giovedì 17 gennaio 2019


IL VINT

 Estratto da "Racconti"
Anton Čechov


In una brutta notte d'autunno, Andrej Stepanovič Peresolin tornava in carrozza da teatro. Durante il tragitto meditava sui vantaggi che potrebbe recare il teatro se si rappresentassero lavori di contenuto morale. Passando davanti agli uffici dell'Amministrazione Provinciale egli smise di pensare ai vantaggi e rivolse lo sguardo alle finestre della casa della quale, per esprimersi nella lingua dei poeti e dei marinai, egli teneva il timone. Due finestre, quelle della stanza di servizio, erano illuminate.
«Possibile che stiano ancora lavorando alla relazione?» pensò Peresolin. «Sono là in quattro, quegli imbecilli e non hanno ancora finito! Non sta mica bene, la gente magari può pensare che li faccio lavorare anche di notte. Andrò su a dirgli di fare in fretta... Ferma, Gurij!».
Peresolin scese dalla carrozza e s'incamminò verso l'edificio. La porta principale era chiusa, mentre l'entrata di servizio, munita di un unico chiavistello malandato, era spalancata. Peresolin si servì di quest'ultima e dopo qualche minuto si trovava già alla porta della stanza di servizio. La porta era socchiusa e Peresolin, gettando uno sguardo all'interno, vide qualcosa di veramente insolito. Davanti ad un tavolo ingombro di grandi fogli di contabilità, alla luce di due lampade, stavano seduti quattro impiegati che giocavano a carte. Assorti, immobili, coi volti resi verdognoli dai riflessi delle abat-jour, ricordavano gli gnomi delle favole o, Dio ce ne guardi, dei falsari... Il gioco, poi, conferiva loro un'aria di mistero anche maggiore. A giudicare dai gesti e dai termini di gioco che gridavano di tanto in tanto, si doveva trattare del vint; ma, a giudicare da tutto ciò che udiva Peresolin, quello non si poteva chiamare vint, e nemmeno un gioco di carte. Era qualcosa di inaudito, di strano e misterioso... Negli impiegati Peresolin riconobbe Serafim Zvizdulin, Stepan Kulakevič, Eremej Nedoechov e Ivan Pisulin.
«Ma che razza di uscita, diavolo,» si arrabbiò Zvizdulin, guardando esasperato il suo compagno di fronte, «ma si può uscire così? Avevo in mano Dorofeev, Šepelev con la moglie e Stepka Erlakov e tu esci con Kofejkin! Ecco, ora siamo sotto di due! Dovevi giocare Pogankin, testa di rapa!»
«Eh già, che cosa ci avremmo guadagnato?» si adirò il compagno. «Anche se giocavo Pogankin, Ivan Andreič aveva Peresolin in mano!»
«E perché tirano in ballo il mio nome?» si strinse nelle spalle Peresolin. «Non capisco.»
Pisulin distribuì di nuovo le carte e gli impiegati continuarono:
«Banca di Stato...»
«Due, intendenza di finanza...»
«Senza atout...»
«Senza atout? Uhm!... Due direzione provinciale, porca miseria! Tanto, perdere per perdere! L'altra volta, con l'istruzione pubblica sono andato sotto di una, stavolta con la direzione provinciale mi rovino. Me ne infischio!»
«Piccolo slam di istruzione pubblica!»
«Non capisco,» mormorò Peresolin.
«Io esco col consigliere di Stato... Vanja, gioca un consigliere titolare o provinciale.»
«E perché dobbiamo giocare un titolare? Possiamo prendere anche con Peresolin...»
«Ma noi al tuo Peresolin gli diamo nei denti... nei denti... Noi abbiamo Rybnikov. Andrete sotto tre! Tirate fuori la Peresolina! Non nascondetela nel risvolto della manica, quella canaglia!»
«Hanno tirato in ballo mia moglie,» pensò Peresolin. «Non capisco.»
E, non volendo restare più a lungo nell'incertezza, Peresolin aprì la porta ed entrò nella stanza di servizio. Se davanti agli impiegati fosse apparso il diavolo in corna e coda, non li avrebbe spaventati e sbalorditi come li spaventò e li sbalordì il loro superiore. Se fosse comparso dinanzi a loro l'usciere morto l'anno prima e avesse detto loro con voce sepolcrale: «Venite con me, angeli, nel luogo preparato per le canaglie,» soffiando loro sulle facce il freddo della tomba, non sarebbero impalliditi come impallidirono nel riconoscere Peresolin. A Nedoechov, per lo spavento, uscì persino il sangue dal naso e Kulakevič si sentì tamburellare l'orecchio destro e la cravatta gli si snodò da sola. Gli impiegati gettarono le carte, si alzarono lentamente e, sbirciandosi a vicenda, fissarono gli sguardi al suolo. Per un minuto nella stanza regnò il silenzio...
«La state ricopiando proprio bene la relazione!» cominciò Peresolin. «Ora capisco perché vi piace tanto occuparvi della relazione... Che cosa stavate facendo?»
«Noi... soltanto per un minutino, eccellenza,» balbettò Zvizdulin, «guardavamo le foto... ci riposavamo..»
Peresolin si avvicinò al tavolo e lentamente si strinse nelle spalle. Sul tavolo non c'erano carte da gioco, ma fotografie di formato normale, staccate dal cartone e incollate sopra carte da gioco. Le fotografie erano molte. Esaminandole, Peresolin riconobbe se stesso, sua moglie, molti dei suoi subalterni e conoscenti...
«Che assurdità! E come giocate?»
«Non l'abbiamo inventato noi, eccellenza, Dio ce ne scampi... Noi abbiamo soltanto seguito l'esempio...»
«Spiegami un po', Zvizdulin! Come giocavate? Ho visto tutto e ho sentito che Rybnikov mi batte... Be', che hai da dire, non ti mangio mica! Racconta!»
Zvizdulin rimase a lungo imbarazzato e spaurito. Finalmente, quando Peresolin incominciò ad arrabbiarsi, a sbuffare e a diventare rosso dall'impazienza, obbedì. Raccolte le fotografie e mescolatele, egli le dispose sul tavolo e cominciò a spiegare:
«Ogni ritratto, eccellenza, come ogni carta, ha un suo valore... un significato. Come nei mazzi normali, anche qui ci sono cinquantadue carte e quattro colori... I funzionari dell'Intendenza di Finanza sono i cuori, l'Amministrazione Provinciale i fiori, gli impiegati della Pubblica Istruzione i quadri, invece picche è la sezione della Banca di Stato... Ecco... i consiglieri di Stato effettivi sono gli assi, i consiglieri di Stato i re, le mogli dei funzionari di quarta e quinta categoria le regine, i consiglieri di collegio i fanti, i consiglieri di corte i dieci, e così via. Io per esempio, ecco la mia fotografia, sono un tre, poiché sono un segretario provinciale...»
«Guarda un po'! Io dunque sono un asso?»
«Di fiori, e la moglie di Vostra Eccellenza è una regina...»
«Hhm, è originale... Be', allora, giochiamo, voglio vedere...»
Peresolin si tolse il pastrano e, sorridendo incredulo, sedette al tavolo. Gli impiegati, per ordine suo, sedettero pure e il gioco incominciò...
Il custode Nazar, giunto alle sette del mattino per spazzare la stanza di servizio, rimase sbalordito. Il quadro che vide, entrando con lo spazzolone, era così stupefacente che egli se ne ricorda ancora oggi, persino quando, ubriaco fradicio, giace quasi senza conoscenza. Peresolin pallido, assonnato e spettinato, stava in piedi davanti a Nedoechov e, tenendolo per un bottone, diceva:
«Capisci dunque che non potevi uscire con Šepelev, sapendo che avevo in mano me stesso (l'asso) quarto. Zvizdulin aveva Rybnikov e sua moglie, tre professori di ginnasio e mia moglie. Nedoechov aveva i bancari e tre impiegati inferiori della Giunta Provinciale. Tu avresti dovuto uscire con Kryskin! Non badare se loro giocano Intendenza di Finanza! Sono dei furbacchioni!»
«Io, eccellenza, ho giocato un consigliere titolare perché pensavo che loro avessero un effettivo.»
«Ah, caro, ma come si fa a pensare così! Questo non è gioco! Così giocano soltanto i ciabattini! Ragiona un po'...! Quando Kulakevič è uscito con un consigliere di corte dell'amministrazione provinciale, tu avresti dovuto tirare Ivan Ivanovič Grenlandskij, perché sapevi che lui aveva Natal'ja Dmitrevna terza, con Egor Egoryč... Hai rovinato tutto! Adesso ti farò vedere io. Sedete, signori, facciamo ancora un'altra mano!» E, mandato via lo sbalordito Nazar, gli impiegati si sedettero e continuarono a giocare.