....Dalla faccia, l'indolenza si propagava....
Estratto da "Oblomov"
Ivan Aleksandrovič Gončarov.
I
Una mattina Il'ja Il'iè Oblomov se ne stava a letto nell'appartamento che occupava in uno di quei casermoni di via Gorochovaja i cui inquilini sarebbero bastati a popolare un intero capoluogo di distretto.
Il'ja Il'iè era un uomo di circa trentadue-trentatré anni, di statura media, gradevole d'aspetto, con occhi grigio scuro; ma i tratti del volto rivelavano un'assoluta incapacità di determinazione e di concentrazione. Il pensiero volubile trascorreva senza guida sul suo viso, gli svolazzava negli occhi, si arenava fra le labbra semiaperte, si nascondeva fra i solchi della fronte, poi si dileguava di botto, e allora il volto restava rischiarato solo del vago lucore dell'indolenza.
Dalla faccia, l'indolenza si propagava a tutto l'atteggiamento del corpo, addirittura alle pieghe della vestaglia.
Di quando in quando, un'espressione che si sarebbe detta di stanchezza o di noia gli offuscava lo sguardo; ma la stanchezza o la noia non potevano scacciare nemmeno per un momento la mitezza, che era la caratteristica essenziale e dominante non solo del volto, ma di tutta l'anima; e l'anima risplendeva aperta e chiara negli occhi, nel sorriso, in ogni movimento della testa o della mano. Un osservatore distaccato e superficiale, dopo una rapida occhiata a Oblomov, avrebbe potuto dire: «Deve essere un tipo semplice e di buona pasta!». Ma un osservatore più acuto e partecipe, che lo avesse osservato a lungo, si sarebbe forse allontanato sorridendo, immerso in gradevoli meditazioni.
Il colorito di Il'ja Il'iè non era né roseo, né olivastro, né decisamente pallido, ma smorto; o forse così sembrava perché Oblomov era troppo floscio, per l'età che aveva, a causa della mancanza di moto o di aria, o probabilmente di entrambi. Nell'insieme il suo corpo, a giudicare dal colore scialbo e troppo bianco del collo, delle mani piccole e paffute, delle spalle cascanti, appariva eeccessivamente femmineo.
Anche i suoi movimenti, perfino quando era inquieto, venivano frenati dalla fiacchezza e dalla pigrizia, non
priva, nel suo genere, di una certa grazia. Se la nube nera di una preoccupazione saliva dall'anima ad addensarsi sul viso, lo sguardo si offuscava, la fronte si corrugava, e dubbio, afflizione e timore iniziavano il loro girotondo; ma raramente questa inquietudine si coagulava in un'idea precisa, e ancor più raramente si trasformava in un proposito concreto. Tutta l'inquietudine si risolveva in un sospiro e si estingueva nell'apatia o nella sonnolenza.
Come armonizzava l'abito da casa con i tratti sereni del volto di Oblomov e con la mollezza del suo corpo!
Indossava una vestaglia di stoffa persiana, una autentica gabbana all'orientale, senza nulla di europeo, senza nappe, senza velluto, senza vita, tanto ampia che Oblomov ci si poteva avvolgere dentro due volte. Le maniche, secondo l'immutabile moda asiatica, andavano allargandosi dalle dita alle spalle. Malgrado avesse perduto l'originale freschezza, e la prima, naturale lucentezza fosse stata soppiantata qua e là da un lustro d'altro genere, determinato dall'uso, la gabbana conservava pur sempre la vivacità dei colori orientali e la solidità del tessuto.
Agli occhi di Oblomov, quella gabbana aveva un mucchio di pregi inestimabili: era morbida, adattabile; non te la sentivi addosso; e si sottometteva al più piccolo movimento del corpo come un docile schiavo.
Oblomov girava sempre per casa senza cravatta e senza panciotto, perché gli piacevano la libertà e la comodità.
Le sue pantofole erano lunghe, morbide e larghe: cosicché i piedi, quando egli scendeva dal letto senza nemmeno guardare dove li mettesse, andavano immediatamente a infilarvisi dentro.
Per Il'ja Il'iè la posizione orizzontale non era una necessità, come per un malato o per chi desideri dormire, né un fatto accidentale provocato dalla stanchezza, né un piacere da individuo pigro: era il suo stato normale. Quando era a casa - ed era quasi sempre a casa - se ne stava sempre coricato, e sempre nella stessa camera dove lo abbiamo trovato, che gli serviva da stanza da letto, da studio e da salotto. Aveva altre tre camere, ma ci entrava di rado, magari al mattino, e anche questo non tutti i giorni, ma solo quando gli rassettavano lo studio, il che non capitava spesso. In quelle stanze i mobili erano coperti con le fodere e le tende abbassate.
A prima vista, la camera in cui Il'ja Il'iè se ne stava sdraiato sembrava molto ben arredata. C'erano uno scrittoio di mogano, due divani ricoperti di seta, bei paraventi su cui erano ricamati uccelli e fiori mai visti in natura. E c'erano tendaggi di seta, tappeti, alcuni quadri, bronzi, porcellane e un'infinità di graziosi ninnoli.
Ma l'occhio esercitato di una persona di buon gusto avrebbe scorto in quell'insieme nulla più che il desiderio di mantenere alla meno peggio il decorum imposto dalle convenienze, pur di levarsi il pensiero. Senza dubbio, solo questa era stata la cura di Oblomov al momento di arredare lo studio. Un padrone di casa dal gusto raffinato non si sarebbe contentato di quelle sedie di mogano pesanti e sgraziate, di quegli scaffali traballanti. Lo schienale di un divano aveva ceduto, e il legno si era scollato in parecchi punti.
Quadri, vasi e ninnoli erano nelle identiche condizioni.
Lo stesso padrone, peraltro, guardava l'arredamento del suo studio con occhio freddo e indifferente, come a
chiedersi: «Chi ha trascinato e ammucchiato qui tutta questa roba?». Forse perché Oblomov considerava i suoi beni con tanto distacco, e forse perché il suo servitore Zachar li considerava con un distacco ancor maggiore, l'aspetto dello studio, a guardarlo con più attenzione, colpiva per il disordine e la trascuratezza.
Ragnatele cariche di polvere pendevano a guisa di festoni dalle pareti, vicino ai quadri; gli specchi erano tanto polverosi che, invece di riflettere gli oggetti, avrebbero potuto servire come tavolette su cui annotare le cose da non dimenticare. I tappeti erano pieni di macchie. Sul divano era abbandonato un asciugamano; al mattino era un caso raro non trovare sul tavolo, non sparecchiato la sera prima, il piatto, la saliera, un osso rosicchiato e briciole di pane un po'
dovunque.
Se non fosse stato per questo piatto e per la pipa ancora calda posata sul letto, e per lo stesso padrone che stava dentro il letto, si sarebbe potuto pensare che in quella casa non vivesse nessuno, tanto le cose erano polverose, scolorite e non lasciavano intuire una sola traccia di presenza umana. E vero che sugli scaffali c'erano due o tre libri aperti e un giornale spiegazzato e che sullo scrittoio c'era il calamaio con le penne; ma le pagine a cui i libri erano aperti erano velate di polvere e ingiallite: prova evidente, che i volumi erano stati buttati lì da un pezzo; il giornale era dell'anno prima e, se si fosse intinta la penna nel calamaio, forse ne sarebbe uscita solo una mosca ronzante di paura.
Il'ja Il'iè si era svegliato molto presto, contro le sue abitudini: verso le otto. Una preoccupazione lo affliggeva.
Sul suo viso si alternavano paura, malinconia e stizza. Era visibilmente in preda a una lotta interiore, e l'intelletto non lo soccorreva.
Il giorno prima, Oblomov aveva ricevuto dallo starosta del suo villaggio una lettera dal contenuto sgradevole.
Sono note le cose sgradevoli che può scrivere uno starosta: cattivo raccolto, arretrati da pagare, introiti ridotti e via dicendo. È vero che l'anno precedente e quello prima ancora Oblomov aveva ricevuto dallo starosta lettere identiche, ma quest'ultima lo aveva colpito in maniera profonda, come accade sempre per una spiacevole sorpresa.
Era forse una faccenda da prendere alla leggera? Doveva pensare al più presto ai provvedimenti da adottare.
Riguardo alla sollecitudine di Il'ja Il'iè per i propri affari bisogna poi rendergli il dovuto. Già alcuni anni avanti, quando aveva ricevuto la prima lettera spiacevole dellostarosta, aveva cominciato a pensare a un piano di trasformazioni e miglioramenti vari per riordinare l'amministrazione della sua proprietà.
Il piano prevedeva l'introduzione di nuove misure economiche, di polizia e di altro genere. Ma il piano era
ancora ben lungi dall'essere perfezionato, e le lettere spiacevoli dello starosta si ripetevano ogni anno, lo spronavano ad agire e, per conseguenza, gli turbavano la pace. Oblomov si rendeva conto che, prima ancora di aver messo a punto il piano, avrebbe dovuto intraprendere qualcosa di decisivo.
Appena sveglio, si era riproposto subito di alzarsi, di lavarsi e bevuto il tè, di mettersi a pensare con impegno, di scovare qualcosa, prendere appunti, in sostanza di occuparsi della faccenda come si conveniva.
Rimase a letto un'altra mezz'ora, macerato da questi propositi, ma poi rifletté che avrebbe avuto ancora tempo dopo il tè e che il tè avrebbe potuto prenderlo a letto, come al solito, tanto più che niente impedisce di pensare anche stando sdraiati.
Così fece. Dopo il tè si tirò su e poco mancò che non si alzasse: guardando le pantofole, cominciò perfino a far scivolare una gamba giù dal letto, ma subito la ritirò.
Suonarono le nove e mezza. Il'ja Il'iè trasalì.
«Ma, insomma, cosa sto facendo, davvero!?», disse stizzito ad alta voce. «Un po' di coscienza: è ora di mettersi al lavoro! Basta volere, e...».
«Zachar!», gridò.
Nella stanza separata dallo studio di Il'ja Il'iè solo da un piccolo corridoio si udì dapprima come un ringhio di cane da guardia, poi il tonfo di piedi che atterravano dall'alto. Era Zachar, che era saltato giù dalla panchetta sporgente dalla stufa, sulla quale di solito passava il tempo sonnecchiando.
Nello studio entrò un vecchio che indossava una specie di finanziera grigia, con uno strappo sotto l'ascella, dal quale faceva capolino un pezzo di camicia; anche il panciotto era grigio, con bottoni di rame; l'uomo aveva il cranio nudo come un ginocchio e un paio di enormi scopettoni, folti, rossi e brizzolati, ognuno dei quali sarebbe bastato per tre barbe.
Zachar, come non faceva nulla per modificare l'aspetto esteriore datogli da Dio, così non si curava di mutare l'abito che usava in campagna: un vestito che si era fatto confezionare su un modello portato dal paese. La finanziera e il panciotto grigi gli piacevano anche perché quella specie di semiuniforme gli ricordava vagamente la livrea che indossava nel tempo lontano in cui accompagnava i defunti padroni in chiesa o per visite; e la livrea, nei suoi ricordi, era l'unica cosa che rappresentasse la dignità di casa Oblomov.
Ormai, niente altro gli ricordava la vita signorile, agiata e tranquilla trascorsa in quello sperduto villaggio. I vecchi padroni erano morti, i ritratti di famiglia erano rimasti nella casa e certo erano andati a finire in qualche angolo della soffitta: le storie riguardanti il tempo andato e l'importanza della famiglia morivano, o vivevano solo nel ricordo dei pochi vecchi del villaggio che ancora erano rimasti. Per questo la finanziera grigia era cara a Zachar, che in essa vedeva ancora i pallidi segni della passata grandezza: come li vedeva in qualche tratto conservatosi nel viso e nei modi del padrone, i quali ricordavano i genitori, e nei capricci contro i quali il vecchio brontolava dentro di sé ad alta voce, ma che al tempo stesso rispettava in cuor suo come manifestazione della volontà e del diritto del padrone.
Senza quei capricci, si sarebbe sentito come senza padrone; senza di essi, nulla gli avrebbe rammentato la sua giovinezza, il villaggio che avevano lasciato tanto tempo addietro, e le storie dell'antica dimora, le uniche cronache conosciute da vecchi servitori, balie e governanti che le tramandavano di generazione in generazione.
Un tempo la famiglia Oblomov era stata ricca e nota nella regione, ma poi, Dio sa perché, era diventata sempre più povera, era decaduta e da ultimo, a poco a poco, aveva finito per confondersi con le casate di nobiltà recente. Solo i servitori con i capelli ormai bianchi conservavano e si tramandavano l'un l'altro il ricordo fedele del passato, che avevano caro come una reliquia.
Ecco perché Zachar era tanto affezionato alla finanziera grigia. Forse teneva anche agli scopettoni perché nella sua infanzia aveva visto molti vecchi servitori con questo antico e aristocratico ornamento.
Il'ja Il'iè, sprofondato nei suoi pensieri, per un pezzo non si accorse di Zachar che, dopo essersene rimasto fermo davanti a lui in silenzio, alla fine tossicchiò.
«Che vuoi?», chiese Il'ja Il'iè.
«Ma se mi avete chiamato!».
«Chiamato? Perché ti ho chiamato... non ricordo!», fece Il'ja Il'iè, stiracchiandosi. «Vattene di là, finché non mi verrà in mente».
Zachar se ne andò, e Il'ja Il'iè rimase a letto a pensare a quella dannata lettera.
Passò circa un quarto d'ora.
«Su, basta stare a letto!», disse Il'ja Il'iè, «bisogna proprio alzarsi... Ma dopo tutto sarà meglio che rilegga ancora una volta con attenzione la lettera dello starosta, e poi mi alzerò davvero. Zachar!».
Di nuovo il tonfo e un ringhio più forte. Zachar entrò, ma Oblomov era di nuovo immerso nelle sue
meditazioni. Zachar rimase lì fermo un paio di minuti, guardando il padrone di traverso con occhio malevolo, e alla fine si avviò verso la porta.
«Ma dove vai?», chiese all'improvviso Oblomov.
«Voi non parlate, e allora perché devo star qui per niente?», disse Zachar con voce arrochita, per via che l'altra voce, a suo dire, egli l'aveva perduta a una partita di caccia con i cani cui aveva preso parte col vecchio padrone, allorché un forte vento gli aveva soffiato in gola.
Si fermò semivoltolato in mezzo alla stanza e guardò in tralice Oblomov.
«Ti si sono forse paralizzate le gambe, che non ce la fai a stare un momento in piedi? Vedi bene che ho delle preoccupazioni... dunque, aspetta! Non sei stato sdraiato abbastanza? Trovami la lettera dellostarosta che è arrivata ieri.
Dove l'hai cacciata?».
«Che lettera? Io non ho visto nessuna lettera», disse Zachar.
«Ma se l'hai presa tu dal postino: quella tutta sporca».
«Chissà dove l'avete messa... e dovrei saperlo io?», disse Zachar, cercando a tastoni fra le carte e le altre cose che stavano sul tavolo.
«Tu non sai mai niente. Guarda là, nel cestino! E se fosse caduta dietro il divano? Ecco, intanto lo schienale del divano non è stato riparato: cosa aspetti a chiamare il falegname perché l'accomodi? E sì che l'hai rotto tu. Non pensi mai a niente!».
«Io non ho rotto niente», rispose Zachar, «si è rotto da sé; non può mica durare in eterno; deve pure rompersi prima o poi...».
Il'ja Il'iè ritenne superfluo dimostrargli il contrario.
«Allora, l'hai trovata?», si limitò a chiedere.
«Qua ci sono delle lettere».
«Non è fra quelle».
«Be' qui non ce ne sono altre», disse Zachar.
«E va bene, vattene!», disse con impazienza Il'ja Il'iè. «Adesso mi alzo e me la trovo da solo».
Zachar tornò alla stufa, ma aveva appena appoggiato le mani alla panchetta per saltarci su, che di nuovo il
grido pressante si fece sentire: «Zachar! Zachar!».
«Oh, Dio!», bofonchiò Zachar avviandosi per la terza volta verso lo studio. Che strazio! Arrivasse presto la
morte!».
«Che volete?», chiese appoggiandosi con una mano alla porta e lanciando a Oblomov uno sguardo malevolo e
così obliquo che gli permetteva di vedere il padrone solo con mezzo occhio, mentre il padrone scorgeva di lui solo un enorme scopettone, dal quale ci si poteva aspettare di veder volare via due o tre uccellini.
«Il fazzoletto, presto! Lo potresti capire da te: non vedi?», lo redarguì severo Il'ja Il'iè.
Zachar non mostrò né particolare malcontento né meraviglia per l'ordine e il rimprovero del padrone, perché
probabilmente secondo lui l'uno e l'altro erano affatto naturali.
«E chi lo sa dov'è il fazzoletto?», borbottò, vagando per la stanza e palpando ogni sedia, anche se non ci voleva molto a vedere che sulle sedie non c'era niente.
«Vi perdete tutto!», commentò aprendo la porta del salotto per vedere se a volte fosse là.
«Dove vai? Cerca qui! è dall'altro ieri che non vado là dentro. E spicciati!», disse Il'ja Il'iè.
«Dov'è il fazzoletto? Non ci sono fazzoletti», disse Zachar allargando le braccia e facendo girare lo sguardo in tutti gli angoli. «Eccolo lì!», gracidò all'improvviso, irritato. «Ci state sopra voi! Ne vedo un pizzo che spunta. Ci sta sopra, e vuole il fazzoletto!».
E, senza aspettare risposta, Zachar fece per andarsene. Oblomov, un po' imbarazzato per la gaffe commessa,
trovò subito un altro appiglio per prendersela con Zachar.
«Guarda se questo è il modo di fare le pulizie! Polvere e sporcizia dappertutto, Dio mio! Ma guarda, guarda un po' negli angoli... non fai mai niente!».
«Proprio, non faccio niente...», cominciò a dire Zachar con tono risentito, faccio del mio meglio, non mi
risparmio! E levo la polvere, e spazzo quasi tutti i giorni...».
Indicò il centro della stanza e il tavolo su cui Oblomov aveva cenato.
«Ma guardate», disse, «è tutto spazzato, rassettato, come per un matrimonio... Che altro volete?».
«E questo cos'è?», lo interruppe Il'ja Il'iè, indicando le pareti e il soffitto. «E questo? e questo?», gli mostrò l'asciugamano buttato lì dal giorno prima, e il piatto dimenticato sulla tavola con un pezzo di pane.
«Be', questo magari lo porto via», disse Zachar con degnazione prendendo il piatto.
«Fosse solo questo! E la polvere sulle pareti, e le ragnatele?...», disse Oblomov indicando le pareti.
«Quello è un lavoro che faccio per la Settimana Santa, quando pulisco le icone e tolgo le ragnatele...».
«E libri e quadri li spolveri?».
«Libri e quadri prima di Natale: allora con Anis'ja ripasseremo tutti gli armadi. Ma adesso quando posso fare ordine? Voi state sempre in casa».
«Qualche volta vado a teatro, e a far visite: ecco quando...»
«Sai che razza di pulizia farei di notte!».
Oblomov lo guardò con aria di rimprovero, scosse il capo e sospirò; Zachar gettò un'occhiata indifferente alla finestra e sospirò anche lui. Il padrone sembrava pensare: «Eh, fratello, tu forse sei ancora più Oblomov di me», e Zachar per poco non pensò: «Fesserie! Tu sei bravo solo a dire paroloni e a lamentarti, ma della polvere e delle ragnatele non te ne importa proprio niente».
«Ma non capisci», disse Il'ja Il'iè, «che la polvere porta le tarme? A volte mi capita di vedere perfino delle cimici sulle pareti!».
«Io ho anche le pulci!», rispose indifferente Zachar.
«E ti pare bello? è ripugnante!», rimarcò Oblomov.
Sul volto di Zachar comparve un sogghigno che raggiunse le sopracciglia e gli scopettoni; questi ultimi, per
conseguenza, furono respinti ai lati, mentre per tutto il volto fino alla fronte andava allargandosi una macchia rossa.
«Ma che colpa ne ho io se al mondo ci sono le cimici?», chiese con stupito candore. «Le ho forse inventate
io?».
«Dipende dalla sporcizia», lo interruppe Oblomov. «Quando la smetterai di dire stupidaggini!?».
«E neanche la sporcizia l'ho inventata io».
«In camera tua, di notte, passeggiano i topi: li sento».
«E neanche i topi ho inventato io. Di quelle creature, topi, gatti, cimici, ce n'è tante dappertutto».
«Come mai nelle case degli altri non ci sono né tarme né cimici? ».
La faccia di Zachar espresse l'incredulità o, per dir meglio, la tranquilla sicurezza che ciò non poteva essere.
«In camera mia c'è molto di tutto», disse testardo, «non si può correr dietro a ogni cimice, andarle a tirar fuori dalle fessure».
E forse in cuor suo pensava: «E come si farebbe a dormire senza cimici?».
«Tu spazza, leva il sudiciume dagli angoli, e non ci sarà più niente», lo ammonì Oblomov.
«Tu lo levi, e il giorno dopo si ammucchia di nuovo», disse Zachar.
«Non si ammucchia», lo interruppe il padrone, «non deve ammucchiarsi».
«Si ammucchia, lo so», replicò il testardo il servo.
«E se si ammucchia, tu spazzi di nuovo».
«Cosa? Ogni giorno scopare in tutti gli angoli?», esclamò Zachar. «Ma che razza di vita sarebbe? Meglio
render l'anima a Dio!».
«Come mai dagli altri è pulito?», obiettò Oblomov. «Guarda la casa dell'accordatore dirimpetto: è un piacere
vederla, e c'è solo una serva».
«Ma son dei tedeschi, e da dove la prenderebbero la sporcizia!?», ribatté pronto Zachar. «Guardata un po' come vivono! Tutta la famiglia campa una intera settimana rosicchiando un osso. La finanziera passa dalle spalle del padre a quelle del figlio, e poi di nuovo dal figlio al padre. Moglie e figlie hanno dei vestitini corti e striminziti; tengono sempre le gambe piegate come le oche... Dove la prendono la sporcizia? Da loro non è come da noi, che si lasciano per anni negli armadi mucchi di abiti logori, e si accumulano montagne di croste di pane durante l'inverno... Da loro non va perduta nemmeno una crosta: le fanno biscottate per quando bevono la birra!».
Zachar sputava addirittura fra i denti, parlando di un modo di vivere così sordido.
«Con le chiacchiere non si risolve niente», lo redarguì Il'ja Il'iè. «Faresti meglio a pulire».
«Qualche volta pulirei, ma siete voi che me lo impedite», disse Zachar.
«Siamo alle solite! Sono sempre io che impiccio, vero?».
«Sicuro, proprio voi; state sempre in casa: come si fa a pulire davanti a voi? Uscite per una giornata, e io
pulisco».
«Ma guarda che idea... uscire! È meglio che te ne torni di là».
«Dico davvero!», insisté Zachar. «Ecco, se voi oggi usciste, io e Anis'ja metteremmo a posto ogni cosa. Ma in due non ce la faremo nemmeno: bisognerà prendere anche delle donne, lavare tutto».
«Ma che ti sei messo in testa... delle donne! Vattene», disse Il'ja Il'iè.
Si era già pentito di aver tirato in ballo l'argomento con Zachar. Dimenticava sempre che gli bastava sfiorare quel tasto delicato per procurarsi un mucchio di noie.
A Oblomov sarebbe anche piaciuto che tutto fosse pulito, però avrebbe desiderato che ciò accadesse come per
incanto, senza che lui se ne accorgesse; ma Zachar, non appena gli si chiedeva di togliere la polvere o di lavare il pavimento o cose del genere, si metteva sempre a discutere, e cercava di dimostrare la necessità di mettere a soqquadro la casa, sapendo benissimo che questo solo pensiero avrebbe sprofondato il padrone nell'angoscia.
Uscito Zachar, Oblomov si immerse di nuove nelle sue meditazioni. Dopo qualche minuto, rintoccò un'altra
mezz'ora.
«Ma come?», disse Il'ja Il'iè quasi con terrore. «Fra poco saranno le undici e io ancora non mi sono alzato, non mi sono lavato? Zachar, Zachar!».
«Oh, Dio! Ancora!», si sentì dal corridoio, e poi il solito tonfo.
«È tutto pronto per lavarmi?», domandò Oblomov.
«È pronto da un pezzo», rispose Zachar. «Perché non vi alzate?».
«Perché non l'hai detto che era pronto? Mi sarei alzato prima. Va', ti seguo subito. Ho da fare, devo scrivere».
Zachar se ne andò, ma dopo un momento tornò con un quadernetto scarabocchiato e bisunto e con dei pezzi di
carta. «Ecco, giacché scrivete, controllate un po' i conti: sono da pagare».
«Che conti? Pagare cosa?», chiese di malumore Il'ja Il'iè...
«Il macellaio, l'erbivendolo, la lavandaia, il panettiere: vogliono tutti i soldi».
«Pensano solo ai soldi!», borbottò Il'ja Il'iè. «E tu, perché non mi dai i conti un po' alla volta, invece di presentarmeli tutti insieme?».
«Ma se voi non fate che cacciarmi via: domani, domani...».
«Be', anche stavolta non si può rimandare a domani?».
«No! Mi stanno sempre addosso: non danno più niente a credito. Oggi è il primo del mese».
«Ah!», esclamò con tristezza Oblomov. «Un'altra preoccupazione! Be', che ci fai lì impalato? Mettili sul
tavolo. Adesso mi alzo, mi lavo e li guardo», disse Il'ja Il'iè. «è tutto pronto per lavarmi?».
«Pronto!», disse Zachar.
«Dunque, adesso...».
Cominciò a sollevarsi sul letto, stronfiando, per alzarsi.
«Ho dimenticato di dirvi», riprese Zachar, «che poco fa, mentre ancora dormivate, l'amministratore ha mandato il portinaio: dice che dobbiamo assolutamente sloggiare... gli serve l'appartamento».
«Be', e con questo? Se gli serve, è certo che sloggeremo. Perché continui a seccarmi? È già la terza volta che me ne parli».
«Seccano anche me».
«Dì che sloggeremo».
«Dicono che già da un mese, l'avete promesso, dicono, ma continuate a non sloggiare; noi, dicono,
informeremo la polizia».
«E che la informino!», disse reciso Oblomov. «Ce ne andremo da noi, appena farà un po' più caldo, fra tre
settimane».
«Ma quali tre settimane! L'amministratore dice che fra due settimane verranno gli operai: butteranno giù tutto...
"Dovete sloggiare", ha detto, "domani o dopodomani"».
«Ehi, ehi! quanta fretta! Ci manca anche questo! E perché non subito? E tu non osare più di venirmi a ricordare l'appartamento. Te l'ho già proibito una volta; ma tu insisti. Sta attento!».
«E che devo fare?», chiese Zachar di rimando.
«Che devi fare?... ecco come crede di cavarsela, lui!», fece Il'ja Il'iè. «Lo domanda a me! Che c'entro io? Non importunarmi, sistema le cose come ti pare, basta che non si debba sloggiare. Non ci si può sforzare di far qualche cosa per il proprio padrone!?».
«Ma come posso sistemare le cose, signore?», gracchiò debolmente Zachar. «La casa non è mia: come si fa a
non sloggiare dalla casa di altri, se ti caccian fuori? Se fosse casa mia, con grandissimo piacere...».
«Ma non c'è un modo qualsiasi per mettersi d'accordo? "Noi, diciamo, abitiamo qui da tanto tempo, paghiamo regolarmente"».
«Gliel'ho detto», fece Zachar.
«Be', e loro?».
«Macché! Badana a sistemare gli affari loro: "Sloggiate, dicono, dobbiamo fare delle modifiche". Con il nostro e con quello del dottore, vogliono fare un solo grande appartamento per il figlio del padrone di casa che si sposa».
«Oh, Dio mio!», esclamò stizzito Oblomov. «Ci sono ancora degli asini che si sposano!».
Si girò sulla schiena.
«Potreste scrivere al padrone di casa», disse Zachar; «può darsi che non vi disturbi e dia ordine di demolire prima l'altro appartamento».
Nel dir questo, Zachar fece un vago cenno con la mano verso destra.
«Be', d'accordo, appena mi alzo, gli scrivo... Tu vai di là, e io ci penso su. Non sai fare proprio niente»,
aggiunse, «anche di queste bazzecole devo occuparmi io».
Zachar se ne andò, e Oblomov si mise a pensare.
Ma aveva l'imbarazzo della scelta fra le cose su cui meditare: sulla lettera dellostarosta, sul trasferimento in un nuovo alloggio, o sui conti che doveva controllare? Era travolto dalla piena delle preoccupazioni e continuava a stare coricato, rigirandosi ora su un fianco, ora sull'altro. Di quando in quando, se ne usciva con delle esclamazioni: «Oh, Dio mio! La vita ti assilla, non ti dà tregua!».
Non si sa per quanto tempo ancora sarebbe rimasto a meditare sul suo dilemma, quando dall'anticamera si sentì il campanello.
«È arrivato qualcuno!», disse Oblomov avvolgendosi nella vestaglia. «E io ancora non mi sono alzato. È
proprio una vergogna! Chi può essere, così di buon mattino?».
E, sempre sdraiato, gettò uno guardo incuriosito verso la porta.
II
Entrò un giovanotto di circa venticinque anni, che sprizzava salute da tutti i pori e rideva con le guance, con le labbra e con gli occhi. Faceva invidia a guardarlo.
Pettinato e vestito in maniera irreprensibile, abbagliava per la freschezza del volto, della camicia, dei guanti e del frac. Dal panciotto pendeva una raffinata catena con molti minutissimi ciondoli. Il giovane tirò fuori un fazzoletto di fine batista, ne aspirò il profumo orientale, poi con noncuranza se lo passò sul viso, e poi sul cappello lucido e sulle scarpe di vernice.
«Ah, Volkov, salve!», disse Il'ja Il'iè.
«Salve, Oblomov», rispose il brillante giovanotto andando verso di lui.
«Non si avvicini, non si avvicini: mi porta il freddo di fuori!», disse Oblomov.
«Oh, viziato, sibarita!», esclamò Volkov cercando con gli occhi un posto dove posare il cappello, che tuttavia non posò, dato che c'era polvere dappertutto; sollevò le falde del frac per mettersi a sedere ma, dopo aver guarato bene la poltrona, rimase in piedi.
«Non si è ancora alzato! Che razza di palandrana ha indosso? È un pezzo che non se ne portano più di questo
tipo, disse per mortificare Oblomov.
«Non è una palandrana, è una vestaglia», precisò Oblomov avvolgendosi con voluttà nell'ampio indumento.
«Sta bene?», domandò Volkov.
«Macché bene!», rispose sbadigliando Oblomov. «Male! Soffro di congestioni. E lei come sta?».
«Io? Non c'è male: in buona salute e allegro... molto allegro!», aggiunse compiaciuto il giovane.
«Da dove viene così presto?», chiese Oblomov.
«Dal sarto. Guardi, le piace il mio frac?», disse girandosi davanti a Oblomov.
«Eccellente! Confezionato con molto gusto», disse Il'ja Il'iè. «Solo, perché così largo dietro?».
«È un reitfrac: un abito da cavallerizzo».
«Ah, capisco! Ma lei va a cavallo?».
«Già! Questo frac l'ho ordinato proprio per oggi: è il primo maggio, e vado con Gorjunov a Ekaterinhof. Ah,
non lo sa? Gorjunov Miša ha avuto la promozione, ecco perché facciamo qualcosa di speciale», aggiunse con
entusiasmo Volkov.
«Ah, ecco!», disse Oblomov.
«Lui ha un sauro», proseguì Volkov. «Al reggimento hanno tutti sauri, ma il mio è un morello. Lei come verrà, a piedi o in carrozza?».
«Ma... in nessun modo», disse Oblomov.
«Non andare a Ekaterinhof il primo maggio!... Ma che dice, Il'ja Il'iè!», esclamò stupito Volkov. «Ci vanno
tutti!».
«Via, tutti! No, non tutti!», osservò pigramente Oblomov.
«Venga, amico mio, Il'ja Il'iè! Sofja Nicolajevna e Lidija saranno sole in vettura, e di fronte al sedile c'è una panchetta: potrebbe...».
«No, non mi siederò sulla panchetta. E poi, cosa ci farei là!».
«Allora, vuole che Miša mi dia un cavallo?».
«Sa Iddio cosa gli salta in mente!», disse Oblomov quasi fra sé. «Perché ha tanto a cuore i Gorjunov?».
«Ah!», esclamò Volkov arrossendo, «... debbo dirglielo?».
«Dica pure!».
«Non ne parlerà con nessuno... parola d'onore?», proseguì Volkov sedendosi sul divano accanto a lui.
«Le pare?».
«Io... mi sono innamorato di Lidija», mormorò il giovane.
«Bravo! Da un pezzo? Mi pare sia molto graziosa».
«Sono già tre settimane!», disse Volkov con un profondo sospiro. «E Miša è innamorato di Dašen'ka».
«Quale Dašen'ka?».
«Ma dove vive, Oblomov? Non conosce Dašen'ka? Tutta la città impazzisce per le sue danze! Stasera lui ed io
andremo al balletto; Miša le lancerà un mazzo di fiori. Bisogna spalleggiarlo: è timido, ancora un novellino... Ah, dovrò andare a prendere le camelie...».
«E dove altro deve andare? La smetta, venga a pranzo da me: chiacchiereremo un po'. Mi sono capitati due
guai...».
«Non posso: sono a pranzo dal principe Tjumenev; ci saranno tutti i Gorjunov e lei, lei... la piccola Lidija», aggiunse in un sussurro. «Come mai non è più venuto dal principe? È una casa tanto allegra! Che vita vi si conduce! E
la villa! Affondata tra i fiori! Hanno fatto costruire una galleria, gothique. Dicono che questa estate ci saranno balli e quadri viventi. Ci verrà?».
«No, credo di no».
«Ah, che casa! Quest'inverno, ogni mercoledì c'erano non meno di cinquanta persone, a volte arrivavano anche
a cento...».
«Dio mio! Doveva essere una noia terribile, infernale!».
«Che dice mai? Noia! Quanti più si è, tanto più allegri si sta. Anche Lidija ci veniva; non l'avevo notata, ma improvvisamente...
Invano di obliarla cerco
e con il senno vincer la passione...».
Si mise a cantare e, trasognato, sedette sulla poltrona; ma d'un tratto balzò in piedi e cominciò a togliersi la polvere di dosso.
«Quanta polvere dappertutto, qui da lei», disse.
«Quello Zachar!» si lagnò Oblomov.
«Be', è ora che vada!», disse Volkov. «Devo comperare le camelie per il bouquet di Miša. Au revoir».
«Venga stasera a prendere il tè, dopo il balletto: mi racconterà com'è andata», lo invitò Oblomov.
«Impossibile, ho promesso ai Mussinskij di andare da loro: oggi è il giorno in cui ricevono. Venga anche lei.
Vuole? La presento io».
«No, che ci verrei a fare?».
«Dai Mussinskij? Scusi, ma in casa loro si riunisce mezza città. Cosa ci verrebbe a fare? Quella è una casa
dove si parla di tutto...».
«Ecco, proprio questo è seccante: che si parli di tutto», disse Oblomov.
«Allora, vada a trovare i Mezdrov», lo interruppe Volkov. «Là si parla solo di una cosa: di arte; non si sente altro: scuola veneziana, Beethoven e Bach, Leonardo da Vinci...».
«Parlare sempre di una sola cosa... che noia! Devono essere dei gran pedanti!», disse sbadigliando Oblomov.
«Non le va bene niente. Come fossero poche le case dove si riceve! Ora tutti hanno il loro giorno: dai Savinov si pranza il giovedì, dai Maklašin il venerdì, dai Vjaznikov la domenica, dal principe Tjumenev il mercoledì. Io ho tutti i giorni occupati!», concluse Volkov raggiante.
«E non le viene a noia vagabondare qua e là ogni giorno?».
«Venirmi a noia! Ma come venirmi a noia? È divertentissimo!», esclamò spensierato il giovane. «La mattina
leggo un po' il giornale, bisogna essere au courant di tutto, sapere le novità. Grazie a Dio, ho un ufficio che non richiede la mia presenza continua. Ci faccio una capatina solo due volte alla settimana, poi pranzo dal generale, poi vado a far visita a persone che non vedo da tempo: be', e poi... c'è qualche nuova artista, ora al teatro russo, ora al teatro francese.
E quando ci sarà l'opera mi abbonerò. E adesso sono innamorato... Verrà l'estate; a Miša hanno promesso una licenza; andremo a casa sua in campagna per un mese, tanto per cambiare. Là si va a caccia. Hanno degli ottimi vicini, che danno dei bals champêtres. Andrò a passeggio con Lidija nei boschetti, a far gite in barca, a raccogliere fiori... Ah!...», sospirò pervaso dalla gioia. «Ma adesso devo andare... Addio!», disse, tentando invano di rimirarsi nello specchio coperto di polvere.
«Un momento», lo trattenne Oblomov, «vorrei parlarle di certe faccende».
« Pardon, non ho proprio tempo», disse Volkov affrettandosi, «un'altra volta!... Ma non vuole venire a mangiare le ostriche con me? Così potrebbe parlarmene. Andiamo, è Miša che offre».
«No, vada con Dio!», rispose Oblomov.
«Allora, addio!».
Volkov fece per andarsene, poi si voltò.
«Ha visto?», domandò, mostrando la mano che sembrava modellata nel guanto.
«Che roba è?», chiese Oblomov perplesso.
«Ma i nuovi lacets? Guardi come stringono alla perfezione: non c'è più bisogno di tribolare per due ore con i bottoncini; basta tirare il laccetto... e via. Sono appena arrivati da Parigi. Vuole che gliene porti un paio per prova?».
«Va bene, me li porti!», disse Oblomov.
«E guardi questo: è graziosissimo, nevvero?», disse, scegliendo dal mucchio un ciondolino: un biglietto da
visita con l'angolo ripiegato.
«Non riesco a decifrare che cosa c'è scritto».
« Pr. prince M. Michel», spiegò Volkov, «il cognome Tjumenev non ci stava; me lo ha regalato il principe per Pasqua, invece dell'uovo. Ma adesso addio, au revoir. Devo andare ancora in dieci posti. Dio mio, come è allegro il mondo!».
E scomparve.
«Dieci posti in un giorno solo... sciagurato!», pensò Oblomov. «E questa sarebbe vita!», scrollò le spalle.
«Dove è più l'uomo, qui? Cosa diventa, così frantumato e disperso? Certo, non è male frequentare i teatri, e innamorarsi di una qualche Lidija... è carina! Raccogliere i fiori e andare in barca con lei... va bene; ma andare in dieci posti in un giorno solo... sciagurato!», concluse, adagiandosi sulla schiena e rallegrandosi di non avere desideri e pensieri così futili, e di non dover vagabondare di qua e di là, ma di potersene stare tranquillo a letto, conservando la sua dignità di uomo e la sua pace.
Un'altra scampanellata interruppe le sue meditazioni.
Entrò un nuovo visitatore.
Era un signore che indossava il frac verde scuro con i bottoni stemmati dei funzionari dello stato; era rasato alla perfezione e avevea il viso completamente incorniciato da un paio di favoriti bruni, un'espressione di imbarazzo ma di calma consapevolezza negli occhi, l'aspetto di un individuo molto provato e un sorriso pensoso.
«Salve, Sud'binskij!», lo salutò allegramente Oblomov. «Era ora che facessi lo sforzo di venire a trovare il
vecchio collega! Non ti avvicinare, non ti avvicinare! Mi porti il freddo di fuori!».
«Salve, Il'ja Il'iè. Da un pezzo volevo venire», disse il visitatore, «ma sai che lavoro diabolico è il nostro. Ecco, guarda qua: ho una valigia piena di carte da portare a rapporto; e se in ufficio hanno bisogno di qualche cosa, ho dato ordine all'usciere di venire a cercarmi qui. Non si può disporre nemmeno di un minuto per se stessi».
«Non sei ancora in ufficio? Come mai così tardi?», chiese Oblomov. «Un tempo, tu alle dieci...».
«Un tempo... sì; ma ora è tutt'altra cosa: ci vado alle dodici in vettura». Calcò l'accento sull'ultima parola.
«Ah, indovino!», esclamò Oblomov. «Sei entrato nel novero dei capufficio! Da molto tempo?».
Sud'binskij, tutto compreso, fece un cenno col capo.
«Dalla Settimana Santa», disse. «Ma quanto lavoro... spaventoso! Dalle otto alle dodici in casa, dalle dodici alle cinque alla cancelleria, perfino di sera lavoro. Mi sono ormai disabituato alla gente».
«Ehm! Capufficio... ma bene!», disse Oblomov. «Felicitazioni! Ma guarda un po'! E pensare che lavoravamo
insieme alla Cancelleria. Credo che l'anno prossimo sarai consigliere di stato».
«Figurati! Dio ti ascoltasse! Quest'anno devo ancora ricevere la corona; pensavo di essere proposto per merito, ma adesso, con questa promozione... non è possibile due anni di seguito...».
«Vieni a pranzo da me, berremo alla promozione!», disse Oblomov.
«No, oggi pranzo dal vice-direttore. Per giovedì bisogna preparare la relazione... un lavoro infernale! Su quello che arriva dai governatorati non si può fare affidamento: bisogna controllare tutte le registrazioni. Foma Fomiè è tanto diffidente: vuol vedere tutto di persona. Oggi dopo pranzo le studieremo insieme».
«Ma no, anche dopo pranzo!», domandò Oblomov incredulo.
«E che credevi? Sarà già una fortuna se sul tardi riuscirò a sganciarmi per andare a fare un giro a Ekaterinhof...
Sono venuto appunto per chiederti se non verresti con me. Potrei passare a prenderti...».
«Mi sento poco bene, non posso», disse Oblomov con una smorfia. «E poi ho molto da fare... no, non posso».
«Peccato!», disse Sud'binskij. «È una bella giornata. Almeno oggi spero di prendere una boccata d'aria».
«Be', che c'è di nuovo da voi?», domandò Oblomov.
«Diverse cose: nelle lettere, invece di "umilissimo servitore", si scrive "gradite l'espressione..."; gli stati di servizio non si devono più compilare in due copie. Nel nostro ufficio hanno messo altri tre tavoli e due impiegati con incarichi speciali. La nostra commissione è stata soppressa... Molte cose!».
«E che fanno i nostri vecchi colleghi?».
«Per ora niente; Svinkin ha perso una pratica».
«Davvero? Che ha detto il direttore?», domandò Oblomov con voce tremante. Ricordava con terrore i tempi
passati.
«Ha ordinato di sospendergli il premio fino a che non l'avrà scovata. È una pratica importante: "sulle esazioni".
Il direttore pensa», aggiunse Sud'binskij quasi in un sussurro, «che l'abbia perduta... apposta».
«Non può essere!», disse Oblomov.
«No, certo, è eccessivo», confermò Sud'binskij con aria susseguiosa e protettiva. «Svinkin è uno sventato. A
volte, sa il diavolo dove va a tirarle fuori certe cifre, fa una gran confusione di dati. Per me è un vero tormento; ma non si è mai notato che abbia fatto cose del genere... Non le farebbe, mai e poi mai! La pratica si sarà andata a cacciare chissà dove; poi salterà fuori».
«Sicché, il tuo lavoro è sempre pesante!», disse Oblomov.
«Spaventoso, spaventoso! Ma, certo, con una persona come Foma Fomiè è piacevole lavorare; non ti lascia
senza ricompensa; e non dimentica nemmeno quelli che non fanno niente. Appena scade il termine per la promozione, lui ti propone subito; e a quelli per il quale il termine non è ancora scaduto, e che quindi non possono avere avanzamenti o croci, fa avere denaro...».
«Tu quanto prendi?».
«Ecco: milleduecento rubli di stipendio, oltre settecentocinquanta per indennità di vitto, seicento per indennità di alloggio, novecento di sussidio, cinquecento per trasferte, e fino a mille rubli di gratifiche».
«Diavolo!», disse Oblomov agitandosi nel letto. «Hai per caso una bella voce? Prendi quanto un tenore
italiano!».
«C'è ben altro! Peresvetov riceve anche degli extra, lavora meno di me e non capisce niente. Be', certo non
gode di una gran reputazione. Io sono molto stimato», aggiunse con modestia abbassando gli occhi. «Poco tempo fa il ministro ha detto che sono un "ornamento del ministero"».
«Bravo!» disse Oblomov. «Solo che lavorare dalle otto alle dodici, dalle dodici alle cinque, e poi ancora a
casa... ohi, ohi!».
Scrollò il capo.
«E che farei, se non dovessi lavorare?», chiese Sud'binskij.
«Che importanza ha? Potresti leggere, scrivere...», disse Oblomov.
«Ma anche adesso non faccio altro che leggere e scrivere».
«Non è questo: potresti pubblicare...».
«Non tutti possono essere scrittori. Tu, per esempio, non scrivi», ribatté Sud'binskij.
«Però ho sulle spalle una proprietà», disse con un sospiro Oblomov. «Sto meditando su un nuovo progetto;
voglio introdurre diverse migliorie. Mi tormento, mi tormento... Tu, invece, lavori per gli altri, non per te».
«Che fare! Bisogna lavorare, per guadagnare. Mi riposerò quest'estate: Foma Fomiè ha promesso di studiare
una missione apposta per me... così riceverò una indennità di viaggio per cinque cavalli, tre rubli al giorno di trasferta, e poi la gratifica...».
«Eh, vai forte tu!», disse con invidia Oblomov; poi sospirò e si immerse nei suoi pensieri.
«Il denaro mi serve: in autunno mi sposo», proseguì Sud'binskij.
«Cosa? Davvero? E chi sposi?», chiese interessato Oblomov.
«Non scherzo, sai, sposo la Murašina. Ricordi i miei vicini, in campagna? Venivi a prendere il tè da me e devi averla vista».
«No, non ricordo. Carina?», chiese Oblomov.
«Sì, graziosa. Se vuoi, andiamo a pranzo da loro...».
Oblomov si sentì imbarazzato.
«Sì... va bene, solo che...».
«La settimana prossima», disse Sud'binskij.
«Sì, sì, la settimana prossima», si rallegrò Oblomov. «Il mio vestito non è ancora pronto. Ma è un buon
partito?».
«Sì, il padre è consigliere di stato effettivo; dà diecimila rubli e l'alloggio demaniale. Ce ne ha riservato una metà, dodici stanze; anche i mobili, il riscaldamento e l'illuminazione li passa lo stato: si può vivere...».
«Sì, si può. Altroché! Che tipo sei, Sud'binskij!», aggiunse, non senza invidia, Oblomov.
«Ti invito alle mie nozze come compare, Il'ja Il'iè: ma bada...».
«Come no, contaci!», disse Oblomov. «E dimmi: che ne è stato di Kuznecov, di Vasil'ev, di Machov?».
«Kuznecov si è sposato, Machov ha preso il mio posto e Vasil'ev è stato trasferito in Polonia. A Ivan Petroviè hanno conferito l'ordine di Vladimir, e Oleškin è diventato eccellenza».
«È un bravo ragazzo», disse Oblomov.
«Bravo, bravo: lo merita».
«Bravissimo, con carattere mite, equilibrato», disse Oblomov.
«Sempre disponibile», aggiunse Sud'binskij. «E poi, sai, non è di quelli che cercano di ingraziarsi i superiori, di nuocere, di fare lo sgambetto, di scavalcare... fa tutto quello che può».
«È un uomo ecellente! Se per caso fai confusione nelle carte, sei sbadato, o commetti un errore nell'interpretare o nell'indicare una legge in un appunto, non importa: si limita a ordinare a un altro di rifare il lavoro. È un uomo eccezionale!», concluse Oblomov.
«Invece, il nostro Semën Semënyc è incorreggibile», disse Sud'binskij, «bravo solo a gettar polvere negli
occhi. Senti che ha combinato tempo fa: i governatori hanno fatto presente l'opportunità di costruire dei canili negli edifici che dipendono dal nostro ministero, per proteggere dai furti le proprietà dello stato; il nostro architetto, un uomo capace, competente e onesto, ha preparato un preventivo molto contenuto; ma a Semën Semënyc è saltato in testa di trovarlo troppo caro, e giù a prendere informazioni su quanto potesse costare la costruzione di un canile. Ha trovato chissà dove qualcuno che glielo faceva per trenta copeche di meno... e adesso ho fatto un rapporto scritto...».
Si sentì un'altra scampanellata.
«Addio», disse il funzionario, «sto qui a ciondolare, e là forse c'è bisogno di me...».
«Rimani ancora», cercò di trattenerlo Oblomov. «Giacché sei qui, avrei bisogno di consigliarmi con te: mi sono capitati due guai...».
«No, no, è molto meglio che torni fra qualche giorno», disse Sud'binskij andandosene.
«Ci sei dentro, amico caro, ci sei dentro fino al collo», pensò Oblomov accompagnandolo con lo sguardo. «E
sei cieco, sordo e muto per tutto il resto che c'è al mondo. Ma andrai avanti, col tempo combinerai grossi affari e raggiungerai alti gradi... Da noi anche questa si chiama carriera! E a un uomo occorre ben poco per farla. Intelligenza, volontà, sentimenti: a che servono? Sono un lusso! E consumerà la sua vita, e molte, molte cose rimarranno inerti e silenziose dentro di lui... E intanto lavora dalle dodici alle cinque alla Cancelleria, dalle otto alle dodici in casa...
infelice!».
Pensò con un senso di pacata gioia che dalle nove alle tre, dalle otto alle nove, poteva restarsene a casa sul divano, e si sentì fiero di non dover compilare rapporti, di non dover scrivere scartoffie, cioè di essere libero e padrone dei propri sentimenti e della propria immaginazione.
Tutto intento a filosofeggiare, Oblomov non si accorse che accanto al suo letto c'era un tipo magrissimo, scuro di pelle e di capelli e col viso tutto coperto dai favoriti, dai baffi e dal pizzetto alla spagnola. I suoi abiti erano volutamente trascurati.
«Salve, Il'ja Il'iè».
«Salve, Penkin; non si avvicini, non si avvicini; mi porta il freddo di fuori!», disse Oblomov.
«Ah, che stravagante!», disse il visitatore. «Sempre il solito incorreggibile spensierato pigrone!».
«Sì, spensierato!», disse Oblomov. «Adesso le mostro una lettera dello starosta: non faccio che lambiccarmi il cervello, e lei mi chiama spensierato! Di dove viene?».
«Dalla libreria: sono andato a sentire se erano uscite le riviste. Ha letto il mio articolo?».
«No».
«Glielo manderò, lo legga».
«Di che parla?», chiese Oblomov con un robusto sbadiglio.
«Del commercio, dell'emancipazione femminile, delle stupende giornate d'aprile che ci sono toccate in sorte e della nuova invenzione contro gli incendi. Come mai non legge queste cose? Sono la nostra vita quotidiana. Ma soprattutto io lotto per l'indirizzo realistico in letteratura».
«Ha molto da fare?», chiese Oblomov.
«Sì, abbastanza. Due articoli alla settimana per il giornale, poi scrivo critiche letterarie, e ho appena finito un racconto...».
«Di che si tratta?».
«Di un sindaco che le suona a certi borghesucci della sua città».
«Già, questo è un indirizzo realistico», disse Oblomov.
«Vero?», convenne soddisfatto il letterato. «Nel mio racconto svolgo questa idea e so che essa è nuova e
audace. Un viaggiatore, testimone della scena, fa le sue rimostranze in un colloquio con il governatore. Questi ordina a un funzionario di recarsi sul posto e di svolgervi un'inchiesta raccogliendo notizie sul fatto, nonché, in generale, sulla personalità e la condotta del sindaco. Il funzionario convoca i borghesucci, come se volesse informarsi dei loro commerci, ma al tempo stesso indaga. E cosa fanno quei borghesucci? Si inchinano, sorridono e lodano sperticatamente il sindaco. Il funzionario comincia ad attingere notizie da altre fonti e così viene a sapere che quei borghesucci sono dei furfanti matricolati che vendono merci avariate, imbrogliano sul peso e frodano l'erario: tutta gente immorale per la quale le botte sono state il giusto castigo».
«Sarebbe come dire che le bastonate del sindaco sono nel racconto quello che era ilfatum delle tragedie antiche?», chiese Oblomov.
«Appunto», confermò Penkin. «Lei ha molta sensibilità, Il'ja Il'iè, dovrebbe scrivere! Sono riuscito così a
dimostrare al tempo stesso l'arbitrio del sindaco e i costumi corrotti del popolino; la cattiva organizzazione della burocrazia subalterna e la necessità di misure severe ma legali... Non è vero che la mia idea... è abbastanza nuova?».
«Sì, soprattutto per me, che leggo così poco», disse Oblomov.
«Infatti, non si vedon libri qui da lei», disse Penkin. «Ma la supplico di leggere almeno una cosa; è in
preparazione un poema che si può definire magnifico: L'amore di un uomo venale per una donna perduta. Non so dirle l'autore: è un segreto».
«Di che si tratta?».
«Rivela in termini poetici tutto il meccanismo che muove la nostra società. Tocca tutte le molle; passa in
rassegna tutti i gradini della scala sociale. L'autore vi fa comparire, come davanti a un tribunale, il gran signore meschino e vizioso, e il folto sciame dei corrotti che lo ingannano; e studia tutte le categorie di peccatrici... francesi, tedesche, finlandesi, e tutto, tutto... con straordinaria, palpitante veridicità... Ne ho sentiti leggere alcuni brani: è un grande scrittore! Ci si sente ora Dante, ora Shakespeare...».
«Come corre!», disse meravigliato Oblomov, sollevandosi.
Penkin tacque all'improvviso, rendendosi conto che in realtà aveva corso troppo.
«Lo legga, e vedrà lei stesso», aggiunse smorzando il suo ardore.
«No, Penkin, non lo leggerò».
«Ma perché? È un'opera che fa scalpore, tutti ne parlano...».
«E lasci che ne parlino! Certa gente non ha altro da fare che parlare. È una specie di vocazione».
«Lo legga almeno per curiosità».
«Ma che può raccontarmi di nuovo?», chiese Oblomov. «Perché scrivono di queste cose? Solo per divertirsi...».
«Come per divertirsi? E la verità, la somiglianza con la realtà dove la mette? Da morir dal ridere... Veri e propri ritratti viventi. Ogni personaggio - sia esso mercante, funzionario, ufficiale o sbirro - salta fuori vivo dalla pagina».
«E a che pro tanta fatica? Per il piacere che il personaggio risulti somigliante? Ma di vita, in tutto questo, non ce n'è lo stesso: perché non c'è né comprensione né interesse per la vita, né quella che lei chiama umanità. C'è solo amor proprio. Codesto modo di rappresentare ladri e peccatrici non è diverso dall'agguantarli per strada e cacciarli in prigione. In queste storie non ci sono le "lacrime invisibili", c'è solo un riso esagerato e grossolano, c'è solo cattiveria...».
«E che serve di più? Lei stesso ha reso benissimo l'idea: questa accanita cattiveria è una guerra senza quartiere al vizio, è il riso sprezzante per coloro che cadono... è tutto!».
«No, non tutto!», disse Oblomov infervorandosi all'improvviso. «Descrivi il ladro, la peccatrice, lo sciocco
presuntuoso, ma non dimenticare l'uomo. Dov'è dunque l'umanità? Voi volete scrivere solo con la testa!», disse Oblomov quasi in un sibilo. «Credete forse che il pensiero escluda il cuore? No, esso è fecondato dall'amore. Tendete una mano soccorrevole all'uomo caduto, o piangete amare lacrime su di lui se è definitivamente rovinato, ma non lo schernite. Amatelo, cercatevi in lui, trattatelo come trattereste voi stessi... allora vi leggerò, e chinerò il capo davanti a voi...», disse, tornando a stendersi tranquillo sul divano. «Costoro scrivono di ladri e di peccatrici», continuò, «ma dimenticano l'uomo o non sanno descriverlo. Che specie di arte, quali tinte poetiche ci trova? Smascherate la depravazione, il fango ma, vi prego, senza pretese poetiche».
«E lei vorrebbe che si parlasse della natura - le rose, un usignolo o una mattinata gelida - mentre intorno a noi tutto ribolle e si agita? A noi serve solo la cruda fisiologia della società; non siamo in vena di lirismo adesso...».
«L'uomo, datemi l'uomo!», esclamò Oblomov. «Amatelo...».
«Amare l'usuraio, il bigotto, il funzionario ladro o ottuso... è questo che intende? Ma che le salta in testa? Si vede proprio che non si occupa di letteratura!», si infiammò Penkin. «No, bisogna punirli, estirparli dalla vita civile, dalla società...».
«Estirparli dalla vita civile!», disse Oblomov rianimandosi all'improvviso e sporgendosi verso Penkin. «Ciò
significa dimenticare che sotto questo involucro imperfetto c'è una origine superiore; che se un uomo è corrotto è pur sempre un uomo, come lei. Sradicare. E in che modo vuole sradicarli dal consorzio umano, dal grembo della natura, dalla misericordia divina?», quasi gridò, con gli occhi fiammeggianti.
«Come corre!», disse Penkin, sorpreso a sua volta.
Anche Oblomov si rese conto di aver corso troppo. Tacque di colpo, rimase immobile un momento, sbadigliò e
si sdraiò lentamente sul divano.
Entrambi piombarono in un profondo silenzio.
«Che cosa legge, lei?», chiese Penkin.
«Io... per lo più libri di viaggi».
Di nuovo silenzio.
«Leggerà il poema quando uscirà? Glielo porterò...», disse Penkin.
Oblomov fece segno di no col capo.
«Allora, le mando il mio racconto?».
Oblomov chinò la testa in cenno affermativo.
«Bisogna che vada in tipografia!», disse Penkin. «Sa perché sono venuto? Volevo proporle di venire con me a
Ekaterinhof: ho una carrozza. Domani devo scrivere un articolo sulla festa; potremmo osservare l'ambiente insieme, e lei potrebbe farmi notare qualcosa che a me fosse sfuggita; sarebbe divertente. Andiamo...».
«No, non mi sento bene», disse Oblomov corrugando la fronte e tirandosi addosso la coperta. «Temo l'umidità,
e il terreno non è ancora ben asciutto. Perché non viene lei a pranzo oggi? Potremmo chiacchierare un po'... Mi son capitati due guai...».
«No, ci ritroviamo - la redazione al completo - al Saint-Georges, e di là andremo alla festa. Stanotte dovrò
scrivere per mandare il pezzo in tipografia non appena farà giorno. Arrivederci».
«Arrivederci, Penkin».
«Scrivere di notte», pensò Oblomov, «ma dormire, quando? Certo, con questo lavoro metterà insieme almeno
cinquemila rubli l'anno. È un bel guadagnare. Ma scrivere sempre, consumare il cervello e lo spirito per delle piccolezze, cambiare opinione, far commercio della propria intelligenza e immaginazione, forzare la propria natura, agitarsi, infervorarsi, infiammarsi, non conoscere pace e muoversi di continuo... E sempre scrivere, sempre scrivere, come una ruota, come una macchina: scrivi domani, e dopodomani; viene la festa, arriva l'estate... e lui scrive sempre!
ma quando si fermerà e riposerà? Sciagurato!».
Volse il capo verso il tavolo completamente sgombro, dove l'inchiostro era secco e non si vedevano penne, e si rallegrò di potersene stare sdraiato, come un fantolino, senza preoccupazioni, di non doversi disperdere, di non dover vendere nulla...
«E la lettera dello starosta, e l'appartamento?», gli venne in mente d'un tratto, e diventò pensieroso.
Ma ecco un'altra scampanellata.
«Che c'è ancora, neanche dessi un ricevimento in casa mia, oggi!», pensò Oblomov in attesa di vedere chi fosse il nuovo visitatore.
Entrò un uomo dall'età indefinibile, dalla fisionomia indefinibile, in quel periodo della vita in cui è difficile intuire l'età di un individuo; né bello, né brutto, né alto né basso, né biondo né bruno. La natura non gli aveva dato alcun tratto deciso, caratteristico, né in bene, né in male. Per molti si chiamava Ivan Ivanyè, per altri Ivan Vasil'iè, per altri ancora Ivan Michajlyè.
Anche il cognome subiva delle varianti: alcuni dicevano che era Ivanov, altri lo chiamavano Vasil'ev o
Andreev, altri infine Alekseev. L'estraneo che lo vedeva e ne sentiva il cognome per la prima volta lo dimenticava subito, e dimenticava anche il viso; né faceva caso a ciò che diceva. La sua presenza non arricchiva la società, così come la sua assenza non la privava di nulla. E se il suo corpo non aveva segni caratteristici, la sua mente era affatto priva di arguzia e di originalità.
Forse avrebbe saputo per lo meno raccontare ciò che vedeva e udiva, per destare negli altri un certo interesse, ma non andava in nessun posto; nato a Pietroburgo, non se ne era mai allontanato; per conseguenza vedeva e udiva ciò che anche gli altri sapevano.
È simpatico un tipo del genere? Ama, odia, soffre? Sembrerebbe che debba amare, e non amare, e soffrire,
perché nessuno ne è esente. Ma lui riesce in certo qual modo ad amare tutti. Vi sono persone nelle quali non arriverai mai, per quanto tu faccia, a risvegliare un sentimento di ostilità, di vendetta, e così via. Comunque le tratti, loro continueranno a volerti bene. D'altra parte, per essere giusti, bisogna dire che anche il loro amore, se lo si misurasse col termometro, non raggiungerebbe mai il calore. Sebbene di queste persone si dica che amano tutti e perciò sono buone, in sostanza esse non amano nessuno e sono buone solo perché non sono cattive.
Se, davanti a un tipo del genere, si fa l'elemosina a un mendicante, anche lui gli butta la sua monetina; ma se quel mendicante lo si insulta, lo si scaccia e lo si deride, lui si unirà agli altri per insultarlo e per deriderlo. Non lo si può definire ricco, perché non è ricco, anzi è piuttosto povero. Tuttavia, non lo si può nemmeno definire decisamente povero, perché ci sono tanti più poveri di lui.
Dispone di un certo reddito, circa trecento rubli l'anno, e ricopre in un ufficio mediocre una carica mediocre, e riceve uno stipendio mediocre; non è assillato dal bisogno e non prende soldi a prestito da nessuno, ma a nessuno verrebbe in mente di prendere soldi a prestito da lui. In ufficio non ha precise mansioni, perché né i colleghi né i superiori sono mai riusciti a capire cosa egli faccia peggio o meglio, sì da poter stabilire quali siano le sue vere capacità.
Se gli danno da fare una cosa o l'altra, egli la fa in modo che il suo superiore è sempre imbarazzato nel valutare il suo lavoro; lo guarda, lo riguarda, lo legge, lo rilegge, e poi finisce per dire: «Lasciate qua, lo guarderò poi... sì, è quasi come dovrebbe essere».
Sul suo viso non scorgi mai la traccia di preoccupazioni, di fantasticherie, insomma di una vita interiore, e nemmeno lo vedrai mai posare uno sguardo curioso su qualsiasi oggetto che possa destare il suo interesse.
Un conoscente lo incontra per strada. «Dove va?», gli chiede. «Vado in ufficio, o in un negozio, o a trovare
qualcuno». «Venga con me, invece», gli fa quello: «alla posta, o dal sarto o a passeggio...», e lui ci va: va dal sarto, e alla posta, e a passeggio: nella direzione opposta a quella verso cui andava.
A malapena qualcuno, oltre la madre, ha notato la sua venuta al mondo, pochissimi lo notano durante la sua
vita, e sicuramente nessuno noterà la sua scomparsa dal mondo; nessuno chiederà di lui, nessuno si rammaricherà o si rallegrerà della sua morte. Non ha né nemici né amici, ma solo un gran numero di conoscenti. Forse, soltanto il corteo funebre attirerà l'attenzione del passante, il quale, con un profondo inchino, renderà a quell'essere indefinito il primo omaggio che abbia mai ricevuto; e forse ci sarà anche un curioso che correrà in testa al corteo per sapere il nome del defunto, che subito dimenticherà.
Questo Alekseev, Vasil'ev, Andreev, o come volete chiamarlo, è una specie di esemplare incompleto,
impersonale della massa dell'umanità, la sua eco sorda, il suo barlume.
Perfino Zachar, che, quando chiacchierava senza peli sulla lingua in qualche crocchio sotto il portone o in una bottega, illustrava le caratteristiche di tutti coloro che andavano a trovare il suo padrone, era sempre in difficoltà quando arrivava il turno di questo... mettiamo Alekseev. Pensava a lungo, annaspava a lungo alla ricerca di un qualsiasi tratto saliente cui potersi aggrappare, nell'aspetto, nei modi, nel carattere di quell'individuo, e alla fine, agitando la mano, si esprimeva così: «Né carne né pesce».
«Ah!», fu l'accoglienza di Oblomov. «È lei, Alekseev? Salve. Da dove viene? Non si avvicini, non si avvicini; non le dò la mano; mi porta il freddo di fuori!».
«Ma quale freddo! Non pensavo di venire da lei, oggi», disse Alekseev, «ma ho incontrato Ovèinin che mi ha
portato a casa sua. Sono venuto a prenderla, Il'ja Il'iè».
«Per andare dove?».
«Ma da Ovèinin, andiamo. Ci sono anche Matvej Andreiè Al'janov, Kazimir Al'bertyè Pchajlo, Vasilij
Sevast'janyè Kolymjagin».
«Perché si sono riuniti là e cosa vogliono da me?».
«Ovèinin la invita a pranzo».
«Ehm! A pranzo...», ripeté Oblomov con voce piatta.
«E poi andiamo tutti a Ekaterinhof: mi hanno incaricato di dirle che deve noleggiare una carrozza».
«E cosa si andrebbe a fare?».
«Ma come? Oggi c'è la festa. Non sa che oggi è il primo maggio?».
«Si sieda. Pensiamoci un po'...», disse Oblomov.
«Si alzi lei, invece! È ora che si vesta».
«Aspetti un poco: è ancora presto».
«Macché presto! Ci pregano di andare alle dodici; pranzeremo un po' in anticipo, verso le due, e poi via alla festa. Suvvia, si sbrighi. Devo ordinare che le portino i vestiti?».
«Che vestiti? Ancora non mi sono lavato».
«Allora si lavi».
Alekseev si mise a passeggiare su e giù per la camera, poi si fermò davanti a un quadro che aveva già visto un migliaio di volte, diede un'occhiata fuori dalla finestra, prese un oggetto dallo scaffale, lo rigirò fra le mani, lo guardò da tutte le parti e tornò a posarlo, poi riprese a camminare fischiettando: tutto per non disturbare Oblomov che doveva alzarsi e lavarsi. Passarono così una decina di minuti.
«Ma che fa?», chiese d'un tratto Alekseev a Il'ja Il'iè.
«Come?».
«È ancora coricato?».
«Dovrei alzarmi?».
«Come no! Ci aspettano. Non voleva uscire?».
«Per andare dove? Io non volevo affatto uscire».
«Insomma, Il'ja Il'iè, ha appena detto che saremmo andati a pranzo da Ovèinin, e poi a Ekaterinhof...».
«Io, andare con questa umidità? E cosa c'è che non ho visto laggiù? E poi minaccia di piovere, guardi come s'è fatto buio», disse pigramente Oblomov.
«Non c'è neanche una nuvoletta, e la pioggia è solo nella sua mente. Le sembra che fuori faccia buio perché i vetri delle sue finestre non sono stati lavati da chissà quanto tempo. Sono sporchi, c'è uno strato di sudiciume! È buio pesto, e una tenda è quasi completamente abbassata».
«Sì, tocchi questo tasto con Zachar, e lui proporrà subito di far venire delle donne per le pulizie, e mi caccerà fuori di casa per tutta una giornata!».
Oblomov si abbandonò alle sue meditazioni, e Alekseev si mise a tamburellare con le dita sul tavolo presso il quale sedeva, lasciando vagare lo sguardo distratto sulle pareti e sul soffitto.
«Allora, ci decidiamo? Che facciamo? Intende vestirsi o rimanere così?», chiese dopo alcuni minuti.
«Vestirmi per far che?».
«Ma per andare a Ekaterinhof!».
«E dagli con questa Ekaterinhof!», esclamò stizzito Oblomov. «Non le piace stare qui? Cos'è, la stanza è fredda o puzzolente, che continua a guardare fuori?».
«No, da lei sto sempre bene; mi piace», disse Alekseev.
«E se qui sta bene, a che scopo vuole andare altrove? È meglio che rimanga qui tutto il giorno; pranzerà con
me, e questa sera se ne andrà alla festa... con la benedizione di Dio!... Ma già, l'avevo dimenticato; come potrei uscire?
Oggi viene a pranzo Tarant'jev, è sabato».
«Quando è così... va bene... come lei...», disse Alekseev.
«E delle mie faccende non le ho parlato?», chiese Oblomov con tono animato.
«Di quali faccende? Non ne so nulla», disse Alekseev, fissandolo con attenzione.
«Perché crede che mi trattenga così a lungo a letto? Ci sono rimasto perché non ho fatto altro che pensare al modo migliore per cavarmi dagli impicci».
«Che impicci?», chiese Alekseev, sforzandosi di fare la faccia allarmata.
«Due guai! Non so proprio come fare!».
«Che genere di guai?».
«Mi cacciano di casa. Figurarsi.. traslocare: danni, scompiglio... vien paura solo a pensarci! Abito in questo appartamento ormai da otto anni. Il padrone di casa mi ha giocato un brutto tiro: "Se ne vada", dice, "al più presto"».
«E anche al più presto! Dovrà dunque affrettarsi. È una cosa intollerabile, un trasloco: quando si sgombera, c'è sempre un mucchio di noie, disse Alekseev, «ti perdono le cose, te le rompono... è molto seccante! E il suo
appartamento è magnifico. Quanto paga?».
«Dove lo trovo un altro come questo?» disse Oblomov, «e per di più su due piedi. Questo è asciutto, caldo, in una casa tranquilla: i ladri ci sono venuti solo una volta! Il soffitto sembra pericolante e l'intonaco si è completamente staccato... eppure non crolla!».
«È bella davvero!», disse Alekseev scuotendo la testa.
«Che cosa si potrebbe architettare per... non andarsene?», si chiese meditabondo Oblomov.
«Ha un regolare contratto d'affitto per l'appartamento?», domandò Alekseev, scrutando la stanza dal soffitto al pavimento.
«Sì, solo che il contratto è scaduto; è un pezzo che pago mese per mese... non ricordo da quando».
«Che cosa intende fare?», chiese Alekseev rompendo una pausa di silenzio, «andarsene o rimanere?»».
«Io non intendo proprio niente», disse Oblomov, «non voglio nemmeno pensarci. Spero che Zachar escogiti
qualcosa».
«Eppure c'è gente a cui piace traslocare», disse Alekseev, «anzi a cui piace solo quello...».
«Be', traslochi pure questa "gente"... Io non posso soffrire i cambiamenti. E l'appartamento è ancora il meno», aggiunse Oblomov. «Guardi un po' che cosa mi scrive lo starosta. Ora le mostro la lettera... dove si è cacciata? Zachar, Zachar!».
«Ah, Vergine santa!», gracidò Zachar, saltando dalla stufa, «quand'è che il buon Dio mi chiamerà a sé?»
Entrò e guardò il padrone con occhio torvo.
«Allora, hai trovato la lettera?».
«E dove la trovo? Come faccio a sapere che lettera vi serve? Non so leggere».
«Cerca lo stesso», ordinò Oblomov.
«Voi ieri sera stavate leggendo una lettera», disse Zachar, «poi non l'ho più vista».
«Ma dov'è?», ribatté stizzito Il'ja Il'iè. «Non me la sono mangiata. Ricordo benissimo che me l'hai presa di
mano e l'hai messa chissà dove. E invece, ecco dov'è, guarda!»
Smosse la coperta, dalle cui pieghe cadde a terra la lettera.
«Ve la prendete sempre con me!...», esclamò Zachar.
«Via, via vattene, vattene!», gli gridò Oblomov. Zachar se ne andò, e Oblomov cominciò a leggere la lettera,
che sembrava scritta col kvas su carta grigia, con sigillo di ceralacca scura. Gli enormi caratteri sbiaditi si stendevano in processione solenne, senza sfiorarsi, in una linea inclinata, dall'angolo superiore a quello inferiore. Qua e là il corteo era disturbato da una grossa macchia d'inchiostro sbiadito.
«Grazioso Signore», iniziò Oblomov, «Vostra nobiltà, padre e benefattore nostro, Il'ja Il'iè...».
Qui Oblomov tralasciò le espressioni di deferenza e gli auguri di buona salute e riprese verso la metà:
«Faccio sapere alla tua benignità padronale che nella tua proprietà, o nostro benefattore, tutto va bene. Sono cinque settimane che non piove: vuol dire che il Signore Iddio è andato in collera, se non manda la pioggia. I vecchi non ricordano una siccità come questa; il grano primaverile s'è tutto bruciato, quello vernino l'han guastato in parte i vermi, e il resto l'han distrutto le gelate precoci; abbiamo riseminato il grano di primavera, ma non sappiamo se ce la farà.
Purché il Signore misericordioso conceda la sua grazia al nostro benigno padrone, non ci preoccupiamo per noi: possiamo pure crepare. Il giorno di San Giovanni se ne sono andati altre tre contadini: Laptev e Baloèov insieme, e poi per conto suo Vas'ka, il figlio del fabbro. Ho ordinato alle loro mogli di andare a riprenderli; le donne non sono tornate e, si dice, vivono a Èelki; a Èelki è andato il mio compare da Verchlëvo; ce lo ha mandato l'amministratore; a Èelki, si dice, hanno portato dall'estero un aratro e l'amministratore ci ha mandato il compare a dare un'occhiata. Io ho ordinato al compare di occuparsi dei contadini scappati; ho presentato i miei rispetti al capo della polizia, che mi ha detto: "Fai una denuncia, e sarà usato ogni mezzo per riportare i contadini al loro domicilio", e oltre a questo non ha detto altro, e io mi sono buttato ai suoi piedi in lacrime, l'ho supplicato, ma lui si è messo a urlare a squarciagola: "Fuori, fuori! Ti ho detto che si provvederà... presenta la denuncia!". Ma io non ho presentato la denuncia. E qui non c'è nessuno da prendere a giornata: sono andati tutti sul Volga, a lavorare sui barconi... qui da noi la gente è diventata così stupida, o nostro benefattore, o padre nostro Il'ja Il'iè! Quest'anno non porteremo alla fiera la nostra tela: ho chiuso a chiave l'essiccatoio e l'imbiancatoio e ci ho messo a guardia giorno e notte Syèug: è un contadino che non beve, ma per essere sicuro che non tocchi la roba del padrone, lo tengo d'occhio giorno e notte. Gli altri bevono come spugne e chiedono di passare a tributo. Di arretrati neanche a parlarne: quest'anno il reddito che ti manderemo, padre nostro, nostro benefattore, sarà circa duemila rubli di meno rispetto a quello dell'anno passato; purché beninteso, la siccità non distrugga tutto, manderemo alla tua grazia quello che qui abbiamo testé detto».
Seguivano espressioni di devozione e la firma: «il tuo starosta umilissimo schiavo Prokofij Vytiaguškin, che firma di sua propria mano». Poiché egli era analfabeta, la firma era costituita da una croce. «Scritta con le parole dello starosta da suo cognato Dëmka lo storpio».
Oblomov guardò in fondo alla lettera.
«Non c'è né mese né anno», disse. «La lettera deve essere rimasta in casa dellostarosta fin dall'anno scorso: parla di San Giovanni, della siccità! Era ora che se ne ricordasse!».
Ci pensò su un momento.
«Eh», continuò, «che gliene sembra? offre "circa duemila rubli di meno"! Allora, quanto mi rimane? Quanto ho ricevuto l'anno scorso?», chiese guardando Alekseev. «Non glielo dissi allora?».
Alekseev alzò gli occhi al soffitto per riflettere.
«Bisogna domandarlo a Stolz, quando verrà», proseguì Oblomov. «Mi pare sette, ottomila... il guaio di non
segnarsi nulla! Così lui adesso mi sistema con sei. Morirò di fame. Come farò a vivere con così poco?».
«Perché si agita tanto, Il'ja Il'iè?», disse Alekseev. «Non bisogna mai abbandonarsi alla disperazione: macina e avrai la farina».
«Ma non ha sentito quello che scrive? Invece di mandare i soldi, di consolarmi in qualche modo, lui, come per deridermi, mi dice solo cose spiacevoli! E ogni anno è così! Adesso sono proprio fuori di me! "Circa duemila rubli di meno"!».
«Sì, è una grave perdita», disse Alekseev. «Duemila... non è uno scherzo! Dicono che anche Aleksej Loginyè
quest'anno riceva solo dodicimila rubli invece di diciassette».
«Ma dodici non sono sei», ribatté Oblomov. «Lo starosta mi ha completamente sconvolto. Se anche le cose stanno proprio così, e c'è un cattivo raccolto e la siccità, perché farmi angustiare in anticipo?».
«Sì... anche se le cose stanno così...», cominciò Alekseev, «è stato sconveniente; ma quale delicatezza ci si può aspettare da un contadino? È gente che non capisce nulla».
«Be', lei che farebbe al posto mio?», chiese Oblomov rivolgendo ad Alekeev uno sguardo interrogativo, con la
vaga speranza che il suo interlocutore escogitasse qualcosa per tranquillizzarlo.
«Bisogna pensarci, Il'ja Il'iè, non si possono prendere decisioni affrettate», disse Alekseev.
«Magari potrei scrivere al governatore», disse Il'ja Il'iè pensieroso.
«Chi è il suo governatore?», chiese Alekseev.
Il'ja Il'iè non rispose e continuò a pensare. Alekseev tacque e si mise a meditare anche lui.
Oblomov appoggiò la testa sulle mani che stringevano la lettera spiegazzata, puntò i gomiti sulle ginocchia, e così rimase per un certo tempo, tormentato da una folla di pensieri molesti.«Almeno arrivasse presto Stolz!», disse. «Ha scritto che verrà presto, ma Dio sa dove sta bighellonando. Lui sistemerebbe tutto».
Ripiombò nelle sue tristi meditazioni. Tacquero a lungo entrambi. Alla fine Oblomov si riscosse per primo.
«Ecco quello che bisogna fare!», disse deciso, e mancò poco che non si alzasse dal letto, «e farlo il più presto possibile, senza indugi... Per prima cosa...».
A questo punto, risuonò una energica scampanellata, che fece sobbalzare Oblomov e Alekseev e buttò giù all'istante Zachar dal suo giaciglio.