stefania. Ero contenta assai assai. Questa vita non è proprio giusta. Ditemi voi: Stefania Massaro merita un guaglione elegante come il signor Amedeo? Quella pernacchia non mi può vedere, neanche le avessi ucciso il padre e la madre.
Pure io non la posso vedere, faccio di tutto per non incrociarla. Come scordare quello che mi combinava quando era piccerella? Suonava i campanelli e insozzava le scale appositamente perché il resto dei condomini se la prendesse con me. Quante volte mi hanno accusato di non fare il mio lavoro come si deve! Ha fatto di tutto per farmi cacciare, però non ci è riuscita. Io non ho paura della cattiveria degli altri, da quella San Gennaro mi protegge. Se no perché ho chiamato l’unico figlio mio con il nome del Santo patrono di Napoli!
No! Amedeo non c’entra niente con questo crimine. Io non so chi ha ucciso Lorenzo Manfredini. L’ho trovato morto e buono nell’ascensore in un bagno di sangue. La gente a piazza Vittorio non lo poteva vedere o’ Gladiatore.
Sono sicura che la causa di tutto questo casino è la disoccupazione. Sono assai i giovani italiani che non trovano una fatica dignitosa, e così la maggior parte sono costretti a rubare pe ‘nu muorz’ e pane. Bisogna cacciare i lavoratori immigrati e mettere al loro posto i nostri poveri figli.
Cercate il vero assassino. Io tengo un sospetto di quel suo amico albanese. Non ho capito che tipo di legame ci sta tra lui e il signor Amedeo.
Elisabetta Fabiani mi ha riferito che ha visto più volte l’albanese ubriacarsi e ridere sano sano fino a piangere davanti ai turisti di piazza Santa Maria Maggiore. Ho provato a consigliare al signor Amedeo di stare lontano da questo tipo di delinquenti, però non m’è stato a sentire. Anzi, gli ha aperto le porte di casa. Eccolo qua il risultato davanti a voi.
Io dico che chillo albanese è il vero assassino. Questo disgraziato fa lo scostumato quando lo chiamo Guaglio’! Non so come si chiama, e a Napoli siamo abituati a dire così, però lui mi risponde con male parole nella sua lingua. Non mi ricordo esattamente quella parola che dice sempre, forse mersa o mersis! Insomma l’importante è che questa parola vuole dire cazzo in albanese e si usa per insultare la gente. Quello che aumenta i miei sospetti è il fatto che non conosce per niente il paese suo. Ha provato più volte a convincermi che viene da un paese che non è l’Albania. Non è l’unico a disconoscere il paese di origine per evitare l’espulsione immediata, ah eh! La filippina Maria Cristina mi dice sempre che non viene dalle Filippine, ma da un altro paese di cui non ricordo il nome. Non capisco, perché la polizia tollera questi delinquenti!? Io conosco alcuni di loro molto bene, non lontano da piazza Vittorio. Lo conoscete Iqbal Il pakistano, il proprietario dell’alimentari di via La Marmora? Pure lui disconosce il paese suo, dice sempre: «Odio il Pakistan». Ma è mai possibile che qualcuno si schifa del proprio paese in questo modo? Io mi ricordo Iqbal molto bene.
Era uno scaricatore al mercato di piazza Vittorio qualche anno fa, mentre adesso è diventato un grande commerciante! Ditemi voi: come ha fatto a trovare tutti ‘sti soldi per aprire l’attività?
Da dove ha preso i soldi per comprare il negozio, il furgone e accattare la roba che viene da fuori? Non c’è un’altra spiegazione: questo disgraziato è un accattone, come si dice qui a Roma, oppure uno che spaccia droga.
Allora che fine fanno le tasse che paghiamo allo stato? A che servono se non a proteggerci da questi delinquenti? Perché non acchiappano Iqbal e l’albanese e il resto degli immigrati delinquenti e li cacciano? Quella filippina non la posso proprio vedere perché mi provoca continuamente con cattiveria. Il problema mio è che quelli che non tengono voglia di fare niente mi stanno ‘ncopp ‘o stomaco. Ricordo ancora quando è venuta la prima volta per prendersi cura della vecchia Rosa, era secca secca, come una mazza di scopa, per la fame. Eh sì, ci sta ancora un sacco di gente in Africa e in Brasile e in altre zone del mondo che mangia dalle discariche pubbliche. Dopo pochi mesi s’è fatta chiatta chiatta per quanto mangia e dorme assai assai, esce di casa solo per emergenza e non dà importanza ai problemi come le tasse, la pigione, le bollette della luce, dell’acqua e del riscaldamento e il resto dei fastidi della vita quotidiana.
Ha tutto gratis e si comporta come se fosse la padrona di casa. E’ giusto tutto questo? Che senso ha questa situazione? A me, vecchia italiana, malata, mi tocca faticare assai e lei, immigrata, giovane chiatta, tiene una salute esagerata. Si mangia quello che vuole e dorme quanto vuole come una gatta viziata! So che non tiene il permesso di soggiorno, ma non posso denunciarla per non causare guai ai parenti di Rosa.
Potrebbero vendicarsi di me senza pensarci due volte.
Io sono sicura che l’assassino di Lorenzo Manfredini è uno degli immigrati. Il governo deve reagire ampressa ampressa. Un altro poco ci cacceranno dal nostro paese. Basta che fai un giro di pomeriggio nei giardini di piazza Vittorio per vedere che la stragrande maggioranza della gente sono forestieri: chi viene dal Marocco, chi dalla Romania, dalla Cina, dall’India, dalla Polonia, dal Senegal, dall’Albania. Vivere con loro è impossibile. Tengono religioni, abitudini e tradizioni diverse dalle nostre. Nei loro paesi vivono all’aperto o dentro le tende, mangiano con le mani, si spostano con i ciucci e i cammelli e trattano le donne come schiave.
Io non sono razzista, ma questa è la verità! Lo dice pure Bruno Vespa. Poi perché vengono in Italia? Non capisco, stiamo pieni di disoccupati. Mio figlio Gennaro non tiene un lavoro, se non fosse per sua moglie Marina che fa la sarta e per il mio continuo aiuto sarebbe finito a chiedere l’elemosina fuori dalla chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli! Se il lavoro non ci sta per la gente di questo paese, come facciamo ad accogliere tutti questi disperati? Ogni settimana vediamo barche cariche di clandestini al telegiornale. Quelli portano malattie contagiose come la peste e la malaria! Questo lo ripete sempre Emilio Fede. Però nessuno lo sta a sentire.
Io dico che la criminalità ha superato ogni limite. Il mese passato Elisabetta Fabiani, la vedova che sta di casa al secondo piano, non ha trovato più il cagnolino suo Valentino. L’aveva portato ai giardini di piazza Vittorio per fargli fare i suoi bisogni, come tutti i giorni, si è seduta per godersi il sole, poi ha guardato a destra e a sinistra e non ce n’era nemmeno l’ombra. Mi ha chiesto aiuto, e l’abbiamo cercato dentro e fuori dei giardini, ma niente. Elisabetta ha pianto assai per la perdita di Valentino, tanto che tutti hanno pensato che fosse morto suo figlio Alberto. Le ho detto che la scomparsa di Valentino suscita tanti sospetti. Non ho a mia disposizione prove evidenti, però quello che tengo a destra e a sinistra favorisce l’ipotesi del rapimento.
Primo. Negli ultimi anni sono stati aperti tanti ristoranti cinesi a piazza Vittorio e dintorni.
Secondo. I giardini di piazza Vittorio sono i luoghi preferiti dei criaturi cinesi per giocare.
Terzo. Mi hanno detto che i cinesi si mangiano la carne dei gatti e dei cani.
Dopo tutte queste cose che vi ho detto, non ci sono dubbi che i cinesi hanno rapito quel poveriello di Valentino e se lo sono mangiato!
Il signor Amedeo è innocente. Pigliate il suo amico albanese, interrogatelo bene bene, vedrete come crollerà e confesserà. L’ho preso con le mani nel sacco parecchie volte mentre cercava di scassare l’ascensore. L’ho visto salire e scendere senza nessun motivo, salire all’ultimo piano e scendere al piano terra. L’ho osservato bene bene fino a diventare sicura della sua colpevolezza. Prima di chiamare la polizia ne ho parlato con il signor Amedeo per evitare complicazioni. E’ l’albanese il vero assassino, sono pronta a mettere la mano sul fuoco. È giusto che il signor Amedeo paghi al posto di alcuni immigrati? È giusto accusare un buon cittadino italiano di un crimine che non ha commesso?
San Genna’, pienzace tu!
Perché insistete? Vi ho detto che Amedeo è italiano verace. Gli ho chiesto personalmente più volte di dirmi da dove viene, dei genitori, della famiglia, del luogo di nascita e di altre cose che non ricordo più. Mi ha sempre risposto con una sola parola: sud. Non ho voluto scocciarlo con altre domande per avere altri particolari, ho detto tra me e me: chissà, sarà siciliano, calabrese o pugliese. Poi non ci sta differenza tra Catania e Napoli, tra Bari e Potenza, tutti veniamo dal sud. Che male ci sta, alla fine siamo tutti italiani! Roma è la città dove ci sta gente che arriva da tutte le parti. Faciteme ‘o piacere di non accusare Amedeo di essere un immigrato. Noi italiani siamo così: nei momenti difficili non ci fidiamo tra di noi, invece di aiutarci facciamo di tutto per farci del male. Siamo un popolo che ha il tradimento rint’e wene?
Durante la Seconda guerra mondiale abbiamo combattuto con i tedeschi, poi ci siamo arruvutati contro di loro e così ci siamo alleati con gli americani. Ricordo ancora i soldati americani per le strade di Napoli. Ero una bella guagliona, e tutti i guaglioni mi volevano.
Siamo un popolo strano. Abbiamo ammazzato Mussolini e l’amante Claretta in una piazza pubblica a Milano, abbiamo cacciato il re e la famiglia impedendo loro di tornare, abbiamo sfidato il papa e la Santa Chiesa quando la maggioranza ha votato a favore del divorzio. Poi abbiamo visto tutti dentro la televisione Giulio Andreotti sul banco degli imputati e quella poco di buono di Cicciolina sui banchi del parlamento. Io non sono istruita come voi, però tengo il diritto di chiedere: se Andreotti se la faceva con la mafia, questo vuole dire che ho votato per la mafia e non me ne sono accorta? Questo vuole dire che la mafia ha governato l’Italia per decenni? Poi abbiamo sentito parlare della Lega Nord che fa di tutto per dividere il paese in due e fondare un nuovo stato, la Padania. In che paese siamo? Che fine abbiamo fatto? Gesù, Giuseppe e Maria! Maronna mia, aiutace tu!
Spero che il signor Amedeo torni presto. A quel punto scoprirete l’errore grosso che avete commesso. Io vi dico che questo è il paese delle meraviglie. Da oggi in poi non mi stupirò più se sento qualcuno dire che Giulio Andreotti è albanese o pakistano o filippino! Il signor Amedeo è l’unico inquilino che si ferma a parlare con me. Mi chiama sempre signora Benedetta ed evita di usare l’ascensore perché rispetta il mio lavoro, sa come fatico per garantire tranquillità agli inquilini. La scomparsa del signor Amedeo e l’accusa infondata dell’omicidio del Gladiatore mi fanno anticipare la partenza da Roma e il mio ritorno definitivo a Napoli. Sì, quello è San Gennaro che mi chiama! Andrò alla chiesa di San Domenico a Napoli a pregare per il signor Amedeo.
Secondo ululato
Giovedì 4 febbraio, ore 23.14.
Ho provato inutilmente a convincere la portiera Benedetta che Parviz non è albanese e che merci è una parola francese che vuol dire grazie e si usa con lo stesso significato in Iran.
Quando sono tornato questa sera a casa mi ha fermato come al solito, e dopo una lunga tiritera in cui mi ha ribadito che per lei sono come il suo unico figlio mi ha consigliato di tenermi lontano dall’albanese, dicendo: «Quel delinquente! Ti causerà un sacco di problemi, perché ci sono testimoni che l’hanno visto spacciare la droga a piazza Santa Maria Maggiore fingendo di dare da mangiare ai piccioni». La polizia l’ha arrestato più volte, ma lei non ha capito perché è stato rilasciato in fretta.
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Martedì 4 giugno, ore 22.57.
Il rapporto morboso che Benedetta ha stabilito con l’ascensore suscita parecchi interrogativi.
Questa mattina era molto arrabbiata con Parviz. Si è lamentata a lungo, ha detto che l’albanese, così chiama Parviz, «scassa l’ascensore» per farla cacciare dal lavoro con il pretesto che è anziana e non è in grado di badare agli inquilini. Le ho promesso di parlare con Parviz per risolvere questo problema. Odio tanto l’ascensore perché mi ricorda la tomba. Odio gli spazi stretti, tranne questo bagno. È il mio nido. Oggi ho letto sulla rivista Focus un articolo sull’upupa, sembra sia l’unico uccello che fa i bisogni nel suo nido! C’è un altro uccello misterioso come l’upupa. E’ il corvo, che indicò a Caino il modo per sbarazzarsi del cadavere del fratello Abele scavando una fossa. Si dice che questo sia stato il primo omicida sulla terra, quindi il corvo è il primo esperto di sepoltura nella storia. Io sono un corvo particolare. La mia missione è seppellire i ricordi macchiati di sangue.
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Venerdì 6 settembre, ore 22.35.
È scomparso il cagnolino della nostra vicina di casa Elisabetta. Questa sera Benedetta mi ha chiesto con insistenza i nomi dei paesi dove si mangia la carne di cane. Io le ho risposto che non lo so, poi lei mi ha sorpreso con una strana domanda: «Il tuo amico albanese mangia la carne di cane e gatto?». Le ho giurato che Parviz non ha mai assaggiato in tutta la sua vita carne di cane né di gatto! Questa vecchia è di un’ingenuità disarmante.
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Mercoledì 17 novembre, ore 23.27.
Oggi Benedetta mi ha rivelato un segreto molto delicato. Mi ha detto a bassa voce, per non farsi sentire dagli altri: «La scomparsa del cagnolino Valentino non è casuale. E’ stato rapito dai bambini cinesi che giocano nei giardini di piazza Vittorio! La caccia ai gatti e ai cani è un passatempo che assomiglia a quello dei nostri bambini con le farfalle». Poi mi ha consigliato di evitare i ristoranti cinesi perché il loro piatto preferito è riso con carne di cane. Mi sono trattenuto dal riderle in faccia, l’ho salutata in fretta e sono salito di corsa per le scale, poi ho aperto la porta e mi sono messo a ridere come un pazzo. E lì mi è venuta un’idea geniale.
Mi sono chiesto che cosa sarebbe accaduto se avessi bussato alla porta di Elisabetta Fabiani dicendole: «Sono appena tornato dal vicino ristorante cinese dove ho mangiato riso con una carne deliziosa; quando stavo andando via ho chiesto al proprietario del ristorante che tipo di carne avevo mangiato, e lui mi ha risposto: “È la carne di un cagnolino che abbiamo trovato una di queste mattine vicino al nostro ristorante, aveva un collarino al collo con su scritto Valentino!“». Non ridevo così da molto tempo.
Comunque spero che il piccolo Valentino torni presto, così la notte potrò ascoltarlo ululare.
*
Sabato 7 gennaio, ore 23.48.
Benedetta è abituata a lamentarsi di tutto: degli inquilini del palazzo, del governo, dei commercianti di piazza Vittorio, dei cattivi servizi sanitari, dei prezzi eccessivi dei medicinali, delle tasse, della pioggia, degli immigrati. Oggi però mi ha parlato di suo figlio Gennaro, il disoccupato. Mi ha chiesto di aiutarla a trovargli un lavoro ripetendo che «i parenti sono come le scarpe, più sono strette e più fanno male», o addirittura «parenti serpenti». Questo proverbio assomiglia al proverbio arabo “parenti scorpioni“. Dopo aver parlato di Gennaro, ha iniziato la sua consueta lamentela sugli stranieri che fanno casino a piazza Vittorio e sul perché la polizia non arresta i delinquenti come Iqbal il pakistano che spaccia droga e dirige una rete di prostituzione. Ciò che non sa o forse non vuole sentirsi dire è che Iqbal è bengalese e non pakistano, e che non è uno spacciatore e non ha niente a che fare con la prostituzione. Iqbal è membro di una cooperativa di cinquanta bengalesi, e né il furgone né il negozio sono di sua proprietà. Non ho mai visto un lavoratore come lui. E’ un’ape umana. Ho pensato di mettere al corrente Benedetta di tutto quello che so di Iqbal, poi ci ho ripensato: a che scopo? E’ proprio inutile conoscere la verità. L’unica consolazione è questo ululato notturno. Auuuuuuuuu… *
Martedì 26 ottobre, ore 22.53.
Questa mattina Benedetta mi ha detto: «Oggi si conoscerà la sentenza definitiva su Giulio Andreotti. Io non mi fido dei pentiti che accusano le persone per bene come Andreotti solo per mescolare le carte». Aspetta il verdetto con molta ansia, vuole sapere la verità sui rapporti tra stato e mafia. Questa sera ho finito di leggere Il giorno della civetta di Leonardo Sciascia, considerato uno dei romanzi più belli mai scritti sulla mafia, e mi sono soffermato su questo passaggio: “La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità“.
La verità di Iqbal Amir Allah
Il signor Amedeo è uno dei pochi italiani che viene a comprare nel mio negozio. E’ un cliente ideale: paga in contanti, e non ho mai scritto il suo nome sul quadernetto dei debitori.
C’è una gran bella differenza tra lui e il resto dei clienti come i bengalesi, i pakistani e gli indiani, che pagano alla fine del mese. Conosco i loro problemi. Pochi possono permettersi un’entrata fissa ogni mese, mentre il resto vive come gli uccelli: ogni giorno si procura il cibo. Sono tanti i bengalesi che vendono l’aglio nei mercati la mattina, i fiori nei ristoranti di notte e gli ombrelli nei giorni piovosi.
Il signor Amedeo è un italiano diverso dagli altri: non è fascista, voglio dire non è un razzista che odia gli stranieri come quello stronzo di Gladiatore che ci disprezzava e umiliava tutti.
Vi dico la verità: quel figlio di puttana ha avuto quel che meritava. Anche la portiera napoletana è razzista, perché non mi lascia usare l’ascensore per consegnare la spesa agli inquilini del palazzo che sono miei clienti. Mi odia senza motivo e non risponde quando la saluto. Anzi, lo fa apposta per offendermi quando mi chiama ‘O Pachistano! Le ho detto più volte: «Io sono bengalese e non ho niente a che fare con il Pakistan, anzi, il mio odio per i pakistani non ha limiti». Durante la guerra d’indipendenza del 1971 i soldati pakistani hanno stuprato molte delle nostre donne. Ricordo ancora la mia povera zia che si suicidò per non gettare vergogna sulla nostra famiglia. Ah, se avessimo la bomba atomica! Io dico che i pakistani meritano di morire come i giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. Non parliamo poi del professore milanese che mi ha addirittura chiesto di mostrargli un’autorizzazione per usare l’ascensore.
Mi sono domandato se ci voglia un permesso di soggiorno apposito per usare l’ascensore.
Quando vedo il signor Amedeo con il suo amico iraniano Parviz nel bar Dandini mi sento felice. Dico tra me e me: «Quanto è bello vedere un cristiano e un musulmano come due fratelli: non esiste differenza tra Cristo e Maometto, tra il Vangelo e il Corano e tra la chiesa e la moschea!». Il mio lungo soggiorno a Roma mi permette di distinguere tra l’italiano razzista e il tollerante: il primo non ti sorride e non risponde al tuo saluto se gli dici ciao, buongiorno o buonasera. Se ne frega di te come se non esistessi, anzi, desidera dal profondo del cuore che tu ti trasformi in uno schifoso insetto da schiacciare senza pietà. Mentre l’italiano tollerante sorride molto e saluta per primo, come il signor Amedeo che mi sorprende sempre con il suo saluto islamico: «Assalam alikum!». Conosce l’Islam molto bene. Una volta mi ha detto che il profeta Maometto ripeteva che “sorridere a qualcuno è come fare un’elemosina“.
Il signor Amedeo è l’unico italiano che mi risparmia domande imbarazzanti sul velo, il vino, il maiale ecc. Deve aver viaggiato tanto nei paesi musulmani, soprattutto visto che sua moglie, la signora Stefania, possiede un’agenzia turistica vicino a via Nazionale. Gli italiani non conoscono l’Islam come si deve. Credono che sia la religione dei divieti: è proibito bere il vino! E proibito fare sesso fuori dal matrimonio!
Una volta Sandro, il proprietario del bar Dandini, mi ha domandato: «Quante mogli hai?».
«Una».
Ha riflettuto un po’ e poi mi ha detto: «Tu non sei un vero musulmano, e quindi niente vergini per te in paradiso perché il musulmano è obbligato a fare la preghiera cinque volte al giorno e fare il Ramadan e sposare quattro donne».
Ho provato a spiegargli che sono povero, e non ricco come gli emiri del Golfo che possono mantenere quattro famiglie nello stesso tempo, ma non l’ho visto convinto delle mie parole.
Alla fine mi ha detto: «Io rispetto voi maschi musulmani, perché amate molto le donne come noi stalloni di Roma e vi stanno sul cazzo i froci».
E Sandro non è l’unico che mi dice: «Tu non sei un vero musulmano!». C’è l’arabo Abdu, il venditore di pesce a piazza Vittorio.
Quello stronzo non la finisce mai di provocarmi, mi fa saltare i nervi. Ora giura che il vero musulmano deve conoscere l’arabo, ora critica il mio cognome Amir Allah, che considera un’offesa all’Islam. Una volta mi ha detto: «Io mi chiamo Abdellah e tu ti chiami Amir Allah. Se tu conoscessi l’arabo, comprenderesti la differenza tra Abdellah, che significa Schiavo di Dio, e Amir Allah, che vuol dire Principe di Dio».
Allora gli ho risposto che questo è il nome di mio padre e non lo cambierò mai, e a quel punto lui mi ha detto che sono un miscredente perché mi considero un principe superiore a Dio. Questo è un arabo estremista e merita che gli si tagli la lingua.
Il signor Amedeo è un ricercato? Non posso credere a questa accusa. La cosa che mi lascia perplesso è la notizia che tutti i telegiornali hanno trasmesso: il signor Amedeo non è italiano, è immigrato come me. Io non mi fido dei giornalisti della tv, perché cercano sempre lo scandalo e ingigantiscono tutti i problemi.
Quando sento quello che si dice di brutto su piazza Vittorio mi viene un dubbio: mi chiedo se davvero stiano parlando dello stesso posto dove vivo da dieci anni oppure del Bronx che vediamo nei film polizieschi.
Il signor Amedeo è buono come il succo del mango. Ci aiuta a presentare i ricorsi amministrativi, ci dà consigli efficaci per affrontare tutti i problemi burocratici. Ricordo ancora come mi ha aiutato a risolvere il problema che mi ha causato l’ulcera. Tutto è cominciato quando sono andato a ritirare il permesso di soggiorno in questura e mi sono accorto che avevano scambiato il mio nome con il cognome. Ho spiegato che il mio nome era Iqbal e il mio cognome Amir Allah, che è anche il nome di mio padre perché per tradizione in Bangladesh il nome del figlio o della figlia si accompagna a quello del padre. Purtroppo i miei tentativi sono stati vani. Andavo tutti giorni al commissariato, finché l’ispettore un giorno ha perso la pazienza: «Io mi chiamo Mario Rossi e quindi non c’è differenza tra Mario Rossi e Rossi Mario, così come non ce n’è tra Iqbal Amir Allah e Amir Allah Iqbal!».
Poi, con il permesso di soggiorno in mano: «Questa è la tua foto?».
«Sì».
«Questa è la tua firma?».
«Sì».
«Questo è il tuo indirizzo?».
«Sì».
«Questa è la tua data di nascita?».
«Sì».
«Quindi non c’è nessun problema, non è vero?».
«No, c’è un grosso problema. Mi chiamo Iqbal Amir Allah e non Amir Allah Iqbal!».
A quel punto si è arrabbiato e mi ha minacciato: «Non capisci un cazzo. Se torni qui un’altra volta ti strappo il permesso di soggiorno, ti porto all’aeroporto di Fiumicino e ti faccio salire sul primo aereo in partenza per il Bangladesh!
Non voglio più vederti qui, hai capito?».
Ne ho parlato subito con il signor Amedeo, confidandogli che avevo paura di Amir Allah Iqbal e che sarebbero potuti derivare una quantità di problemi in futuro a causa di questo scambio di nome. Mettiamo per esempio che chi si chiama Amir Allah Iqbal sia un grande criminale o uno spietato spacciatore o un pericoloso terrorista come quel pakistano Yussef Ramsi catturato recentemente dagli americani.
Se adottassi questa nuova identità, come farei a dimostrare che i miei figli sono miei veramente?
Come farei a dimostrare che mia moglie è mia veramente? Cosa succederebbe se vedessero l’atto di matrimonio e scoprissero che il marito di mia moglie non sono io ma un’altra persona che si chiama Iqbal Amir Allah? Come farei a riavere i miei soldi dalla banca? Dopo questo lungo sfogo il signor Amedeo mi ha promesso che sarebbe intervenuto per liberarmi da quest’incubo.
Pochi giorni dopo ha mantenuto la promessa e mi ha accompagnato alla questura di via Genova. Era la prima volta che entravo in un ufficio di polizia senza dover aspettare un’ora o due. Ci aspettava il suo amico, il commissario Bettarini, che mi ha chiesto il permesso di soggiorno. Poi è uscito dall’ufficio, è tornato dopo pochi minuti, e proprio non ho creduto alle mie orecchie quando mi ha detto: «Signor Iqbal Amir Allah, ecco qui il suo nuovo permesso di soggiorno!».
Prima di ringraziarlo ho dato un’occhiata al volo alle prime righe del documento. Nome: Iqbal. Cognome: Amir Allah. Ho tirato un sospiro di sollievo, davvero mi ero tolto un peso di dosso. Uscendo dalla questura mi è venuta un’idea geniale: «Sa, signor Amedeo, mia moglie è incinta e fra poco sarò padre per la quarta volta.
Ho deciso di chiamare mio figlio Roberto. Il suo nome sarà Roberto Iqbal!». Detto fatto. Mia moglie ha partorito un maschio e l’ho chiamato subito Roberto. E’ l’unico modo per evitargli la disgrazia dello scambio tra il nome e il cognome.
Sarà impossibile cadere in errore perché Roberto, Mario, Francesco, Massimo, Giulio e Romano sono tutti nomi e non cognomi. Devo fare del mio meglio per risparmiare a mio figlio Roberto questi gravi problemi. Un buon padre deve badare al futuro dei propri figli.
Non so dove si trovi adesso, però sono sicuro di una cosa: il signor Amedeo non è un immigrato né un criminale! Io sono certo della sua innocenza. Non si è macchiato del sangue di quel giovane che non sorrideva mai. Lo conosco da quando facevo lo scaricatore a piazza Vittorio prima che fondassimo la cooperativa.
Conosco anche sua moglie, la signora Stefania, è amica di mia moglie. Mi ha aiutato a trovare la casa dove abito tuttora, dato che il proprietario rifiutava di affittarla agli immigrati. Mi ha pure convinto a mandare mia moglie a scuola per imparare l’italiano. Spero davvero che Roberto diventi come il signor Amedeo. Adesso devo solo decidere se mandarlo all’asilo italiano o alla scuola islamica dove imparerebbe il Corano e la lingua bengalese.
Terzo ululato
Martedì 24 febbraio, ore 22.39.
Questa mattina Iqbal mi ha chiesto se conoscevo la differenza tra il tollerante e il razzista.
Gli ho risposto che il razzista è in contrasto con gli altri perché non li crede al suo livello, mentre il tollerante tratta gli altri con rispetto. A quel punto si è avvicinato a me, per non farsi sentire da nessuno come se stesse per svelare un segreto, e mi ha sussurrato: «Il razzista non sorride!».
Ho pensato tutto il giorno al razzista che rifiuta di sorridere e mi sono reso conto che Iqbal ha fatto un’importante scoperta. Il problema del razzista non è con gli altri ma con sé stesso.
Direi di più: non sorride al prossimo perché non sa sorridere a sé stesso. E’ proprio giusto quel proverbio arabo che dice: “Chi non ha non dà”.
*
Lunedì 26 gennaio, ore 22.05.
Questa sera, vicino a piazza Venezia, ho incontrato Iqbal. Mi ha detto che soffre di ulcera, poi mi ha guardato con tristezza dicendomi: «Amir Allah Iqbal mi ucciderà!». Il tono delle sue parole mi ha convinto a prenderlo sul serio.
All’inizio ho pensato che Amir Allah Iqbal fosse una persona che lo minacciava e voleva ucciderlo veramente, per questo ho chiesto altre spiegazioni che potessero aiutarmi a capire. Ci siamo seduti in un bar.
«Hai fatto denuncia alla polizia?».
«Ho presentato più denunce, però mi hanno cacciato».
Per fortuna i miei timori non sono durati a lungo. Iqbal ha tirato fuori il permesso di soggiorno e mi ha raccontato la storia dello scambio tra il nome e il cognome. Si è soffermato a lungo sul problema della somiglianza dei nomi e mi ha raccontato una storia, quella di un uomo in Bangladesh impiccato per sbaglio perché il suo nome corrispondeva perfettamente a quello di un criminale pericoloso. Mi ha guardato trattenendo le lacrime: «Tu mi conosci, signor Amedeo, mi chiamo Iqbal Amir Allah e non ho niente a che fare con Amir Allah Iqbal! Sei l’unico testimone italiano in grado di salvarmi dalle accuse che mi saranno rivolte in futuro». Sono rimasto colpito dalle sue parole. Gli ho promesso che l’avrei aiutato e subito. Domattina chiamerò Bettarini, che ha contribuito molto a risolvere il problema dei piccioni di piazza Santa Maria Maggiore e a evitare a Parviz tanti guai.
*
Giovedì 30 gennaio, ore 23.19.
Questa mattina ho accompagnato Iqbal in questura. Il commissario Bettarini è riuscito a risolvere tutto in pochi minuti. La gioia di Iqbal era incontenibile. Dopo aver salutato il commissario Bettarini, ha insistito per invitarmi a bere un tè in un bar vicino. E’ davvero deciso a chiamare il suo prossimo figlio Roberto per facilitare il compito della polizia quando dovrà distinguere il nome dal cognome, e così eviterà al figlio la disgrazia della confusione dei nomi. Iqbal è fiero del fatto che suo figlio sarà il primo nella storia del Bangladesh a portare il nome Roberto. Poi ha aggiunto: «Io so che per voi italiani i nostri nomi sono difficili da pronunciare, ma così sono sicuro che a mio figlio gli italiani sorrideranno molto!». Non ho voluto interromperlo, l’ho lasciato finire e poi gli ho chiesto: «Cosa succederebbe se tua moglie partorisse una femmina?».
Ha riflettuto qualche secondo e poi ha detto: «La chiamerò Roberta! Si chiamerà Roberta Iqbal! Ti giuro che non c’è una femmina che porta il nome Roberta in tutto il Bangladesh». Non ho resistito al desiderio di ridere. Abbiamo riso insieme, indifferenti agli sguardi dei clienti del bar.
Medici di tutto il mondo, unitevi! Inventate un nuovo rimedio per curare i razzisti dall’invidia e dall’odio. Iqbal ha diagnosticato la loro malattia: abbiamo bisogno di compresse come l’aspirina per aiutare questi disgraziati a sorridere.
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Martedì 16 novembre, ore 23.39.
Stasera sono andato con Parviz a comprare riso e alcune spezie da Iqbal. Parlando abbiamo discusso dei volantini contro gli immigrati sui muri di piazza Vittorio. Iqbal indicava una cassetta di mele che si trovava di fronte a lui: «Quando vedo una mela marcia la isolo subito dal resto delle mele, perché, se la lasciassi al suo posto, tutte le mele si rovinerebbero. Perché la polizia non si comporta con fermezza con gli immigrati delinquenti? Che colpa hanno quelli onesti che sudano per un pezzo di pane?».
Le parole di Iqbal mi hanno aperto gli occhi. L’etichetta di criminale a qualsiasi immigrato senza distinzione è un déjà vu. Quanto hanno sofferto gli immigrati italiani negli Stati Uniti per l’accusa di mafia! Certo, sembra proprio che gli italiani non abbiano imparato nulla dalle lezioni del passato.
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Venerdì 30 ottobre, ore 23.04.
Oggi Iqbal mi ha detto con orgoglio che il suo primogenito Mahmood parla molto bene l’italiano, è lui che accompagna sua madre nei giri quotidiani come per esempio andare dal medico o altro. Gli ho chiesto se la moglie parlasse italiano e mi ha risposto che i bengalesi non mandano le mogli a scuola perché l’Islam proibisce la promiscuità. Quando sono tornato a casa ne ho parlato con Stefania, e le ho proposto di organizzare corsi di italiano per donne bengalesi. Stefania ha apprezzato l’idea, ma a patto che convincessi Iqbal e i suoi amici.
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Martedì 26 marzo, ore 23.49.
Dopo una lunga esitazione Iqbal ha accettato la proposta dei corsi d’italiano per donne a cui parteciperà sua moglie e di cui Stefania è l’insegnante. Ho chiesto a Iqbal di convincere gli altri mariti bengalesi a fare lo stesso.
*
Venerdì 9 febbraio, ore 23.12.
Questa sera mi sono soffermato a lungo su queste parole di Totem e Tabù di Freud: “Il nome di un essere umano è un elemento del suo essere, anzi, è una parte della sua anima“.
La verità di Elisabetta Fabiani
Sono andata dall’avvocato per intentare una causa contro ignoti. Chi ha causato un danno al piccolo Valentino deve essere punito.
Quello che ha detto la portiera Benedetta sui cinesi mi ha insospettita. All’avvocato ho fatto solo una domanda: «La legge punisce chi mangia carne di cane?». E lui stupito: «Non ho mai affrontato un quesito del genere», e mi ha chiesto un po’ di tempo per consultare il codice penale e chiedere consiglio ai colleghi. Non sono rimasta con le mani in mano. Ho contattato le associazioni umanitarie come Amnesty International, però sono rimasta scioccata. La loro risposta è stata: «Noi difendiamo l’uomo e non gli animali». Io dico che questo paese non è civile. Un anno fa sono stata in Svizzera e ho visto con i miei occhi come vengono trattati i cani. Sono tanti i negozi di parrucchiere, le cliniche e i ristoranti esclusivi per cani. Anzi, ho visitato un piccolo cimitero a Ginevra dove si seppelliscono gli amici più fedeli dell’uomo!
Quand’è che l’Italia sarà un paese civile come la Svizzera?
Il signor Amedeo è l’unica persona tollerante nel palazzo. Non si è mai infastidito quando Valentino abbaiava, anzi, lo trattava con affetto e tenerezza. Stefania, sua moglie, odia i cani e si è lamentata più volte di Valentino. Le ho detto che abbaiare è l’unica lingua con la quale esprime la sua gioia, la sua tristezza, la sua rabbia e le sue emozioni. Non dobbiamo costringerlo al silenzio, dobbiamo essere tolleranti con lui quando fa pipì nell’ascensore perché è come un bambino. Picchiamo per caso i bambini quando fanno pipì nel letto? Tutti sappiamo che i cani fiutano l’urina e l’annusano per comunicare con il mondo esterno. Vogliamo togliere ai cani i loro diritti naturali e legittimi? Una volta non ho sopportato l’aggressione di Stefania nei confronti del piccolo Valentino e le ho gridato in faccia: «Sei una razzista, una fanatica, e non ti permetto di offendere Valentino!». Dopo questa vicenda ha rotto con me per anni, mentre il signor Amedeo ha continuato a salutarmi come se non fosse successo niente. Andrò all’ambasciata cinese a Roma, chiederò loro di intervenire.
Solo così potrò riabbracciare il povero Valentino rapito.
Lo stato italiano deve rimanere al mio fianco. Non sono forse una buona cittadina? Non pago le tasse puntualmente prima delle scadenze? Non posso forse rivendicare i miei diritti garantiti dalla Costituzione? Non sono forse una buona cattolica che assolve i suoi doveri religiosi come si deve? Ho scritto tre lettere di sollecito al Santo Padre, al presidente della Repubblica e al presidente del consiglio. Ognuno deve assumersi le proprie responsabilità.
Se i sospetti della portiera napoletana sul coinvolgimento dei cinesi nel rapimento di Valentino risulteranno veri, allora il minimo che le autorità italiane potranno fare per dimostrarmi solidarietà sarà di interrompere le relazioni diplomatiche con la Cina e sbattere i proprietari dei ristoranti cinesi in galera. No, questo è poco, bisogna cacciare la Cina dall’Onu e imporle l’embargo. No, anche questo non mi soddisfa. Bisogna dichiarare la guerra alla Cina.
L’Italia non è forse, in quanto membro della Nato, legittimata a dichiarare guerre? Una parte delle tasse che pago non viene per caso depositata nelle casse della Nato? Non ci sono forse basi militari americane sul territorio italiano?
Vi sono anche altri sospetti che gravano su Marina, la nuora di Benedetta, che non smetteva mai di ripetere ogni volta che vedeva Valentino: «Sei un tesoro! Sei un tesoro!». Lo sanno tutti che Marina è sarda, e la Sardegna è famosa per i rapimenti. Vi ricordate la vicenda di Fabrizio De André e dell’imprenditore Giuseppe Soffiantini? Non c’è dubbio che hanno modificato la loro strategia passando dagli uomini ai cani, avendo capito quanto la gente adori i cani. Aspetto la telefonata dei rapitori per pagare il riscatto. Non informerò ancora la polizia per non mettere in pericolo la vita di Valentino.
Sono pronta a spendere tutti i soldi che ho pur di riavere Valentino. Sono sola senza Valentino, non posso vivere senza di lui.
Mi hanno distrutto un grande sogno.
Volevo che Valentino diventasse un attore famoso come il commissario Rex che pedina i criminali e li arresta. Il giovane olandese Johan mi ha chiesto di partecipare al film che vuole girare a piazza Vittorio. Gli ho posto una condizione perché io accetti: che Valentino partecipi al film. All’inizio ha esitato, poi ha detto di sì.
Stavo preparando Valentino per il futuro, dopo la batosta ricevuta dal mio unico figlio. Prima di lasciare casa per sempre e raggiungere quei suoi amici dei centri sociali Alberto mi ha detto: «In questa casa tu sei una carceriera, e io voglio vivere senza sbarre! Questa casa è un mercato, tu sei una commerciante e io sono un cliente.
Voglio vivere lontano dalla società del consumo!».
Ancora non capisco: che c’entro io con la prigione e il mercato? L’ho supplicato di rimanere, però non si è curato minimamente delle mie lacrime. Il mio primo sogno era che diventasse un grande attore del cinema come Marcello Mastroianni o Alberto Sordi, però ho fallito nel tentativo di farlo arrivare in cima all’olimpo delle star. Io non mi rassegno mai e non accetto la sconfitta né di trovarmi di fronte al fatto compiuto. Per questo ho deciso di allenare Valentino a eseguire i numeri più difficili. Ho seguito con lui un lungo percorso e stavo proprio per cogliere i frutti del duro lavoro.
Amedeo è immigrato! Che strano. Ogni tanto assistiamo alle manifestazioni in piazza Vittorio per i diritti degli immigrati: diritto al lavoro, all’alloggio, alla salute, al voto ecc. Io dico che prima vengono i diritti degli autoctoni, e i cani sono figli di questo paese. Io non mi fido degli immigrati. Ho letto recentemente su un quotidiano che un giardiniere immigrato ha stuprato una signora anziana che gli aveva dato tutto: il permesso di soggiorno, il lavoro, l’alloggio ecc. E’ questa la ricompensa? Avete mai sentito di un cane che ha stuprato la padrona?
Conoscete lo zingaro che frequenta la casa di Amedeo e si siede con lui nel bar Dandini, e che spaccia la droga a piazza Santa Maria Maggiore fingendo di dare da mangiare ai piccioni? Un giorno quel mascalzone mi ha detto: «Nel mio paese lasciamo sempre i cani fuori di casa».
«Cosa dici?».
«Il compito dei cani è difendere la casa dagli eventuali ladri!».
«Come ti permetti!».
Ho pensato di denunciarlo per diffamazione e razzismo, poi ci ho ripensato per rispetto di Amedeo. Questo zingaro cretino, delinquente, razzista merita l’espulsione immediata dall’Italia. Però il problema è che gli zingari non hanno un paese preciso dove possono essere rispediti!
La verità è che non abbiamo bisogno degli immigrati. Ho sentito un politico in tv dire che l’economia italiana rischia di crollare se vengono a mancare loro. Questa è una bugia diffusa dai comunisti e dai preti della Caritas.
Possiamo facilmente rinunciare agli immigrati. E’ sufficiente allenare i nostri cani come si deve, e smettiamola di usare quella orrenda parola “ addestrare“. Adesso per esempio ci sono cani istruiti ad alto livello per accompagnare i ciechi fuori casa, per fare la spesa e svolgere diverse mansioni, così come ci sono cani che aiutano a trovare i dispersi e salvarli dalle macerie dei terremoti. E non dimentichiamo i cani che lavorano negli aeroporti, nelle stazioni, nei porti e si incaricano di far arrestare gli spacciatori di droga. Non abbiamo bisogno degli immigrati. E’ veramente assurdo che insegniamo loro l’italiano, diamo alloggio, lavoro, e loro ci ricambiano spacciando la droga nei giardini pubblici e stuprando le nostre figlie. E’ veramente troppo!
Chi ha ucciso il povero Lorenzo Manfredini? Non lo so. Chiedete alla polizia. Io conoscevo bene la vittima. Era amico di mio figlio durante l’infanzia e l’adolescenza, erano sempre insieme come fratelli. Lorenzo è venuto a vivere con la nonna dopo il divorzio dei suoi genitori che si sono fatti una guerra giudiziaria per dividersi il patrimonio e avere l’affidamento del bambino. La nonna non era in grado di educare il nipote, per questo Lorenzo ha abbandonato gli studi molto presto e ha sempre frequentato delinquenti. E’ molto probabile che sia stato ucciso da una banda rivale. Come a Chicago negli anni Trenta o la banda della Magliana negli anni Settanta.
Il governo deve farsi carico subito della questione del carovita. La soluzione non consiste nell’aumentare le tasse e soffocare i cittadini italiani, ma nel farsi aiutare dai cani che non chiedono niente e svolgono infiniti servizi gratuitamente. Dobbiamo allenarli bene: ad arrestare i criminali, aiutare gli anziani, far funzionare gli apparecchi elettronici, preparare il cibo ecc. Ah, mi sono scordata una cosa importantissima: i cani sono in grado anche di lavorare in fabbrica senza fare storie, perché non fanno mai lo sciopero, non hanno un sindacato. Il governo non vuole forse sbarazzarsi dei sindacati?
Non cerca lavoratori obbedienti da licenziare senza conseguenze giudiziarie? Io credo fermamente in ciò che sostiene il professor Antonio Marini: il nostro problema principale è il sottosviluppo. Purtroppo l’Italia è un paese incivile.
Io dico a voce alta che è giunto il momento di abbandonare per sempre idee dannose come quella secondo cui i cani sono buoni solo per fare la guardia.
Attenti! C’è un’analogia tra la scomparsa di Amedeo e quella di Valentino. Credo che Amedeo sia vittima di un rapimento. La polizia deve arrestare la banda dei rapitori attiva a piazza Vittorio. Non avete ancora capito che c’è un’alleanza segreta tra i sardi e i cinesi? Questa è la conclusione alla quale sono giunta dopo una lunga indagine. Non ho a disposizione prove sufficienti, però ci sono sospetti e gli indizi sono molto inquietanti. Se Valentino non tornerà sano e salvo nei prossimi giorni, non pagherò più le tasse. Anzi, emigrerò in Svizzera senza indugi e non tornerò più in Italia.
Quarto ululato
Martedì 23 marzo, ore 22.48.
La nostra vicina di casa Elisabetta Fabiani è dipendente da due cose: l’amore per i cani e i thriller. E’ inutile parlare con lei di un argomento dove non si citi un cane o Hitchcock o Agatha Christie, Colombo o Derrick, Montalbano o Poirot. Elisabetta segue i serial tv polizieschi tutti i giorni. Adora follemente la serie Rex, che racconta le avventure di un cane che interpreta il ruolo dell’assistente dell’ispettore di polizia e che possiede un’intelligenza fuori dal comune e compie performance straordinarie, da applauso.
*
Sabato 16 gennaio, ore 23.28.
L’abbaiare del cane di Elisabetta assomiglia all’ululato, mi dà un po’ di felicità. Stefania non lo sopporta. Questa mattina ha litigato di nuovo con Elisabetta e l’ha minacciata di chiamare la polizia se il suo cagnolino non smetterà di abbaiare a notte fonda. «Sei una razzista, una fanatica, odi gli animali» l’ha accusata Elisabetta.
Stefania si è arrabbiata molto e mi ha chiesto con stupore e candore: «Sono razzista e fanatica perché non riesco a dormire la notte a causa di quell’abbaiare insistente?». Le ho risposto: «Certo che sei fanatica, ma solo dell’amore!». A quel punto ha riso e mi ha baciato a lungo.
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Martedì 14 novembre, ore 22.57.
Questa sera Elisabetta mi ha messo in guardia contro gli zingari che vendono merci rubate al mercato di piazza Vittorio. Mi ha detto che gli animali sono più civili degli zingari sotto tutti i punti di vista. Dopo un lungo giro di parole è andata al sodo: «Non aprire la porta della tua casa a quello zingaro ubriaco che, con il pretesto di dare il mangime ai piccioni, spaccia la droga». Ho capito che si riferiva al povero Parviz. «Non è zingaro, è iraniano» le ho ricordato, e lei mi ha risposto con molta convinzione: «Non importa se è iraniano o americano o svizzero o altro. L’importante è che si comporta esattamente come uno zingaro, e per questo dico che zingari non si nasce ma si diventa». L’ho salutata senza commentare.
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Giovedì 23 marzo, ore 23.45.
Stamattina Elisabetta mi ha chiesto di essere solidale con lei nella sua battaglia civile in difesa dei cani del mondo. Mi ha riferito che i condomini hanno l’intenzione di votare un regolamento interno che impedisce ai cani di usare l’ascensore, e questa legge è diretta contro il povero Valentino. Mi ha ricordato che il razzismo negli Stati Uniti è iniziato quando è stato impedito ai neri di sedere sugli autobus accanto ai bianchi. Vorrebbe che firmassi una petizione per difendere il diritto di Valentino e dei suoi simili in tutto il mondo a usare l’ascensore, la metro, a prendere l’aereo, il treno, la nave, il diritto all’eredità, alla sessualità, all’alloggio ecc. Ho firmato la petizione senza discutere.
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Mercoledì 27 agosto, ore 22.49.
Questa mattina ho incontrato Elisabetta.
Era molto triste. Ha detto che spera ancora che Valentino ritorni e che è in possesso di prove inconfutabili sul coinvolgimento delle bande di rapimento sarde nella vicenda del suo piccolo.
E indubbio che il cagnolino abbia riempito la sua vita dopo la morte del marito e la partenza dell’unico figlio. Valentino non è un semplice cane, ma un vero compagno che la protegge dalla solitudine.
*
Domenica 20 ottobre, ore 23.08.
Lo stato di Elisabetta peggiora di giorno in giorno. L’ho vista questa sera camminare scalza vicino a piazza Vittorio mentre chiamava il suo cane scomparso. Elisabetta mi fa pietà. Come fa l’uomo ad attaccarsi a un animale in questo modo?
La verità di Maria Cristina Gonzalez
Quando mi sposerò e avrò un figlio lo chiamerò Amedeo. Questa è una promessa che ho fatto a me stessa ormai da anni. Purtroppo fino a oggi non ho ancora provato la gioia di avere dei figli, malgrado sia rimasta incinta più volte.
So che la Chiesa, il papa e i preti sono decisamente contrari all’aborto, ma perché pensano solo al feto? Non merito un po’ di cura e di attenzione anch’io? Chi pensa alla povera Maria Cristina Gonzalez?
Il signor Amedeo è l’unico che mi tratta con affetto e rimane al mio fianco nei momenti difficili. Sono sfortunata e stupida, questo non lo nego. La mia situazione crea perplessità e stupore. Di solito le donne gioiscono tanto quando rimangono incinte, invece io piango per la paura di perdere il lavoro, della povertà, del futuro, della polizia, di tutto. Piango sempre sulle scale del palazzo dopo aver detto alla signora Rosa la solita frase: «Vado a fare un po’ di spesa». Se mi vedesse piangere mi caccerebbe fuori, perché mi ha detto più volte che il pianto la avvicina alla morte. E lei ha paura di morire. All’inizio piangevo sola in bagno. Però il bagno è orribile e triste, nessuno viene a salvarmi. Preferisco le scale, perché Amedeo non usa l’ascensore. E’ l’unico che mi chiede come sto, io gli racconto i miei problemi e piango tra le sue braccia.
La signora Rosa ha ottant’anni. Le è venuta una paralisi dieci anni fa, e lascia la sedia a rotelle solo per fare i bisogni o stendersi sul letto.
Ha quattro figli che vengono a trovarla a turno ogni domenica e rimangono solo per qualche ora. Quando arriva uno di loro iniziano le mie ferie settimanali: da mezzogiorno a mezzanotte! Non so cosa fare per godere delle mie brevi ferie. Guardo le lancette dell’orologio sul muro e spero dal profondo del cuore che il tempo si fermi per prolungare la mia libertà. Faccio di tutto per non perdere minuti preziosi, metto a punto un programma ricco di impegni, ma ogni volta faccio la stessa cosa: vado alla stazione Termini dove si incontrano gli immigrati peruviani. I loro volti soddisfano la sete dei miei occhi e le loro parole riscaldano le mie orecchie fredde. Mi sembra di tornare a casa, a Lima.
Saluto e bacio tutti anche se alcuni non li ho mai visti prima, poi mi siedo sul marciapiede e divoro i cibi peruviani, il riso con pollo e il lomo saltado e il sibice. Parlo per ore, parlo più di quanto ascolto, per questo mi chiamano Maria Cristina la chiacchierona.
Quando il sole inizia a tramontare, la mia angoscia aumenta e sento che il viaggio della libertà sta per finire. Allora mi aggrappo alle bottiglie di birra e di Pisco per mettermi al riparo da quella tempesta di tristezza. Bevo molto per dimenticare il mondo e i miei problemi. Non sono l’unica che ha a che fare ogni giorno con la vecchiaia e la morte incalzante. Siamo tanti, e ci unisce il destino del lavoro comune con gli anziani in procinto di passare all’altro mondo da un momento all’altro. Con il passare del tempo ci trasformiamo in cani randagi. Alcuni lasciano in libertà la loro lingua per insultare in spagnolo e in italiano. C’è chi provoca le persone sedute accanto, e così in un attimo si alzano le mani e giù pugni e calci alla cieca. Io, invece, mi allontano in silenzio dagli sguardi e sotto l’ala della notte me ne vado con un giovane che mi assomiglia in tutto. Ognuno di noi due svuota nel corpo dell’altro la propria voglia, speranza, angoscia, paura, tristezza, rabbia, odio e delusione, e questo lo facciamo in fretta come gli animali che hanno paura di perdere la stagione della fertilità. Ci stendiamo su una panchina isolata o su pagine di giornali sparsi per terra.
Molto spesso mi dimentico il Diane e da qui inizia il mio problema con le gravidanze, il tentativo pazzesco di abortire. So che la pillola è molto importante, ma io ogni volta la dimentico a causa delle sbronze.
Molto spesso auguro la morte alla vecchia Rosa. Poi mi invade un forte rimorso quando penso alle conseguenze, e temo che la sua morte sia anche la mia fine. Dove vado? Come faccio a mantenere la mia famiglia a Lima? Che ne sarà di me? Questa vita non è per niente giusta.
Dovrei vivere la mia gioventù prigioniera tra i fantasmi della morte? Voglio una casa, un marito e dei figli. Mi immagino di svegliarmi la mattina, portare i miei figli a scuola, andare al lavoro, abbracciare mio marito di notte e vedere finalmente i nostri corpi unirsi su un letto confortevole e non sulla triste panchina di un giardino pubblico o su un treno abbandonato o sotto un albero nascosto.
Vorrei essere tranquilla ma non ho nemmeno i documenti. Sono come una barca con le vele distrutte, sottomessa alla volontà delle rocce e delle onde. Se avessi il permesso di soggiorno non permetterei alla portiera napoletana di prendermi in giro e di offendermi. Mi chiama sempre la Filippina. Le ho ripetuto più volte: «Io non vengo dalle Filippine ma dal Perù».
Sono di Lima, non capisco proprio come si può confondere il Perù con le Filippine! Non so neanche perché insiste nell’offendermi in questo modo. Un giorno ho perso la pazienza e le ho detto: «Perché mi disprezzi? Ti ho forse mancato di rispetto senza accorgermene?». Io, ad esempio, so che lei è di Napoli ma non l’ho mai offesa chiamandola la Napoletana. Le ho detto più volte: «Perché mi tratti male, non vedi che apparteniamo alla stessa religione e che ci unisce l’amore per la Croce e per la Vergine Maria?».
Ho paura della portiera perché potrebbe denunciarmi alla polizia. Non ho il permesso di soggiorno, e se cadessi nelle loro mani non sarebbero indulgenti con me e in un batter d’occhio mi ritroverei all’aeroporto di Lima, tornerei nell’inferno della povertà. Non voglio tornare in Perù prima di aver realizzato il mio sogno di una casa, di un marito e di bambini.
Quando avrò un permesso di soggiorno le dirò quello che voglio senza paura, non la chiamerò più “signora Benedetta“ ma ”portiera napoletana“! Posso solo pregare la Vergine Maria, l’unica che mi salverà dalle persone crudeli.
Soffro di una terribile solitudine, che a volte mi fa accarezzare la follia. Guardo la tv tutto il giorno e mangio tanto, divoro grandi quantità di cioccolata. Come vedete sono molto grassa.
Vorrei dimagrire, ma in queste condizioni non ce la faccio proprio. Non fa niente, dimagrire non è poi così difficile. Quando mi sposerò mi sentirò più tranquilla e quindi il mio peso si abbasserà automaticamente. Mi hanno impedito di ospitare i miei amici in casa dopo le lamentele dei vicini. La verità è che la maledetta Benedetta ha parlato male di me alla figlia della vecchia, la signora Paola, raccontandole che porto a casa degli uomini e che rimango con loro tutta la notte e così non mi prendo cura della malata. Poi hanno attribuito la responsabilità del guasto dell’ascensore al mio peso, che dicono superi la capacità del povero ascensore. Mi hanno detto: «Prima dimagrisci e poi usi l’ascensore!».
E’ giusto che mi impediscano di usare l’ascensore mentre permettono al cane della signora Fabiani di farci pipì? Questo cane è più felice di me, esce di casa più di dieci volte al giorno, gira nei giardini di piazza Vittorio come un piccolo principe o un bambino viziato.
Invece io non posso lasciare la casa neanche per un minuto, perché la signora Rosa è cardiopatica. Cosa succederebbe se il suo cuore smettesse di battere mentre io non ci sono? Non voglio pensare alle conseguenze. Invidio il piccolo Valentino. Ho sognato più volte di essere al suo posto. Ma sono un essere umano? Qualche volta dubito della mia umanità. Non ho nemmeno il tempo necessario per assistere alla messa della domenica o rimettermi nelle mani di un prete per confessarmi e cancellare i miei peccati.
Così la maledizione cadrà sulla mia testa e l’inferno mi aspetterà nell’altro mondo.
Il signor Amedeo è un assassino! Questa cosa è assurda. Io sono sicura della sua innocenza. E lo accusano anche di essere immigrato. L’immigrazione è forse un crimine? Io non capisco perché ci odiano così tanto. L’ex presidente del Perù Fujimori era un immigrato dal Giappone. Quante bugie ascoltiamo dalla tv sugli immigrati. Eppure nonostante questo non posso fare a meno della televisione. Una volta si è guastata. Ho sentito la mia mano tremare, il mio cuore battere forte, ho chiamato i quattro figli della signora Rosa uno dopo l’altro e ho chiesto loro di venire subito. Hanno pensato che la mamma fosse morta o stesse per morire, tanto che il signor Carlo ha telefonato a un’agenzia funebre prima di venire a casa, e quando sono arrivati mi hanno trovato in una situazione deprimente. La signora Rosa era accanto a me che mi urlava di smettere di piangere. Ho raccolto le mie forze e ho detto loro: «Non rimango un minuto di più in questa casa se non aggiustate subito la tv». La signora Laura ha chiesto al marito di portare un nuovo televisore. I quattro figli della signora Rosa hanno lasciato la casa dopo essersi assicurati che stavo bene, vedendomi occupata a seguire una nuova puntata di Beautiful su Canale 5. La tv è un amico, un fratello, un marito, un figlio, una madre e la Vergine Maria. La tv è proprio come l’aria.
Si può mai vivere senza respirare?
Io guardo le telenovelas messicane e brasiliane tutti i giorni e conosco tutti i particolari della vita degli attori. Basta dirvi che l’ultima puntata mi angoscia come fosse il funerale di mia madre. Comunque io non mi considero una semplice spettatrice, ma un’attrice che interpreta un ruolo importante nello sceneggiato.
Molto spesso grido in faccia ad alcuni personaggi i miei consigli: «Marina, attenzione, Alejandro non ti ama, è un truffatore, vuole accaparrarsi i tuoi soldi e cacciarti dal castello di tuo padre!», oppure «Parla con lei, Pablo, dille che l’ami e che vuoi sposarla!», oppure «Caterina, non trattare tuo marito con durezza, cadrà nelle braccia della sua nuova amante, quella puttana di Silvana!». Molto spesso mi sento solidale con i poveri, disgraziati e disprezzati. Mi alzo dalla poltrona e vado verso la tv, fisso il cattivo o la cattiva negli occhi: «Che ti credi, mascalzone, avrai quel che meriti, criminale, il bene alla fine vincerà!», oppure «Carolina, quanto sei ignobile, perché tratti male Eleonora, quella povera orfana? Maledetta, tu meriti l’inferno», oppure «Julio, non troverai pace, sei un criminale e avrai la tua punizione, ci penserà il giovane elegante Alfonso Rodriguez!».
Ieri ho visto su Raitre un programma sulla sterilità, e ho appreso che l’ansia ne è la causa principale. Ho detto tra me e me, per consolarmi, che l’aborto ha almeno un lato positivo, dato che mi fornisce la prova che sono ancora sana. E questo vuol dire che fortunatamente ho la speranza di avere dei figli e un marito e una casa e che peserò come Claudia Schiffer, Eva Herzigova, Naomi Campbell, Laetizia Casta e la moglie di Richard Gere di cui non ricordo il nome. E possibile che diventi una famosa attrice nel prossimo futuro, soprattutto dopo che il giovane olandese Johan ha insistito molto per farmi partecipare al suo prossimo film. Gli ho detto che non ho il permesso di soggiorno, però a questo non ha dato importanza. Gli ho chiesto di darmi un po’ di tempo per dimagrire, ma si è arrabbiato: «Io odio il cinema di Hollywood perché tradisce la realtà. Non dimagrire. Il grasso ti fa più bella». Dopo essersi calmato si è scusato: «Io sono contro ogni forma di catenaccio!». Non ho capito il significato delle sue parole e mi sono chiesta: «Che cosa è il catenaccio?». Ho sentito qualche inquilino dire che il Biondo è un pazzo. Non importa, io non devo sposarlo, avere figli da lui. Ciò che mi importa veramente è diventare un’attrice famosa. A quel punto chi oserà impedire alla signora Maria Cristina Gonzalez, magra, bella, madre di Amedeo jr, di usare l’ascensore?
Quinto ululato
Sabato 23 maggio, ore 22.55.
Oggi ho letto un articolo sul Corriere della Sera dal titolo molto significativo: “L’italiano è un dinosauro?“. L’articolo analizza il problema del calo delle nascite in Italia, che ha un tasso di crescita molto basso fra i paesi del mondo.
L’autore afferma che l’italiano sarebbe destinato a estinguersi nel prossimo secolo. La soluzione sarebbe nella presenza crescente di immigrati.
Forse si dovrebbe stipulare un accordo con le autorità cinesi per importare esseri umani.
Sono veramente tanti gli anziani in questo paese.
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Domenica 26 ottobre, ore 23.29.
Questo pomeriggio ho visto Maria Cristina alla stazione Termini insieme ai suoi connazionali e mi è sembrata felice, come un pesce che torna nel mare dopo una breve agonia lontano dall’acqua. Questa ragazza fa pena, non esce di casa che per pochi minuti per fare la spesa.
Maria Cristina soffre di una terribile solitudine tra quelle quattro mura.
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Mercoledì 23 giugno, ore 21.58.
Questa sera ho visto alla tv un bel film con Alberto Sordi e Claudia Cardinale che racconta la storia di un certo Amedeo, un immigrato che lavora in Australia. La vita degli immigrati italiani del passato somiglia molto alla vita di quelli che arrivano in Italia oggi. L’immigrato è sempre lo stesso nel corso della storia. Cambia solo la lingua, la religione e il colore della pelle.
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Martedì 26 ottobre, ore 23.44.
Domani Maria Cristina andrà dal medico per abortire, e questa non è la prima volta.
Stefania ha ragione quando dice che Maria Cristina entrerà nel Guinness dei primati per il numero degli aborti subiti. Mi chiedo se anch’io sono come lei, se non faccio che abortire. L’ululato è l’aborto della verità? Auuuuuuuuuuu… *
Giovedì 3 giugno, ore 22.09.
Stamani ho letto un articolo di Karl Popper sull’influenza della tv nella nostra vita quotidiana. Il filosofo sostiene che la tv è diventata un membro della famiglia, e che la sua voce è la più ascoltata di tutta la famiglia. Maria Cristina mi ha detto un giorno: «La tv è la mia nuova famiglia».
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Sabato 20 aprile, ore 23.52.
Questa sera ho litigato con Lorenzo Manfredini. Gli ho detto di lasciare Maria Cristina in pace. Questa poveretta vive in una terribile prigione. Ho pensato di rivolgermi al commissario Bettarini, però ho avuto paura di causarle qualche problema perché non ha il permesso di soggiorno. Questo delinquente non merita il soprannome che porta, il Gladiatore. E un’offesa a Spartaco, il liberatore degli schiavi!
La verità di Antonio Marini
Stamattina ho aspettato il 70 per mezz’ora al capolinea di via Giolitti, vicino a piazza Vittorio. Alla fine sono arrivati tre autobus uno dietro l’altro. Gli autisti sono scesi senza badare alle proteste delle persone in attesa, e sono andati al bar di fronte alla fermata per sedersi a un tavolo all’aperto e bere il caffè, fumare qualche sigaretta e spettegolare! Abbiamo aspettato un’altra mezz’ora la partenza. Alla fine gli autisti si sono alzati tutti insieme, ognuno ha preso il suo posto, e sono partiti! E la madonna, dove l’è che sem? A Mogadiscio o a Addis Abeba? Sèm a Róma o a Bombay? Nel mondo sviluppato o nel terzo mondo? Fra poco ci cacceranno dal club dei ricchi. Queste cose al nord non succedono. Io sono di Milano e non sono abituato a questo caos. A Milano rispettare gli appuntamenti è cosa sacra e nessuno osa dirti: «Ci vediamo tra le cinque e le sei», come capita a Roma molto spesso. In questi casi ho l’abitudine di rispondere con fermezza: «Ci vediamo alle cinque in punto o alle sei in punto!».
Altrimenti che senso ha il detto “Il tempo è denaro“ se nessuno ne tiene conto? Quella di lasciare Milano e venire a Roma non è stata una decisione saggia. Ho ceduto alle pressioni di mio padre: «Antonio, te ghe d’andà a Róma, lassa minga scapa l’ucasiun de laurà quand gh’è l’ucasiun, fieu! Laurà l’è pregà!». Così ho accettato il posto di assistente al dipartimento di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma.
All’inizio avevo pensato di rimanere un anno o due al massimo per poi tornare a Milano, ma mi sono rassegnato davanti al fatto compiuto quando ho ottenuto la cattedra. Adesso sto per andare in pensione. Quanti rimpianti per tutti gli anni trascorsi qui!
Roma! La città eterna! La bella Roma!
Roma amor! No, mi dispiace, io non guardo Roma con gli occhi del turista che viene per una settimana o due, fa un giro a piazza Navona, a piazza di Spagna, a Fontana di Trevi, scatta qualche foto ricordo, mangia la pizza e gli spaghetti e poi torna nel suo paese. Io non vivo nel paradiso dei turisti, ma nell’inferno del caos!
Per me non c’è differenza tra Roma e le città del sud, Napoli, Palermo, Bari e Siracusa. Roma è una città del sud e non ha niente a che fare con città come Milano, Torino o Firenze. La gente di Roma è pigra, questa è l’evidente verità.
Vive di rendita sfruttando le rovine, le chiese, i musei e il sole che fa impazzire i turisti del nord Europa. Immaginate Roma senza il Colosseo, la cupola di San Pietro, la Fontana di Trevi e i Musei Vaticani! La pigrizia è il cibo quotidiano dei romani. Basta ascoltare il dialetto che usano nelle loro conversazioni: si mangiano metà delle parole per pigrizia. Io mi arrabbio quando i miei colleghi romani dell’università mi chiamano Anto’, e rispondo innervosito: «Mi chiamo Antonio!». Basta vedere i film di Alberto Sordi come Il conte Max o Il marchese del Grillo o Un borghese piccolo piccolo per scoprire il vero volto dei romani. Sono fieri dei loro difetti e non provano imbarazzo nell’esprimere la loro ammirazione per la donna che tradisce il marito o per la persona che non paga le tasse o per il furbone delinquente che viaggia in autobus senza il biglietto! Odio la loro arroganza. Vi ricordate la battuta di Alberto Sordi: “Io sono io, e voi non siete un cazzo!“? E questa la vera natura dei romani.
Non è forse vero che la lupa è il simbolo di Roma? Io non mi fido mai dei figli della lupa perché sono animali selvaggi. L’astuzia è il loro miglior talento per sfruttare il sudore degli altri. Così la gente del nord lavora, produce, paga le tasse, e la gente del sud sfrutta questa ricchezza per costituire bande criminali come mafia, camorra, ‘ndrangheta e le bande di rapitori in Sardegna. Il dramma è che il nord è un gigante economico e un nano politico. Questa è l’amara verità. Io consiglio sempre ai miei studenti di leggere Cristo si è fermato a Eboli, il bellissimo libro di Carlo Levi, per capire come il sud sia nato nella pigrizia e nel sottosviluppo.
La situazione non è cambiata rispetto al passato, la mentalità è rimasta la stessa. Non ci aiuta la fuga in avanti, è giunto il momento di ammettere che l’unità d’Italia è stato un errore storico irrimediabile.
Amedeo è un immigrato! Per me non c’è differenza tra gli immigrati e la gente del sud.
Anche se non capisco il rapporto di Amedeo con il meridione. Io sono un attento osservatore, in grado di distinguere tra un pigro e uno che vuole lavorare. Ad esempio la portiera napoletana, Sandro Dandini ed Elisabetta Fabiani sono simboli del sud con la loro tristezza, le chiacchiere, il sottosviluppo, il pettegolezzo, la credenza, la superstizione. Io non sono razzista.
Posso citare il grande storico napoletano Giustino Fortunato, meridionale doc, il quale sostiene che il dramma del Mezzogiorno è l’incertezza nel domani. Loro non piantano e non seminano, in poche parole non investono. Chi dorme non piglia pesci!
Quando la portiera mi ha detto che Amedeo è del sud non ci ho creduto, perché il suo modo di parlare, di salutare e di camminare assomiglia a quello dei lombardi, dei piemontesi.
Non gli ho chiesto la sua origine. Queste cose riguardano la sua vita privata e io non ho il diritto di interferire. Una sola volta gli ho sentito dire: «Io sono del sud del sud». Allora ho dedotto che Roma è del sud, e le città del sud d’Italia come Napoli, Potenza, Bari e Palermo sono l’estremo del sud! Ci siamo incontrati occasionalmente più volte nella biblioteca del dipartimento di Storia alla Sapienza. Abbiamo toccato diversi argomenti che riguardano la storia dell’antica Roma e ho scoperto che era molto informato sul colonialismo romano in Africa.
L’ho visto leggere attentamente Sallustio, La guerra di Giugurta. Ciò che ha attirato la mia attenzione è stata la sua buona conoscenza di Sant’Agostino. E indubbio che è un vero cattolico. Crede nei valori della Chiesa, nella sacralità del lavoro e della famiglia. Conosce anche la Bibbia. Ricordo ancora la nostra lunga discussione sulle parole di Gesù: «Se perseverate nella mia Parola, sarete veramente i miei discepoli; conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi». Non era convinto che la verità ci farà liberi. Anzi, al contrario, la verità secondo lui è una catena che ci trasforma in schiavi. So che è un traduttore, ma non gli ho chiesto da quale lingua traduce. Non posso credere che sia lui l’assassino.
Uno scandalo mi impedisce di rimanere in silenzio: sapete che gli inquilini del nostro stabile pisciano nell’ascensore? È una cosa vergognosa davvero. La cosa certa è che Amedeo non è fra i sospettati, perché non usa mai l’ascensore e preferisce le scale. Gli ho consigliato più volte di evitare le scale: salire e scendere continuamente causa l’infarto, secondo uno studio effettuato dai medici dell’Institut Pasteur. Però non mi ha dato retta. Ho provato molte volte a organizzare riunioni di condominio per affrontare una volta per tutte alcuni gravi problemi, soprattutto quello dell’ascensore. Ho ribadito che l’ascensore è una questione di civiltà, e che dobbiamo stabilire regole chiare per utilizzarlo: è proibito buttare mozziconi di sigarette, è vietato mangiare, è proibito scrivere parole oscene, è vietato pisciare ecc. Ho proposto di mettere una targa sulla porta dell’ascensore: “Si prega di lasciare pulito l’ascensore!“. Però la proposta non ha ottenuto la maggioranza, dopo che l’olandese Van Marten se ne è andato dicendo: «Questa targa va bene solo sulle porte dei bagni pubblici!».
Il guasto dell’ascensore è una grande catastrofe che ci costringe a usare di nuovo le scale, insomma un’offesa alla modernità, allo sviluppo e all’illuminismo! Ho tentato di convincerli più volte, ma senza esito. Ho detto loro: « L’ascensore è un mezzo di civiltà. Aiuta a guadagnare tempo e a risparmiare gli sforzi, è importante quanto la metro e l’aereo». Mi rifiuto categoricamente di camminare e di perdere tempo salendo e scendendo le scale. Ho letto recentemente un libro di un sociologo americano che afferma che le autorità di Los Angeles hanno deciso di eliminare le strisce pedonali sulle strade perché la gente non va più a piedi. Io mi chiedo: quando ci sbarazzeremo delle scale in Italia?
Amedeo è una persona contraddittoria: frequenta le biblioteche per la ricerca e lo studio, però passa ore al bar di Sandro. Questa abitudine è tipica della gente del sud: sedere al bar per chiacchierare e spettegolare. Bisognerebbe chiudere i bar e costringere tutti a lavorare. Amedeo non è stato fortunato; se fosse vissuto a Milano avrebbe avuto un destino diverso. Purtroppo frequentare Sandro ha influito negativamente sul suo modo di vivere. Da noi si dice: “Peggio di un romano“. Anche lo studente olandese Van Marten non si è salvato dalle influenze culturali e sociali negative dei romani. L’ho sentito molte volte dire con arroganza e senza pudore: «Io non sono GENTILE!». All’inizio ho sorvolato perché è straniero e non padroneggia l’italiano come si deve. Ho tentato di correggere quest’errore, sono prima di tutto un insegnante. L’ho preso da parte per non offenderlo, dicendogli a voce bassa: «Non ripetere questa frase perché in parole povere significa che sei incivile e privo di educazione, e cioè che sei un barbaro». Mi ha guardato con un’aria di falsa innocenza: «Io so che la parola GENTILE nei dizionari significa educato, simpatico e garbato, però io intendo un’altra cosa». Non ce l’ho fatta ad ascoltare il resto della sua spiegazione, perché il mio ruolo di rispettabile professore universitario mi impedisce di polemizzare con uno studente straniero che pretende di dibattere con me su una questione legata alla lingua italiana!
Io dico che questo paese è immerso nel mare dei miracoli. I mondiali di calcio, ad esempio, mostrano come gli italiani scoprono di essere italiani: mettono bandiere nazionali alle finestre, sui balconi e nei negozi. Che meraviglia, il calcio crea identità! E’ veramente utile avere un’unica lingua, una storia comune, un futuro comune? A cosa serve l’unità d’Italia? Dove l’è che sem? In un paese sottosviluppato funziona così? Porca miseria!
Devo ammettere che la rinuncia di Amedeo a usare l’ascensore, l’autobus e la metro e la sua passione di camminare per ore mi hanno indotto a sospettare di una sua appartenenza a un movimento politico ben più pericoloso del nazismo, del fascismo e dello stalinismo. Si tratta di quei mascalzoni dei Verdi! Io non ho problemi a chiamare i sostenitori dell’ambiente nuovi barbari, perché fanno di tutto per fermare il treno dello sviluppo e della tecnologia e riportare l’umanità alla preistoria con slogan ridicoli come la salvaguardia degli alberi, la chiusura delle grandi fabbriche, il divieto di caccia e l’embargo sui prodotti della Nestlè e di McDonald’s. Conosco la storia di questi nuovi barbari, non sono forse uno storico? Questa gente rappresenta la continuità di quella rivoluzione degli studenti del ‘68 fallita miseramente.
Poveracci, pensavano di cambiare il mondo con il libretto rosso di Mao Tse Tung e i libri antitecnologici di Herbert Marcuse. Molti di questi falliti hanno cavalcato l’onda della difesa dell’ambiente per ottenere potere. La prova è l’ex leader degli studenti francesi Daniel CohnBendit, che ha ottenuto un seggio al parlamento europeo. E non dimentichiamo che i Verdi fanno parte del governo in Germania! Ho posto una sola domanda molto breve ad Amedeo e l’ho pregato di rispondermi con un sì o un no: «Sei un militante dei Verdi?».
Ha risposto senza esitazione: «No».
Ho tirato un sospiro di sollievo e ho aperto la porta dell’ascensore maledicendo i barbari antichi, moderni e postmoderni.
Non mi chiedete chi è l’assassino, sono un professore universitario e non il tenente Colombo. A proposito, sapete come si chiamava il giovane trovato ucciso in ascensore? Il Gladiatore. Questo è sufficiente a dimostrare il sottosviluppo dei romani e il loro attaccamento patologico al passato. È impossibile trovare a Milano una persona che si faccia chiamare così.
Queste cose accadono solo al sud.
Sesto ululato
Martedì 4 dicembre, ore 23.08.
Sono andato con Stefania al cinema Tibur a San Lorenzo. Abbiamo visto Così ridevano di Gianni Amelio. Ha vinto il Leone d’oro alla mostra di Venezia, e racconta la storia degli emigranti italiani che all’indomani della Seconda guerra mondiale lasciarono le loro città e i loro paesini del sud e si spostarono al nord per lavorare e guadagnare un pezzo di pane nella speranza di un futuro migliore. I lavoratori del sud hanno il merito della rinascita industriale del nord e della fioritura delle fabbriche Fiat. Non capisco perché Antonio Marini accusi la gente del sud di pigrizia e di mancanza di fede nel domani!
*
Venerdì 4 giugno, ore 22.50.
Oggi ho incontrato per caso Antonio Marini alla biblioteca della Sapienza. Abbiamo parlato a lungo dell’impero romano e discusso su questioni di colonialismo in generale. Gli ho detto che secondo me i popoli che hanno subito il colonialismo nel corso della storia hanno una parte consistente di responsabilità. Ho riflettuto sul concetto di “colonizzabilità” dell’intellettuale algerino Malek Bennabi. Questa colonizzabilità, cioè la permeabilità al colonialismo, è il risultato di un tradimento tra fratelli.
Che Bocco, traditore di Giugurta, vendutosi ai romani, e i suoi seguaci siano maledetti per sempre! Auuuuu… *
Giovedì 15 novembre, ore 22.48.
Marini si lamenta molto degli autisti degli autobus. Dice che non fanno il loro lavoro come si deve e per questo bisognerebbe mandarli a Milano a imparare dai loro colleghi. Ripete sempre che l’unità d’Italia è stato un crimine contro il nord e che il sud è un fardello pesante per la gente del nord. Se fossi buddista direi che quest’uomo si è reincarnato nel gallo del quartiere perché canta tanto, forse troppo!
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Lunedì 9 aprile, ore 23.44.
Stefania ha ragione quando chiama Antonio Marini il vigile urbano. Per mia fortuna non uso l’ascensore, quindi mi tengo alla larga dalla sua ossessione. Quest’uomo è colpito da una nuova malattia, “l’ascensoremania”, molto simile alla paranoia. Non smette di ribadire che l’ascensore è la civiltà e che la differenza fondamentale tra i civilizzati e i barbari consiste in primo luogo nella salvaguardia dell’ascensore.
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Sabato 12 agosto, ore 22.54.
Questa sera Marini mi ha consigliato di usare l’ascensore, e mi ha detto che le scale causano l’infarto e la rottura del femore e altri guai fisici. Mi ha chiesto di partecipare alla prossima riunione dove si parlerà dell’ascensore.
Prendendomi la mano e fissandomi negli occhi mi ha detto: «So che sei l’unica persona civile in questo palazzo. Aiutami nella battaglia contro i nuovi barbari». Gli ho promesso che avrei cercato di convincere gli altri di quanto sia importante prendersi cura dell’ascensore.
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Giovedì 23 marzo, ore 23.49.
Stamani Marini mi ha chiesto con insistenza se sono un sostenitore dei Verdi, visto che non prendo né l’ascensore né l’autobus e preferisco sempre camminare. Gli ho risposto di no, e l’ho visto tirare un sospiro di sollievo. Secondo lui i sostenitori dell’ambiente sono i nuovi barbari e i nemici mortali della civiltà, perché vorrebbero fermare l’avanzata dello sviluppo e della ricerca scientifica riportando così l’umanità alla sua preistoria. Alla fine ha concluso la sua lezione con una raccomandazione: «Attento ai Verdi.
Sono più pericolosi dei nazisti, dei fascisti, dei brigatisti, degli stalinisti e dei khmer rossi».
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Lunedì 2 marzo, ore 22.47.
Questa mattina ho letto come al solito la rubrica di Montanelli sul Corriere della Sera. Ha sollevato una questione molto cara alla Lega Nord, quella della secessione. Montanelli ha scritto con la sua solita franchezza che il nocciolo del problema consiste nel fatto che l’Italia è nata prima degli italiani; ciò spiega la fragilità dell’unità d’Italia, imposta da una minoranza malgrado il rifiuto della maggioranza. Le parole di Montanelli mi hanno spinto a riflettere seriamente su tutti quei discorsi che mirano all’integrazione degli immigrati nella società italiana.
Mi chiedo se esista una società italiana che accetti davvero l’idea di integrazione per gli immigrati. Dell’integrazione in questo momento non mi importa un bel niente. Quello di cui mi importa veramente è come farmi allattare dalla lupa senza che mi morda e divertirmi con il mio gioco preferito: ululare! Auuuuuuu…
La verità di Johan Van Marten
Mio padre non era molto entusiasta del mio progetto e ha tentato in tutti i modi di convincermi a rivedere la mia decisione: «Johan, lascia perdere l’Italia, non imparerai niente dagli italiani. Ricordati che quel paese ha inventato il catenaccio! Questo modulo di gioco avrebbe ucciso il calcio, se non fosse esistito il calcio totale inventato dagli olandesi». Ricordo ancora le sue ultime parole mentre mi salutava all’aeroporto: «Ricordati, Johan, il Milan è diventato una delle migliori squadre in Europa e nel mondo grazie al trio olandese Gullit, Van Basten e Rijkaard e non grazie ai soldi di Berlusconi». Mio padre non ha mai perdonato questa mia disobbedienza e così ha iniziato a prendermi in giro chiamandomi Gentile, perché secondo lui non merito il nome di Johan che richiama alla mente il grande giocatore Cruyff.
Gentile, lo so, è una parola italiana che significa garbato ed educato, però in realtà è il cognome dell’ex giocatore della Juventus e della nazionale italiana vincitrice dei mondiali 1982 in Spagna e che oggi è il c.t. della nazionale under 21. Claudio Gentile era conosciuto per la sua aggressività e per la sua marcatura a uomo. Per mio padre Gentile è il primo nemico di questo sport, anzi è il simbolo del catenaccio per eccellenza. Secondo lui la Fifa avrebbe dovuto squalificarlo quando ha fatto piangere Maradona e strappato la maglia di Zico ai mondiali di Spagna. Per questo motivo mi sono abituato a dichiarare la mia innocenza ripetendo questa frase: «Io non sono GENTILE». Ma Gentile è la vera immagine dell’Italia?
Sono arrivato a Roma per studiare cinema e realizzare il bel sogno che mi accompagna da quando ero piccolo. Io sono un grande amante del cinema italiano e non nascondo la mia passione per il Neorealismo, che per me è la miglior risposta al cinema di Hollywood. Adoro i film di Rossellini e De Sica. Roma città aperta di Roberto Rossellini e Ladri di biciclette di Vittorio De Sica sono fra i migliori film nella storia del cinema.
Alcune scene del secondo film sono state girate proprio a piazza Vittorio. E’ questo il motivo che mi ha spinto a prendere in affitto una stanza nel palazzo dove abita Amedeo a piazza Vittorio.
Certo, ricordo ancora il nostro primo incontro. L’ho visto uscire dal portone del palazzo con sotto il braccio il film Divorzio all’italiana, gli ho chiesto il nome del regista e lui mi ha risposto: «Pietro Germi. Questo film è il capolavoro del cinema italiano». Gli ho detto che preferivo i film del Neorealismo e a quel punto mi ha guardato con un sorriso: «La questione merita una dissertazione cinefila al bar di Sandro». Quel giorno abbiamo discusso a lungo sulla condizione del cinema italiano, vittima degli ostacoli della burocrazia. Amedeo sosteneva che la commedia all’italiana ha rappresentato il livello più alto della creatività di questo popolo, perché ha messo in evidenza i paradossi, ha unito tragedia e commedia, ironia e critica seria. Allora mi sono reso conto che Amedeo è una persona aperta e non un sostenitore del catenaccio.
Eh no. Il catenaccio c’entra eccome! Non è solo un modulo difensivo del calcio, ma un modo di pensare e di vivere, frutto del sottosviluppo, della chiusura e della preclusione del lucchetto. Gli esempi legati alla cultura del catenaccio a Roma sono tanti. Per dirne una, dopo le feste dell’ultimo capodanno, di ritorno da Amsterdam, ho deciso di portare qualche regalo ad alcuni amici italiani. Alla stazione Termini mi hanno fermato i poliziotti e mi hanno portato al commissariato per interrogarmi. Non ho capito il perché, credevo che fosse un errore.
Hanno frugato nella mia valigia, hanno trovato qualche grammo di marijuana e mi hanno detto: «Cos’è questa?».
«Regali per gli amici».
«Ci prendi in giro, figlio di puttana?».
«No. Io dico la verità, non ho trasgredito la legge».
«Sei matto?».
«Questi sono regali per gli amici, ecco lo scontrino del tabaccaio di Amsterdam».
«Sei olandese?».
«Sì».
«Ah, adesso è tutto chiaro!».
«Non capisco».
«Roma non è il paradiso dei tossicodipendenti come Amsterdam! Lo spaccio di droga è vietato in Italia. Hai capito adesso? Possedere qualche grammo di marijuana è un reato punito dalla legge».
Alla fine mi hanno rilasciato, dopo avermi fatto giurare che non avrei importato la droga in Italia e che avrei rinunciato definitivamente alla marijuana. Non ho ancora capito che c’entra la marijuana con le droghe come l’eroina.
Ma esiste davvero l’Unione Europea? Esiste davvero la libertà di fumare, di credere e di pensare in Italia? L’Italia è un paese civile? Le mie disgrazie con la polizia non si sono limitate a questo episodio. Una notte sono andato a via Gioberti vicino alla stazione Termini, dove si trovano le solite prostitute, e mi è piaciuta una ragazza africana; ci siamo messi d’accordo per andare nella sua stanza in un albergo lì vicino.
Avevo appena fatto due passi che la polizia mi ha fermato e mi ha sommerso di domande. A un certo punto non ce l’ho fatta più: «Io non capisco perché mi arrestate. Non avete il diritto di farlo. Mi sono messo d’accordo con lei, le ho già dato i soldi, non ho commesso nessun reato. E poi questo non è il quartiere a luci rosse come quello di Amsterdam?». Ho rischiato di passare la notte in galera.
Amedeo è straniero! È logico che la persona che rappresenta la magnifica Italia sia straniera? È l’unico che risponde alle mie tante domande sulla politica, la mafia, il cinema, la cucina ecc. Poi non capisco perché Amedeo sia stato accusato dell’omicidio del Gladiatore. Io conosco Lorenzo Manfredini molto bene perché dividevo con lui l’appartamento. Adorava i cani, basta dare una occhiata alla sua casa per vedere appesi al muro centinaia di foto di cani.
Chi ama i cani in questo modo non merita di morire come un delinquente. So che non era amato dagli inquilini a causa dei suoi strani comportamenti. Mi diceva sempre: «Io sono un cane randagio e non ho padrone».
Amedeo nutriva rancore nei confronti di Lorenzo? Non lo so. Sono sicuro che il ritrovamento del cadavere nell’ascensore ha un significato preciso. La maggior parte delle beghe tra inquilini derivano dall’ascensore. Tutte le riunioni di condominio si concentrano su di lui: Mr. Ascensore! Una volta ho perso la pazienza e ho gridato a tutti: «Ma lo sapete che il Parlamento olandese ha approvato recentemente una legge che permette all’individuo di suicidarsi? E’ la prima legge nel mondo che legalizza l’eutanasia. Mentre il popolo olandese dibatte con passione su questa nuova legge, noi discutiamo in merito all’uso dell’ascensore!». È questo il sottosviluppo, maledetto catenaccio! Ho abbandonato la riunione e me ne sono andato infuriato. L’ascensore è l’origine del problema.
Non c’è consenso tra gli inquilini a questo proposito: c’è chi vuole mettere l’aria condizionata d’estate e il riscaldamento d’inverno, c’è chi propone di mettere il crocefisso e la foto del papa e di Padre Pio e chi rivendica un ascensore laico senza nessun simbolo religioso. Poi c’è chi rifiuta tutte queste proposte sostenendo che sono costose e superflue. Insomma, questo ascensore è come una nave guidata da più di un comandante!
Pian piano ho iniziato ad avvicinarmi agli inquilini grazie ai segreti del Neorealismo, e ho scoperto che l’ascensore è un buon soggetto per un bel film che unisca il Neorealismo e il cinema di Fassbinder. Mi sono venuti in mente splendidi titoli: Catenaccio o Mr. Ascensore o L’ascensore di piazza Vittorio o Scontro di civiltà all’italiana o Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio. Ho sognato di dare il ruolo della protagonista all’attrice tedesca Hanna Shigulla che ha partecipato ai principali film di Fassbinder. Il ruolo della padrona del cagnolino scomparso potrebbe essere adatto a lei.
Sono un grande ammiratore dell’iraniano Parviz perché mi ricorda Anthony Queen nei suoi primi film. Invece la portiera napoletana Benedetta è un personaggio fondamentale perché rappresenta il carattere popolare, come Anna Magnani in Campo de’ Fiori. Ho chiesto ad Amedeo di aiutarmi a convincere tutti gli inquilini del palazzo a recitare nel film. Sono entusiasta di realizzare questo film, ancora di più dopo l’episodio dell’omicidio nell’ascensore. Questa è già pubblicità. Non torno indietro e continuo per la mia strada.
Settimo ululato
Sabato 7 novembre, ore 23.43.
Oggi ho conosciuto un giovane olandese che si chiama Johan. E’ uno studente di cinema appassionato di Neorealismo. Abbiamo discusso a lungo sulla realtà del cinema italiano, e ho difeso con forza la commedia all’italiana che affronta argomenti seri e tristi molto spesso in modo comico. Quanto mi piace il film di Pietro Germi Divorzio all’italiana, non mi annoio mai a rivederlo. È la storia di un uomo che mette a punto un piano per uccidere la moglie, così può sposare una giovane donna. Si dice che questo film abbia preparato il terreno al referendum sul divorzio in Italia nel 1974.
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Venerdì 25 marzo, ore 23.55.
Sono andato al carcere Mamertino vicino al Colosseo per la prima volta. E’ stato molto emozionante. In quel luogo, nel 104 a.C., il nostro grande guerriero Giugurta è morto dopo avere trascorso sei giorni senza cibo né acqua.
Maledetti traditori. Tornando a casa ho incontrato l’olandese biondo, gli ho parlato a lungo di Giugurta e della sua resistenza contro i romani.
Mi ha detto: «Sei l’unico italiano che conosce la storia di Roma. La vicenda di questo eroe africano può diventare il soggetto per un grande film epico come Spartaco di Stanley Kubrick».
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Mercoledì 25 maggio, ore 22.53.
Johan mi ha chiesto di fargli da guida a Roma. Domani andiamo a Campo de’ Fiori, dove è stato girato il famoso film con Anna Magnani e Aldo Fabrizi. Al centro di questa piazza fu bruciato sul rogo Giordano Bruno. Adesso in questo luogo maledetto c’è una grande statua in memoria del filosofo.
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Sabato 30 novembre, ore 22.39.
Questa sera sono andato con Johan al Goethe Institut per seguire la rassegna dedicata al regista tedesco Fassbinder. Abbiamo visto La paura mangia l’anima. E’ la storia dell’immigrato marocchino al-Hadi, che viene chiamato Ah, e di sua moglie, una tedesca che ha l’età di sua madre. I due subiscono continue pressioni dovute all’ostilità e all’arroganza delle persone che li circondano: vicini, colleghe di lavoro e soprattutto la famiglia della donna. Fassbinder descrive il dramma di Ali lacerato tra la nostalgia del cuscus e il suo tentativo disperato di piacere ai tedeschi.
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Lunedì 20 aprile, ore 23.35.
Stasera ho incontrato Johan. Era un po’ giù a causa degli ostacoli burocratici che gli impediscono di realizzare Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio, ma pur lamentandosi di quella che lui definisce la “mentalità del catenaccio“ Johan non ha perso il suo entusiasmo.
«Il film» mi ha detto, «avrà un grande successo. Adotterò un’impostazione teatrale, utilizzando un unico ambiente, vale a dire l’ingresso del palazzo che sta di fronte all’ascensore.
Convincerò gli inquilini a interpretare i loro ruoli come accadeva ai tempi del Neorealismo: Benedetta diventerà un’attrice famosa come Anna Magnani!».
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Venerdì 30 novembre, ore 23.16.
Il biondo Johan è deciso ad andare avanti con la realizzazione del suo film sul rapporto morboso degli inquilini con l’ascensore. Gli ho chiesto di lasciarmi fuori semplicemente perché non uso l’ascensore. I miei incubi sono sempre ambientati dentro un ascensore: una tomba stretta senza finestre.
La verità di Sandro Dandini
Sono il proprietario del bar Dandini che si affaccia sui giardini di piazza Vittorio. La maggior parte dei miei clienti è straniera. Li conosco molto bene, sono in grado di distinguere facilmente tra un bengalese e un indiano, tra un albanese e un polacco, tra un tunisino e un egiziano. Ad esempio i cinesi pronunciano la lettera L al posto della R, come “Buongiolno signole, un’alanciata glazie!“. Gli egiziani pronunciano la B al posto della P, come “Ber favore un banino con bollo“. Come vedete non è facile convincermi del fatto che il mio amico Amede’ non è italiano.
Amede’ è Amedeo. A Roma siamo abituati a cancellare le prime lettere o le medie o le finali dei nomi; io, ad esempio, mi chiamo Sandro però il mio vero nome è Alessandro, mia sorella si chiama Giuseppina ma noi la chiamiamo Giusy, mio nipote Giovanni tutti lo chiamano Gianni, mio figlio si chiama Filippo però siamo abituati a chiamarlo Pippo, e ci sono tanti altri esempi del genere.
L’ho conosciuto quando è venuto ad abitare a piazza Vittorio. Ricordo ancora il nostro primo incontro: ha chiesto un cappuccino e un cornetto, si è seduto e ha cominciato a leggere la rubrica di Montanelli sul Corriere della Sera.
Non ho mai visto nella mia vita un cinese, un marocchino, un rumeno o uno zingaro o un egiziano leggere Il Corriere della Sera o La Repubblica! Gli immigrati leggono solamente Porta Portese per vedere gli annunci di lavoro.
Mentre stava andando via, gli ho detto che ero un ammiratore di Montanelli per il suo coraggio, la sua onestà e la sua franchezza, perché ha sfidato i brigatisti quando gli hanno sparato dicendo: «Siete pazzi! Maledetti figli di puttana!». Ho detto che quando Montanelli affermava che “il popolo italiano non ha una memoria storica“ secondo me sbagliava. Questo suo giudizio è valido per tutta l’Italia tranne che per Roma, perché la gente di Roma ha una memoria radicata che risale ai romani. Basta passeggiare per le sue strade e ammirare le sue rovine o dare un’occhiata alla bandiera della nostra squadra per godere dell’immagine della lupa che allatta Romolo e Remo. Alla fine mi sono ricordato il consiglio di mio padre per conquistare i clienti: «Mi chiamo Sandro, e tu?».
«Il mio nome è Amede’».
«Allora sei di Roma?».
«Sono del sud».
Quando stava per andarsene gli ho detto: «A domani, Amedeo», e lui mi ha risposto con un bel sorriso.
Amedeo mi ha fatto un’ottima impressione fin dal primo incontro, però la sua risposta «Sono del sud» mi ha un po’ preoccupato. Io non sono razzista, però non sopporto i napoletani.
Ho sperato dal profondo del cuore che non avesse niente a che fare con Napoli, perché non ho ancora dimenticato le botte che ho preso qualche anno fa dai tifosi del Napoli dopo un nostro pareggio in casa loro. Dico che non meritavano un giocatore come Maradona. Avete visto come è finita per il povero Diego? Dopo aver conquistato tanti trofei l’hanno accusato di collusione con la camorra e poi l’hanno spinto alla tossicodipendenza, finché è diventato più appassionato della droga che del pallone! Se Maradona avesse giocato con la Roma sarebbe potuto diventare un uomo venerato come il papa. Io non provo imbarazzo nel dire: «Non mi fido del napoletano, neppure se fosse San Gennaro!».
Amedeo ha iniziato a frequentare il bar tutte le mattine con le tre C: cappuccino, cornetto e Corriere della Sera. Ho provato a ottenere dettagli sulla sua origine, la sua famiglia, le sue preferenze sportive e politiche, ma Amedeo non parla molto e questo ha reso tutto più difficile.
Il fatto è che io non sono bravo al gioco del gatto e del topo, dunque la mia pazienza si è esaurita in fretta. Allora gli ho detto senza girarci intorno: «Scusa, Amede’, dimme de sì o de no: sei de Napoli?».
«No».
«Sei della Lazio?».
«No».
Ho tirato un sospiro di sollievo e l’ho abbracciato come fanno i nostri tifosi quando la Roma segna il goal della vittoria nel recupero, e ho deciso che quel giorno gli avrei offerto la colazione.
Dopo essermi assicurato che non è napoletano né tifoso laziale, mi sono aperto con lui e siamo diventati amici. Poi la nostra amicizia si è intensificata quando ho comprato un appartamento nello stesso palazzo dove abita. Non gli ho mai chiesto dove è nato né quando è arrivato a Roma, ma con il passare del tempo ho scoperto che conosceva questa città meglio di me.
Certamente sarà arrivato qui da piccolo, come mio nonno quando ha lasciato la Sicilia un secolo fa e si è stabilito nella capitale. Dopo un po’ di tempo Amedeo è diventato un tifoso della Roma, e non salta nessuna partita dell’Olimpico. E’ tutto merito mio. Sono un apostolo come San Paolo ma con una piccola differenza: io converto alla fede romanista, mentre lui fa proseliti per la Chiesa cattolica. Alla fine ognuno tifa per la sua squadra.
Ma no! Amedeo non era un ultrà. Ho letto su alcuni giornali che il Gladiatore che hanno trovato ucciso nell’ascensore era un tifoso della Lazio, e l’autore dell’articolo ha dedotto che bisognava cercare l’assassino negli ambienti della tifoseria romanista. Ma ti pare che questa è una ragione per uccidere? La Roma è innocente.
Voglio dire che Amedeo non ha niente a che fare con questo orribile crimine. Amedeo è buono e generoso, “buono come il pane” diciamo a Roma. Ad esempio è molto generoso con l’iraniano, lo aiuta a trovare un lavoro e gli paga le consumazioni. La cosa degna di attenzione è la passione di Amedeo per i rigori. Preferisce il rigore al goal! Trema quando il giocatore sta per calciare il rigore, non ho mai capito il motivo.
Ho difficoltà a credere a quel che mi dite.
Amedeo è un immigrato come Parviz l’iraniano, Iqbal il bengalese, Maria Cristina la grassa domestica, Abdu il venditore di pesce e l’olandese che mi fa molto ridere quando ripete come un pappagallo: «Io non sono GENTILE!».
Voi non conoscete Amedeo come lo conosco io.
Conosce la storia di Roma e le sue strade meglio di me, anzi meglio di Riccardo Nardi, fierissimo delle sue origini che risalgono agli antichi romani. Riccardo il tassista, che attraversa le strade di Roma su e giù ogni giorno da vent’anni.
Una volta ha fatto a gara con Amedeo a chi conoscesse le strade e io come un presentatore di quiz televisivi ponevo loro una serie di domande, ad esempio: dove si trova via Sandro Veronese? Dove si trova via Valsolda? Come si arriva da piazza del Popolo a via Spartaco? Dove si trova piazza Trilussa? E piazzale della Radio? E il ministero degli Esteri? E l’ambasciata francese? E il cinema Mignon? Via del Babuino?
Piazza Mastai? Amedeo rispondeva prima di Riccardo. Per quanto riguarda la conoscenza della storia di Roma, Amedeo non ha rivali, conosce l’origine dei nomi delle strade e i loro significati. Non ho mai visto in vita mia una persona come lui. Una volta, dopo l’ennesima sconfitta di fronte ad Amedeo, Riccardo gli ha detto ridendo: «Ammazza’ Amede’ come conosci Roma! Ma che t’ha allattato la lupa?».
Non dite che Amedeo è un immigrato, mi viene il mal di testa. Io non odio gli stranieri.
Forse che il più grande giocatore di tutti i tempi, Paulo Roberto Falcao, non era uno straniero? Che dire di Piedone, Cerezo e Voeller, forse che non erano stranieri? Questi giocatori hanno fatto la gloria della Roma e per questo meritano rispetto, apprezzamento e stima. C’è una grande differenza tra Roma e Napoli, tra Roma e Milano, tra Roma e Torino. Noi trattiamo gli immigrati con affetto e amicizia. Io non amo la gente del nord perché detiene l’intera ricchezza del paese. Fiji de ‘na mignotta!
Pensano solo ai loro interessi. Prendiamo l’esempio di Antonio Marini, che tratta gli inquilini del palazzo come i bambini dell’asilo o come appartenessero a una tribù zulù. Non smette di dare ordini. Ci è venuto da Milano per insegnare all’università di Roma, come se questa fosse una città di asini, come se qui non esistessero professori universitari, ‘sti fiji de ‘na mignotta! Conoscono le arti del favoritismo e delle raccomandazioni e hanno l’ossessione del potere e di imporre la loro volontà a tutti.
Il milanese ha fatto di tutto per impedirci di usare l’ascensore; voleva averlo solo per sé, avanzando le proposte più strane con la scusa che servivano a migliorare la qualità del servizio: chiudere l’ascensore con un catenaccio, impedire ai visitatori e agli ospiti di usarlo, divieto di fumare e sputare, pulirsi le scarpe prima di entrare, mettere uno specchio e una sedia per due persone ecc. Una volta, dopo l’ennesima riunione in cui mi sono rotto veramente i coglioni, gli ho detto: «Mo ha’ rotto er cazzo e mo te meno, st’ascensore appartiene a tutti e nun è ‘na parte de casa tua, questo è ‘r nostro palazzo e nun è ‘na tribù de zulù! Va’ a Milano a fa’ quer cazzo che te pare!». Lui non c’è stato: «Barbari, non sarò mai uno di voi! Difenderò la civiltà in questo palazzo finché sono vivo. L’ascensore è la barriera tra la barbarie e la civiltà!». Bisognerebbe buttarlo in carcere con l’accusa di diffamazione o almeno cacciarlo fuori dalle mura di Roma, impedirgli di rientrare per tutta la vita. Vogliamo parlare degli scandali indecenti che Mani Pulite ha rivelato, mettendo a nudo la corruzione nelle città del nord, Milano in testa? Dopo tutto questo c’è chi si chiede ancora: perché la Roma ha vinto solo due scudetti mentre Milan, Inter e Juventus hanno conquistato la maggior parte dei 136 trofei in Italia e all’estero? La risposta è semplice: la corruzioooooooooooooone!
Comunque io non sono d’accordo nel considerare il calcio come un semplice gioco tanto per divertirsi. Il calcio è una scuola di vita, ti insegna la serietà, la pazienza, l’applicazione, l’amore per la vittoria e la lotta fino all’ultimo secondo. Vi ricordate la fine della partita della Champion’s League tra il Bayern di Monaco e il Manchester United? Il Bayern vinceva uno a zero fino all’ultimo minuto, eppure il Manchester è riuscito a pareggiare e a raggiungere il goal della vittoria prima del fischio finale. Più volte ho litigato con mia moglie a causa del nostro figlio unico Pippo, perché lei sostiene che io lo incoraggio ad abbandonare la scuola. Io le ho detto: «‘A scema! Credi ancora nella scuola?
Nun vedi che sta a succede ‘nde scòle, j’omicidi, i stupri, li sequestri?». Ha risposto che tutto questo si vede al cinema e in certe scuole di neri negli Stati Uniti. A quel punto ho aggiunto: «Amo’, ricordate che i nostri modelli vengono sempre dall’America. Fra poco vedrai in tv e in diretta omicidi all’interno delle scuole compiuti dagli allievi stessi, dai piccoli mostri, come li chiamano sui giornali». Ho il diritto di educare mio figlio come voglio, io ho più a cuore il suo futuro. E poi il giocatore di calcio guadagna miliardi mentre i laureati aumentano le fila dei disoccupati. No, la scuola è inutile, è veramente ‘na perdita de tempo.
Quando ero ragazzino andavo con zio Carlo allo stadio a vedere la Roma. Lui era un fan di Manfredini Pedro Waldemar, detto Piedone perché portava 46 di scarpa. A zio Carlo piaceva ripetere: “‘N derby senza Piedone è come ‘n film de Sergio Leone senza Clint Eastwood“.
Piedone era eccezionale! Ovviamente tengo a precisare che Manfredini detto Piedone non ha niente a che vedere con Manfredini detto il Gladiatore. Che sia chiaro, non facciamo confusione.
Poi, io non nego di aver litigato con il Gladiatore come tutti gli inquilini del palazzo.
Provocava tutti con i suoi comportamenti vergognosi. Ad esempio si divertiva a fare disegni osceni e scrivere parole volgari e insulti contro la Roma dentro l’ascensore. L’ho messo in guardia, ma lui testardo ha continuato. Lo dico e lo ripeto: Amedeo nun ha niente a che fare con ‘sto omicidio. Sono convinto fino in fondo della sua innocenza e sono pronto a metterci la mano sul fuoco.
Ottavo ululato
Giovedì 27 marzo, ore 22.39.
Questa mattina ho conosciuto il proprietario del bar Dandini. Si chiama Sandro ed è sulla cinquantina. Mi ha detto che Roma è la memoria dell’umanità, è la città che ci insegna ogni mattina che la vita è un’eterna primavera e la morte una nuvola passeggera. Roma ha sconfitto la morte, e per questo si chiama la città eterna. C’è una cosa che merita d’essere ricordata: quando Sandro mi ha chiesto il mio nome gli ho risposto: «Ahmed». Ma lui l’ha pronunciato senza la lettera Il perché non si usa molto nella lingua italiana, e alla fine mi ha chiamato Amede’, che è un nome italiano e si può abbreviare con Amed.
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Venerdì 27 gennaio, ore 23.42.
Sono diventato un credente estremista della triade cappuccino, cornetto e Corriere della Sera! Amo tanto il cornetto. Il bar di Sandro è la tappa prima di andare al lavoro. Il mio rapporto con il cappuccino è come quello tra la macchina e la benzina, una carica necessaria per mantenersi in forma tutto il giorno. Ho letto questa sera sull’Espresso l’articolo di uno psicologo che consiglia alla gente di cambiare nome ogni tanto, perché questo crea un equilibrio tra le varie personalità che vivono in conflitto dentro ognuno di noi. Ha detto che cambiare il nome aiuta a vivere meglio, perché attenua il fardello della memoria. Quindi io sarei al sicuro dalla schizofrenia, il nome Amedeo non mi danneggia. Ma esiste un conflitto silenzioso tra Amedeo e Ahmed? Cercherò la risposta nell’ululato: Auuuuuuu… *
Sabato 25 febbraio, ore 23.08.
A Sandro piace molto imitare i presentatori dei quiz televisivi. Spesso mi ritrovo sul banco dei concorrenti, e le domande ruotano intorno ai nomi delle strade di Roma e alla sua storia. Non mi rendevo conto di avere tutte queste informazioni su Roma. Tutto il merito va ai miei piedi. Io adoro camminare, detesto la metro, l’autobus, le macchine e gli ascensori, non sopporto la folla. Amo camminare per godermi la bellezza di Roma in tutta calma, la fretta è nemica dell’innamorato. Sono paziente e sogno di bere da tutte le fontane di Roma e scoprire i suoi angoli più nascosti.
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Domenica 7 maggio, ore 23.37.
Oggi sono andato con Sandro allo stadio Olimpico per seguire la partita della Roma con il Parma. Non sono contento, nonostante la vittoria della Roma due a zero, perché non ho visto nemmeno un rigore. Quanto è bello vedere un giocatore di fronte al portiere, un uomo contro un altro, una sfida decisiva da cui uno esce vincitore o vinto, vivo o morto! Il rigore è il colpo del gladiatore, e lo stadio Olimpico somiglia molto al Colosseo che raccoglieva settantamila spettatori secoli fa.
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Domenica 4 giugno, ore 22.59.
Sandro mi ha raccontato che i tifosi del Napoli non sopportano lo stadio Olimpico a causa degli striscioni dei romanisti che danno il loro particolare benvenuto. Ad esempio l’anno scorso durante la partita Roma-Napoli c’era uno striscione con la scritta “Benvenuti tifosi del Napoli, benvenuti in Italia! “. I romani non si fidano molto dei napoletani come la portiera Benedetta.
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Mercoledì 7 luglio, ore 22.42.
Stamattina, mentre ero seduto a bere il cappuccino, una signora italiana ha domandato a Sandro dove si trova via di Ripetta e lui mi ha chiesto aiuto come un naufrago. Ho detto alla signora che la metro è il migliore mezzo per arrivarci, che bisogna scendere alla stazione Flaminio vicino a piazza del Popolo e che a pochi passi c’è via di Ripetta. A quel punto mi sono ricordato quello che mi ha detto Riccardo il tassista: «Amedeo, tu sei stato allattato dalla lupa!». Ormai conosco Roma come vi fossi nato e non l’avessi mai lasciata. Ho il diritto di chiedermi: sono un bastardo come i gemelli Romolo e Remo oppure sono un figlio adottivo? La domanda fondamentale è: come farmi allattare dalla lupa senza che mi morda? Adesso almeno devo perfezionare l’ululato come un vero lupo: Auuuuuuuuuuu… *
Sabato 22 ottobre, ore 23.44.
Stamani Sandro mi ha parlato del problema del calo delle nascite in Italia. Secondo lui è colpa del governo che non incentiva le giovani coppie. Poi si è dilungato sull’analisi del fenomeno dei piccoli mostri, cioè dei bambini che uccidono genitori, fratelli, sorelle e coetanei.
Alla fine mi ha detto: «Fare figli è una scelta fallimentare. I figli sono come le azioni in borsa, quando perdono il loro valore non trovano clienti. Nessuno dà ascolto alle raccomandazioni del papa e del presidente della Repubblica che esortano gli italiani a fare i figli, e questo perché i costi sono alti, i rischi immensi e i benefici pochi».
La verità di Stefania Massaro
Chi è il vero Amedeo? È davvero una strana domanda. Non c’è un vero Amedeo e un falso Amedeo. Esiste solo un Amedeo: quello magnifico che mi ha amato e che io ho amato. Ho letto un giorno una brevissima definizione dell’amore: l’amore è sacrificio. Amedeo ha sacrificato tutto per me. Ha rinunciato alla sua patria, alla sua lingua, alla sua cultura, al suo nome e alla sua memoria. Ha fatto di tutto per rendermi felice. Ha imparato l’italiano per me, ha amato la cucina italiana per me, si è fatto chiamare Amedeo per me, in breve è diventato un italiano per avvicinarsi a me. Credetemi, non c’è paragone tra la mia storia con Amedeo e Love story di Erich Segal!
Lavoro in un’agenzia turistica a piazza della Repubblica da dieci anni. Amo tutto quello che ha a che fare con il viaggio. Durante la mia infanzia ho viaggiato molto con mio fratello Roberto e i miei genitori, ma il nostro viaggio nel Sahara resta il più bello in assoluto. I tuareg mi hanno sedotta, mi sono attaccata a loro come il bebé al seno della mamma. Quando è arrivato il momento di partire mi sono messa a piangere, rifiutandomi di ritornare a Roma. Volevo rimanere lì per sempre come Isabelle Eberhardt. Il mio lavoro nell’agenzia non mi impedisce di dedicare alcune ore alla settimana al volontariato come insegnante di italiano agli immigrati.
Certo, mi ricordo molto bene. L’ho visto seduto nei primi banchi che mi guardava con molto interesse, seguiva la lezione con un’intensa concentrazione. Non so perché mi ha ricordato il Sahara. Era fantastico, rispondeva a tutte le domande con una velocità incredibile: «Quando sei venuto in Italia?».
«Tre mesi fa».
«Hai studiato l’italiano nel tuo paese?».
«No».
Nel corso di tutti questi anni di insegnamento non ho mai incontrato uno studente come lui. È accaduto qualcosa di molto importante allora: dopo solo una settimana dal nostro primo incontro ho sognato di trovarmi dentro una tenda, fra le braccia di un uomo con il volto bendato tranne gli occhi. Io alzavo lo sguardo e gli dicevo: «Valentino, amore mio!». Lui mi rispondeva: «Io non sono Valentino!», allora toglievo la benda e vedevo il volto di Amedeo. Poi iniziava a baciarmi con lentezza e io sentivo un caldo intenso, come se il mio corpo fosse steso sulla sabbia calda a mezzogiorno.
Quanto ero felice! Ho sperato che quel sogno durasse per sempre. Il giorno seguente, quando ho incontrato Amedeo, l’ho ringraziato per i baci della notte precedente, poi gli ho raccontato il sogno per filo e per segno e a quel punto lui mi ha detto: «E’ bello quando uno realizza il suo sogno per intero o anche solo in parte». Al che io ho azzardato: «Andiamo nel Sahara, ci isoliamo in una bella tenda e realizziamo gli altri particolari del sogno?», e lui mi ha risposto: «Mi piacerebbe realizzare il mio sogno a rate, non in un colpo solo. Ad esempio mi basterebbe baciarti adesso per convincermi che ho messo piede nel sogno». Mi ha preso la mano, poi mi ha abbracciato con una dolcezza che non ha confronti. Dopo pochi giorni la mia camera da letto è diventata una bella tenda. Il sogno si è trasformato in realtà.
Ho chiesto ad Amedeo con insistenza di venire a vivere con me nel mio appartamento a piazza Vittorio, e lui ha esitato un po’ prima di accettare. Ho pensato più volte di cambiare casa e di andarmene da lì. Io non sopporto Benedetta, è una chiacchierona, una pettegola, e soprattutto mi odia da quando ero bambina e lei mi accusava di tutto ciò che accadeva nel palazzo. Diceva che ero io a suonare ai campanelli per disturbare gli inquilini, a lasciare l’ascensore aperto. Neanche fossi stata l’unica bambina in tutta piazza Vittorio! Non amo il professore Antonio Marini, perché è come il vigile urbano che non fa altro che impartire divieti e multe a destra e a sinistra. Non mi piace la mia vicina Elisabetta Fabiani: questa stupida non ha esitato a dare il nome del mitico Valentino al suo cagnolino che non smette di ululare come il lupo delle praterie. Una volta mi ha accusato di razzismo. Basta che uno difenda i propri diritti che gli appiccicano subito l’etichetta di razzista! Non so come non mi abbia ancora accusato di essere responsabile della scomparsa del suo cane.
So che Amedeo parla l’italiano meglio di tanti italiani. È tutto merito suo, della sua volontà e della sua curiosità. Io non c’entro con questo miracolo che di solito mi attribuiscono.
Amedeo è un autodidatta, vi basti sapere che chiamava il dizionario Zingarelli il suo biberon.
Era davvero come il bebé attaccato al seno di sua madre. Leggeva a voce alta per migliorare il suo accento e non si infastidiva quando gli facevo notare qualche errore di pronuncia. Non si annoiava a consultare il dizionario per capire le parole difficili. L’italiano era il suo cibo quotidiano.
Dopo tre mesi dal nostro primo incontro abbiamo deciso di sposarci. Perché aspettare? Ci amavamo. Prima del matrimonio Amedeo mi ha pregato di non chiedergli niente del suo passato. Ricordo ancora le sue parole: «Amore mio, la mia memoria è come un ascensore guasto. Anzi, il passato è come un vulcano dormiente.
Cerchiamo di non svegliarlo e di evitare eruzioni».
Gli ho detto: «Amedeo, amore mio, io non voglio il passato ma il tuo presente e il nostro futuro». Solo adesso apro gli occhi su questa verità: non so chi è Amedeo. Chi era prima di stabilirsi a Roma? Perché ha abbandonato il suo paese di origine? Perché ha scelto Roma? Cosa nasconde il suo passato? Quale segreto celano gli incubi che lo perseguitano? Un mistero che avvolge la sua vita precedente, forse è questo il segreto della mia passione per lui. Una delle più belle fasi dell’amore è quella della conoscenza, quando ci si tuffa nel mare dell’amore senza curarsi dei particolari né di porre domande noiose.
Confesso che la nostra relazione non ha superato la soglia del corteggiamento. Niente a che vedere con la noia e la routine. “La passione è una scatola piena di sorprese“, così dice l’inizio di una bella canzone. Il limite di alcuni innamorati sta nella tentazione di voler sapere tutto l’uno dell’altro. Questo è la causa della noia che fa spegnere la passione in un batter d’occhio. Il vero innamorato non si rivela interamente. Sapete perché i tuareg suscitano ammirazione e stupore? Perché non scoprono il loro volto. Il mistero è il segreto degli dei. Il fantastico è misterioso per natura. Mi fanno pena le donne che dicono: «Conosco perfettamente mio marito», oppure «Sono gelosa del mio fidanzato, i miei occhi non lo lasciano un secondo!». Spesso mi chiedo: cosa c’entra l’amore con il controllo e il pedinamento poliziesco?
Non sopporto i dettagli, perché ci impediscono di sognare e di fantasticare.
Amedeo non ama il passato. Spesso mi dice che il passato è come le sabbie mobili, non c’è scampo. Amedeo è misterioso come il Sahara, ed è difficile raccogliere i segreti del Sahara. Una volta ho udito un’anziana del Mali pronunciare parole che ho conservato come perle rare: «Non fidarti mai della guida del Sahara. E’ come Satana, maledetto per sempre, perché il Sahara non ama gli arroganti. Chi pretende di conoscerlo si deve attendere l’immancabile punizione, la morte per sete. La modestia è l’unica lingua che il Sahara comprende». Qualche anno fa ho conosciuto un turista islandese che mi ha detto una cosa straordinaria, e cioè che i pescatori nella regione in cui vive non sanno nuotare, perché la salvezza del naufrago non consiste nel saper nuotare ma nell’obbedienza, nella sottomissione, nella rassegnazione totale al mare. Non c’è differenza tra il mare e il Sahara.
Io non mi vergogno di non conoscere bene Amedeo nonostante tutti gli anni trascorsi insieme. E’ un viaggio aperto pieno di sorprese stupende e scoperte fantastiche. Ho lavorato a lungo con turisti di tutto il mondo, e secondo me il difetto del turista consiste nella sua voglia eccessiva di sapere e scoprire tutto in pochi giorni. Molto spesso ho consigliato ai viaggiatori di pazientare e non avere fretta. Il bel viaggio non finisce, perché custodisce in sé la promessa di un nuovo inizio per quello seguente. È come i racconti di Shahrazad, che non finiscono mai, iniziano sempre. La bella Shahrazad riesce a salvarsi dalla vendetta del sultano Shahrayar tradito dalla moglie solo attraverso le storie delle Mille e una notte. Al canto del gallo lasciava incompleto il racconto per riprenderlo la notte successiva. Fu così che salvò dalla morte sé stessa e le altre donne.
Amedeo soffre di mal di stomaco da quando lo conosco. Rimane molto tempo chiuso nel piccolo bagno prima di andare a letto. Ha fatto molte analisi, però senza esito. Tutti i medici che l’hanno visitato hanno detto che il suo stomaco è sano. Ha l’abitudine di rimanere chiuso a lungo nel piccolo bagno ogni notte, prende un registratore per ascoltare la musica, per distendersi i nervi e rilassare le viscere, dice. Ho letto su una rivista scientifica che il medico arabo Avicenna curava i suoi pazienti con la musica.
Amedeo ogni tanto soffre di incubi. Non gli ho chiesto mai nulla, perché “l’incubo è la finestra che il passato usa per entrare nei vestiti del ladro“, come dice uno scrittore francese.
L’ho sentito molte volte pronunciare parole incomprensibili. Una volta si è svegliato dal sonno spaventato ripetendo: «Bàgia! Bàgia!».
Sudava come fosse fuggito dall’inferno. Il giorno seguente non ho potuto reprimere la mia curiosità e gli ho chiesto il significato della parola Bàgia. Lui non mi ha risposto e mi ha guardato con rimprovero, forse per ricordarmi il nostro accordo fatto prima del matrimonio: il passato è come il vulcano, attenzione a non svegliarlo!
La parola Bàgia mi si è radicata nella memoria e ho provato a scoprirne il significato. Ho chiesto ad alcuni clienti arabi che frequentano l’agenzia, ma non sono riuscita a svelare il mistero.
No. Io dico che non c’è alcun nesso tra l’uccisione di Lorenzo e la scomparsa di Amedeo.
Sono sicura che Amedeo è innocente. Non esiste un solo motivo che possa averlo indotto a commettere quest’atto orribile. Il Gladiatore non era una persona amata dagli inquilini del palazzo, questo si sa. Ha fatto del male a tutti senza chiedere scusa a nessuno. Non è giusto colpire Amedeo in questo modo. Chiedete di Amedeo alla gente di piazza Vittorio, vedrete quanto era amato da tutti. Non ha esitato ad aiutare chi ne aveva bisogno senza aspettarsi nessuna ricompensa.
È riuscito, ad esempio, a convincere i bengalesi a mandare le mogli a scuola. Amedeo ha compiuto con successo una difficile missione.
La scuola per queste donne è un’occasione per incontrarsi, per parlare, per uscire dalle quattro mura. Anzi, è un vero e proprio pretesto per abbandonare la prigione. Molte donne soffrono di una grande solitudine lontane da casa, nell’estraneità, eppure preferiscono rimanere in Italia perché il biglietto è troppo caro e non possono permetterselo. Tanti bengalesi tornano nel loro paese d’origine una volta ogni cinque anni o anche più raramente. Parlare è utile per sfogare la tristezza, l’angoscia, la nostalgia e l’assenza dei cari. Gli uomini sono terribilmente chiusi, vivono come fossero a Daka, mangiano riso e indossano vestiti bengalesi e vedono film in video. Spesso mi chiedo: vivono veramente a Roma?
Non so dove sia adesso, temo gli sia accaduto qualcosa. Lo cerco ancora dappertutto, spero che stia bene. Sono tanti gli interrogativi intorno alla scomparsa di Amedeo per questa orribile accusa di omicidio. Ma io sono ottimista e convinta della sua innocenza. Lo difenderò senza tregua e fino alla fine!
Nono ululato
Domenica 4 giugno, ore 22.33.
Sono come un neonato, ho bisogno del latte tutti i giorni. L’italiano è il mio latte quotidiano. Stefania è la vita, e cioè il presente e il futuro. Amo Stefania perché è legata fortemente alla vita, adoro la sua memoria priva di incubi.
Voglio che mi contagi vita, amore, futuro e un felice ululato. Auuuuuuuuu… *
Lunedì 17 novembre, ore 23.57.
Tanta gente considera il proprio lavoro come una punizione quotidiana. Io, invece, amo il mio lavoro di traduttore. La traduzione è un viaggio per mare da una riva all’altra. Qualche volta mi considero un contrabbandiere: attraverso le frontiere della lingua con un bottino di parole, idee, immagini e metafore.
*
Mercoledì 29 settembre, ore 23.09.
Povera Stefania, è preoccupata per me, crede che soffra di dolori allo stomaco. Il problema è che lo stomaco della mia memoria non ha digerito bene tutto quello che ho ingoiato prima di venire a Roma. La memoria è proprio come lo stomaco. Ogni tanto mi costringe al vomito. Io vomito i ricordi del sangue ininterrottamente. Soffro di un’ulcera alla memoria. C’è un rimedio? Sì: l’ululato! Auuuuuuuuuu… *
Domenica 9 marzo, ore 23.17.
Ho finito oggi di leggere il romanzo di Amin Maalouf, Leone l’Africano. Ho riletto più volte questo passaggio finché non l’ho imparato a memoria: “Io, Hassan, figlio di Mohamed il pesatore, io, Giovanni Leone de’ Medici, circonciso per mano di un barbiere e battezzato per mano di un Papa, vengo oggi chiamato l’Africano, ma non sono africano, né europeo, né arabo… Sono figlio della strada, la mia patria è la carovana, la mia vita la più imprevedibile delle traversate“. E meraviglioso potersi liberare dalle catene dell’identità che ci portano alla rovina. Chi sono io? Chi sei?
Chi sono? Sono domande inutili e stupide.
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Giovedì 18 novembre, ore 22.51.
Stefania è molto contenta di aver iniziato a insegnare italiano alle donne bengalesi. Ieri mi ha detto: «Presto fonderemo la prima associazione femminista bengalese in Italia!». Le ho detto che i patti non erano questi. Ha riso, aggiungendo: «Non ti ricordi le parole di Louis Aragon: “La femme est le futur de l’homme”?».
Gli ho risposto: «Presto mi farò chiamare come le fou d’Elsa: il matto di Stefania». Amo Stefania perché è il mio futuro.
*
Giovedì 2 febbraio, ore 23.13.
Oggi ho iniziato a leggere gli aforismi di Emil Cioran. Sono rimasto colpito da questo: “Non abitiamo un paese ma una lingua”. La lingua italiana è la mia nuova dimora? Auuuuuu… *
Sabato 24 ottobre, ore 22.45.
Stefania non si stanca mai di vedere Lo sceicco, il film con Rodolfo Valentino. L’ho vista piangere qualche volta per la commozione.
Forse si è ricordata di suo padre morto in un pozzo di petrolio in Libia qualche anno fa.
Suo padre era un esperto ricercatore di petrolio. Stefania crede che la parola esperto sia stata la sua maledizione. Mi dice sempre che il Sahara non ha pietà per chi non gli dimostra rispetto.
*
Giovedì 24 giugno, ore 22.57.
Il maledetto incubo mi perseguita. Stefania mi ha detto questa mattina che ho gridato durante il sonno e che ho ripetuto molte volte il nome Bàgia. Non ho voluto rivelarle i dettagli.
E’ inutile farla partecipare al gioco degli incubi.
La mia memoria è ferita e sanguina, devo curare le ferite del passato in solitudine. Peccato, Bàgia si fa viva solo negli incubi avvolta in un lenzuolo macchiato di sangue. Oh, mia ferita aperta che non guarirai mai! Non ho consolazione al di fuori dell’ululato. Auuuuuu….
*
Domenica 30 marzo, ore 23.48.
Stamattina ho riletto il romanzo Il invenzione del deserto dello scrittore algerino Tahar Djaout. Mi sono soffermato a lungo su questa frase: “La gente felice non ha né età né memoria, non ha bisogno del passato“. Ululerò il resto della notte alla ricerca della consolazione: Auuuuuu…
La verità di Abdallah Ben Kadour
Perché si è fatto chiamare Amedeo? È questa la domanda che mi lascia molto perplesso. Il suo vero nome è Ahmed, un nome preziosissimo perché è uno di quelli del profeta Maometto e viene menzionato sia nel Corano che nel Vangelo. Francamente non apprezzo molto chi cambia il suo nome o rinnega le sue origini: ad esempio so che il mio nome è Abdallah, e so molto bene che è un nome difficile da pronunciare per gli italiani nonostante abbia giurato di non cambiarlo finché sono vivo. Non voglio disobbedire a mio padre, che mi ha dato questo nome, né a Dio, che ci ha vietato di disobbedire ai genitori.
Cambiare nome è un peccato capitale come l’omicidio, l’adulterio, la falsa testimonianza, come derubare gli orfani. Molti italiani che conosco hanno provato a convincermi a cambiare nome e mi hanno proposto una serie di nomi italiani come Alessandro, Francesco, Massimiliano, Guido, Mario, Luca, Pietro e altri ancora, però ho rifiutato decisamente. Il problema non finisce qui. Alcuni hanno usato un trucco molto diffuso a Roma che consiste nell’eliminare la prima parte del nome o la seconda parte. Così ho sentito che mi chiamavano Abd, cioè schiavo, o Allah! Ho chiesto perdono a Dio perché perdona tutti i peccati tranne il politeismo. Ho cercato di mantenere i nervi saldi spiegando loro che tutti gli uomini, compresi i profeti e i messaggeri di Dio, sono suoi servi, e che perciò il mio nome non ha niente a che fare con la schiavitù diffusa ai tempi di Kunta Kinte. Così mi sono ritrovato stretto tra due fuochi: o cadere nella trappola del politeismo ogni volta che qualcuno mi avesse chiamato Allah o sopportare le offese di tutti coloro che mi avessero chiamato Abd. Alla fine ho trovato una via d’uscita da questa impasse grazie al mio amico egiziano Metwali, che mi ha consigliato di fare una piccola modifica al nome.
Mi ha detto che gli egiziani hanno l’abitudine di dare il nome di Abdu a tutti coloro che portano un nome che inizia per Abd: Abdrahman, Abdalkarim, Abdkader, Abdrahim, Abdjabar, Abdhakim, Abdsabour, Abdaraouf. Ho accettato perché questa soluzione mi evitava i problemi di cui ho parlato fino a ora. Purtroppo c’è chi si fa chiamare con nomi e cognomi intrisi di politeismo. Prendiamo l’esempio di Iqbal il bengalese. Gli ho detto più volte che il suo cognome, Amir Allah, è politeista. Se avesse una conoscenza dell’arabo, avrebbe capito che non c’è differenza tra Amir Allah e Amir superiore ad Allah. Che Dio ci salvi da Satana!
Non cambierò pelle, né religione, né il mio paese, né il mio nome per nessuna ragione.
Sono fiero di me stesso, diversamente da quegli immigrati che cambiano i loro nomi per far piacere agli italiani. Prendiamo l’esempio del tunisino che lavora al ristorante “Luna” alla stazione Termini. Il suo vero nome è Mohsen, però si è fatto chiamare o l’hanno chiamato Massimiliano. Dio ha detto nel Corano: “Gli ebrei e i cristiani non ti accetteranno finché non seguirai la loro religione“. Dio il grande ha ragione. Non sopporto quelli che rinnegano le loro origini.
Conoscete la storia del somaro al quale chiedono chi sia il padre e che risponde: «Il cavallo è mio zio»? Sapete di quel corvo che voleva imitare il modo di camminare della colomba e dopo vari tentativi inutili ha deciso di riprendere il suo modo naturale, e a quel punto scopre che non se lo ricorda più?
Amedeo è del mio quartiere. Lo conosco molto bene come conosco tutta la sua famiglia.
Suo fratello minore era uno dei miei più cari amici, compagno di scuola e di giochi. Ahmed era una persona amata e stimata nel quartiere.
Non ricordo che abbia mai litigato nonostante le frequenti risse tra le bande giovanili, un fenomeno molto diffuso nei quartieri di Algeri.
La disgrazia di Ahmed è iniziata quando è morta la sua fidanzata Bàgia, la figlia dei vicini.
Ahmed l’amava fin da piccolo, voleva sposarla, ma purtroppo le cose sono andate in modo diverso. Bàgia, che in arabo significa gioia, è un nome femminile e così viene chiamata Algeri.
Un giorno Bàgia era andata a trovare sua sorella a Boufarik, non lontano da Algeri, e mentre tornava in pullman i terroristi hanno organizzato un finto posto di blocco facendosi passare per poliziotti e hanno sgozzato tutti i viaggiatori tranne le ragazze. Bàgia ha provato a fuggire dai criminali e a salvarsi dallo stupro, così le hanno sparato una raffica di mitra.
Ahmed non ha saputo accettare quella tragedia. E’ rimasto chiuso in casa per giorni, poi è scomparso. Nel quartiere giravano diverse ipotesi: c’era chi sosteneva si fosse arruolato nell’esercito in cerca di vendetta contro i fondamentalisti armati, chi sosteneva che avesse raggiunto i combattenti armati sulle montagne come segno di rifiuto e di condanna verso lo stato, chi affermava si fosse isolato entrando in una setta sufi nel Sahara e vivendo come i tuareg, e infine qualcuno ha detto che Ahmed era impazzito e vagava senza meta nudo nelle strade. Un vicino di casa ha persino assicurato ai suoi familiari di aver riconosciuto Ahmed alla stazione ferroviaria di Annaba, all’est del paese, mentre aspettava un treno diretto in Tunisia. Non ho mai capito perché la sua famiglia non si sia rivolta a una trasmissione televisiva molto nota, tutto è possibile, che cerca le persone scomparse. Un giorno ho chiesto a sua madre, zia Fatma Zohra, notizie di Ahmed, e lei mi ha risposto secca: «E fuori». La parola fuori ha mille significati: fuori dalla ragione, o fuori da Algeri, fuori legge, fuori dalla carità dei genitori, fuori dalla grazia di Dio. Ho preferito non insistere e lasciare il pozzo con il coperchio, come dice un nostro proverbio popolare.
Poi un giorno l’ho visto al mercato di piazza Vittorio dove vendo il pesce. L’ho chiamato: «Ahmed! Ahmed!». Ma non mi ha risposto. Mi è sembrato facesse finta di non riconoscermi.
Alla fine mi ha salutato, ma freddamente. Era in compagnia di una donna italiana, ho saputo solo dopo che era sua moglie. Ci siamo incontrati più volte al bar Dandini. Non era entusiasta di sapere le ultime notizie sull’Algeria, così ho deciso di evitare di parlargli di argomenti che riguardavano il nostro paese per non infastidirlo. Non ho osato nemmeno consigliargli di abbandonare il nome Amedeo e di tornare al suo nome di origine Ahmed, che è il nome del Profeta, la pace sia su di lui. Si dice che tornare all’origine sia una virtù!
Ahmed o Amedeo – come lo chiamate voi lavorava alla Corte suprema di Algeri come traduttore dal francese all’arabo. Aveva comprato un appartamento a Bab Azouar per andarci a vivere con Bàgia dopo il matrimonio, ma il destino gli ha riservato un’altra vita. Come vedete la storia di Ahmed Salmi è semplice, non è poi così complicata. La verità è un’altra, non è quella a cui avete creduto fino a ora. Non ci sono segreti particolari, vicende contorte nella sua vita precedente vissuta prima di stabilirsi a Roma.
Vendo il pesce da anni, e non trovo differenza tra la vita dei pesci e quella degli immigrati. Conosco un proverbio che gli italiani ripetono molto spesso: “L’ospite è come il pesce, dopo tre giorni puzza“. L’immigrato è un ospite né più né meno, e come il pesce si mangia fresco e poi si butta nella spazzatura quando perde il suo colore. Gli immigrati si dividono in due tipi: c’è il tipo fresco, che viene sfruttato in modo disumano nelle fabbriche del nord o nei terreni agricoli del sud, e c’è il tipo congelato, che riempie i frigoriferi e si consuma solo nei momenti d’emergenza. Sapete come Gianfranco, il proprietario del negozio dove lavoro, chiama le ragazze dell’Europa dell’est che vendono i loro corpi per pochi soldi? Pesce fresco!
Gianfranco ha superato i sessant’anni, è sposato e ha quattro figli più grandi di me. Il suo hobby preferito è girare in macchina la sera sull’Appia Antica in cerca di ragazze nigeriane o dell’Europa dell’est, che hanno al massimo vent’anni e spesso molto meno. Così passa un’ora tranquilla con il pesce fresco – così chiama la ragazza di turno – prima di tornare fra le braccia della moglie, che prende in giro con gli amici chiamandola pesce congelato e che richiede sempre un po’ di tempo per scongelarsi e riscaldarsi prima di essere consumata.
Gianfranco o il Porco – come lo chiamano gli amici - ha l’abitudine di sedersi tutti i giorni in loro compagnia sulla soglia del negozio e di fronte allo sguardo stupito dei clienti racconta nei dettagli le avventure della sera precedente. Molto spesso lo accompagnano grasse risate, seguite da commenti osceni del tipo: «Gianfranco, sei un porco! Gianfranco, sei un porcone!». E il disgraziato non si infastidisce dell’appellativo odioso, perché il porco è il simbolo della virilità in Italia. Anzi, ne va fiero!
Non ho cambiato argomento, parlo ancora di Ahmed. Se sentissi qualcuno chiamarmi Porco gli taglierei la lingua, perché il porco o Hallouf – come lo chiamiamo da noi – è odioso e non ha niente a che fare con la virilità e la mascolinità. Anzi, costituisce il peggior insulto. Il porco è un animale sporco, vive nelle immondizie. Non capisco come mai non è scoppiata ancora la malattia del porco pazzo? Perché questa pericolosa malattia ha colpito solamente la mucca? Questa questione mi lascia perplesso.
A Roma c’è la Stazione Termini. Termini vuol dire che il viaggio è finito. Questa città ha qualcosa di strano. E’ molto difficile andarsene.
Forse l’acqua delle sue fontane si è mescolata con una sostanza particolare che ha origini stregonesche.
Avete visto la differenza tra noi e loro?
Ahmed non ha colto bene le differenze sostanziali tra la nostra religione e quella di Gianfranco.
Ricordo ancora le paure che mi hanno assalito quando ho sentito la gente chiamarlo Amedeo.
Ho temuto che avesse rinnegato l’Islam. Non ho esitato un istante, gli ho chiesto con angoscia e inquietudine: «Ahmed, ti sei convertito al cristianesimo?», e lui mi ha risposto in modo sereno: «No». A quel punto ho tirato un bel respiro e a voce alta: «Sia lode a Dio! Sia lode a Dio!». Le mie paure erano legittime perché di solito chi abbraccia una nuova religione cambia nome, come ha fatto il famoso cantante inglese Cat Stevens che si è fatto chiamare Yousef Islam subito dopo la conversione.
Non vedete cosa dicono i giornali su Ahmed? Quando hanno scoperto che è immigrato e non un italiano non hanno esitato ad accusarlo di omicidio. Certo, Ahmed ha sbagliato a nuotare fuori dal suo bacino naturale. La sua scomparsa ricorda così tanto quella che anni fa seminò sgomento fra i ragazzi del nostro quartiere. Oggi come allora la domanda è sempre la stessa: che fine ha fatto Ahmed o Amedeo – come lo chiamate voi?
La verità di Abdallah Ben Kadour
Perché si è fatto chiamare Amedeo? È questa la domanda che mi lascia molto perplesso. Il suo vero nome è Ahmed, un nome preziosissimo perché è uno di quelli del profeta Maometto e viene menzionato sia nel Corano che nel Vangelo. Francamente non apprezzo molto chi cambia il suo nome o rinnega le sue origini: ad esempio so che il mio nome è Abdallah, e so molto bene che è un nome difficile da pronunciare per gli italiani nonostante abbia giurato di non cambiarlo finché sono vivo. Non voglio disobbedire a mio padre, che mi ha dato questo nome, né a Dio, che ci ha vietato di disobbedire ai genitori.
Cambiare nome è un peccato capitale come l’omicidio, l’adulterio, la falsa testimonianza, come derubare gli orfani. Molti italiani che conosco hanno provato a convincermi a cambiare nome e mi hanno proposto una serie di nomi italiani come Alessandro, Francesco, Massimiliano, Guido, Mario, Luca, Pietro e altri ancora, però ho rifiutato decisamente. Il problema non finisce qui. Alcuni hanno usato un trucco molto diffuso a Roma che consiste nell’eliminare la prima parte del nome o la seconda parte. Così ho sentito che mi chiamavano Abd, cioè schiavo, o Allah! Ho chiesto perdono a Dio perché perdona tutti i peccati tranne il politeismo. Ho cercato di mantenere i nervi saldi spiegando loro che tutti gli uomini, compresi i profeti e i messaggeri di Dio, sono suoi servi, e che perciò il mio nome non ha niente a che fare con la schiavitù diffusa ai tempi di Kunta Kinte. Così mi sono ritrovato stretto tra due fuochi: o cadere nella trappola del politeismo ogni volta che qualcuno mi avesse chiamato Allah o sopportare le offese di tutti coloro che mi avessero chiamato Abd. Alla fine ho trovato una via d’uscita da questa impasse grazie al mio amico egiziano Metwali, che mi ha consigliato di fare una piccola modifica al nome.
Mi ha detto che gli egiziani hanno l’abitudine di dare il nome di Abdu a tutti coloro che portano un nome che inizia per Abd: Abdrahman, Abdalkarim, Abdkader, Abdrahim, Abdjabar, Abdhakim, Abdsabour, Abdaraouf. Ho accettato perché questa soluzione mi evitava i problemi di cui ho parlato fino a ora. Purtroppo c’è chi si fa chiamare con nomi e cognomi intrisi di politeismo. Prendiamo l’esempio di Iqbal il bengalese. Gli ho detto più volte che il suo cognome, Amir Allah, è politeista. Se avesse una conoscenza dell’arabo, avrebbe capito che non c’è differenza tra Amir Allah e Amir superiore ad Allah. Che Dio ci salvi da Satana!
Non cambierò pelle, né religione, né il mio paese, né il mio nome per nessuna ragione.
Sono fiero di me stesso, diversamente da quegli immigrati che cambiano i loro nomi per far piacere agli italiani. Prendiamo l’esempio del tunisino che lavora al ristorante “Luna” alla stazione Termini. Il suo vero nome è Mohsen, però si è fatto chiamare o l’hanno chiamato Massimiliano. Dio ha detto nel Corano: “Gli ebrei e i cristiani non ti accetteranno finché non seguirai la loro religione“. Dio il grande ha ragione. Non sopporto quelli che rinnegano le loro origini.
Conoscete la storia del somaro al quale chiedono chi sia il padre e che risponde: «Il cavallo è mio zio»? Sapete di quel corvo che voleva imitare il modo di camminare della colomba e dopo vari tentativi inutili ha deciso di riprendere il suo modo naturale, e a quel punto scopre che non se lo ricorda più?
Amedeo è del mio quartiere. Lo conosco molto bene come conosco tutta la sua famiglia.
Suo fratello minore era uno dei miei più cari amici, compagno di scuola e di giochi. Ahmed era una persona amata e stimata nel quartiere.
Non ricordo che abbia mai litigato nonostante le frequenti risse tra le bande giovanili, un fenomeno molto diffuso nei quartieri di Algeri.
La disgrazia di Ahmed è iniziata quando è morta la sua fidanzata Bàgia, la figlia dei vicini.
Ahmed l’amava fin da piccolo, voleva sposarla, ma purtroppo le cose sono andate in modo diverso. Bàgia, che in arabo significa gioia, è un nome femminile e così viene chiamata Algeri.
Un giorno Bàgia era andata a trovare sua sorella a Boufarik, non lontano da Algeri, e mentre tornava in pullman i terroristi hanno organizzato un finto posto di blocco facendosi passare per poliziotti e hanno sgozzato tutti i viaggiatori tranne le ragazze. Bàgia ha provato a fuggire dai criminali e a salvarsi dallo stupro, così le hanno sparato una raffica di mitra.
Ahmed non ha saputo accettare quella tragedia. E’ rimasto chiuso in casa per giorni, poi è scomparso. Nel quartiere giravano diverse ipotesi: c’era chi sosteneva si fosse arruolato nell’esercito in cerca di vendetta contro i fondamentalisti armati, chi sosteneva che avesse raggiunto i combattenti armati sulle montagne come segno di rifiuto e di condanna verso lo stato, chi affermava si fosse isolato entrando in una setta sufi nel Sahara e vivendo come i tuareg, e infine qualcuno ha detto che Ahmed era impazzito e vagava senza meta nudo nelle strade. Un vicino di casa ha persino assicurato ai suoi familiari di aver riconosciuto Ahmed alla stazione ferroviaria di Annaba, all’est del paese, mentre aspettava un treno diretto in Tunisia. Non ho mai capito perché la sua famiglia non si sia rivolta a una trasmissione televisiva molto nota, tutto è possibile, che cerca le persone scomparse. Un giorno ho chiesto a sua madre, zia Fatma Zohra, notizie di Ahmed, e lei mi ha risposto secca: «E fuori». La parola fuori ha mille significati: fuori dalla ragione, o fuori da Algeri, fuori legge, fuori dalla carità dei genitori, fuori dalla grazia di Dio. Ho preferito non insistere e lasciare il pozzo con il coperchio, come dice un nostro proverbio popolare.
Poi un giorno l’ho visto al mercato di piazza Vittorio dove vendo il pesce. L’ho chiamato: «Ahmed! Ahmed!». Ma non mi ha risposto. Mi è sembrato facesse finta di non riconoscermi.
Alla fine mi ha salutato, ma freddamente. Era in compagnia di una donna italiana, ho saputo solo dopo che era sua moglie. Ci siamo incontrati più volte al bar Dandini. Non era entusiasta di sapere le ultime notizie sull’Algeria, così ho deciso di evitare di parlargli di argomenti che riguardavano il nostro paese per non infastidirlo. Non ho osato nemmeno consigliargli di abbandonare il nome Amedeo e di tornare al suo nome di origine Ahmed, che è il nome del Profeta, la pace sia su di lui. Si dice che tornare all’origine sia una virtù!
Ahmed o Amedeo – come lo chiamate voi lavorava alla Corte suprema di Algeri come traduttore dal francese all’arabo. Aveva comprato un appartamento a Bab Azouar per andarci a vivere con Bàgia dopo il matrimonio, ma il destino gli ha riservato un’altra vita. Come vedete la storia di Ahmed Salmi è semplice, non è poi così complicata. La verità è un’altra, non è quella a cui avete creduto fino a ora. Non ci sono segreti particolari, vicende contorte nella sua vita precedente vissuta prima di stabilirsi a Roma.
Vendo il pesce da anni, e non trovo differenza tra la vita dei pesci e quella degli immigrati. Conosco un proverbio che gli italiani ripetono molto spesso: “L’ospite è come il pesce, dopo tre giorni puzza“. L’immigrato è un ospite né più né meno, e come il pesce si mangia fresco e poi si butta nella spazzatura quando perde il suo colore. Gli immigrati si dividono in due tipi: c’è il tipo fresco, che viene sfruttato in modo disumano nelle fabbriche del nord o nei terreni agricoli del sud, e c’è il tipo congelato, che riempie i frigoriferi e si consuma solo nei momenti d’emergenza. Sapete come Gianfranco, il proprietario del negozio dove lavoro, chiama le ragazze dell’Europa dell’est che vendono i loro corpi per pochi soldi? Pesce fresco!
Gianfranco ha superato i sessant’anni, è sposato e ha quattro figli più grandi di me. Il suo hobby preferito è girare in macchina la sera sull’Appia Antica in cerca di ragazze nigeriane o dell’Europa dell’est, che hanno al massimo vent’anni e spesso molto meno. Così passa un’ora tranquilla con il pesce fresco – così chiama la ragazza di turno – prima di tornare fra le braccia della moglie, che prende in giro con gli amici chiamandola pesce congelato e che richiede sempre un po’ di tempo per scongelarsi e riscaldarsi prima di essere consumata.
Gianfranco o il Porco – come lo chiamano gli amici - ha l’abitudine di sedersi tutti i giorni in loro compagnia sulla soglia del negozio e di fronte allo sguardo stupito dei clienti racconta nei dettagli le avventure della sera precedente. Molto spesso lo accompagnano grasse risate, seguite da commenti osceni del tipo: «Gianfranco, sei un porco! Gianfranco, sei un porcone!». E il disgraziato non si infastidisce dell’appellativo odioso, perché il porco è il simbolo della virilità in Italia. Anzi, ne va fiero!
Non ho cambiato argomento, parlo ancora di Ahmed. Se sentissi qualcuno chiamarmi Porco gli taglierei la lingua, perché il porco o Hallouf – come lo chiamiamo da noi – è odioso e non ha niente a che fare con la virilità e la mascolinità. Anzi, costituisce il peggior insulto. Il porco è un animale sporco, vive nelle immondizie. Non capisco come mai non è scoppiata ancora la malattia del porco pazzo? Perché questa pericolosa malattia ha colpito solamente la mucca? Questa questione mi lascia perplesso.
A Roma c’è la Stazione Termini. Termini vuol dire che il viaggio è finito. Questa città ha qualcosa di strano. E’ molto difficile andarsene.
Forse l’acqua delle sue fontane si è mescolata con una sostanza particolare che ha origini stregonesche.
Avete visto la differenza tra noi e loro?
Ahmed non ha colto bene le differenze sostanziali tra la nostra religione e quella di Gianfranco.
Ricordo ancora le paure che mi hanno assalito quando ho sentito la gente chiamarlo Amedeo.
Ho temuto che avesse rinnegato l’Islam. Non ho esitato un istante, gli ho chiesto con angoscia e inquietudine: «Ahmed, ti sei convertito al cristianesimo?», e lui mi ha risposto in modo sereno: «No». A quel punto ho tirato un bel respiro e a voce alta: «Sia lode a Dio! Sia lode a Dio!». Le mie paure erano legittime perché di solito chi abbraccia una nuova religione cambia nome, come ha fatto il famoso cantante inglese Cat Stevens che si è fatto chiamare Yousef Islam subito dopo la conversione.
Non vedete cosa dicono i giornali su Ahmed? Quando hanno scoperto che è immigrato e non un italiano non hanno esitato ad accusarlo di omicidio. Certo, Ahmed ha sbagliato a nuotare fuori dal suo bacino naturale. La sua scomparsa ricorda così tanto quella che anni fa seminò sgomento fra i ragazzi del nostro quartiere. Oggi come allora la domanda è sempre la stessa: che fine ha fatto Ahmed o Amedeo – come lo chiamate voi?
La verità di Abdallah Ben Kadour
Perché si è fatto chiamare Amedeo? È questa la domanda che mi lascia molto perplesso. Il suo vero nome è Ahmed, un nome preziosissimo perché è uno di quelli del profeta Maometto e viene menzionato sia nel Corano che nel Vangelo. Francamente non apprezzo molto chi cambia il suo nome o rinnega le sue origini: ad esempio so che il mio nome è Abdallah, e so molto bene che è un nome difficile da pronunciare per gli italiani nonostante abbia giurato di non cambiarlo finché sono vivo. Non voglio disobbedire a mio padre, che mi ha dato questo nome, né a Dio, che ci ha vietato di disobbedire ai genitori.
Cambiare nome è un peccato capitale come l’omicidio, l’adulterio, la falsa testimonianza, come derubare gli orfani. Molti italiani che conosco hanno provato a convincermi a cambiare nome e mi hanno proposto una serie di nomi italiani come Alessandro, Francesco, Massimiliano, Guido, Mario, Luca, Pietro e altri ancora, però ho rifiutato decisamente. Il problema non finisce qui. Alcuni hanno usato un trucco molto diffuso a Roma che consiste nell’eliminare la prima parte del nome o la seconda parte. Così ho sentito che mi chiamavano Abd, cioè schiavo, o Allah! Ho chiesto perdono a Dio perché perdona tutti i peccati tranne il politeismo. Ho cercato di mantenere i nervi saldi spiegando loro che tutti gli uomini, compresi i profeti e i messaggeri di Dio, sono suoi servi, e che perciò il mio nome non ha niente a che fare con la schiavitù diffusa ai tempi di Kunta Kinte. Così mi sono ritrovato stretto tra due fuochi: o cadere nella trappola del politeismo ogni volta che qualcuno mi avesse chiamato Allah o sopportare le offese di tutti coloro che mi avessero chiamato Abd. Alla fine ho trovato una via d’uscita da questa impasse grazie al mio amico egiziano Metwali, che mi ha consigliato di fare una piccola modifica al nome.
Mi ha detto che gli egiziani hanno l’abitudine di dare il nome di Abdu a tutti coloro che portano un nome che inizia per Abd: Abdrahman, Abdalkarim, Abdkader, Abdrahim, Abdjabar, Abdhakim, Abdsabour, Abdaraouf. Ho accettato perché questa soluzione mi evitava i problemi di cui ho parlato fino a ora. Purtroppo c’è chi si fa chiamare con nomi e cognomi intrisi di politeismo. Prendiamo l’esempio di Iqbal il bengalese. Gli ho detto più volte che il suo cognome, Amir Allah, è politeista. Se avesse una conoscenza dell’arabo, avrebbe capito che non c’è differenza tra Amir Allah e Amir superiore ad Allah. Che Dio ci salvi da Satana!
Non cambierò pelle, né religione, né il mio paese, né il mio nome per nessuna ragione.
Sono fiero di me stesso, diversamente da quegli immigrati che cambiano i loro nomi per far piacere agli italiani. Prendiamo l’esempio del tunisino che lavora al ristorante “Luna” alla stazione Termini. Il suo vero nome è Mohsen, però si è fatto chiamare o l’hanno chiamato Massimiliano. Dio ha detto nel Corano: “Gli ebrei e i cristiani non ti accetteranno finché non seguirai la loro religione“. Dio il grande ha ragione. Non sopporto quelli che rinnegano le loro origini.
Conoscete la storia del somaro al quale chiedono chi sia il padre e che risponde: «Il cavallo è mio zio»? Sapete di quel corvo che voleva imitare il modo di camminare della colomba e dopo vari tentativi inutili ha deciso di riprendere il suo modo naturale, e a quel punto scopre che non se lo ricorda più?
Amedeo è del mio quartiere. Lo conosco molto bene come conosco tutta la sua famiglia.
Suo fratello minore era uno dei miei più cari amici, compagno di scuola e di giochi. Ahmed era una persona amata e stimata nel quartiere.
Non ricordo che abbia mai litigato nonostante le frequenti risse tra le bande giovanili, un fenomeno molto diffuso nei quartieri di Algeri.
La disgrazia di Ahmed è iniziata quando è morta la sua fidanzata Bàgia, la figlia dei vicini.
Ahmed l’amava fin da piccolo, voleva sposarla, ma purtroppo le cose sono andate in modo diverso. Bàgia, che in arabo significa gioia, è un nome femminile e così viene chiamata Algeri.
Un giorno Bàgia era andata a trovare sua sorella a Boufarik, non lontano da Algeri, e mentre tornava in pullman i terroristi hanno organizzato un finto posto di blocco facendosi passare per poliziotti e hanno sgozzato tutti i viaggiatori tranne le ragazze. Bàgia ha provato a fuggire dai criminali e a salvarsi dallo stupro, così le hanno sparato una raffica di mitra.
Ahmed non ha saputo accettare quella tragedia. E’ rimasto chiuso in casa per giorni, poi è scomparso. Nel quartiere giravano diverse ipotesi: c’era chi sosteneva si fosse arruolato nell’esercito in cerca di vendetta contro i fondamentalisti armati, chi sosteneva che avesse raggiunto i combattenti armati sulle montagne come segno di rifiuto e di condanna verso lo stato, chi affermava si fosse isolato entrando in una setta sufi nel Sahara e vivendo come i tuareg, e infine qualcuno ha detto che Ahmed era impazzito e vagava senza meta nudo nelle strade. Un vicino di casa ha persino assicurato ai suoi familiari di aver riconosciuto Ahmed alla stazione ferroviaria di Annaba, all’est del paese, mentre aspettava un treno diretto in Tunisia. Non ho mai capito perché la sua famiglia non si sia rivolta a una trasmissione televisiva molto nota, tutto è possibile, che cerca le persone scomparse. Un giorno ho chiesto a sua madre, zia Fatma Zohra, notizie di Ahmed, e lei mi ha risposto secca: «E fuori». La parola fuori ha mille significati: fuori dalla ragione, o fuori da Algeri, fuori legge, fuori dalla carità dei genitori, fuori dalla grazia di Dio. Ho preferito non insistere e lasciare il pozzo con il coperchio, come dice un nostro proverbio popolare.
Poi un giorno l’ho visto al mercato di piazza Vittorio dove vendo il pesce. L’ho chiamato: «Ahmed! Ahmed!». Ma non mi ha risposto. Mi è sembrato facesse finta di non riconoscermi.
Alla fine mi ha salutato, ma freddamente. Era in compagnia di una donna italiana, ho saputo solo dopo che era sua moglie. Ci siamo incontrati più volte al bar Dandini. Non era entusiasta di sapere le ultime notizie sull’Algeria, così ho deciso di evitare di parlargli di argomenti che riguardavano il nostro paese per non infastidirlo. Non ho osato nemmeno consigliargli di abbandonare il nome Amedeo e di tornare al suo nome di origine Ahmed, che è il nome del Profeta, la pace sia su di lui. Si dice che tornare all’origine sia una virtù!
Ahmed o Amedeo – come lo chiamate voi lavorava alla Corte suprema di Algeri come traduttore dal francese all’arabo. Aveva comprato un appartamento a Bab Azouar per andarci a vivere con Bàgia dopo il matrimonio, ma il destino gli ha riservato un’altra vita. Come vedete la storia di Ahmed Salmi è semplice, non è poi così complicata. La verità è un’altra, non è quella a cui avete creduto fino a ora. Non ci sono segreti particolari, vicende contorte nella sua vita precedente vissuta prima di stabilirsi a Roma.
Vendo il pesce da anni, e non trovo differenza tra la vita dei pesci e quella degli immigrati. Conosco un proverbio che gli italiani ripetono molto spesso: “L’ospite è come il pesce, dopo tre giorni puzza“. L’immigrato è un ospite né più né meno, e come il pesce si mangia fresco e poi si butta nella spazzatura quando perde il suo colore. Gli immigrati si dividono in due tipi: c’è il tipo fresco, che viene sfruttato in modo disumano nelle fabbriche del nord o nei terreni agricoli del sud, e c’è il tipo congelato, che riempie i frigoriferi e si consuma solo nei momenti d’emergenza. Sapete come Gianfranco, il proprietario del negozio dove lavoro, chiama le ragazze dell’Europa dell’est che vendono i loro corpi per pochi soldi? Pesce fresco!
Gianfranco ha superato i sessant’anni, è sposato e ha quattro figli più grandi di me. Il suo hobby preferito è girare in macchina la sera sull’Appia Antica in cerca di ragazze nigeriane o dell’Europa dell’est, che hanno al massimo vent’anni e spesso molto meno. Così passa un’ora tranquilla con il pesce fresco – così chiama la ragazza di turno – prima di tornare fra le braccia della moglie, che prende in giro con gli amici chiamandola pesce congelato e che richiede sempre un po’ di tempo per scongelarsi e riscaldarsi prima di essere consumata.
Gianfranco o il Porco – come lo chiamano gli amici - ha l’abitudine di sedersi tutti i giorni in loro compagnia sulla soglia del negozio e di fronte allo sguardo stupito dei clienti racconta nei dettagli le avventure della sera precedente. Molto spesso lo accompagnano grasse risate, seguite da commenti osceni del tipo: «Gianfranco, sei un porco! Gianfranco, sei un porcone!». E il disgraziato non si infastidisce dell’appellativo odioso, perché il porco è il simbolo della virilità in Italia. Anzi, ne va fiero!
Non ho cambiato argomento, parlo ancora di Ahmed. Se sentissi qualcuno chiamarmi Porco gli taglierei la lingua, perché il porco o Hallouf – come lo chiamiamo da noi – è odioso e non ha niente a che fare con la virilità e la mascolinità. Anzi, costituisce il peggior insulto. Il porco è un animale sporco, vive nelle immondizie. Non capisco come mai non è scoppiata ancora la malattia del porco pazzo? Perché questa pericolosa malattia ha colpito solamente la mucca? Questa questione mi lascia perplesso.
A Roma c’è la Stazione Termini. Termini vuol dire che il viaggio è finito. Questa città ha qualcosa di strano. E’ molto difficile andarsene.
Forse l’acqua delle sue fontane si è mescolata con una sostanza particolare che ha origini stregonesche.
Avete visto la differenza tra noi e loro?
Ahmed non ha colto bene le differenze sostanziali tra la nostra religione e quella di Gianfranco.
Ricordo ancora le paure che mi hanno assalito quando ho sentito la gente chiamarlo Amedeo.
Ho temuto che avesse rinnegato l’Islam. Non ho esitato un istante, gli ho chiesto con angoscia e inquietudine: «Ahmed, ti sei convertito al cristianesimo?», e lui mi ha risposto in modo sereno: «No». A quel punto ho tirato un bel respiro e a voce alta: «Sia lode a Dio! Sia lode a Dio!». Le mie paure erano legittime perché di solito chi abbraccia una nuova religione cambia nome, come ha fatto il famoso cantante inglese Cat Stevens che si è fatto chiamare Yousef Islam subito dopo la conversione.
Non vedete cosa dicono i giornali su Ahmed? Quando hanno scoperto che è immigrato e non un italiano non hanno esitato ad accusarlo di omicidio. Certo, Ahmed ha sbagliato a nuotare fuori dal suo bacino naturale. La sua scomparsa ricorda così tanto quella che anni fa seminò sgomento fra i ragazzi del nostro quartiere. Oggi come allora la domanda è sempre la stessa: che fine ha fatto Ahmed o Amedeo – come lo chiamate voi?