venerdì 25 gennaio 2019




ILGATTO IN NOI 
(Racconto integrale)

Quale sorpresa scoprire che William Burroughs, scrittore di saghe visionarie ha anche scritto uno dei più dolci e appassionati libro sui gatti.

" Noi siamo il gatto che è in noi. Siamo i gatti che non possono camminare da soli, e per noi c’è un posto soltanto"  

"...in parte umano in parte qualcos''altro..."

Se penso alla mia prima adolescenza, mi ricordo la sensazione di tante volte in cui tenevo accoccolata sul petto una qualche creatura. Un piccolo essere, della grandezza diciamo di un gatto. Non è un bambino e non è neppure un animale. Non esattamente. È in parte umano e in parte qualcos’altro.”

ILGATTO IN NOI
Titolo originale The Cat Inside
Traduzione di Giuseppe                 Bernardi
Prima edizione: febbraio 1994

4 maggio 1985. Sto preparando le cose da portarmi via per un breve viaggio a New York, dove devoandare a discutere con Brion del libro sul gatto. Nella stanza davanti, dove stanno gattini, Calico Jane ne sta allattando uno nero.Prendo il borsone. Mi sembra pesante. Guardo dentro e ci sono gli altri quattro suoi gattini.
«Abbi cura dei miei piccoli. Portateli dietro dovunque tu vada ».
Nel reparto Animali del supermarket Dillon’s, sto scegliendo tra i cibi per gatti e faccio conoscenza con una vecchia signora. Pare che i suoi gatti si rifiutino di mangiare qualsiasi cibo che contenga pesce. Pensi, le dico, che i miei sono tutto l’opposto. Loro prediligono prodotti come Cena al Salmone e Zuppa di Pesce.
«Certo, però,» dice lei «sono di compagnia».
E cosa farebbe mai lei per la sua combriccola se non ci fosse Dillon’s e un reparto Animali? E io? Chiaro che non sopporterei di vedere affamati i miei gattini.
Se penso alla mia prima adolescenza, mi ricordo la sensazione di tante volte in cui tenevo accoccolata sul petto una qualche creatura. Un piccolo essere, della grandezza diciamo di un gatto. Non è un bambino e non è neppure un animale. Non esattamente. È in parte umano e in parte qualcos’altro. Mi viene in mente una volta, nella casa di Price Road. Devo avere dodici, forse tredici anni. Mi domando cosa sia… uno scoiattolo?… No, non direi. Non riesco a percepirlo chiaramente. Non so neppure di cosa abbia bisogno. So che si affida a me completamente.
Molto dopo avrei capito che mi spetta il ruolo del Guardiano, per dar vita e nutrimento a una creatura che è in parte gatto, in parte uomo, e in parte qualcosa di ancora inimmaginabile, che potrebbe essere il risultato di un’unione non consumata per milioni di anni.
In questi ultimi anni sono diventato un devoto amante del gatto, e ora a questa creatura riconosco senz’altro l’essenza di spirito felino, di piccolo dio del focolare.
Certo, c’è in lui la qualità del gatto, come quella di altri animali: il pipistrello , il galagone, il planante lemure dagli enormi occhi gialli che vive sugli alberi e al suolo e del tutto inerme, il lemure dalla coda anulare e il lemure topo, lo zibellino, il procione, il visone, la lontra, la moffetta, la volpe del deserto.
Quindici anni fa sognai di aver preso con la canna da pesca un gatto bianco. Per una qualche ragione stavo poi per ributtarlo via, ma si strofinava contro di me, miagolando pietosamente.
Da quando ho adottato Ruski, i sogni coi gatti sono vividi e frequenti. Spesso sogno che Ruski è saltato sul mio letto. Naturalmente, qualche volta è vero; quanto a Fletch, lui viene sempre, salta sul letto e mi si strofina contro, facendo le fusa così forte da non lasciarmi dormire.
La Terra dei Morti… Olezzi di scoli fumanti, di gas e plastica che brucia… chiazze d’olio… montagne russe e ruote panoramiche ricoperte d’erbe selvagge e rampicanti. Non riesco a trovare Ruski. Lo chiamo…
«Ruski! Ruski! Ruski!».
Un senso profondo di tristezza e di presentimento.
«Non avrei dovuto portarlo qui!».
Mi sveglio che le lacrime mi corrono giù per la faccia.
La notte scorsa ho incontrato in sogno un gatto con il collo lunghissimo e un corpo da feto umano, grigio e traslucido. Lo coccolo. Non so se ha bisogno di qualcosa, ne come fare a dargliela. Altro sogno, anni fa, di un bambino con gli occhi sulle antenne. È molto piccolo, ma sa camminare e parlare. «Non mi vuoi?».
Di nuovo, non so come prendermi cura di quel piccolino. Ma con tutto il mio essere voglio proteggerlo e nutrirlo! Proteggere gli ibridi e i mutanti nel vulnerabile stadio dell’infanzia è proprio la funzione del Guardiano.
Le testimonianze indicano che i gatti furono addomesticati dapprima in Egitto. Gli egizi immagazzinavano il grano, che attirava i roditori, che attiravano i gatti. (Non vi sono prove che sia accaduta la stessa cosa presso i maya, benché nelle loro terre vi sia un certo numero di gatti selvatici). Questo tipo di ragionamento secondo me non è corretto. Sicuramente la storia è un’altra. I gatti non hanno cominciato con l’essere cacciatori di topi. Donnole, serpenti e cani sono molto più efficaci come agenti antiroditori. Io avanzo l’ipotesi che i gatti nascano come compagni psichici, come spiritelli del focolare, e che non abbiano mai deviato da questa funzione.
I cani nascono come sentinelle. In quanto cacciatori e guardie, la loro principale funzione nelle fattorie e nei villaggi è tuttora quella di dare l’allarme quando si avvicina qualcuno; per questo odiano i gatti.
«Considera tutti i servizi che noi rendiamo, i gatti invece tutto quello che fanno è ciondolare e far le fusa.
Cacciatori di topi, quelli? Gli ci vuole mezz’ora, a un gatto, per ammazzare un topo. Non sanno far altro che le fusa e distogliere le attenzioni del Padrone dalla mia onesta faccia di mangiamerda. Ma la cosa peggiore è che non hanno il senso di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato».
II gatto non offre servigi. II gatto offre se stesso.
Naturalmente vuole cura e un tetto. Non si compra l’amore con niente. Come tutte le creature pure, i gatti sono pratici. Per capire una questione antica bisogna riportarla al presente. II mio incontro con Ruski e la mia mutazione in uomo-gatto rimettono in scena il rapporto tra i primi gatti domestici e i loro protettori umani.
Si consideri la varietà dei felini selvatici, molti delle dimensioni di un gatto domestico, alcuni notevolmente più grandi, altri decisamente più piccoli, tali cioè da avere in età adulta la taglia di un gattino domestico di tre mesi. Numerosi, in questo lignaggio gattesco, sono quelli che non possono essere addomesticati a nessuna età, tanto son fieri e selvaggi nel loro spirito felino.
Ma con la pazienza, la dedizione e gli incroci… otto etti di gatto senza pelo, sinuoso come una donnola, d’incredibile finezza, con lunghe zampe sottili, denti aguzzi, grandi orecchie, e occhi di un lucente colore ambrato. Non è che una delle esotiche selezioni che fanno spuntare prezzi sbalorditivi nei negozi di gatti…
gatti volanti e plananti… un gatto di un blu elettrico acceso, emanante un leggero odore di ozono… gatti acquatici con zampe palmate (torna in superficie con una grossa trota tra le mandibole)… delicati, sottili gatti di palude dall’ossatura leggera e larghe zampe piatte possono sfrecciare su sabbie mobili e fango a incredibile velocità… minuscoli gatti lemuri con occhi enormi… un gatto scarlatto-arancione-verde dalla pelle di rettile, lungo collo nerboruto e zanne al veleno un veleno simile a quello del polpo dall’anello azzurro: fai due passi e cadi a faccia in giù, e un’ora dopo sei morto… gatti moffetta con uno spruzzo mortale che uccide nel giro di secondi come artigli nel cuore… e gatti con artigli velenosi che schizzano il veleno da una grossa ghiandola posta al centro della zampa.
E poi ci sono i miei gatti, impegnati in un rito vecchio di migliaia di anni: leccarsi tranquilli dopo il pasto.
Animali pratici, preferiscono che siano gli altri a provvedere il cibo… alcuni invece no. Deve esserci stata una scissione precisa tra i gatti che hanno accettato l’addomesticamento e quelli che non l’hanno accettato.
Torniamo pure, con un sospiro di noia, allo stato attuale. Ci saranno via via sempre meno begli animali esotici. Già estinto è il gatto messicano senza pelo. I minuscoli gatti selvatici, pesanti tra il chilo e il chilo e mezzo, che possono essere facilmente addomesticati, si fanno sempre più rari, distanti melanconici spiriti smarriti, in attesa di una mano umana che non verrà mai, fragili esseri mesti come una barchetta di foglie morte che il bambino spinge nello stagno. O i fosforescenti pipistrelli che spuntano ogni sette anni riempiendo l’aria con impossibili tumulti di profumi… i melodiosi richiami lontani dei gatti pipistrello e dei lemuri plananti… le foreste pluviali del Borneo e del Sudamerica… stanno scomparendo… e per lasciar posto a cosa?
Alla Ranch School di Los Alamos, dove poi hanno fatto la bomba atomica e avevano una gran fretta di buttarla sul Pericolo Giallo, i ragazzi sono seduti su tronchi e pietre, e mangiano qualcosa. Alla fine del declivio c’è un corso d’acqua. L’istruttore era uno del Sud, con l’aspetto un po’ del politico. Accanto al fuoco da campo ci raccontava delle storie, prese dal ciarpame razzista del l’insidioso Sax Rohmer – l’Est è il male, 1’Ovest è il bene.
Improvvisamente, in mezzo ai ragazzi si precipitò un tasso non so come mai, giusto per gioco, forse, amichevolmente e senza sapere a cosa andava incontro, come gli aztechi che portavano la frutta agli spagnoli e ne avevano le mani tagliate. Infatti, l’istruttore si precipita sulla sua bisaccia, ne estrae la sua Colt 45
automatica del 1911 e comincia a sparare al tasso, mancandolo di un metro e mezzo a ogni colpo. Alla fine gli piazza la pistola a dieci centimetri dal fianco e spara. Questa volta il tasso rotola giù per il declivio e cade in acqua. Rivedo l’animale colpito, il triste musetto contratto, che rotolava giù per il declivio, sanguinante, morente.
«Quando si vede un animale lo si uccide, capito?
Poteva mordere uno di voi ragazzi».
II tasso voleva semplicemente ruzzare e giocare, e s’è beccato invece un colpo di pistola d’ordinanza calibro 45. Prova a sentirti in contatto con questo, a identificarti con questo, a percepirlo. E chiediti quale vita vale di più. Quella del tasso, o quella di questo malefico pezzo di merda bianca?
Come dice Brion Gysin: «L’uomo è un animale cattivo!».
Servizio TV su Bigfoot. Tracce e avvistamenti nelle zone montuose del Northwest. Interviste con la gente del posto. Ecco una zoticona da centotrenta chili.
«Cosa si dovrebbe fare a suo giudizio di questi esseri, se esistono?».
Un’ombra scura le attraversa la brutta faccia, poi i suoi occhi s’illuminano di certezza. «Ammazzarli!
Potrebbero far male a qualcuno».
Quando avevo quattro anni, al Forest Park di St. Louis ebbi una visione. Davanti a me camminava mio fratello con un fucile ad aria compressa. Io ero rimasto indietro, e a un tratto vidi una piccola renna verde della grandezza di un gatto. Chiara e netta nella luce del tardo pomeriggio come se la vedessi attraverso un telescopio.
Più tardi, mentre studiavo antropologia a Harvard, imparai che era stata una visione totemica animale e capii che non avrei mai potuto uccidere una renna.
Ancora più tardi, nel corso di alcuni esperimenti cinematografici fatti con Antony Balch a Londra, mi capitò di riconoscere lo strano, statico elemento in cui la renna verde fluttua come un soggetto (relativamente) immobile proiettato al rallentatore. Vecchi trucchi da fotografo.
Altra visione all’incirca alla stessa età. Sono sveglio all’alba nella camera sotto il tetto, e vedo degli omini grigi che giocano nel mio fortino. Si muovono veloci, come in un film accelerato degli anni Venti… un soffio… tutti via. Solo il Fortino vuoto nella grigia luce dell’alba. In questa sequenza io sono immobile, uno spettatore silente.
L’elemento magico, spazzato via. Niente più renne verdi nel Forest Park. Dappertutto gli angeli abbandonano le loro nicchie, mentre l’elemento in cui esistono gli Unicorni, le Renne Verdi e Bigfoot s’assottiglia, come le foreste pluviali e le creature che la vivono e respirano. Al pari delle foreste che cadono per far strada ai motel, agli Hilton, ai McDonald’s, l’intero universo magico sta morendo.
Nel 1982 sono andato a stare in una fattoria di pietra a cinque miglia da Lawrence. L’edificio era stato rimodernato, con bagno, riscaldamento a propano, aria condizionata. Una cosa pratica e moderna. Ci fu un lungo inverno freddo. Con l’arrivo della primavera, mi capitò di adocchiare qualche volta l’ombra di un gatto grigio. Mettevo fuori del cibo, che scompariva regolarmente. Ma quel gatto grigio non riuscii mai ad avvicinarlo.
Fu qualche tempo dopo che vidi bene per la prima volta Ruski. Tornavo dalla rimessa con Bill Rich dopo aver sparato al bersaglio e lui puntò il dito: «C’e un gattino». Fugace vista di una sinuosa forma grigio-viola che saltava giù dalla veranda posteriore. Aveva circa sei mesi, un gatto grigioazzurro con occhi verdi…
Ruski.
Era una sera d’aprile, appena prima dell’imbrunire.
Uscii nella veranda posteriore. All’estremità della veranda c’era il primo gatto grigio e accanto a lui c’era un grosso gatto bianco che non avevo mai visto. Il gatto bianco viene verso di me, strofinandosi contro le gambe del tavolo, piano, esitante. Alla fine si acciambella ai miei piedi, fa le fusa. Chiaramente, lo ha portato qui il gatto grigio per stabilire il contatto.
Il gatto bianco, pensai che era un po’ troppo sfacciato e non lo lasciai venire in casa. Tuttavia, torno due sere dopo e questa volta lo lasciai entrare.
3 maggio 1982. Questo gatto bianco mi farà diventare matto se devo stare nella stessa casa con lui che mi viene tra i piedi, mi i strofina contro la gamba, si rotola sulla schiena davanti a me, salta sul tavolo e cerca di mettere le zampe sulla macchina per scrivere. È sopra il televisore, è sul ceppo della legna, è nel lavello, cammina sul telefono.
Sono appoggiato al piano di cucina e bevo una cosa.
Penso che sia fuori, ma ecco che salta sul lavello e viene a mettere il naso a un centimetro da me. Alla fine lo metto fuori e chiudo la porta… come un ragazzo arabo che sa di esser stato cattivo, prevede che prima o poi verrà messo fuori della porta. Senza far storie, se n’è semplicemente andato, figura che sbiadisce nel vialetto mentre s’addensa l’ombra ed ecco, è andato, lasciandomi un senso vago di colpa.
Non ricordo esattamente quando Ruski venne per la prima volta in casa. Ricordo che stavo seduto in poltrona accanto al camino e che la porta d’ingresso era aperta: lui mi ha visto, era a una quindicina di metri di distanza, ed è corso, emettendo quel ripetuto, breve gorgogliare che non ho mai sentito da altro gatto, e mi è saltato in grembo, puntando il muso, facendo le fusa, mettendomi le sue zampine sulla faccia, dicendomi che voleva essere il mio gatto.
Ma io non lo sentivo.
Nella Casa di Pietra nacquero tre gattini. La madre era una gatta piccola bianca e nera. Il padre ovviamente era il grosso gatto bianco. Uno dei gattini era albino. Gli altri due erano quasi tutti bianchi, eccetto la coda e le zampe di un marrone tendente al nero. Il gattone grigio badava ai gattini come se fossero stati suoi. Era grigio come Ruski, a parte il petto e il ventre bianchi. Lo chiamai Orazio. Era un gatto dignitoso, maschio, e aveva una natura dolce e forte.
I gatti piccoli, Ruski li odiava. Doveva essere lui il coccolo. Loro erano intrusi. L’unica volta che diedi una sberletta a Ruski fu perchè aveva attaccato uno dei gattini, e avevo visto la madre cacciarlo via dalla rimessa mentre c’erano i gattini. Ruski, poi, aveva terrore di Orazio. Una sera, nella veranda posteriore, Orazio avanzò verso Ruski. (Allora non si chiamava ancora Ruski, perchè non sapevo che era un Russian Blue. Lo chiamavo Smoky). Avanzò con fare disinvolto ma deciso finché s’avvento su Smoke, che corse sotto il tavolo.
Ho osservato che nelle lotte tra gatti quasi sempre vince l’aggressore. Quando in battaglia il gatto si accorge di aver la peggio non esita a scappare, laddove il cane combatte fino alla sua stupida morte. Come mi disse il mio vecchio maestro di lotta giapponese: «Se il tuo gioco non funziona, meglio che te la batti».
8 maggio 1982. Oggi la gatta ha ucciso un coniglio non ancora adulto. Guardando fuori dalla finestra grande l’ho vista con il suo coniglietto tra le mascelle mentre lo trascinava sotto la veranda. James era inorridito.
Dopo, l’ho vista sulla veranda che si leccava il sangue dalle zampe con un’espressione molto soddisfatta . Dei conigli non m’importa molto. Non hanno natura carina neanche da piccoli. Riescono soltanto a fare degli stupidi scatti reattivi nel tentativo di sfuggirti di mano, senza contare che i conigli grossi possono darti un morso molto doloroso. Ho cercato di recuperare i resti prima che fossero loro a manifestarsi sotto forma di lezzo di carogna per tutta la veranda. Ma dal lato accessibile non sono riuscito a vedere nulla, e non mi andava di infilarmi la sotto.
9 maggio 1982. Questa mattina ho trovato quel che è rimasto del coniglio ucciso dalla gatta… pezzi di pelliccia e ossa masticate sparpagliati per la veranda, già pieni di mosche. Sono stati i gattini a farlo a pezzi per mangiarlo. Lei assolve al suo ruolo di cacciatrice, che porta la carne ai piccoli, con molta convinzione. I gattini ruzzano, fanno la posta alle cavallette.
Mangiano, dormono, giocano.
Fuori della finestra centrale c’è una vasca per i pesci a forma di fagiolo. L’ho ripulita e ci ho messo dentro un grosso pesce rosso che ho comprato in un negozio. I gatti cercano in continuazione di prenderlo, senza successo. Una volta il gatto bianco e saltato per prendere una rana sul lato opposto. La rana s’è tuffata, lui è caduto in acqua. Se le va proprio a cercare.
3 giugno 1982. Forse dovrei scrivere uno di quei libri briosi tipo Come sistemare la mia casa di campagna…
«Il primo anno del mio giardino»… un capitolo sul Gatto Bianco che s’è fatto mordere il sedere da un cane, e il gatto grigio… un animale così bello. Lo chiamiamo Smoky, dal nome del colonnello Smoky, l’agente della narcotici nel libro di Maurice Helbrant Narcotic Agent, stampato con Junkie nell’edizione Ace… be’, Smoky sta diventando una vera noia, mi salta addosso da tutte le parti, mette la faccia davanti alla mia, mi struscia il muso contro la mano e mi sta addosso quando cerco di sparare. È quasi sinistro. Meglio che gli trovi una buona casa, a Smoky.
Ripassando queste note, che volevano essere semplicemente un diario dell’anno trascorso alla Casa di Pietra, rimango totalmente allibito. Spesso, riandando alla mia vita passata, mi viene da esclamare:
«Mio Dio, sono io?». Visto da qui, appaio come la sgradevole caricatura di qualcuno di veramente orribile… affettato, compiaciuto, insensibile… «S’è fatto mordere il sedere da cane». «Lasciandomi un senso vago di colpa»… «Come un ragazzo arabo che sa di esser stato cattivo»… parole da vecchia checca bisbetica inglese… «Meglio che gli trovi una buona casa, a Smoky».
II gatto bianco simboleggia la luna argentea che scruta negli angoli e prepara lindo il cielo per il giorno a venire. II gatto bianco è «il pulitore» o «1’animale che pulisce se stesso», definito dalla parola sanscrita Marjara, che significa «il cacciatore che segue la pista; l’indagatore; 1’esattore del dovuto». Il gatto bianco è il cacciatore e 1’assassino, il suo sentiero è illuminato dalla luna argentea. Sotto quell’inesorabile luce delicata, ogni recesso buio e ogni essere vengono disvelati. Non puoi scuoterti di dosso il tuo gatto bianco perché il tuo gatto bianco sei tu. Non puoi nasconderti dal tuo gatto bianco perché il tuo gatto bianco si nasconde con te.
Ai miei occhi il gatto bianco è un messaggero che mi convoca a guardare in
faccia 1’orrore della
devastazione termonucleare vista dal reparto Animali di Dillon’s, mentre i miei gatti vengono cacciati col fucile tra le macerie di una casa. Questa fantasia mi riempì di desolazione, e anche di una ferrea risoluzione a impedire questo estremo atto di violenza. C’è bisogno di un miracolo. Lasciamo i dettagli all’uomo della strada…
L’uomo della strada mette una cesta da gatto sul tavolo del consiglio d’amministrazione. Con delicatezza ne estrae un gatto bianco. I membri si buttano sotto il tavolo gridando «IL GATTO BIANCO! IL GATTO
BIANCO!».
Una iniziazione nazista alle gerarchie superiori delle SS consisteva nel cavare un occhio a un gattino dopo averlo nutrito e coccolato per un mese. Tale esercizio era inteso a cancellare ogni traccia di deleteria pietà e a forgiar e il completo Übermensch.C’è in questo un postulato magico assai preciso: l’adepto acquisisce uno status superumano compiendo un qualche atto atroce, rivoltante, subumano. In Marocco, i maghi acquistano potere mangiando i propri escrementi.
Cavare gli occhi a Ruski? Neanche se mi danno pile di soldi da arrivare al cielo radioattivo. Cosa ci guadagna un uomo? Io non potrei occupare il corpo di uno capace di cavare gli occhi a Ruski. Allora, chi s’è accaparrato il mondo intero? Io no di certo. Ogni transazione che comprenda uno scambio di valori qualitativi come l’amore animale con vantaggi quantitativi è non solo disonorevole, e quanto di più sbagliato si possa immaginare, ma è anche sciocca.
Perché tu così non ottieni niente. Hai venduto il tuo te.
«Be’, che ne pensi di un bel giovane corpo di pelo rosso?». Ma sì, Egli troverà sempre un fesso come Faust, che gli vende l’anima per una bella ripassata. Se vuoi sesso adolescenziale, devi pagarlo in termini di paura, vergogna e confusione adolescenziali. Per goderti qualcosa, devi esserci. Non puoi semplicemente passare per il dessert, carino.
Mi ricordo l’unica volta che ho dato una sberla a Ruski perché aggrediva uno dei gattini. II modo in cui mi guardò, per lo shock e il male, era identico allo sguardo che ricevetti dal mio amico Kiki. Ero mezzo addormentato e irritabile. Lui entrò e cominciò a buttarmisi addosso, finché gli diedi una sberla. In entrambi i casi ho dovuto fare ammenda. Ruski scomparve, ma io sapevo dov’era. Andai nella rimessa, lo trovai e lo riportai in casa. Kiki invece se ne stava seduto là, con una lacrima all’angolo dell’occhio. Mi scusai e alla fine mi venne vicino.
Il gattone bianco divenne il primo gatto di casa; lui e Ruski dormivano insieme nella tessa cuccia con fraterna accettazione. Un giorno il gattone bianco tornò con una brutta ferita, evidentemente opera di un cane.
Mentre scappava, i denti del cane gli avevano lacerato le carni ai due lati del coccige; poi era riuscito a divincolarsi o a saltare su un albero. Adesso mi rimprovero di non averlo portato da un veterinario.
L’ho semplicemente frizionato con un unguento alla penicillina e pareva che stesse guarendo. Poi un giorno scomparve e non lo si rivide più.
Una macchina? Un cane? Un coyote? Un’altra casa, chissà?
James disse: «Penso che sia morto, Bill».
In ogni rapporto ci sono momenti cruciali, svolte determinanti. Ero stato dieci giorni a Naropa. Durante la mia assenza, Bill Rich era venuto ogni giorno a dar da mangiare ai gatti.
Sono tornato. Tardo pomeriggio nella veranda posteriore. Vedo Ruski e lui si allontana. Si rotola sul fianco, esitante, non proprio convinto. Lo tiro su e vado a sedermi sul bordo della veranda. Poi, c’è un momento preciso in cui mi riconosce e comincia a miagolare, a fare le fusa, a puntare il muso. E in quel momento capisco finalmente che è il mio gatto, e decido di portarlo con me quando andrò via dalla Casa di Pietra.
Un giorno alla Casa di Pietra, quando ancora nessuno dei gatti era venuto a vivere dentro, stavo sparando nella rimessa e guardai in alto: in cima a una catasta di legna dietro il mio bersaglio c’era un piccolo gatto bianco. Metto allora l’arma nella fondina e vado avanti piano, e a questo punto vedo che c’è la mamma, in cima alla catasta, con tre gattini intorno a sé. Viene dinoccolata verso di me, mette la testa nella mia mano.
«Vedo che sei un uomo buono, sceriffo. Abbi cura di me e dei miei piccoli».
Fu molto toccante, la semplicità di quel gesto C’erano in quel gesto, coi piccoli dietro di lei, migliaia d’anni di mamme gatto. «Ecco le mie creature… è questo tutto ciò che posso fare… ciò che devo fare».
Una parola circa i gatti da granaio, destinata a chi di voi non è vissuto in campagna (voglio dire in una vera fattoria di campagna, non agli Hamptons). La più parte delle fattorie hanno dei gatti da granaio per tenere a bada topi e ratti. Son gatti sfamati sommariamente con latte scremato e avanzi. Altrimenti non cacciano.
Naturalmente capita spesso che un gatto da granaio diventi un gatto di casa. Che poi è il solo desiderio di qualsiasi gatto da granaio e qualsiasi gatto di strada.
Trovo profondamente commovente questo disperato tentativo di conquistarsi un protettore umano.
Mi domando se i cani e i gatti si lasciano dietro dei segnali come i vagabondi:
GUARDA CHE C’È UN CANE.
STA’ LONTANO DA QUESTO POSTO: C’È UN
MATTO COL FUCILE.
BUON POSTO PER QUALCHE AVANZO.
E le stelle come in una guida Michelin: CIBO VESTITI MANCIA E DA FUMARE: UN
PRINCIPE.
DA MANGIARE E DA BERE: UN RE.
Non ho notato cani randagi dalle parti della Casa di Pietra:
UNA FOTTUTA CASA DA GATTO.
II mio contratto per La Casa di Pietra stava per scadere e comprai una casa a East Lawrence. Situata su un acro di terreno alberato in una strada quieta, e ideale per i gatti. Un mese prima di trasferirmi, il gatto bianco scomparve. Diversamente l’avrei portato con me, visto che con Ruski l’armonia era perfetta. Mi spiaceva lasciare lì Orazio, ma non riusciva ad andare d’accordo con Ruski e la femmina coi gattini aveva bisogno di lui. Il nuovo affittuario, Robert Sudlow, un noto pittore del Kansas, promise di badare ai gatti che rimanevano.
Note di inizio 1984: Il mio rapporto con Ruski è un fattore basilare della mia vita. Tutte le volte che devo and are via, e necessario che qualcuno, di cui Ruski ha conoscenza e fiducia, venga a vivere qui in casa, per badare a lui e chiamare il veterinario se c’è qualcosa che non va. Spendo quello che serve.
Quando Ruski è stato all’ospedale con la polmonite io chiamavo ogni poche ore. Ricordo che una volta ci fu una lunga attesa e poi finalmente arrivo all’apparecchio il dottore che comincio a dire: «Mi dispiace, Mr.
Burroughs»… e il cordoglio e la desolazione mi attanagliarono. Invece stava soltanto scusandosi per avermi fatto aspettare tanto «Ruski migliora… la febbre s’è abbassata penso che stia superando senz’altro la crisi». E la mia esultanza, il mattino dopo, sentendo:
«Temperatura quasi normale. Un altro giorno e può tornare a casa».
SI È SMARRITO ED. AMATISSIMO GATTO
ALBINO TUTTO BIACO. GLI OCCHI SONO
BIANCHI E ROSATI. PORTA COLLARINO
ANTIPULCI. RICOMPENSA. CHIAMARE 8413905.
Ed mi manca più per i suoi atti di malizia che per i suoi momenti di affettuosità. Ieri avevo comprato cibo per gatti. (Ed manca da circa ventiquattr’ore. No, a questo punto direi quasi quarantotto. Noi siamo tornati da Parigi venerdì tredici e lui era sgusciato via un paio d’ore prima). Ero solito mettere le scatolette di cibo per gatti sul davanzale della finestra sopra il lavello; Ed saliva sul davanzale e le rovesciava giù nel lavello.
Venivo svegliato da un fracasso terribile. Cos’hai combinato, adesso, Ed? Un piatto rotto, un bicchiere finito a pezzi sul pavimento… Così ho cominciato a mettere le scatolette nella credenza, dove lui non poteva entrare. Ora che tiro fuori dal sacchetto il cibo per gatti, guardo il davanzale e penso, be’, adesso posso metterle là, le scatolette. E in quel momento sento improvviso un acuto senso di perdita, perdita di un’amata presenza, per quanto piccola… il gridolino che faceva quando lo portavo via di peso perché infastidiva Ruski… uno spasimo di assenza, la perdita della mia scimmietta bianca (come lo chiamavo).
S’intrufolava in tutti i posti. Aprivo il cassetto delle posate e lui saltava su e s’infilava dentro. Adesso dov’è? Ho messo le scatolette sulla finestra, sperando ancora che torni e le butti giù. Le ultime due sere ho tenuto accese le luci della veranda.
Ricordo la prima volta che ho visto Ed. James additò un punto sotto la veranda posteriore: «Vedo un minuscolo gattino bianco». Tentò di afferrarlo per portarlo in casa, ma lui si divincolò con un violento miagolio e andò a finire nello stagno. Più tardi, mentre davo da mangiare ai tre gattini, Ed si lasciò prendere e fece le fusa mentre me lo lisciavo in grembo. Quando lasciammo la Casa di Pietra, James e Ira portarono Ed a vivere nel loro appartamento in Louisiana Street. È
cresciuto così come un gatto domestico, senza contatti con l’esterno. Poi è venuto qui nella mia casa. C’erano dei problemi tra lui e Ruski, e si parlava di dare Ed a Phil Heying o a qualcun altro. Ero molto riluttante a perderlo, e speravo che, ambientandosi, sarebbe andato d’accordo con Ruski. Chiaramente bramava un contatto con un altro gatto. Leccava il muso a Ruski.
La vista della scodella di Ed vuota… Mangiava sempre da una piccola scodella in soggiorno. La sua scodelletta bianca, con una decorazione verde che corre intorno all’orlo, pezzettini di cibo per gatti secco attaccati ai lati e ancora sulla mensola in soggiorno.
Per la perdita di un gatto gli antichi egizi entravano in lutto, e si rasavano le sopracciglia. E perché la perdita di un gatto non dovrebbe esser sentita in modo acuto e profondo come qualsiasi altra? Le morti piccole sono le più tristi, tristi come la morte delle Scimmie.
Toby Tyler culla nelle sue braccia la scimmia morente.
Il vecchio agricoltore è accanto al muro incompiuto.
Nei vecchi libri le figure sono incisioni.
I libri diventano polvere.
9 agosto 1984, giovedì. II rapporto con i miei gatti mi ha salvato da una letale, dilagante ignoranza. Quando un gatto da rimessa trova un protettore umano che lo innalza a gatto di casa, si dà da fare nel solo modo che conosce: fa le fusa, spinge col muso, si strofina, si rotola sulla schiena per richiamare l’attenzione su di sè.
Adesso trovo tutto questo estremamente toccante e chiedo come ho mai potuto considerarlo fastidioso.
Ogni rapporto si basa sullo scambio, e ogni favore ha un suo prezzo. Quando il gatto si sente sicuro della propria posizione, come Ruski in questo momento, diventa meno espansivo, cioè come deve essere.
Ricordo un gatto bianco a Tangeri, in calle Larachi 4, il primo a venire in casa… scomparve. E un bel gatto bianco su un rosso muro di fango al tramonto, lo sguardo su Marrakech. E un gatto bianco ad Algiers, di là del fiume venendo da New Orleans. Ricordo un debole, melanconico miaooo al crepuscolo. Il gatto era malato, sotto il tavolo della cucina. Morì durante la notte.
Il mattino dopo, a colazione (erano bollite al punto giusto le uova?), mettendo i piedi sotto il tavolo sentii il gatto rigido e freddo. Lo dissi piano a Joan, lettera per lettera, così da non traumatizzare i bambini: «Il gatto bianco è M-O-R-T-O». E Julie guardo senza batter ciglio il gatto morto e disse: «Portalo fuori, che puzza».
Una battuta da cocktail degna del giro del «New Yorker». Non fa più ridere… uno smilzo gatto randagio buttato via con la spazzatura. Il gatto bianco a Mexico City: gli diedi una pacca sul muso con un libro. Lo rivedo traversare di corsa la stanza per nascondersi sotto una poltrona bitorzoluta e scassata. Le sue orecchie che rintronano per il colpo mi pare di sentirle in me. Facevo letteralmente male a me stesso, e non lo sapevo.
Poi il sogno in cui un bambino mi mostrava il suo dito insanguinato e io gli domandavo indignato chi l’avesse ferito. II bambino mi chiamava in una stanza buia e puntava il dito insanguinato contro di me finché mi sono svegliato gridando: «No! No! No!».
Credo che nessuno possa scrivere un’autobiografia del tutto sincera. Sono sicuro che nessuno sopporterebbe di leggerla: Il mio passato è stato un fiume malvagio.
II contatto animale può modificare quelli che Castaneda chiama «punti di congiungimento». Come l’amor materno. Hollywood ci ha fatto sopra le sue svenevolezze. Andy Hardy si inginocchia accanto al letto della madre. Ma in questo cosa c’è di sbagliato?
Un bravo ragazzino americano che prega per sua madre. Cosa c’e di sbagliato?
«Ti dico io cosa c’è di sbagliato, B.J. È merda. È una schifezza nauseabonda, e distrugge la verità che ci sta sotto».
Guarda una foca monaca su un banco di ghiaccio con il suo cucciolo. Vento a trenta miglia all’ora, trenta gradi sotto zero. Cerca di vedere dentro i suoi occhi a fessura, gialli, fieri, pazzi, tristi, disperati. Margine estremo di un pianeta condannato. Non può mentire a se stessa, non può tirarsi addosso nessun patetico straccio di autoglorificazione verbale. E lì, sulla banchisa, con il suo cucciolo. Sposta i suoi due quintali di peso per render accessibile una mammella. C’è un piccolo con il dorso lacerato da uno dei maschi adulti.
Probabilmente non ce la farà. Devono nuotare tutti fino in Danimarca distante millecinquecento miglia.
Perché? Le foche non sanno perché. Devono arrivare in Danimarca. Devono arrivare tutte in Danimarca.
Qualcuno ha detto che i gatti sono gli animali più lontani dal modello umano. Dipende dal tipo di uomini, e naturalmente dal tipo di gatti. Io trovo che i gatti siano a volte misteriosamente umani.
Nel 1963, Ian Sommerville e io ci eravamo appena trasferiti nella casa in calle Larachi 4 a Tangeri. Ecco che diversi gatti si radunano davanti alla porta aperta, facendosi avanti e poi arretrando come paurosi di arrivare a portata di mano. Poi un gatto bianco si avvicina pian pianino. Gli tendo la mano. Il gatto inarca la schiena, va avanti e indietro, sotto la mia mano fa le fusa, come sempre i gatti hanno fatto da quando è stato addomesticato il primo gatto.
Gli altri gatti brontolano e piagnucolano per protesta:
«Guardalo, il leccapiedi.».
Agosto 1984. James era in centro, all’angolo tra la Settima e la Massachusetts, quando ha sentito un gatto, miagolare molto forte, come se soffrisse. È andato a vedere e un gattino nero gli è saltato in braccio. L’ha portato a casa e appena io ho cominciato ad aprire una scatoletta di cibo per gatti quella bestiolina e saltata sul piano di cucina precipitandosi sulla scatoletta. Ha mangiato smodatamente, per cui cassettina piena di merda, e poi merda sul tappeto. L’ho chiamato Fletch.
È tutto scintillio e splendore e fascino, ingordigia che si fa innocenza e bellezza. Fletch, il nero trovatello, è un animale squisito e raffinato, con una luccicante pelliccia nera, una lucida testa nera come di lontra, snello e sinuoso, con gli occhi verdi.
Dopo due giorni che era in casa mi è saltato sul letto e s’è accoccolato contro di me, facendo le fusa e mettendomi le zampe sul viso. È un maschio non castrato di circa sei mesi, ha chiazze bianche sul petto e sulla pancia.
Ho tenuto Fletch dentro casa per cinque giorni temendo che scappasse via, e quando l’abbiamo lasciato usciere e schizzato su un ramo a dieci metri da terra. La scena aveva un che di Una sera di carnevale di Rousseau…
una luna offuscata, i ragazzi che mangiano zucchero filato, luci sul corso centrale della festa, una ventata di musica da circo, e Fletch lassù a più di dieci metri che non vuol scendere. Cosa devo fare, chiamare i pompieri? Poi arriva Ruski, sale sull’albero e fa venire giù Fletch.
Un anno dopo, il figlio di Ruski avuto da Calico Jane va a piazzarsi sullo stesso albero. Si sta facendo buio.
Riesco a vederlo con la torcia elettrica, ma non vuole venire giù, così chiamo Wayne Propst, che arriva con una scala. Vado fuori, illumino l’albero con la torcia e vedo il collarino rosso di Fletch. E Fletch porta giù il gattino.
Io attribuisco a Fletch quattro stelle di carineria. Come molte altre qualità, la carineria si definisce con ciò che non è. Molte persone non sono carine affatto, o, se lo sono, finisce che crescono… Eleganza, grazia, delicatezza, bellezza e un’assoluta naturalezza: a una creatura che sa di essere carina manca poco per non esserlo più… Misure piccole: un leopardo è troppo grosso e troppo pericoloso per essere carino…
Innocenza e fiducia. Ricordo che quarant’anni fa, nel mio appezzamento di marijuana nel Texas orientale, stavo esaminando una pianta, e sollevando gli occhi vidi che c’era un piccolo di moffetta. Stesi la mano e lo accarezzai, lui mi guardò con completa fiducia.
Uno degli animali più carini che ci siano sulla terra è la volpe del deserto. A stento riesce a sopraffare il topo.
Se la fa addosso dalla paura alla vista di una marmotta.
Vive quasi esclusivamente di uova, sgattaiola nel pollaio come un piccolo fantasma grigio…
SUOOOCK! Troppo tardi. Ha già ingoiato l’uovo e scivola via. Le più coraggiose fan preda di uccellini implumi nel nido. Lesta e furtiva, la volpe s’intrufola con un bel verme tra i denti; loro pensano che sia la mamma che porta da mangiare e aprono i piccoli becchi gialli. Lei li morde alla gola e succhia il sangue avidamente, facendo bocconi dei piccoli petti, ha gli occhi che sprizzano gioia, sangue sul musetto nero e sugli aguzzi denti bianchi come un ghiotto scolaro che attacca un dolce. Una cosa abbastanza disgustosa.
Riscattato dalla bellezza e dall’innocenza, lui fa un rutto e vomita salsa di fragole sulla camicia del preside.
«Senta, sono terribilmente spiacente eccetera. Non succederà più. Lasci almeno che la pulisca, signore».
Corre via e poi torna con un vecchio straccio zuppo di acqua sporca e lo butta addosso al preside. «In un attimo, vedrà, sarà come nuovo, signore». Spande risciacquatura sul preside stordito.
«Questo posto è un vero schifo, sa? Senza offesa, naturalmente. Accidenti, le ho schizzato anche il muso, bello mio!». E dà una sberla al preside, buttandolo giù dalla sedia.
Un inglese bene, odiatore di gatti, mi confidò di aver addestrato un cane a spezzare la schiena a un gatto con un colpo netto. E ricordo che a un party, avendo colto con lo sguardo un gatto, ringhiò tra i suoi lunghi denti gialli da cavallo che non gli stavano in bocca:
«Disgustoso animaletto puzzolente!». A quel tempo il suo ceto era cosa che m’impressionava, e non sapevo ancora niente dei gatti. Ora mi alzerei dalla poltrona e direi: «Pardon, vecchio mio, faccio due passi perché qui c’è una disgustosa bestiaccia puzzolente».
Desidero cogliere l’occasione per criticare aspramente la vile pratica inglese di cacciare coi cani. Infatti gli abbrutiti cacciatori se ne stanno a guardare mentre una bella volpe delicata vien fatta a pezzi dai loro cani schifosi. Rincuorati da questo immondo spettacolo, essi riparano alla magione per sbronzarsi più di quanto non abbiano già fatto, non dissimili dalle loro sudice, servili, merdose, mangiacarogne, infanticide bestie.
Avvertimento a tutte le giovani coppie che sono in attesa del lieto evento: Liberatevi di quel cane cheavete in casa.
«Cosa? Pericoloso per un bambino il nostro Fluffy? Ma è assolutamente ridicolo!”.
Possa il tuo bambino vivere abbastanza a lungo per pensarla così, mammina… tu che culli amorosa il tuo bambino e gli biascichi parolette infantili quando Fluffy, in un raptus di gelosia, gli si avventa contro e gli morde il cranio, uccidendolo.
Il cane è il solo animale, oltre l’uomo, a distinguere fra il bene e il male. Così Fluffy sa cosa aspettarsi quando viene trascinato fuori piagnucolante da sotto il letto dove è andato ad accucciarsi. Si rende conto di tutta la portata della sua trasgressione. Nessun altro animale stabilirebbe un collegamento tra le due cose. I cani sono i soli animali santimoniosi.
Accidentalmente ho dato un calcio a Fletch; stava dormendo nel vano della porta che dà nella mia stanza.
Ha fatto per scappar via. L’ho ripreso e l’ho portato sul letto dove ha cominciato presto a fare le fusa, e poi si è addormentato sulla schiena. Il suo muso è una via di mezzo tra quello di un pipistrello, di un gatto e di una scimmia… la cima della testa è di un liscio nero lucente, le orecchie appena pelose e da pipistrello. La faccia, col musetto nero e le lunghe labbra espressive, sembra quella di una scimmia triste. Facile immaginare un Gatto Pipistrello, le luccicanti ali nere e coriacee, i piccoli denti aguzzi, gli occhi di un verde acceso. Il suo intero essere irradia una pura dolcezza selvaggia, mentre volteggia tra i boschi notturni con gridi melodiosi, diretto a una qualche criptica missione.
Circonda questa creaturina fiduciosa anche un’aura fatale e triste. Nei secoli è stata abbandonata molte volte, lasciata morire in freddi vicoli urbani, in torridi terrains vagues assolati, tra cocci di terraglie ortiche muri crollati. Tante volte ha gridato aiuto invano.
Fa le fusa e insieme dorme, Fletch, stende le zampette nere per essere in contatto con le mie mani, gli artigli ritratti, giusto un tocco gentile per assicurarsi che io sia lì, accanto a lui che dorme. Probabile che mi veda in sogno. Si dice che i gatti non distinguano i colori: un granuloso bianco e nero, un’argentea pellicola guizzante piena di strappi mentre lascio la stanza, poi torno, vado fuori, lo prendo su, lo metto giù. Chi potrebbe fare del male a una simile creatura? Allenare il proprio cane a ucciderlo! L’odio per i gatti riflette uno spirito gretto, stupido, volgare, bigotto. Con questo Spirito Gretto non ci può essere compromesso.
Ho fatto l’elogio della volpe del deserto, una creatura così delicata e timorosa allo stato selvaggio che se mano umana la tocca muore di paura. La volpe rossa, la volpe argentata, la volpe africana dalle orecchie di pipistrello… tutte bestie magnifiche. Lupi e coyote allo stato selvaggio vanno bene: Cosa è accaduto di così odiosamente sbagliato al cane domestico? L’uomo ha modellato il cane domestico sulla propria peggiore immagine… fanatico come un linciatore, servile e malvagio, provveduto delle più abiette depravazioni coprofaghe… e quale altro animale cerca di chiavarti una gamba? Le rivendicazioni canine del vostro affetto trasudano una sentimentalità artefatta e fraudolenta. In prima fila a piangere il Vecchio Pastore. Ci sono voluti tre giorni per trovare quel vecchio stronzo, e a questo punto il cane si è già mangiato la sua faccia. Volge in alto lo sguardo con il suo ghigno da mangiamerda e si rivoltola nella carogna.
lo non sono un odiatore di cani. Odio in realtà ciò che l’uomo ha fatto del suo migliore amico. Il ringhio di una pantera è certamente più pericoloso di quello di un cane, solo che non è turpe. La rabbia di un gatto è bella, brucia di pura fiamma gattifera, con tutti i peli dritti che sprizzano faville azzurre, occhi che ardono e crepitano. Il ringhio di un cane invece è turpe, un ringhio da linciatore, da picchiatore di pakistani… il ringhio di uno che sulla macchina si tiene l’adesivo con la scritta «Sacrifica una checca a Cristo», un ringhio virtuoso da ottuso moralista. Quando ti trovi di fronte a un ringhio così, vedi subito che non è farina del suo sacco. La rabbia del cane non è mica roba sua. È
dettata da chi lo ammaestra. E la rabbia della marmaglia linciatrice è dettata dal condizionamento.
Giovedì, 4 ottobre l984. L’odio bieco, insensato, isterico e spaventevole sia negli animali sia negli uomini. I miei sogni erano infestati di archetipiche mute canine… Mi trovo in un vicolo cieco ovale, alla fine di un lungo tunnel morbido. Proprio all’estremità di questo ambiente c’è come una forte attrazione magnetica. Andando troppo vicino si viene succhiati dentro l’utero. Riesco a tirarmi indietro appena in tempo. Allen Ginsberg e al mio fianco con un mantra:
«Chiudi quella vecchia Porta Uterina, non voglio più tornare come prima». Dopodiché sento dei latrati, attutiti dalle soffici pareti del corridoio, e tuttavia inequivocabili: «I CANI! I CANI!». Più vicina, adesso, ecco la ringhiosa muta sbavante di Cerbero. Allora Allen escogita un congegno indiano di canapi per erigere una barricata, ma non è abbastanza alta e io mi sveglio che cerco di dar calci ai cani mentre saltano per tirarmi giù.
Il momento per accarezzare un gatto è quando sta mangiando. E non è certo il momento per accarezzare un cane. Accarezzare un gatto che dorme va bene. Si stira e fa le fusa nel sonno. Il can che dorme, meglio non toccarlo. Ricordo che un giorno, al festival di poesia di Roma, John Giorno e io scendevamo a far colazione. Su un pianerottolo dormiva un grosso cane.
«È un cane molto affettuoso» dice John, e si china ad accarezzare la bestia, che ringhia sinistramente mostrando i dentacci gialli.
l2 settembre l984. Talvolta Fletch mi morde irritato quando cerco di distoglierlo da una situazione di gioco che lui vuole continuare. Non forte da far male, giusto un morso nervosetto da adolescente… «Lasciami stare!
Voglio giocare!». Ha capito da qualche minuto che voglio metterlo fuori e lui non vuole andare, allora s’è intrufolato sotto una bassa scrivania dove non arrivo a prenderlo. Reazioni da vero bambino umano.
Ho già detto che i gatti sono come piccoli dèi del focolare, compagni psichici. «Certo, però, sono di compagnia». Gli spiritelli domestici di un vecchio scrittore sono le sue memorie, i fatti e i personaggi che popolano il suo passato, reale o immaginario. Uno psicoanalista
direbbe
che
sto
semplicemente
proiettando queste fantasie nei miei gatti. Sì, del tutto naturalmente e letteralmente i gatti, quando investiti dei ruoli appropriati, fanno da schermi sensibili che riflettono atteggiamenti precisi. Questi ruoli variano se è il caso, così un gatto può assumere parti diverse: mia madre, mia moglie Joan, Jane Bowles, mio figlio Billy, mio padre, Kiki e altri amici, e Denton Welch, che mi ha influenzato più di qualsiasi altro scrittore, anche se non ci siamo mai conosciuti. Forse i gatti sono per me l’ultimo legame vivente con una specie che muore.
E a Calico Jane si addice perfettamente la parte di Jane Bowles… così delicata: raffinata, speciale. (A Tangeri, in un ristorante sulla spiaggia un brutto, sporco birbantello le diede di gomito e allungò la sua manina sporca. «Oh, no!» disse lei. «A me piacciono soltanto gli uomini vecchi»). Quella gattina ha proprio classe, e le si addice infatti il nome di un fiore.
Quando Jane è nata ero presente. È stata la prima a leccare il latte e la prima a mangiare cibo solido. È
stata l’ultima a fare le fusa, (Il primo è stato Wimpy).
Sembrava quasi catatonica, e aveva uno sviluppo lento.
Ora fa le fusa e si rannicchia contra di me in modo delicato… da lady. Janie fa delle case da lady.
A Joan non piaceva che le si facessero fotografie. Nelle foto di gruppo quasi sempre si teneva fuori. Aveva, come mia madre, una qualità elusiva, eterea.
Negli ultimi quattro anni della sua vita, Mamma stava in una casa di cura chiamata Chateins, a St. Louis.
«Qualche volta mi riconosce. Qualche volta, no»
riferiva mio fratello Mort. Durante quei quattro anni, io non sono mai andato a trovarla. Di tanto in tanto mandavo delle cartoline. E sei mesi prima che morisse, spedii una cartolina per la Festa della Mamma. C’era stampata un’orribile, svenevole poesia. Ricardo d’essermi sentito «vagamente in colpa».
Questo libro sul gatto è un’allegoria, in cui lo scrittore vede passare in rassegna la sua vita passata in forma di sciarada gattesca. Non che i gatti siano marionette.
Tutt’altro. Sono esseri che vivono e respirano, ed è una cosa triste quando si stabilisce un contatto con qualsiasi altro essere: perché vedi le limitazioni, il dolore e la paura, la morte finale. Il contatto significa questo. E di questo mi accorgo quando tocco un gatto e mi ritrovo con le lacrime che mi scorrono sul viso.
Fletch, il gatto monello, il gatto ragazzaccio che strappa la tappezzeria con le unghie. Proprio adesso salta sul tavolo dove stavo leggendo. Poi, irritato dal fumo della sigaretta appoggiata al posacenere, si butta contro lo schienale di una sedia su cui avevo appoggiato la mia giacca, e la sedia va giù.
Assolutamente
intenzionale.
Adorabile,
quel
demonietto di un gatto. È così triste nei suoi limiti, nella sua dipendenza, nei suoi piccoli patetici gesti teatrali.
La sola idea che qualcuno lo maltratti! È stato maltrattato già tante volte durante i secoli, il mio moretto Fletch con la sua pelliccia splendente e gli occhi d’ambra. Ah, il modo in cui irrompe improvvisamente nella stanza mentre me ne sto sdraiato, indolente, senza nessuna voglia di procedere fra le miniere di salgemma di The Western Lands. Mi zompa sul petto, si accomoda, allunga prima una zampina e poi l’altra sulla mia faccia. Altre volte i suoi occhi sono tutta pupilla nera, una sicura indicazione di
«Statti attento!», come quando il cavallo piega le orecchie all’indietro. E infatti morderà e graffierà.
Ginger fa la parte di Pantopon Rose, la vecchia madama di un bordello di St. Louis sulla Westminster.
Mi dirottava sempre in un recesso chiuso da tende vicino all’uscita, per paura che io incontrassi un qualche amico di mio padre che entrava. Una donna dura e pratica, che veniva da una famiglia di agricoltori delle Ozark Mountains. Ginger era la madama di Ruski, sempre appresso. Così ho cominciato a darle da mangiare, e a sperare che sarebbe andata via. Un atteggiamento così americano da parte mia: «Chi c’è alla porta? Datele dei soldi, e mandatela via».
Naturalmente, lei non è andata via. Anzi, ha sfornato quattro gattini color arancio e marrone sulla veranda posteriore, tutti assolutamente uguali a lei. Dubito che Ruski c’entrasse. La mia amica Patricia Marvin è riuscita a collocarli tutti senza tante storie - uno dei vantaggi di vivere in una cittadina. Riesci sempre a conoscere gente amichevole, e che ti aiuta.
Da un bel po’ non lasciavo venire Ginger in casa, ma c’è stata un’ondata di freddo fino a quindici sotto zero, e quando siamo arrivati a venti ho dovuto lasciarla entrare, tormentato dall’idea di trovarmela morta stecchita sulla veranda. Ruski non metteva il naso fuori della porta. La seconda gravidanza avvenne durante l’inverno successivo, e Ginger partorì i gattini in casa, in una cesta che avevo preparato per lei. E
naturalmente rimase dentro per allattare i piccoli.
Quando i gattini furono di dieci settimane, ne diedi via due. E Ginger prese a cercarli e a chiamarli passando di stanza in stanza, guardando sotto il letto, sotto il divano. E io decisi che non sarei più passato attraverso un’esperienza del genere. Ginger invece ci passa da secoli.
Con Ed, il gatto albino, ero solito fare un gioco che potremmo chiamare «Adesso acchiappo il mio piccolo Ed!»; allora lui scappava, sotto il sofà, sotto il letto, nel soggiorno. È un gioco che piace al bambini, che si mettono a correre ridendo. «Non mi prendi!». A Calico Jane piace fare questo gioco. Lo facevo sempre con Billy nella casa di Algiers. «Dov’è il mio Willy?».
Mi trovo, in sogno, nella casa al 4664 di Pershing Avenue dove sono nato. Al secondo piano, nell’ingresso che porta alla mia vecchia camera da letto, incontro un bambino biondo che aspetta lì «Sei Billy?» chiedo.
«Sono qualcuno per chiunque mi voglia bene»
risponde.
Su una sedia accanto al letto c’e Wimpy, il gatto bianco e arancione. Se mi chiudo in camera, piagnucola e raspa alla porta. Non per chiedere di mangiare. Vuole solo stare vicino a me o vicino a qualcuno che gli voglia bene. Faceva così anche Billy nella casa di Wagner Street ad Algiers. Piangeva fuori della porta finché non andavo ad aprire. E la casa era assai simile a questa, una semplice casetta di legno bianco, lunga e stretta.
Mi par di cogliere, attraverso Ruski, delle chiare immagini di Kiki. Certe volte quando raccolgo Ruski e lui non vuole che lo prenda, mi sembra che sia Kiki…
«¡Déjeme, William! Tú estás loco». E quando gli ho dato una sberla… il viso volto da una parte, occhi bassi… e poi non c’era più. Naturalmente sapevo dov’era e l’ho riportato a casa… «Prima, io come magro gatto randagio, mister».
Kiki mi lascio e andò a Madrid. Aveva buone ragioni per partire. In quel momento ero allo stadio finale con la droga. Fu pugnalato a morte in una stanza d’albergo da un amante geloso che l’aveva trovato con una ragazza.
Kiki a Tangeri, Angelo a Mexico City… e qualcun altro che non riesco a identificare perché è troppo prossimo a me. E talvolta lo ritrovo in me, faccia e corpo miei, più reale di chiunque altro, e che dice: «SONO IO, BILL… SONO IO», in continuazione. È questo che succede con Ruski quando mugola e allunga le zampe a toccarmi la faccia. Solo che ora non è espansivo come prima. Talvolta scansa la mia mano… «Tu mi fai vergognare, William. Non sono un niňo ». Certe volte mi fa accapponare la pelle.
Il mio primo Russian Blue veniva dalle strade di Tangeri e trovò il modo di entrare nel giardino di Villa Muniria, dove stavo nel l957. Era un bel micio con un lustro manto grigioazzurro, come certe pellicce molto costose, e occhi verdi. Benché all’epoca fosse già un gatto adulto, subito si affezionò molto e spesso passava la notte nella mia camera, che dava sul giardino.
Stando seduto prendeva al volo un pezzettino di carne tra le due zampette davanti, come una scimmia. Era identico a Ruski.
Wimpy a tratti mi fa pensare a mio figlio, Billy, e al mio povero padre. Sono le dieci, a casa, in Price Road.
Scendo per prendere nella dispensa il latte e i biscotti, sperando che mio padre non ci sia. La frustrazione mi rende scontroso e petulante. All’epoca, «gay» non era termine domestico.
Lui c’è. «Ciao, Bill».
Nei suoi occhi c’è un’invocazione patetica, e il dolore.
«Ciao».
Nient’altro che freddo odio. Se solo… Troppo tardi. E, da Cobble Stone Gardens, passo e chiudo.
Un altro flashback: circa due mesi prima che io lasciassi la Casa di Pietra. Sono seduto nella poltrona accanto al camino con in grembo il gatto bianco, e improvvisamente sento come una fitta improvvisa di odio e di risentimento. Non sono per niente tranquillo all’idea di trasferirmi in una villetta. Non ci sono soldi!
Un piccolo appartamento, magari. Le cassettine con la segatura… una cosa intollerabile! Sento l’odore fin da qua. E in quello sprazzo di risentimento che è scomparso il gatto? Sì, perché sia le persone sia gli animali possono andarsene nello spirito prima che nel corpo. Se solo potesse essere qui ora, il gatto bianco, e saltasse sulla scrivania a mettere le zampe sul tasti dalla macchina.
Nota di inizio aprile l985. Ruski è come curvo e ha un’aria abbattuta. Su e giù per la stanza, manda piccoli miagolii tristi, fa degli scarti per evitarmi, infine va giù nel seminterrato lanciando i suoi gridolini. È il lamento di una creatura mutante, in divenire… speranza che si raggela… lamento per la speranza che muore. Ruski ora sta piangendo nel seminterrato. Appena cerco di avvicinarmi a lui, piange e va via. L’essere mutante che non ce la fa, l’unico della sua specie, la vocina sperduta sempre più flebile.
Giù nel seminterrato a cercare Ruski. Non c’è niente e nessuno, lì, solo un lezzo di morte, e la stagnante aria madida, l’armadietto delle armi, i bersagli ricoperti di polvere.
Inverno nucleare… spaventosa tormenta di vento e neve. Un vecchio in una baracca tirata su con le rovine della sua casa, si accuccia sotto trapunte strappate, coperte piene di buchi e tappeti sporchi, insieme ai suoi gatti.
2 aprile l985. Ruski e sul tavolo accanto alla finestra che da a nord. Lo coccolo. Mugola, strofina il muso contro di me, poi si addormenta. Mi sento la sua triste voce perduta nella gola dolorante, irritata. Quando senti un cordoglio come questo, con le lacrime che ti corrono giù per la faccia, c’è sempre un presagio, un avvertimento ti aspetta un pericolo.
1° maggio l985. Un sentimento di profonda tristezza e un avvertimento di cui tener sempre conto. Può riferirsi a eventi che accadranno nel giro di settimane, mesi, anche anni. Nel caso specifico, esattamente un mese.
Ieri sono andato a piedi fino alla casa sulla Diciannovesima, la depressione e la pena si trascinavano a ogni passo. Questa mattina Ruski non e venuto a casa.
1° maggio, mercoledì mattina. Ho ricevuto la disperata chiamata di aiuto dl Rush, triste, spaventata voce che ho sentito per la prima volta un mese fa.
AIUTO AIUTO AIUTO.
E io so dove si trova. Chiamo la Humane Society.
«No. Non abbiamo un gatto che risponda a queste caratteristiche».
«Ne è sicuro?».
«Aspetti, controllerò di nuovo…». (Pianti di animali spaventati).
«Be’, sì, in effetti ce n’è uno che corrisponde».
«Vengo lì subito».
«Benissimo, passi prima al municipio con il certificato di vaccinazione antirabbica; deve pagare dieci dollari per il ritiro».
Tutto questo portato a termine nel giro di mezz’ora con l’aiuto di David Ohle. Arriviamo al ricovero degli animali. Èun campo di sterminio, pieno dei melanconici, disperati pianti di gatti perduti in attesa d’esser «messi a dormire».
«Ah, quello lì è proprio spaventatissimo!» dice la ragazza mentre mi conduce alla «Tenuta», come la chiama. Immobilizzato dalla paura, Ruski è rannicchiato insieme a un altro gatto terrorizzato su una mensola di ferro. La ragazza apre la porta. Io lo prendo e con delicatezza lo metto nella sua cesta.
Prima che il gatto possa venir rilasciato, dobbiamo aspettare una quindicina di minuti che arrivi il funzionario catturatore. Quando arrivo con Ruski nella cesta, lui si trova davanti all’ufficio. Èun pivello di poliziotto biondo e segaligno, coi baffi spennacchiati.
Neanche un poliziotto, veramente. Gli chiedo di dirmi in che circostanze è stato preso Ruski. Non le sa. A catturarlo è stato il suo collega, che oggi è via. La visiera da poliziotto gli nasconde la faccia ossuta.
«È illegale lasciar andare in giro libero il proprio gatto.
Gatti e cani devono stare nella proprietà del padrone ed essere in qualsiasi momento a portata di voce. È la legge». (Una legge abitualmente violata da chiunque a Lawrence abbia il giardino). Passate settantadue ore, gli animali vengono offerti in adozione. Loro lo sanno.
Gli animali riconoscono sempre la morte quando ce l’hanno davanti. Meglio allora che tu porga la miglior zampina. È la tua ultima possibilità, Micino.
Che possibilità avrebbe avuto Ruski, un gatto adulto, non castrato, paralizzato dalla paura? Un gatto spaventatissimo.
«Papà, papà, voglio quello!». Un ragazzino che indica Ruski.
«Be’, non ci sentiremmo di consigliarlo… non è molto socievole».
«Meglio che lo lasciamo stare, eh, tesoro?».
E Ruski che fa un miao di disperazione mentre loro proseguono.
Contesto l’implicito presupposto che a un gatto si possa fare un favore uccidendolo… oh, pardon… voglio dire
«mettendolo a dormire». Un’alternativa semplice ce l’abbiamo se ci volgiamo ai paesi arretrati che non hanno Humane Societies. A Tangeri i gatti randagi s’arrangiano da soli. Mi viene in mente di Tangeri un’eccentrica, anziana signora inglese. Ogni mattina andava al mercato del pesce e, riempita una borsa di pescetti da pochi soldi, faceva il giro degli spiazzi vuoti e degli altri posti dove si radunavano i gatti randagi.
Ho visto accorrere, mentre lei si avvicinava, anche una trentina di gatti.
Be’, perche no? Il denaro che si spende ora per rinchiudere e uccidere i gatti potrebbe benissimo essere usato per mantenere dei ripari con distributori di cibo.
Naturalmente, i gatti andrebbero castrati e vaccinati contro la rabbia.
Quella notte, per la prima volta in tre anni, Ruski saltò sul mio letto, e per ringraziarmi di averlo salvato cominciò a fare le fusa e i pigolii e gli strofinii dalla testa contro di me, finché non si addormentò.
Il giorno dopo chiamai la Protezione animali. «Il mio gatto è stato preso e portato al ricovero, e vorrei sapere in che circostanze è accaduto».
«Le circostanze sono che non è permesso lasciar andare in giro liberi i propri gatti».
«Lo so, ma io vorrei sapere com’è capitato che l’hanno preso».
Pare che l’abbiano catturato con una trappola per animali all’angolo fra la Diciannovesima e la Barker, a duecento metri circa dal confine posteriore dalla mia proprietà. Probabilmente era rimasto chiuso in gabbia tutta la notte. Per forza era un gatto spaventatissimo.
A quel tempo io non sapevo che esistessero delle trappole per animali. Non sapevo che potessero restarci presi i gatti. Lì vicino. Molto vicino. Supponiamo che fossi stato via. Supponiamo… no, non voglio pensarci.
È una cosa che fa male. Ora tutti i miei gatti portano una piastrina di vaccinazione.
Il grido che mi arrivò da Ruski non era solo un segnale di soccorso. Era la triste voce lamentosa dello spirito smarrito, l’afflizione che viene quando capisci che sei l’ultimo della tua specie. Questo dolore non può aver testimoni, perché non ne è rimasto nessuno. Nel tempo, dev’essere accaduto tante volte. E sta accadendo anche in questo momento. Le specie in pericolo. Non solo quelle che esistono effettivamente, o che un tempo sono esistite e si sono estinte, ma tutte le creature che potrebbero essere esistite.
Una speranza, una possibilità. La possibilità perduta.
La speranza che muore. Un grido che insegue chi potrebbe ancora sentirlo se non fosse già troppo lontano per sentire, un desolante dolore che torce l’animo. Questo è un cordoglio senza testimoni o «Tu sei l’ultimo. L’ultimo umano che innalza il grido».
Grido antico. Pochi riescono a sentirlo. Molto penoso.
E, giusto per un momento incantato, l’occasione era là.
Un’occasione perduta. La volta sbagliata. Sbagliato il momento. Troppo presto. Troppo tardi. A invocare una superlativa magia si rischia il prezzo terribile del fallimento. Sapere che l’occasione è perduta perché hai fallito. È un dolore che può uccidere.
La vita, per quello che è, va avanti. Dillon’s sta ancora aperto dalle sette del mattino a mezzanotte, sette giorni la settimana.
Io sono il gatto che cammina solitario. E per me tutti i supermarket si somigliano .
Sto bevendo, di Dillon’s, succo d’arancia da poco spremuta, e mangiando uova fresche di fattoria da un portauovo che ho comprato ad Amsterdam. Wimpy si rotola ai miei piedi, si strofina col muso, con le fusa dice Ti voglio bene Ti voglio bene Ti voglio bene. Mi vuole bene.
Miaouuu . «Ciao Bill».
La distanza tra quello e questo da la misura di ciò che ho imparato dai gatti.
Consideriamo la vecchia signora dei gatti che va a dargli da mangiare nel giardino del consolato francese, proprio di fronte al Café de France. I gatti corrono verso di lei, afferrando i pescetti al volo. Il mio primo Russian Blue prendeva i bocconi di carne con le zampe. Non mi ricordo che ne è stato di lui.
Voi che amate i gatti, rammentate che i milioni di gatti che miagolano nelle stanze di questo mondo ripongono ogni loro speranza e fiducia in voi, così come la mamma gattina alla Casa di Pietra appoggiò la testa sulla mia mano, e Calico Jane mise i gattini nella mia valigia, e Fletch salta in braccio a James, e Ruski corse verso di me gorgogliando gridolini di gioia.
II gatto grigioazzurro di Tangeri prende un pezzetto di carne tra le zampe anteriori come una scimmia… la mia bianca scimmietta. Passo passo, il gatto bianco viene avanti sinuoso verso di me, un po’ incerto, speranzoso.
Noi siamo il gatto che è in noi. Siamo gatti che nonpossono camminare da soli, e per noi c’è un postosoltanto.
Stampato nell’aprile 2ooo
dal Consorzio Artigiano «L.Y.G.» - Azzate Piccola Biblioteca Adelphi
Periodico mensile: N. 322/1994
Registr. Trib. di Milano N. 180 per l’anno 1973
Direttore responsabile: Roberto Calasso
«Il gatto non offre servigi. Il gatto offre se stesso. Naturalmente vuole cura e un tetto. Non si compra l’amore con niente.
Come tutte le creature pure, i gatti sono pratici».