- Così adesso sono diventata una missione! E per di più delicata e difficile!
- Ma no. Voglio dire... - Stephan si interruppe confuso.
Probabilmente la signorina Collins decise di avere canzonato Stephan a sufficienza. - Va bene, - disse, - meglio che entriamo e discutiamo come si deve bevendo un bicchierino di sherry.
- La ringrazio molto. Ma veramente non posso fermarmi a lungo. Ci sono delle persone che mi aspettano in macchina -. Stephan fece un cenno nella nostra direzione, ma la donna stava già aprendo la porta del suo alloggio.
La guardai mentre accompagnava Stephan attraverso un ingressino ordinato, oltre una seconda porta e lungo un corridoio semibuio con le pareti decorate da piccoli acquerelli incorniciati. Il corridoio finiva nel soggiorno - una grande stanza a forma di L sul retro dell'edificio. La luce era bassa e accogliente, e di primo acchito la camera sembrava arredata all'antica in maniera costosa ed elegante. Esaminandola meglio, però, vidi che gran parte dei mobili erano molto frusti, e che quelli che sulle prime avevo preso per pezzi d'antiquariato erano in realtà poco più che ciarpame. Divani e poltrone che avevano conosciuto tempi migliori erano sparsi per il salotto in condizioni di sfacelo; le tende di velluto lunghe fino a terra erano macchiate e sfrangiate. Stephan si accomodò con una disinvoltura che rivelava una notevole familiarità con la casa, ma mentre la signorina Collins armeggiava davanti al mobiletto dei liquori conservò un'espressione ansiosa. Poi, quando finalmente la donna gli porse un bicchiere e si sedette accanto a lui, esclamò bruscamente: - Si tratta del signor Brodsky.
- Ah, - disse la signorina Collins. - Lo sospettavo.
- Signorina Collins, ecco, ci chiedevamo se potesse aiutarci. O meglio, aiutare £lui... - Stephan s'interruppe con una risata e distolse gli occhi.
L'anziana signorina inclinò il capo meditabonda. Poi domandò: - Mi stai chiedendo di aiutare Leo?
- Oh, non le chiediamo di fare niente che vada contro i suoi principî o... insomma che possa farla stare male. Papà si rende perfettamente conto del suo stato d'animo -. Stephan proruppe in un'altra risatina. - Ma il suo aiuto potrebbe dimostrarsi essenziale in questa fase del... recupero del signor Brodsky.
- Ah -. La signorina Collins annuì e parve riflettere sulla richiesta. Poi disse: - Stephan, devo dedurre che i successi di tuo padre con Leo sono solo parziali?
Il tono canzonatorio mi parve ancora più pronunciato di prima, ma di nuovo Stephan non se ne accorse.
- Si sbaglia! - disse in tono seccato. - Anzi, papà ha compiuto miracoli, fatto enormi passi avanti! Non è stato facile, ma la sua perseveranza ha avuto dell'incredibile, persino per noi che conosciamo il suo modo di affrontare i problemi.
- Forse non ha perseverato abbastanza.
- Ma lei non sa, signorina Collins! Non sa! Certe volte torna a casa sfinito da una dura giornata di lavoro in albergo, così sfinito che deve filare subito a letto. Mi è già successo che la mamma scenda le scale brontolando. Allora vado su a vedere in camera loro e trovo papà che russa disteso sulla schiena, buttato di traverso sul letto. Come sa, sono anni che si sono messi d'accordo... e certi accordi sono importanti... che papà deve addormentarsi sul fianco, e mai sulla schiena, altrimenti russa come un mantice, dunque può immaginare l'irritazione della mamma quando lo scopre così. Di solito è una faticaccia svegliarlo, ma devo farlo, altrimenti, gliel'ho già detto, la mamma si rifiuta di tornare in camera. Resta lì in corridoio con la faccia arrabbiata, e non torna dentro finché non ho svegliato papà, non l'ho svestito, non gli ho messo l'accappatoio e non l'ho accompagnato in bagno. Ma dove voglio arrivare è che, anche quando è così stanco, capita che suoni il telefono, e che dall'albergo dicano che il signor Brodsky ha i nervi a pezzi e chiede con insistenza da bere, e vuole saperlo? Papà, chissà come, ritrova le forze. Si tira su, gli ritorna lo sguardo di sempre, si veste e sparisce nella notte, per rientrare magari dopo ore. Ha detto che avrebbe rimesso in sesto il signor Brodsky, e sta dando l'anima, fino all'ultima briciola, per mantenere la parola data.
- Davvero lodevole. Ma con quali risultati finora?
- Le garantisco, signorina Collins, che i progressi sono stati straordinari. Tutte le persone che hanno visto il signor Brodsky di recente sono d'accordo. Adesso dietro quegli occhi si muove qualcosa. Anche i suoi commenti, con il passare dei giorni, diventano più sensati. Ma la cosa importante è che la sua abilità, la grande abilità del signor Brodsky, £quella sta tornando. Non ci sono più dubbi. A detta di tutti, le prove sono estremamente incoraggianti. L'orchestra è rimasta affascinata. E quando non prova nel palazzo dei concerti, il signor Brodsky lavora e rielabora per conto suo. Adesso, girando per l'albergo, capita spesso di intravedere la sua figura china sul pianoforte. Quando lo sente suonare, papà si rianima al punto che non è difficile capire perché sia disposto a sacrificare anche tutte le sue ore di sonno.
Il ragazzo fece una pausa e guardò la signorina Collins. Per un momento la donna parve assente; teneva la testa inclinata, come se anche lei sperasse di cogliere qualche nota di un pianoforte lontano. Poi sul suo volto tornò un sorriso garbato, e i suoi occhi guardarono di nuovo Stephan.
- Io ho sentito dire, - cominciò, - che tuo padre lo mette davanti al pianoforte, in quel salotto dell'albergo, come se fosse un manichino, e che Leo resta lì ore e ore ondeggiando dolcemente sullo sgabello senza suonare una nota.
- Signorina Collins, questo è ingiusto! Forse è successo qualche volta nei primi tempi, ma ora le cose sono molto cambiate. E poi, anche se di tanto in tanto il signor Brodsky se ne sta seduto in silenzio, non vuole affatto dire che sia inoperoso. E lei dovrebbe saperlo meglio di tutti. Il silenzio può benissimo indicare che sta cercando di dare forma alle idee più profonde, di raccogliere le energie più riposte. L'altro giorno, per esempio, dopo un silenzio particolarmente lungo, papà è entrato nel salotto, e il signor Brodsky era lì che fissava i tasti del pianoforte. Dopo un momento ha sollevato gli occhi e gli ha detto: «Bisogna che i violini siano aspri. Devono avere un suono aspro». Così ha detto. Era rimasto in silenzio, ma la sua testa era piena di musica, come un universo a parte. Non sto nella pelle al pensiero di quello che ci farà vedere giovedì sera. Sempre che non abbia un cedimento adesso.
- Però volete che lo aiuti, non è così, Stephan?
Il giovane, che parlando si era scaldato, ritrovò la sua compostezza.
- Be', sì, - disse. - $è di questo che sono venuto a parlarle. Come ho detto, il signor Brodsky sta recuperando rapidamente le capacità di un tempo. E naturalmente, insieme con le sue grandi doti, stanno tornando a galla parecchie altre cose. Per noi che non lo conoscevamo bene, è stata una specie di rivelazione. In questi giorni è spesso così loquace, così educato. Ma il guaio è che, oltre a tutto il resto, ha cominciato anche a ricordare. Be', per essere chiari, parla di lei. Non fa che pensare a lei e parlare di lei. L'altra notte, solo per farle un esempio... è imbarazzante, ma glielo dico lo stesso... l'altra notte ha cominciato a piangere e non la smetteva più. E mentre piangeva, dava libero sfogo a tutti i suoi sentimenti per lei. Era la terza o quarta volta che succedeva, ma questa è stata la più grave. Verso mezzanotte, visto che il signor Brodsky non era ancora uscito dal salotto, papà è andato dietro la porta e lo ha sentito singhiozzare. Allora è entrato e ha trovato la stanza immersa nell'oscurità, e il signor Brodsky che piangeva riverso sul pianoforte. Be', di sopra c'era una suite libera, così l'ha portato lì e gli ha fatto mandare su dalla cucina le sue minestre preferite, perché il signor Brodsky, in genere, mangia solo minestra. Poi lo ha riempito di aranciata e di bibite, ma le assicuro che ce la siamo vista brutta. Pare che il signor Brodsky si avventasse sui cartoni di aranciata smaniando. Molto probabilmente, se papà non fosse stato lì, sarebbe crollato, proprio in vista del traguardo. E intanto continuava a parlare di lei. Be', per arrivare al dunque... oh cielo, devo sbrigarmi, ci sono delle persone che mi aspettano in macchina... Quello che voglio dire è questo. Dato che buona parte del futuro della città è nelle sue mani, dobbiamo fare di tutto perché superi indenne questi ultimi giorni. Il dottor Kaufmann è d'accordo con papà, siamo davanti all'ostacolo finale. Dunque vede anche lei che la posta in gioco è molto alta.
La signorina Collins continuava a guardare Stephan con lo stesso sorrisetto assente, ma non diceva nulla. Dopo un momento il ragazzo proseguì:
- Signorina Collins, mi rendo conto che le mie parole possono riaprire delle vecchie ferite. E so che lei e il signor Brodsky non vi parlate più da molto tempo...
- Oh, questo non è esatto. Non più tardi di qualche mese fa Leo mi ha urlato delle oscenità mentre passeggiavo per il Volksgarten.
Stephan rise impacciato, incerto su come interpretare il tono della donna. Poi, facendosi serio, continuò: - Signorina Collins, nessuno pretende che abbia contatti prolungati con lui. Santo cielo, no. Lei vuole dimenticare il passato. Tutti, a cominciare da papà, se ne rendono conto. Le chiediamo solo un piccolo favore, una cosa che potrebbe salvare la situazione, e per lui sarebbe così incoraggiante, così importante. Spero che almeno non si arrabbi se osiamo chiederglielo.
- Ho già accettato di presenziare al banchetto.
- Sì, sì, naturalmente. Papà me l'ha detto. aliene siamo molto grati...
- A patto che non ci siano contatti diretti...
- Questo è inteso, nel modo più assoluto. Il banchetto, certo. Veramente, però, volevamo chiederle un piccolo sforzo in più, signorina Collins, se fosse possibile. Vede, domani un gruppo di consiglieri, tra cui il signor von Winterstein, porterà il signor Brodsky allo zoo. Pare che in tutti questi anni non l'abbia mai visitato. Il suo cane non può entrare, naturalmente, ma il signor Brodsky ha finalmente acconsentito a lasciarlo in buone mani per un paio di ore. Siamo convinti che una gita di questo genere servirebbe a calmarlo. Pensiamo che le giraffe, soprattutto, possano avere un effetto distensivo. Be', per venire al dunque, i consiglieri si domandavano se non le spiacerebbe unirsi al gruppo. Magari rivolgere qualche parola al signor Brodsky. Non occorre che vada allo zoo insieme con loro; può unirsi al gruppo laggiù, solo per pochi minuti. Dirgli qualcosa di carino, magari due parole di incoraggiamento, non sa come potrebbe essere importante. Pochi minuti, poi se ne va per la sua strada. La prego, signorina Collins, ci pensi su. Dalla sua decisione può dipendere tutto.
Mentre Stephan parlava, la donna si era alzata e si era avvicinata lentamente al camino. Per parecchi secondi rimase 1'immobile, con una mano sulla mensola come per ritrovare l'equilibrio. Quando finalmente si voltò di nuovo verso Stephan, vidi che aveva gli occhi umidi.
- Cerca di capirmi, Stephan, - disse. - $è vero che sono stata sua moglie. Ma ormai da molti anni, le poche volte che lo incontro, mi grida solo insulti. Lo vedi anche tu, come faccio a sapere che cosa gli piacerebbe sentirsi dire?
- Signorina Collins, le giuro che oggi è un uomo diverso. In questi giorni è così cortese ed educato e... ma sono certo che le verrà spontaneo. La prego di pensarci. La posta in gioco è così alta.
L'anziana signorina sorseggiò il suo sherry meditabonda. Sembrava sul punto di rispondere, quando alle mie spalle sentii Boris agitarsi sul sedile posteriore della macchina. Girandomi, capii che il bambino doveva essere sveglio da un pezzo. Guardava fuori del suo finestrino, fissando la strada silenziosa e deserta, e mi parve un po' triste. Stavo per dirgli qualcosa, ma probabilmente si era accorto che lo guardavo, perché, senza muoversi, mi domandò con voce calma:
- Tu sai fare i bagni?
- Se io so fare i bagni?
Boris sospirò rumorosamente e continuò a fissare l'oscurità. Poi disse: - Io non avevo mai messo le piastrelle. Per questo ho fatto tutti quei pasticci. Se qualcuno mi avesse fatto vedere, ci sarei riuscito.
- Sì, sono sicuro che ci saresti riuscito. Parli del bagno del vostro nuovo alloggio, vero?
- Se qualcuno mi avesse fatto vedere, sarei riuscito a metterle bene. Così la mamma sarebbe stata contenta. Il bagno le sarebbe piaciuto.
- Ah. Vuoi dire che adesso non è contenta?
Boris mi guardò come se avessi detto un'incredibile stupidaggine. Poi, con pesante ironia, mi domandò: - Perché piangerebbe tanto se il bagno le piacesse?
- Già. Sicché piange per il bagno. Mi chiedo perché lo faccia.
Boris si girò di nuovo verso il finestrino, e nella luce incerta che filtrava dentro la macchina vidi che lottava per non scoppiare in lacrime. All'ultimo momento riuscì a trasformare la sua mortificazione in uno sbadiglio e si sfregò la faccia con i pugni.
- Sistemeremo tutto, - dissi. - Vedrai.
- Le avrei messe bene, se qualcuno mi avesse fatto vedere. Così la mamma non avrebbe pianto.
- Sì, sono sicuro che avresti fatto un bel lavoro. Ma non preoccuparti, sistemeremo tutto.
Tornai a guardare davanti, fuori del parabrezza. In tutta la strada si stentava a vedere una finestra accesa. Dopo un po' dissi: - Boris, adesso dobbiamo pensare bene a quello che vogliamo fare. Mi stai ascoltando?
Dietro tutto taceva.
- Boris, - proseguii, - dobbiamo prendere una decisione. So che stavamo andando da tua madre. Ma adesso si è fatto molto tardi. Boris, mi stai ascoltando?
Diedi un'occhiata alle mie spalle e vidi che il bambino stava ancora fissando la notte con aria assente. Restammo seduti in silenzio per un lungo momento. Poi dissi:
- Il fatto è che adesso è molto tardi. Se torniamo in albergo, ci sarà tuo nonno. Sarà felice di vederti. Puoi avere una camera tutta per te, o se preferisci chiediamo che preparino un altro letto in camera mia. Ci facciamo portare su qualcosa di buono da mangiare, poi te ne vai a dormire. E domani mattina a colazione decidiamo cosa fare.
Ancora silenzio dietro di me.
- Avrei dovuto pensarci prima, - dissi. - Mi spiace. Ma... ma questa sera avevo la testa confusa. Ho avuto così tanto da fare. Ma senti, ti prometto che domani recuperiamo il tempo perduto. Facciamo tutto quello che vuoi tu, domani. Magari torniamo nel vecchio appartamento a prendere Numero Nove. Che cosa ne dici?
Boris continuava a tacere.
- Sono state giornate faticose per tutti e due. Boris, che cosa ne dici?
- $è meglio andare in albergo.
- Penso anch'io che sia la soluzione migliore. Siamo d'accordo, allora. Quando il signore ritorna, gli diciamo che abbiamo cambiato programma.
6.
Proprio in quell'istante colsi un movimento con la coda dell'occhio e, girandomi verso la casa, vidi che il portone d'ingresso era aperto. La signorina Collins aveva accompagnato Stephan, e sebbene si stessero separando amichevolmente, qualcosa nell'atteggiamento di entrambi mi fece intuire che l'incontro si era concluso con un certo imbarazzo. Poco dopo la porta si richiuse, e Stephan tornò a passo rapido verso di noi.
- Scusate se c'è voluto così tanto, - disse, salendo in macchina. - Spero che Boris non si sia annoiato -. Mentre afferrava il volante, sospirò con aria preoccupata. Poi si costrinse a sorridere e disse: - Be', andiamo.
- Veramente, - dissi, - mentre tu non c'eri, Boris e io ci siamo parlati. Tutto sommato, pensiamo sia meglio tornare in albergo.
- Se mi consente, signor Ryder, credo che sia una buona idea. All'albergo, dunque. Magnifico -. Stephan diede un'occhiata al suo orologio. - Saremo lì in un amen. I giornalisti non avranno nessun motivo per lamentarsi. Nessunissimo motivo.
Stephan avviò il motore e partì. Mentre percorrevamo le strade deserte, ricominciò a piovere, e il giovane accese il tergicristallo. Dopo un po' disse:
- Signor Ryder, posso essere così sfrontato da ricordarle la nostra conversazione di questo pomeriggio? Sa, quando ci siamo incontrati nel patio.
- Ah, sì, - dissi. - Sì, abbiamo parlato del pezzo che suonerai giovedì sera.
- E lei è stato così gentile da dirmi che forse mi avrebbe dedicato qualche minuto. Per ascoltarmi mentre provo La Roche. Certo, mi rendo conto che probabilmente non è affatto possibile, ma ho pensato di chiederglielo lo stesso. Questa sera, quando torniamo in albergo, ho intenzione di fare un po' di esercizio, e mi chiedevo se dopo i giornalisti, sì, lo so che è una seccatura, ma se potesse venire ad ascoltarmi, anche solo pochi minuti, per dirmi che cosa ne pensa... - Le sue parole si spensero in una risata.
Mi accorsi che la cosa gli stava molto a cuore, e fui tentato di esaudire la sua richiesta. Tuttavia, dopo averci riflettuto su, dissi:
- Mi spiace, ma questa sera sono stanchissimo, devo assolutamente andare a dormire. Ma non preoccuparti, sono sicuro che ci sarà presto un'altra occasione. Senti, perché non facciamo così? Io non so con esattezza quando avrò qualche minuto libero, ma la prima volta che mi capita, telefono alla reception e dico di cercarti. Se tu non sei in albergo, riprovo la volta dopo e così via. In questo modo sono sicuro che troveremo presto un momento che vada bene per tutti e due. Ma questa sera, se non ti spiace, ho proprio bisogno di fare una bella dormita.
- Si figuri, signor Ryder, capisco perfettamente. Sì, facciamo come dice lei. La ringrazio di cuore. Aspetterò che mi cerchi, allora.
Stephan aveva parlato in modo educato, ma mi parve deluso, quasi interpretasse la mia risposta come un sottile rifiuto. Evidentemente, era così emozionato per la sua prossima esibizione, che qualsiasi intoppo, anche piccolo, bastava a gettarlo nel panico più nero. Mi fece compassione, e ripetei in tono rassicurante:
- Non preoccuparti, sono sicuro che troveremo presto un'altra occasione.
La pioggia continuò a cadere ostinatamente mentre percorrevamo le strade notturne. Il giovane rimase a lungo zitto, e mi domandai se fosse arrabbiato con me. Poi però scorsi il suo profilo nella luce intermittente e capii che stava ripensando a un episodio di parecchi anni prima. Si trattava di un incidente su cui aveva già riflettuto molte volte - soprattutto quando stentava a prendere sonno di notte o quando guidava da solo - e ora la paura che io non riuscissi ad aiutarlo glielo aveva riportato alla mente.
Era successo in occasione del compleanno di sua madre. Quella sera Stephan aveva posteggiato la sua auto nel familiare vialetto di casa - erano gli anni in cui frequentava l'università e viveva in Germania - dopo un paio di penosissime ore passate a farsi coraggio. Ma suo padre gli aveva aperto la porta, bisbigliando eccitato: - La mamma è di buon umore. Di ottimo umore -. Poi si era girato e aveva gridato in casa: - C'è Stephan, cara. Un po' in ritardo, ma è arrivato -. E di nuovo in un bisbiglio: - Di ottimo umore. Come non la vedevo da molto tempo.
Il ragazzo era passato in salotto e aveva trovato la madre adagiata su un sofà, con un cocktail in mano. Indossava un vestito nuovo, e Stephan era rimasto colpito dalla sua eleganza come fosse la prima volta che la vedeva. La madre non si era alzata per salutarlo, obbligandolo a chinarsi per baciarle la guancia, ma il calore con cui l'aveva invitato a sedersi sulla poltrona di fronte a lei lo aveva colto di sorpresa. Alle sue spalle, il padre, compiaciuto di come era cominciata la serata, aveva ridacchiato, poi, indicando il grembiule, era scappato di nuovo in cucina.
Rimasto solo con sua madre, Stephan aveva provato innanzitutto un gran terrore - terrore di dire o fare qualcosa che guastasse il suo buon umore, distruggendo così ore, forse giorni, di diligenti sforzi da parte di suo padre. Sicché aveva cominciato a dare risposte brevi e artefatte alle domande sull'università, ma l'atteggiamento di sua madre era rimasto indulgente, e dopo un po' Stephan si era accorto che le sue risposte diventavano sempre più lunghe. A un certo punto aveva parlato di un professore definendolo «una versione mentalmente equilibrata del nostro ministro degli Esteri» - una frase di cui era particolarmente fiero, che aveva usato più di una volta con i suoi compagni riscuotendo notevole successo. Se la precedente conversazione con sua madre non fosse andata così bene, Stephan non si sarebbe mai azzardato a ripetergliela. Invece l'aveva fatto, e mentre il cuore gli batteva all'impazzata aveva visto un lampo di divertimento attraversarle il volto. Con tutto ciò, quando suo padre era tornato ad annunciare la cena, aveva respirato di sollievo.
Erano passati in sala da pranzo, dove il direttore d'albergo aveva messo in tavola la prima portata. Il pasto era cominciato in silenzio. Poi suo padre - un po' bruscamente, secondo Stephan - aveva cominciato a raccontare un divertente aneddoto su un gruppo di italiani ospiti dell'albergo. Terminata la storia, aveva incitato Stephan a raccontarne una anche lui, e quando il figlio aveva cominciato un po' esitante, lo aveva incoraggiato con risate esagerate. Ed erano andati avanti così, padre e figlio, raccontando a turno storielle divertenti, sostenendosi chiassosamente a vicenda. La tattica sembrava funzionare, perché alla fine - Stephan stentava a crederlo - anche sua madre aveva cominciato a ridere per lunghi momenti. La cena, poi, era stata preparata con la fanatica attenzione ai particolari tipica del direttore d'albergo, ed era quindi una stupefacente opera di arte culinaria. Il vino doveva essere molto speciale, perché a metà della portata principale - un delizioso miscuglio di oca e bacche selvatiche - l'allegria era diventata genuina. Poi il direttore d'albergo, con la faccia arrossata dal vino e dalle risate, si era chinato in avanti e aveva detto:
- Stephan, raccontaci di quell'ostello della gioventù. Sai, quello nei boschi della Borgogna.
Per un attimo Stephan era inorridito. Com'era possibile che suo padre, che fino a quel momento aveva condotto tutto in maniera tanto impeccabile, commettesse un simile errore di valutazione? Quella storia richiedeva un'ampia descrizione dei gabinetti dell'ostello, quindi era chiaramente inadatta a sua madre. Tuttavia, mentre Stephan esitava, suo padre gli aveva fatto l'occhiolino, come per dire: «Sì, sì, fidati di me. Funzionerà. La storia le piacerà, sarà un successone». Sebbene nutrisse seri dubbi, Stephan aveva una tale fiducia in suo padre che aveva cominciato a raccontare, e un attimo dopo era stato folgorato dal pensiero che quella serata miracolosa, fino a quel momento così riuscita, si sarebbe sgretolata intorno a loro. Tuttavia, istigato dalle sghignazzate di suo padre, aveva continuato, e a un certo punto, con suo gran stupore, aveva udito l'aperta risata di sua madre. Alzando gli occhi, si era accorto che stava scuotendo la testa in preda alla ridarella. Poi, verso la fine della storia, fra una risata e l'altra, l'aveva vista lanciare uno sguardo affettuoso al marito. Un'occhiata fugace ma inequivocabile. Anche il direttore d'albergo, che per il gran ridere aveva gli occhi velati dalle lacrime, l'aveva notata, e girandosi verso il figlio gli aveva fatto di nuovo l'occhiolino, questa volta con aria di trionfo. In quell'istante il ragazzo aveva sentito un'emozione molto potente gonfiargli il petto. Ma prima che avesse il tempo di analizzarne l'esatta natura, suo padre gli aveva detto:
- Stephan, prima del dolce dobbiamo fare una pausa. Perché non suoni qualcosa per il compleanno di tua madre? - E così dicendo gli aveva indicato il pianoforte verticale appoggiato alla parete.
Quel gesto - quel gesto casuale in direzione del pianoforte delle sala da pranzo - Stephan l'avrebbe ricordato un'infinità di volte negli anni a venire. E in ogni occasione gli sarebbe tornato in parte anche il brivido di nausea provato allora. Sulle prime aveva guardato suo padre incredulo, ma il direttore aveva continuato a sorridere soddisfatto, con il braccio teso verso il pianoforte.
- Su, Stephan. Qualcosa che piaccia a tua madre. Magari un pezzo di Bach. O di un contemporaneo. Che ne dici di Kazan? O di Mullery?
Il ragazzo si era costretto a girare lo sguardo verso la madre e aveva visto il suo volto, insolitamente ammorbidito dal riso, sorridergli. Poi, rivolgendosi più al marito che a Stephan, la donna aveva detto: - Sì, caro, penso che Mullery vada bene. Sarebbe magnifico.
- Su, Stephan, - aveva detto il direttore d'albergo in tono gioviale. - In fondo, si tratta del compleanno di tua madre. Non deluderla.
Nella mente di Stephan era balenato il pensiero - subito respinto - che i suoi genitori stessero complottando contro di lui. Una cosa era certa: dal modo in cui lo fissavano - così gonfi di orgogliosa attesa - sembrava che avessero completamente dimenticato l'angosciosa storia dei suoi rapporti con il pianoforte. Ma l'accenno di protesta si era spento sulle sue labbra, e Stephan si era alzato in piedi con l'impressione che fosse qualcun altro a farlo.
La posizione del pianoforte contro il muro era tale che Stephan, dopo essersi seduto, riusciva a vedere con la coda dell'occhio le figure dei suoi genitori, con i gomiti sul tavolo, l'uno leggermente inclinato verso l'altro. Dopo un momento si era girato a guardarli in faccia, consapevole, con quel gesto, di volerli vedere così ancora una volta, seduti vicini, come legati da una felicità priva di complicazioni. Poi si era voltato di nuovo verso il pianoforte, schiacciato dalla certezza che la serata stava per precipitare. Stranamente, non era affatto meravigliato della piega presa dagli eventi negli ultimi istanti, anzi, si era accorto di avere aspettato quel momento sin dal principio, e che il suo sopraggiungere aveva portato con sé un senso di sollievo.
Per qualche secondo era rimasto immobile senza suonare, cercando disperatamente di liberarsi degli effetti del vino e di ripassare mentalmente il brano che stava per tentare. Per un istante da capogiro aveva intravisto la possibilità - non era forse una serata miracolosa? - di riuscire in qualche modo a suonare come mai prima di allora; finito il pezzo, i genitori gli avrebbero sorriso, avrebbero battuto le mani, si sarebbero scambiati occhiate di profondo affetto. Ma non appena aveva attaccato le prime note di £Epicicloide di Mullery, Stephan si era reso conto della totale impossibilità del suo sogno.
Ciò nonostante aveva continuato a suonare. Per un lungo momento - per quasi tutto il primo movimento - le figure ai margini del suo campo visivo erano rimaste fermissime. Poi Stephan aveva visto sua madre appoggiarsi leggermente allo schienale della sedia e portare una mano al mento. Parecchie battute più tardi, suo padre aveva distolto lo sguardo dal figlio, posato le mani in grembo e chinato la testa in avanti, come se stesse studiando una macchiolina sulla tavola davanti a sé.
Nel frattempo il brano era andato avanti, e ancora avanti, e sebbene il ragazzo avesse avuto più volte la tentazione di lasciar perdere, l'idea di smettere gli era sembrata chissà perché la soluzione più orrenda. Così aveva continuato, e quando finalmente era giunto in fondo al pezzo, era rimasto a fissare la tastiera per un lungo momento prima di trovare il coraggio di girarsi ad affrontare ciò che lo aspettava.
Né l'uno né l'altro dei suoi genitori lo stava guardando. La testa di suo padre era così china che ormai la fronte sfiorava quasi il piano della tavola. Sua madre fissava un punto dall'altra parte della stanza, con quell'espressione gelida che Stephan conosceva così bene e che fino a quel momento, con suo gran stupore, era stata assente.
Gli era bastato un secondo per valutare la scena. Poi si era alzato ed era tornato in fretta a tavola, come se in quel modo i minuti trascorsi da quando l'aveva lasciata potessero essere cancellati. Per un istante erano rimasti tutti e tre in silenzio. Poi sua madre si era alzata dicendo:
- $è stata una serata molto piacevole. Vi ringrazio tutti e due. Ma adesso sono stanca e penso sia meglio che vada a letto.
Sulle prime Stephan aveva avuto l'impressione che il padre non avesse udito. Ma quando la madre si era avviata verso la porta, il direttore d'albergo aveva sollevato la testa per mormorare: - La torta, cara. La torta. $è... è una cosa speciale.
- Ti ringrazio, ma davvero, ho già mangiato troppo. Adesso devo andare a dormire.
- Certo, certo -. Il direttore d'albergo aveva riabbassato gli occhi sulla tavola con aria rassegnata. Ma quando la madre di Stephan era già sulla soglia, si era tirato su e aveva detto forte: - Almeno vieni a vederla, cara. Dàlle solo uno sguardo. Come dico, è una cosa speciale.
La madre di Stephan aveva esitato, poi: - Va bene. Fammela vedere in fretta. Dopo, però, devo proprio dormire. Sarà il vino, ma mi sento stanchissima.
A queste parole, il direttore d'albergo era scattato in piedi, e un attimo dopo stava accompagnando la moglie fuori della sala da pranzo.
Il ragazzo aveva sentito i passi dei genitori dirigersi verso la cucina poi, dopo non più di un minuto, tornare indietro nel corridoio e salire le scale. Stephan era rimasto seduto a tavola per un po'. Dal piano di sopra gli erano giunti diversi piccoli rumori, ma non gli era parso di udire voci. Alla fine aveva pensato che la cosa migliore da fore era prendere l'auto e tornare nel cuore della notte nella sua camera ammobiliata. Sicuramente la sua presenza a colazione non sarebbe stata di grande aiuto a suo padre nella lenta, titanica opera di ricostruzione degli umori materni.
Aveva lasciato la sala da pranzo con la speranza di poter scivolare via di casa senza farsi notare, ma in corridoio aveva incontrato il padre che scendeva le scale. Il direttore d'albergo si era portato un dito alle labbra, dicendo:
- Dobbiamo parlare piano. Tua madre si è appena coricata.
Stephan aveva informato il padre della propria intenzione di tornare a Heidelberg, e il direttore d'albergo aveva detto: - Peccato. Tua madre e io pensavamo che ti fermassi di più. Ma se dici che domani mattina hai lezione. Lo spiegherò a tua madre, sono sicuro che capirà.
- E la mamma, - aveva detto Stephan, - spero che questa sera si sia divertita.
Suo padre aveva sorriso, ma prima, per un breve istante, Stephan aveva visto passare nei suoi occhi uno sguardo di profonda desolazione.
- Oh, sì. Ne sono sicuro. Oh, sì. Era così contenta che tu fossi riuscito a prenderti una vacanza per venire fin qui. So che sperava che ti fermassi qualche giorno, ma non preoccuparti. Le spiegherò io.
Quella notte, mentre viaggiava lungo le strade deserte, Stephan aveva ripensato a ogni singolo istante della serata - così come avrebbe fatto e rifatto negli anni successivi. Con il passare del tempo, l'angoscia che lo assaliva ogni volta che ricordava quell'episodio si era attenuata, ma ora l'implacabile approssimarsi del concerto di giovedì gli aveva risvegliato molti degli antichi terrori, facendogli rivivere per l'ennesima volta - mentre viaggiavamo nella notte piovosa - quell'amara serata di parecchi anni prima.
Provai pena per il ragazzo e ruppi il silenzio dicendogli:
- So che non sono fatti miei, e spero di non sembrarti maleducato, ma penso che i tuoi genitori siano stati un po' ingiusti con te. Il mio consiglio è di provare a goderti più che puoi ciò che riesci a fare al pianoforte, e di cercare lì la soddisfazione e il significato di cui hai bisogno, senza più curarti di loro.
Il ragazzo rifletté per un lungo momento sulle mie parole. Poi disse:
- La ringrazio per l'interessamento, signor Ryder. Ma veramente... se mi permette la franchezza... credo che non abbia capito. Mi rendo conto che dal di fuori il comportamento di mia madre quella sera può sembrare un po', be', un po' sconsiderato. Ma sarebbe un giudizio ingiusto nei suoi confronti, e non vorrei mai che lei se ne andasse con questa impressione. Vede, non conosce tutti i retroscena. Tanto per cominciare, dai quattro anni in poi ho avuto come insegnante di pianoforte la signora Tilkowski. Probabilmente questo non le dice niente, ma deve sapere che la signora Tilkowski è un personaggio molto riverito in questa città, e certamente non un'insegnante di pianoforte £qualsiasi. I suoi servizi non sono a disposizione di tutti, anche se naturalmente si fa pagare come gli altri. Voglio dire che prende le cose molto sul serio, e accetta solo bambini dell'élite artistica e intellettuale della città. Per esempio, il pittore surrealista Paulo Rozario è vissuto qui per un po', e la signora Tilkowski ha insegnato a entrambe le sue figlie. E ai figli del professor Diegelmann. E anche alle nipoti della Contessa. Sceglie i suoi allievi con grande cura, dunque capisce che ero molto fortunato ad averla come insegnante, soprattutto perché allora papà non aveva ancora la posizione di oggi all'interno della comunità. Ma immagino che già allora i miei genitori fossero appassionati d'arte, non meno di oggi. Per tutta l'infanzia ricordo di averli sentiti parlare di pittori e musicisti, e di quanto sia importante incoraggiare queste persone. Oggi la mamma sta quasi sempre chiusa in casa, ma allora usciva molto di più. Per esempio, se un musicista, o un'orchestra, arrivava in città, lei correva sempre a offrire il suo sostegno. E dopo le prove cercava di entrare nei camerini per complimentarsi di persona. Magari il musicista aveva suonato male, ma mia madre vi andava lo stesso per dirgli due parole di incoraggiamento e dargli qualche garbato consiglio. Spesso invitava a casa nostra i musicisti, oppure si offriva di portarli a visitare la città. In genere erano sempre molto impegnati e non potevano accettare, ma come sicuramente anche lei può confermarmi, questi inviti sono sempre di grande conforto per gli artisti. Quanto a mio padre, era sempre occupatissimo, ma anche lui si faceva in quattro. Naturalmente, se c'era un ricevimento in onore di qualche celebrità, vi accompagnava sempre mia madre, anche se era sommerso di lavoro, in modo da dare anche lui il benvenuto al visitatore. Vede dunque, signor Ryder, che da quando mi ricordo, i miei genitori sono sempre state persone molto colte che sapevano apprezzare l'importanza dell'arte nella nostra società, e sono sicuro che è per questo che la signora Tilkowski alla fine mi ha accettato come allievo. Oggi mi rendo conto che deve essere stato un vero trionfo per i miei, soprattutto per mia madre, che aveva preso tutti gli accordi. Eccomi lì, a lezione dalla signora Tilkowski insieme con i figli di Rozario e del professor Diegelmann! Dovevano essere veramente orgogliosi. E nei primi anni me la sono cavata molto bene, gliel'assicuro, tanto che una volta la signora Tilkowski ha detto che ero uno degli allievi più promettenti che avesse mai avuto. Le cose sono andate davvero bene fino... be', fino ai dieci anni.
All'improvviso il giovane tacque, forse pentito di avere parlato così liberamente. Ma vedevo che un'altra parte di lui era ansiosa di continuare le rivelazioni, così domandai:
- Che cosa è successo quando avevi dieci anni?
- Be', mi vergogno di dirlo, soprattutto a lei, signor Ryder. Ma a dieci anni ho smesso di esercitarmi al pianoforte. Mi presentavo dalla signora Tilkowski senza avere fatto gli esercizi e, quando lei mi chiedeva perché, non rispondevo. $è davvero imbarazzante, mi sembra di parlare di un'altra persona, e vorrei tanto che per magia fosse così. Ma purtroppo è la verità, che vuole che le dica, mi comportavo a quel modo. E dopo qualche settimana, la signora Tilkowski è stata costretta ad avvertire i miei che, se avessi continuato così, non avrebbe più potuto tenermi. Più tardi ho scoperto che in quell'occasione la mamma aveva perso le staffe e si era messa a gridare con la signora Tilkowski. Fatto sta che le cose sono finite piuttosto male.
- E dopo sei andato da un'altra insegnante?
- Sì, una certa signorina Henze, che non era affatto male. Ma non c'era confronto con la signora Tilkowski. Io ho continuato a non fare gli esercizi, ma la signorina Henze era molto meno severa. Poi, quando avevo dodici anni, c'è stato il cambiamento. $è difficile spiegarle che cosa è successo, le sembrerà un po' strano. Ero seduto nel salotto di casa nostra in un pomeriggio pieno di sole. Ricordo che stavo leggendo una rivista di football, quando mio padre è entrato con aria sfaccendata. Indossava un panciotto grigio e aveva le maniche della camicia arrotolate. Si è fermato in mezzo alla stanza ed è rimasto a fissare il giardino oltre i vetri della finestra. Sapevo che mia madre era là fuori, sulla panca che allora tenevamo sotto gli alberi da frutta, e mi aspettavo che papà uscisse e andasse a farle compagnia. Ma lui restava lì. Mi dava la schiena, quindi non lo vedevo in faccia, ma ogni volta che sollevavo lo sguardo, lui era ancora lì che fissava il giardino, dove c'era mia madre. Be', la terza o quarta volta che ho alzato gli occhi, qualcosa, all'improvviso, si è fatto strada nella mia mente. Voglio dire che è stato allora che me ne sono reso conto. Che i miei genitori non si rivolgevano la parola da mesi. Strano, mi sono detto in quel momento, che non si parlino più. Ed era strano anche che non l'avessi notato prima, ma di fatto era così, me ne ero accorto solo allora, anche se con terribile chiarezza. Di colpo, mi sono tornati in mente diversi episodi, momenti in cui, in altri tempi, mio padre e mia madre si sarebbero detti qualcosa, e invece non l'avevano fatto. Non dico che stessero sempre zitti. Ma fra di loro era calata una specie di freddezza, e io non me ne ero mai accorto. Le assicuro, signor Ryder, che mi ha fatto uno stranissimo effetto, quando finalmente me ne sono reso conto. E quasi nello stesso istante mi è venuta in mente una cosa terribile, e cioè che il cambiamento risaliva a quando la signora Tilkowski mi aveva cacciato via. Non potevo esserne certo, perché era passato molto tempo, ma ripensandoci mi sono convinto che la cosa era cominciata allora. Non ricordo se mio padre sia poi andato in giardino. Io non ho detto niente, ho finto per un po' di continuare a leggere la mia rivista di football, poi sono salito in camera mia, mi sono sdraiato sul letto e ci ho riflettuto su. E da quel momento ho ricominciato a lavorare come si deve, a esercitarmi con grande impegno, e devo avere fatto molti progressi, perché dopo qualche mese mia madre è andata dalla signora Tilkowski a chiederle se poteva riprendermi. Oggi capisco che per lei deve essere stata una bella umiliazione, dopo che le aveva urlato quell'ultima volta, e probabilmente ha anche penato parecchio a convincerla. Fatto sta che la signora Tilkowski ha accettato di riprendermi, e io ci ho dato dentro, esercitandomi a più non posso. Ma vede, avevo perso due anni cruciali. Gli anni tra i dieci e i dodici, lei sa meglio di me quanto siano importanti. Mi creda, signor Ryder, ho cercato di ricuperarli, ho fatto tutto il possibile, ma ormai era troppo tardi. Ancora oggi ogni tanto mi fermo e mi domando: «Ma che cosa diavolo ti era passato per la testa?» Oh, che cosa non darei per riavere quegli anni! Ma vede, non credo che i miei genitori abbiano capito veramente il danno che mi aveva fatto quell'interruzione. Secondo me pensavano che, ritrovata la signora Tilkowski, purché lavorassi sodo, tutto sarebbe tornato come prima. So che la signora Tilkowski ha provato a spiegarglielo più di una volta, ma secondo me erano così pieni di amore e di orgoglio per loro figlio che semplicemente non riuscivano ad accettare la realtà. Per un bel po' di anni sono andati avanti convinti che facessi notevoli progressi, che fossi davvero dotato. Solo quando ho avuto diciassette anni hanno aperto gli occhi. A quei tempi c'era un concorso di pianoforte, il Premio JÜrgen Flemming; era organizzato dall'Istituto Civico di Belle Arti per le giovani promesse della città, e aveva una certa rinomanza, anche se oggi non si tiene più per mancanza di fondi. Quando avevo diciassette anni, i miei si sono messi in testa che dovevo parteciparvi, e mia madre si è occupata di sbrigare tutte le pratiche per iscrivermi. $è stato allora che si sono accorti di quanto fossi lontano dalla meta. Mi hanno ascoltato attentamente mentre suonavo - probabilmente era la prima volta che ascoltavano £sul £serio - e hanno capito che partecipando al concorso avrei solo umiliato me stesso e la famiglia. Io avevo abbastanza voglia di provarci, ma i miei hanno deciso che se l'avessi fatto mi sarei scoraggiato troppo. Come le dico, quella è stata la prima volta che si sono accorti di come suonassi male. Fino a quel momento, le loro grandi speranze, e immagino anche il loro amore per me, gli avevano impedito di ascoltare con un minimo di obiettività. E per la prima volta hanno colto appieno il danno fatto da quell'interruzione di due anni. Be', è abbastanza naturale che dopo fossero molto delusi. Mia madre, in particolare, si è rassegnata all'idea di avere fatto tutto per niente, che tutta la pena che si era data, tutti gli anni con la signora Tilkowski, la volta che era andata a supplicarla di riprendermi, tutto fosse stato un immenso spreco. Si è demoralizzata, ha smesso quasi di uscire, ha smesso di andare ai concerti e ai ricevimenti. Papà, invece, ha conservato un filo di speranza. $è tipico del suo carattere. Spera sempre fino all'ultimo. Di tanto in tanto, magari una volta all'anno, vuole sentirmi suonare, e quando me lo chiede mi accorgo che nutre ancora speranza in me, mi accorgo che pensa: «Questa volta, questa volta sarà diverso». Ma per ora, ogni volta che finisco di suonare e alzo gli occhi, lo vedo di nuovo sconsolato. Naturalmente fa del suo meglio per nasconderlo, ma io me ne accorgo lo stesso. Però non ha mai rinunciato a sperare, e per me questo ha voluto dire molto.
Stavamo sfrecciando per un ampio corso fiancheggiato da alti palazzi di uffici. Ogni tanto passavamo accanto a file di automobili ordinatamente posteggiate, ma il nostro sembrava ancora l'unico veicolo in movimento nel raggio di chilometri.
- Ed è stata un'idea di tuo padre? - domandai. - Quella di farti suonare giovedì sera?
- Sì. Se questa non è fiducia! Me l'ha proposto sei mesi fa. Non mi sente suonare da quasi due anni, ma sta dimostrando una grande fiducia in me. Naturalmente, mi ha lasciato aperta ogni scappatoia per dire di no, ma ho trovato così commovente che dopo tutte queste delusioni dimostrasse ancora tanta fiducia in me, che ho detto sì, suonerò.
- Sei stato molto coraggioso. Spero che i fatti ti diano ragione.
- Veramente, signor Ryder, ho accettato perché, anche se non dovrei dirlo io, be', credo di avere fatto un gran passo avanti negli ultimi tempi. Forse lei capirà quello che voglio dire, è piuttosto difficile da spiegare. $è come se qualcosa nella mia testa, una specie di diga che bloccava i miei progressi, si fosse rotto all'improvviso, liberando uno spirito interamente nuovo. Non so spiegare bene che cosa mi è successo, ma sono convinto di essere un pianista notevolmente migliore dell'ultima volta che papà mi ha sentito. Per questo, quando mi ha proposto di suonare giovedì sera, anche se la cosa mi spaventava, ho detto di sì. Se non l'avessi fatto, mi sarebbe sembrato di tradire la fiducia che aveva riposto in me. Questo non significa che non sia preoccupato. Ho lavorato tantissimo sul mio pezzo, e lo ammetto, un po' preoccupato lo sono. Ma so che è un'ottima occasione per lasciare stupefatti i miei genitori. Vede, ho sempre sognato qualcosa del genere. Anche quando suonavo in maniera disastrosa. Sognavo di passare mesi e mesi chiuso da qualche parte a esercitarmi. I miei genitori non mi avrebbero più visto. Poi un giorno sarei tornato a casa all'improvviso. Una domenica pomeriggio, probabilmente. In ogni caso, in un momento in cui ci fosse anche papà. Sarei entrato e, senza dire niente a nessuno, sarei andato al pianoforte, avrei sollevato il coperchio e cominciato a suonare. Non mi sarei nemmeno tolto il cappotto. Avrei solo suonato e suonato. Bach, Chopin, Beethoven. Poi i moderni. Grebel. Kazan. Mullery. Avrei solo suonato e suonato. E i miei, dopo avermi seguito in sala da pranzo, sarebbero rimasti a guardarmi a bocca aperta. Nemmeno nei loro sogni più pazzi, si sarebbero immaginati qualcosa del genere. Poi, con loro grande meraviglia, si sarebbero accorti che, man mano che suonavo, toccavo vette sempre più alte. Adagi sublimi e delicati. Virtuosismi impetuosi e mozzafiato. Su, sempre più su. E loro lì in mezzo alla stanza, papà con il giornale che stava leggendo ancora distrattamente in mano, tutti e due sbalorditi. Avrei concluso con un finale stupefacente, poi mi sarei voltato verso di loro e... be', a questo punto non so mai bene che cosa succede. Ma è una fantasia che mi torna da quando avevo tredici o quattordici anni. Magari giovedì sera non andrà proprio così, ma è possibile che succeda qualcosa di abbastanza simile. Come le dico, le cose sono cambiate, e sono sicuro di avercela quasi fatta. Ah, signor Ryder, eccoci arrivati. In tempo per i suoi giornalisti, ne sono certo.
Il centro della città era così silenzioso e privo di traffico che non l'avevo riconosciuto. Ma effettivamente stavamo avvicinandoci all'entrata dell'albergo.
- Se non le spiace, - proseguì Stephan, - vi lascio qui. Io devo fare il giro e portare la macchina sul retro.
Boris, sul sedile posteriore, aveva la faccia stanca ma era ancora sveglio. Scesi e mi assicurai che il bambino ringraziasse Stephan, poi lo condussi verso l'albergo.
7.
Le luci dell'atrio erano state abbassate, e tutto l'albergo, in generale, dava l'impressione di essere sprofondato nel silenzio. Il giovane portiere che avevo trovato al mio arrivo era di nuovo in servizio, anche se sembrava dormire della grossa sulla sua sedia dietro il banco della reception. Quando ci avvicinammo, alzò gli occhi e, riconoscendomi, fece uno sforzo per svegliarsi.
- Buona sera, signore, - disse alacremente, ma un attimo dopo parve di nuovo sopraffatto dalla stanchezza.
- Buona sera. Ho bisogno di un'altra stanza. Per Boris -. Misi una mano sulla spalla del bambino. - Il più possibile vicino alla mia, per piacere.
- Vedrò che cosa posso fare, signor Ryder.
- Tra l'altro, il facchino che si chiama Gustav è il nonno di Boris. Chi sa se è ancora in albergo?
- Oh, sì. Gustav vive qui. Ha una cameretta su in soffitta. Ma credo che in questo momento stia dormendo.
- Forse non gli spiacerà essere svegliato. Penso che ci tenga a vedere subito Boris.
Il portiere guardò ansiosamente l'orologio. - Be', come vuole, signore, - disse esitante, e sollevò il telefono. Dopo una breve attesa sentii che aveva ottenuto la comunicazione.
- Gustav? Gustav, scusami molto. Sono Walter. Sì, sì, mi dispiace averti svegliato. Sì, lo so, scusami molto. Ma ascoltami, per piacere. $è appena rientrato il signor Ryder. C'è tuo nipote con lui.
Per qualche istante il portiere rimase in ascolto, annuendo ripetutamente. Poi posò il telefono e mi sorrise.
- Viene subito. Dice che penserà lui a tutto.
- Magnifico.
- Deve essere stanchissimo, signor Ryder.
- Sì, lo sono. $è stata una giornata faticosa. Ma temo di avere ancora un appuntamento. Dovrebbero esserci dei giornalisti che mi aspettano.
- Ah. Se ne sono andati circa un'ora fa. Hanno detto che combineranno per un'altra volta. Mi sono permesso di suggerire che contattassero direttamente la signorina Stratmann, in modo da non disturbare lei. Davvero, signore, ha una faccia stanchissima. Smetta di pensare a queste cose e vada a dormire.
- Sì, ha ragione. Hmm. Così se ne sono andati. Prima arrivano in anticipo, poi se ne vanno.
- Sì, un bella scocciatura. Ma le consiglio di andare a dormire, signor Ryder. Non ci pensi più, davvero. Sono arcisicuro che tutto si aggiusterà.
Fui riconoscente al giovane portiere per queste parole di conforto, e per la prima volta dopo ore e ore fui pervaso da una sensazione di rilassamento. Posai i gomiti sul banco della reception e lì, in piedi, sonnecchiai per qualche istante. Non mi addormentai nel vero senso della parola, perché per tutto il tempo rimasi consapevole della testa di Boris pesantemente appoggiata contro il mio fianco e della voce del portiere, che continuava a parlare con lo stesso tono rassicurante a un palmo dalla mia faccia.
- Gustav sarà qui fra un attimo, - diceva, - si prenderà cura lui del bambino. Davvero, signore, non si preoccupi più di nulla. Quanto alla signorina Stratmann, in questo albergo la conosciamo da molto tempo. Una donna efficientissima. Si è già occupata di molti visitatori importanti, e tutti ne sono stati entusiasti al cento per cento. $è una che non commette mai errori. Dunque lasci che pensi lei ai giornalisti, vedrà che non ci saranno problemi. Quanto a Boris, gli daremo una camera proprio di fronte alla sua. Al mattino avrà una vista molto bella, che sicuramente gli piacerà. Quindi, signor Ryder, perché adesso non va su a dormire? Non c'è assolutamente nulla che lei possa ancora fare oggi. Anzi, se mi consente, non appena sarete di sopra, le consiglierei di lasciare Boris con suo nonno. Gustav sarà qui da un momento all'altro, sta solo indossando l'uniforme, è per questo che ci mette un po'. Fra un attimo scenderà tutto lustro, lui è fatto così, uniforme immacolata, non un filo fuori posto. E quando arriva, lasci che si occupi lui di tutto, è meglio. Sta senz'altro facendo più in fretta che può. In questo momento si starà legando le stringhe delle scarpe, seduto sulla sponda del suo lettuccio. Fra un attimo sarà pronto e scatterà in piedi, anche se dovrà fare attenzione a non battere la testa nella trave. Una rapida pettinata ed eccolo in corridoio. Sì, sarà qui fra un secondo, e lei potrà salire in camera sua, rilassarsi e farsi una bella dormita. Prima di andare a letto le raccomando un liquorino, uno dei cocktail speciali che troverà già pronti nel suo frigobar. Sono ottimi. O forse vorrà farsi mandare su qualcosa di caldo. E potrebbe ascoltare un po' di musica distensiva alla radio. A quest'ora c'è un canale che trasmette da Stoccolma, solo jazz da tarda notte, molto sobrio, molto distensivo, gliel'assicuro, lo ascolto spesso anch'io per scaricarmi. Oppure, se ha bisogno di rilassarsi £sul £serio, perché non va anche lei a vedere il film? In questo preciso istante molti dei nostri clienti sono lì.
L'ultima osservazione - a proposito del film - mi riscosse dal sopore. Raddrizzandomi, domandai:
- Mi scusi, che cosa stava dicendo? Che molti clienti sono andati a vedere un film?
- Sì, c'è un cinema appena girato l'angolo, dove danno un film a tarda ora. Molti clienti vanno a vederlo perché li aiuta a distendere i nervi dopo una giornata faticosa. Potrebbe fare un salto anche lei, invece di prendere il cocktail o qualcosa di caldo.
Il telefono accanto alla sua mano si mise a suonare; scusandosi, il portiere sollevò il ricevitore. Mentre ascoltava, mi lanciò un paio di occhiate imbarazzate. Poi disse: - Sì, è qui, signora, - e mi porse il telefono.
- Pronto, - dissi.
Per qualche secondo vi fu silenzio. Poi una voce disse: - Sono io.
Impiegai un momento a capire che era Sophie. Ma nell'istante in cui la riconobbi, mi sentii invadere da una gran rabbia nei suoi confronti, e fu solo la presenza di Boris che mi impedì di mettermi a urlare furibondo al telefono. Alla fine dissi gelidamente: - Ah, sei tu.
Vi fu un altro breve silenzio, prima che Sophie dicesse: - Chiamo da fuori. Sono in strada. Ti ho visto entrare con Boris. Probabilmente è meglio che in questo momento lui non mi veda. Dovrebbe essere a letto da un pezzo. Cerca di non fargli capire con chi stai parlando.
Abbassai gli occhi su Boris, che si era appisolato in piedi appoggiandosi contro di me.
- Allora, che cosa hai intenzione di fare? - domandai.
La udii sospirare rumorosamente. Poi disse:
- Hai tutti i diritti di essere arrabbiato. Io... io non so che cosa mi sia preso. Solo adesso mi rendo conto di quanto sono stata sciocca...
- Senti, - la interruppi, temendo di non riuscire a trattenere a lungo la mia rabbia, - dove sei, esattamente?
- Dall'altra parte della strada. Sotto gli archi, di fronte ai negozi di antiquariato.
- Sarò li fra un minuto. Resta dove sei.
Restituii il ricevitore al portiere e notai con sollievo che Boris aveva dormito per tutta la durata della telefonata. In ogni caso, proprio in quel momento, le porte dell'ascensore si aprirono e ne ti uscì Gustav.
La sua uniforme aveva davvero un aspetto immacolato. I suoi sottili capelli bianchi erano stati inumiditi e pettinati. Solo dal lieve gonfiore intorno agli occhi e dall'andatura un po' rigida si poteva capire che fino a pochi minuti prima stava dormendo.
- Oh, buona sera, signore, - disse, avvicinandosi.
- Buona sera.
- Ha portato Boris con sé. La ringrazio moltissimo, non doveva scomodarsi -. Gustav fece qualche passo verso di noi, osservando il nipote con un tenero sorriso sulle labbra. - Santo cielo, signore, ma lo guardi. Dorme come un sasso.
- Si, si è stancato molto, - dissi.
- Sembra ancora così piccolo quando dorme -. Commosso, il facchino fissò Boris per qualche istante. Poi sollevò lo sguardo verso di me e disse: - Mi domandavo, signore, se è riuscito a parlare con Sophie. $è tutto il pomeriggio che mi chiedo come è andata.
- Be', sì, le ho parlato.
- Ah. E ha qualche sentore?
- Sentore?
- Sì, dei motivi della sua inquietudine.
- Ah. Be', mi ha detto parecchie cose molto rivelatrici... ma sinceramente, come le ho già spiegato, è difficilissimo che dal di fuori si possa capire come stanno le cose. Qualche vaga idea sui possibili motivi della sua preoccupazione me la sono fatta, questo è ovvio, ma sono sempre più convinto che la cosa migliore è che le parli lei.
- Vede, signore, come mi sembra di averle spiegato prima...
- Sì, sì, non vi rivolgete più la parola, me lo ricordo, - dissi, con un improvviso scatto di impazienza. - Di sicuro, però, se la cosa le sta a cuore...
- La cosa mi sta molto a cuore. Oh, sì, £moltissimo. $è per il bene di Boris, capisce. Se non troviamo una soluzione in fretta, il bambino ne soffrirà, ne sono sicuro. Ci sono già i primi segni. E non ha che da guardarlo adesso, signore, guardarlo mentre dorme, per capire che è ancora piccolo. $è nostro dovere sgombrargli il mondo da queste preoccupazioni ancora per un po', non le sembra? In verità, dire che la cosa mi sta a cuore è dire poco. Negli ultimi tempi ci penso quasi senza interruzione, giorno e notte. Ma vede... - Il facchino fece un pausa, fissando con aria assente un punto del pavimento davanti ai suoi piedi. Poi scosse piano piano la testa e sospirò. - Lei dice che dovrei parlare a Sophie di persona. Non è così semplice. Deve capire come si è creata questa situazione. Vede, ormai questa... questa £intesa funziona da molti anni. Dai tempi in cui Sophie era bambina. Naturalmente, quando era £molto piccola, le cose erano diverse. Fino a quando ha avuto otto o nove anni, oh, Sophie e io ci parlavamo in continuazione. Le raccontavo le storie, facevamo lunghe passeggiate nella città vecchia, tenendoci per mano, solo noi due, parlando e parlando. Non creda, signore, volevo bene a Sophie allora e gliene voglio oggi. Oh, sì. Quando lei era piccola, eravamo £molto vicini. L'intesa è cominciata solo verso gli otto anni. Sì, aveva quell'età lì. Detto per inciso, all'inizio non pensavo che questa nostra intesa fosse destinata a durare a lungo. Probabilmente me la figuravo come una cosa di qualche giorno. Tutto lì, signore, non mi proponevo altro. Ricordo che il primo giorno ero a casa dal lavoro e stavo montando una mensola in cucina per mia moglie. Sophie mi seguiva dappertutto, domandandomi questo, offrendosi di portarmi quello, cercando di aiutarmi. E io sono rimasto zitto, signore, assolutamente zitto. Presto, mi sono accorto che Sophie era confusa e turbata. Ma avevo deciso così e dovevo essere irremovibile. Non è stato facile. Buon Dio, non è stato affatto facile; amavo la mia bambina più di ogni altra cosa al mondo, ma mi sono detto che dovevo essere forte. Tre giorni, ho pensato, tre giorni saranno sufficienti, tre giorni e non se ne parla più. Solo tre giorni, poi sarei tornato a casa dal lavoro e avrei potuto di nuovo prenderla in braccio, tenerla stretta, e ci saremmo detti tutto. Avremmo recuperato, per così dire. A quel tempo lavoravo all'Hotel Alba, e alla fine del terzo giorno, come può immaginare, non vedevo l'ora che il mio turno finisse per correre di nuovo dalla mia piccola Sophie. Può quindi capire la mia delusione quando, entrando in casa, ho chiamato Sophie e lei si è rifiutata di venire a salutarmi. Come se non bastasse, quando sono andato a cercarla, lei si è girata dall'altra ed è uscita dalla stanza senza aprire bocca. Come può immaginare, ci sono rimasto molto male. E devo essermi arrabbiato un po'; come le dico, avevo avuto una giornataccia, e friggevo dalla voglia di vederla. Mi sono detto, se è così che vuole comportarsi, peggio per lei. Ho cenato con mia moglie e sono andato a letto senza dire nemmeno una parola a Sophie. Credo che tutto sia nato di lì. $è passato un giorno, ne è passato un altro, e prima che ce ne accorgessimo, il silenzio era diventato la norma. Non voglio che lei mi fraintenda, signore; non si trattava di un litigio, anzi, qualsiasi animosità tra noi è cessata molto in fretta. Già allora eravamo come oggi. Sophie e io siamo rimasti molto premurosi l'uno nei confronti dell'altra. Semplicemente, abbiamo smesso di parlarci. Ammetto che non avrei mai immaginato che la cosa potesse trascinarsi così a lungo. La mia intenzione, credo, è sempre stata quella, al momento giusto, magari in un giorno speciale come il suo compleanno, di dimenticare tutto e ritornare come eravamo prima. Ma poi il compleanno è venuto e passato, ed è venuto e passato anche il Natale, e noi per qualche ragione non abbiamo mai ricominciato a parlarci. Poi, quando Sophie aveva undici anni, è successa una cosa un po' triste. Sophie aveva un piccolo criceto bianco. Lo chiamava Ulrich, e gli voleva molto bene. Passava ore e ore a parlargli, e lo portava in giro per casa tenendolo in mano. Poi un giorno la bestiola è scomparsa. Sophie l'ha cercata da per tutto. Sua madre e io abbiamo messo sottosopra l'appartamento, abbiamo chiesto ai vicini, ma inutilmente. Mia moglie ha fatto del suo meglio per convincere Sophie che Ulrich stava bene, che si era solo preso una vacanzina e che sarebbe tornato presto. Poi, un pomeriggio, mia moglie è uscita, e io e Sophie siamo rimasti soli in casa. All'improvviso, mentre ero in camera da letto che ascoltavo un concerto con la radio a tutto volume, mi sono accorto che Sophie era in salotto e stava singhiozzando convulsamente. Quasi subito ho capito che aveva ritrovato Ulrich. O meglio, quel che restava di lui, visto che il criceto era ormai sparito da qualche settimana. Be', la porta tra la camera e il salotto era chiusa, e come le ho detto tenevo la radio a tutto volume, quindi avrei potuto benissimo non sentire Sophie. Così sono rimasto in camera da letto, con l'orecchio incollato alla porta e il concerto che suonava alle mie spalle. Naturalmente ho pensato parecchie volte di andare da lei, ma quanto più me ne stavo lì, dietro la porta, tanto più mi sembrava innaturale piombare dentro all'improvviso. Vede, non è che singhiozzasse così forte. Per un po' sono persino tornato a sedermi, ho cercato di fingere di non essermi accorto di niente. Ma naturalmente sentirla piangere a quel modo mi straziava l'anima, e quasi subito mi sono ritrovato davanti alla porta, chino in avanti per cogliere i rumori di Sophie nonostante il frastuono del concerto. Se mi chiama, mi sono detto, se bussa o mi chiama, allora entrerò. Questa è stata la decisione che ho preso. Se grida: «Papà!», allora entrerò e le spiegherò che non sentivo a causa della musica. Ho aspettato, ma Sophie non ha chiamato né bussato. L'unica cosa che ha fatto, dopo un lungo pianto disperato che mi è andato dritto al cuore, glielo posso assicurare, l'unica cosa che ha fatto è stata di urlare come a se stessa... voglio sottolinearlo, signore, come a se stessa: «Ho lasciato Ulrich nella scatola! $è stata colpa mia! Me ne sono dimenticata! $è stata colpa mia!» Era successo, come ho scoperto più tardi, che Sophie aveva messo Ulrich in una scatoletta che le avevano regalato. Voleva portarlo da qualche parte, lo faceva spesso di portarlo in giro per «mostrargli» le cose. Lo aveva messo in quella scatoletta, pronta per uscire, ma per qualche motivo si era distratta e non era più uscita, e nel frattempo si era dimenticata di avere messo Ulrich nella scatola. Il pomeriggio di cui le parlo, cioè parecchie settimane dopo, Sophie stava trafficando per casa quando improvvisamente se ne era ricordata. Le lascio immaginare che momento terribile deve essere stato per la mia bambina! Ricordarsi così all'improvviso, magari sperare contro ogni logica di ricordare male, correre a prendere la scatola. E naturalmente dentro c'era Ulrich. Lì per lì, mentre ascoltavo attraverso la porta, non ero riuscito a stabilire che cosa fosse successo esattamente, ma nel momento in cui Sophie ha urlato ho cominciato a capire. «Ho dimenticato Ulrich nella scatola! $è stata colpa mia!» Ma voglio che abbia chiaro, signore, che Sophie ha detto queste parole come rivolgendosi a se stessa. Se avesse detto: «Papà! Ti prego, vieni...» Invece no. Con tutto ciò, ho pensato fra me e me: «Se grida di nuovo così, entro». Ma lei non ha più gridato. Si è limitata a singhiozzare. Me la vedevo, con Ulrich in mano, magari con la speranza che potesse ancora essere salvato... Oh, non è stato facile, signore. Ma la radio continuava a trasmettere il concerto, e così sono rimasto in camera da letto. Ho sentito mia moglie che rientrava molto più tardi, le due che parlottavano, Sophie che piangeva di nuovo. Poi mia moglie è venuta in camera e mi ha raccontato quello che era successo. «Non hai sentito nulla?» mi ha chiesto. E io: «Oh cielo, no, stavo ascoltando il concerto». La mattina dopo, a colazione, Sophie non mi ha detto niente, e io non ho detto niente a lei. In altre parole, abbiamo mantenuto la
nostra intesa. Ma io mi sono accorto, al di là di ogni possibile dubbio, che Sophie £sapeva che l'avevo sentita. E soprattutto, che non ce l'aveva con me. Mi ha passato la brocca del latte come sempre, il burro, ha addirittura portato via il mio piatto, un piccolo servizio extra. Quello che voglio dire, signore, è che Sophie capiva la nostra intesa e la rispettava. Dopo quella volta, come può immaginare, la situazione si è un po' cristallizzata. Vede, dato che non avevamo rotto l'intesa per la faccenda di Ulrich, non sarebbe stato giusto farlo fino a quando non fosse successo qualcosa di altrettanto importante. Capisce anche lei che interromperla di punto in bianco, senza nessun motivo particolare, non solo sarebbe stato imbarazzante, ma avrebbe sminuito l'intero episodio di Ulrich, che per mia figlia costituiva una tragedia. Spero proprio che lo capisca, signore. In ogni caso, come le dico, dopo quella volta la nostra intesa si è, be', cementata, e persino nelle attuali circostanze mi sembrerebbe poco opportuno rompere all'improvviso un accordo che dura da così tanto tempo. E oso dire che Sophie la penserebbe nello stesso modo. Per questo le ho chiesto, come un favore particolare, visto che questo pomeriggio andava da quelle parti...
- Sì, sì, sì, - lo interruppi, con un altro scatto d'impazienza. Poi, più gentilmente, aggiunsi: - Comprendo la situazione che si è creata tra lei e sua figlia. Ma mi chiedo, non è possibile che questa storia... questa storia dell'intesa... sia proprio la causa delle sue preoccupazioni? Non è possibile che la volta che l'ha vista seduta in quel caffè con l'aria disperata stesse pensando proprio a questo?
La mia osservazione fulminò Gustav, che per qualche istante rimase zitto. Alla fine disse: - Non mi era mai venuto in mente, signore, questo che lei dice. Bisognerà che ci pensi su. No, non mi era mai venuto in mente -. Tacque di nuovo per qualche istante, con la faccia scura. Poi alzò gli occhi e disse: - Ma perché la nostra intesa dovrebbe preoccuparla £adesso? Dopo tutto questo tempo? - Il facchino scosse la testa lentamente. - Posso chiederle una cosa, signore? Quest'idea le è venuta dopo avere parlato con lei?
All'improvviso mi sentii stanchissimo, e non so che cosa avrei dato per potermene lavare le mani. - Non lo so, non lo so, - dissi. - Lo ripeto, le questioni familiari... io sono un osservatore esterno. Come posso giudicare? Stavo solo prospettando una possibilità.
- Di sicuro dovrò pensarci su. Per il bene di Boris sono disposto a esaminare qualsiasi possibilità. Sì, dovrò pensarci su -. Gustav tacque di nuovo, sempre più scuro in volto. - Mi stavo domandando, signore, - disse dopo un po', - se posso chiederle un altro piacere. La prossima volta che vede Sophie, potrebbe indagare su questa possibilità? Sono sicuro che saprebbe farlo con tutto il tatto necessario. In condizioni normali non le chiederei mai una cosa simile, ma vede, lo faccio per il piccolo Boris. Gliene sarei davvero riconoscente.
Mi guardò supplichevole. Alla fine sospirai e dissi: - D'accordo. Farò il possibile, per il bene di Boris. Ma voglio che sia ben chiaro che per uno come me, che vede le cose dal di fuori...
Sarà stato perché avevamo fatto il suo nome, ma in quel momento Boris cominciò a svegliarsi.
- Nonno! - esclamò e, staccandosi da me, si slanciò tutto eccitato verso Gustav, con l'evidente intenzione di abbracciarlo. Ma all'ultimo momento si trattenne e gli tese invece la mano.
- Buona sera, nonno, - disse con compostezza.
- Buona sera, Boris -. Gustav lo accarezzò delicatamente sulla testa. - Mi fa piacere vederti. Com'è andata oggi?
Boris fece spallucce con aria indifferente. - Una giornata un po' faticosa. Ma niente di speciale.
- Solo un minuto, - disse Gustav, - mi occupo io di tutto.
Con un braccio sulle spalle del nipote, il facchino si avvicinò al banco della reception. Per qualche istante parlottò con il portiere in gergo alberghiero. Poi entrambi annuirono di comune accordo, e il portiere gli consegnò una chiave.
- Se vuole seguirmi, signore, - mi disse Gustav. - Le farò vedere la camera di Boris.
- Veramente, ho un altro impegno.
- A quest'ora? Una vita davvero frenetica, signore. Be', in tal caso, che ne dice se porto su Boris e lo sistemo io?
- Mi sembra un'ottima idea. Mi farebbe un gran piacere.
Li accompagnai fino all'ascensore e li salutai con la mano mentre le porte si richiudevano. Poi, tutto d'un tratto, la frustrazione e la rabbia che fino a quel momento ero riuscito a dominare mi ripiombarono addosso, e senza più rivolgere la parola al portiere attraversai l'atrio e uscii di nuovo nella notte.
8.
La strada era deserta e silenziosa. Impiegai un momento per scoprire - un po' più in là e sul lato opposto - gli archi di pietra di cui Sophie aveva parlato al telefono. Mentre mi dirigevo da quella parte, temetti per un istante che si fosse persa d'animo e fosse fuggita. Poi però vidi la sua sagoma emergere dall'ombra, e di nuovo mi sentii invadere dalla rabbia.
I suoi occhi non erano sottomessi come avrei voluto; vidi che mi osservavano attentamente. E, quando le fai vicino, Sophie mi disse in tono quasi serafico:
- Hai tutti i diritti di essere arrabbiato. Non so che cosa mi sia preso. Dovevo essere confusa. Hai tutti i diritti di essere arrabbiato, lo so.
La guardai con indifferenza. - Arrabbiato? Ah, capisco. Ti riferisci a come ti sei comportata questa sera. Be', sì, devo dire che ci sono rimasto molto male per Boris. Era disperato, come puoi immaginare. Ma sinceramente, per quanto mi riguarda, non sono stato certo a tormentarmi. Ho ben altro per la testa in questo momento.
- Mi chiedo come sia potuto succedere. So che avevate bisogno di me...
- Non ho mai avuto bisogno di te. E adesso vedi di calmarti -. Proruppi in una breve risata e mi incamminai lentamente. - Per quanto mi riguarda, non merita nemmeno parlarne. Sono sempre stato capace di badare a me stesso, con o senza il tuo aiuto. Ci sono rimasto male per Boris, tutto lì.
- Sono stata una stupida, adesso me ne rendo conto -. Sophie si era messa a camminare al mio fianco. - Non so, probabilmente pensavo che tu e Boris... prova a metterti nei miei panni... che tu e Boris faceste apposta a rimanere indietro, che non foste affatto entusiasti del mio programma per la serata, e mi sono detta che vi sareste sganciati in ogni caso... Senti, se vuoi, ti dirò tutto. Tutto quel che vuoi sapere. Nei minimi particolari...
Mi fermai e mi girai verso di lei. - Evidentemente non mi sono spiegato. Tutto ciò non mi interessa. Sono uscito solo perché volevo prendere una boccata d'aria e distendere un po' i nervi. $è stata una giornata faticosa. Anzi, sono uscito perché prima di andare a letto volevo vedere un film.
- Un film? E che film?
- Come faccio a saperlo? C'è un cinema qui vicino che dà un film a quest'ora. Non mi importa quale, pensavo di andarci in ogni caso. $è stata una giornata molto faticosa.
Ripresi a camminare, questa volta più risoluto. Un istante dopo ebbi la soddisfazione di sentire i suoi passi che mi seguivano.
- Davvero non sei arrabbiato? - mi domandò Sophie raggiungendomi.
- Certo che no. Perché dovrei?
- Posso venire anch'io? A vedere questo film?
Alzai le spalle e continuai a camminare di buon passo. - Se ti fa piacere. Io non ho nulla in contrario.
Sophie mi afferrò il braccio. - Se vuoi, vuoto il sacco. Ti dico tutto. Tutto quello che vuoi sapere su...
- Senti, quante volte devo ancora dirtelo? Non sono minimamente interessato. Adesso voglio solo distendere i nervi. Nei prossimi giorni non avrò un attimo di respiro.
Per un momento, mentre camminavamo in silenzio, Sophie continuò a stringermi il braccio. Poi mi disse sottovoce: - Ti ringrazio. Sei così comprensivo.
Finsi di non avere sentito. Poco dopo scendemmo dal marciapiede e proseguimmo in mezzo alla strada deserta.
- Quando avrò trovato una casa adatta per noi, - disse Sophie, - allora le cose andranno meglio. Ne sono sicura. Ci spero proprio in questo posto che vado a vedere domattina. Si direbbe la casa che abbiamo sempre desiderato.
- Sì. Speriamo sia così.
- Potresti dimostrare un po' più di entusiasmo. Potrebbe essere la svolta della nostra vita.
Feci spallucce e continuai a camminare. Il cinema era ancora abbastanza lontano, ma essendo in pratica l'unico edificio illuminato della strada buia, già da un pezzo aveva attirato i nostri sguardi. Poi, quando fummo più vicini, Sophie sospirò e si fermò.
- Magari io non vengo, - disse, districando il braccio. - Domani ho bisogno di parecchio tempo per vedere la casa. Dovrò partire presto. $è meglio che me ne vada.
Non so perché, le sue parole mi colsero un po' di sorpresa, e per un secondo non seppi che cosa risponderle. Guardai prima il cinema, poi di nuovo Sophie.
- Non hai detto che volevi... - cominciai, poi, dopo una pausa, aggiunsi con voce più calma: - Senti, è un film molto bello. Sono sicuro che ti piacerà.
- Ma se non sai nemmeno che film danno.
Mi balenò il pensiero che volesse prendersi gioco di me. Ma stavo cominciando a provare una strana sensazione di panico, e non potei fare a meno di usare un tono supplichevole.
- Sai cosa voglio dire. Il portiere. Me l'ha raccomandato lui. Lo conosco, ed è una persona di fiducia. D'altronde l'albergo ha una reputazione da difendere. Mi sembra poco probabile che consiglino ai clienti... - Le parole mi si spensero sulle labbra, mentre il panico cresceva e Sophie cominciava ad allontanarsi da me. - Senti, - dissi ad alta voce, senza più curarmi che qualcuno potesse sentirmi, - sono sicuro che è un bel film. Ed è così tanto tempo che non andiamo al cinema. Ci hai mai pensato? Quand'è l'ultima volta che abbiamo fatto qualcosa insieme?
Sophie parve riflettere sulle mie parole, infine sorrise e tornò indietro.
- Va bene, - disse, prendendomi con garbo il braccio. - Va
bene. $è tardi, ma verrò con te. Hai ragione, sono secoli che non facciamo qualcosa insieme. Abbiamo bisogno di un po' di distrazione.
Provai un gran sollievo, e mentre entravamo nel cinema mi trattenni a stento dall'abbracciarla. Sophie dovette accorgersene, perché mi posò la testa sulla spalla.
- Sei così buono, - disse sottovoce, - a non essere arrabbiato con me.
- E perché dovrei essere arrabbiato? - bofonchiai, mentre esaminavo il foyer.
- Poco più avanti si vedeva la coda di una fila di persone che stavano entrando nella sala. Mi guardai intorno cercando un posto per comprare i biglietti, ma il botteghino era chiuso, e pensai che ci fosse un accordo speciale tra l'albergo e il cinema. Fatto sta che, quando Sophie e io chiudemmo la fila, l'uomo vestito di verde che stava sulla soglia ci sorrise e ci fece entrare come tutti gli altri.
La sala era quasi piena. Le luci non erano ancora spente, e molte persone si aggiravano in cerca di un posto. Stavo guardando anch'io dove sederci, quando Sophie mi strinse il braccio eccitata.
- Oh, prendiamo qualcosa, - disse. - Un gelato, o dei popcorn...
Mi indicò la parte anteriore della sala, dove si era formata una breve fila di fronte a una donna in uniforme con un vassoio di dolciumi.
- Certamente, - dissi. - Ma dobbiamo sbrigarci, o non troveremo più posto. La sala è affollatissima.
Andammo anche noi a unirci alla coda. Ma dopo un momento, mentre ero lì che aspettavo, provai un nuovo impeto di rabbia, tanto che non potei fare a meno di dare le spalle a Sophie. Poi la sentii dire dietro di me:
- Devo essere sincera. Questa sera non sono venuta in albergo per cercare te. Non sapevo nemmeno che saresti ripassato di lì.
- Davvero? - Mi sporsi in avanti per esaminare i dolciumi.
- Dopo quello che era successo, - proseguì Sophie, - voglio dire, quando ho capito che mi ero comportata come una sciocca, be', non sapevo più che cosa fare. Poi, improvvisamente, mi sono ricordata. Del cappotto invernale di papà. Mi sono ricordata che non glielo avevo ancora portato.
Udii un fruscio. Mi girai, e solo allora notai che Sophie aveva sul braccio un grosso fagotto informe di carta marrone. Lo sollevò in aria, ma doveva essere piuttosto pesante, perché subito lo riabbassò.
- Sono stata sciocca, - disse. - Non c'era nessun motivo di agitarsi. Ma vedi, di colpo mi è sembrato di sentire l'inverno nell'aria. Ho pensato al cappotto e ho voluto portarglielo subito. Così l'ho avviluppato in un pezzo di carta e sono uscita. Ma quando sono arrivata davanti all'albergo la notte era tiepida. Ho capito che mi ero spaventata per nulla, e non sapevo più se entrare per darglielo questa sera oppure no. Così sono rimasta lì fuori, e intanto si faceva sempre più tardi, finché mi sono resa conto che a quell'ora papà era sicuramente andato a dormire. Ho pensato di lasciarlo al portiere, ma poi mi è venuta voglia di darglielo di persona. E stavo dicendomi che intanto non c'era nessuna fretta perché l'aria era ancora tiepida, quando è arrivata la macchina e ne siete scesi tu e Boris. Ecco, adesso sai la verità.
- Capisco.
- Altrimenti non so se avrei avuto il coraggio di affrontarti. Ma ero lì, proprio davanti all'albergo, così ho respirato a fondo e ho telefonato.
- Bene, sono contento che tu l'abbia fatto -. Accennai alla sala. - In fondo è molto tempo che non andiamo al cinema insieme.
Sophie non rispose, e quando abbassai gli occhi vidi che fissava amorevolmente il pacco che teneva sul braccio, accarezzandolo con la mano libera.
- Il tempo non cambierà ancora per un po', - mormorò, parlando più al cappotto che a me. - Quindi non c'è nessuna fretta. Possiamo darglielo fra qualche settimana.
Eravamo finalmente arrivati in fondo alla coda, e Sophie mi passò davanti per sbirciare con impazienza nel vassoio della donna in uniforme.
- Tu che cosa prendi? - mi domandò. - Io penso che sceglierò una coppetta di gelato. No, un ricoperto al cioccolato. Uno di questi.
Guardando al di sopra della sua spalla, vidi che il vassoio conteneva il solito assortimento di gelati e di barrette di cioccolato. Ma stranamente i dolci erano stati ammassati ai margini per fare spazio a un grosso libro malconcio. Mi chinai a esaminarlo.
- Un manuale molto utile, signore, - disse subito la donna in uniforme. - Glielo raccomando caldamente. So che non è il posto adatto. Ma il direttore chiude un occhio se di tanto in tanto vendiamo un oggetto personale, basta non farlo troppo spesso.
Sulla sopraccoperta c'era la fotografia di un uomo sorridente a metà di una scala a libro, con un pennello in mano e un rotolo di carta da parati sotto il braccio. Quando presi il volume in mano, sentii che la rilegatura si stava sfasciando.
- Veramente apparteneva al mio figlio più grande, - continuò la donna in uniforme. - Ma adesso è cresciuto e se ne è andato in Svezia. La settimana scorsa mi sono finalmente decisa a fare ordine tra le sue cose. Ho tenuto tutto ciò che mi sembrava avesse un valore affettivo e ho buttato via il resto. Poi però mi sono capitate tra le mani un paio di cosette che non rientravano in nessuna delle due categorie. Questo manuale, per esempio, non posso dire che abbia un gran valore affettivo, ma è molto utile: ti insegna a fare un sacco di lavoretti in casa, come decorare, o piastrellare, ti spiega tutto per gradi, con disegni molto chiari. Mi ricordo che mio figlio, quand'era piccolo, l'ha trovato utilissimo. So che è un po' sciupato, ma è davvero un libro indispensabile. Non chiedo molto, signore.
- Magari a Boris piacerebbe, - dissi a Sophie, sfogliando il volume.
- Oh, se avete un figlio piccolo, è il libro che ci vuole. Posso garantirvelo per esperienza. Per il nostro è stato una miniera di informazioni. Ti spiega tutto, come dipingere, come mettere le piastrelle.
Le luci cominciarono ad abbassarsi, e io mi ricordai che dovevamo ancora cercarci un posto.
- Va bene, lo prendo, - dissi.
Mentre pagavo, la donna si profuse in ringraziamenti, poi ce ne andammo con il libro e i nostri gelati.
- Sei gentile a interessarti così di Boris, - disse Sophie mentre risalivamo il corridoio centrale. Poi sollevò di nuovo il pacco e se lo strinse al petto, facendo frusciare la carta.
- Non so come papà abbia potuto passare l'ultimo inverno senza un cappotto come si deve, - disse. - Ma era troppo orgoglioso per portare quello vecchio. L'anno scorso non faceva molto freddo, per fortuna. Ma non può passare un altro inverno così.
- No di certo.
- Io non sono una sentimentale. So che papà sta invecchiando. E ho già pensato a tutto. Per esempio, a quando andrà in pensione. $è inutile nascondersi che sta invecchiando -. Poi aggiunse sottovoce: - Questo glielo do fra un paio di settimane. Dovrebbe bastare.
Le luci avevano continuato ad abbassarsi, e il pubblico si era zittito in attesa dello spettacolo. Mi accorsi che la sala era ancora più affollata di prima e temetti di avere aspettato troppo a cercare un posto. Poi però, mentre calava l'oscurità, ci venne incontro una maschera, che ci mostrò con la torcia due poltrone libere vicino allo schermo. Borbottando qualche scusa, Sophie e io strisciammo di traverso lungo la fila e ci sedemmo nel preciso istante in cui cominciava il fuori programma.
Le pubblicità erano quasi tutte di aziende locali, e mi parvero interminabili. Quando finalmente cominciò lo spettacolo vero e proprio, eravamo seduti da almeno mezz'ora; vidi con sollievo che il film era un classico della fantascienza, v2001: Odissea nello spazio,v uno dei miei preferiti, che non mi stancherò mai di rivedere. Non appena sullo schermo comparvero le impressionanti immagini di apertura di un mondo preistorico, provai una sensazione di rilassamento, e presto mi calai piacevolmente nel film. Eravamo nel bel mezzo della storia, con Clint Eastwood e Yul Brynner a bordo dell'astronave diretta verso Giove, quando accanto a me udii Sophie che diceva:
- Ma il tempo può cambiare. Così, quando meno te l'aspetti.
Pensai si riferisse al film e borbottai che ero d'accordo con lei. Ma qualche minuto dopo Sophie ricominciò:
- L'anno scorso ha fatto un bell'autunno soleggiato, proprio come adesso. Un autunno lunghissimo. La gente prendeva il caffè nei bar all'aperto ancora a novembre. Poi di colpo, quasi da un giorno all'altro, è arrivato il freddo. Magari succede così anche quest'anno. Non si può mai sapere, no?
- No, penso di no -. Ormai avevo capito che ce l'aveva ancora con il cappotto.
- Ma non c'è fretta, - mormorò Sophie.
Quando le gettai un'occhiata, mi parve che stesse di nuovo guardando il film. Mi girai anch'io verso lo schermo, ma pochi secondi dopo, nell'oscurità del cinema, cominciarono a tornarmi alla mente certi frammenti di ricordo, e la mia attenzione fu nuovamente distolta dal film.
Con grande vividezza mi rividi seduto in una poltrona scomoda, forse sporca. Probabilmente era mattina, una mattina grigia e opaca, e davanti a me avevo un giornale. Boris era lì vicino, sdraiato a pancia in giù sul tappeto, e disegnava su un album con un pastello a cera. Dall'età del bambino - che era ancora molto piccolo - dedussi che la scena risaliva a sei o sette anni prima, anche se non ricordavo né in quale stanza, né in quale casa, si fosse svolta. La porta che comunicava con la camera accanto era stata lasciata spalancata, e si sentiva un chiacchiericcio di voci femminili.
Per un po' avevo continuato a leggere il giornale nella mia scomoda poltrona, finché qualcosa in Boris - un sottile mutamento del suo contegno o della sua posizione - mi aveva fatto abbassare gli occhi su di lui. E in un baleno mi ero reso conto di ciò che stava avvenendo davanti a me. Boris era riuscito a disegnare un Superman perfettamente riconoscibile. Erano settimane che ci provava, ma nonostante i nostri incoraggiamenti i suoi scarabocchi non avevano mai la minima somiglianza. Adesso invece, forse per quella miscela di fortuna e di reali progressi così frequente nell'infanzia, ce l'aveva improvvisamente fatta. Anche se lo schizzo non era finito - la bocca e gli occhi erano incompleti - mi ero subito reso conto che il disegno rappresentava un immenso trionfo per lui. Gli avrei senza dubbio detto qualcosa, se in quel momento non l'avessi visto chino sul foglio in uno stato di grande tensione, con il pastello a mezz'aria. Era evidente che esitava a rifinire il disegno per timore di rovinarlo. Sentivo acutamente il suo dilemma, e avrei voluto esclamare ad alta voce: - Fermati, Boris. Basta così. Fermati lì e fa vedere a tutti quello che hai fatto. Fallo vedere a me, poi a tua madre, poi alla gente che chiacchiera di là. Che cosa importa se non è finito? Tutti resteranno a bocca aperta e saranno fierissimi di te. Fermati adesso, prima di guastare tutto -. Ma non avevo detto niente, ed ero rimasto a osservarlo nascosto dietro il giornale. Alla fine Boris, vinte le esitazioni, aveva cominciato ad aggiungere qualche tocco con grande prudenza. Poi, acquistando fiducia, si era curvato sul foglio e si era messo a usare il pastello quasi con temerarietà. Un attimo dopo si era fermato di botto, fissando il foglio in silenzio. Poi - e ancora adesso mi sentii invadere dall'angoscia - lo avevo visto compiere un tentativo per salvare il suo disegno, aggiungendo altro colore. Alla fine sulla sua faccia era comparsa un'espressione di disappunto, e Boris, lasciato cadere il pastello sul foglio, si era alzato ed era uscito dalla stanza senza dire una parola.
L'intero episodio mi aveva turbato più di quanto mi aspettassi, e stavo ancora cercando di dominare la commozione, quando la voce di Sophie, a due passi da me, aveva detto:
- Ma dove ce l'hai il cuore?
Avevo abbassato il giornale, colpito dall'acredine del suo tono. Sophie era nella stanza e mi fissava. Poi aveva detto:
- Tu non sai che cosa ho provato osservando la scena. Tu non proverai mai nulla di simile. Ma guardati, leggi il giornale e non pensi ad altro -. Poi aveva abbassato la voce, conferendole ancora maggiore intensità: - C'è poco da fare, è diverso! Boris non è tuo. Checché tu ne dica, è diverso. Non gli vorrai mai bene come un vero padre. Ma guardati! Tu non sai che cosa ho provato.
Detto questo, aveva girato sui tacchi e si era dileguata.
Avevo pensato di seguirla, infischiandomene dei visitatori della stanza accanto, e di riportarla indietro per parlarle. Ma alla fine avevo preferito restare dov'ero e aspettare che fosse lei a tornare. E infatti, pochi minuti dopo, Sophie era ricomparsa, ma qualcosa nel suo atteggiamento mi aveva impedito di parlarle, e lei era uscita di nuovo. A dire il vero, nella successiva mezz'ora Sophie era entrata e uscita dalla camera parecchie altre volte, ma sempre, per quanto risoluto a manifestarle i miei sentimenti, ero rimasto zitto. Alla fine mi ero reso conto che la possibilità di affrontare l'argomento senza apparire ridicolo era svanita, così ero tornato al mio giornale, profondamente offeso e avvilito.
- Mi scusi, - disse una voce dietro di me, mentre una mano mi sfiorava una spalla. Girandomi vidi un signore che si chinava in avanti studiandomi attentamente.
- Lei è il signor Ryder, vero? Santo cielo, è proprio lei. La prego di scusarmi, sono qui da un pezzo ma non l'avevo riconosciuta. C'è così poca luce. Mi chiamo Karl Pedersen. Non vedevo l'ora di conoscerla, questa mattina. Ma naturalmente i soliti imprevisti le hanno impedito di partecipare al ricevimento. E adesso, neanche a farlo apposta, la incontro qui.
L'uomo aveva i capelli bianchi, gli occhiali e un volto affabile. Mi girai leggermente verso di lui.
- Ah, sì, il signor Pedersen. Sono molto lieto di fare la sua conoscenza. Come dice, è stato un vero peccato per questa mattina. Anch'io ero ansioso di, ehm, incontrarvi tutti.
- Per combinazione, in questo momento ci sono parecchi altri consiglieri qui al cinema, tutti spiaciutissimi del disguido di questa mattina -. Pedersen si guardò intorno nell'oscurità. - Se riesco a scoprire dove sono seduti, mi piacerebbe portarla a conoscerne almeno un paio -. Si girò e allungò il collo per scrutare le file alle sue spalle. - Purtroppo in questo momento non ne vedo nessuno...
- Naturalmente sarei lietissimo di conoscere i suoi colleghi. Ma adesso è piuttosto tardi, e se stanno guardando il film, forse è meglio che rimandiamo a un'altra volta. Sono sicuro che le occasioni non mancheranno.
- In questo momento non vedo nessuno, - ripeté Pedersen, voltandosi di nuovo verso di me. - Che peccato. So che sono da qualche parte nel cinema. Comunque, signor Ryder, in qualità di membro del consiglio comunale, mi consenta di dirle quanto siamo felici e onorati della sua visita.
- Molto gentile.
- Tutti dicono che questo pomeriggio il signor Brodsky ha fatto grandi progressi all'auditorium. Tre o quattro ore di prove ininterrotte.
- Sì, ho sentito. Magnifico.
- Mi domandavo se oggi è riuscito a visitare il nostro palazzo dei concerti, signor Ryder.
- Il palazzo dei concerti? Be' no. Purtroppo non ne ho ancora avuto modo...
- Mi rendo conto, dopo un viaggio così lungo. Be', c'è tutto il tempo. Sono sicuro che il nostro auditorium le farà una splendida impressione, signor Ryder. $è davvero un bel palazzo d'altri tempi, e anche se in questa città abbiamo lasciato andare in sfacelo molte cose, nessuno può accusarci di trascurarlo. Un vecchio palazzo bellissimo, nella meravigliosa cornice del Parco Liebmann. Vedrà con i suoi occhi, signor Ryder. Una piacevole passeggiata tra gli alberi, poi si arriva in una radura, ed ecco il palazzo dei concerti! Vedrà, vedrà. Un luogo ideale, dove la comunità può riunirsi lontano dal trambusto delle strade. Ricordo che in città, quando ero bambino, c'era un'orchestra, e la prima domenica di ogni mese tutti si riunivano nella radura prima del concerto. Ricordo l'arrivo delle diverse famiglie, tutte in abiti eleganti, e le frotte di persone che sbucavano dal bosco e si salutavano a vicenda. Noi bambini scorrazzavamo dappertutto. D'autunno facevamo un gioco un po' particolare. Andavamo di qui e di là a raccogliere tutte le foglie che trovavamo per terra, e correvamo ad ammucchiarle contro la baracca del giardiniere. Sul muro della baracca c'era un'asse alta più o meno così con una macchia. Bisognava raccogliere foglie a sufficienza perché il mucchio arrivasse all'altezza della macchia prima che gli adulti cominciassero a entrare nell'auditorium. Se non ce l'avessimo fatta, l'intera città sarebbe esplosa in un milione di pezzi. E noi tutti lì, a correre avanti e indietro, con le braccia piene di foglie fradicie! $è facile che le persone della mia età diventino nostalgiche, signor Ryder, ma non ci sono dubbi, questa una volta era una comunità molto felice. C'erano famiglie numerose e felici, qui da noi. E amicizie che duravano davvero. La gente si trattava con calore e affetto. Che magnifica comunità. E siamo andati avanti così per tantissimo tempo. L'anno che viene ne compio settantasei, quindi glielo posso garantire personalmente.
Pedersen tacque per un momento. Era ancora chino in avanti, con il braccio sullo schienale della mia poltrona, e quando lo guardai in faccia vidi che i suoi occhi non fissavano lo schermo ma un punto lontano del passato. Nel frattempo ci stavamo avvicinando alla parte del film in cui gli astronauti cominciano a sospettare di H$a$l, il calcolatore che regola ogni particolare della vita a bordo della nave spaziale. Clint Eastwood si stava aggirando furtivo negli angusti corridoi, con la faccia scavata e una pistola a canna lunga. Stavo di nuovo appassionandomi al film, quando Pedersen riprese a parlare.
- Sinceramente, non posso fare a meno di compatirlo un po'. Il signor Christoff, intendo. Sì, per quanto possa sembrarle strano, lo £compatisco. L'ho detto a un paio di colleghi, e loro avranno pensato, oh, il vecchio Pedersen sta rimbambendo, come si fa a provare un briciolo di pietà per quel ciarlatano? Ma vede, io ho una memoria migliore di tanti altri. Ricordo come sono andate le cose quando il signor Christoff è arrivato la prima volta in questa città. Naturalmente sono furioso con lui non meno dei miei colleghi. Ma vede, io so che agli inizi, proprio agli inizi, non è stato il signor Christoff a farsi avanti. No, no, siamo stati... be', siamo stati £noi a spingerlo. Voglio dire le persone come me, che, non lo nego, avevano una notevole influenza. L'abbiamo incoraggiato. L'abbiamo esaltato e adulato, gli abbiamo fatto capire che volevamo da lui lumi e sostegno. Almeno parte della responsabilità di ciò che è accaduto è nostra. I miei colleghi più giovani, forse, non erano ancora molto presenti in quei primi anni. Vedono nel signor Christoff solo il dominatore che ha finito con l'attirare su di se ogni attenzione. Dimenticano che lui non ha mai chiesto di essere messo sul piedistallo. Oh, sì, ricordo perfettamente quando il signor Christoff è arrivato in città. Era molto giovane, allora, schivo, senza pretese, persino modesto. Sono sicuro che, se nessuno lo avesse incoraggiato, si sarebbe accontentato di restare nell'ombra, dando di tanto in tanto un concerto a un ricevimento privato, nient'altro. Colpa del momento, signor Ryder. Un momento infelice. Quando il signor Christoff è arrivato in città, stavamo attraversando, come dire, una specie di vuoto. Il signor Bernd, il pittore, e il signor Vollmöller, un ottimo compositore, che per lungo tempo avevano governato la nostra vita culturale, erano entrambi morti a pochi mesi l'uno dall'altro, e c'era una certa sensazione di... be', di £instabilità. Il trapasso di due così eccellenti persone ci aveva molto rattristati, ma credo che tutti fossero anche coscienti che finalmente si presentava la possibilità di un cambiamento. La possibilità di qualcosa di nuovo e di fresco. Per quanto nessuno potesse lamentarsi, era inevitabile che, dopo così tanti anni di indiscussa preminenza di quei due signori, si fossero create certe insoddisfazioni. Dunque, quando si è sparsa la voce che lo straniero a pensione dalla signora Roth era un violoncellista di professione, che aveva suonato con l'Orchestra Sinfonica di Göteborg e parecchie volte sotto la direzione di Kazimierz Studzinski, be', può immaginare l'eccitazione. Anch'io ho partecipato attivamente alla sua accoglienza, e ricordo come sono andate le cose. Ricordo anche che in principio il signor Christoff era una persona schiva. Anzi, con il senno di poi, addirittura insicura. Molto probabilmente era reduce da qualche fiasco. Ma noi l'abbiamo circondato di attenzioni, abbiamo insistito per conoscere la sua opinione su tutto, sì, è così che è cominciato. Ricordo di avere fatto anch'io la mia parte per strappargli l'assenso al primo concerto. Lui era sinceramente riluttante. Quel primo concerto doveva essere un avvenimento per pochi, in casa della Contessa. Solo due giorni prima della data prevista, quando è stato chiaro che moltissima gente voleva parteciparvi a tutti i costi, la Contessa è stata costretta a spostare la sede nella Galleria Holtmann. Da allora i concerti di Christoff... ne esigevamo almeno uno ogni sei mesi... si sono tenuti nel palazzo che le dicevo, e sono diventati il nostro grande argomento di discussione, anno dopo anno. Ma agli inizi Christoff era riluttante. Non solo quella prima volta. Abbiamo dovuto continuare a insistere per parecchio tempo. Poi naturalmente le lodi, gli applausi e le adulazioni hanno compiuto la loro opera, e presto Christoff ha cominciato a pavoneggiarsi e a imporre le sue idee. «Qui sono sbocciato, - lo si sentiva dire spesso a quei tempi. - Da quando sono qui, sono sbocciato». Vede, io dico che siamo stati £noi a spingerlo. E adesso lo compatisco sul serio, anche se suppongo di essere l'unico in città. Come avrà notato, c'è molta rabbia nei suoi confronti. Io non mi nascondo la gravità della situazione, signor Ryder. So che occorre essere spietati. La nostra città è vicina al collasso. C'è un estremo e diffuso disagio. Da qualche parte, se si vogliono sistemare le cose, bisogna pur cominciare, e allora tanto vale partire dal centro. Dobbiamo essere spietati, e per quanto compatisca Christoff, mi rendo conto che non ci sono altre soluzioni. Ormai quell'uomo, e con lui tutto ciò che egli ha finito con il rappresentare, va sepolto in un angolo buio della nostra storia.
Sebbene fossi ancora leggermente girato verso di lui per dimostrargli che non avevo smesso di ascoltare, la mia attenzione era stata nuovamente attirata dal film. Clint Eastwood, con il volto rigato di lacrime, stava parlando in un microfono alla moglie rimasta sulla terra. Mi accorsi che ci stavamo avvicinando alla famosa scena in cui Yul Brynner entra nella stanza e mette alla prova la velocità di Eastwood nell'estrarre la pistola battendogli le mani davanti al volto.
- Mi scusi, - dissi, - ma quanti anni fa è arrivato il signor Christoff?
Feci questa domanda quasi sovrappensiero, dato che almeno metà della mia attenzione era rivolta allo schermo. Continuai persino a guardare il film per due o tre minuti prima di accorgermi che alle mie spalle Pedersen aveva chinato il capo in un atteggiamento di profonda vergogna. Sentendo di nuovo il mio sguardo su di sé, il consigliere sollevò gli occhi e disse:
- Ha tutte le ragioni, signor Ryder. Tutte le ragioni di sgridarci. Diciassette anni e sette mesi sono un'eternità. Un errore come il nostro potevano farlo tutti, ma è inammissibile averci messo tutto questo tempo a correggerlo. Mi rendo conto di che cosa può pensare un osservatore esterno, qualcuno come lei, signor Ryder, e mi lasci dire che provo una gran vergogna. Non cerco giustificazioni. C'è voluta un'eternità per ammettere il nostro errore. Non per £vederlo, questo credo di no. Ma per confessarlo, anche solo a noi stessi; questo sì che è stato difficile e ha richiesto molto tempo. Vede, eravamo legati a doppio filo con il signor Christoff. Quasi ogni consigliere, prima o poi, l'aveva invitato a casa sua. Gli era sempre stato riservato un posto accanto al signor von Winterstein al Banchetto Annuale della città. La sua fotografia era comparsa sulla copertina del nostro almanacco. Gli era stato chiesto di scrivere l'introduzione per il catalogo della Mostra di Roggenkamp. E non finiva lì. C'era di peggio. Per esempio l'infelice caso del signor Liebrich. Ah, ma mi scusi, mi sembra di avere visto il signor Kollmann laggiù -. Pedersen allungò di nuovo il collo, guardando verso il fondo del cinema. - Sì, è proprio il signor Kollmann, e con lui, se non sbaglio, è così difficile capire con questa luce, c'è il signor Schaefer. Questa mattina, al ricevimento di benvenuto, c'erano tutti e due, e so che sarebbero felicissimi di conoscerla. E poi, sono sicuro che hanno molto da dire sull'argomento della nostra conversazione. Le spiace se facciamo un salto da loro?
- Ne sarei onorato. Ma mi stava dicendo...
- Ah, sì, è vero. L'infelice caso del signor Liebrich. Vede, per molti anni, prima che arrivasse il signor Christoff, Liebrich era stato uno dei nostri maestri di violino più rispettati. Insegnava ai figli delle famiglie più in vista. Era ammiratissimo. Ebbene, poco dopo il primo concerto, qualcuno ha chiesto a Christoff un'opinione su Liebrich, e lui ha fatto sapere che non gli piacevano né il suo modo di suonare, né i suoi metodi di insegnamento. E quando Liebrich è morto qualche anno fa, aveva ormai perso tutto. Gli allievi, gli amici, la posizione sociale. Questo è solo il primo caso che mi viene in mente. Capisce l'enormità di dover riconoscere che sin dall'inizio ci eravamo sbagliati sul conto del signor Christoff? Sì, siamo stati deboli, lo riconosco. E poi, allora non immaginavamo che le cose potessero deteriorarsi fino a questo punto. La gente, nell'insieme, sembrava ancora felice. Gli anni scivolavano via, e se qualcuno di noi aveva dei dubbi li teneva per sé. Ma non voglio difendere la nostra negligenza, signor Ryder, nemmeno per un secondo. E io, dato che già allora facevo parte del consiglio comunale, so di essere colpevole quanto gli altri. Alla fine, e provo una gran vergogna ad ammetterlo, alla fine è stata la gente di questa città, la gente comune, che ci ha messo di fronte alle nostre responsabilità. Sì, la gente comune, pur conducendo ormai una vita sempre più miseranda, era un bel po' più avanti di noi. Ricordo il preciso istante in cui me ne sono reso conto. $è successo tre anni fa, mentre tornavo a casa dopo l'ultimo concerto di Christoff; ricordo che aveva suonato il vGrottesco per violoncello e tre flautiv di Kazan. Faceva molto freddo, e stavo attraversando di buon passo il Parco Liebmann, avvolto nell'oscurità, quando poco più avanti ho visto il signor Kohler, il farmacista. Sapevo che anche lui era stato al concerto, così l'ho raggiunto e abbiamo cominciato a chiacchierare. In principio sono stato attento a tenere per me i miei pensieri, ma alla fine gli ho domandato se il concerto di Christoff gli fosse piaciuto. Sì, ha risposto il signor Kohler. Ma il modo in cui l'ha detto non deve avermi convinto, perché ricordo che dopo qualche istante gli ho ripetuto la domanda. Questa volta Kohler ha detto sì, che gli era piaciuto, ma che forse l'esecuzione di Christoff era stata un po' schematica. Sì, ha proprio usato la parola «schematica». Come può immaginare, signor Ryder, ho riflettuto attentamente prima di parlare di nuovo. Ma alla fine ho deciso di abbandonare ogni cautela e ho detto: «Signor Kohler, sono sostanzialmente d'accordo con lei. L'esecuzione è stata un po' asciutta». Al che il signor Kohler ha osservato che il primo aggettivo che gli era venuto in mente era «fredda». Davanti all'ingresso del parco ci siamo augurati la buona notte e ci siamo separati. Ma ricordo che quella notte non ho quasi dormito, signor Ryder. Ormai era la gente comune, erano i cittadini per bene come il signor Kohler che manifestavano simili opinioni. Evidentemente la finzione non poteva più reggere. Era ora che tutti noi che ci trovavamo in una posizione di prestigio ammettessimo il nostro errore, anche se le conseguenze sarebbero state terribili. Ah, ma mi scusi, quello seduto accanto al signor Kollmann è proprio il signor Schaefer. Sono sicuro che hanno tutti e due un'opinione interessante su quanto è accaduto. Essendo di una generazione successiva alla mia, vedranno le cose in una prospettiva leggermente diversa. E poi, so quanto tenessero questa mattina a conoscerla. Andiamo da loro, se non le spiace.
Pedersen si alzò in piedi, e io seguii con lo sguardo la sua figura china che strisciava lungo la fila mormorando scuse. Giunto in fondo, si raddrizzò e mi fece cenno. Per quanto seccato, capii che non mi restava che raggiungerlo. Mi alzai e cominciai a dirigermi anch'io verso il corridoio. Mi accorsi così che nel cinema regnava un'atmosfera quasi festosa. La gente si scambiava battute e brevi osservazioni mentre guardava il film. Nessuno sembrava minimamente disturbato dal mio passaggio. Anzi, mi parve che gli spettatori rannicchiassero le gambe di lato o saltassero in piedi con grande zelo. Qualcuno si rovesciò addirittura all'indietro sul sedile, restando lì a squittire allegramente con i piedi per aria.
Non appena fui nel corridoio, Pedersen si avviò su per la rampa di moquette. Poi, giunto nei pressi delle ultime file, si fermò e, facendosi da parte, mi disse:
- Dopo di lei, signor Ryder.
9.
E di nuovo mi intrufolai fra le gambe della gente, questa volta seguito da Pedersen, che bisbigliava scuse per tutti e due. In breve arrivammo dove un gruppetto di uomini formava una specie di capannello. Impiegai un momento a capire che stavano giocando a carte; quelli della fila dietro erano chini in avanti, quelli della fila davanti si sporgevano all'indietro. Vedendoci arrivare, tutti alzarono gli occhi, e quando Pedersen mi presentò, si sollevarono a metà dalle loro poltrone. Si risedettero solo quando mi fui comodamente sistemato in mezzo a loro ed ebbi cominciato a stringere le numerose mani che spuntavano dall'oscurità.
Il tizio più vicino indossava una giacca, ma aveva il colletto della camicia sbottonato e la cravatta allentata. Sapeva di whisky, e notai che stentava a mettermi a fuoco. Il suo compagno, che faceva capolino dietro la sua spalla, era magro, con una faccia curiosamente piena di lentiggini; sembrava più sobrio, ma anche lui aveva allentato il nodo della cravatta. Non ebbi il tempo di osservare il resto della combriccola, perché l'ubriaco mi strinse la mano una seconda volta e disse:
- Spero che il film le piaccia, signor Ryder.
- Molto. $è uno dei miei preferiti.
- Ah. Be', allora è una bella fortuna che lo diano questa sera. Sì, piace anche a me. Un classico. A proposito, vuole prendere il mio posto? - E così dicendo, l'ubriaco mi mise le sue carte davanti al naso.
- No grazie. Anzi, vi prego di non interrompere la partita per colpa mia.
- Stavo raccontando al signor Ryder, - s'intromise Pedersen alle mie spalle, - che qui, una volta, si viveva molto meglio di oggi. Sono sicuro che persino voi che siete più giovani di me potete confermarglielo...
- Oh, sì, i bei tempi, - disse l'ubriaco con aria sognante. - Oh, sì, si stava bene nella nostra città, ai bei tempi.
- Theo sta pensando a Rosa Klenner, - disse l'uomo con le lentiggini dietro di lui, suscitando una risata generale.
- Stupidaggini, - protestò l'ubriaco. - E piantala di mettermi in imbarazzo davanti al nostro illustre ospite.
- Invece sì, invece sì, - continuò l'amico. - A quei tempi Theo era innamorato pazzo di Rosa Klenner. Vale a dire dell'attuale signora Christoff.
- Non sono mai stato innamorato di lei. E poi, ero già sposato.
- Questo non fa che rendere la storia ancora più lacrimosa, Theo. Oh, sì, ancora più lacrimosa.
- Tutte stupidaggini.
- Theo, - disse un'altra voce dalla fila posteriore, - ricordo che ci facevi una testa così quando ci parlavi di Rosa Klenner.
- Allora non sapevo ancora com'era fatta.
- Ti piaceva proprio perché era fatta così, - continuò la voce. - Sei sempre corso dietro alle donne che non ti degnavano di uno sguardo.
- C'è qualcosa di vero, in questo, - disse l'uomo con le lentiggini.
- Non c'è proprio niente di vero...
- No, lascia che spieghi al signor Ryder -. L'uomo con le lentiggini mise una mano sulla spalla dell'amico ubriaco e si sporse verso di me. - L'attuale signora Christoff, che spesso noi chiamiamo ancora Rosa Klenner, è una ragazza di qui, una di noi, cresciuta in mezzo a noi. Ancora oggi è una donna molto bella, e allora, be', ci aveva stregati tutti. Era bellissima ma terribilmente scostante. Lavorava alla Galleria Schlegal, che adesso non c'è più. Se ne stava lì, dietro una scrivania; a fare la sorvegliante, in pratica. La potevi trovare il martedì e il giovedì...
- Martedì e £venerdì, - lo interruppe l'ubriaco.
- Mi scusi. Martedì e venerdì. Figuriamoci se Theo non se ne ricorda! Lui la frequentava la galleria, che poi era solo una saletta con le pareti imbiancate. Ci andava in continuazione e fingeva di guardare i quadri.
- Stupidaggini...
- Non eri l'unico, vero, Theo? Avevi un mucchio di rivali. Jürgen Haase. Erich Brull. Persino Heinz Wodak. Tutti visitatori regolari.
- E Otto Röscher, - disse Theo con nostalgia. - Era sempre lì.
- Anche lui? Eh, Rosa aveva un macchio di ammiratori.
- Non le ho mai rivolto la parola, - disse Theo. - Tranne una volta, quando le ho chiesto un catalogo.
- Già quando eravamo poco più che ragazzini, - continuò l'uomo con le lentiggini, - avevamo capito che Rosa giudicava tutti i maschi locali indegni di lei. Si era fatta la fama di respingere i pretendenti nelle maniere più crudeli. Per questo i poveretti come il nostro Theo, molto saggiamente, non le rivolgevano mai la parola. Ma ogni volta che un personaggio famoso, che so, un pittore, un musicista, uno scrittore o qualcuno del genere, visitava la città, Rosa gli dava la caccia senza il minimo pudore. Visto che faceva sempre parte di questo o di quel comitato, aveva la possibilità di avvicinare quasi tutte le celebrità di passaggio. Riusciva a infilarsi nei ricevimenti, e dopo mezz'ora aveva già stretto l'ospite in un angolo, e gli parlava e parlava fissandolo negli occhi. Naturalmente correvano molte voci, sul suo comportamento sessuale, intendo, ma nessuno è mai riuscito a provare niente. Stava molto attenta, la nostra Rosa. Ma da come si buttava sugli ospiti illustri, non potevi dubitare che qualcuno se lo portasse a letto. Sicuramente, bella com'era, ne conquistava molti. Noi, invece, non ci guardava nemmeno.
- Hans Jongboed ha sempre giurato di avere avuto una relazione con lei, - s'intromise l'uomo chiamato Theo. Questa uscita provocò grandi risate, e parecchie voci, intorno a noi, ripeterono in tono beffardo: - Hans Jongboed! - Pedersen, invece, fremeva imbarazzato.
- Vi prego, - esordì. - Il signor Ryder e io stavamo discutendo...
- Io non le ho mai rivolto la parola. Tranne quella volta. Per chiederle un catalogo.
- Su, Theo, non pensarci più -. L'uomo con le lentiggini diede una pacca all'amico, che per il colpo insaccò leggermente le spalle. - Non pensarci più. Guarda ora in che guaio si trova.
Theo sembrava perso nei suoi pensieri. - Rosa era così in tutto, - disse. - Non solo per quel che riguarda l'amore. Aveva tempo solo per gli artisti, anzi, solo per la crema del mondo dell'arte. Non c'era altro modo di ottenere il suo rispetto. Era antipatica a tutti. Già molto tempo prima di sposare Christoff era antipatica a tutti.
- Se non fosse stata così bella, - disse l'uomo con le lentiggini rivolgendosi a me, - l'intera città l'avrebbe odiata. Invece, c'era sempre qualcuno come Theo pronto a lasciarsi stregare da lei. In ogni caso, un giorno è arrivato Christoff. Un violoncellista di professione, per giunta con un curriculum di tutto rispetto! Rosa si è fatta sotto senza alcun ritegno. Sembrava che non le importasse affatto quello che avremmo potuto pensare di lei. Sapeva ciò che voleva e gli ha dato la caccia in maniera implacabile. Spaventoso, ma in un certo senso ammirevole. Christoff si è lasciato ammaliare e l'ha sposata dopo meno di un anno. Era l'uomo che Rosa aspettava da tanto tempo. Be', mi auguro che abbia avuto il suo tornaconto. Sedici anni di matrimonio. Non deve essere stato male. Ma adesso? Christoff è un uomo finito. E Rosa che cosa farà?
- Oggi non troverebbe lavoro neppure in una galleria, - disse Theo. - Per troppo tempo ci ha offesi. Per troppo tempo ci ha feriti nel nostro orgoglio. Qui ha chiuso, né più né meno di Christoff.
- C'è chi sostiene, - disse l'uomo con le lentiggini, - che Rosa lascerà la città con Christoff e non lo pianterà fino a quando non saranno ben sistemati altrove. Ma il nostro signor Dremmler, - e così dicendo indicò una persona seduta nella fila davanti a noi, - è convinto che Rosa resterà qui.
Sentendo fare il suo nome, l'uomo si girò. Evidentemente aveva seguito la discussione, perché subito disse con una certa autorità: - Non dovete dimenticare che Rosa Klenner ha un carattere estremamente pauroso. Io andavo a scuola con lei, facevamo lo stesso anno. Le ha sempre avute, queste paure; sono la sua dannazione. Anche se la nostra città non è degna di lei, Rosa è troppo timorosa per andarsene. Non vi siete mai accorti che, con tutte le sue ambizioni, non ha mai tentato di lasciarci? Molta gente non lo nota, questo lato del suo carattere, ma è innegabile. Per questo sono pronto a scommettere che resterà. Resterà e ritenterà la sorte qui. Spererà di accalappiare qualche altra celebrità di passaggio. In fondo, per l'età che ha, è ancora una donna molto bella.
Una voce stridula disse: - Magari proverà con Brodsky.
L'uscita provocò la risata più fragorosa che ci fosse stata fino a quel momento.
- $è possibilissimo, - continuò la voce in tono fintamente offeso. - D'accordo, Brodsky è vecchio, ma neppure Rosa è di primo pelo. E poi, qui da noi c'è forse qualcun altro degno di lei? - Ci fu una nuova esplosione di risate, che incitò la voce a continuare. - Brodsky è la soluzione migliore che le resta. Io per primo gliela consiglierei. In qualsiasi altro caso, Rosa si porterebbe dietro tutto il rancore che la città prova in questo momento nei confronti di Christoff. Ma se dovesse diventare l'amante di Brodsky, o addirittura sua £moglie, be', quale modo migliore per cancellare il suo passato con Christoff? Tra l'altro, potrebbe continuare nella sua... nella sua attuale £posizione.
Ormai intorno a noi ridevano tutti. Persino le persone sedute tre file più avanti si giravano e davano libero sfogo alla loro ilarità. Accanto a me, Pedersen si schiarì la gola.
- Signori, vi prego, - disse. - Mi deludete. Che cosa penserà il signor Ryder? Continuate a parlare del signor Brodsky... il £signor Brodsky, mi raccomando... continuate a parlare di lui come ai vecchi tempi. E vi date la zappa sui piedi. Il signor Brodsky non è più una macchietta. Qualunque cosa si pensi dei suggerimenti del signor Schmidt per il futuro della signora Christoff, il signor Brodsky £non è, in nessun caso, un argomento faceto...
- La ringraziamo di essere venuto, signor Ryder, - lo interruppe Theo. - Ma è troppo tardi. Le cose sono allo sfascio, ormai è troppo tardi...
- Stupidaggini, Theo, - disse Pedersen. - Siamo a una svolta, a una svolta importante. Il signor Ryder è venuto qui a dirci questo. Non è vero, signor Ryder?
- Sì..
- $è troppo tardi. Abbiamo perso. Perché non ci rassegniamo a essere semplicemente una delle tante città fredde e desolate? Altri l'hanno fatto. Almeno seguiremmo la corrente. L'anima di questa città non è malata, signor Ryder, è morta. $è troppo tardi ormai. Dieci anni fa, forse. Allora c'era ancora una possibilità. Ma ora non più. Lei, signor Pedersen, - e l'ubriaco puntò fiaccamente il dito contro il mio accompagnatore, - lei, con il signor Thomas e il signor Stika. Siete voi, miei cari signori, che avete £tergiversato...
- Non ricominciamo, Theo, - lo interruppe l'uomo con le lentiggini. - Il signor Pedersen ha ragione. Non è ancora giunto il momento di rassegnarci. Abbiamo trovato Brodsky... il £signor Brodsky... e per quel che ne sappiamo potrebbe essere...
- Brodsky, Brodsky. $è troppo tardi. Ormai siamo finiti. Rassegniamoci a essere una città qualsiasi, fredda e moderna, e smettiamola di illuderci.
Sentii la mano di Pedersen sul mio braccio. - Signor Ryder, sono molto spiaciuto...
- Voi avete £tergiversato, signor Pedersen! Diciassette anni. Per diciassette anni avete lasciato che Christoff facesse i suoi porci comodi indisturbato. E che cosa ci venite a offrire adesso? Brodsky! $è troppo tardi, signor Ryder.
- Sono davvero spiaciuto, - mi disse Pedersen, - che debba ascoltare certi discorsi.
Qualcuno dietro di noi aggiunse: - Theo, sei solo ubriaco e depresso. Domani mattina ti conviene cercare il signor Ryder per chiedergli scusa.
- Be', - dissi, - a me interessa sentire tutte le campane...
- Ma questa non ha alcun valore! - protestò Pedersen. - Le assicuro, signor Ryder, che i sentimenti di Theo non sono minimamente condivisi dagli abitanti di questa città. Nelle strade, sui tram, da per tutto, si nota uno straordinario ottimismo.
Questa affermazione provocò un mormorio di assenso.
- Non gli creda, signor Ryder, - disse Theo, afferrandomi per la manica. - Lei è qui per una missione priva di senso. Facciamo un rapido sondaggio qui in questo cinema. Proviamo a chiedere a qualcuno degli spettatori...
- Signor Ryder, - disse Pedersen in fretta, - io torno a casa e mi ritiro per la notte. Il film è molto bello, ma l'ho già visto parecchie volte. Immagino che anche lei cominci a essere stanco, vero?
- Sì, sono stanchissimo. Posso venire via con lei? - Poi, rivolto agli altri, aggiunsi: - Scusatemi, signori, ma credo che me ne tornerò in albergo.
- Signor Ryder, - disse in tono premuroso l'uomo con le lentiggini, - non se ne vada proprio adesso. La prego, resti almeno fino a quando l'astronauta demolisce H$a$l.
- Signor Ryder, - disse una voce qualche poltrona più in là, - non vuole prendere il mio posto? Per questa sera ne ho abbastanza di giocare. Si fa così fatica a vedere le carte con questa luce. E la mia vista non è più quella di una volta.
- La ringrazio, ma devo proprio andare.
Stavo per dare la buona notte a tutti, quando vidi che Pedersen era già in piedi e camminava di sghembo per uscire dalla fila. Lo seguii, e mentre mi allontanavo feci un cenno di saluto con la mano alla compagnia.
Pedersen era chiaramente sconvolto da ciò che era successo, perché anche nel corridoio continuò a camminare in silenzio, a testa china. Prima di uscire dalla sala, gettai un'ultima occhiata allo schermo e vidi Clint Eastwood che esaminava attentamente il suo gigantesco cacciavite, pronto a demolire H$a$l.
Fuori la notte - con la sua quiete mortale, il freddo, la nebbia sempre più fitta - ci offrì un tale contrasto con il tiepido brusio del cinema che ci fermammo tutti e due sul marciapiede come per ritrovare l'orientamento.
- Signor Ryder, non so che cosa dirle, - esordì Pedersen. - Theo è un'ottima persona, ma qualche volta, dopo una cena abbondante... - Il mio accompagnatore scosse la testa avvilito.
- Non si preoccupi. Chi lavora tutto il giorno ha bisogno di scaricare i nervi. $è stata una serata molto piacevole.
- Che vergogna...
- La prego. Non pensiamoci più. Le assicuro che mi sono divertito.
Ci avviammo, e i nostri passi riecheggiarono nella strada deserta. Per un po' Pedersen mantenne un silenzio pensieroso. Poi disse:
- Deve credermi, signor Ryder. Non abbiamo mai sottovalutato la difficoltà di far accettare un'idea del genere alla nostra comunità. Mi riferisco al signor Brodsky. Le posso assicurare che ci siamo mossi con notevole cautela.
- Sì, ne sono certo.
- In principio abbiamo fatto molta attenzione a non dire nulla se non alle persone giuste. Era fondamentale che nelle fasi iniziali venisse a sapere del progetto solo chi, in linea di massima, poteva essere d'accordo. Poi, tramite queste persone, abbiamo lasciato che la cosa trapelasse lentamente e giungesse alle orecchie di tutti. In questo modo abbiamo ottenuto che il progetto venisse presentato nella luce migliore. Contemporaneamente, abbiamo preso altri provvedimenti. Per esempio, abbiamo organizzato una serie di cene in onore del signor Brodsky, scegliendo con cura gli invitati nell'alta società. Dapprima si è trattato di cene ristrette e quasi segrete, ma gradualmente siamo riusciti ad allargare la nostra rete, aumentando il sostegno per la nostra iniziativa. Abbiamo anche fatto in modo che a tutti gli eventi pubblici di una certa importanza il signor Brodsky fosse visto in compagnia dei pezzi grossi. Quando è venuto il Balletto di Pechino, per esempio, lo abbiamo messo nello stesso palco dei signori Weissel. Poi naturalmente tutti, anche in privato, ci siamo impegnati a parlare di lui solo nei termini più riguardosi. Ormai sono due anni che lavoriamo con impegno a questo progetto, e nell'insieme siamo molto soddisfatti. L'immagine di Brodsky è andata nettamente cambiando. Tanto che abbiamo giudicato fosse giunto il momento di compiere il gran passo. Per questo quel che è successo poco fa è così demoralizzante. Quei signori là dentro dovrebbero essere i primi a dare l'esempio. Se £loro ricascano in questo atteggiamento ogni volta che allentano un po' i freni, come possiamo sperare che la gente comune... - Pedersen scosse di nuovo la testa mentre le parole gli morivano sulle labbra. - Sono molto deluso. Per me e per lei, signor Ryder.
Pedersen tacque, e dopo una lunga pausa dissi con un sospiro:
- Non è facile cambiare l'opinione pubblica.
Pedersen fece ancora qualche passo in silenzio, poi disse: - Deve tenere presente il punto di partenza. Se esamina le cose sotto questo aspetto, cioè considerando il punto di partenza, allora converrà anche lei che £abbiamo fatto notevoli progressi. Cerchi di capire. Il signor Brodsky viveva qui da noi da molto tempo, ma in tutti quegli anni nessuno l'aveva mai sentito parlare di musica, figuriamoci suonare. Sì, tutti, vagamente, sapevamo che nel suo paese d'origine aveva fatto il direttore d'orchestra. Ma non vedendo mai nulla di questo lato della sua personalità, non pensavamo a lui come a un musicista. Anzi, se devo essere sincero, fino a poco tempo fa il signor Brodsky si faceva notare solo quando si ubriacava e andava in giro per la città barcollando e sbraitando. Per il resto del tempo viveva come un eremita in compagnia del suo cane dalle parti dell'uscita nord della città. Be', questo non è del tutto vero; lo vedevamo regolarmente anche in biblioteca. Due o tre mattine la settimana arrivava lì, si sedeva al suo solito posto sotto le finestre e legava il cane a una gamba del tavolo. $è contro il regolamento, portare dentro il cane, ma già da parecchio tempo i bibliotecari avevano deciso ch'era più semplice lasciar correre. Molto più semplice che cominciare a litigare con il signor Brodsky. Così capitava di vederlo lì, con il cane ai suoi piedi, intento a sfogliare la sua pila di libri, sempre gli stessi rigonfi volumi di storia. E se qualcuno in sala s'azzardava a bisbigliare due parole, o anche solo a salutare un conoscente, il signor Brodsky si drizzava in piedi e inveiva contro il colpevole. In teoria, naturalmente, aveva ragione. Ma nella nostra biblioteca non siamo mai stati molto rigidi sul silenzio. In fondo, alla gente piace fare quattro chiacchiere quando si incontra, come in ogni altro luogo pubblico. E dal momento che il signor Brodsky infrangeva lui stesso le regole portandosi dentro il cane, non stupisce che il suo comportamento fosse considerato balzano. Poi però, in certe rare mattine, capitava che fosse di umore diverso. All'improvviso, mentre leggeva al suo tavolo, gli veniva un'aria sconsolata. Lo vedevi lì, con lo sguardo perso nel vuoto, qualche volta con gli occhi gonfi di lacrime. In questi casi, la gente sapeva di poter parlare. In genere qualcuno saggiava il terreno. E se il signor Brodsky non reagiva, allora in un baleno l'intera sala si metteva a chiacchierare. La gente è così malvagia! A volte, in queste occasioni, la biblioteca diventava molto più rumorosa di quando il signor Brodsky non c'era. Ricordo che un giorno sono andato a restituire un libro, e mi è sembrato di entrare in una stazione ferroviaria. Ho dovuto quasi urlare per farmi sentire al banco. E il signor Brodsky era lì, immobile in mezzo a quella baraonda, in un mondo tutto suo. Devo dire che metteva tristezza guardarlo. La luce del mattino gli dava un aspetto molto fragile. Aveva la goccia al naso, gli occhi assenti, la mente a mille miglia dalla pagina che stringeva in mano. E mi è parso che ci fosse un po' di crudeltà nell'animazione della sala. Come se la gente stesse approfittando di lui, anche se non saprei spiegarle in che modo. Ma vede, in un'altra mattina, il signor Brodsky sarebbe stato capacissimo di zittirli tutti in un amen. Insomma, signor Ryder, quello che sto cercando di dirle è che per molti anni il signor Brodsky che abbiamo avuto sotto i nostri occhi era questo. Immagino che sia impossibile sperare che la gente cambi £completamente opinione su di lui in un tempo in fin dei conti piuttosto breve. Abbiamo fatto notevoli progressi, ma come ha potuto vedere lei stesso poco fa... - Di nuovo l'esasperazione parve sopraffarlo. - Ma £loro dovrebbero dimostrare un po' di buon senso, - borbottò Pedersen tra sé e sé.
Ci fermammo a un incrocio. La nebbia era diventata molto più fitta, e mi accorsi di avere perso l'orientamento. Pedersen si guardò intorno, poi riprese a camminare, conducendomi in una viuzza con file di macchine posteggiate sui marciapiedi.
- L'accompagno in albergo, signor Ryder. Per andare a casa mia una strada vale l'altra. Si trova bene, spero?
- Oh, sì. Benissimo.
- Il signor Hoffman gestisce un buon albergo. $è un ottimo direttore, e nell'insieme anche un'ottima persona. Come saprà, è a lui che dobbiamo dire grazie per il... ehm... recupero del signor Brodsky.
- Ah, sì, certamente.
Per un breve tratto le macchine sul marciapiede ci costrinsero a camminare in fila indiana. Poi ci spostammo in mezzo alla strada, e quando mi riaffiancai a Pedersen vidi che il suo umore era meno cupo. Mi sorrise e disse:
- So che domani andrà a casa della Contessa per ascoltare i dischi. Pare che il nostro sindaco, il signor von Winterstein, voglia raggiungerla lì. Non vede l'ora di prenderla in disparte e di discutere della situazione con lei. Ma la cosa principale, naturalmente, sono quei dischi. Straordinari!
- Sì. Non vedo l'ora.
- La Contessa è una donna eccezionale. Più di una volta ha dimostrato capacità intellettuali così straordinarie da farci vergognare di noi stessi. Le chiedo spesso come le sia venuta l'idea. «Un presentimento, - dice sempre. - Mi sono svegliata una mattina con questo presentimento». Che donna! Poteva essere tutt'altro che facile procurarsi quei dischi. Ma lei ci è riuscita tramite un negoziante specializzato di Berlino. Naturalmente allora nessuno di noi ne sapeva niente, e suppongo che se avessimo avuto sentore del suo progetto ci saremmo messi a ridere. Poi un pomeriggio la Contessa ci ha convocati a casa sua. Sono passati due anni, due anni, due anni il mese scorso, da quel bellissimo pomeriggio di sole. Ci siamo riuniti nel suo salotto, tutti e undici, senza la minima idea di quello che ci aspettava. La Contessa ci ha servito un rinfresco, poi è passata subito al dunque. Da troppo tempo ci affliggevamo, ha detto. Era giunto il momento di passare all'azione. Di ammettere che ci eravamo sbagliati e di prendere qualche provvedimento concreto per cercare di rimediare al danno. Altrimenti i nostri nipoti, e i figli dei nostri nipoti, non ci avrebbero mai perdonati. Be', non diceva nulla di nuovo, erano mesi ormai che andavamo ripetendoci le stesse cose, sicché ci siamo limitati ad annuire, con i soliti mormorii d'assenso. Ma la Contessa non si è fermata lì. Per quanto riguardava il signor Christoff, ha detto, c'era poco altro da aggiungere. Ormai quell'uomo si era completamente screditato, aveva perso la stima dell'intera cittadinanza. Ma di per sé questo non era sufficiente per arrestare la spirale di infelicità che si avvolgeva sempre più stretta intorno al cuore della nostra comunità. Dovevamo trovare il modo di creare un nuovo spirito, una nuova era. Annuimmo di nuovo, ma come le ripeto, signor Ryder, queste cose ce le eravamo già dette un'infinità di volte. Credo che il signor von Winterstein l'abbia addirittura fatto presente alla Contessa, seppure con la massima cortesia. Ed è stato allora che la Contessa ha cominciato a rivelarci il suo progetto. Forse, ha dichiarato, la soluzione era in mezzo a noi da molto tempo. Poi si è spiegata meglio, e naturalmente sulle prime, be', non riuscivamo a credere alle nostre orecchie. Il signor Brodsky? Quello della biblioteca, quello che girava ubriaco per la città? Stava parlando sul serio del signor £Brodsky? Se si fosse trattato di qualcun altro e non della Contessa, sono sicuro che saremmo scoppiati a ridere. Ma ricordo che lei era molto sicura di sé. Ci ha detto di sederci, perché voleva farci ascoltare qualcosa. E voleva che lo ascoltassimo con molta attenzione. Poi ha messo su quei dischi, l'uno dopo l'altro. E noi abbiamo ascoltato, mentre fuori il sole tramontava. Le registrazioni erano di cattiva qualità. L'impianto stereo della Contessa, come avrà modo di vedere domani, è un po' antiquato. Ma che cosa importa? In pochi minuti la musica ci ha stregati. Cullati dal suo suono ci siamo sentiti invadere da una quiete profonda. Alcuni di noi avevano le lacrime agli occhi. Ci siamo accorti che stavamo ascoltando qualcosa di cui ci eravamo dolorosamente privati per anni. Improvvisamente ci è parso ancora più incomprensibile che avessimo potuto esaltare una persona come il signor Christoff. Ecco di nuovo un po' di vera musica. L'opera di un direttore che, oltre a essere immensamente dotato, vcondivideva i nostri stessi valori.v Quando la musica è finita, ci siamo alzati per sgranchirci le gambe, visto che eravamo rimasti ad ascoltare per più di tre ore, e di colpo l'idea di rivolgerci al signor Brodsky, al signor Brodsky! ci è sembrata più assurda che mai. Le registrazioni erano molto vecchie, abbiamo fatto notare. E il signor Brodsky, per ragioni sue, aveva abbandonato la musica da tantissimo tempo. E poi, be', aveva i suoi problemi. Era difficile considerarlo ancora la stessa persona. E presto abbiamo cominciato tutti a scuotere la testa. Poi però la Contessa ha ripreso a parlare. Eravamo sull'orlo del baratro, ha detto. Dovevamo abbandonare i pregiudizi. Cercare il signor Brodsky, parlare con lui, accertarci delle sue attuali capacità. Nessuno di noi, sicuramente, aveva bisogno che gli venisse ricordata la gravità della situazione. Tutti eravamo in grado di elencare dozzine di tristi casi. Di vite distrutte dalla solitudine. Di famiglie che disperavano di poter ritrovare una felicità che un tempo avevano dato per scontata. $è stato a questo punto che il signor Hoffman, il direttore del suo albergo, si è schiarito la gola e ha dichiarato che si sarebbe occupato lui del signor Brodsky. Ha pronunciato queste parole con grande solennità, alzandosi addirittura in piedi. Ha detto che si sarebbe incaricato di esaminare la situazione, e se ci fosse stata una qualche speranza di recuperare il signor Brodsky, ebbene, avrebbe pensato lui a tutto. Ha giurato che, se gli avessimo affidato il compito, non avrebbe deluso la nostra comunità. Questo, come le dico, è successo poco più di due anni fa. E da allora abbiamo osservato stupefatti l'impegno con cui il signor Hoffman ha mantenuto la sua promessa. I progressi, anche se non sempre regolari, sono stati nel complesso notevoli. E oggi il signor Brodsky ha... be', è stato riportato nelle condizioni in cui è adesso. Tanto che ci siamo persuasi che non fosse più opportuno rimandare il gran passo. In fondo, £presentando il signor Brodsky sotto una luce migliore non possiamo ottenere più di tanto. A un certo punto la gente di questa città deve giudicare con i suoi occhi e le sue orecchie. Be', finora tutto fa pensare che non abbiamo peccato di eccessiva presunzione. Il signor Brodsky va regolarmente alle prove, e a detta di tutti si è pienamente conquistato il rispetto dell'orchestra. Forse sono passati molti anni dall'ultima volta che si è esibito in pubblico, ma non ha perso il suo smalto. La passione, la visione raffinata che abbiamo scoperto quel pomeriggio nel salotto della Contessa, sono rimaste assopite dentro di lui, e ora si stanno a poco a poco risvegliando. Sì, siamo sicuri che giovedì sera il signor Brodsky ci renderà orgogliosi di lui. Noi, da parte nostra, abbiamo fatto tutto il possibile per garantire il successo della serata. L'orchestra della Fondazione Nagel di Stoccarda, come lei sa, pur non essendo di primissimo piano, è molto considerata. Si fa pagare profumatamente. Ma quando l'abbiamo messa sotto contratto per questa importantissima occasione quasi nessuno ha avuto da ridire, neppure sulla durata del periodo. In principio avevamo pensato a due settimane di prove, ma alla fine, con il pieno appoggio della Commissione finanze, abbiamo portato il periodo a tre settimane. Tre settimane di vitto e alloggio per un'orchestra ospite, oltre al cachet, capisce anche lei, signor Ryder, che non è cosa da poco. Ormai ogni consigliere si è convinto dell'importanza di giovedì sera. Tutti concordano che bisogna dare al signor Brodsky ogni opportunità. E con tutto ciò, - improvvisamente Pedersen emise un sospiro, - con tutto ciò, come lei stesso ha visto poco fa, i vecchi pregiudizi sono duri a morire. Proprio per questo, signor Ryder, il suo aiuto, il fatto che abbia accettato di venire nella nostra umile città, potrebbe rivelarsi determinante. La gente la ascolterà come non ascolterebbe mai uno di noi. Anzi, le posso assicurare che l'umore della città è cambiato alla semplice notizia del suo arrivo. C'è grande trepidazione per quello che ci dirà giovedì sera. Nei tram, nei bar, la gente non parla quasi d'altro. Naturalmente non so con esattezza che cosa ci abbia preparato. Forse starà attento a non dipingere un quadro troppo roseo. Forse ci avvertirà che ognuno di noi ha davanti a sé un duro lavoro, se vogliamo ritrovare la felicità perduta. Farà benissimo a metterci sull'avviso. Ma so anche che saprà fare appello con grande abilità allo spirito di collaborazione e al senso civico dei suoi ascoltatori. In ogni caso, una cosa è certa. Quando avrà finito di parlare, nessuno in questa città vedrà più nel signor Brodsky il vecchio ubriaco trasandato di un tempo. Perché quella faccia, signor Ryder? La prego di non preoccuparsi. Le sembreremo una città del terzo mondo, ma in certe occasioni sappiamo eccellere. Il signor Hoffman ha lavorato sodo per organizzare una serata davvero magnifica. Non tema, signor Ryder, tutti i cittadini che contano saranno presenti. E per quanto riguarda il signor Brodsky, come le dico, sono sicuro che non ci deluderà. Supererà le nostre migliori aspettative, ne sono certo.
In realtà, l'espressione che Pedersen aveva notato sul mio volto non era dettata dall'inquietudine, ma dalla crescente irritazione che provavo nei miei confronti. Il mio discorso alla città era tutt'altro che pronto; dovevo persino finire di raccogliere i dati. Non riuscivo a capire come, con tutta la mia esperienza, mi fossi lasciato prendere alla sprovvista. Ricordai che non più tardi di quel pomeriggio, mentre sorseggiavo una tazza di caffè forte e amaro nell'elegante patio dell'albergo, mi ero ripetuto quanto fosse importante organizzare con cura il resto della mia giornata in modo da sfruttare nel modo migliore il pochissimo tempo a disposizione. Osservando il nebuloso riflesso della fontana nello specchio dietro il banco, mi ero addirittura immaginato una situazione non dissimile da quella in cui mi ero trovato poco prima al cinema, una situazione in cui avrei fatto colpo su chi mi stava intorno con la mia disinvolta e autorevole opinione su una serie di temi locali, procurando di pronunciare almeno una battuta spontanea ai danni di Christoff, una frecciata memorabile che il giorno dopo avrebbe fatto il giro della città. Invece mi ero lasciato frastornare da altre questioni, con il risultato che per tutta la permanenza al cinema non ero riuscito a fare un solo commento degno di nota. Forse avevo addirittura dato l'impressione di essere una persona un po' maleducata. Improvvisamente sentii un'intensa irritazione nei confronti di Sophie per tutto lo scompiglio che aveva creato, per il modo in cui mi aveva costretto a trascurare completamente le mie abitudini.
Ci fermammo di nuovo, e mi accorsi che eravamo davanti all'albergo.
- Be', è stato un vero piacere, - disse Pedersen, tendendomi la mano. - Spero di rivederla nei prossimi giorni. Ma ora cerchi di riposarsi.
Lo ringraziai, gli augurai la buona notte ed entrai nell'atrio mentre i suoi passi si perdevano nella notte.
Il giovane portiere era ancora in servizio. - Spero che il film le sia piaciuto, signor Ryder, - disse, porgendomi la chiave.
- Moltissimo. Grazie per il consiglio. L'ho trovato proprio rilassante.
- Sì, parecchi clienti pensano sia un buon modo per chiudere la giornata. A proposito, Gustav dice che Boris si è trovato benissimo nella sua camera e si è addormentato subito.
- Ah, magnifico.
Gli augurai la buona notte e filai verso l'ascensore.
Quando arrivai in camera, mi sentii sporco dopo la lunga giornata; mi spogliai, misi la vestaglia e mi preparai a fare la doccia. Poi, mentre esaminavo il bagno, mi venne una tale stanchezza che a stento riuscii a tornare in camera e a lasciarmi cadere sul letto, dove sprofondai immediatamente nel sonno.
10.
Mi ero appena addormentato quando il telefono mi squillò nell'orecchio. Lo lasciai suonare per un pezzo, poi mi tirai su e risposi.
- Ah, signor Ryder. Sono io. Hoffman.
Aspettai che mi spiegasse perché mi aveva disturbato, ma il direttore dell'albergo non aggiunse altro. Solo dopo un silenzio imbarazzato ripeté:
- Sono io, signor Ryder. Hoffman -. Altra pausa, poi: - Sono giù nell'atrio.
- Oh, certo.
- Mi spiace, signor Ryder, forse l'ho interrotta mentre faceva qualcosa.
- Veramente stavo solo dormendo un po'.
Le mie parole dovevano averlo lasciato di sasso, perché vi fu un altro silenzio. Risi e mi affrettai ad aggiungere:
- Si fa per dire; ero sdraiato sul letto. Naturalmente non dormirò sul serio fino... fino a quando non avrò esaurito gli impegni della giornata.
- Certo, certo -. Hoffman sembrava sollevato. - Insomma, stava tirando il fiato. Più che comprensibile. Be', in ogni caso io sono qui nell'atrio che l'aspetto, signor Ryder.
Riattaccai e mi sedetti sul letto, chiedendomi che cosa dovessi fare. Mi sentivo più che mai spossato - non potevo avere dormito più di qualche minuto - e avevo la tentazione di mandare tutti a quel paese e di tornarmene semplicemente a dormire. Alla fine, però, capii che la cosa era impossibile, così mi alzai.
Mi accorsi di essermi addormentato in vestaglia; stavo per toglierla e rivestirmi, quando pensai che potevo scendere a parlare con Hoffman così com'ero. A quell'ora della notte, in fondo, era improbabile che incontrassi qualcun altro oltre a Hoffman e al portiere, e il fatto di scendere in vestaglia avrebbe sottolineato in maniera garbata ma inequivocabile che era tardi e che mi si impediva di dormire. Non poco contrariato, uscii in corridoio e mi diressi verso l'ascensore.
In principio, se non altro, la vestaglia parve ottenere l'effetto desiderato, perché le prime parole di Hoffman quando arrivai nell'atrio furono: - Mi spiace avere disturbato il suo riposo, signor Ryder. Questi viaggi devono essere terribilmente faticosi per lei.
Non feci il minimo sforzo per nascondere la mia stanchezza. Passandomi una mano nei capelli, dissi: - Non c'è bisogno di scusarsi, signor Hoffman. Ma mi auguro che si tratti di una cosa rapida. Comincio proprio a non poterne più.
- Oh, ci metteremo pochissimo, gliel'assicuro.
- Bene.
Notai che sotto l'impermeabile Hoffman indossava un abito da sera con fascia di seta e farfallino.
- Naturalmente avrà saputo della cattiva notizia, - disse.
- La cattiva notizia?
- Sì, è un brutto colpo, signor Ryder, ma lasci che le dica che continuo a essere fiducioso, molto fiducioso. Vedrà che non ci saranno conseguenze. Sono sicuro che se ne convincerà anche lei prima che finisca la serata.
- Certamente, - dissi, annuendo conciliante. Ma dopo un momento capii che la situazione era senza speranza e gli domandai a bruciapelo: - Mi scusi, signor Hoffman, ma di quale notizia sta parlando? Si sentono solo cattive notizie, di questi tempi.
Hoffman mi guardò allarmato. - Solo cattive notizie?
Scoppiai a ridere. - Mi riferisco ai combattimenti in Africa e a tutto il resto. Solo cattive notizie. Dappertutto -. Risi di nuovo.
- Oh, capisco. No, ovviamente io sto parlando del cane del signor Brodsky.
- Ah. Il cane del signor Brodsky.
- Ammetterà anche lei, signor Ryder, che è una bella sfortuna. Proprio adesso. Fai tutto con la massima cura, e poi ti succede una cosa del genere! - Hoffman sospirò esasperato.
- Sì, è terribile. Terribile.
- Ma le ripeto che sono fiducioso. Sì, sono sicuro che non ci saranno intoppi. Be', che ne dice se usciamo subito? Sa, aveva proprio ragione lei, signor Ryder. $è molto meglio se partiamo adesso. Così non arriveremo né troppo presto né troppo tardi. Sì, bisogna saper affrontare le cose con calma. Mai lasciarsi prendere dal panico. Bene, signor Ryder, andiamo.
- Ehm... signor Hoffman. Temo di avere fatto un piccolo errore di valutazione a proposito dell'abbigliamento. Mi concede qualche minuto per tornare di sopra a cambiarmi?
- Oh, - Hoffman mi guardò di sfuggita, - così va benissimo, signor Ryder. Non si preoccupi. E adesso, - il direttore diede un'occhiata ansiosa all'orologio, - penso sia meglio andare. Sì, è proprio l'ora giusta. Per piacere.
Fuori la notte era buia e cadeva una pioggia incessante. Seguii Hoffman, che girò intorno all'albergo, percorse un vialetto ed entrò in un piccolo posteggio all'aperto in cui c'erano cinque o sei macchine. Grazie a un fanale solitario legato a un palo della recinzione riuscivo a distinguere le grandi pozzanghere che ricoprivano il terreno.
Hoffman corse verso una grossa macchina nera e mi aprì la portiera. Mentre lo raggiungevo, sentii l'acqua passare attraverso le pantofole. Proprio salendo in macchina, misi un piede in una pozzanghera profonda e mi infradiciai completamente. Lanciai un'esclamazione, ma Hoffman stava già girando intorno alla macchina per mettersi al volante.
Mentre il direttore usciva dal posteggio, cercai di asciugarmi il piede sulla soffice moquette del tappetino. Quando finalmente alzai gli occhi, eravamo già nel corso, e fui sorpreso dall'intensità del traffico. Molti negozi e ristoranti si erano risvegliati, e si vedevano folle di clienti aggirarsi dietro le vetrine illuminate. Poco più avanti il traffico aumentò ancora, finché, non lontano dal centro della città, restammo bloccati in mezzo a tre file di macchine. Hoffman guardò l'orologio e, indispettito, batté la mano sul volante.
- Bella sfortuna, - commentai, cercando di dimostrarmi comprensivo. - E dire che fino a poco fa l'intera città sembrava addormentata.
Hoffman appariva molto agitato. Distrattamente, rispose: - Il traffico di questa città non fa che peggiorare. Non so proprio come faremo -. E di nuovo batté la mano sul volante.
Restammo per qualche minuto in silenzio, mentre la macchina avanzava a passo d'uomo. Poi Hoffman disse sottovoce:
- Il signor Ryder ha fatto un lungo viaggio.
Pensai di non avere capito bene, ma un attimo dopo il direttore ripeté la frase - questa volta accompagnandola con un soave cenno di mano; allora capii che stava provando ciò che avrebbe detto al nostro arrivo per giustificare il ritardo.
- Il signor Ryder ha fatto un lungo viaggio. Il signor Ryder... ha fatto un £lungo viaggio.
Mentre procedevamo nell'intenso traffico notturno, Hoffman continuò, a sprazzi, a borbottare, anche se per lo più non riuscii ad afferrare le sue parole. Era entrato in un mondo tutto suo, e aveva la faccia sempre più tesa. A un certo punto, dopo avere perso un semaforo verde, lo sentii mormorare: - No, no, signor Brodsky! Era una bestiola magnifica, magnifica!
Finalmente svoltammo a un incrocio e cominciammo a uscire dalla città. Presto le case sparirono, e ci trovammo su una lunga strada fiancheggiata, a destra e a sinistra, da spazi aperti e bui, forse campi coltivati. Il traffico diradò e la potente vettura poté accelerare. Hoffman si rilassò visibilmente, e quando mi rivolse di nuovo la parola aveva ritrovato gran parte della sua compitezza.
- Mi dica, signor Ryder. Ha qualche appunto da muovere all'albergo?
- Oh, no. Tutto è perfetto, grazie.
- La camera le piace?
- Oh, sì.
- E il letto. $è comodo?
- Comodissimo.
- Glielo chiedo perché i letti sono il nostro vanto. Rinnoviamo i materassi molto spesso. Nessun altro albergo in questa città cambia tanti materassi quanti ne cambiamo noi. Di questo sono arcisicuro. I materassi che noi buttiamo via sarebbero considerati buoni ancora per parecchi anni da molti dei nostri così detti concorrenti. Lo sa, signor Ryder, che, mettendo in fila tutti i materassi che noi buttiamo via in cinque esercizi consecutivi, si potrebbe partire dal municipio, seguire il corso fino alla fontana, svoltare in Sterngasse e arrivare alla farmacia del signor Winkler?
- Davvero? Impressionante.
- Signor Ryder, mi consenta di parlarle apertamente. Ho pensato molto alla sua camera. Com'è naturale, nei giorni precedenti il suo arrivo ho dedicato parecchio tempo a studiare quale assegnarle. La maggior parte degli alberghi è in grado di dare una risposta univoca alla domanda: «Qual è la nostra camera migliore?» Ma nel mio albergo non è così, signor Ryder. In tutti questi anni ho avuto modo di curare a fondo un gran numero di camere diverse. Ci sono momenti in cui divento... ah, ah!... qualcuno direbbe £ossessionato, sì, ossessionato da una camera in particolare. Quando intuisco il potenziale di una stanza, passo giorni e giorni a figurarmela, poi metto la massima cura nel farla ristrutturare in modo da avvicinarmi il più possibile al modello che ho in mente. Non sempre ci riesco, ma in parecchie occasioni i risultati, dopo molta fatica, si avvicinano a ciò che ho in mente, e naturalmente la cosa è molto gratificante. Ma non appena ho finito una ristrutturazione soddisfacente di una stanza, forse per una specie di difetto della mia indole, subito sono affascinato dal potenziale di un'altra. E prima che me ne accorga, sto già di nuovo dedicando un mucchio di tempo e di energie mentali al nuovo progetto. Sì, qualcuno la definirebbe un'ossessione, ma io non ci vedo nulla di male. Poche cose sono uggiose come un albergo con una sfilza di camere tutte arredate secondo gli stessi triti concetti. Per quanto mi riguarda, ogni camera deve essere pensata in modo da adeguarsi alle sue specifiche caratteristiche. Questo per dirle, signor Ryder, che nel mio albergo non ho una camera preferita. Così, dopo avere riflettuto a lungo, ho concluso che la camera in cui si sarebbe trovato meglio era quella attuale. Ma dopo averla conosciuta non ne sono più così sicuro.
- Oh, no, signor Hoffman, - lo interruppi. - La mia camera va benissimo.
- Ma da quando ci siamo conosciuti non faccio altro che pensarci, signor Ryder. E sono persuaso che per il suo carattere sia più adatta un'altra camera. Magari domani mattina gliela faccio vedere. Sono quasi certo che le piacerà di più.
- No, signor Hoffman, gliel'assicuro. La mia camera...
- Voglio essere sincero, signor Ryder. La sua venuta sta sottoponendo la camera che occupa attualmente al suo primo vero collaudo. Vede, è la prima volta che metto un ospite di riguardo in quella camera da quando l'ho riconcepita quattro anni fa. Naturalmente, non potevo in alcun modo prevedere che un giorno proprio lei ci avrebbe fatto questo onore; ma guarda caso ho lavorato su quella camera immaginandomi un personaggio molto simile a lei. Quello che voglio dire è che solo adesso, grazie al suo arrivo, abbiamo potuto utilizzare la camera per la destinazione prevista in origine. E ora mi è perfettamente chiaro che quattro anni fa ho compiuto parecchi gravi errori di valutazione. $è così difficile, anche con la mia esperienza. No, quella camera proprio non mi soddisfa. L'abbinamento è infelice. La proposta che le faccio, signor Ryder, è di trasferirsi nella 343, che ritengo più consona al suo spirito. Lì si sentirà molto più a suo agio e dormirà meglio. Quanto alla sua camera attuale, be', oggi ci ho pensato a lungo. Così com'è non mi resta che demolirla.
- Signor Hoffman, non lo faccia!
Avevo urlato, e Hoffman si girò a guardarmi stupito. Risi e, riprendendomi in fretta, aggiunsi:
- Non voglio che vada incontro a spese e fastidi per causa mia.
- Lo faccio per mia tranquillità, glielo assicuro, signor Ryder. A quest'albergo ho dedicato la mia vita. Quella camera è stata un brutto errore. Non vedo altra soluzione se non demolirla.
- Signor Hoffman, quella stanza... Insomma, mi ci sono affezionato. Le assicuro che lì sto benissimo.
- Non la capisco, signor Ryder -. Hoffman sembrava sinceramente meravigliato. - $è ovvio che quella camera non è adatta a lei. Adesso che la conosco, posso affermarlo con notevole certezza. Non c'è bisogno che faccia complimenti. Mi stupisce che lei sia così attaccato a quella camera.
Scoppiai in una risata forse un po' troppo fragorosa. - Ma che cosa dice? Io attaccato? - Risi di nuovo. - $è solo una camera, nient'altro. Se è necessario demolirla, la demolisca! Mi trasferirò volentieri in un'altra.
- Ah. Sono contento che la pensi così. Non mi sarei dato pace, non solo per il resto del suo soggiorno, ma anche negli anni a venire, al pensiero di averla avuta ospite nel mio albergo e di averla costretta a sopportare una camera così inadeguata. Non riesco nemmeno a immaginare che cosa mi sia passato per la testa quattro anni fa. Ho sbagliato tutto!
Da un pezzo sfrecciavamo nell'oscurità senza incontrare altri fari. In lontananza intravedevo qualche casa, forse delle fattorie, ma per il resto c'era ben poco che interrompesse lo spazio nero e vuoto ai due lati della strada. Viaggiammo in silenzio per un po'. Poi Hoffman disse:
- Il destino è crudele, signor Ryder. Quel cane, be', non era giovane, ma avrebbe potuto tirare avanti senza problemi ancora per due o tre anni. E dire che i preparativi stavano procedendo per il meglio -. Il direttore scosse la testa. - Proprio adesso doveva succedere -. Poi, girandosi verso di me con un sorriso, continuò: - Ma io resto fiducioso. Sì, fiducioso. Il signor Brodsky non si lascerà distrarre, nemmeno da una cosa del genere. - Magari bisognerebbe regalargli un altro cane. Un cucciolo, per esempio.
L'avevo detto così, senza riflettere, ma Hoffman si fece scrupolo di considerare rispettosamente la mia proposta.
- Non saprei, signor Ryder. Tenga presente che il signor Brodsky era affezionatissimo a Bruno. In questo momento sarà in lutto. Ma forse ha ragione, adesso che Bruno non c'è più dobbiamo trovare il modo di alleviare la sua solitudine. Magari con un animale diverso. Un animale che lenisca il suo dolore. Un uccello da gabbia, per esempio. Poi, con il tempo, quando sarà pronto, si potrebbe provare con un altro cane. Ma, non saprei.
Hoffman tacque per parecchi minuti, come se si fosse messo a pensare ad altro. Ma all'improvviso, senza staccare gli occhi dalla strada buia che si snodava davanti a noi, mormorò con veemenza:
- Un bue! Sì, un bue, un bue, un bue!
Ma ormai ne avevo le tasche piene del cane di Brodsky; mi appoggiai allo schienale senza dire nulla, deciso a rilassarmi per il resto del viaggio. A un certo punto, nel tentativo di ottenere qualche informazione sul posto dove eravamo diretti, dissi: - Spero che non saremo troppo in ritardo.
- No, no. Siamo in orario, - rispose Hoffman, ma sembrava che avesse la mente altrove. Poi, qualche minuto più tardi, lo sentii mormorare di nuovo in tono brusco: - Un bue! Un bue!
Dopo un po' lasciammo la strada e ci trovammo in una zona residenziale dall'aspetto molto pulito. Nell'oscurità intravidi grandi case circondate da parchi privati, spesso cintati da alti muri o da siepi. Hoffman guidò lentamente per i viali frondosi, provando ancora una volta sottovoce le frasi da dire.
Varcato un imponente cancello di ferro entrammo nel cortile di una casa di tutto rispetto. C'erano già molte altre macchine, e il direttore dell'albergo ci mise un po' a trovare un posto. Poi scese dall'auto e si precipitò verso la porta d'ingresso.
Rimasi in macchina ancora un momento, studiando la grande casa per cercare di capire che cosa mi aspettasse. Lungo la facciata c'era una fila di finestroni che arrivavano quasi fino a terra. La maggior parte era illuminata, ma a causa delle tende non riuscivo a vedere che cosa vi fosse dentro.
Hoffman suonò il campanello e mi fece cenno di raggiungerlo. Quando scesi dalla macchina, notai che la pioggia si era attenuata, trasformandosi in acquerugiola. Mi strinsi la vestaglia intorno alla vita e mi diressi verso la casa, evitando con cura le pozzanghere.
La porta fu aperta da una cameriera che ci introdusse in un ampio vestibolo ornato di grandi ritratti. Apparentemente la donna conosceva Hoffman, e mentre gli prendeva l'impermeabile scambiò con lui qualche rapida parola. Hoffman si fermò un momento davanti a uno specchio per raddrizzarsi il cravattino, poi mi fece strada addentrandosi nella casa.
Arrivammo in una grande sala inondata di luce, in cui era in pieno svolgimento una festa. C'erano almeno cento persone vestite elegantemente da sera, che chiacchieravano divise in gruppetti con i bicchieri in mano. Sulla soglia, Hoffman mi mise un braccio davanti al corpo come per proteggermi ed esplorò la sala con lo sguardo.
- Non c'è ancora, - borbottò alla fine. Poi, girandosi verso di me con un sorriso, disse: - Il signor Brodsky non è ancora arrivato. Ma io resto fiducioso. Sono sicuro che non tarderà.
Hoffman si voltò di nuovo a guardare la sala e per un attimo parve smarrito. Poi aggiunse: - Le spiace aspettarmi un momento, signor Ryder? Vado a cercare la Contessa. Oh, e stia un po' più indietro, ecco così... ah! ah!... in modo che non la vedano. Non dimentichi che lei è la nostra grande sorpresa. Mi aspetti, torno subito.
Hoffman entrò nella sala, e per qualche istante lo seguii con gli occhi mentre si aggirava fra gli invitati; il suo atteggiamento preoccupato strideva con l'allegria generale. Vidi che parecchie persone cercavano di rivolgergli la parola, ma ogni volta Hoffman si allontanava in fretta con un sorriso inquieto. Alla fine lo persi di vista, e probabilmente feci un passetto avanti nel tentativo di ritrovarlo. Fatto sta che devo essere uscito allo scoperto, perché una voce accanto a me disse: - Oh, signor Ryder, è arrivato. Sono felice che sia finalmente tra noi.
Una robusta signora di circa sessant'anni mi aveva posato una mano sul braccio. Sorrisi e bofonchiai un po' di convenevoli, e lei aggiunse: - Sono tutti ansiosissimi di conoscerla -. Detto questo, mi condusse con mano sicura nel bel mezzo del ricevimento.
Mentre la seguivo sgomitando fra gli ospiti, cominciò a farmi domande. In principio mi chiese le solite cose sulla salute e sul viaggio. Poi, mentre continuavamo ad aggirarci per la sala, mi interrogò a fondo sull'albergo. Entrò in tali particolari - approvavo la scelta del sapone? Che cosa ne pensavo della moquette dell'atrio? - che cominciai a sospettare che fosse una concorrente di Hoffman, indispettita che non stessi al suo albergo. Tuttavia, tanto il suo contegno quanto il modo in cui scambiava cenni di capo e sorrisi con le persone cui passavamo accanto non lasciavano il minimo dubbio che fosse la padrona di casa, e conclusi che doveva essere la Contessa.
Mi ero fatto l'idea che volesse condurmi in un punto particolare della sala o da una particolare persona, ma dopo un po' ebbi la netta impressione che stessimo girando in tondo in lenti cerchi. Infatti, passai per certi punti della sala dove avrei giurato di essere già stato almeno due volte. L'altra cosa che m'incuriosì fu che la mia accompagnatrice, sebbene parecchie teste si girassero a salutarla, non mi presentasse a nessuno. Inoltre, sebbene ricevessi molti sorrisi compiti, nessuno sembrava provare particolare interesse per la mia persona. Sicuramente, nessuno interruppe la conversazione vedendomi passare. La cosa mi lasciò un po' perplesso, visto che mi ero preparato al solito profluvio di domande e complimenti asfissianti.
Dopo un po' notai anche che l'atmosfera della sala aveva qualcosa di strano - quasi la festosità fosse un po' forzata, addirittura teatrale - anche se sulle prime non riuscii a capirne la ragione. Poi però ci fermammo, e mentre la Contessa si metteva a chiacchierare con due signore coperte di gioielli, ebbi l'opportunità di guardarmi intorno e di raccogliere qualche impressione. Solo allora mi accorsi che il ricevimento non era un semplice cocktail, e che gli invitati, in realtà, stavano aspettando di essere chiamati a tavola; era anche evidente che la cena doveva essere servita almeno due ore prima, e che la Contessa e i suoi colleghi avevano dovuto posticiparne l'inizio a causa dell'assenza sia di Brodsky, ospite d'onore, sia del sottoscritto, grande sorpresa della serata. Poi, mentre continuavo a guardarmi intorno, cominciai piano piano a capire ciò che era successo prima del nostro arrivo.
Di tutti i ricevimenti organizzati fino a quel momento in onore di Brodsky, questo era il più grandioso. Inoltre, essendo anche l'ultimo prima della fatidica serata di giovedì, doveva avere tenuto tutti sulla corda sin dall'inizio. Il ritardo di Brodsky non aveva fatto che accrescere la tensione, anche se in principio gli ospiti - consapevoli di rappresentare l'élite della città - avevano mantenuto la calma, evitando scrupolosamente ogni commento che si potesse interpretare come un dubbio sull'attendibilità di Brodsky. Molti, a dire il vero, erano riusciti a non nominarlo neppure, limitandosi, per scaricare la loro apprensione, a fare interminabili congetture sull'ora in cui sarebbe stata servita la cena.
Poi era arrivata la notizia del cane di Brodsky. Come mai una cosa simile fosse stata resa di pubblico dominio con tanta leggerezza, non era chiaro. Forse nella casa era giunta una telefonata, e uno dei consiglieri, nel malaccorto tentativo di calmare le acque, aveva rivelato la notizia a qualche invitato. In ogni caso, le conseguenze di avere lasciato che una simile bomba passasse di bocca in bocca in una folla con i nervi a fior di pelle per l'ansia e per la fame erano state del tutto prevedibili. Presto nella sala avevano cominciato a circolare le voci più assurde. Brodsky era stato scoperto, completamente ubriaco, mentre cullava il cadavere del suo cane. Brodsky era stato trovato disteso in una pozzanghera in mezzo alla strada, intento a farfugliare cose incomprensibili. Brodsky, sopraffatto dal dolore, aveva cercato di uccidersi bevendo kerosene. Quest'ultima storia traeva origine da un incidente di parecchi anni prima, quando effettivamente Brodsky era stato portato di corsa in ospedale da un agricoltore che abitava vicino a lui perché aveva ingerito una notevole quantità di kerosene - anche se non si era mai stabilito se l'avesse fatto con l'intenzione di uccidersi o semplicemente per un errore causato dall'ubriachezza. E poco dopo, sulla scia di queste voci, erano cominciate le scene di disperazione.
- Quel cane significava tutto per lui. Brodsky non si risolleverà mai più da questo colpo. Dobbiamo guardare in faccia la realtà, siamo tornati alla casella di partenza.
- Bisogna cancellare la serata di giovedì. Cancellarla subito. Ormai sarebbe sicuramente un disastro. Se non fermiamo tutto, la gente di questa città non ci darà mai più una prova d'appello.
- Quell'uomo è sempre stato un pericolo. Non ci saremmo mai dovuti cacciare in questo pasticcio. Ma adesso che cosa facciamo? Siamo perduti, irrimediabilmente perduti.
Poi, mentre la Contessa e i suoi colleghi cercavano di riportare l'ordine, si erano udite improvvisamente delle grida in mezzo alla sala.
Molti si erano precipitati a vedere, mentre altri indietreggiavano dallo spavento. Era successo che uno dei consiglieri più giovani aveva inchiodato al pavimento un signore calvo e grassoccio, nel quale tutti, dopo un attimo, avevano riconosciuto il veterinario Keller. Qualcuno aveva tirato via il giovane consigliere, ma lui si era aggrappato con tanto accanimento al bavero di Keller, che il veterinario era venuto su con lui.
- Ho fatto del mio meglio! - strillava Keller rosso in volto. - Ho fatto del mio meglio! Che altro potevo fare? Due giorni fa l'animale stava bene!
- Impostore! - aveva mugghiato il giovane consigliere tentando un nuovo assalto. Di nuovo era stato trattenuto, ma ormai parecchie altre persone, avendo scoperto un buon capro espiatorio, avevano cominciato a gridare contro Keller. Per qualche istante sul veterinario erano piovute da ogni parte accuse, ora di negligenza, ora di avere messo a repentaglio il futuro dell'intera comunità. Poi una voce aveva urlato: - E i gattini dei Breuer? Passi le tue giornate a giocare a bridge, e hai lasciato che quei gattini morissero a uno a uno...
- Gioco a bridge solo una volta alla settimana, e poi... - aveva tentato flebilmente di protestare il veterinario, ma subito altre voci lo avevano aggredito. Di punto in bianco era sembrato che tutti in sala ce l'avessero con lui per qualche vecchia storia riguardante le loro adorate bestiole. Poi qualcuno aveva urlato che Keller gli doveva dei soldi, un altro che Keller non gli aveva mai restituito un rastrello imprestato sei anni prima. Presto il rancore nei confronti del veterinario era giunto a un tale parossismo che non c'è da stupirsi se le persone che trattenevano il giovane consigliere avevano allentato la presa. E quando quest'ultimo era partito di nuovo all'attacco, tutti avevano avuto l'impressione che questa volta avesse il benestare della stragrande maggioranza dei presenti. Le cose si stavano mettendo molto male, quando una voce tonante aveva fatto ritornare tutti in sé.
Se in sala era piombato di colpo il silenzio, ciò era dovuto, probabilmente, più allo stupore provocato dall'identità della persona che aveva parlato che non a una sua reale autorità. Infatti l'uomo che tutti si erano girati a guardare, e che ora li fulminava dall'alto del palco, era Jakob Kanitz, noto in città soprattutto per la sua timidezza. Ormai prossimo alla cinquantina, l'impiegato Jakob Kanitz aveva sempre lavorato, a memoria dei presenti, nello stesso grigio ufficio municipale. Era raro che azzardasse un'opinione, e ancora più raro che contraddicesse o discutesse quelle degli altri. Non aveva praticamente amici, e parecchi anni prima aveva lasciato la casetta in cui viveva con la moglie e i tre figli per affittare una piccola mansarda nella stessa strada. Ogni volta che qualcuno toccava quel tasto, Kanitz giurava che sarebbe tornato presto dalla sua famiglia, ma gli anni erano passati e la situazione non era cambiata. Nel frattempo, soprattutto per la sua disponibilità a occuparsi dei mille lavoretti che si presentano quando si organizza un evento culturale, era stato accettato, anche se con un po' di condiscendenza, dai circoli artistici della città.
La sala non aveva avuto il tempo di riprendersi dalla sorpresa, che Jakob Kanitz - forse consapevole che i suoi nervi non avrebbero retto a lungo - aveva cominciato a parlare.
- Le altre città! E non dico Parigi! O Stoccarda! Mi riferisco a città più piccole, non più grandi di noi. Ebbene, le altre città, radunate i loro cittadini migliori, metteteli davanti a una crisi di questo genere, e come pensate che reagirebbero? Sarebbero calmi, sicuri di sé. Saprebbero cosa fare, come comportarsi. Quello che voglio dirvi, che voglio dire a tutti noi che siamo qui, è che siamo la crema di questa città. Il problema non è insormontabile. Insieme possiamo farcela. Pensate che a Stoccarda litigherebbero?! Non dobbiamo lasciarci prendere dal panico. Guai se ci arrendiamo e cominciamo a bisticciare fra noi. Va bene, il cane è un guaio, ma non è mica la fine del mondo. Non è ancora detta l'ultima parola. Non so in che stato sia il signor Brodsky in questo momento, ma sono sicuro che possiamo ridargli la carica. Ce la possiamo fare, a patto che tutti questa sera si rimbocchino le maniche. Dobbiamo farcela. Perché se non riusciamo a ridargli la carica, se stasera tutti insieme non salviamo la situazione, vi dico questo, non ci resta che l'infelicità! Sì, una profonda, scoraggiante infelicità! Non abbiamo nessun altro cui rivolgerci, deve essere il signor Brodsky, perché in questo momento non c'è nessun altro. Probabilmente sta per arrivare. Dobbiamo restare calmi. Che cosa facciamo, litighiamo? Pensate che litigherebbero a Stoccarda? Cerchiamo di ragionare con mente lucida. Nei suoi panni, come ci sentiremmo? Dobbiamo dimostrargli che soffriamo con lui, che l'intera città partecipa al suo dolore. E poi, amici, non scordatevelo, è fondamentale tirargli su il morale. Oh, sì! Guai se passassimo tutta la sera a disperarci, se lo mandassimo via di qui con la convinzione che la vita non gli riserva più nulla; potrebbe ricominciare a... No, no! Ci vuole una giusta via di mezzo! Dobbiamo anche essere allegri, fargli capire che nella vita ci sono tante altre cose, che contiamo tutti su di lui, che dipendiamo da lui. Sì, nelle prossime ore spetta a noi salvare la situazione. Il signor Brodsky sarà qui a momenti, Dio solo sa in che stato, e le prossime ore saranno cruciali, cruciali. Dobbiamo fare le cose per bene. Altrimenti saremo condannati all'infelicità. Dobbiamo... Dobbiamo...
A questo punto Jakob Kanitz si era confuso. Era rimasto sul palco ancora per qualche secondo, senza più parlare, sopraffatto da una crescente vergogna. Con ciò che restava dell'ardore di poc'anzi, aveva lanciato un'ultima occhiata di fuoco ai presenti, poi, un po' impacciato nei movimenti, si era girato ed era sceso.
Ma il suo goffo appello aveva avuto un effetto immediato. Ancora prima che Jakob Kanitz terminasse di parlare, si era levato un basso mormorio d'assenso, e più di una persona aveva dato uno spintone al giovane consigliere - che ormai strisciava i piedi per terra con aria vergognosa - per rimproverarlo. Quando Jakob Kanitz aveva abbandonato il palco, c'era stato qualche secondo di silenzio imbarazzato. Poi, a poco a poco, la sala si era rianimata, e tutti si erano messi a discutere in tono grave ma sereno su che cosa fare all'arrivo di Brodsky. In breve gli invitati si erano trovati d'accordo: Jakob Kanitz aveva colpito nel segno. Bisognava trovare la giusta via di mezzo tra compunzione e allegria. Gli umori dovevano essere accuratamente sorvegliati, istante per istante, da ciascuno dei presenti. Nella sala si era diffuso un senso di determinazione, poi, piano piano, la gente aveva cominciato a rilassarsi, finché tutti avevano ripreso a sorridersi, a chiacchierare e a salutarsi in toni garbati e civili, come se i disdicevoli episodi dell'ultima mezz'ora non fossero mai avvenuti. Era stato più o meno a quel punto - non più di venti minuti dopo che Jakob Kanitz aveva finito il suo discorso - che Hoffman e io eravamo arrivati. Non c'era dunque da meravigliarsi se avevo notato qualcosa di strano sotto quella vernice di ricercata giovialità.
Stavo ancora riflettendo su quanto era successo prima del nostro arrivo, quando scorsi Stephan dall'altra parte della sala, intento a parlare con un'anziana signora. Accanto a me, la Contessa era ancora tutta presa dalla conversazione con le due donne ingioiellate, così, mormorando una scusa, mi allontanai da loro. Mentre mi avvicinavo, Stephan mi vide e sorrise.
- Oh, signor Ryder. Ce l'ha fatta a venire. Posso presentarle la signorina Collins?
Solo allora riconobbi nell'esile vecchia la proprietaria dell'alloggio dove Stephan si era recato quella sera mentre eravamo in macchina insieme. Era vestita in maniera semplice ma elegante, con un lungo abito nero. Mi sorrise e mi porse la mano. Dopo le presentazioni stavo per proseguire con i convenevoli, quando Stephan si chinò verso di me e mi disse sottovoce:
- Sono stato uno sciocco, signor Ryder. Sinceramente non so più che pesci prendere. La signorina Collins, come al solito, è stata molto gentile, ma mi piacerebbe sentire anche la sua opinione.
- Vuoi dire... a proposito del cane del signor Brodsky?
- Oh. No, no. Quella è una storia terribile, me ne rendo conto. Ma adesso stavamo discutendo di un'altra cosa. Ho davvero bisogno di un suo consiglio. La signorina Collins mi stava appunto suggerendo di venire a cercarla, vero, signorina Collins? Vede, mi spiace seccarla, ma c'è stata una complicazione. Sa, a proposito della mia esibizione di giovedì sera. Dio mio, come sono stato sciocco! Come le ho detto, stavo preparando £Dalia di Jean-Louis La Roche, ma papà non lo sapeva ancora. Non fino a questa sera, almeno. Pensavo di fargli una sorpresa, sa, va pazzo per La Roche. E poi, non mi avrebbe mai creduto capace di suonare bene un pezzo così difficile, quindi la sorpresa sarebbe stata doppia. Ma
ultimamente, con l'avvicinarsi del grande evento, ho cominciato a pensare che era poco pratico mantenere il segreto. Per esempio, c'è da stampare il programma ufficiale. Ce ne sarà una copia accanto a ogni tovagliolo; papà si è lambiccato il cervello per decidere le goffrature, l'illustrazione sul retro e tutto il resto. Qualche giorno fa mi sono reso conto che avrei dovuto dirglielo, però volevo fargli lo stesso una sorpresa, così ho aspettato che si presentasse l'occasione giusta. Be', questa sera, poco dopo avere scaricato lei e Boris, sono andato nel suo ufficio a riportare le chiavi della macchina, e l'ho trovato a quattro zampe sul pavimento. Stava esaminando mucchi di scartoffie sparse intorno a lui sul tappeto. Niente di insolito, papà lavora spesso così. Il suo ufficio è piccolino, la scrivania porta via un sacco di spazio, così, per mettere a posto le chiavi senza calpestare niente, ho dovuto saltellare sulla punta dei piedi. Papà mi ha chiesto come andava, poi, prima ancora che gli rispondessi, si è rituffato nelle sue carte. Be', mentre uscivo, vedendolo lì sul pavimento, ho sentito che quello era il momento giusto. Non so perché. $è stato un impulso. Così, con noncuranza, gli ho detto: «A proposito, papà, giovedì sera suonerò £Dalia di La Roche. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere saperlo». Non ho usato nessun tono particolare, mi sono limitato a dirglielo e ho aspettato la sua reazione. Be', papà ha posato il foglio che stava leggendo, ma ha continuato a fissare il tappeto. Poi sul suo volto è comparso un sorriso. Ho sentito che mormorava qualcosa come: «Ah, sì, £Dalia», e per qualche secondo mi è sembrato molto felice. $è rimasto con la testa china, a quattro zampe, ma mi è sembrato molto felice. Poi ha chiuso gli occhi e si è messo a canticchiare la prima parte dell'adagio, lì sul tappeto, muovendo la testa a tempo. Sembrava così felice e tranquillo, signor Ryder, che stavo già congratulandomi con me stesso. Poi ha riaperto gli occhi, mi ha sorriso con aria sognante e ha detto: «Sì, un pezzo magnifico. Non ho mai capito perché tua madre lo odi tanto». Come stavo giust'appunto raccontando alla signorina Collins, sulle prime ho pensato di avere sentito male. Ma lui ha ripetuto: «Tua madre lo odia. Sì, come sai, ha preso in odio le ultime opere di La Roche. In casa non mi lascia sentire i suoi dischi da nessuna parte, nemmeno con le cuffie». Poi deve essersi accorto della mia faccia stravolta. Perché ha cercato immediatamente di confortarmi. $è tipico di papà. «Avrei dovuto chiedertelo prima, - continuava a dire. - $è tutta colpa mia». Poi si è battuto la fronte come se si fosse ricordato di un'altra cosa e ha aggiunto: «Sì, Stephan, ho tradito la fiducia di £tutti £e £due. Pensavo di fare la cosa giusta, non interferendo, ma adesso mi accorgo che ho tradito la fiducia di tutti e due». E quando gli ho chiesto di spiegarsi meglio, mi ha detto che il grande desiderio della mamma era di sentirmi suonare £Passioni £di £vetro di Kazan. Pare che glielo avesse fatto capire da un po' di tempo, e in questi casi, be', la mamma dà per scontato che papà l'accontenti. Ma vede, papà si è messo anche nei miei panni. $è molto attento a queste cose. Sa che un musicista, anche un dilettante come me, vuole decidere da solo in un'occasione di tale importanza. Così non mi ha detto nulla, ripromettendosi di spiegare tutto a mia madre alla prima occasione. Poi, però... be', credo che qui sia necessario un chiarimento, signor Ryder. Vede, quando dico che la mamma ha fatto capire a papà che voleva che suonassi Kazan, questo non significa che glielo abbia £detto. $è un po' difficile da spiegare a chi non c'è dentro. Succede che la mamma, in qualche modo, non so se mi capisce, in qualche modo £lascia £intendere a papà quello che vuole senza mai dirlo apertamente. Si serve di segnali che per lui sono molto chiari. Non so dirle con esattezza come abbia fatto questa volta. Forse un giorno papà è tornato a casa e l'ha trovata che ascoltava £Passioni £di £vetro. Be', visto che è raro che la mamma usi l'impianto stereo, quello sarebbe stato un segnale piuttosto ovvio. O forse papà, fatto il bagno, è andato a letto e l'ha trovata che leggeva un libro su Kazan, che ne so, fra di loro hanno sempre fatto così. Quindi capisce anche lei che papà non poteva dirle di punto in bianco: «No, Stephan deve fare la sua scelta». Stava aspettando, cercando il modo giusto per comunicarglielo. E naturalmente non poteva sapere che con tutta la musica che c'è stessi preparando proprio £Dalia di La Roche. Dio, come sono stato stupido! Non avevo la minima idea che la mamma lo odiasse a tal punto! Be', quando papà mi ha raccontato come stavano le cose, gli ho chiesto che cosa dovevo fare, e lui, dopo averci pensato su, mi ha detto di non cambiare, perché ormai era troppo tardi. «Non se la prenderà con te, - continuava a ripetere. - No, non se la prenderà con te. Se la prenderà con me, e giustamente». Povero papà, si sforzava di consolarmi, ma vedevo che era sempre più angosciato. Dopo un po' si è messo a fissare un punto del tappeto... era ancora a quattro zampe, ma tutto rannicchiato, come se stesse facendo una flessione... fissava il tappeto e borbottava tra sé. «Ce la farò. Ce la farò. Ho passato di peggio. Ce la farò». Sembrava che si fosse dimenticato di me, così sono uscito, chiudendomi piano piano la porta alle spalle. E da quel momento... be', signor Ryder, non penso ad altro. Non so proprio che pesci prendere. Rimane così poco tempo. E £Passioni £di £vetro è un pezzo difficilissimo, non c'è verso che possa prepararlo in tempo. Anzi, se proprio devo dire, mi sembra ancora un po' fuori delle mie possibilità, anche se avessi un anno intero davanti a me.
Il giovane emise un sospiro angustiato e tacque. Dopo qualche istante, visto che né lui né la signorina Collins aggiungevano altro, conclusi che stavano aspettando la mia opinione. Così dissi:
- Non sono fatti miei, naturalmente. Sei tu che devi decidere. Ma secondo me, a questo punto, devi andare dritto per la tua strada...
- Sì, prevedevo che avrebbe detto così, signor Ryder.
L'interruzione era stata della signorina Collins. L'inaspettato cinismo della sua voce mi bloccò e mi fece girare verso di lei. L'anziana signora mi guardava con aria saputa e lievemente sprezzante. - Senza dubbio, - proseguì, - lei la definirebbe... com'è già?... ah, sì, «integrità artistica».
- Non è tanto per questo, signorina Collins, - dissi. - $è solo che dal punto di vista pratico mi sembra un po' tardi...
- Ma chi gliel'ha detto che è troppo tardi, signor Ryder? - mi interruppe di nuovo la donna. - Lei non sa nulla delle capacità di Stephan. Per non parlare delle possibili conseguenze di questa difficile situazione. Perché si permette di sentenziare, come se fosse dotato di un sesto senso che a noi manca?
Mi ero sentito a disagio sin dalla prima interruzione della signorina Collins, e mi accorsi che mentre lei parlava mi ero girato dall'altra per evitare il suo sguardo. Non mi venne in mente nulla di ovvio da ribattere alle sue domande, e dopo un momento, pensando fosse meglio tagliar corto, proruppi in una breve risata e mi allontanai nella folla.
Per parecchi minuti girovagai senza meta. Come già in precedenza, di tanto in tanto qualcuno si girava a guardarmi, ma sembrava che nessuno mi riconoscesse. A un certo punto vidi Pedersen, l'uomo che avevo incontrato al cinema, ridere con un gruppetto di invitati, e pensai di andare da lui. Prima che potessi raggiungerlo, però, sentii un lieve tocco al gomito e voltandomi trovai Hoffman al mio fianco.
- Mi scusi se ho dovuto abbandonarla per qualche istante. Spero che si siano occupati di lei. Che situazione!
Il direttore dell'albergo aveva il respiro affannato e la faccia imperlata di sudore.
- Oh, sì, non mi sto affatto annoiando.
- Mi spiace, ho dovuto lasciare la sala perché mi hanno chiamato al telefono. Ma adesso le posso dire che stanno arrivando, proprio così, stanno arrivando. Il signor Brodsky sarà qui a momenti. Santo cielo! - Hoffman si guardò intorno, poi si chinò verso di me e abbassò la voce: - L'elenco degli invitati è stato fatto con leggerezza. Io li avevo avvertiti. C'è di quella gente! - Scosse la testa. - Che situazione!
- Be', per fortuna che il signor Brodsky sta per arrivare...
- Oh, sì, sì. Sa, signor Ryder, sono davvero sollevato che lei sia qui con noi questa sera, nel momento del bisogno. In linea di massima, non credo che debba cambiare molto il suo discorso a causa delle... ehm... circostanze. Forse un paio di accenni alla tragedia non guasterebbero, ma faremo in modo che qualcun altro dica due parole sul cane, dunque non occorre che lei si discosti dalla sua traccia. L'unica cosa... ah! ah!... non faccia un discorso troppo lungo. Anche se lei è l'ultima persona alla quale... - Rise brevemente e non completò la frase. Poi ricominciò a guardarsi intorno. - C'è di quella gente, - ripeté. - Hanno fatto gli inviti con grande leggerezza. Io li avevo avvertiti.
Hoffman continuò a studiare la sala, così ebbi un attimo di tempo per riflettere sulla questione del discorso. Dopo un po' dissi:
- Signor Hoffman, date le circostanze, mi stavo domandando quando, esattamente, dovrei alzarmi per...
- Oh, certo, certo. Che accortezza. Ha ragione, se lei si alzasse al solito momento, chi sa che cosa potrebbe succedere... sì, sì, pensa davvero a tutto. Io sarò seduto accanto al signor Brodsky, quindi è meglio che lasci giudicare a me il momento migliore. Le spiace aspettare che le faccia un segnale? Santo cielo, signor Ryder, è così rassicurante avere qui con noi una persona come lei in questo frangente.
- Se posso essere d'aiuto lo faccio molto volentieri.
Un rumore proveniente dall'altro lato della sala fece girare bruscamente Hoffman. Il direttore allungò il collo per vedere meglio, sebbene fosse ovvio che non era successo niente di importante. Diedi un colpetto di tosse per richiamare la sua attenzione.
- Signor Hoffman, c'è un altro problemino. Mi stavo chiedendo... - Indicai la mia vestaglia. - Ecco, non sarebbe meglio se mettessi qualcosa di un po' più elegante? Chi sa se qualcuno può imprestarmi un vestito. Niente di speciale.
Hoffman esaminò preoccupato il mio abbigliamento, ma quasi subito distolse di nuovo gli occhi, dicendo distrattamente: - Oh, va bene così, signor Ryder. Qui non siamo per nulla rigidi.
Stava di nuovo allungando il collo per guardare verso il fondo della sala. Mi parve evidente che non aveva assolutamente colto il mio problema, e stavo per ritornare sull'argomento quando vi fu un improvviso fermento vicino all'ingresso. Hoffman sussultò e si girò verso di me con un ghigno spaventoso. - $è arrivato! - bisbigliò, poi mi sfiorò la spalla e scappò via.
La sala piombò nel silenzio, e per qualche secondo tutti guardarono in direzione della porta. Cercai anch'io di vedere che cosa stesse succedendo, ma la vista era irrimediabilmente ostruita. Poi, di punto in bianco, come ricordandosi della decisione di poc'anzi, gli invitati intorno a me ripresero a conversare in tono moderatamente allegro.
Mi feci largo tra la folla finché riuscii a vedere Brodsky che veniva accompagnato attraverso la sala. La Contessa gli sorreggeva un braccio, Hoffman l'altro, e quattro o cinque persone gli svolazzavano intorno premurose. Brodsky, chiaramente dimentico dei suoi accompagnatori, esaminava con sguardo cupo il soffitto decorato della sala. Era più alto e più diritto di quanto mi aspettassi, anche se da lontano la rigidezza - e la strana inclinazione - del suo corpo davano l'impressione che avesse le rotelle e che il suo seguito lo spingesse. Aveva la barba lunga ma nei limiti del decoro, e la giacca dello smoking un po' sbilenca, come se gliel'avesse infilata qualcun altro. Il volto era inselvatichito e invecchiato, ma i suoi lineamenti conservavano ancora una traccia di affabilità.
Per un istante credetti che lo conducessero da me, poi mi accorsi che Brodsky e i suoi accompagnatori, in realtà, stavano puntando verso la sala da pranzo. Sulla porta furono accolti da un cameriere, e nell'attimo in cui scomparvero tutti ammutolirono per la seconda volta. Pochi secondi, poi gli invitati ripresero a parlare, ma nell'aria sentii una nuova tensione.
Notai a questo punto una sedia solitaria, con lo schienale alto e dritto, abbandonata contro il muro, e mi venne in mente che studiando la sala da un diverso punto di osservazione avrei potuto valutare meglio gli umori della gente e stabilire quale fosse il tipo di discorso più adatto per la cena. Così andai a sedermi e rimasi per parecchi minuti a guardarmi intorno.
Gli ospiti ridevano e parlavano ancora, ma senza dubbio la tensione di fondo stava crescendo. Stando così le cose, e visto che del cane avrebbe parlato qualcun altro, mi parve saggio, nei limiti del ragionevole, fare un discorso allegro. Alla fine decisi che la cosa migliore era raccontare qualche aneddoto sulle divertenti disavventure che mi erano capitate dietro le quinte durante il mio ultimo giro in Italia. Mi ero già servito spesso in pubblico di queste storie, ed ero sicuro che nelle attuali circostanze avrebbero smorzato le tensioni e riscosso molto successo.
Stavo provando tra me e me un paio di possibili frasi di apertura, quando notai che la folla si era considerevolmente assottigliata. Solo allora mi accorsi che gli invitati avevano cominciato a passare in sala da pranzo e mi alzai in piedi.
Quando mi unii alla processione che si recava a cenare, qualche persona mi rivolse un vago sorriso, ma nessuno mi parlò. Non vi feci molto caso, perché stavo ancora cercando di dare forma nella mia mente a un esordio che potesse conquistare gli ascoltatori. Mentre mi avvicinavo alla porta della sala da pranzo, ero incerto tra due possibilità. La prima era: «Con il passare degli anni il mio nome viene associato sempre più spesso ad alcune qualità. Meticolosa attenzione al particolare. Precisione di esecuzione. Severo controllo della dinamica». Poi avrei potuto smantellare questo inizio ironicamente tronfio con la spassosa rivelazione di ciò che mi era successo a Roma. L'alternativa era giocare su un tono più apertamente farsesco sin dal principio: «Sipari che crollano. Roditori avvelenati. Partiture piene di errori. A pochi di voi, sono sicuro, verrebbe in mente di associare il mio nome a fenomeni del genere». Entrambi gli esordi avevano i loro pro e i loro contro, e alla fine preferii rimandare la decisione a più tardi, dopo avere studiato meglio gli umori della gente durante la cena.
Entrai in sala da pranzo circondato da persone che parlavano animatamente. Fui subito colpito dalla sua vastità, e capii perché, persino con tutti quegli invitati - assai più di un centinaio - fosse necessario illuminarne solo una parte. Un buon numero di tavoli rotondi era stato apparecchiato con tovaglie bianche e posate d'argento, ma se ne vedevano almeno altrettanti, spogli e senza sedie, perdersi in file ordinate nell'oscurità sul lato opposto della sala. Molti invitati erano già seduti, e il quadro d'insieme - il baluginio dei gioielli delle signore, il terso biancore delle giacche dei camerieri e il muro di smoking neri sullo sfondo delle tenebre - non era privo d'effetto. Stavo contemplando la scena dalla soglia, approfittandone per sistemarmi la vestaglia, quando al mio fianco comparve la Contessa, che cominciò a tirarmi per un braccio come aveva fatto prima, dicendo:
- Signor Ryder, l'abbiamo messa qui a questo tavolo, dove non darà nell'occhio. Non vogliamo che la gente la riconosca e rovini la sorpresa! Ma non si preoccupi, quando annunceremo la sua presenza e lei si alzerà in piedi, tutti saranno in grado di vederla e di sentirla.
Il tavolo al quale mi aveva accompagnato era in un angolo, ma non capii perché lo considerasse più discreto degli altri. La Contessa mi fece sedere, poi disse qualcosa ridendo - il brusio mi impedì di udirla - e scappò via.
C'erano altre quattro persone - una coppia di mezza età e una leggermente più giovane - che mi rivolsero tutte un sorriso di convenienza prima di riprendere a chiacchierare. Il marito della coppia più anziana stava spiegando perché il figlio desiderasse restare negli Stati Uniti, poi il discorso passò agli altri figli della coppia. Di tanto in tanto l'uno o l'altro dei miei commensali si ricordava di farmi partecipe almeno in maniera formale, guardando verso di me oppure sorridendomi come se qualcuno avesse detto una spiritosaggine. Ma nessuno mi rivolse la parola, e presto rinunciai a seguire.
Poco dopo, mentre i camerieri cominciavano a servire la minestra, notai che la conversazione si era fatta più rada e distratta. Finché, durante la portata principale, i miei compagni di tavolo abbandonarono ogni finzione e si misero a discutere di ciò che li preoccupava veramente. Lanciando occhiate furtive ma non troppo in direzione di Brodsky, cominciarono a scambiarsi sottovoce congetture sulle sue condizioni. A un certo punto la più giovane delle due donne disse:
- Qualcuno dovrebbe andare da lui e dirgli quanto ci dispiace, non credete? Dovremmo andarci tutti. Sembra che nessuno abbia ancora affrontato l'argomento. Guardate quelli del suo tavolo, quasi non gli parlano. Forse dovremmo andarci £noi, dare il buon esempio. Sono quasi sicura che gli altri ci verrebbero dietro. Secondo me, stanno aspettando anche loro, come noi.
I suoi amici si affrettarono a rassicurarla, dicendo che i nostri ospiti sapevano il fatto loro e che Brodsky, in ogni caso, sembrava in ottimo stato, ma un attimo dopo anche loro cominciarono a gettare sguardi imbarazzati verso il centro della sala.
Naturalmente avevo approfittato dell'opportunità per osservare Brodsky con molta cura. Lo avevano messo a un tavolo un po' più grande. Da una parte aveva Hoffman, dall'altra la Contessa. Gli altri commensali formavano un anello di solenni teste grige, tutte intente a parlottare sottovoce. Sembrava una tavolata di cospiratori, e questo non giovava affatto all'atmosfera della serata. Quanto a Brodsky, non mostrava segni evidenti di ubriachezza e mangiava regolarmente, anche se senza entusiasmo. Sembrava però essersi ritirato in un mondo tutto suo. Per gran parte della portata principale, Hoffman gli tenne un braccio dietro la schiena bisbigliandogli in continuazione nell'orecchio, ma Brodsky rimase a fissare malinconicamente il vuoto senza rispondergli. Anche quando la Contessa gli sfiorò un braccio e disse qualcosa, Brodsky parve non sentire.
Poi, verso la fine del dolce - la cena, se non straordinaria, era stata discreta -, vidi Hoffman attraversare la sala scansando i camerieri che correvano di qui e di là e capii che stava venendo da me. Quando mi giunse vicino, si chinò e mi disse nell'orecchio:
- Sembra che il signor Brodsky voglia dire due parole, ma sinceramente... ah ah!... stiamo cercando di convincerlo a non farlo. Ci sembra che per questa sera i suoi nervi abbiano già sopportato abbastanza. Quindi, la prego di fare attenzione al mio segnale e di alzarsi non appena lo vede. Poi, subito dopo che lei avrà finito di parlare, la Contessa chiuderà la parte ufficiale del ricevimento. Sì, pensiamo che non convenga sottoporre i nervi del signor Brodsky ad altre prove. Pover'uomo, ah ah! Se penso alla gente che hanno invitato... - Hoffman scosse il capo e sospirò. - Per fortuna che c'è lei, signor Ryder.
Prima che potessi dirgli qualcosa, il direttore dell'albergo stava di nuovo schivando i camerieri per tornare in tutta fretta al suo tavolo.
Passai parecchi minuti a studiare la gente e a soppesare i pro e i contro dei due diversi esordi che avevo preparato per il mio discorso. Stavo ancora tergiversando, quando il brusio cessò all'improvviso. Mi accorsi allora che il signore dalla faccia severa seduto accanto alla Contessa si era alzato in piedi.
Era molto vecchio e aveva i capelli d'argento. Emanava grande autorità, e quasi subito nella sala scese il silenzio. Per qualche secondo ancora il signore dalla faccia severa si limitò a fissare gli ospiti radunati con aria di rimprovero. Poi, in una voce allo stesso tempo misurata e squillante, disse:
- Signor Brodsky. Quando un compagno così prezioso e nobile ci lascia, è difficile, difficilissimo che le parole di conforto degli altri non suonino vuote o superficiali. Tuttavia, non potevo permettere che la serata si concludesse senza porgerle formalmente, a nome di tutti i presenti, le mie più sincere condoglianze -. L'oratore fece una pausa, mentre dalla sala si levava un mormorio di assenso. Poi riprese: - Il suo Bruno, signor Brodsky, era molto amato da tutti coloro che lo vedevano bighellonare per la città. Ma non solo. Era assurto a una condizione rara tra gli esseri umani, figuriamoci poi tra i quadrupedi. In altre parole, era diventato un simbolo. Sissignore. Per noi aveva finito con il rappresentare alcune virtù fondamentali. Un'indomita fedeltà. Un'impavida passione per la vita. Il rifiuto di sentirci da meno degli altri. Il desiderio di fare le cose a modo nostro, a costo di apparire bizzarri agli occhi di un osservatore altezzoso. In altre parole, le virtù che con il passare degli anni hanno contribuito a costruire questa nostra straordinaria e fiera comunità. Virtù, signor Brodsky, che, se mi è consentito, - qui la sua voce rallentò caricandosi di significato, - speriamo di veder presto rifiorire in ogni ceto e professione.
L'oratore fece una pausa e si guardò di nuovo intorno. Per qualche istante tenne il pubblico sotto i suoi occhi gelidi, poi concluse:
- E ora, tutti insieme, osserviamo un minuto di silenzio in memoria dell'amico che ci ha lasciati.
Mentre l'oratore abbassava gli occhi, gli invitati chinarono il capo all'unisono, e di nuovo calò il silenzio. A un certo punto sollevai la testa e notai che alcuni consiglieri seduti al tavolo di Brodsky - forse ansiosi di dare il buon esempio - avevano assunto pose così esageratamente afflitte da apparire comici. Uno, per esempio, si stringeva la fronte tra le mani. Da parte sua, Brodsky - che era rimasto immobile per tutto il discorso, senza mai alzare gli occhi verso l'oratore o la sala - non si mosse, e di nuovo mi parve che il suo corpo avesse una strana angolazione. Non avrei potuto escludere che si fosse addormentato sulla sedia, e che il braccio di Hoffman dietro la sua schiena avesse una funzione essenzialmente fisica.
Al termine del minuto il signore dalla faccia severa si risedette senza dire altro, creando un vuoto imbarazzante nel protocollo. Qualcuno ricominciò timorosamente a chiacchierare, ma un attimo dopo vi fu un movimento a un altro tavolo. Vidi che si era alzato in piedi un omaccione quasi calvo, con la pelle pustolosa.
- Signore e signori, - disse costui con voce possente. Poi, girandosi verso Brodsky, gli fece un lieve inchino e mormorò: - Signor Brodsky -. Il nuovo oratore abbassò gli occhi e si fissò le mani per qualche secondo, poi si guardò intorno. - Come molti di voi già sapranno, sono io che questo pomeriggio ho trovato il corpo del nostro caro amico. Spero dunque che mi concederete qualche istante per dire due parole su... su ciò che è successo. Perché vede, signore, - di nuovo si rivolse a Brodsky, - io le devo delle scuse. Lasci che le spieghi -. L'omaccione fece una pausa e deglutì. - Questo pomeriggio, come al solito, stavo facendo le consegne. Avevo quasi finito, mi restavano solo due o tre pacchi, e per abbreviare la strada ho preso il vicolo tra la ferrovia e Schildstrasse. Normalmente non prendo questa scorciatoia, soprattutto con il buio, ma oggi era più presto del solito, e come sapete, c'era un bel tramonto. Così sono passato di li. E, più o meno a metà del vicolo, l'ho visto. Il nostro caro amico. Aveva scelto un luogo appartato, quasi nascosto tra un lampione e la staccionata di legno. Mi sono inginocchiato accanto a lui per assicurarmi che fosse davvero spirato. E mentre ero lì, mi sono venuti molti pensieri. Naturalmente ho pensato a lei, signor Brodsky. Alla grande amicizia che vi aveva sempre legati, al suo dolore per questa tragica perdita. Ho pensato anche che la città avrebbe sentito la mancanza di Bruno, e che si sarebbe stretta intorno a lei in quest'ora di lutto. E lasci che le dica, signor Brodsky, che, per quanto afflitto, ho capito che il destino mi aveva concesso un privilegio. Sissignore, un privilegio. Il destino mi aveva scelto per portare il corpo del suo amico alla clinica veterinaria. Poi, per quello che è successo dopo, io... io non ho scuse. Un momento fa, mentre il signor von Winterstein parlava, ero tormentato dal dubbio. Alzarmi o non alzarmi? Alla fine, come vede, ho deciso di alzarmi e di parlare. Molto meglio che lo venga a sapere dalle mie labbra, signor Brodsky, invece che domani mattina dai pettegolezzi. Signore, mi vergogno profondamente di ciò che è successo. Posso solo dire che non rifarei mai una cosa simile, nemmeno vivessi un secolo... Posso solo chiederle perdono. Ci ho ripensato cento volte nelle ultime ore, e adesso so quel che avrei dovuto fare. Avrei dovuto posare i pacchi. Vede, ne avevo ancora due, le ultime due consegne. Avrei dovuto posarli. Nel vicolo sarebbero stati al sicuro, messi ben contro la staccionata. E anche se qualcuno se li fosse portati via, poco male. Ma per qualche stupida ragione, forse per un imbecille istinto professionale, non l'ho fatto. Non ci ho pensato. In altre parole, quando ho sollevato il corpo di Bruno, avevo ancora i pacchi in mano. Non so che cosa mi sia passato per la testa. Sta di fatto che... lo verrà a sapere domani, quindi tanto vale che glielo dica io adesso... sta di fatto che Bruno doveva essere lì da un pezzo, perché il suo corpo, quantunque magnifico nella morte, era freddo e, be', un po' rigido. Sissignore, rigido. Mi perdoni, ciò che dirò adesso forse la sconvolgerà, ma... ma la prego di lasciarmi finire. Per non posare i pacchi... ah, come me ne pento, mille volte mi sono già pentito... per non dover posare i pacchi, mi sono messo Bruno in spalle, senza tenere conto della sua rigidità. Solo quando avevo percorso un buon tratto del vicolo ho sentito un bambino gridare e mi sono fermato. E all'improvviso mi sono reso conto dell'enormità del mio errore. Signori miei, volete proprio che scenda nei particolari? Sì? Allora ascoltate. Un po' per la rigidità del nostro amico, un po' per l'idiozia di mettermelo in spalla, cioè praticamente in posizione eretta... be', per farla breve, dalle case di Schildstrasse l'intera parte superiore del suo corpo era visibile al di sopra della staccionata. Per colmo di sventura, era proprio l'ora della sera in cui gran parte delle famiglie si riuniscono nella stanza sul retro per cenare. E mentre mangiavano e guardavano il loro giardino, si sono viste passare davanti agli occhi il nostro nobile amico, con le zampe protese... ah, che affronto! Una casa dopo l'altra! Il pensiero mi tormenta, signor Brodsky, mi rivedo tutta la scena, nei minimi particolari. Mi perdoni, mi perdoni. Non potevo restare qui un secondo di più senza sgravarmi la coscienza di questa... questa palese dimostrazione della mia inettitudine. Quale sventura che questo triste privilegio sia toccato proprio a uno zuccone come me! Signor Brodsky, la supplico di accettare le mie misere scuse per l'umiliazione cui ho sottoposto il suo nobile compagno così poco tempo dopo la sua dipartita. Anche la brava gente di Schildstrasse, forse qualcuno di loro è qui adesso, era profondamente affezionata a Bruno, e doverlo vedere così per l'ultima volta... Chiedo perdono, a lei signor Brodsky, a tutti, chiedo perdono, chiedo perdono.
L'omaccione si risedette, scuotendo il capo con aria afflitta. Poi una donna di un tavolo accanto al suo si alzò, toccandosi gli occhi con un fazzoletto.
- Non c'è sicuramente alcun dubbio, - disse. - $è stato il cane migliore della sua generazione. Non c'è sicuramente alcun dubbio.
Un mormorio d'assenso serpeggiò in sala. Intorno a Brodsky i consiglieri comunali annuivano vigorosamente, ma Brodsky non aveva ancora alzato gli occhi.
Aspettammo che la donna aggiungesse qualcosa, ma lei, pur restando in piedi, non disse altro, limitandosi a singhiozzare e ad asciugarsi gli occhi. Dopo un po' il signore accanto a lei, che indossava uno smoking di velluto, si alzò e la aiutò con gentilezza a risedersi. Lui invece restò in piedi e, dopo avere lanciato uno sguardo accusatorio alla sala, disse:
- Una statua. Una statua di bronzo. Propongo di erigere una statua di bronzo a Bruno in modo da poterlo ricordare per sempre. Un monumento grande e solenne. Magari in Walserstrasse. Signor von Winterstein, - aggiunse rivolgendosi al signore dalla faccia severa, - decidiamo qui, questa sera stessa, di erigere una statua a Bruno!
Qualcuno gridò «bene», «bravo», e dalla sala si levò un vociare di approvazione. Non solo il signore dalla faccia severa, ma tutti i consiglieri comunali seduti al tavolo di Brodsky parvero colti alla sprovvista. Vi fu un rapido scambio di occhiate spaventate, poi von Winterstein disse senza alzarsi:
- Certo, signor Haller, prenderemo attentamente in considerazione la sua proposta. E, naturalmente, ogni altra idea per commemorare nel modo migliore...
- Qui si esagera, - lo interruppe una voce maschile proveniente dall'altro capo della sala. - Che idea assurda. Una statua per quel cane? Se quella bestia merita una statua di bronzo, allora la nostra tartaruga Petra ne merita una cinque volte più grande. Lei che ha trovato una morte così crudele. Assurdo. E poi, non più tardi di qualche mese fa quel cane ha assalito la signora Rahn...
Il resto della frase fu coperto da un'improvvisa baraonda. Per un momento parve che tutti si fossero messi a urlare insieme. L'uomo che aveva appena parlato, ancora in piedi, si girò verso qualcuno del suo tavolo e cominciò una furiosa discussione. Nella crescente confusione, mi accorsi che Hoffman stava gesticolando verso di me. O meglio, faceva con la mano uno strano movimento circolare, come se pulisse un'invisibile finestra. Mi parve di ricordare vagamente che fosse un segnale che gli era particolarmente caro, così mi alzai in piedi e mi schiarii la gola con enfasi.
Quasi subito in sala scese il silenzio, e tutti gli occhi si girarono verso di me. L'uomo che aveva criticato la statua di bronzo interruppe la discussione e si affrettò a riprendere il suo posto. Mi schiarii di nuovo la gola, ed ero sul punto di attaccare il mio discorso, quando mi accorsi che la vestaglia si era aperta, rivelando interamente le mie nudità. Sopraffatto dalla vergogna, esitai un istante, poi mi risedetti. Quasi subito, dall'altra parte della sala, si alzò una donna che disse con voce stridula:
- Se una statua non va bene, perché non diamo il suo nome a una strada? Si cambia spesso il nome alle strade per commemorare i defunti. Sicuramente, signor von Winterstein, questo non è chiedere molto. Magari Meinhardstrasse. O addirittura Jahnstrasse.
A sostegno di quest'idea si levò un coro di approvazione, e subito gli invitati cominciarono a urlare tutti insieme i nomi di altre possibili vie. I consiglieri comunali erano di nuovo palesemente a disagio.
Un uomo alto, con la barba, seduto a un tavolo vicino al mio, si alzò a sua volta e disse con voce tonante: - Sono d'accordo con il signor Holländer. Qui si esagera. Certo, siamo tutti molto spiaciuti per il signor Brodsky. Ma siamo onesti, quel cane era una minaccia, non solo per gli altri animali ma anche per gli esseri umani. E se il signor Brodsky si fosse preso la briga di pettinargli di tanto in tanto il pelo, e di curargli quell'infezione alla pelle che ovviamente si trascinava da anni...
L'uomo fu subissato da una tempesta di rabbiose proteste. Da tutte le parti si levarono grida di «Ignominia!» e «Vergogna!», e
parecchie persone lasciarono il loro tavolo per andare a dare una lezione al colpevole. Hoffman stava di nuovo facendomi il segnale, pulendo l'aria furiosamente, con il volto deformato da un ghigno orribile. Sentii la voce dell'uomo barbuto che tuonava al di sopra del baccano. - Ma è così. Quella bestia era disgustosamente sudicia!
Dopo avere controllato che la vestaglia fosse ben legata, riprovai ad alzarmi, ma proprio in quel momento vidi Brodsky riscuotersi e scattare in piedi.
Mentre si alzava, il suo tavolo fece rumore, e tutte le teste si girarono verso di lui. Un istante dopo, chi aveva abbandonato la sedia era di nuovo al suo posto, e in sala era tornato il silenzio.
Per un attimo temetti che Brodsky piombasse sul tavolo. Invece riuscì a conservare l'equilibrio e si guardò intorno. Quando parlò, la sua voce era leggermente roca.
- Si può sapere che cos'è questa storia? - disse. - Pensate davvero che quel cane fosse così importante per me? $è morto, chiuso l'argomento. Io voglio una donna. La vita a volte è così vuota. Io voglio una donna -. Fece una pausa, e per un momento si perse nei suoi pensieri. Poi, con voce sognante, aggiunse: - I nostri marinai. I nostri marinai ubriachi. Che cosa ne sarà di loro, adesso? Lei era così giovane allora. Così giovane e bella -. Brodsky tacque di nuovo e alzò gli occhi verso i lampadari appesi all'alto soffitto. Per la seconda volta temetti che cadesse in avanti sul tavolo. Probabilmente anche Hoffman ebbe lo stesso pensiero, perché si alzò, gli mise con garbo una mano dietro la schiena e gli bisbigliò qualcosa nell'orecchio. Brodsky non rispose subito. Poi borbottò: - Una volta mi amava. Mi amava più di ogni cosa al mondo. I nostri marinai ubriachi. Dove sono adesso?
Hoffman rise di cuore, come se Brodsky avesse detto qualcosa di spiritoso. Poi rivolse un largo sorriso alla sala e gli parlò di nuovo all'orecchio. Brodsky parve finalmente ricordare dove si trovava e, girandosi incerto verso il direttore dell'albergo, si lasciò convincere con le buone a risedersi.
Vi fu un momento di silenzio in cui nessuno si mosse. Poi la Contessa si alzò con un sorriso pieno di brio.
- Signore e signori, a questo punto abbiamo per voi una magnifica sorpresa! $è arrivato solo questo pomeriggio, deve essere stanchissimo, ma ha accettato lo stesso di essere nostro ospite. Sì, amici! Il signor Ryder è qui con noi!
La Contessa fece uno svolazzo con la mano nella mia direzione, mentre in sala si levava un brusio eccitato. Prima che potessi fare qualcosa, i miei compagni di tavolo si strinsero intorno a me cercando di darmi la mano. Un attimo dopo mi accorsi di essere circondato da persone boccheggianti dalla gioia, che mi salutavano e mi tendevano le braccia. Ricambiai tanto entusiasmo il più cortesemente possibile, ma guardandomi alle spalle - non ero ancora riuscito ad alzarmi dalla sedia - vidi che dietro di me si stava radunando una folla di persone che si spingevano e si sollevavano sulla punta dei piedi. Capii che dovevo prendere in pugno la situazione prima che degenerasse nel caos. Visto che buona parte degli invitati erano già in piedi, pensai che la cosa migliore fosse sovrastarli da un piedistallo. Così, assicurandomi rapidamente che la vestaglia fosse legata, mi arrampicai sulla sedia.
Il clamore cessò immediatamente, tutti s'irrigidirono dov'erano e alzarono gli occhi verso di me. Dal mio nuovo punto d'osservazione vidi che più di metà dei commensali avevano già lasciato i loro tavoli, e decisi di attaccare senza indugio.
- Sipari che crollano! Roditori avvelenati! Spartiti pieni di errori!
Mi accorsi che una figura solitaria stava venendo verso di me serpeggiando tra i gruppetti immobili di persone. Giuntami accanto, la signorina Collins tirò a se una sedia da un tavolo vicino, si sedette e mi guardò da sotto in su. Qualcosa nel suo contegno mi turbò, e per un momento non riuscii più a ricordare la frase successiva. Vedendomi esitare, la donna accavallò le gambe e disse in tono premuroso:
- Signor Ryder, si sente male?
- Sto bene, grazie, signorina Collins.
- Spero, - proseguì la donna, - che non se la sia presa troppo per quello che le ho detto poco fa. Volevo venire da lei a scusarmi, ma non sono più riuscita a trovarla. Probabilmente sono stata molto più burbera del necessario. Spero che mi perdonerà. $è che ancora oggi, quando incontro qualcuno del suo mestiere, vengo riassalita dai ricordi e non posso fare a meno di usare quel tono.
- Non c'è di che, signorina Collins, - dissi con voce pacata, sorridendole dall'alto della mia sedia. - Non si preoccupi. Non me la sono presa. Se sono andato via così bruscamente, è solo perché ho pensato che volesse parlare con Stephan in santa pace.
- La ringrazio di essere così comprensivo,- disse la signorina Collins. - Mi scusi ancora se mi sono un po' arrabbiata. Ma mi deve credere, signor Ryder, nelle mie parole non c'era solo rabbia. Io desidero sinceramente aiutarla. Mi rattristerebbe moltissimo vederla commettere di nuovo gli stessi errori. Già che ci siamo conosciuti, volevo invitarla a prendere il tè da me uno di questi pomeriggi. Mi farebbe piacere. Da parte mia sarò più che lieta di discutere con lei i suoi problemi. In me troverà un'ascoltatrice attenta, glielo posso garantire.
- La ringrazio, signorina Collins. Sono sicuro che lo dice con le migliori intenzioni. Ma se mi consente, mi sembra che le sue passate esperienze l'abbiano lasciata un po' maldisposta nei confronti, come dice lei, delle persone che fanno il mio mestiere. Non so fino a che punto gradirebbe la mia visita.
La signorina Collins parve riflettere sulle mie parole. Poi disse: - Capisco i suoi timori. Ma sono convinta che non avremmo alcuna difficoltà a comportarci in maniera civile. Cominci con una visita molto breve. Se poi si trova bene, può sempre tornare. Magari potremmo addirittura fare quattro passi insieme. Il Giardino Sternberg è vicinissimo a casa mia. Signor Ryder, ho avuto molti anni per riflettere sul passato e ormai sono pronta a metterci una pietra sopra. Ma mi piacerebbe tendere ancora una volta la mano a qualcuno come lei. Naturalmente, non posso prometterle i di avere una risposta per ogni domanda. Ma la ascolterò attentamente. E può stare certo che non la idealizzerò né mi permetterò dei sentimentalismi, come rischierebbe di fare una persona con meno esperienza.
- Prenderò in debita considerazione il suo invito, signorina Collins, - le dissi. - Ma non posso fare a meno di pensare che mi abbia preso per qualcuno di completamente diverso. Dico questo perché il mondo è pieno di individui che si proclamano geni di questo o di quello, e che in realtà sono degni di nota solo per la loro colossale incapacità di organizzarsi la vita. Ma per qualche ragione ci sono sempre frotte di persone come lei, signorina Collins, persone per altro animate dalle migliori intenzioni, pronte a buttarsi al salvataggio di costoro. Forse mi sbaglio, ma le assicuro che io non sono uno di questi. Anzi, posso dirle con certezza che in questo momento non ho alcun bisogno di essere salvato.
Già da un po' la signorina Collins stava scuotendo la testa. Quando finii, disse: - Signor Ryder, mi rattristerebbe davvero moltissimo se lei dovesse continuare a ripetere i suoi errori. Non sopporterei il pensiero di essere rimasta lì a guardare senza fare niente. Sono più che convinta che potrei esserle di aiuto in questa difficile situazione. Naturalmente, quando stavo con Leo, - e la donna fece un vago gesto in direzione di Brodsky, - ero troppo giovane, non ne sapevo abbastanza, non potevo capire che cosa stava succedendo. Ma adesso ho avuto molti anni per riflettere. E quando ho saputo che lei sarebbe venuto nella nostra città, mi sono detta che era giunto il momento di accantonare la mia amarezza. Sono vecchia, ma tutt'altro che finita. Sono riuscita a capire bene certe cose della vita, molto bene, e non è ancora troppo tardi per metterle a frutto. $è con questo spirito che la invito a casa mia, signor Ryder. Le chiedo di nuovo scusa se prima, quando ci siamo conosciuti, sono stata brusca con lei. Non succederà più, glielo prometto. Per piacere, mi dica che verrà.
Mentre la donna parlava, vidi passarmi davanti l'immagine del suo soggiorno - la luce bassa e accogliente, le tende di velluto liso, i mobili sgangherati - e per un istante il pensiero di adagiarmi su uno dei suoi sofà, lontano dagli assilli della vita, mi parve stranamente allettante. Inalai a fondo e sospirai.
- Terrò presente il suo cortese invito, signorina Collins, - dissi. - Ma adesso ho bisogno di dormire un po'. Si metta nei miei panni: sono mesi che viaggio, e da quando sono arrivato qui non ho avuto un attimo di tregua. Sono esausto.
E mentre dicevo questo, tutta la stanchezza mi ripiombò addosso. La pelle sotto gli occhi cominciò a prudermi, e mi sfregai la faccia con le palme. Stavo ancora sfregandomela, quando mi sentii sfiorare il gomito e una voce disse gentilmente:
- L'accompagno io a piedi, signor Ryder. Così mi sgranchisco le gambe.
Stephan stava porgendomi un braccio per aiutarmi a scendere dalla sedia. Gli posai una mano sulla spalla e saltai giù.
- Anch'io sono molto stanco, - disse Stephan. - Venga con me.
- A piedi?
- Sì, questa notte dormo in una delle camere. Lo faccio spesso quando devo prendere servizio la mattina presto.
Per un attimo continuai a non capire. Poi, guardando oltre i gruppetti di invitati in piedi o seduti, oltre i camerieri e i tavoli, là dove l'immensa sala spariva nell'oscurità, mi accorsi all'improvviso che eravamo nel patio dell'albergo. Non l'avevo riconosciuto perché nel pomeriggio vi ero entrato - e l'avevo visto - dall'altro lato. Da qualche parte là in fondo, nel buio, c'era il bar dove avevo bevuto il mio caffè e fatto i programmi per la giornata.
Non ebbi però modo di soffermarmi su questa scoperta, perché Stephan mi stava trascinando via con strana insistenza.
- Su, andiamo, signor Ryder. Devo parlarle.
- Buona notte, signor Ryder, - mi disse la signorina Collins mentre le passavamo davanti.
Mi voltai per salutarla, e l'avrei fatto in maniera meno sbrigativa se Stephan non avesse continuato a tirarmi. Anzi, mentre attraversavamo la sala, mi sentii augurare da ogni parte la buona notte, e sebbene mi sforzassi di sorridere e di gesticolare, mi accorsi che la mia uscita era meno elegante del dovuto. Ma Stephan era chiaramente preoccupato, e mentre ancora cercavo di ricambiare i saluti voltandomi indietro, mi afferrò per il braccio e mi disse:
- Signor Ryder, ci ho riflettuto molto. Forse mi sto montando la testa, ma credo proprio che dovrei tentare il brano di Kazan. Non ho dimenticato il suo consiglio, quello di tirare dritto per la mia strada. Ma le assicuro che ci ho riflettuto, e mi sento in grado di farcela. £Passioni £di £vetro non è più al di sopra delle mie capacità, ne sono più che convinto. Il vero problema è il tempo. Ma se mi metto d'impegno, se lavoro giorno e notte, forse ce la farò.
Eravamo entrati nella parte buia del patio. I tacchi di Stephan rimbombavano nel vuoto, accompagnati dal ciabattante contrappunto delle mie pantofole. Un po' sulla nostra destra, nell'oscurità, intravidi il marmo chiaro della grande fontana, ora silenziosa e spenta.
- Non sono affari miei, - dissi. - Ma al tuo posto io continuerei con il pezzo che avevi deciso di suonare. L'hai scelto tu e questo è sufficiente. E poi, è sempre un errore cambiare programma all'ultimo minuto...
- Ma signor Ryder, lei non capisce. La mamma...
- Ho perfettamente presente. E come dico, non desidero interferire. Ma con tutto il rispetto, penso che nella vita di ognuno di noi venga il momento di difendere le nostre scelte. Il momento di dire: «Questo sono io, ho deciso di fare così e lo farò».
- Signor Ryder, capisco il suo punto di vista. Ma forse dice così... so che lo fa con le migliori intenzioni... ma forse dice così perché non crede che un dilettante come me possa rendere in maniera decente il pezzo di Kazan, soprattutto con così poco tempo a disposizione. Ma vede, ci ho riflettuto per tutta la cena, e credo proprio...
- Non hai afferrato il concetto, - dissi, con un briciolo di insofferenza. - Non l'hai proprio afferrato. Sto dicendo che devi prendere posizione.
Ma il giovane non mi ascoltava. - Signor Ryder, - continuò, - mi rendo conto che è spaventosamente tardi e che lei comincia a essere stanco. Ma mi chiedevo, me lo concederebbe qualche minuto, magari un quarto d'ora? Se andiamo subito nel salotto, le suono un pezzo del brano di Kazan, non tutto, solo un pezzo. Così mi dice se ho qualche possibilità di farcela per giovedì sera. Oh, mi scusi.
Eravamo giunti in fondo al patio, e ci fermammo al buio mentre Stephan apriva la porta chiusa a chiave che dava sul corridoio. Mi voltai a dare un'occhiata; la zona dove avevamo cenato era poco più di una piccola pozza di luce nell'oscurità. Gli invitati sembravano di nuovo seduti, e si vedevano le sagome dei camerieri aggirarsi fra i tavoli con i loro vassoi.
Il corridoio era mal illuminato. Stephan richiuse la porta del patio alle nostre spalle, poi riprendemmo a camminare a fianco a fianco, in silenzio. Dopo un po' vidi che il giovane mi guardava di sottecchi e capii che stava aspettando la mia decisione. Sospirai e dissi:
- Ti aiuterei volentieri. Capisco che ti trovi in un bel guaio. Solo che si è fatto davvero tardi e...
- Signor Ryder, mi rendo conto che è stanco, ma posso farle una proposta? In salotto ci vado solo io. Lei resti fuori della porta ad ascoltare. Poi, non appena ha sentito abbastanza per farsi un'opinione, zitto zitto se ne vada a letto. Io non saprò se lei è ancora lì o no, così sarò spronato a dare il meglio di me stesso sino in fondo... che è quello di cui ho bisogno. E domani mattina mi dirà se ho qualche possibilità per giovedì sera.
Riflettei un momento. - Va bene, - dissi alla fine. - Mi sembra una proposta molto ragionevole, che tiene conto delle esigenze di entrambi. Va bene, facciamo pure come dici tu.
- Signor Ryder, non so come ringraziarla. Non ha idea dell'aiuto che mi dà. Sono in un tale pasticcio.
Per l'eccitazione il giovane accelerò il passo. Il corridoio svoltò e divenne così buio che più di una volta misi una mano avanti per timore di andare a sbattere contro una delle due pareti. Tranne che proprio in fondo, dove un po' di luce filtrava dalle porte a vetri dell'atrio, non c'era illuminazione di sorta. Stavo ripromettendomi di farlo presente a Hoffman la prima volta che l'avessi visto, quando Stephan disse: - Eccoci, - e si fermò. Mi accorsi che eravamo davanti alla porta del salotto.
Stephan armeggiò con le chiavi facendole tintinnare, ma quando finalmente i battenti si aprirono non vidi altro che buio. Il giovane si precipitò nella stanza, poi mise di nuovo fuori la testa.
- Mi dà un secondo per trovare la partitura? - disse. - Dev'essere da qualche parte nello scanno del pianoforte, ma c'è un tale disordine qui dentro.
- Non preoccuparti, me ne andrò solo dopo essermi formato un opinione precisa.
- Signor Ryder, non so come ringraziarla. Be', faccio in un attimo.
La porta si richiuse con un colpo secco, e per qualche minuto non sentii più niente. Rimasi li nell'oscurità, guardando di tanto in tanto in fondo al corridoio, dove trapelava la luce dell'atrio.
Finalmente Stephan attaccò il movimento d'apertura di £Passioni £di £vetro. Dopo le prime battute mi accorsi di ascoltare con crescente attenzione. Si capiva subito che il giovane aveva scarsa dimestichezza con il brano, eppure, sotto le esitazioni e la rigidezza, si intravedeva un'immaginazione capace di un'originalità e di una sottigliezza spirituale che mi lasciarono stupefatto. Sebbene ancora rozza, la lettura di Stephan metteva in luce certe dimensioni che non avevo mai visto nella stragrande maggioranza delle interpretazioni del brano di Kazan.
Mi chinai in avanti per accostarmi alla porta, sforzandomi di cogliere ogni sfumatura, per quanto esitante. Ma di colpo, verso la fine del movimento, fui sopraffatto dalla stanchezza e mi ricordai che era tardissimo. Mi dissi che non c'era alcun bisogno di ascoltare ancora - con sufficiente tempo a disposizione, il pezzo di Kazan era sicuramente nelle possibilità di Stephan - e mi avviai lentamente in direzione dell'atrio.
Parte seconda
11.
Fui svegliato dallo squillo del telefono sul comodino accanto al letto. Il mio primo pensiero fu che mi avessero di nuovo disturbato dopo pochi minuti di sonno, ma un attimo dopo capii dalla luce che doveva essere mattino inoltrato. Colto dall'improvviso timore di avere dormito più del previsto, sollevai il ricevitore.
- Ah, signor Ryder, - disse la voce di Hoffman. - Spero che abbia dormito bene.
- Grazie, signor Hoffman, ho dormito benissimo. Stavo per l'appunto alzandomi. Con tutto quello che ho da fare oggi, - risi, - è ora che mi muova.
- Certo, signor Ryder, e che giornata l'aspetta! Capisco che in questa prima parte della mattina desideri conservare il più possibile le forze. Molto saggio, se mi consente. Soprattutto dopo essersi prodigato come la notte scorsa. Ah, che discorso meravigliosamente arguto! Questa mattina in città non si parla d'altro! Comunque, sapendo che si sarebbe alzato più o meno a quest'ora, ho pensato di telefonarle per aggiornarla sulla situazione. Sono lieto di informarla che adesso la 343 è pronta. Posso suggerirle di prenderne subito possesso? I suoi bagagli, se non ha nulla in contrario, saranno trasferiti mentre fa colazione. Vedrà che la 343 le piacerà molto di più della sua camera attuale. Le chiedo ancora scusa per l'errore. Non sa quanto mi dispiace. Ma come penso di averle spiegato ieri sera, a volte può essere molto difficile valutare queste cose.
- Sì, sì, capisco -. Mi guardai intorno e mi sentii invadere da una disperata tristezza. - Ma signor Hoffman, - dissi, dominando a stento la voce, - c'è un piccolo problema. Boris, il mio bambino, è qui in questo albergo con me, e...
- Ah, sì, e mi fa molto piacere poter ospitare anche il ragazzo. Ci ho già pensato, e l'ho fatto spostare nella 342, la camera accanto alla sua. Gustav ha provveduto a trasferire il bambino questa mattina presto. Vede che non ha alcun motivo di preoccuparsi. Dunque la prego, dopo colazione, di tornare nella 343. Troverà là tutte le sue cose. Non è che un piano più in alto di dove è adesso, e sono sicuro che la troverà molto più consona ai suoi gusti. Ma naturalmente, se non dovesse piacerle, la prego di farmelo sapere immediatamente.
Lo ringraziai e riattaccai. Poi scesi dal letto, mi guardai di nuovo intorno e trassi un profondo respiro. Nella luce del mattino, la camera non aveva niente di speciale - non era che una tipica stanza d'albergo - e pensai che stavo dando mostra di un attaccamento assolutamente indecoroso. Tuttavia, mentre facevo la doccia e mi vestivo, mi sentii di nuovo propenso a un certo sentimentalismo. Poi all'improvviso mi venne in mente che prima di scendere a fare colazione, prima di qualsiasi altra cosa, dovevo andare a vedere che Boris stesse bene. Per quel che ne sapevo, in quel momento il bambino poteva essere solo e disorientato nella sua stanza. Finii in fretta di vestirmi e, dando un'ultima occhiata alle mie spalle, uscii dalla camera.
Stavo percorrendo il terzo piano in cerca della camera 342, quando udii un rumore e vidi Boris correre verso di me dal capo opposto del corridoio. Correva in maniera strana, e vedendolo mi bloccai all'istante. Poi mi accorsi che muoveva le mani come girasse un volante, e capii che stava impersonando il conducente di una macchina lanciata a folle velocità. Borbottava qualcosa in tono rabbioso all'invisibile passeggero alla sua destra, e quando mi passò accanto fece finta di non vedermi. Più avanti c'era una porta aperta, e quando le fu vicino urlò: - Attento! - poi deviò bruscamente nella camera. Dall'interno giunse il fracasso di uno schianto nell'interpretazione vocale di Boris. Mi avvicinai alla porta, controllai che fosse proprio la 342 ed entrai.
Trovai Boris disteso sul letto, con i due piedi per aria.
- Boris, - dissi, - non devi andare in giro correndo e urlando così. Siamo in un albergo. Magari c'è gente che dorme.
- Che dorme! A quest'ora?
Chiusi la porta alle mie spalle. - Non fare tutto questo chiasso. La gente si lamenterà.
- Peggio per loro se si lamentano. Dirò al nonno di fargliela vedere.
Aveva ancora i piedi per aria, e cominciò a sbattere pigramente le scarpe l'una contro l'altra. Mi sedetti e rimasi a guardarlo per un momento.
- Boris, devo parlarti. O meglio, dobbiamo parlarci tutti e due. Ci farà bene. Chissà quante domande hai da fare. Un po' su tutto. Per esempio, sul perché siamo in questo albergo.
Feci una pausa per dargli la possibilità di dire qualcosa, ma lui continuò a sbattere i piedi nell'aria.
- Boris, finora sei stato molto paziente, - proseguii. - Ma sono sicuro che ci sono tante cose che vorresti chiedermi. Mi spiace di non avere mai avuto il tempo di sedermi a chiacchierare con te come si deve. E mi spiace anche per la notte scorsa. $è stato increscioso, per tutti e due. Boris, chissà quante domande hai da fare. A qualcuna non sarà facile rispondere, ma cercherò di farlo meglio che posso.
Non so perché, mentre dicevo queste parole - forse al pensiero che non avrei mai più rivisto la mia vecchia stanza - fui colto da un profondo smarrimento e dovetti fare una pausa. Boris continuò ancora per un po' a battere i piedi, poi probabilmente le sue gambe cominciarono a stancarsi perché le lasciò ricadere sul letto. Mi schiarii la gola e dissi:
- Allora, Boris. Da dove cominciamo?
- Uomo solare! - strepitò improvvisamente Boris, e si mise a canticchiare ad alta voce le prime battute di una sigla musicale. Poi si scaraventò nello spazio tra il letto e la parete e sparì.
- Boris, sto parlando sul serio. Per amor del cielo. Dobbiamo parlarci di queste cose. Boris, per piacere, esci di lì.
Non vi fu risposta. Sospirai e mi alzai in piedi.
- Boris, voglio che tu sappia che puoi domandarmi quello che vuoi in qualsiasi momento. Qualunque cosa stia facendo, pianterò lì tutto e verrò a parlare con te. Anche se sarò con gente dall'aria molto importante. Voglio che tu capisca che per me nessuno è più importante di te. Boris, mi ascolti? Boris, vieni fuori di lì.
- Non posso. Non riesco a muovermi.
- Boris, per piacere.
- Non riesco a muovermi. Mi sono rotto tre vertebre.
- Va bene, Boris. Magari ne riparliamo quando sarai guarito. Adesso scendo a fare colazione. Senti, se ti fa piacere, dopo colazione possiamo tornare nella vecchia casa. Se vuoi, possiamo andare là a prendere la scatola. Quella di Numero Nove.
Di nuovo non ebbi risposta. Aspettai ancora un momento, poi aggiunsi: - Bene, pensaci, Boris. Io scendo a fare colazione.
Detto questo, uscii dalla camera, richiudendo piano piano la porta alle mie spalle.
Fui condotto in una lunga sala piena di sole di fianco all'atrio. Le grandi finestre davano sulla strada all'altezza del marciapiede, ma i pannelli inferiori erano di vetro opaco per dare un po' di intimità, e i rumori del traffico esterno giungevano attutiti. Alte palme e ventilatori al soffitto davano all'ambiente un aspetto vagamente esotico. Le tavole erano disposte in due lunghe file, e mentre percorrevo il corridoio centrale accompagnato dal cameriere, notai che in gran parte erano già state sparecchiate.
Il cameriere mi fece sedere verso il fondo e mi versò il caffè. Quando se ne andò, vidi che gli unici altri clienti erano una coppia che parlava spagnolo vicino all'ingresso e un vecchio che leggeva un giornale qualche tavolo più in là. Forse ero sceso a colazione per ultimo, ma insomma, avevo avuto una notte incredibilmente faticosa, e mi dissi che non avevo alcun motivo di sentirmi in colpa.
Anzi, mentre osservavo le palme che ondeggiavano dolcemente sotto i ventilatori accesi, mi sentii pervadere da un senso di appagamento. In fondo, avevo tutte le ragioni di essere soddisfatto di ciò che ero riuscito a fare in così poco tempo. Certo, molti aspetti di questa crisi locale erano ancora poco chiari, addirittura misteriosi. Ma ero arrivato da meno di ventiquattr'ore, ed ero sicuro che presto avrei scoperto anche le risposte a queste domande. Più tardi, per esempio, avrei fatto visita alla Contessa, dove avrei avuto modo non solo di rinfrescarmi la memoria sul lavoro di Brodsky ascoltando i suoi vecchi dischi, ma anche di analizzare l'intera crisi nei minimi particolari con la Contessa e il sindaco. Poi c'era la riunione con i cittadini più colpiti dai recenti problemi - la cui importanza io stesso avevo sottolineato il giorno prima alla signorina Stratmann - e l'incontro con Christoff. In altre parole, avevo ancora davanti a me parecchi degli appuntamenti più significativi, ed era inutile che cercassi già di trarre qualche conclusione o addirittura di pensare a come impostare il mio discorso. Per il momento, avevo ogni diritto di sentirmi soddisfatto delle informazioni che avevo già assimilato, e potevo sicuramente permettermi qualche minuto di indulgente rilassamento mentre facevo colazione.
Il cameriere tornò con carni fredde, formaggi e un cestino di pagnottelle fresche. Cominciai a mangiare senza fretta, versandomi di tanto in tanto una tazza di caffè forte, e quando Stephan Hoffman comparve nella sala da pranzo ero ormai molto prossimo alla pace interiore.
- Buon giorno, signor Ryder, - disse il giovane, sorridendomi e venendo verso di me. - Ho saputo che è appena sceso. Non voglio disturbare la sua colazione, e non mi tratterrò a lungo.
Poi rimase a ciondolare accanto al mio tavolo, con lo stesso sorriso appiccicato sul volto, aspettando che dicessi qualcosa. Solo allora mi ricordai del patto della notte precedente.
- Ah, sì, - dissi. - Il pezzo di Kazan. Sì -. Posai il coltello del burro e lo guardai. - Come sai è uno dei pezzi per pianoforte più difficili che siano mai stati composti. E dato che hai appena cominciato a studiarlo, be', non mi ha sorpreso sentire certe asperità. Non molto più di questo, semplici asperità. Con un pezzo del genere c'è poco da fare, ci vuole tempo. £Molto tempo.
Feci di nuovo una pausa. Il sorriso era sparito dalla faccia di Stephan.
- Ma nell'insieme, - proseguii, - e non lo dico alla leggera, ritengo che la tua esecuzione della notte scorsa fosse davvero molto promettente. A patto che tu vi dedichi il tempo necessario, sono sicuro che sarai in grado di dare un'ottima interpretazione di questo difficile pezzo. Naturalmente il guaio è...
Ma il giovane non mi stava più ascoltando. Avvicinandosi di un passo, disse:
- Signor Ryder, mi faccia capire. Sta dicendo che basta che mi eserciti? Che il pezzo è nelle mie possibilità? - Improvvisamente il suo volto si contorse, poi Stephan si piegò in due e picchiò il pugno sul ginocchio sollevato. Un attimo dopo si raddrizzò, respirò a fondo e mi guardò raggiante. - Signor Ryder, lei non ha idea, non ha idea di che cosa significhi questo per me. Che magnifico incoraggiamento, lei non ha idea! So che le sembrerò immodesto, ma le assicuro che ne ero certo sin dall'inizio, che nell'intimo ho sempre saputo che ce l'avrei fatta. Ma sentirselo dire da lei, proprio da lei, Dio mio, è fantastico! Questa notte, signor Ryder, non la finivo più di suonare. Ogni volta che stavo per cedere alla stanchezza, ogni volta che mi veniva la tentazione di smettere, una vocina dentro di me diceva: «Continua. Magari il signor Ryder è ancora lì fuori. Forse gli serve ancora un pochino per poter valutare». E allora ce la davo di nuovo tutta e mi rimettevo a suonare. Quando ho finito, circa due ore fa, le confesso che sono andato alla porta e ho sbirciato fuori. E naturalmente ho scoperto che lei era già andato a letto... com'è giusto, d'altronde. Ma non so come ringraziarla per essere rimasto lì ad ascoltare. Spero solo che non abbia perso troppo sonno per colpa mia.
- Oh, no, no. Sono rimasto dietro la porta per... per un po'. A sufficienza per poter giudicare.
- Non so come ringraziarla, signor Ryder. Questa mattina mi sento un altro. Le nuvole sono sparite dalla mia vita!
- Sentimi bene, non voglio che tu ti faccia un'idea sbagliata. Ti ho solo detto che quel pezzo sei in grado di suonarlo. Non che hai abbastanza tempo per...
- Al tempo ci penso io. Approfitterò di ogni momento libero per sedermi al pianoforte ed esercitarmi. Rinuncerò a dormire. Non si preoccupi, signor Ryder. Domani sera i miei genitori saranno fieri di me.
- Domani sera? Oh, certo...
- Oh, ma che egoista, continuo a parlare di me stesso e non le ho nemmeno fatto i complimenti per lo strepitoso successo della notte scorsa. Mi riferisco alla cena. In città ne parlano tutti. $è stato davvero un discorso affascinante.
- Grazie. Sono contento che sia piaciuto.
- E sono sicuro che ha contribuito in maniera determinante a creare le condizioni per ciò che è accaduto dopo. Sì, pare che... questa è la notizia £veramente buona che avrei dovuto darle subito... Come sa, ieri sera c'era anche la signorina Collins. Ebbene, pare che a un certo punto, mentre stava andando via, la signorina Collins abbia scambiato un sorriso con il signor Brodsky. Sì, non è una storia! Ci sono molti testimoni. Persino papà li ha visti. Lui non aveva cercato in alcun modo di farli incontrare; era stato ben attento a non forzare troppo le cose, soprattutto perché la signorina Collins doveva ancora dare una risposta per l'incontro allo zoo. Ma mentre la signorina stava andando via, il signor Brodsky l'ha vista uscire e si è alzato in piedi. Era rimasto seduto al suo tavolo per tutta la sera, anche se ormai gli invitati se ne andavano in giro liberamente, come fanno sempre. Ma ecco che si è alzato e ha guardato in direzione della porta, dove la signorina Collins stava augurando la buona notte ad alcune persone. Uno dei consiglieri, penso fosse il signor Weber, la stava accompagnando fuori, ma l'istinto deve averla messa sull'avviso. Fatto sta che si è girata a dare un'ultima occhiata alla sala, e naturalmente ha visto il signor Brodsky in piedi che la fissava. Papà se ne è accorto, e come lui parecchia altra gente, e nella sala il brusio è scemato. Papà dice che per un terribile istante ha temuto che la signorina Collins gelasse il signor Brodsky con uno sguardo d'odio. Dalla faccia che aveva, sembrava proprio sul punto di farlo. Ma all'ultimo momento, gli ha sorriso. Sì, ha rivolto al signor Brodsky un sorriso! Poi è uscita. Il signor Brodsky, be', può immaginare che cosa deve essere stato per lui. Pensi un po', dopo tutti questi anni! Poco fa ho visto mio padre, e mi ha detto che il signor Brodsky sta lavorando con rinnovato vigore. $è già al pianoforte da un'ora! Meno male che l'ho lasciato libero! Papà dice che questa mattina gli sembra un'altra persona, l'ultima al mondo che abbia bisogno di un bicchierino. Un vero trionfo per papà e per gli altri, ma sono sicuro che il suo discorso ha dato un contributo determinante. Stiamo ancora aspettando una risposta dalla signorina Collins, per sapere se verrà allo zoo, ma dopo quanto è successo questa notte non possiamo fare a meno di essere ottimisti. Dio mio, che mattinata! Bene, signor Ryder, non mi tratterrò oltre, sono sicuro che non vede l'ora di finire la sua colazione. Voglio solo dirle ancora una volta grazie di tutto. Sono sicuro che ci incontreremo di nuovo nell'arco della giornata, e le dirò come vanno le cose con il pezzo di Kazan.
Gli augurai buona fortuna e lo osservai mentre usciva a passo baldanzoso dalla sala.
L'incontro con il giovane Stephan mi lasciò più soddisfatto che mai. Per parecchi minuti continuai la colazione con la stessa calma di prima, godendomi soprattutto il sapore fresco del burro locale. A un certo punto il cameriere mi portò un altro bricco di caffè, poi scomparve di nuovo. Dopo un po', non so perché, mi accorsi che stavo cercando di ricordare la risposta a una domanda che mi aveva fatto tanti anni prima un signore seduto accanto a me in aereo. Nelle finali dei Mondiali di calcio avevano giocato tre coppie di fratelli, mi aveva detto. Ne ricordavo i nomi? Io avevo trovato una scusa per tornare al mio libro, perché non avevo nessuna voglia di conversare. Ma da allora, nei rari momenti come questo, in cui disponevo di qualche minuto tutto per me, la domanda di quel signore mi tornava in mente. La cosa più fastidiosa era che c'erano delle volte in cui riuscivo a ricordare tutte e tre le coppie di fratelli, ma altre in cui scoprivo di averne dimenticata ora l'una ora l'altra. E così mi stava succedendo quella mattina. Ricordavo che i fratelli Charlton avevano giocato con l'Inghilterra nella finale del 1966, e i fratelli Van der Kerkhof con l'Olanda nel 1978. Ma per quanto mi sforzassi non riuscivo a ricordare la terza coppia. Dopo un po' cominciai a provare una profonda irritazione nei miei confronti, e arrivai persino a stabilire che non mi sarei alzato da tavola e non mi sarei dedicato agli impegni della giornata se prima non fossi riuscito a ricordare la terza coppia di fratelli.
Fui strappato alle mie fantasticherie da Boris. Vidi che era entrato nella sala e si stava dirigendo verso di me. Avanzava per gradi, passando con noncuranza dall'uno all'altro dei tavoli vuoti, come se stesse avvicinandosi a me per puro caso. Evitava di guardarmi, e anche quando arrivò al tavolo accanto al mio, rimase a palpeggiarne la tovaglia dandomi la schiena.
- Boris, hai già fatto colazione? - domandai.
Il bambino continuò a giocherellare con la tovaglia. Poi, con un tono che stava a significare che la risposta gli era indifferente, mi chiese: - Andiamo nella vecchia casa?
- Se vuoi. Ti ho promesso che se volevi ci saremmo andati. Ti farebbe piacere?
- Non devi lavorare?
- Sì, ma posso rimandare il lavoro a più tardi. Se vuoi, andiamo pure. Ma in quel caso dobbiamo partire subito. Sai anche tu che ho una giornata molto piena.
Boris parve riflettere. Continuava a darmi le spalle e a giocherellare con la tovaglia.
- Allora, Boris? Andiamo?
- Ci sarà Numero Nove?
- Penso di sì -. Poi capii che dovevo prendere io l'iniziativa; mi alzai e gettai il tovagliolo accanto al piatto. - Muoviamoci, Boris. Sembra che fuori ci sia un bel sole. Non dobbiamo nemmeno salire a prendere la giacca. Su, andiamo.
Boris esitava ancora, ma gli misi un braccio sulle spalle e lo condussi fuori della sala.
Mentre attraversavamo l'atrio, mi accorsi che il portiere mi stava facendo dei cenni.
- Signor Ryder, - disse. - I giornalisti sono tornati. Ho pensato che per il momento era meglio mandarli via, ma gli ho detto di riprovare fra un'ora. Non si preoccupi, sono estremamente disponibili.
Riflettei un momento, poi dissi: - Purtroppo in questo momento ho una cosa importante da fare. Sia così gentile da dire a quei signori di combinare un appuntamento con la signorina Stratmann. E adesso, se non le spiace, dobbiamo proprio andare.
Solo quando fummo fuori dell'albergo, sul marciapiede assolato, mi accorsi che non ricordavo la strada per andare alla vecchia casa. Per qualche secondo rimasi a osservare il traffico che scorreva lentamente davanti a noi, finché Boris, forse intuendo il mio problema, disse: - Possiamo prendere il tram. Davanti alla stazione dei pompieri.
- Benissimo. Fai strada tu, allora.
Il traffico era così rumoroso che per qualche minuto non scambiammo quasi parola. Avanzammo scansando la gente lungo i marciapiedi affollati, attraversammo due stradine molto animate, poi sbucammo su un largo corso con le rotaie del tram e parecchie carreggiate intasate dal traffico. Il marciapiede era molto più largo, e potemmo camminare più speditamente tra la gente, passando davanti a banche, uffici e ristoranti. Dopo un po' udii dietro di me dei passi che si avvicinavano di corsa e sentii una mano toccarmi la spalla.
- Signor Ryder! Finalmente!
L'uomo che vidi girandomi somigliava a un cantante rock sul viale del tramonto. Aveva una faccia sciupata e lunghi capelli sudici con la riga in mezzo. La camicia e i pantaloni erano larghi e color panna.
- Con chi ho il piacere? - domandai cautamente, notando che Boris guardava l'uomo con sospetto.
- Che disgraziatissima serie di malintesi! - disse l'uomo ridendo. - Ci avranno dato dieci appuntamenti diversi. E ieri sera abbiamo aspettato più di due ore, ma non importa! Sono cose che capitano. Immagino che non sia colpa sua, signor Ryder. Anzi, ne sono sicuro.
- Ah, sì. E questa mattina eravate di nuovo lì. Sì, sì, il portiere me l'ha detto.
- E deve esserci stato un altro malinteso -. Il capellone fece spallucce. - Ci hanno detto di tornare dopo un'ora. Così stavamo ammazzando il tempo in quel caffè, io e il fotografo. Ma già che è passato di qui, mi chiedevo se non sarebbe meglio sbrigare subito l'intervista e le foto. Così non dovremo più disturbarla. Naturalmente, ci rendiamo conto che un personaggio come lei ha cose ben più importanti da fare che rilasciare interviste a un piccolo quotidiano locale come il nostro...
- Al contrario, - mi affrettai a dire. - Do sempre la massima importanza ai giornali come il vostro. Voi avete la chiave per aprire il cuore della gente. Le persone come voi sono preziosissime per conoscere una città.
- La ringrazio per le sue gentili parole, signor Ryder. Gentili e, se posso dire, acute.
- Ma come stavo per aggiungere, purtroppo in questo momento sono già occupato.
- Certo, certo. Proprio per questo le proponevo di toglierci subito il pensiero, così non dobbiamo continuare a disturbarla per tutto il giorno. Il nostro fotografo, Pedro, è in quel caffè. Può scattarle qualche rapida foto, mentre io le faccio due o tre domande. Poi può correre con questo giovanotto ovunque foste diretti. In tutto non ci vorranno più di quattro o cinque minuti. Mi sembra di gran lunga la soluzione più semplice.
- Hmm. Solo qualche minuto, dice?
- Oh, saremo più che felici se ci concede qualche minuto. Sappiamo benissimo che il suo tempo è prezioso e che ha cose più importanti da fare. Come le dico, siamo laggiù. In quel caffè.
L'uomo indicò un punto non molto lontano, dove un po' di tavoli e di sedie si erano riversati sul marciapiede. Non aveva certo l'aspetto di un posto che avrei scelto per un'intervista, ma pensai che così, almeno, avrei chiuso l'argomento giornalisti.
- D'accordo, - dissi. - Ma voglio ricordarle ancora una volta che questa mattina sono occupatissimo.
- Signor Ryder, lei è un angelo. E per un umile giornale come il nostro! Bene, sbrighiamoci, allora. La prego, da questa parte.
Il giornalista capellone si avviò per il marciapiede, e dalla fretta di tornare nel suo caffè rischiò di sbattere contro un passante. Presto ci distanziò di qualche passo, e io ne approfittai per dire a Boris:
- Non preoccuparti, ci metto pochissimo. Te lo garantisco.
Boris continuava a tenermi il broncio, così aggiunsi:
- Senti, mentre aspetti, perché non ti mangi qualcosa di buono? Un gelato o una fetta di torta di ricotta. Poi filiamo via.
Ci fermammo davanti a uno stretto cortile pieno di ombrelloni.
- Eccoci arrivati, - disse il giornalista indicando uno dei tavoli. - Siamo seduti là.
- Se non le spiace, - gli dissi, - prima voglio sistemare Boris dentro il bar. Vi raggiungo fra un minuto.
- Ottima idea.
Molti dei tavolini esterni erano occupati, ma dentro non c'era nessuno. Il locale, arredato in stile leggero e moderno, era inondato di sole. Dietro il banco di vetro in cui erano esposti i dolci e i pasticcini c'era una cameriera giovane e grassottella dall'aspetto nordico. Non appena Boris si sedette a un tavolino nell'angolo, la giovane donna venne verso di noi con un sorriso.
- Che cosa gradisci? - domandò a Boris. - Questa mattina abbiamo le torte più fresche della città. Sono arrivate da appena dieci minuti. $è tutto freschissimo.
Boris la interrogò a fondo sui diversi dolci, poi scelse la torta di ricotta con le mandorle e il cioccolato.
- Bene, - gli dissi. - Vado un momento da quelle persone e torno subito. Se hai bisogno di qualcosa, mi trovi fuori.
Boris fece spallucce; aveva occhi solo per la cameriera, che stava estraendo dalla vetrina un dolce tutto arzigogolato. 12.
Quando tornai nel cortile, non vidi più il giornalista capellone. Passeggiai per un po' tra gli ombrelloni, scrutando in faccia le persone sedute ai tavolini. Dopo avere fatto tutto il giro del cortile, presi in esame la possibilità che il giornalista avesse cambiato idea e fosse andato via. Ma la cosa mi parve così inaudita che ricominciai a guardarmi intorno. C'erano parecchie persone che leggevano il giornale davanti a una tazza di caffè. Un vecchio stava parlando con i piccioni che si erano radunati intorno ai suoi piedi. Poi udii fare il mio nome, mi girai e vidi il giornalista seduto proprio al tavolino alle mie spalle. Conversava fitto fitto con un individuo atticciato, di carnagione scura, che presi per il fotografo. Prorompendo in un'esclamazione, mi avvicinai, ma stranamente i due uomini proseguirono la loro discussione senza degnarmi di uno sguardo. Anche quando scostai l'unica sedia libera e mi sedetti, il giornalista - che era a metà di una frase - si limitò a darmi un'occhiata di sfuggita. Poi, rivolgendosi di nuovo al fotografo dalla pelle olivastra, continuò:
- Quindi non fare alcun accenno al significato dell'edificio. Dovrai inventarti qualche scusa pseudoartistica per spiegargli perché lo vuoi sempre lì davanti.
- Sta tranquillo, - disse il fotografo annuendo. - Sta tranquillo.
- Ma non essere troppo insistente. Sembra che sia stato questo l'errore di Schulz a Vienna, il mese scorso. E ricordati che quelli come lui sono sempre molto vanitosi. Quindi fa finta di essere un suo ammiratore sfegatato. Digli che al giornale non lo sapevano, quando hanno deciso di mandare te, ma che si dà il caso che sia proprio il tuo idolo. Lo conquisterai. Ma non tirare in ballo l'edificio Sattler prima di avere instaurato un buon rapporto.
- Va bene, va bene -. Il fotografo continuava ad annuire. - Però pensavo che la cosa fosse ormai combinata. Che tu l'avessi già convinto.
- Volevo provare a farlo per telefono, ma Schulz me l'ha consigliato, pare che lo stronzo sia un osso duro -. Mentre diceva queste parole, il giornalista si girò verso di me e mi sorrise educatamente. Il fotografo, seguendo lo sguardo del compagno, mi fece un cenno distratto con il capo, poi i due riattaccarono a discutere.
- Il guaio di Schulz, - disse il giornalista, - è che non li adula mai abbastanza. E poi ha un modo di fare, come se avesse sempre fretta, anche quando non ce l'ha. Questa gente, non devi smettere un istante di adularla. Quindi, mentre scatti, continua a gridare «magnifico». Continua a esclamare. Alimenta senza sosta il suo narcisismo.
- Va bene, va bene. Sta' tranquillo...
- Allora comincerò io con... - Il giornalista sospirò stancamente. - Comincerò a parlare del concerto di Vienna, o di qualcosa del genere. Mi sono preso degli appunti, e farò un po' di scena. Ma cerchiamo di non sprecare troppo tempo. Dopo qualche minuto salti fuori tu dicendo che ti è venuta l'ispirazione di andare all'edificio Sattler. All'inizio fingerò di essere un po' scocciato, ma poi finirò con l'ammettere che è una bella idea.
- Va bene, va bene.
- Adesso sai tutto. Vedi di non fare errori. Ricordati che abbiamo che fare con un bastardo permaloso.
- Ho capito.
- Se le cose girano storte, tu pensa solo ad adularlo.
- D'accordo, d'accordo.
I due uomini si fecero un cenno di intesa. Poi il giornalista respirò a fondo, batté le mani l'una contro l'altra e si girò verso di me, illuminandosi improvvisamente in volto.
- Ah, eccola qui, signor Ryder! $è davvero gentile a concederci un po' del suo tempo prezioso. E il giovanotto, è là dentro che se la gode, immagino?
- Oh, sì. Ha ordinato un'enorme fetta di torta di ricotta.
I due uomini risero compiaciuti. Il fotografo dalla pelle olivastra sorrise scoprendo i denti e disse:
- Torta di ricotta. La mia preferita. Anche quando ero piccolo.
- A proposito, signor Ryder, questo è Pedro.
Il fotografo sorrise di nuovo e mi porse prontamente la mano. - Felicissimo di conoscerla, signor Ryder. Questo è il sogno della mia vita, glielo assicuro. Mi hanno assegnato l'incarico solo questa mattina. Quando mi sono alzato, mi aspettava l'ennesimo servizio nelle aule del municipio. Poi, mentre faccio la doccia, mi arriva questa telefonata. Hai voglia di andarci tu? mi chiedono. Se ne ho voglia? Accidenti, quell'uomo è il mio idolo da quando ero bambino, gli rispondo. Se ne ho voglia? Cristo, ci vado gratis. Anzi, vi pago per andarci, gli rispondo. Ditemi solo dove devo andare. Giuro che non sono mai stato tanto eccitato per un lavoro.
- Deve sapere, signor Ryder, - disse il giornalista, - che il fotografo che mi ha accompagnato ieri sera in albergo, be', dopo due ore che aspettavamo ha incominciato a spazientirsi. Naturalmente la cosa mi ha fatto arrabbiare. «Tu non capisci, - gli ho detto. - Se il signor Ryder è in ritardo, significa che è stato trattenuto da impegni improrogabili. E se è così gentile da concederci un po' del suo tempo e ci fa aspettare, be', si aspetta e basta». Glielo giuro, mi ha fatto proprio arrabbiare. E quando siamo tornati al giornale ho detto al direttore che così non andava. «Trovami un altro fotografo per domani mattina, - gli ho chiesto. - Voglio qualcuno che si renda ben conto che il signor Ryder è una celebrità e sappia dimostrargli la dovuta riconoscenza». Sì, me la sono proprio presa. Comunque, adesso c'è Pedro, che a quanto
pare l'ammira come me.
- Molto di più, molto di più, - protestò Pedro. - Questa mattina, quando ho ricevuto la telefonata, non riuscivo a crederci. Il mio idolo era in città e io gli avrei fatto le foto. Cristo, farò il più bel servizio della mia vita, ecco quello che mi sono detto mentre finivo la doccia. Per uno come lui, devi superarti. Portalo davanti all'edificio Sattler. $è quello che ci vuole, mi sono detto, e mentre finivo la doccia mi figuravo già l'inquadratura nei minimi particolari.
- Senti, Pedro, - disse il giornalista, lanciandogli un'occhiata severa, - dubito molto che il signor Ryder abbia voglia di andare fino all'edificio Sattler per le nostre fotografie. $è vero che è a pochi minuti d'auto di qui, ma pochi minuti sono pur sempre un tempo non indifferente per una persona con un programma scandito al secondo. No Pedro, dovrai fare del tuo meglio qui, scattare qualche foto al signor Ryder mentre chiacchieriamo a questo tavolo. Sì, lo so, un caffè all'aperto è banale, difficilmente riuscirà a mettere in risalto lo straordinario carisma che emana dal signor Ryder. Ma dovrai arrangiarti. Ammetto che l'idea del signor Ryder sullo sfondo dell'edificio Sattler è suggestiva. Ma purtroppo lui non ha tempo. Dovremo accontentarci di un'immagine molto più ordinaria.
Pedro si batté il pugno sul palmo della mano e scosse la testa. - Sì, probabilmente hai ragione. Però, accidenti, è dura da accettare. L'occasione di riprendere il grande Ryder, una di quelle occasioni che capitano una sola volta nella vita, e devo accontentarmi della solita inquadratura in un caffè. Dico io se la vita deve farti di questi scherzi -. Il fotografo scosse di nuovo la testa tristemente. Poi, per qualche istante, i due rimasero lì a fissarmi.
- Be', - dissi, - questo vostro edificio. $è veramente a pochi minuti d'auto di qui?
Pedro si raddrizzò di scatto sulla sedia, con la faccia che brillava d'entusiasmo.
- Dice davvero? Poserà davanti all'edificio Sattler? Dio mio, che colpo! Lo sapevo che lei era un tipo coi fiocchi!
- Ehi, un momento...
- Ne è sicuro, signor Ryder? - mi domandò il giornalista afferrandomi per il braccio. - Ne è proprio sicuro? So che ha un programma molto fitto. Accidenti, ma è fantastico! E le assicuro che in taxi non ci vogliono più di tre minuti. Anzi, se mi aspetta qui, vado a chiamarne uno. Pedro, mentre mi aspettate, perché non ne approfitti per fare qualche foto al signor Ryder?
Il giornalista scappò via. Un attimo dopo lo vidi sull'orlo del marciapiede, tutto proteso verso il traffico che gli veniva incontro, con un braccio sollevato in aria.
- Signor Ryder. Per piacere.
Pedro si era piegato su un ginocchio e mi guardava attraverso l'obbiettivo strizzando la palpebra. Mi sistemai sulla sedia - assumendo un atteggiamento disteso ma non esageratamente languido - e sfoderai un sorriso cordiale.
Pedro fece scattare un paio di volte l'otturatore. Poi si allontanò di qualche passo e si accucciò di nuovo, questa volta accanto a un tavolino vuoto; così facendo, disturbò una frotta di piccioni che becchettavano le briciole. Stavo per cambiare posizione, quando il giornalista tornò di corsa.
- Signor Ryder, non riesco a trovare un taxi, ma sta arrivando il tram. Se si sbriga riusciamo ad acchiapparlo. Pedro, in fretta, il tram.
- Ma non ci metteremo di più che in taxi? - domandai.
- No, no. Anzi, con questo traffico, il tram ci metterà meno. Davvero, signor Ryder, non deve preoccuparsi. L'edificio Sattler e vicinissimo. Anzi, - il giornalista alzò una mano per schermarsi gli occhi e guardò in lontananza, - anzi, si vede quasi di qui. Se non fosse per quella torre grigia laggiù, lo vedrebbe anche adesso. Per dirle come siamo vicini. Anzi, se una persona di altezza normale... come me o come lei... se una persona così salisse in piedi sul tetto dell'edificio Sattler e tenesse sollevato un oggetto con un manico... che so, una scopa, per esempio... in una mattina come questa riusciremmo a vederlo senza difficoltà sopra la torre grigia. Capisce anche lei che ci si arriva in un baleno. Ma la prego, c è il tram, dobbiamo spicciarci.
Pedro, con la pesante borsa dell'attrezzatura in spalla, era già alla fermata. Vidi che stava cercando di convincere il tramviere ad aspettarci. Seguii il giornalista fuori del cortile e salii a bordo.
Mentre il tram ripartiva, ci facemmo largo lungo il corridoio. La carrozza era affollata, e non riuscimmo a sederci tutti e tre vicini. Io mi infilai in un sedile verso il fondo, tra un vecchietto e una madre giunonica che teneva un bambino in grembo. Il sedile era stranamente comodo, e dopo pochi istanti cominciai a godermi il viaggio. Davanti a me c'erano tre anziani signori che leggevano un unico giornale tenuto aperto da quello seduto in mezzo. Gli scossoni del tram sembravano metterli in difficoltà, e di tanto in tanto i tre lettori si azzuffavano per imporre una determinata pagina.
Stavamo viaggiando da un po', quando mi accorsi di un certo fermento intorno a me e vidi una donna in divisa da controllore avanzare lungo il corridoio. Pensai subito che i miei compagni dovevano avere fatto il biglietto anche per me; salendo, io non avevo certo pagato. Quando mi girai di nuovo a guardare, il controllore, una donnina in una brutta uniforme nera che non riusciva a nascondere del tutto le sue grazie, aveva quasi raggiunto il nostro settore della carrozza. Intorno a me i passeggeri stavano tirando fuori biglietti e tessere. Ricacciai la sensazione di panico e mi preparai a dire qualcosa di dignitoso e allo stesso tempo convincente.
Poi di colpo il controllore fu al nostro fianco. Tutti i miei vicini porsero il biglietto, e mentre la donna era ancora intenta a perforarli, dichiarai con voce ferma:
- Io sono senza biglietto, ma ciò è dovuto a particolari circostanze che, se mi permette, le spiegherò.
La donna mi guardò. Poi disse: - Non avere il biglietto è un conto. Ma quello che mi hai fatto ieri sera è stato proprio un brutto tiro.
Nel momento in cui diceva queste parole, riconobbi Fiona Roberts, una bambina che frequentava la mia stessa scuoletta elementare nel Worcestershire. Quando avevo nove anni, eravamo diventati molto amici. Viveva vicino a noi, in una casetta simile alla nostra poco più giù lungo la strada, e io andavo spesso il pomeriggio a giocare da lei, soprattutto durante il difficile periodo che aveva preceduto la nostra partenza per Manchester. Non la vedevo più da allora, quindi la sua accusa mi colse un po' di sorpresa.
- Ah, - dissi. - Ieri sera. Sì, certo.
Fiona Roberts continuò a fissarmi. Sarà stato per il suo sguardo pieno di rimprovero, ma all'improvviso mi ricordai di un pomeriggio della nostra infanzia, in cui ce ne stavamo sotto il tavolo da pranzo dei suoi. Come al solito, avevamo creato il nostro «covo» appendendo un vasto assortimento di coperte e tende sui lati del tavolo. Quel pomeriggio faceva caldo e c'era il sole, ma noi avevamo insistito per stare nel nostro covo, in un calore soffocante e nella semioscurità. Ero sconvolto e avevo parlato a lungo a Fiona. Lei aveva cercato di interrompermi più di una volta, ma io avevo continuato. Alla fine della mia tirata, Fiona aveva detto:
- Sei sciocco. Questo vuol dire che resterai solo. Ti verrà la malinconia.
- Non me ne importa, - avevo detto. - Mi piace stare solo.
- Questa è un'altra sciocchezza. A nessuno piace stare solo. £Io avrò una grande famiglia. Almeno cinque figli. E tutte le sere preparerò loro una cena deliziosa -. Poi, vedendo che non ribattevo, aveva ripetuto: - Sei sciocco. A nessuno piace restare solo.
- A me sì.
- Ma una cosa così non può £piacere.
- Invece a me piace.
In realtà l'avevo detto con una certa convinzione. Erano infatti parecchi mesi che avevo cominciato i miei «allenamenti»; anzi, è probabile che quella particolare ossessione fosse giunta al culmine proprio in quel periodo.
Gli «allenamenti» erano nati in maniera del tutto imprevista. Un pomeriggio di cielo grigio, mentre giocavo da solo per strada, assorto in chi sa quali fantasticherie - ricordo che entravo e uscivo da un fosso asciutto che correva tra una fila di pioppi e un campo - ero stato colto all'improvviso da una sensazione di terrore e dal bisogno di sentire vicini i miei genitori. Casa nostra non era lontana - riuscivo a vederne il retro in fondo al campo - ma la sensazione di terrore era andata rapidamente crescendo, finché ero stato lì lì per cedere e mettermi a correre all'impazzata verso casa nell'erba alta. Ma per qualche ragione - forse perché avevo subito collegato la paura a un'idea di immaturità - mi ero costretto a resistere ancora qualche istante. Nella mia mente non dubitavo affatto che da un momento all'altro sarei partito come una scheggia attraverso il campo. Si trattava semplicemente di rimandare il momento di qualche secondo con uno sforzo di volontà. Mentre me ne stavo lì immobile nel fosso asciutto, avevo provato uno strano miscuglio di paura e di ebbrezza, una sensazione che avrei imparato a conoscere bene nelle settimane successive. In pochi giorni, infatti, i miei «allenamenti» erano diventati una caratteristica regolare e importante della mia vita. Con il passare del tempo avevano acquistato una certa ritualità, tanto che non appena sentivo affacciarsi il bisogno di tornare a casa mi costringevo ad andare in un punto particolare della strada, sotto una grande quercia, dove restavo parecchi minuti a lottare con le mie emozioni. Spesso decidevo che avevo resistito abbastanza, che potevo finalmente mettermi a correre, ma solo per trattenermi di nuovo, per forzarmi a restare sotto l'albero ancora per qualche secondo. Non c'è dubbio che in queste occasioni il terrore che mi assaliva fosse accompagnato da un brivido di piacere, altrimenti non si spiegherebbe perché avessi finito con il non poter fare a meno dei miei «allenamenti».
- Ma lo sai, no, - mi aveva detto Fiona quel pomeriggio, avvicinando la sua faccia alla mia nell'oscurità, - che quando ti sposerai £tu, non è mica obbligatorio che le cose vadano come tra la tua mamma e il tuo papà. Non sarà affatto così. I mariti e le mogli non bisticciano mica in continuazione. Bisticciano solo quando... quando succedono certe cose.
- Quali cose?
Fiona era rimasta zitta per qualche istante. Stavo per rifarle la domanda, questa volta più aggressivamente, quando, con cautela, mi aveva detto:
- I tuoi genitori non bisticciano così perché non vanno d'accordo. Non lo sai? Non lo sai perché litigano in continuazione?
Poi all'improvviso si era sentita una voce arrabbiata fuori del nostro covo, e Fiona era sparita. Io ero rimasto tutto solo sotto il tavolo, al buio, e mentre ero lì mi erano giunti dalla cucina i brandelli di una discussione bisbigliata tra Fiona e sua madre. A un certo punto avevo udito Fiona ripetere in tono offeso: - Ma perché no? Perché non posso dirglielo? Lo sanno tutti -. E sua madre dire, sempre sottovoce: - $è più piccolo di te. $è troppo piccolo. Non devi parlargliene.
Questi ricordi si interruppero quando Fiona Roberts si avvicinò di un passo e mi disse:
- Ho aspettato fino alle dieci e mezzo. Poi ho detto che mangiassero pure. Stavano morendo di fame.
- Certo. Naturalmente -. Risi fiaccamente e mi guardai intorno. - Le dieci e mezzo. Be', sì, a quell'ora è inevitabile che venga fame...
- E a quell'ora era anche ovvio che non saresti venuto. Nessuno ci credeva più.
- No. Sicuramente a quell'ora...
- All'inizio era andata a meraviglia, - disse Fiona Roberts. - Non avevo mai organizzato niente di simile, ma stava andando a meraviglia. C'erano tutte, Inge, Trude, tutte a casa mia. Ero un po' tesa, ma le cose andavano a meraviglia, e io non stavo più nella pelle dall'eccitazione. Certe di loro si erano preparate con cura per la serata, sono arrivate con cartelline piene di informazioni e fotografie. $è andato tutto bene fin verso le nove, poi ha cominciato a serpeggiare un po' di nervosismo, e per la prima volta mi è balenato il sospetto che tu non venissi. Continuavo a entrare e uscire dal salotto portando altro caffè, riempiendo le ciotole degli stuzzichini, cercando di tener viva la conversazione. Vedevo bene che cominciavano a bisbigliare, ma mi illudevo che saresti ancora arrivato, che fossi solo rimasto bloccato dal traffico. Poi si è fatto sempre più tardi, e alla fine tutte parlavano e bisbigliavano apertamente. Sai, persino mentre ero in salotto. In casa mia! $è stato allora che ho detto che mangiassero pure. Ormai volevo solo farla finita. Così si sono sedute e hanno cominciato a mangiare, sai, avevo preparato una montagna di frittatine, e qualcuna ha continuato a bisbigliare e a ridacchiare persino mangiando, come quell'Ulrike. Be', ti dirò che in un certo senso preferivo quelle che ridacchiavano. Le preferivo alle serpi come Trude, che fingevano di commiserarmi, che si sforzavano di essere gentili sino in fondo. Oh, come la detesto quella donna! Gliel'ho letto negli occhi, quando se ne è andata, che pensava: «Poveretta. Vive di fantasie. Dovevamo immaginarlo». Oh, le odio tutte, e non mi perdonerò mai di essermi lasciata immischiare. Ma vedi, sono quattro anni che vivo in quel complesso residenziale, e non avevo ancora fatto una sola amicizia come si deve. Ero sola come un cane. Per anni quelle donne, quelle stesse che ieri sera erano a casa mia, non hanno voluto avere niente che fare con me. Si considerano l'élite del nostro complesso residenziale, capisci. Si fanno chiamare Fondazione Femminile di Arte e Cultura. $è una sciocchezza, perché la loro non è una vera fondazione, ma pensano che suoni bene. Ogni volta che in città si organizza qualcosa si danno un gran daffare. Per esempio, quando è venuto il Balletto di Pechino, hanno preparato tutte le bandierine per il ricevimento di benvenuto. Fatto sta che si considerano un gruppo molto esclusivo, e fino a poco tempo fa non avrebbero mai degnato una come me. Quando ci incontravamo, quella Inge non mi salutava nemmeno. Ma naturalmente le cose sono cambiate non appena si è saputo. Che ti conoscevo, voglio dire. Non so come sia saltato fuori, io non sono certo andata in giro a vantarmene. Probabilmente devo averlo accennato a qualcuna di loro. Be', come puoi immaginare, quello ha cambiato tutto. Un giorno, qualche tempo fa, la stessa Inge mi ha fermato per le scale e mi ha invitata a una delle loro riunioni. In realtà io non avevo nessuna voglia di lasciarmi immischiare, ma ci sono andata lo stesso, forse pensando che finalmente avrei fatto qualche amicizia, non so. Be', in principio parecchie di loro, fra cui Inge e Trude, non sapevano bene se crederci o no, capisci, al fatto che fossi una tua vecchia amica. Ma alla fine hanno preso la cosa per buona, probabilmente perché avevano voglia di farsi belle. L'idea di occuparsi dei tuoi genitori non è stata mia, ma ovviamente il fatto che ti conoscessi ha avuto il suo peso. Quando si è saputo della tua visita, Inge è andata dal signor von Braun e gliel'ha contata; gli ha detto che ormai la Fondazione era pronta, dopo il Balletto di Pechino, pronta ad assumersi un impegno importante per davvero, e che tra l'altro nel gruppo c'era una tua vecchia amica. Cose di questo genere. E così la Fondazione ha ricevuto l'incarico. Di occuparsi dei tuoi genitori durante il loro soggiorno qui in città. E tutte naturalmente erano elettrizzate, anche se qualcuna ha cominciato a spaventarsi per la grande responsabilità. Ma Inge ci ha dato fiducia, dicendo che questo incarico non era nulla di più di quanto meritassimo. Abbiamo fatto riunioni su riunioni, in cui proponevamo le nostre idee su come intrattenere i tuoi. Inge ci ha detto... mi è rincresciuto sentirlo... che i tuoi genitori non stavano bene, e quindi che molte delle attività più ovvie, come le visite guidate della città, eccetera, non erano adatte. Ma le idee si sprecavano, e tutte cominciavano a essere eccitatissime. Poi, all'ultima riunione, una ha detto, be', perché non chiedere a £te di venire a conoscerci di persona? Per discutere di ciò che sarebbe potuto piacere ai tuoi genitori? C'è stato un momento di silenzio tombale. Poi Inge ha detto: «Perché no? In fondo, chi è più qualificato di noi per invitarlo?» E subito tutte si sono girate verso di me. Così alla fine ho detto: «Be', immagino che sarà molto impegnato, ma se volete posso provare a chiederglielo». E ho visto che non stavano più nella pelle. Poi, quando è arrivata la tua risposta, sono diventata una principessa, hanno cominciato a trattarmi con ogni riguardo, sorridendomi e vezzeggiandomi ogni volta che mi incontravano, portando regalini ai bambini, offrendosi di fare questo o quello per me. Quindi puoi immaginare che cosa devono avere pensato ieri sera quando non sei comparso.
Fiona Roberts trasse un profondo sospiro e tacque per un momento, fissando con sguardo assente le case che passavano davanti al finestrino. Poi prosegui:
- Immagino che non dovrei prendermela con te. In fondo, non ci vedevamo da molto tempo. Ma pensavo che saresti venuto per i tuoi genitori. Avevamo così tante idee su come intrattenerli. Questa mattina sparleranno tutte di me. Non ce n'è quasi nessuna che lavora, hanno mariti che guadagnano bene; staranno telefonandosi o facendosi visita, e si diranno: «Povera donna, vive in un mondo tutto suo. Dovevamo accorgercene prima. Mi piacerebbe poter fare qualcosa per aiutarla, peccato però che sia così £noiosa». Mi pare di sentirle, se la staranno godendo un mondo. E Inge sarà anche furiosa. «Quella puttanella ci ha prese in giro», starà pensando. Ma sarà contenta, sollevata. Vedi, anche se l'idea che ti conoscessi le piaceva, mi ha sempre considerata una minaccia. Me ne accorgevo. E il modo in cui le altre mi trattavano in queste ultime settimane, da quando è arrivata la tua risposta, probabilmente l'ha fatta riflettere. Era terribilmente combattuta, lo erano tutte. In ogni caso questa mattina se la staranno godendo un mondo, ne sono sicura.
Naturalmente, mentre ascoltavo Fiona, mi dissi che avrei dovuto sentirmi in colpa per ciò che era successo la sera prima. Tuttavia, nonostante la vivida descrizione della scena in casa sua, nonostante tutto il dispiacere che provavo per lei, scoprii di rammentare solo in maniera estremamente vaga la presenza nel mio programma di un impegno di quel genere. Inoltre, le sue parole mi avevano riportato bruscamente alla realtà, facendomi ricordare che fino a quel momento avevo trascurato la questione dell'imminente arrivo dei miei genitori in città. Come Fiona aveva accennato, nessuno dei due godeva di buona salute, e non era pensabile lasciare che si arrangiassero da soli. Mentre osservavo dal finestrino il traffico caotico e i palazzi di vetro, provai un intenso desiderio di proteggere i miei vecchi genitori. In realtà, l'idea di affidarli a un gruppo di signore del posto era perfetta, e io ero stato immensamente stupido a non approfittare dell'occasione per conoscerle e parlare con loro. Sentii crescere il terrore dì non sapere che fare dei miei genitori; non riuscivo a spiegarmi come avessi potuto tralasciare a quel modo questo aspetto della mia visita, e per un momento la mia mente si mise a correre. Improvvisamente vidi mia madre e mio padre, entrambi minuti, con i capelli bianchi, curvi per l'età, davanti alla stazione ferroviaria, circondati di bagagli che non potevano nemmeno sperare di portare da sé. Guardavano la strana città in cui erano capitati, poi mio padre, lasciando che l'orgoglio prendesse il sopravvento sul buon senso, prendeva due, tre valigie, mentre mia madre cercava invano di trattenerlo, afferrandogli il braccio con la sua mano sottile, dicendogli: - No, no, non puoi portarle tu. Sono troppo pesanti -. Ma mio padre, con il volto duro e risoluto, si liberava di lei e diceva: - E chi le porta, altrimenti? Come facciamo ad andare in albergo? Chi credi che ci aiuterà in questo posto se non ce la caviamo da soli? - Tutto ciò mentre le macchine e gli autocarri sfrecciavano rombando davanti a loro e i pendolari li oltrepassavano correndo. Mia madre, triste e rassegnata, osservava mio padre barcollare sotto il peso - quattro, cinque passi - poi finalmente arrendersi, posare le valigie, con le spalle curve e il respiro affannoso. Dopo un momento gli andava vicino, gli posava con garbo una mano sul braccio. - Non importa. Troveremo qualcuno che ci aiuti -. Allora mio padre, anche lui rassegnato, forse contento di avere dato almeno una prova della sua forza d'animo, si guardava intorno tranquillamente, cercando nella ressa qualcuno che fosse venuto a prenderli, che si occupasse dei loro bagagli, che dicesse qualche parola di benvenuto e li portasse in un albergo su una comoda automobile.
Tutte queste immagini si accavallarono nella mia testa mentre Fiona parlava, e per qualche istante non fui più in grado di pensare alla sua infelice situazione. Poi, però, mi accorsi che stava ancora parlando.
- Si staranno dicendo che d'ora in poi dovranno fare più attenzione. Mi sembra di sentirle. «Abbiamo un tale prestigio, ormai, che è inevitabile che gente di ogni sorta cerchi di intrufolarsi nel nostro gruppo con l'inganno. Dobbiamo stare attente, soprattutto adesso che abbiamo tanta responsabilità. Quella puttanella ci serva da lezione». E via di questo passo. Dio solo sa che vita farò adesso nel complesso residenziale. E i miei figli che sono costretti a crescere lì in mezzo...
- Senti, - la interruppi, - non sai quanto mi dispiaccia. Ma ieri sera ho avuto un contrattempo assolutamente imprevedibile, che non starò a raccontarti. Naturalmente ero scocciatissimo di verti giocare questo brutto tiro, ma non sono nemmeno riuscito a trovare un telefono. Vorrei tanto non averti causato tutti questi guai.
- Una £montagna di guai. Non è facile, sai, per una madre sola con due figli nell'età della crescita...
- Mi spiace moltissimo. Ascolta, ti faccio una proposta. Adesso sono occupato con quei due giornalisti seduti là davanti, ma non ci vorrà molto. Me ne libero il più in fretta possibile, salto su un taxi e vengo a casa tua. Sarò là, diciamo, fra mezz'ora, quarantacinque minuti al massimo. Poi facciamo così. Ce ne andiamo a spasso per il complesso residenziale, in modo che le tue vicine, come questa Inge, questa Trude e tutte le altre vedano con i loro occhi che siamo davvero vecchi amici. Poi andiamo a trovare quelle che contano di più, come questa Inge. Tu mi presenti, io chiedo scusa per ieri sera, spiego che all'ultimo momento sono stato trattenuto mio malgrado. A una a una le riconquisteremo e rimedieremo al guaio che ti ho combinato ieri. Anzi, se facciamo le cose per bene, può darsi che alla fine la considerazione delle tue amiche sia maggiore di prima. Che cosa ne dici?
Per qualche istante Fiona continuò a guardare fuori del finestrino. Poi rispose: - Il mio primo impulso sarebbe di dirti: «Scordati dell'intera faccenda». Non mi ha procurato nessun vantaggio raccontare che ero tua amica. E poi, chi dice che ho bisogno di entrare nella cerchia di Inge? Mi sentivo proprio sola in quel complesso residenziale, ma adesso che ho avuto un assaggio del loro modo di comportarsi, non so se non sia meglio accontentarmi della compagnia dei miei figli. La sera posso leggere un buon libro o guardare la televisione. Però non ci sono solo io, devo pensare anche ai bambini. Devono crescere in quel posto, e voglio che siano ben visti. Forse, per il loro bene, dovrei accettare la tua proposta. Come dici tu, se facciamo così, potrei venirne fuori persino meglio che se il ricevimento fosse andato bene. Ma tu devi promettere, giurare su ciò che hai di più caro, che non mi tradirai una seconda volta. Perché, vedi, se vogliamo mettere in atto il tuo piano, appena finisco il mio turno devo attaccarmi al telefono per fissare le visite. Non è mica di quei posti dove si può andare in giro a bussare alle porte senza preannunciarsi. Capisci che cosa succederebbe se io combinassi tutti gli appuntamenti e poi tu non comparissi? Sarei costretta ad andarci da sola per spiegare un'altra volta la tua assenza. Quindi devi promettermi che non mi farai più un altro tiro del genere.
- Hai la mia parola, - promisi. - Come ti dico, sbrigo questa faccenda, salto su un taxi e sono da te. Non preoccuparti, Fiona, sistemeremo tutto.
Mentre dicevo così, mi sentii toccare un braccio. Girandomi, vidi Pedro in piedi, con il suo borsone in spalla.
- La prego, signor Ryder, - disse, indicandomi l'uscita in fondo alla carrozza.
Il giornalista era già davanti, pronto a scendere.
- Questa è la nostra fermata, signor Ryder, - mi gridò, facendomi cenno con la mano. - Se non le spiace.
Sentii il tram rallentare e fermarsi. Mi alzai in piedi, sgusciai fuori del sedile e mi avviai lungo il corridoio.
13.
Il tram si allontanò sferragliando, lasciandoci soli in aperta campagna, circondati da campi battuti dal vento. La brezza era piacevole, e per qualche istante rimasi a guardare il tram che spariva in fondo ai campi, oltre l'orizzonte.
- Signor Ryder, da questa parte per piacere.
Il giornalista e Pedro stavano aspettando a qualche passo da me. Non appena li raggiunsi, si incamminarono nell'erba alta. Di tanto in tanto una folata più violenta delle altre ci tirava i vestiti e increspava il prato. Alla fine giungemmo ai piedi di una collina e ci fermammo a riprendere fiato.
- C'è da fare una piccola salita, - disse il giornalista, indicando il pendio.
Dopo avere arrancato nell'erba alta, vidi con sollievo un sentiero di terra battuta che si inerpicava sul fianco della collina.
- Bene, - dissi, - visto che non ho molto tempo, forse è meglio che ci muoviamo.
- Naturalmente, signor Ryder.
Il giornalista si avviò su per i ripidi zigzag del sentiero. Io riuscii a stargli dietro, seguendolo a pochi passi di distanza. Pedro, invece, forse rallentato dalle sue borse, perse rapidamente terreno. Mentre salivamo, mi accorsi che avevo ricominciato a pensare a Fiona, al brutto tiro che le avevo giocato la sera prima; fino a quel momento mi ero comportato con grande padronanza ottenendo notevoli risultati, ma avevo la sensazione che il modo in cui stavo affrontando certi aspetti della mia visita lasciasse - almeno secondo il mio metro di giudizio - alquanto a desiderare. Al di là dell'imbarazzo in cui avevo messo Fiona, ero seccatissimo, dato che l'arrivo dei miei genitori in città era ormai imminente, di essermi lasciato sfuggire l'occasione di discutere delle loro numerose e complicate esigenze con le persone cui sarebbero stati affidati. Mentre cominciavo a sbuffare, sentii tornare un'intensa irritazione nei confronti di Sophie, che aveva seminato lo scompiglio nei miei programmi. Non mi sembrava affatto esagerato chiederle, nei momenti cruciali della mia vita - come questo - di tenersi per sé il suo caos. Tutte le cose che all'improvviso avrei voluto dirle mi si accavallarono nella testa, e se non avessi avuto il fiato corto, forse mi sarei addirittura messo a borbottare ad alta voce.
Dopo tre o quattro svolte del sentiero, ci fermammo a riposare. Alzando lo sguardo, fui colpito dalla vista sconfinata sulla campagna circostante. I campi si susseguivano a perdita d'occhio. Solo in lontananza, all'orizzonte, c'era qualcosa che sembrava un gruppetto di cascine.
- Una vista magnifica, - disse il giornalista, ansimando e ravviandosi i capelli con le dita per toglierseli dalla faccia. - $è così tonificante venire quassù. L'aria fresca ci farà sentire bene per il resto della giornata. Be', anche se è bello, meglio non perdere tempo -. Poi rise allegramente e riprese a camminare.
Come prima lo seguii da vicino, mentre Pedro restava sempre più indietro. Poi, mentre arrancavamo su per un tratto particolarmente ripido, Pedro gridò qualcosa dal basso. Pensai che ci stesse chiedendo di rallentare, ma il giornalista non modificò il passo. Si limitò a girare la testa e a urlare controvento: - Come hai detto?
Vidi che Pedro si sforzava di guadagnare qualche passo, poi lo sentii gridare:
- Ho detto che a quanto pare siamo riusciti a convincerlo. Credo che lo stronzo abbia abboccato.
- Be', - gridò di rimando il giornalista, - finora ha collaborato, ma con questi individui non bisogna mai cantare vittoria. Quindi non dimenticarti di adularlo. Fin qui è venuto, e sembra addirittura contento. Ma non credo che questo idiota conosca il significato dell'edificio.
- Che cosa gli diciamo se ce lo chiede? - urlò Pedro. - Lo farà di sicuro.
- Tu parla d'altro. Chiedigli di cambiare posa. $è probabile che tutto ciò che riguarda il suo aspetto riesca a distrarlo. Se poi insiste, be', alla fine dovremo dirglielo, ma ormai avremo tutte le foto che ci servono, e il nostro stronzo non potrà più fare nulla.
- Non vedo l'ora che questa storia sia finita, - disse Pedro, sbuffando sempre di più. - Dio, quel suo modo di sfregarsi le mani mi mette i brividi.
- Ci siamo quasi. Finora ce la siamo cavata bene, vediamo di non guastare tutto all'ultimo momento.
- Mi scusi, - lo interruppi, - ma devo fermarmi un secondo.
- Ma certo, signor Ryder, che sbadato, - disse il giornalista, e finalmente fece una sosta. - Io sono un maratoneta, - aggiunse, - dunque ho un vantaggio inconsueto. Ma devo dire che lei mi sembra in gran forma. E per un uomo della sua età... la so perché l'ho letta sui miei appunti, altrimenti non l'avrei mai indovinata... guardi come ha staccato il povero Pedro -. Poi, mentre quest'ultimo ci raggiungeva, gli urlò: - Sbrigati, lumaca. Ti fai ridere dietro dal signor Ryder.
- Non è giusto, - disse Pedro sorridendo. - Oltre a essere un uomo di grande ingegno, il signor Ryder ha anche il fisico di un atleta. Mica tutti sono così fortunati.
Restammo a contemplare il paesaggio mentre riprendevamo fiato. Poi il giornalista disse:
- Siamo quasi arrivati, ormai. Su, andiamo. Non scordiamoci che il signor Ryder ha davanti una giornata molto intensa.
L'ultima parte del tragitto fu la più ardua. Il sentiero diventava sempre più ripido, e spesso si disintegrava in una successione di pozzanghere fangose. Davanti a me il giornalista non accennava a rallentare, anche se adesso camminava curvo per lo sforzo. Mentre gli andavo dietro barcollando, pensai di nuovo a tutte le cose che avrei voluto dire a Sophie. - Ma la vuoi capire? - mi sentii borbottare a denti stretti, a tempo con i miei passi. - Ma la vuoi capire? - Non so perché, la frase terminava sempre lì, ma io la ripetevo a ogni passo, mentalmente o sottovoce, finché queste stesse parole cominciarono ad alimentare la mia irritazione.
Finalmente il sentiero si appiattì, e sulla sommità della collina vidi un edificio bianco. Il giornalista e io ci dirigemmo incespicando verso la costruzione, e un attimo dopo ci appoggiammo al muro soffiando come mantici. Qualche istante più tardi ci raggiunse anche Pedro, ormai quasi asfittico, che crollò contro l'edificio afflosciandosi sulle ginocchia. Per un attimo temetti che gli venisse un colpo apoplettico; invece, pur continuando ad ansimare e a sbuffare, Pedro cominciò ad aprire la cerniera lampo della borsa. Tirò fuori una macchina fotografica, poi un obbiettivo. Ma a questo punto non ce la fece più, appoggiò un braccio al muro, seppellì la testa nell'incavo del gomito e rimase lì a boccheggiare.
Quando mi parve di avere recuperato a sufficienza le forze, mi scostai di qualche passo dalla costruzione per darle un'occhiata d'insieme. Una folata di vento mi ricacciò contro il muro, ma alla fine raggiunsi un punto da cui potei vedere dinanzi a me l'alto cilindro di mattoni imbiancati, privo di finestre se si esclude un'unica fessura verticale vicino alla sommità. Sembrava che qualcuno avesse strappato una torretta a un castello medievale e l'avesse trapiantata sulla cima della collina.
- Signor Ryder, ci dica lei quando è pronto.
Il giornalista e Pedro si erano allontanati di una decina di metri dalla costruzione. Pedro, che evidentemente si era ripreso, aveva montato il treppiede e stava guardando nel mirino.
- Proprio contro il muro, signor Ryder, se non le spiace, - mi gridò il giornalista.
Tornai verso l'edificio. - Scusate, - dissi, alzando la voce per sovrastare il vento, - prima di cominciare, vorrei che mi spiegaste perché abbiamo scelto proprio questo posto.
- Signor Ryder, per piacere, - gridò Pedro, sventolando una mano. - Stia contro il muro. Magari si appoggi con un braccio. Così -. E protese un gomito esponendolo al vento.
Mi avvicinai al muro e feci come mi era stato chiesto. Pedro scattò un bel po' di fotografie, ora spostando il treppiede ora cambiando obbiettivo. Per tutto il tempo, il giornalista gli rimase accanto, sbirciandogli sopra la spalla e parlottando con lui.
- Scusate, - dissi dopo un momento, - non mi sembra così irragionevole chiedervi...
- Signor Ryder, la prego, - disse Pedro, raddrizzandosi di scatto dietro la macchina fotografica. - La cravatta!
Il vento mi aveva spinto la cravatta sulla spalla. La rimisi a posto e ne approfittai per ricompormi anche i capelli.
- Signor Ryder, - gridò Pedro, - se potessimo farne un paio con la mano alzata, così. Sì, sì! Come se mostrasse a qualcuno l'edificio. Sì, perfetto, perfetto. Ma la prego, sorrida con fierezza. Più fiero, come se l'edificio fosse il suo bebè. Sì, così è perfetto. Verrà magnifico.
Feci del mio meglio per obbedire alle istruzioni, anche se le violente raffiche di vento rendevano difficile mantenere un'espressione cordiale, come si conveniva.
Dopo un po' mi accorsi di una presenza alla mia sinistra. Ebbi l'impressione che contro il muro ci fosse un uomo con un cappotto nero, ma in quel momento non potevo muovermi perché ero in posa, e lo vedevo solo con la coda dell'occhio. Pedro continuava a urlarmi istruzioni tra una raffica e l'altra - spostare il mento un briciolino più in là, sorridere con più convinzione - e passò un certo tempo prima che fossi finalmente libero di guardare. Non appena mi girai, l'uomo - un tipo alto e rigido come un manico di scopa, con la testa calva e la faccia ossuta - si diresse verso di me. Si teneva l'impermeabile stretto al corpo, ma quando mi fu vicino mi porse la mano.
- Signor Ryder, come sta? $è un onore.
- Ah, sì, - dissi, studiandolo. - Lieto di conoscerla, signor... ehm...?
Il manico di scopa mi guardò meravigliato. Poi disse: - Christoff. Sono Christoff.
- Ah, il signor Christoff -. Una raffica più forte delle altre ci costrinse a puntellarci per qualche istante, consentendomi di riprendermi un po' dalla sorpresa. - Ah, sì, il signor Christoff. Ma certo. Mi hanno parlato molto di lei.
- Signor Ryder, - disse Christoff, chinandosi verso di me, - mi permetta di ringraziarla subito per avere accettato di partecipare a questo pranzo. Sapevo di avere che fare con una persona educata, dunque non mi ha stupito affatto che accogliesse l'invito. Vede, ero sicuro che lei, almeno, ci avrebbe ascoltati imparzialmente, avrebbe voluto conoscere anche la nostra campana. No, non mi ha stupito affatto, ma ciò non toglie nulla alla mia riconoscenza. Bene, - aggiunse dando un'occhiata all'orologio, - siamo un po' in ritardo, ma non importa. Non dovremmo avere problemi di traffico. La prego, da questa parte.
Seguii Christoff intorno all'edificio bianco. Sul retro il vento era meno forte, e dal muro di mattoni spuntava un groviglio di tubature che emetteva un lieve ronzio. Christoff continuò a precedermi dirigendosi verso il ciglio della collina, in un punto segnato da due pali di legno. Oltre i pali mi immaginavo un precipizio, invece, quando guardai giù, vidi una lunga scalinata di pietra, tutta sgangherata, che scendeva il vertiginoso fianco della collina. In fondo, la scalinata finiva contro una strada asfaltata, dove si scorgeva la sagoma di un'automobile nera che, presumibilmente, aspettava noi.
- Dopo di lei, signor Ryder, - disse Christoff. - Scenda con il suo passo. Non c'è nessuna fretta.
Notai però che dava un'altra occhiata ansiosa al suo orologio.
- Mi spiace molto se siamo in ritardo, - dissi. - Quelle fotografie hanno portato via più tempo del previsto.
- La prego di non preoccuparsi, signor Ryder. Sono sicuro che arriveremo perfettamente in orario. Dopo di lei.
Quando affrontai i primi gradini mi venne un po' di capogiro. Non c'era ringhiera né da una parte né dall'altra, e il timore di mettere un piede in fallo e di rotolare giù sino in fondo alla collina mi fece concentrare al massimo. Per fortuna il vento divenne meno fastidioso, e dopo un po' mi accorsi che stavo acquistando confidenza: non era poi così diverso dallo scendere una qualsiasi scala. Presto cominciai addirittura a staccare gli occhi da terra per contemplare il panorama che si stendeva davanti a noi.
Il cielo era ancora coperto, ma il sole filtrava attraverso le nubi. Adesso vedevo che la strada dove ci aspettava la macchina tagliava un pianoro, oltre il quale la collina riprendeva a scendere tra fitti alberi. Ancora più giù, si vedevano campi a perdita d'occhio in ogni direzione. All'orizzonte si scorgeva appena la linea dentellata della città.
Christoff rimase incollato alle mie spalle. Per i primi minuti, forse notando la mia apprensione per la discesa, si trattenne dal conversare. Ma quando finalmente ebbi trovato il mio ritmo, sospirò e disse:
- Quei boschi, signor Ryder. Laggiù alla sua destra. Sono i boschi di Werdenberger. Tra la gente ricca della nostra città, va di moda comprarsi uno chalet laggiù. I boschi di Werdenberger sono un luogo incantevole. A pochi minuti dal centro, eppure ti senti lontano da tutto e da tutti. Quando saremo in macchina e scenderemo il fianco della montagna, vedrà gli chalet. Alcuni sono appollaiati proprio sul ciglio di dirupi scoscesi. Devono avere una vista incredibile. Rosa avrebbe tanto desiderato uno chalet. A dire il vero, ne avevamo adocchiato uno, glielo indicherò mentre scendiamo. Uno dei più modesti, ma non per questo meno carino. L'attuale proprietario non lo usa quasi mai, non più di due o tre settimane all'anno. Se gli avessi fatto una buona offerta, l'avrebbe sicuramente presa in considerazione. Ma ormai è inutile continuare a pensarci. Non c'è più nulla da fare.
Christoff tacque per qualche istante. Poi la sua voce riprese a parlare alle mie spalle.
- Non è niente di speciale. Rosa e io non l'abbiamo mai visto dentro. Ma ci siamo passati davanti così tante volte che ci immaginiamo come deve essere fatto. Si trova su un piccolo promontorio, proprio sul burrone; oh, devi avere l'impressione di essere sospeso in cielo. E sono sicuro che da tutte le finestre, andando da una stanza all'altra, vedi le nuvole. Rosa ne sarebbe incantata. Ogni volta che ci passavamo davanti, avevamo l'abitudine di rallentare, o persino di fermarci, per immaginarlo dentro, per figurarcelo stanza per stanza. Be', come le dico, tutto ciò appartiene al passato, ormai. $è inutile pensarci ancora. E poi, signor Ryder, non credo che lei ci abbia concesso il suo tempo prezioso per sentire queste storie. Mi perdoni. Torniamo ad argomenti più importanti. Sa, le siamo tutti £immensamente riconoscenti per avere accettato di parlare con noi. Una bella differenza rispetto agli altri, a quegli individui che sostengono di guidare questa comunità! Per ben tre volte li abbiamo invitati a uno dei nostri pranzi, per discutere dei vari argomenti così come faremo con lei. Non ci hanno neanche degnati. Figuriamoci! Sono troppo orgogliosi, dal primo all'ultimo. Von Winterstein, la Contessa, von Braun, tutti. Perché, vede, in realtà sono insicuri. In fondo al cuore sanno di non capire niente, per cui rifuggono da una discussione aperta. Per tre volte li abbiamo invitati, e per tre volte ci hanno risposto in malo modo. Ma intanto sarebbe stato inutile. Non avrebbero capito la metà delle nostre parole.
Di nuovo mi passò la voglia di parlare. Mi rendevo conto che sarebbe stato opportuno dire qualcosa, ma per farmi sentire avrei dovuto girare la testa e urlare, e non ero affatto disposto a correre il rischio di staccare gli occhi dai gradini. Così, per qualche minuto, continuammo la discesa in silenzio. Alle mie spalle, il respiro di Christoff si faceva sempre più affannoso. Poi il violoncellista disse:
- Onestamente, la colpa non è loro. Le forme moderne sono così complesse. Kazan, Mullery, Yoshimoto. Persino per un musicista esperto come me è diventato difficile, molto difficile. Che possibilità hanno le persone come von Winterstein, o la Contessa? Queste cose esulano dal loro comprendonio. Per loro sono rumori, nient'altro che vortici di ritmi incomprensibili. Forse con il passare degli anni si erano convinti di cogliervi qualcosa, che so, delle emozioni, dei significati. Ma la vera verità è che non ci trovavano niente. La musica moderna esula dal loro comprendonio, non la capiranno mai. Una volta c'erano solo Mozart, Bach, Cajkovskij. Persino l'uomo di strada poteva fare delle congetture sensate su quel genere di musica. Ma le forme moderne! Come può della gente come quella, inesperta, provinciale, come potrà mai capire queste cose? Non basta essere animati da un grande senso del dovere nei confronti della comunità. Non c'è nessuna speranza, signor Ryder. Non sanno distinguere una cadenza frantumata da un motivo sincopato. O un'indicazione di tempo spezzato da una sequenza di pause palesi. E adesso interpretano alla rovescia l'intera situazione! Pensano che sia tutto il contrario! Signor Ryder, se è stanco perché non ci riposiamo un momento?
In realtà mi ero fermato perché un uccello, svolazzandomi vicinissimo al volto, mi aveva spaventato e quasi fatto inciampare.
- No, no, non ce n'è bisogno, - dissi, girandomi, poi ripresi la discesa.
- I gradini sono un po' sudici per sedersi. Ma se vuole possiamo fermarci e restare in piedi.
- No, davvero, grazie. Va bene così.
Per qualche minuto proseguimmo in silenzio. Poi Christoff disse:
- Le assicuro che nei momenti in cui riesco a vedere le cose con distacco quella gente mi fa pena. Non ce l'ho con loro. Nonostante quello che mi hanno fatto, nonostante quello che hanno detto di me, riesco ancora a vedere le cose oggettivamente. E mi dico, no, non è colpa loro. Non è colpa loro se la musica è diventata così difficile e complicata. $è assurdo sperare che qualcuno, in un posto simile, la capisca. Ma queste persone, i maggiorenti della città, devono far credere di sapere il fatto loro. Così continuano a ripetersi certe cose, e dopo un po' si convincono di essere delle autorità in materia. Vede, in un posto come questo non c'è nessuno che possa contraddirli. Faccia attenzione ai prossimi gradini, signor Ryder. Sono un po' sgretolati ai margini.
Scesi parecchi gradini molto lentamente. Poi alzai gli occhi e vidi che eravamo quasi giunti in fondo alla scala.
- Sarebbe stato inutile, - disse la voce di Christoff alle mie spalle. - Anche se avessero accettato il nostro invito, sarebbe stato inutile. Non avrebbero capito la metà delle nostre parole. Lei, signor Ryder, almeno capirà le nostre ragioni. Magari non riusciremo a convincerla, ma sono sicuro che se ne andrà rispettando la nostra opinione. Anche se naturalmente ci auguriamo di persuaderla. Di convincerla che, al di là della sorte del sottoscritto, bisogna continuare a tutti i costi lungo questa strada. Sì, lei è un brillante musicista, uno dei massimi talenti in circolazione. Ma anche un esperto del suo calibro deve applicare le sue conoscenze tenendo conto delle particolari condizioni locali. Le persone che le presenterò fra poco, signor Ryder, sono fra le poche, anzi le pochissime, che si possano ragionevolmente definire intellettuali in questa città. Si sono date la briga di analizzare le particolari condizioni che predominano da queste parti, e soprattutto, a differenza di von Winterstein e dei suoi, capiscono qualcosa di musica moderna. Con il loro aiuto, in maniera estremamente civile e rispettosa, spero di riuscire a farle cambiare idea. Naturalmente, tutte le persone che incontrerà hanno il massimo rispetto per lei e per ciò che lei rappresenta. Ma nonostante il suo straordinario acume, temiamo che possano esserci ancora alcuni aspetti della situazione che forse non le sono del tutto chiari. Oh, eccoci arrivati.
In realtà mancavano ancora una ventina di gradini alla strada. Per quest'ultimo tratto di discesa Christoff rimase zitto. Ne fui contento, perché le sue ultime frasi avevano cominciato a infastidirmi. Quel suo insinuare che conoscevo poco o male le condizioni locali, che sarei stato capace di tirare le mie conclusioni senza badare a questi fattori, era davvero offensivo. Ripensai all'impegno con cui avevo cercato di informarmi sulla situazione locale sin da quando avevo messo piede in città, a dispetto di un programma senza respiro e della stanchezza. Ricordai, per esempio, che il pomeriggio del giorno prima, invece di godermi un meritato riposo nell'accogliente patio dell'albergo, come avrei potuto fare benissimo, ero partito a raccogliere impressioni in giro per la città. Sì, quanto più pensavo alle parole di Christoff, tanto più sentivo crescere l'irritazione. Così, quando finalmente arrivammo alla macchina e Christoff mi aprì la porta sul lato del passeggero, salii senza dire una parola.
- Non siamo molto in ritardo, - disse il mio accompagnatore mettendosi al volante. - Se non troviamo traffico, saremo là in un attimo.
Mentre diceva queste parole, mi ricordai di colpo i numerosi impegni della giornata. C'era Fiona, per esempio, che sicuramente mi stava aspettando a casa sua da un momento all'altro. Era evidente che le circostanze avrebbero richiesto una certa fermezza da parte mia.
La macchina partì, e poco dopo la strada si fece ripida e tortuosa. Christoff sembrava conoscerla bene, perché prendeva le curve con notevole disinvoltura. Più in basso la strada divenne meno vertiginosa; a destra e a sinistra cominciarono a comparire gli chalet di cui mi aveva parlato Christoff, spesso precariamente sospesi sul vuoto. Alla fine mi girai verso di lui e gli dissi:
- Signor Christoff, desideravo molto pranzare con lei e i suoi amici. Per sentire la vostra campana. Ma questa mattina mi sono capitati parecchi imprevisti, con la conseguenza che mi aspetta una giornata piena di impegni. Anche adesso, invece di stare a parlare con lei...
- La prego, signor Ryder, non c'è bisogno di spiegazioni. Sapevamo sin dall'inizio che molto probabilmente sarebbe stato impegnatissimo, e tutti i presenti, glielo assicuro, dimostreranno la massima comprensione. Se decide di andare via dopo un'ora e mezzo, o dopo un'ora, nessuno, glielo posso assicurare, si offenderà minimamente. Sono tutte persone in gamba, le uniche qui in città capaci di pensieri e sentimenti elevati. Comunque vada questo pranzo, signor Ryder, sono sicuro che sarà contento di averle conosciute. Molte le ricordo quando erano giovani e piene di entusiasmo. Tutte persone in gamba, dalla prima all'ultima, glielo garantisco io. Una volta, forse, si consideravano i miei protetti. Dimostrano ancora una grande devozione. Ma oggi siamo colleghi, £amici, forse persino qualcosa di più. Questi ultimi anni ci hanno avvicinati moltissimo. Naturalmente qualcuno mi ha abbandonato, era inevitabile. Ma quelli che sono rimasti, oh, sono irremovibili. Sono fiero di loro; per me sono come dei figli. Rappresentano l'unica speranza per questa città, anche se so che non avranno voce in capitolo ancora per parecchio tempo. Ah, fra poco passeremo davanti allo chalet di cui le parlavo, signor Ryder. $è dietro la prossima curva. Lo vedrà dalla sua parte.
Christoff tacque, e quando lo guardai notai che aveva gli occhi pieni di lacrime. Provai un po' di compassione per lui e gli dissi gentilmente:
- Non si può mai sapere che cosa ci riserva il futuro, signor Christoff. Forse un giorno troverà con sua moglie uno chalet molto simile a questo. Se non qui, in un'altra città.
Christoff scosse la testa. - So che sta cercando di consolarmi, signor Ryder. Ma creda, è inutile. Tra me e Rosa è tutto finito. Mi lascerà. Lo so da un pezzo. Lo sa l'intera città. Sono sicuro che avrà sentito i pettegolezzi.
- Be', un paio di cosette le ho sentite...
- Sono sicuro che siamo sulla bocca di tutti. Non che me ne importi molto ormai. L'unica cosa che conta è che Rosa mi lascerà. Non sopporterà a lungo l'idea di essere mia moglie, non dopo quanto è successo. Ma non si faccia un'idea sbagliata. In tutti questi anni ci siamo amati, ci siamo amati moltissimo. Ma vede, fra noi c'è sempre stato un patto, sin dal principio. Ah, ecco lo chalet, signor Ryder. Alla sua destra. Quante volte sono transitato qui davanti a passo d'uomo, con Rosa seduta dove è lei adesso! Una volta andavamo così piano, ed eravamo così distratti, che abbiamo quasi bocciato con una macchina che veniva su in senso contrario. Sì, avevamo un patto. Fino a quando avessi avuto una posizione di preminenza in questa comunità, lei mi avrebbe amato. Oh, e mi amava, mi amava davvero. Ne sono perfettamente convinto, signor Ryder. Perché vede, per Rosa la cosa più importante della vita era essere moglie di una persona nella mia posizione. Forse questo gliela farà sembrare un po' superficiale. Ma non deve fraintenderla. A modo suo, nell'unico modo che conosceva, Rosa mi amava profondamente. E poi, è una sciocchezza pensare che la gente continui ad amarsi qualunque cosa capiti. E per Rosa è lo stesso, è fatta così, può amarmi solo a certe condizioni. Ma questo non rende il suo amore per me meno reale.
- Per un po' Christoff tacque di nuovo, evidentemente assorto nei suoi pensieri. La strada fece un'ampia curva, offrendo una vista a precipizio dalla mia parte. Guardai nella valle sotto di noi e vidi quel che mi sembrò un ricco sobborgo di case piuttosto grandi, ciascuna con un bel giardino.
- Stavo ripensando, - disse Christoff, - a quando sono arrivato in questa città. All'eccitazione generale. Alla prima volta che Rosa mi ha avvicinato nel Palazzo delle Arti -. Tacque di nuovo per qualche istante, poi proseguì: - Sa, allora non mi facevo grandi illusioni sul mio conto. Ormai avevo accettato l'idea di non essere un genio. E neppure una persona particolarmente dotata. Avevo fatto un po' di carriera, è vero, ma poi erano successe delle cose che mi avevano aperto gli occhi e fatto capire i miei limiti. Quando sono arrivato in questa città, avevo intenzione di vivere tranquillo... ho una piccola rendita personale... magari dedicandomi un po' all'insegnamento, o a un'attività del genere. Ma la gente di qui dimostrava un tale entusiasmo per le mie modeste doti, sembrava così contenta che fossi arrivato, che dopo un po' ho cominciato a pensare. In fondo avevo lavorato con impegno, con molto impegno, per venire a patti con i metodi musicali moderni. Qualcosa ne capivo. Mi sono guardato intorno e mi sono detto: sì, qui il mio contributo posso darlo. Mi sono reso conto che in una città come questa, nelle condizioni di allora, c'era spazio per fare qualcosa, qualcosa di veramente utile. Be', signor Ryder, sono passati tanti anni, e sono convinto di avere compiuto un'opera meritoria. Lo credo sinceramente. Non solo perché me lo dicono i miei protetti... o meglio, i miei colleghi, gli £amici che fra poco conoscerà anche lei. No, ne sono convinto, fermamente convinto. La mia opera è stata meritoria. Ma si sa come vanno le cose in queste città. Prima o poi nella vita degli abitanti entra un tarlo. Cresce lo scontento. Cresce la solitudine. E di colpo la gente, che non capisce niente di musica, si sveglia e dice, oh no, abbiamo sbagliato tutto. Facciamo il contrario. Ma le ha sentite le accuse che mi rivolgono? Dicono che la mia tecnica esalta la meccanicità, che io soffoco i sentimenti naturali. Ah, non capiscono proprio niente! Come le dimostreremo fra pochissimo, signor Ryder, mi sono limitato a introdurre una tecnica, un sistema che permettesse a gente così rozza di accostarsi anche a musicisti come Kazan e Mullery. Che desse loro modo di scoprire un significato e un valore nelle loro opere. E le assicuro che, quando sono arrivato qui, chiedevano a gran voce proprio questo. Volevano un po' d'ordine, volevano un metodo che fosse alla loro portata. La gente non sapeva più che pesci prendere, vedeva tutto crollare. Aveva paura, temeva che la situazione sfuggisse loro di mano. Ho dei documenti che le farò vedere fra poco. E lei stesso, ne sono sicuro, si renderà conto di come sia stata fuorviata l'opinione pubblica. D'accordo, sono un mediocre, questo non lo nego. Ma vedrà anche lei che ho sempre battuto la strada giusta. Che quel poco che ho conseguito, anche se non è che un inizio, è stato utile. Quello di cui c'è bisogno adesso... e spero che lei lo capisca, signor Ryder, perché se lo capirà allora non tutto sarà perduto... quello di cui c'è bisogno è qualcuno... d'accordo, più dotato di me... ma qualcuno che continui la mia opera, che £costruisca su ciò che ho fatto io. Io ho dato il mio contributo, signor Ryder. Ne ho le prove, e gliele farò vedere non appena arriviamo.
Ci eravamo immessi in un'arteria più grande. La strada era larga e diritta, e schiudeva dinanzi a noi un vasto settore di cielo. In lontananza vedevo due pesanti autocarri che viaggiavano sulla corsia di sorpasso, ma per il resto la strada sembrava deserta.
- Mi auguro che non pensi, signor Ryder, - disse Christoff dopo un po', - che questo invito a pranzo sia una disperata manovra da parte mia per riconquistare l'autorità di un tempo. Mi rendo pienamente conto che la mia posizione personale, ormai, è insostenibile. E poi, non ho più niente da dare. Ho dato tutto, tutto quello che avevo, fino all'ultimo, a questa città. Adesso voglio andarmene lontano, in un posto tranquillo, solo, e non sentire parlare mai più di musica. I miei protetti, naturalmente, cadranno nello sconforto quando partirò. Non hanno ancora accettato la sconfitta. Vogliono che lotti. Basterebbe una mia parola e si metterebbero all'opera, farebbero di tutto, andrebbero persino di porta in porta. Ho spiegato loro la situazione, gliel'ho spiegata con la massima onestà, ma non riescono ancora a capacitarsi. Per loro è così difficile. Da troppo tempo mi seguono con devozione, da troppo tempo sono il loro faro. Cadranno nello sconforto. Ma non cambia nulla, questa storia deve finire. Voglio che finisca. Anche con Rosa. Per me ogni minuto del nostro matrimonio è stato prezioso, signor Ryder. Ma sapere che finirà, e non sapere quando, è terribile. Voglio metterci subito una pietra sopra. Auguro a Rosa ogni bene. Spero che si trovi qualcun altro, qualcuno degno di lei. Spero solo che abbia il buon senso di guardare più in là di questa città. Questo posto non è in grado di offrirle la persona di cui ha bisogno come marito. Nessuno qui capisce veramente la musica. Ah, se avessi il suo genio, signor Ryder! Allora Rosa e io potremmo invecchiare insieme
- Il cielo si era rannuvolato. Il traffico era rado. Di tanto in tanto raggiungevamo un autocarro diretto lontano, lo superavamo e riprendevamo la corsa. Ai lati della strada comparvero fitte foreste, che furono poi sostituite da vaste pianure coltivate. Sentii tornare la stanchezza degli ultimi giorni, e mentre osservavo la strada scorrere davanti a noi, non ebbi difficoltà ad appisolarmi. Poi sentii la voce di Christoff che diceva: - Oh, eccoci arrivati, - e riaprii gli occhi.
14.
Avevamo rallentato moltissimo e ci stavamo avvicinando a un piccolo bar, una casetta bianca che sorgeva isolata ai margini della strada. Era il tipico posto dove uno si immagina che si fermino i camionisti a mangiare un panino, ma quando Christoff entrò nel cortile di ghiaia e posteggiò l'automobile vidi che non c'erano altri veicoli.
- $è qui che pranziamo? - domandai.
- Sì. Il nostro piccolo circolo, ormai sono anni che ci riuniamo qui. $è un posto alla buona.
Scendemmo dalla macchina e ci dirigemmo verso il bar. Mentre ci avvicinavamo, vidi che alla tenda erano appesi vivaci cartelli di cartone che annunciavano diverse offerte speciali.
- $è un posto alla buona, - ripeté Christoff, aprendomi la porta. - La prego di fare come se fosse a casa sua.
Dentro, l'arredamento era molto semplice. C'erano grandi finestre panoramiche che giravano tutto intorno alla sala. Qui e là erano stati attaccati con lo scotch dei manifesti con la pubblicità di bibite e arachidi. Alcuni erano scoloriti dal sole, e uno si era trasformato in un semplice rettangolo azzurro. La luce era cruda nonostante il cielo coperto.
C'erano già otto o nove persone sedute ai tavoli in fondo alla sala. Tutte avevano davanti a sé una scodella fumante che sembrava contenere purea; stavano mangiando voracemente con lunghi cucchiai di legno, ma si interruppero e mi fissarono. Una o due cominciarono ad alzarsi. Christoff salutò allegramente e fece segno di restare seduti. Poi, rivolgendosi a me, disse:
- Come vede, hanno cominciato senza di noi. Ma dato che non siamo molto puntuali, sono sicuro che li scuserà. Quanto agli altri, be', penso che non tarderanno. In ogni caso, non sprechiamo altro tempo. Se viene da questa parte, signor Ryder, la presenterò ai miei cari amici.
Stavo per seguirlo, quando ci accorgemmo che dietro il bancone c'era un uomo con una folta barba e un grembiule a strisce che ci faceva dei cenni furtivi.
- Va bene, Gerhard, - disse Christoff, girandosi verso l'uomo e facendo spallucce. - Comincerò da te. Questo è il signor Ryder.
L'uomo barbuto mi strinse la mano dicendo: - Un secondo e le preparo il pranzo. Deve avere una bella fame -. Poi mormorò rapidamente qualcosa a Christoff, lanciando un'occhiata verso il fondo del bar.
Christoff e io seguimmo lo sguardo dell'uomo barbuto. Come se stesse aspettando che ci accorgessimo di lui, un signore che fino a quel momento era rimasto seduto da solo nell'angolo più lontano si alzò in piedi. Era corpulento, grigio di capelli, intorno ai cinquantacinque anni, e indossava una camicia e una giacca di un bianco brillante. Ci venne incontro di qualche passo, si fermò in centro alla sala e sorrise a Christoff.
- Henri, - disse, e sollevò le braccia in segno di saluto.
Christoff lo guardò freddamente, poi si girò dall'altra. - Che cosa ci fai qui? - disse.
L'uomo in giacca bianca parve non sentire. - Ti stavo osservando, Henri, - continuò giovialmente, indicando la finestra. - Mentre venivi in qua dalla macchina. Cammini ancora a capo chino. Una volta era una specie di posa, ma adesso sembra che tu faccia sul serio. Non ce n'è bisogno, Henri. Anche se le cose ti vanno male, non c'è bisogno di camminare a capo chino.
Christoff continuava a dargli la schiena.
- Su, Henri. Ti comporti come un bambino.
- Te lo ripeto, - disse Christoff. - Non abbiamo niente da dirci.
L'uomo in giacca bianca strinse le spalle e fece qualche passo verso di noi.
- Signor Ryder, - disse, - dal momento che Henri sembra deciso a non presentarci, mi presenterò da solo. Sono il dottor Lubanski. Come sa, una volta Henri e io eravamo molto amici. Ma ora, lo vede anche lei, non mi parla nemmeno.
- La tua presenza non è gradita -. Christoff si ostinava a non guardarlo. - Qui nessuno ti vuole.
- Lo vede, signor Ryder? Henri ha sempre avuto un carattere infantile. $è una cosa così sciocca. Per quanto mi riguarda, ho accettato ormai da molto tempo che le nostre strade si siano divise. Una volta eravamo capaci di chiacchierare insieme per ore e ore. Vero, Henri? Dissezionando questa o quell'opera, rigirandola da ogni parte davanti a una bella birra, alla Schoppenhaus. Ricordo ancora con affetto quei giorni. Di tanto in tanto vorrei persino non avere avuto il lampo di genio di dissentire. Non mi spiacerebbe ritrovarci questa sera, passare di nuovo ore e ore a discutere e a litigare di musica, o su come hai intenzione di preparare questo o quell'altro pezzo. Vivo per conto mio, signor Ryder. E come può immaginare, - l'uomo si lasciò sfuggire un risolino, - è facile immalinconirsi. Allora comincio a ripensare a com'erano le cose una volta. E mi dico che sarebbe bello ritrovarsi con Henri e discutere ancora sulle partiture che sta preparando. Una volta non faceva niente senza prima consultarmi. Non era così, Henri? Su, non siamo infantili. Cerchiamo almeno di comportarci civilmente.
- Ma perché proprio oggi? - urlò all'improvviso Christoff. - Non ti vuole nessuno, qui! Ce l'hanno ancora con te! Non te ne accorgi! Guardati intorno!
Ignorando questo sfogo, il dottor Lubanski attaccò con un'altra reminiscenza dei tempi in cui lui e Christoff andavano d'accordo. Ben presto persi il filo della storia, e il mio sguardo cominciò a vagare sulle persone sedute alle sue spalle, che lo osservavano nervosamente dai tavoli in fondo al bar.
Sembravano tutte sotto i quarant'anni. C'erano tre donne, e notai che una, in particolare, mi fissava con strana intensità. Doveva avere poco più di trent'anni, indossava un lungo vestito nero e portava occhiali con lenti piccole e spesse. Mi sarei soffermato anche sugli altri con maggiore attenzione, se in quel momento non mi fossi nuovamente ricordato dei numerosi impegni che mi attendevano. Era assolutamente necessario che mi dimostrassi risoluto con i miei attuali ospiti, se non volevo essere trattenuto oltre il tempo a mia disposizione.
Alla prima pausa del dottor Lubanski, sfiorai il braccio di Christoff, dicendogli sottovoce: - Mi chiedo se gli altri tarderanno molto.
- Be'... - Christoff si guardò intorno. Poi disse: - Forse per oggi ci siamo tutti.
Ebbi l'impressione che sperasse di essere contraddetto. Ma vedendo che nessuno faceva commenti, si girò verso di me e proruppe in una breve risata.
- Una riunione per pochi intimi, - disse, - ma le assicuro che qui con noi ci sono... ci sono i cervelli migliori della città. E adesso, signor Ryder, se permette...
Cominciò a presentarmi i suoi amici. Ognuno, quando mi veniva detto il suo nome, mi rivolgeva un sorriso nervoso e due parole di saluto. Nel frattempo notai che il dottor Lubanski era tornato lentamente verso il fondo della sala, senza staccarci gli occhi di dosso. Alla fine delle presentazioni, scoppiò a ridere fragorosamente, ottenendo che Christoff si interrompesse e gli lanciasse un'occhiata gelida e furibonda. Il dottor Lubanski, che intanto si era riseduto al suo tavolo nell'angolo, rise di nuovo e disse:
- Be', Henri, avrai perso tutto in questi anni, ma non la faccia tosta. Hai intenzione di raccontare l'intera saga degli Offenbach al signor Ryder? Al signor £Ryder? - Scosse la testa.
Christoff continuò a fissare torvamente l'amico d'un tempo e parve sul punto di dargli una rispostaccia, ma all'ultimo momento si girò senza dire nulla.
- Buttami fuori, se vuoi, - aggiunse il dottor Lubanski, ricominciando a mangiare la sua purea. - Ma ho l'impressione che non tutti qui - e accennò con il cucchiaio alla sala - trovino la mia presenza così fastidiosa. Perché non mettiamo la cosa ai voti? E se davvero sono indesiderato, me ne vado senza fare storie. Che ne dici di votare per alzata di mano?
- Se vuoi restare a tutti i costi, non me ne importa niente, - disse Christoff. - Non mi fa nessuna differenza. Io ho le prove. Le ho qui con me -. Sollevò una cartellina blu saltata fuori dal nulla e vi batté sopra con la mano. - Io sono sicuro di avere ragione. Tu fa' quello che ti pare. Il dottor Lubanski si girò verso gli altri alzando le spalle, come per dire: - Che cosa si può fare con uno così? - La giovane donna con le lenti spesse distolse subito lo sguardo, ma la maggior parte dei suoi compagni apparvero confusi, e un paio si lasciarono persino sfuggire un timido sorriso.
- Signor Ryder, - disse Christoff, - la prego, si metta comodo. Non appena torna, Gehrard le servirà il pranzo. E adesso, - Christoff batté le mani e la sua voce assunse il tono di chi si rivolge a una grande sala, - signore e signori... In primo luogo voglio ringraziare il signor Ryder da parte di tutti i presenti per avere accettato di venire a discutere con noi pur avendo pochi giorni e sicuramente pochissimo tempo...
- Hai una bella faccia tosta, - gridò il dottor Lubanski dal fondo della sala. - Non solo non ti lasci intimidire da me, ma neppure dal signor Ryder. Davvero una bella faccia tosta, Henri.
- Io non mi lascio intimidire, - ribatté Christoff, - perché ho le prove! Prove incontrovertibili! Le ho qui! Sì, persino il signor Ryder. Sissignore, - aggiunse rivolgendosi a me, - persino un uomo della sua fama. Persino lei deve rimettersi ai £fatti!
- Be', questo è uno spettacolo che merita, - disse il dottor Lubanski agli altri. - Un violoncellista di provincia che monta in cattedra davanti al signor Ryder. Bene, bene, stiamo a sentire.
Per qualche secondo Christoff esitò. Poi aprì la cartellina in maniera risoluta e disse: - Se mi consentite, comincerò con un caso specifico che credo ci porterà dritti al cuore della controversia sulle armonie circolari.
Per qualche minuto Christoff tratteggiò a grandi linee la storia di una famiglia del posto dedita al commercio, sfogliando il suo fascicolo e leggendo qui e là una citazione o un dato statistico. Mi parve che presentasse il caso con una certa competenza, ma nel suo tono c'era qualcosa - l'inutile scansione delle parole, il ripetere due o tre volte le cose - che presto mi urtò i nervi. Sì, mi dissi, il dottor Lubanski non aveva tutti i torti. Non si poteva negare che fosse un po' ridicolo che quel musicista di provincia fallito pretendesse di montare in cattedra.
- E questa la chiami una prova? - interruppe improvvisamente Lubanski mentre Christoff leggeva il verbale di una riunione del consiglio comunale. - Ah ah! Le «prove» di Henri sono proprio interessanti, vero?
- Lasciamolo parlare! Lasciamo che presenti il caso al signor Ryder!
Il giovane che aveva parlato aveva la faccia tonda e una corta giacchetta di pelle. Christoff gli rivolse un sorriso d'approvazione. Il dottor Lubanski alzò le mani e disse: - Va bene, va bene.
- Lasciamolo parlare! - ripeté il giovane dalla faccia tonda. - Poi vedremo. Vedremo che cosa ne pensa il signor Ryder e finalmente sapremo come stanno le cose per davvero.
Christoff ci mise un pezzo a capire il significato di queste ultime parole. Sulle prime rimase di sasso, con la cartellina fra le mani. Poi si guardò intorno come se vedesse quelle facce per la prima volta, e in tutta la sala incontrò solo occhi scrutatori puntati su di lui. Per un attimo parve sul punto di crollare, poi abbassò lo sguardo e borbottò, quasi a se stesso:
- Questi sono fatti. Ho qui le prove. Potete guardarle anche voi, esaminarle -. Sbirciò nella cartellina. - Io le sto solo riassumendo per non dilungarmi. Ecco tutto -. Poi, con uno sforzo, riacquistò un po' di padronanza. - Signor Ryder, - disse, - se ha ancora un attimo di pazienza, sono sicuro che presto vedrà le cose con maggiore chiarezza.
Christoff riprese la sua esposizione in maniera molto simile a prima, se si esclude una lieve tensione nella voce. Mentre parlava, i tornò in mente che la sera precedente avevo rinunciato a preziose ore di sonno per approfondire le mie ricerche sulle condizioni locali; che, nonostante la grande stanchezza, ero andato al cinema e avevo discusso della situazione con i maggiorenti della città. Il fatto che Christoff continuasse a dare per scontata la mia ignoranza - in quel momento, per esempio, si era lanciato in una lunga digressione per spiegare un punto che mi era del tutto ovvio - mi stava portando all'esasperazione.
Apparentemente, non ero il solo a provare insofferenza. Parecchi altri si dimenavano a disagio sulla sedia. Notai che la giovane donna con le lenti spesse guardava torva ora Christoff ora me. Parecchie volte mi parve che stesse per interrompere. Ma alla fine fu un uomo con i capelli cortissimi seduto da qualche parte alle mie spalle che intervenne.
- Un momento, aspetta un momento. Prima di continuare chiariamo una cosa. Una volta per tutte.
Di nuovo dall'angolo più lontano del bar giunse la risata del dottor Lubanski. - Claude e la sua triade pigmentata! Non ti sei ancora messo il cuore in pace?
- Claude, - disse Christoff, - non mi sembra questo il momento...
- No! Visto che il signor Ryder è qui, voglio definire la questione.
- Claude, non è il caso di tornare su quell'argomento. Sto presentando dei fatti per dimostrare...
- Sarà una stupidaggine. Ma chiariamola una volta per tutte. Signor Ryder, signor Ryder, secondo lei è vero che le triadi pigmentate hanno una carica emotiva intrinseca indipendente dal contesto? Lei ne è convinto?
Sentii tutti gli sguardi puntati su di me. Christoff mi lanciò una rapida occhiata, a metà fra il supplichevole e lo spaventato. Ma dato l'ardore con cui mi era stata posta la domanda - per non parlare del presuntuoso atteggiamento di Christoff fino a quel momento - non vidi alcuna ragione per non rispondere con la massima schiettezza. Così dissi:
- Le triadi pigmentate non hanno alcuna proprietà emotiva intrinseca. Anzi le loro sfumature emotive possono cambiare notevolmente non solo secondo il contesto, ma anche secondo il volume. Questa, almeno, è la mia opinione personale.
Nessuno fiatò, ma si vedeva che la mia affermazione aveva
avuto l'effetto di un maglio. A uno a uno, gli sguardi si indurirono e si girarono verso Christoff, che nel frattempo fingeva di darsi da fare con la sua cartellina. Poi l'uomo chiamato Claude disse con voce pacata:
- Lo sapevo. L'ho sempre saputo.
- Ma lui ti ha convinto che sbagliavi, - disse il dottor Lubanski. - Ti ha costretto a credere che avevi torto.
- Che cosa c'entra questo adesso? - strillò Christoff. - Senti, Claude, ci stai portando completamente fuori strada. E il signor Ryder ha pochissimo tempo. Dobbiamo tornare al caso Offenbach.
Ma Claude sembrava sprofondato nei suoi pensieri. Alla fine si girò verso il dottor Lubanski, che annuì con il capo e gli sorrise con aria grave.
- Il signor Ryder ha pochissimo tempo, - ripeté Christoff. - Quindi, se me lo consentite, cercherò di riassumere il mio ragionamento.
Christoff cominciò a esaminare quelli che considerava i punti chiave della tragedia della famiglia Offenbach. Ostentava un atteggiamento disinvolto, anche se era chiaro a tutti che aveva accusato il colpo. In ogni caso, io smisi quasi subito di prestargli attenzione, perché la sua osservazione sulla scarsità del mio tempo mi aveva fatto ricordare all'improvviso che Boris stava aspettandomi nel piccolo caffè.
Mi resi conto che era trascorso un tempo notevole da quando l'avevo lasciato laggiù. Vidi nella mia mente l'immagine del bambino poco dopo la mia partenza, seduto nel suo angolo con la bibita e la torta di ricotta, tutto trepidante al pensiero della gita imminente. Lo vidi scrutare allegramente gli altri avventori seduti nel cortile pieno di sole, lanciare di tanto in tanto un'occhiata al traffico in strada, dicendosi che presto anche lui sarebbe stato là fuori diretto alla meta. Avrebbe ripensato al vecchio alloggio, all'armadio nell'angolo del soggiorno dove, ne era sempre più sicuro, aveva lasciato la scatola con Numero Nove. Poi, con il passare dei minuti, i dubbi che erano sempre rimasti in agguato dentro di lui, quei dubbi che fino a quel momento aveva seppellito con cura, sarebbero tornati strisciando in superficie. Ma lui, ancora per un po', sarebbe riuscito a non perdersi d'animo. Avevo avuto un semplice contrattempo. O forse ero andato a comprare qualcosa per il picnic. D'altronde, il giorno era ancora lungo. Poi la cameriera, la scandinava grassottella, gli avrebbe chiesto se voleva ancora qualcosa, con un filo di inquietudine che a Boris non sarebbe sfuggito. Il bambino avrebbe finto di nuovo di non essere preoccupato, forse avrebbe spavaldamente chiesto un altro bicchiere di frullato. Ma i minuti continuavano a scorrere. Boris avrebbe notato, fuori nel cortile, che certi avventori arrivati molto dopo di lui ripiegavano il giornale, si alzavano, se ne andavano. Avrebbe visto il cielo annuvolarsi, la mattina diventare pomeriggio. Avrebbe ripensato al vecchio appartamento tanto amato, all'armadio del soggiorno, a Numero Nove, e piano piano, mentre mangiucchiava le ultime briciole di torta, avrebbe cominciato a rassegnarsi all'idea di essere stato abbandonato ancora una volta, di dovere, alla fin fine, rinunciare alla gita.
Parecchie voci stavano urlando intorno a me. Un giovanotto con un vestito verde si era alzato in piedi e cercava di far sentire le sue ragioni a Christoff, mentre almeno altre tre persone agitavano il dito per sottolineare qualcosa.
- Ma è irrilevante, - stava urlando Christoff più forte di tutti. - E poi, non è che l'opinione personale del signor Ryder...
Questa frase provocò una reazione furibonda. Quasi tutti cercarono di rispondergli contemporaneamente, ma alla fine Christoff riuscì di nuovo a farsi sentire sopra le grida.
- Sì! Sì! So benissimo chi è il signor Ryder! Ma le condizioni locali, le condizioni locali, sono tutt'altra cosa! Lui non conosce ancora la nostra particolare situazione! Mentre io... ho qui...
Il resto della frase si perse nella baraonda, ma Christoff sollevò in alto la cartellina blu e la sventolò sopra la testa.
- Che faccia tosta! Che faccia tosta! - gridava il dottor Lubanski dal fondo della sala, ridendo.
- Con tutto il rispetto, signor Ryder, - disse Christoff, questa volta rivolgendosi a me, - con tutto il rispetto, mi stupisce che le interessi così poco conoscere la situazione locale. Anzi, sono £meravigliato, sì, £meravigliato che, a dispetto di tutta la sua competenza, lei balzi subito alle conclusioni...
Si levò un nuovo coro di proteste, più furibondo che mai.
- Per esempio... - strillò Christoff per farsi sentire. - Per esempio, mi ha molto stupito che lei abbia acconsentito a farsi fotografare dalla stampa davanti al monumento di Sattler!
Con mia grande costernazione, queste parole provocarono un improvviso silenzio.
- Sì! - Christoff era palesemente soddisfatto dell'effetto ottenuto. - Sì! L'ho visto con i miei occhi! Quando sono andato a prenderlo questa mattina. Era proprio davanti al monumento di Sattler. Sorrideva e lo mostrava a gesti!
Il silenzio esterrefatto si protrasse. Alcuni dei presenti cominciarono a dare segni d'imbarazzo, mentre altri - tra i quali la giovane donna con le lenti spesse - mi fissavano con sguardo interrogativo. Sorrisi, e stavo per dire qualcosa quando il dottor Lubanski, questa volta in tono serio e autoritario, intervenne dal fondo:
- Se il signor Ryder ha scelto di compiere un simile gesto, può significare una sola cosa. E cioè che siamo stati indotti in un errore ancora più grave di quanto sospettassimo.
Poi si alzò e si avvicinò di qualche passo al nostro gruppo, e tutti si girarono verso di lui. Il dottor Lubanski si fermò e inclinò la testa come se stesse ascoltando i lontani rumori del traffico. Poi proseguì:
- Che ciascuno di noi rifletta attentamente su questo messaggio e ne faccia tesoro. Il monumento di Sattler! Ma certo, il signor Ryder ha ragione! Non c'è nulla di esagerato in questo, proprio nulla! Ma non vedete che cercate ancora di aggrapparvi alle stupide opinioni di Henri? La verità è che persino quelli fra noi che le hanno smascherate, persino noi, continuiamo a cascarci. Il monumento di Sattler! Sì, eccoci serviti. Questa città è sull'orlo del baratro. Sull'orlo del baratro!
Fui contento che il dottor Lubanski avesse messo subito in evidenza l'assurdità delle parole di Christoff, sottolineando allo stesso tempo il messaggio forte che avevo voluto inviare alla città. Ma ormai ero troppo indignato con Christoff, e mi dissi ch'era giunto il momento di stracciarlo. Purtroppo, tutti stavano di nuovo urlando. L'uomo chiamato Claude picchiava il pugno sul tavolo cercando di far intendere ragione a un tizio brizzolato con le bretelle e gli stivali sporchi di fango. Almeno quattro persone, da diversi punti della sala, inveivano contro Christoff. La situazione era prossima al caos; pensai che tanto valeva togliere il disturbo. Ma nell'istante in cui mi alzai, la giovane donna con le lenti spesse si materializzò davanti a me.
- Signor Ryder, ce lo dica lei per piacere. Andiamo a fondo della cosa. Henri ha ragione quando sostiene che non possiamo assolutamente abbandonare la dinamica circolare in Kazan?
Non aveva parlato forte, ma la sua voce era penetrante. Tutti udirono la domanda e tacquero immediatamente. Qualcuno dei suoi compagni la fissò sorpreso, ma lei respinse le occhiate con aria di sfida.
- No, io glielo chiedo, - disse. - Questa è un'occasione unica. Non possiamo sprecarla. Io glielo chiedo. Ce lo dica lei, per piacere, signor Ryder.
- Ma io ho le prove, - bofonchiò Christoff miseramente. - Qui, sono tutte qui.
Nessuno gli prestò attenzione, perché gli sguardi dei presenti erano di nuovo puntati su di me. Capii di dover scegliere con cura le mie prossime parole e feci una breve pausa. Poi dissi:
- La mia opinione è che Kazan non ci guadagna mai dalle limitazioni formali. Né dalla dinamica circolare, né da una struttura a doppia battuta. Vedete, ci sono troppi strati, troppe emozioni, soprattutto nelle opere dell'ultimo periodo.
Mi parve di sentire, quasi fisicamente, l'ondata di rispetto che si frangeva contro di me. L'uomo con la faccia tonda mi guardava con un'espressione molto simile allo sgomento. Una donna che indossava una giacca a vento scarlatta continuava a mormorare: - Ecco, ecco, - come se avessi appena pronunciato qualcosa che la sua mente si sforzava di formulare da anni. L'uomo chiamato Claude si era alzato in piedi e aveva fatto qualche passo verso di me annuendo energicamente. Anche il dottor Lubanski annuiva, ma piano piano, con gli occhi chiusi, come per dire: «Sì, sì, ecco finalmente qualcuno che se ne intende». La giovane donna con le lenti spesse, invece, era rimasta immobile e continuava a squadrarmi.
- Posso capire, - proseguii, - la tentazione di ricorrere a questi stratagemmi. $è naturale che il musicista abbia paura che la musica sommerga le sue capacità. Ma sicuramente bisogna accettare la sfida, non ricorrere a limitazioni. Naturalmente, se la sfida è superiore alle nostre forze, il consiglio è di lasciare Kazan in santa pace. E in ogni caso non si dovrebbe mai tentare di trasformare in virtù i propri limiti.
A quest'ultima osservazione, molti in sala non riuscirono più a trattenersi. L'uomo brizzolato con gli stivali infangati proruppe in un vigoroso applauso, guardando Christoff come se volesse morderlo. Parecchi altri si misero di nuovo a inveire contro Christoff, e la donna con la giacca a vento scarlatta ricominciò a ripetere, questa volta a voce più alta: - Ecco, ecco, ecco -. Mi sentii stranamente inebriato e, alzando la voce per farmi sentire nel crescente tumulto, continuai:
- Questa mancanza di coraggio, nella mia esperienza, è molto spesso legata ad altre sgradevoli caratteristiche. A un'ostilità verso il tono introspettivo, quasi sempre accompagnata da un impiego smodato della cadenza frantumata. A una predilezione per l'inutile accoppiamento di passaggi frammentati. E su un piano più personale, a una megalomania che tenta di celarsi dietro maniere modeste e garbate...
Fui costretto a interrompermi perché tutti, ormai, inveivano contro Christoff, il quale, a sua volta, tenendo alta la cartellina blu e sfogliandone le pagine per aria, urlava: - Le prove sono qui! Qui!
- Naturalmente, - strillai per sovrastare il chiasso, - questo è un altro tipico errore. Credere che basti mettere qualcosa in una cartellina per trasformarlo in prova!
Le mie parole furono accolte da una fragorosa risata, sotto la quale si intuiva che era pronta a scatenarsi la rabbia. Poi la giovane donna con le lenti spesse si alzò e si avvicinò a Christoff. Lo fece con estrema calma, violando il piccolo spazio vuoto che fino a quel momento era stato mantenuto intorno al violoncellista.
- Vecchio idiota, - gli disse, e di nuovo la sua voce penetrante si udì chiaramente nel clamore. - Ci hai trascinati tutti giù con te -. Poi, quasi con ponderatezza, lo colpì sulla guancia con il rovescio della mano.
Vi fu un attimo di stupore. Poi all'improvviso tutti si alzarono dalle sedie e cominciarono a spingersi a vicenda per avvicinarsi a Christoff, evidentemente colti dal desiderio di seguire al più presto l'esempio della giovane donna. Mi accorsi che qualcuno mi stava scuotendo la spalla, ma in quel momento ero troppo preso dallo spettacolo per farci caso.
- No, no, basta così! - Il dottor Lubanski, non so come, era riuscito a raggiungere Christoff per primo e aveva alzato le braccia. - No, lasciate stare Henri! Ma che cosa vi salta in mente? Basta così!
Probabilmente fu solo grazie all'intervento del dottor Lubanski che Christoff si salvò dall'assalto generale. Vidi ancora di sfuggita la sua faccia sconvolta e spaventata, poi il cerchio di persone inferocite si richiuse su di lui nascondendomelo alla vista La mano stava di nuovo scuotendomi la spalla; mi girai e vidi l'uomo barbuto - quello con il grembiule, che si chiamava Gerhard - che teneva in mano una scodella di purea fumante.
- Vuole mangiare, signor Ryder? - mi domandò. - Mi scusi se è un po' tardi. Ma vede, abbiamo dovuto farne un'altra pentolata.
- La ringrazio molto, - dissi, - ma devo proprio andare. C'è il mio bambino che mi aspetta -. Poi, dopo che ci fummo allontanati un po' dal chiasso, aggiunsi: - Mi potrebbe portare dall'altra? - In quel momento, infatti, mi ero ricordato che il bar in cui mi trovavo e quello in cui avevo lasciato Boris erano entrambi nello stesso edificio; il locale era di quelli con due sale contrapposte, che danno su strade parallele e soddisfano diversi tipi di clientela.
- L'uomo barbuto fu chiaramente deluso dal mio rifiuto di pranzare, ma si riprese in fretta e disse: - Ma certamente, signor Ryder. Venga che l'accompagno.
Lo seguii dietro il banco. Qui Gerhard aprì una porticina e mi fece cenno di precederlo. Mentre entravo, mi girai un'ultima volta e vidi l'uomo con la faccia tonda che sventolava la cartellina blu di Christoff in piedi su un tavolo. Adesso le grida di rabbia erano frammiste a grandi risate; sentii la voce del dottor Lubanski che, un po' commossa, supplicava: - No, Henri ha già avuto quel che si meritava! Vi prego, vi prego! Basta così!
Mi trovai in una vasta cucina interamente piastrellata di bianco. C'era un forte odore di aceto; con la coda dell'occhio scorsi un donnone chino su un fornello sfrigolante, ma l'uomo barbuto aveva già attraversato la stanza e stava aprendo un'altra porta nell'angolo opposto.
- Da questa parte, signore, - mi disse, mostrandomi la strada.
La porta era stranamente piccola e stretta. Anzi, era così stretta che per passare mi sarei dovuto mettere di traverso. Inoltre, quando vi sbirciai dentro, vidi solo buio; tutto lasciava pensare che stessi guardando in un armadio delle scope. Ma l'uomo barbuto mi fece nuovamente cenno di entrare e disse:
- Mi raccomando, faccia attenzione ai gradini, signor Ryder.
Solo allora notai che subito oltre la soglia c'erano tre gradini; sembravano fatti con casse di legno inchiodate l'una sull'altra. Mi infilai nella porta e li salii a uno a uno con cautela. Quando giunsi in cima, scorsi davanti a me un piccolo rettangolo di luce. Lo raggiunsi in due passi e mi trovai a guardare attraverso un pannello di vetro in una sala illuminata dal sole. Vidi tavoli e sedie, e riconobbi la sala dove avevo lasciato Boris quella mattina. Vidi anche la giovane cameriera paffuta - stavo osservando la sala dalla parete dietro il banco - e, in un angolo, Boris, con gli occhi persi nel vuoto e l'aria imbronciata. Aveva finito la sua torta di ricotta e faceva scorrere distrattamente la forchetta avanti e indietro sulla tovaglia. Se si esclude una giovane coppia seduta accanto alle finestre, il bar era vuoto.
Mi sentii spingere sul fianco e mi accorsi che l'uomo barbuto si era intrufolato alle mie spalle e, dopo essersi accucciato nel buio, armeggiava con un mazzo di chiavi. Un attimo dopo l'intera parete divisoria si aprì davanti a me, e con un passo fui nel bar.
La cameriera si girò e mi sorrise. Poi chiamò Boris: - Ehi, guarda un po' chi c'è!
Boris si voltò verso di me con la faccia lunga. - Dove sei stato? - domandò. - Non tornavi più.
- Scusami tantissimo, Boris, - dissi. Poi chiesi alla cameriera: - Si è comportato bene?
- Oh, è un amore. Mi ha raccontato tutto del posto dove vivevate. Nel complesso residenziale vicino al lago artificiale.
- Ah, sì, - dissi. - Il lago artificiale. Sì, stavamo giusto andandoci.
- Non tornavi più! - disse Boris. - Adesso faremo tardi!
- Scusami tantissimo, Boris. Ma non preoccuparti, c'è ancora tempo. E poi il vecchio appartamento non scappa mica, no? Però hai ragione, dobbiamo muoverci. Vediamo un po' -. Mi girai verso la cameriera, che aveva cominciato a parlare con l'uomo barbuto. - Mi scusi, sa dirmi il modo più facile per andare a questo lago artificiale?
- Il lago artificiale? - La cameriera indicò fuori della finestra. - Vede l'autobus che sta aspettando là fuori? Quello vi porta dritti laggiù.
Seguii con gli occhi la direzione del suo dito e, oltre gli ombrelloni del cortile, vidi un autobus posteggiato più o meno davanti a noi nella strada piena di traffico.
- $è lì da un pezzo, ormai, - proseguì la cameriera. - Quindi vi conviene sbrigarvi. Credo che debba partire da un momento all'altro.
La ringraziai e, facendo segno a Boris di seguirmi, uscii nella luce del sole.
15.
Quando salimmo, l'autista stava accendendo il motore. Mentre compravo i biglietti, vidi che l'autobus era molto pieno e, un o' inquieto, osservai:
- Spero di potermi sedere vicino al bambino.
- Oh, non si preoccupi, - disse l'autista. - $è brava gente. Lasci fare a me.
Poi si girò e urlò qualcosa. Fino a quel momento c'era stata un'atmosfera chiassosa e insolitamente allegra, ma di colpo calò il silenzio. Poi, in tutto l'autobus, i passeggeri cominciarono ad alzarsi dai sedili, a gesticolare, a indicare di qui e di là con il dito, a discutere quale fosse la sistemazione migliore per noi. Una donna corpulenta si sporse nel corridoio centrale e ci chiamò: - Venite qui! Potete sedervi qui! - Ma una seconda voce da un altro punto dell'autobus gridò: - Se ha un bambino piccolo, è meglio qui, così non patirà. Io mi sposto vicino al signor Hartmann -. Poi le consultazioni parvero ricominciare da capo.
- Vede, è brava gente, - disse tutto allegro l'autista. - Ai nuovi venuti viene sempre riservata un'accoglienza speciale. Bene, se vuole essere così gentile da sedersi, possiamo andare.
Boris e io ci dirigemmo in tutta fretta verso due passeggeri in piedi che ci stavano indicando i nostri posti. Lasciai Boris accanto al finestrino e mi sedetti nel preciso istante in cui l'autobus partiva.
Quasi subito mi sentii battere sulla spalla, e dal sedile dietro al nostro qualcuno si sporse per offrire un pacchetto di caramelle.
- Crede che al bambino possano fare piacere? - domandò una voce maschile.
- Grazie, - dissi. Poi più forte, in modo che mi sentissero in tutto l'autobus, aggiunsi: - Grazie. Grazie a tutti. Siete stati di una cortesia esemplare.
- Guarda! - Boris, eccitato, mi afferrò il braccio. - Stiamo prendendo l'uscita nord della città.
Prima che potessi rispondergli, vidi comparire al mio fianco una donna di mezza età. Tenendosi al poggiatesta del mio sedile per non cadere, ci porse una fetta di torta su un tovagliolino di carta.
- C'è un signore là dietro che l'ha avanzata, - disse. - Chissà se il bambino la vuole?
Accettai con riconoscenza, ringraziando di nuovo tutto l'autobus. Poi, mentre la donna si dileguava, sentii una voce un paio di file più indietro che diceva: - $è bello vedere un padre e un figlio che vanno così d'accordo. Guardateli, si fanno una gitarella per conto loro. $è uno spettacolo che oggi si vede troppo di rado.
A queste parole provai un impeto di orgoglio e lanciai un'occhiata a Boris. Forse anche lui aveva sentito, perché mi rivolse un sorriso in cui c'era qualcosa di più di una semplice punta di complicità.
- Boris, - dissi, porgendogli la torta, - non è fantastico questo autobus? Valeva la pena aspettare, non ti sembra?
Boris sorrise di nuovo, ma stava esaminando la sua fetta e non disse nulla.
- Boris, - proseguii, - è un pezzo che volevo dirtelo. Perché ogni tanto potrebbero venirti dei dubbi. Sai, non avrei mai potuto desiderare niente di meglio... - Scoppiai improvvisamente a ridere. - Ti sembrerà cretino. Ma quello che voglio dire è che sono felice di come sei. E felice di essere qui con te -. Risi di nuovo. - Non ti piace questo viaggio in autobus?
Boris annuì con la bocca piena di torta. - Buona, - disse.
- Io me lo sto proprio godendo. E che persone gentili.
In fondo all'autobus qualche passeggero si mise a cantare. Provai un grande rilassamento e mi abbandonai sul sedile. Il cielo era di nuovo nuvoloso. Stavamo ancora attraversando una zona piena di case, ma mentre guardavo fuori vidi sfilare due cartelli stradali, l'uno dopo l'altro, che dicevano: «Uscita nord».
- Mi scusi, - disse una voce maschile da qualche parte alle nostre spalle. - Ma ho sentito che diceva all'autista che vuole andare al lago artificiale. Spero che laggiù non faccia troppo freddo. Se cerca solo un posto carino dove passare il pomeriggio, le consiglio di scendere un paio di fermate prima, ai Giardini Maria Christina. C'è uno stagno dove si può andare in barca, e credo che al bambino piacerebbe.
Chi parlava era seduto proprio dietro di noi, ma lo schienale dei sedili era molto alto; per quanto mi girassi e allungassi il collo, non riuscivo a vederlo bene in faccia. In ogni caso lo ringraziai per il suggerimento - offerto sicuramente con le migliori intenzioni - e cominciai a spiegare lo scopo un po' speciale della nostra visita al lago artificiale. Non avevo alcuna intenzione di scendere nei particolari, ma quand'ebbi cominciato a parlare mi sentii quasi costretto a continuare da quell'atmosfera conviviale. Devo dire che in realtà fui molto soddisfatto dal tono perfettamente equilibrato che ero riuscito a dare al mio discorso, a metà fra il serio e il faceto. Inoltre, dai mormorii che udivo alle mie spalle, capii che il passeggero stava ascoltando con grande sensibilità e partecipazione. Fatto sta, che presto mi ritrovai a spiegare chi era Numero Nove e perché fosse così importante. Avevo appena cominciato a raccontare come mai Boris l'avesse dimenticato nella scatola, quando il passeggero mi interruppe con un colpetto di tosse.
- Mi scusi, - disse, - ma è quasi inevitabile che una gita di questo genere provochi una certa agitazione. $è più che naturale. Ma se mi permette, credo che abbiate tutte le ragioni di essere ottimisti -. Probabilmente il signore si era chinato in avanti, perché adesso la voce, calma e carezzevole, veniva da un punto a metà tra la spalla di Boris e la mia. - Sono sicuro che troverete il vostro Numero Nove. Anche se ovviamente in questo momento siete un po' preoccupati. Può essere successo di tutto, starete pensando. Ed è normale. Ma da ciò che mi avete raccontato, sono sicuro che andrà a finire bene. Naturalmente, quando busserete alla porta, i nuovi inquilini potrebbero non riconoscervi ed essere un po' sospettosi. Ma quando avrete spiegato chi siete, senza dubbio vi faranno entrare. Se viene ad aprirvi la moglie, dirà: «Oh, finalmente! Ci chiedevamo proprio quando sareste venuti». Sì, sono sicuro che dirà così. Poi si girerà e griderà al marito: «$è il bambino che abitava qui!» Allora arriverà anche il marito, un signore dall'aria affabile, che magari in quel momento stava dando il bianco alle pareti. E vi dirà: «Be', era ora. Entrate a prendere una tazza di tè». Poi vi farà passare in salotto, mentre sua moglie scapperà in cucina a preparare la merenda. Voi noterete subito che la casa è molto cambiata da quando ci vivevate voi; il nuovo inquilino se ne accorgerà, e sulle prime si sentirà un po' in colpa. Ma non appena gli avrete chiarito che non gli serbate rancore per i cambiamenti, sono sicuro che vi farà visitare l'alloggio da cima a fondo, mostrandovi le varie modifiche, tutte cose che ha fatto con le sue mani e di cui è fierissimo. Poi la moglie porterà in salotto il tè e qualche pasticcino casalingo; allora vi siederete e, mangiando e bevendo piacevolmente, ascolterete la coppia cantarvi le lodi della casa e del complesso residenziale. Nel frattempo, naturalmente, sarete tutti e due un po' in ansia per Numero Nove, e aspetterete il momento adatto per spiegare lo scopo della vostra visita. Ma credo che saranno i vostri ospiti a parlarne per primi. Dopo un po' che chiacchierate e bevete tè, la moglie dirà: «Siete per caso venuti a cercare qualcosa? Qualcosa che avevate dimenticato?» E a questo punto potrete tirare fuori la storia di Numero Nove e della scatola. E allora lei, senza dubbio, dirà: «Oh, sì, abbiamo messo la scatola in un posto sicuro. Avevamo capito che era importante». E prima ancora di avere finito la frase, farà un piccolo cenno al marito. Magari neppure un cenno, mogli e mariti diventano quasi telepatici quando sono vissuti felicemente insieme per tanti anni come quei due. Questo non vuol dire, naturalmente, che non litighino mai. Oh, no. Magari litigano spesso, magari in tutti questi anni hanno anche attraversato dei momentacci in cui non andavano per niente d'accordo. Ma vedrete voi stessi, quando li conoscerete; vedrete che in queste coppie le cose alla fine si aggiustano, e moglie e marito, sostanzialmente, stanno benissimo insieme. Ebbene, il marito andrà a prendere la scatola nel posto dove tengono le cose di valore e la porterà in salotto. Magari sarà avvolta nella carta velina. E naturalmente voi la aprirete subito, e il vostro Numero Nove sarà lì, esattamente come l'avevate lasciato, con la base da incollare. Allora potrete richiudere la scatola, e quella simpatica coppia vi offrirà un'altra tazza di tè. Dopo un po' direte che dovete proprio andare, che avete già approfittato abbastanza della loro cortesia. Ma la moglie insisterà perché prendiate un'altra fetta di torta. E il marito vorrà farvi fare ancora una volta il giro dell'alloggio perché vediate come ha dato bene il bianco. Alla fine vi saluteranno dalla porta di casa sventolando la mano, dicendovi di tornare a trovarli la prossima volta che passerete di lì. Naturalmente, non è detto che vada esattamente così, ma da quello che mi avete raccontato sono sicuro, nel complesso, di non sbagliarmi molto. Quindi non avete nessun bisogno di preoccuparvi, nessun bisogno...
Quella voce nell'orecchio, unita al dolce rollio dell'autobus che viaggiava sulla strada statale, ebbe un effetto straordinariamente distensivo. Avevo già chiuso gli occhi poco dopo che l'uomo si era messo a parlare, e più o meno a questo punto mi abbandonai sul sedile e mi appisolai felicemente.
Boris mi stava scuotendo la spalla. - Dobbiamo scendere, - diceva.
Improvvisamente sveglio, vidi che l'autobus si era fermato e che eravamo gli unici passeggeri rimasti a bordo. L'autista si era alzato in piedi e aspettava pazientemente che scendessimo. Mentre ci avviavamo lungo il corridoio, ci disse:
- Riguardatevi. Fa un bel freddo fuori. Quel lago, secondo me, dovrebbero interrarlo. Dà solo fastidio, e ogni anno ci annegano in parecchi. Certo, in qualche caso si tratta di suicidi, ma forse, se non ci fosse il lago, sceglierebbero un metodo meno sgradevole per ammazzarsi. Secondo me, dovrebbero interrarlo.
- Sì, - dissi. - $è naturale che il lago susciti polemiche. Ma io non sono di queste parti e preferisco non immischiarmi.
- Molto saggio. Be', buona giornata -. Poi, salutando Boris, aggiunse: - E divertiti, giovanotto.
Scendemmo e, mentre l'autobus si allontanava, ci guardammo intorno. Ci trovavamo sul margine esterno di un grande bacino di cemento. Un po' più in là, al centro del bacino, c'era il lago artificiale; con quella sua forma a rene, sembrava una versione gigantesca delle volgari piscine che un tempo erano prerogativa dei divi di Hollywood. Non potei fare a meno di ammirare con quanta fierezza il lago - anzi, l'intero complesso - proclamasse la sua artificialità. Non c'era traccia d'erba. Persino gli esili alberelli sparsi sui pendii di cemento erano ben racchiusi in vasi di ghisa e inseriti con precisione nel rivestimento artificiale. Tutto intorno a noi, le innumerevoli e identiche finestre dei condomini sembravano contemplare la scena dall'alto. Notai che la facciata di ogni edificio era lievemente convessa, per ottenere un effetto di circolarità ininterrotta che ricordava gli spalti di uno stadio. Ma sebbene fossimo letteralmente circondati da appartamenti - almeno quattrocento, calcolai - non si vedeva quasi anima viva. Scorsi un paio di persone che camminavano di buon passo sulla sponda opposta del lago - un uomo con un cane, una donna con una carrozzina - ma evidentemente nell'aria c'era qualcosa che invitava a starsene chiusi in casa. Come ci aveva preannunciato l'autista, il clima non giovava. Appena arrivati, fummo subito investiti da una gelida raffica proveniente dal lago.
- Su, Boris, - dissi, - meglio affrettarci.
Il bambino sembrava avere perso ogni entusiasmo e fissava il lago con aria assente. Non si mosse. Mi diressi verso il condominio alle nostre spalle, sforzandomi di camminare con passo scattante, ma subito mi venne in mente che in quel complesso sterminato non sarei mai riuscito a trovare il nostro alloggio.
- Boris, perché non fai strada tu? Su, che cosa ti prende?
Il bambino tirò un sospiro, poi s'incamminò. Lo seguii su per un'interminabile gradinata di cemento. A un certo punto, mentre svoltavamo per affrontare una nuova rampa, Boris lanciò un grido e si irrigidì in una posa da arti marziali. Sussultai, ma mi accorsi subito che l'assalitore era solo nella sua immaginazione. Mi limitai a dire:
- Bravo, Boris.
Da quel momento il bambino ripeté l'urlo e la mossa ogni volta che le scale cambiavano direzione. Poi, con mio grande sollievo, visto che cominciavo a sbuffare, Boris abbandonò le scale e imboccò una specie di lungo ballatoio orizzontale. Dall'alto, la forma a rene del lago era ancora più evidente. Il cielo era lattiginoso, e sebbene il ballatoio fosse coperto - dovevano essercene almeno altri due o tre direttamente sopra di noi - il riparo era scarso e le folate di vento ci investivano con forza selvaggia. Alla nostra sinistra c'erano gli appartamenti; una serie di brevi scale di cemento simili a ponticelli gettati su un fossato collegava il ballatoio al corpo dell'edificio. Alcune delle scale salivano, altre scendevano. Mentre procedevamo, cominciai a studiare con cura le porte, ma dopo qualche minuto, visto che nessuno di quegli ingressi mi risvegliava il minimo ricordo, rinunciai e guardai il panorama del lago.
Nel frattempo Boris mi precedeva baldanzosamente di qualche passo; sembrava di nuovo eccitato per la nostra avventura. Aveva cominciato a bisbigliare tra sé e sé, e quanto più camminavamo tanto più i suoi bisbigli aumentavano d'intensità. A un certo punto, senza mai fermarsi, si mise a saltare e a menare colpi di karatè nell'aria; ogni volta che ricadeva a terra il rumore dei suoi piedi rimbombava sul ballatoio. Visto però che aveva smesso di gridare come sulle scale, e che non avevamo ancora incontrato anima viva, pensai che non fosse il caso di redarguirlo.
Dopo un po' abbassai gli occhi sul lago e mi accorsi con stupore che l'angolazione era notevolmente cambiata. Solo allora mi resi conto che quella specie di ballatoio faceva il giro di tutto il complesso. Avremmo potuto camminare in tondo all'infinito. Guardai Boris, che mi precedeva di corsa gesticolando come un matto, e mi chiesi se sapesse davvero la strada. Avevo fatto le cose proprio male, pensai. Avrei dovuto cercare almeno di avvisare i nuovi inquilini. In fondo, a ben rifletterci, non c'era motivo perché dovessero accoglierci con particolare entusiasmo. Cominciai a vedere l'intera spedizione sotto una luce pessimistica.
- Boris, - gridai, - spero che tu stia facendo attenzione. Cerca di non oltrepassare l'appartamento.
Il bambino si voltò a guardarmi senza interrompere i suoi feroci mormorii, poi si allontanò correndo di qualche passo e ricominciò a menare colpi di karatè.
Avevo l'impressione di camminare da un'eternità e, quando guardai di nuovo il lago, vidi che avevamo fatto almeno un giro completo. Davanti a me Boris continuava a parlottare dimentico di tutto.
- Ehi, aspetta un momento, - gli gridai. - Boris, aspetta.
Il bambino si fermò e mentre mi avvicinavo mi guardò accigliato.
- Boris, - dissi gentilmente, - sei sicuro di ricordarti dov'è il vecchio appartamento?
Il bambino fece spallucce e abbassò gli occhi. Poi disse con un filo di voce: - Certo che me lo ricordo.
- Però mi sembra che abbiamo già fatto tutto il giro.
Boris fece di nuovo spallucce. Si stava guardando una scarpa, inclinandola ora da una parte ora dall'altra. Alla fine disse: - L'avranno tenuto bene Numero Nove?
- Penso di sì, Boris. Era in una scatola, in una scatola dall'aspetto importante. Le cose come quelle si mettono da parte. Magari su uno scaffale, o in un altro posto.
Per un momento Boris continuò a fissarsi la scarpa. Poi disse: - Ci siamo già passati davanti. Ci siamo passati davanti due volte.
- Come? Vuoi dire che mi hai fatto girare in tondo quassù, con questo vento gelido, per niente? Perché non me l'hai detto, Boris? Non ti capisco.
Il bambino rimase zitto, spostando il piede ora da una parte ora dall'altra.
- Allora: ci conviene tornare indietro, - domandai, - oppure dobbiamo fare un altro giro del lago?
Boris sospirò e per un momento parve riflettere. Poi alzò gli occhi e disse: - E va bene. $è poco più indietro. L'abbiamo appena passato.
Tornammo per un breve tratto sui nostri passi. A un certo punto Boris si fermò davanti a una delle scale e lanciò un'occhiata alla porta. Poi le girò la schiena e ricominciò a studiarsi la scarpa.
- Ah, sì, - dissi, guardando attentamente la porta. Anche se in realtà quell'uscio dipinto di blu - che non aveva praticamente nulla che lo distinguesse dagli altri - non mi risvegliava alcun ricordo.
Boris si voltò a dare un'altra occhiata alla casa, poi abbassò gli occhi e cominciò a colpire il battuto di cemento con la punta della scarpa. Per qualche istante rimasi ai piedi della scala, un po' incerto sul da farsi. Alla fine dissi:
- Boris, aspettami qui un momento. Salgo a vedere se c'è qualcuno.
Il bambino continuò a battere il piede. Io salii i gradini e bussai alla porta. Non ottenni risposta. Dopo avere bussato una seconda volta inutilmente, accostai la faccia al piccolo riquadro di vetro, ma il vetro era smerigliato e non vidi nulla.
- La finestra, - mi gridò Boris dal basso. - Dài un'occhiata dalla finestra.
Alla mia sinistra vidi una specie di balcone - in realtà poco più di un cornicione che correva lungo tutta la facciata dell'edificio, così stretto che non ci sarebbe stata nemmeno una sedia. Allungai una mano per afferrarmi alla ringhiera di ferro e, sporgendomi oltre il parapetto della scala, riuscii a sbirciare dentro la finestra più vicina. Vidi un soggiorno a pianta aperta, con un tavolo da pranzo spinto contro il muro e qualche mobile moderno un po' fuori moda.
- La vedi? - stava urlando Boris. - La vedi, la scatola?
- Un momento.
Mi sporsi ancora di più, cercando di non pensare al vuoto che si spalancava sotto di me.
- La vedi?
- Ti ho detto un momento, Boris.
Intanto la stanza cominciava a sembrarmi sempre più familiare. L'orologio triangolare appeso alla parete, il divano di gommapiuma color panna, il mobiletto a tre piani per l'impianto stereo; e mi parve che ogni oggetto, man mano che il mio sguardo lo sfiorava, portasse con sé un doloroso lampo di riconoscimento. Tuttavia, mentre continuavo a sbirciare nella stanza, ebbi la netta impressione che l'intera parte posteriore - unita al corpo principale per formare una L - un tempo non esistesse, e fosse stata aggiunta solo di recente. Ciò nonostante, quanto più la guardavo, tanto più quella parte di stanza mi sembrava nota, finché mi accorsi che ciò era dovuto, probabilmente, all'incredibile somiglianza con la parte posteriore del soggiorno della casa di Manchester in cui ero vissuto per parecchi mesi con i miei genitori. Quella casetta di città era umida e aveva un gran bisogno di una mano di bianco, ma ci eravamo rassegnati a quella sistemazione perché dovevamo restarci solo finché il lavoro di mio padre ci avesse consentito di trasferirci in un posto migliore. Per me, ragazzino di nove anni, la casa aveva rappresentato un cambiamento emozionante, ma soprattutto la speranza che per tutti noi stesse cominciando un capitolo nuovo e più felice della nostra vita.
- Non c'è nessuno lì dentro, - disse una voce alle mie spalle. Raddrizzandomi, vidi che l'uomo che aveva parlato era uscito dall'alloggio vicino. Se ne stava davanti alla sua porta, in cima a una scala parallela a quella su cui mi trovavo io. Aveva circa cinquant'anni e lineamenti grossolani, da bull-dog. I suoi capelli erano scarmigliati, e la sua maglietta aveva una chiazza di sudore sul petto.
- Ah, - dissi, - l'appartamento è vuoto?
L'uomo alzò le spalle. - Chi può dirlo? Magari torneranno. A me e a mia moglie non piace avere un appartamento vuoto accanto al nostro, ma dopo tutto quel pandemonio, abbiamo tirato un sospiro di sollievo, gliel'assicuro. Non siamo gente senza cuore. Ma dopo quello che è successo, be', lo preferiamo vuoto quell'appartamento.
- Ah. Quindi è vuoto da un pezzo. Settimane? Mesi?
- Oh, più o meno da un mese. Chi sa? Magari torneranno, ma se non tornano per noi è lo stesso. Non mi fraintenda, c'erano volte in cui mi spiaceva per loro. Non siamo gente senza cuore. E anche noi abbiamo attraversato i nostri momenti difficili. Ma quando non la smettono più, be', ti viene proprio voglia che se ne vadano. Meglio vuoto.
- Capisco. Fastidi a non finire.
- Oh, sì. Anche se a dire il vero non credo che siano mai venuti alle mani. Però, quando li sentivamo urlare nel cuore della notte, c'era da perdere il sonno.
- Mi scusi, ma faccia attenzione... - Mi avvicinai di un passo e gli accennai con gli occhi che Boris poteva sentirci.
- No, mia moglie non era affatto contenta, - continuò l'uomo, ignorandomi. - Quando cominciava la cagnara, nascondeva la testa sotto il cuscino. Una volta l'ha fatto persino in cucina. Sono entrato e l'ho trovata che cucinava con un cuscino intorno alla testa. Non era piacevole. Lui, a vederlo, sembrava sempre sobrio; un tipo molto rispettabile. Ci faceva un cenno di saluto e andava per i fatti suoi. Ma mia moglie è convinta che sotto ci fosse qualcosa. Sa, l'alcool...
- Senta, - sussurrai inferocito, sporgendomi dal parapetto di cemento che ci separava, - non vede che c'è un bambino? Le sembrano discorsi da fare in sua presenza?
L'uomo guardò con aria stupita in direzione di Boris. Poi disse: - Le sembra tanto piccolo? Non può mica proteggerlo da tutto. Comunque, se non vuole parlare di queste cose, bene, parliamo pure d'altro. Trovi lei un argomento migliore, se ci riesce. Io le stavo solo raccontando. Ma se lei non vuole parlarne...
- No che non voglio! Non mi interessa affatto sentire...
- Be', non era niente di importante. Solo che è naturale che io parteggiassi per lui e non per lei. Se avesse alzato le mani, be', sarebbe tutto un altro discorso, ma non mi risulta che l'abbia mai picchiata. Quindi per me il torto era della donna. D'accordo, lui stava via molto, ma da quel che abbiamo capito era costretto, faceva parte del suo lavoro. Mica una buona ragione, dico io. Mica una buona ragione per fare la matta a quattro...
- La vuole piantare? Non ha un briciolo di buon senso? Il bambino! Può sentirci...
- Va bene, e anche se ascolta? I bambini prima o poi le vengono a sapere queste cose. Io le stavo solo spiegando perché parteggiavo per lui. $è stato per questo che mia moglie ha tirato fuori la storia dell'alcool. Stare via è un conto, diceva, ma bere è un altro...
- Senta, se continua così, sarò costretto a porre immediatamente fine a questa conversazione. L'avverto che lo farò.
- Non può sperare di proteggere il bambino per sempre, non lo capisce? Quanti anni ha? Non mi sembra così piccolo. Non serve a niente essere iperprotettivi. Il bambino deve imparare ad affrontare il mondo, con tutte le sue magagne...
- Non deve affatto! Non ancora! E poi, me n'infischio delle sue idee. Che cosa c'entra lei? $è figlio mio, sotto la mia responsabilità, e non ammetto simili discussioni...
- Non capisco perché se la prenda tanto. Stavo solo facendo conversazione. Le raccontavo le nostre impressioni. Quei due non erano cattivi, e nemmeno antipatici, ma a volte il troppo stroppia. Anche se le cose, sentite dall'altra parte di un muro, sembrano sempre peggio di quel che sono. Guardi che è inutile cercare di nascondere la realtà a un bambino di quell'età. La sua è una battaglia persa. E a che cosa serve...
- Le sue opinioni non mi interessano! Ancora per qualche anno non voglio assolutamente che ascolti certi discorsi...
- Lei è uno sciocco. Quello che le sto raccontando è vita di tutti i giorni. Anche mia moglie e io abbiamo i nostri alti e bassi. Per questo lui mi faceva pena. Perché so come ci si sente la prima volta che ti accorgi...
- L'avverto! Metterò fine a questa conversazione! Guardi che l'avverto!
- Ma io non ho mai bevuto. E questo cambia le cose. Viaggiare molto è un conto, ma bere a quel modo...
- Questo è l'ultimo avvertimento! Un'altra frase del genere e me ne vado!
- Quando era ubriaco, diventava crudele. Non la picchiava, d'accordo, ma noi sentivamo, e le assicuro che era crudele. Non riuscivamo a capire tutto quello che le diceva, ma anche se era buio pesto ci tiravamo su a sedere e ascoltavamo...
- Ecco! Ecco! Io l'avevo avvertita! Adesso me ne vado! Me ne vado!
Girandogli la schiena, corsi giù da Boris. Lo afferrai per un braccio e cominciai ad allontanarmi in tutta fretta, ma in quel momento l'uomo cominciò a urlarci dietro:
- La sua è una battaglia persa! Il bambino deve scoprire com'è fatto il mondo! La vita è così! Non c'è niente di male se è fatta così!
Boris si voltò incuriosito, e fui costretto a tirarlo energicamente per il braccio. Camminammo per un bel po' a passo spedito. Più di una volta mi accorsi che Boris cercava di rallentare, ma io continuai a trascinarlo, ansioso di evitare il rischio di un inseguimento. Quando infine ci fermammo, ero senza fiato. Barcollando verso il parapetto - che era stranamente basso e mi arrivava poco sopra la vita - vi appoggiai i gomiti e mi sporsi a guardare. Contemplai il lago, gli alti condomini sulla riva opposta, il cielo pallido e sconfinato, e aspettai che il mio respiro si calmasse.
Dopo un momento mi accorsi che Boris era di fianco a me. Mi dava la schiena e giocherellava con un frammento ballerino di mattone sulla sommità del parapetto. Cominciai a provare un certo imbarazzo per ciò che era successo, e mi resi conto che avrei dovuto dargli qualche spiegazione. Stavo cercando le parole giuste, quando Boris, senza girarsi, mormorò:
- Quell'uomo era matto, vero?
- Sì, Boris, completamente matto. Uno squilibrato.
Boris continuò a giocherellare con il parapetto. Poi disse: - Non importa, sai. Posso stare senza Numero Nove.
- Se non fosse per quell'uomo, Boris...
- Non ha importanza. Non ha più importanza -. Poi il bambino si voltò verso di me e sorrise. - Finora è stata una bellissima giornata, - disse, animandosi.
- Ti stai divertendo?
- $è stata magnifica. Il viaggio in autobus, tutto. Davvero magnifica.
Mi venne una gran voglia di abbracciarlo, ma pensai che il gesto lo avrebbe confuso e forse allarmato. Mi limitai ad arruffargli leggermente i capelli e tornai a contemplare il panorama.
Il vento era calato e non dava più fastidio; per un momento restammo l'uno accanto all'altro in silenzio, a guardare il complesso residenziale. Poi gli dissi:
- Boris, probabilmente ti chiederai perché non possiamo sistemarci da qualche parte e vivere tranquilli, noi tre insieme. Sono sicuro, non potrebbe essere altrimenti, che ti chiedi perché me ne vado in continuazione, anche a costo di far soffrire tua madre. Be', devi capire che se viaggio tanto non è perché non vi voglio bene o non voglio stare con voi. In un certo senso, il mio sogno sarebbe di rimanere a casa con te e la mamma, vivere in un alloggio come questo, in un posto qualsiasi. Ma vedi, non è così semplice. Sono costretto a viaggiare perché nessuno può dire quando si presenterà la grande occasione. Mi riferisco al viaggio con la V maiuscola, al viaggio che cambierà la vita non solo a me ma a tutti, al mondo intero. Come faccio a spiegarti, Boris? Sei così giovane. Vedi, basta un niente per lasciarselo sfuggire. Un giorno ti dici, no, questa volta non parto, sto a casa a riposare. E solo più tardi scopri che hai perso la grande occasione, il viaggio della tua vita. E una volta che te lo sei lasciato sfuggire, non puoi più tornare indietro. Troppo tardi. Dopo potrei dannarmi l'anima a viaggiare, ma non servirebbe a nulla, sarebbe troppo tardi, e tutti questi anni sarebbero buttati via. L'ho visto succedere ad altri, Boris. Viaggiano per anni, finché cominciano a sentirsi stanchi, magari un po' pigri. Spesso è proprio in quel momento che si presenta la grande occasione. E loro se la lasciano sfuggire. E sai cosa capita? La rimpiangono per il resto dei loro giorni. Diventano tristi e scontrosi. E quando muoiono sono ormai dei rottami. Ecco perché, Boris. Ecco perché adesso non posso fermarmi, perché devo continuare a viaggiare e viaggiare. Lo so che i miei viaggi ci rendono la vita difficile. Ma dobbiamo essere forti e pazienti, tutti e tre. Non ci vuole più molto, ne sono sicuro. La grande occasione arriverà presto, poi basta, potrò finalmente rilassarmi e riposare. Potrò stare a casa quanto voglio, e non avrà più importanza. Potremo rimanere insieme, noi tre soli. Fare tutto ciò che non abbiamo potuto fare finora. Il momento è vicino, ne sono sicuro, ma serve ancora un piccolo sforzo. Boris, spero che tu riesca a capire quello che ti sto dicendo.
Boris rimase a lungo in silenzio. Poi all'improvviso raddrizzò le spalle e disse seccamente: - Levatevi dai piedi, tutti. E guai al primo che parla -. Poi si allontanò di corsa e ricominciò con le sue mosse di karatè.
Rimasi qualche minuto appoggiato al parapetto, contemplando il panorama e ascoltando i furiosi borbottii di Boris. Poi, quando mi voltai di nuovo a guardarlo, capii che il bambino stava recitando l'ultima versione di una fantasia con la quale si trastullava da qualche settimana. Senza dubbio, il fatto di essere così vicini al teatro di questa fantasia aveva reso irresistibile la prospettiva di riviverla daccapo. Infatti, il canovaccio prevedeva che Boris e suo nonno lottassero contro una folta banda di teppisti proprio in quel passaggio coperto, davanti al vecchio appartamento.
Continuai a osservarlo mentre gesticolava imperterrito, ormai a parecchi metri da me. Immaginai che fosse giunto a quella parte in cui lui e il nonno, spalla contro spalla, si preparavano a sostenere un altro attacco. Intorno a loro il terreno era già coperto di corpi privi di sensi, ma alcuni dei teppisti più tenaci stavano rinserrando le file per un nuovo assalto. Boris e il nonno aspettavano tranquilli a fianco a fianco, mentre i teppisti bisbigliavano strategie nell'oscurità. Anche in questa fantasia, come sempre, Boris era vagamente più vecchio. Non proprio adulto - cosa che avrebbe reso la storia troppo remota e avrebbe creato complicazioni con l'età del nonno - ma quel tanto più grande da rendere credibile l'indispensabile prestanza fisica.
Boris e Gustav lasciavano ai teppisti tutto il tempo che volevano per prendere posizione. Poi, quando arrivava l'ondata degli assalitori, nonno e nipote, che ormai formavano una squadra ben affiatata, li liquidavano con efficienza, quasi con tristezza, avventandosi su di loro da ogni lato. Presto l'attacco si esauriva... ma no, un ultimo teppista sbucava dall'oscurità brandendo un coltellaccio. Gustav, che era il più vicino, gli vibrava un rapido colpo al collo, e con questo la battaglia si poteva considerare conclusa.
Per qualche istante Boris e il nonno osservavano silenziosi, quasi con solennità, i corpi sparsi intorno a sé. Poi Gustav, gettando un'ultima occhiata da veterano al campo di battaglia, faceva un cenno, e i due se ne andavano con l'espressione di chi ha, compiuto il suo dovere, per quanto sgradevole. Poi salivano i pochi gradini che portavano al vecchio alloggio, si giravano a guardare ancora una volta la banda sconfitta - qualche teppista cominciava già a gemere o a trascinarsi via - ed entravano.
- Tutto a posto, - annunciava Gustav sulla soglia. - Se ne sono andati.
A queste parole, Sophie e io comparivamo timorosi nell'ingresso. Boris, che veniva dietro al nonno, aggiungeva: - Ma non è finita. Attaccheranno ancora una volta, forse prima dell'alba.
Questa valutazione, così ovvia per nonno e nipote che fra di loro non avevano nemmeno avuto bisogno di parlarne, ci strappava un grido angosciato.
- No, non ce la faccio più! - gemeva Sophie, mettendosi a singhiozzare. Io la stringevo fra le braccia cercando di confortarla, ma anche il mio volto si contraeva in una smorfia. Di fronte a questa scena patetica, Boris e Gustav non mostravano il minimo segno di disprezzo. Gustav mi posava una mano sulla spalla per rassicurarmi e diceva: - Non temere. Boris e io non vi lasciamo. Vedrai che dopo quest'ultimo attacco se ne andranno per sempre.
- Esatto, - confermava Boris. - Un'altra battaglia sarà più che sufficiente -. Poi, rivolgendosi a Gustav, aggiungeva: - Nonno, magari la prossima volta provo di nuovo a farli ragionare. Per dargli la possibilità di ritirarsi.
- Non ti staranno a sentire, - diceva Gustav, scuotendo la testa con gravità. - Ma hai ragione. Dobbiamo dargli un'ultima possibilità.
Sophie e io, sopraffatti dalla paura, abbracciati e piangenti, correvamo a nasconderci in casa. Boris e Gustav si guardavano in faccia, sospiravano stancamente, poi aprivano la porta d'ingresso e tornavano fuori.
Il passaggio coperto era buio, silenzioso e deserto.
- Tanto vale riposarci un po', - diceva Gustav. - Dormi tu per primo, Boris. Se li sento arrivare, ti chiamo.
Boris annuiva, si sedeva sull'ultimo gradino, con la schiena contro la porta, e si addormentava subito.
Dopo un po' si sentiva sfiorare il braccio, e in un baleno era in piedi, completamente sveglio. Il nonno guardava già con faccia torva i teppisti che stavano riunendosi nel passaggio coperto. Erano più numerosi che mai; per la battaglia finale avevano reclutato fino all'ultimo dei loro dagli angoli più bui della città. Adesso erano tutti lì, con logori calzoni di pelle, giacche militari, cinture belluine; brandivano spranghe o catene di bicicletta... ma il senso dell'onore vietava loro di portare pistole. Boris e Gustav scendevano lentamente le scale verso di loro e si fermavano sul secondo gradino, o forse sul terzo. Poi Boris, al segnale del nonno, cominciava a parlare, alzando la voce perché si sentisse oltre le colonne di cemento:
- Vi abbiamo legnati un sacco di volte. Adesso vedo che siete venuti ancora più numerosi. Ma in cuor vostro sapete che non potete batterci. E questa volta non possiamo garantirvi che qualcuno non si faccia male sul serio. Questa lotta non ha senso. Probabilmente un tempo anche voi avevate una casa. Una mamma e un papà. Magari fratelli e sorelle. Voglio che sappiate come stanno le cose. I vostri attacchi, i continui atti di vandalismo contro il nostro alloggio, fanno piangere mia madre. $è sempre tesa e irritabile, e per colpa vostra mi sgrida spesso senza ragione. E come se non bastasse papà se ne va per lunghi periodi, a volte anche all'estero, e la mamma non è affatto contenta. E tutto questo per colpa dei vostri attacchi terroristici al nostro alloggio. Magari fate così solo perché siete su di giri, o perché venite da una famiglia distrutta e non sapete che cosa fare di voi stessi. Per questo cerco di spiegarvi come stanno le cose, quali sono le conseguenze del vostro sconsiderato comportamento. Prima o poi potrebbe succedere che papà si stufi e non torni più a casa. Potremmo persino essere costretti a traslocare. Per questo ho dovuto far venire il nonno, anche se ha un posto di responsabilità in un grande albergo. Non possiamo permettervi di continuare così. Non per altro vi riempiamo di botte. E adesso che vi ho spiegato tutto per bene, siete ancora in tempo per ripensarci e andarvene. In caso contrario non avremo scelta, saremo di nuovo costretti a picchiarvi. Faremo del nostro meglio per mettervi fuori combattimento senza provocarvi danni duraturi, ma in una grande mischia, anche con tutta la nostra perizia, non possiamo garantire che non ci scappi qualche brutto livido, o persino qualche osso rotto. Quindi approfittate dell'occasione che vi diamo e andatevene.
Gustav approvava il discorso con un lieve sorriso, poi nonno e nipote passavano in rassegna le facce bestiali riunite davanti a loro. Parecchi teppisti si guardavano l'un l'altro esitanti, indotti a riflettere più dalla paura che dalla ragione. Ma i capi - tipacci torvi e raccapriccianti - cominciavano a ringhiare bellicosamente, presto imitati dai loro accoliti. Poi la teppa si lanciava all'attacco. Boris e il nonno prendevano rapidamente posizione; schiena contro schiena, avanzavano ordinatamente, servendosi di un'attenta miscela di karatè e altre tecniche di combattimento. I teppisti piombavano su di loro da ogni parte, ma finivano regolarmente a gambe all'aria: piroettavano, incespicavano, volavano fra grugniti di terrore e meraviglia, finché per l'ennesima volta il terreno era coperto di corpi privi di sensi. Per parecchi secondi Boris e Gustav rimanevano vicini, osservando il campo di battaglia, poi i teppisti cominciavano a muoversi; alcuni gemevano, altri scuotevano la testa per capire dov'erano. A questo punto, Gustav faceva un passo avanti e diceva:
- E adesso andatevene, facciamola finita. Lasciate in pace casa nostra. Questa era una famiglia molto felice prima che cominciaste a terrorizzarla. Se tornerete, mio nipote e io saremo costretti a rompervi le ossa.
Il discorso non era quasi necessario. I teppisti sapevano di essere stati sbaragliati e di essersela cavata ancora a buon mercato. Lentamente, si alzavano in piedi e si allontanavano zoppicando, a gruppetti di due o tre, sorreggendosi a vicenda e gemendo dal dolore.
Quando anche l'ultimo claudicante teppista se ne era andato, Boris e Gustav si scambiavano un'occhiata soddisfatta e tranquilla, si giravano e risalivano le scale. Quando entravano, Sophie e io - che avevamo assistito a tutta la scena dalla finestra - li accoglievamo giubilanti. - Grazie a Dio è finita, - dicevo io tutto eccitato. - Grazie a Dio.
- Sto già cucinando qualcosa per festeggiare, - annunciava Sophie, raggiante e felice, improvvisamente con il volto disteso. - Boris, non sappiamo come ringraziare te e il nonno. Perché questa sera non facciamo tutti insieme un gioco di società?
- Io devo andare, - diceva Gustav. - C'è un sacco di lavoro che mi aspetta in albergo. Se avete altri problemi, avvertitemi. Ma sono sicuro che non si faranno rivedere.
Gustav si avviava giù per le scale. Boris, Sophie e io lo salutavamo dalla soglia, poi chiudevamo la porta e ci accingevamo a passare la serata insieme. Sophie entrava e usciva dalla cucina, preparando la cena, canticchiando spensierata, mentre Boris e io ce ne stavamo distesi sul pavimento del soggiorno, tutti presi dal gioco di società. Poi, dopo circa un'ora che giocavamo, in un momento in cui Sophie non era nella stanza, io alzavo gli occhi e serio serio dicevo a Boris:
- Grazie per quello che hai fatto, Boris. Adesso le cose possono tornare come prima.
- Guarda! - urlò Boris; era di nuovo accanto a me e mi indicava qualcosa oltre il parapetto. - Guarda! C'è zia Kim!
Sotto di noi, in effetti, c'era una donna che gesticolava freneticamente per attirare la nostra attenzione. Indossava un golf verde, che si teneva ben stretto al corpo, e aveva i capelli scarmigliati. Vedendo che l'avevamo finalmente notata, ci gridò qualcosa, ma la sua voce si perse nel vento.
- Zia Kim! - chiamò Boris.
Ancora una volta la donna gesticolò e ci gridò qualcosa.
- Andiamo giù, - disse Boris, e partì di corsa, sprizzando di nuovo eccitazione da tutti i pori.
Gli tenni dietro giù per le numerose rampe di scale di cemento. Quando arrivammo sotto, fummo investiti da una violenta raffica di vento, ma Boris riuscì lo stesso a esibirsi a beneficio di zia Kim in un saltello come se stesse atterrando con il paracadute.
«Zia Kim» era una signora corpulenta di circa quarant'anni, con una faccia un po' severa che non mi era affatto nuova.
- Dovete essere tutti e due sordi, - ci disse quando la raggiungemmo. - Vi abbiamo visti scendere dall'autobus e ci siamo sgolate, ma voi niente. Poi sono venuta a cercarvi, ed eravate spariti.
- Mi spiace, - dissi. - Non abbiamo sentito, vero, Boris? Dev'essere colpa di questo vento -. Mi guardai intorno. - Ci stavate guardando da casa?
La grassona fece un gesto in direzione di una delle innumerevoli finestre sopra la nostra testa. - Ci siamo sgolate -. Poi, rivolgendosi a Boris, aggiunse: - Su da me c'è tua madre, ragazzo mio. Muore dalla voglia di vederti.
- La mamma?
- Faresti meglio a correre su, muore davvero dalla voglia di vederti. E la sai una cosa? Ha cucinato tutto il pomeriggio, preparandoti un banchetto fantastico per quando tornerete a casa questa sera. Non crederai ai tuoi occhi; ha detto che ha preparato tutte le cose che ti piacciono di più, tutto quello che ti può venire in mente. Stava giusto raccontandomi, quando abbiamo guardato fuori della finestra e vi abbiamo visti scendere dall'autobus. Scusate, ma è da mezz'ora che vi cerco e sono gelata. Dobbiamo proprio restare qui?
Parlando, aveva teso la mano. Boris gliela prese, e tutti insieme ci dirigemmo verso il settore dell'edificio che aveva indicato poc'anzi. Quando fummo più vicini, Boris corse avanti, spinse una porta antincendio e scomparve all'interno. Quando arrivammo noi, la porta si stava richiudendo. La grassona me la tenne aperta, e intanto mi disse: - Ryder, lei non dovrebbe essere da tutt'altra parte? Sophie mi stava raccontando che questo pomeriggio il suo telefono non ha smesso di suonare un istante. Pare che tutti la cerchino.
- Davvero? Be', io, come vede, sono qui -. Mi scappò una risata. - Sono venuto a portare Boris.
La donna alzò le spalle. - Saprà lei che cosa deve fare.
Eravamo in un vano malamente illuminato ai piedi della tromba delle scale. Di fianco a me, sulla parete, vidi una fila di cassette della posta e qualche attrezzo antincendio. Quando cominciammo a salire la prima rampa di gradini - sopra di noi ce n'erano almeno altre cinque - sentii da qualche parte su in alto lo scalpiccio dei piedi di Boris, poi la sua voce che gridava: - Mamma! - Vi fu qualche esclamazione di gioia, altro rumore di piedi, poi Sophie disse: - Oh, tesoro, il mio tesoro! - Dal suono soffocato della sua voce dedussi che si stavano abbracciando. Quando la grassona e io arrivammo sul pianerottolo, madre e figlio erano già spariti dentro l'appartamento.
- Scusi il disordine, - mi disse la donna, facendomi entrare.
Attraversai l'ingressino e mi trovai in un soggiorno a pianta aperta, arredato con mobili semplici e moderni. La stanza era dominata da una grande finestra panoramica, davanti alla quale vidi Sophie e Boris che si stagliavano quasi in controluce sullo sfondo del cielo grigio. Sophie mi rivolse un rapido sorriso, poi riprese a parlare con Boris. Sembravano eccitati, e Sophie continuava ad abbracciare il bambino. Dal modo in cui indicava fuori della finestra, pensai che stesse raccontando come lei e la grassona ci avessero visti poco prima. Ma quando mi avvicinai sentii che stava dicendo:
- Sì, te l'assicuro. $è praticamente tutto pronto. C'è solo da riscaldare qualche manicaretto, per esempio il pasticcio di carne.
Boris disse qualcosa che non riuscii a sentire, e Sophie ribatté:
- Ma certo che possiamo. Giocheremo a quello che vuoi. Lo deciderai tu quando avremo finito di mangiare.
Boris rivolse a sua madre uno sguardo dubbioso; notai nel suo atteggiamento una certa circospezione, che gli impediva di manifestare entusiasmo come forse Sophie avrebbe desiderato. Poi il bambino si mise a esplorare la stanza; Sophie mi venne vicino e scosse il capo sconsolata.
- Mi spiace, - disse sottovoce. - Ma è stato un fiasco. La casa era peggio di quella del mese scorso. Ha una vista magnifica, perché l'hanno costruita proprio sul ciglio di un burrone, ma non è abbastanza solida. Alla fine anche il signor Mayer ne ha convenuto. Ha detto che se c'è una tempesta di vento il tetto potrebbe crollare anche di qui a poco. Sono andata via subito, alle undici ero già a casa. Mi spiace. Vedo che sei deluso -. Poi lanciò un'occhiata a Boris, che stava esaminando un registratore portatile abbandonato su uno scaffale.
- Non scoraggiarti, - dissi, sospirando. - Sono sicuro che troveremo presto qualcosa.
- Però ci ho pensato su, - disse Sophie. - Sul pullman, tornando, ho pensato che non c'è nessun motivo per rimandare. Possiamo cominciare subito a fare delle cose insieme, casa o non casa. Così, appena entrata, mi sono messa a cucinare. Ho pensato che questa sera potevamo farci una bella scorpacciata, solo noi tre. Mi è tornata in mente mia madre, quand'ero piccola, prima che si ammalasse. Cucinava un'infinità di piattini diversi, poi metteva tutto in tavola, e ciascuno spilluzzicava quello che preferiva. Erano delle serate bellissime, e mi sono detta, be', non c'è nessun motivo perché questa sera non facciamo lo stesso anche noi tre. Finora non mi era mai passato per la testa, sai, con la cucina in quello stato, ma mi sono data uno sguardo intorno e ho capito ch'ero una sciocca. Certo, non si può dire che sia una cucina ideale, ma per funzionare funziona. Così ho cominciato a cucinare, e ho cucinato buona parte del pomeriggio. Sono riuscita a fare quasi tutto. Tutti i piatti preferiti di Boris. Sono là che ci aspettano, basta scaldarli. Questa sera ci faremo una bella scorpacciata.
- Mi sembra una bella idea. Non vedo l'ora.
- In fondo chi ce lo vieta, anche se l'appartamento è quello che è? E poi, ti sei dimostrato così comprensivo... Ci ho pensato su, sai. Sul pullman, mentre tornavo a casa. Dobbiamo dimenticare il passato. Ricominciare da capo a fare delle cose insieme. Cose belle.
- Sì. Hai ragione.
Sophie guardò fuori della finestra per qualche secondo. Poi disse: - Oh, quasi me ne dimenticavo. C'era una donna che telefonava in continuazione, mentre cucinavo. Una certa signorina Stratmann. Chiedendo se sapevo dov'eri. $è riuscita a trovarti?
- La signorina Stratmann? No. Che cosa voleva?
- Aveva l'aria di pensare che ci fosse stato qualche malinteso sui tuoi appuntamenti di oggi. Era molto gentile, continuava a scusarsi per il disturbo. Ha detto che era sicura che tu avessi tutto ben chiaro, che telefonava solo per precauzione, nient'altro, e che non era minimamente preoccupata. Ma dopo un quarto d'ora squillava il telefono ed era di nuovo lei.
- Bah, non c'è bisogno che ti preoccupi. Ehm... la signorina Stratmann ti ha detto che dovevo essere da un'altra parte?
- Non so bene che cosa volesse. Era molto gentile, ma continuava a telefonare. Ho anche bruciato un tortino di pollo per colpa sua. Poi, l'ultima volta che ha telefonato mi ha chiesto se ero contenta di andare al ricevimento di questa sera alla Galleria Karwinsky. Tu non me ne avevi nemmeno parlato, ma da come l'ha detto sembrava che fossi invitata anch'io. Così le ho risposto di sì, che ero molto contenta. Poi mi ha chiesto se anche Boris era contento, e io ho detto di sì, che anche lui era contento, e naturalmente anche tu. Mi è sembrato che questo la rassicurasse un po'. Ha ripetuto che non era preoccupata, che voleva solo ricordarcelo, nient'altro. Quando ho riattaccato, ero un po' delusa. Ho pensato che il ricevimento avrebbe rovinato la nostra festa. Poi però ho calcolato che ce l'avrei fatta a preparare tutto prima, che potevamo andare e tornare, e che se non ci fossimo fermati troppo a lungo avremmo potuto passare lo stesso la serata insieme. E mi sono detta, be', in fondo è una bella cosa. Per me e per Boris, andare a un ricevimento così è una bella cosa -. Improvvisamente, Sophie tese le braccia verso Boris, che si era riavvicinato a noi, e lo strinse a sé con malagrazia. - Il mio Boris spopolerà. Non devi spaventarti se c'è tanta gente. Basta che tu faccia finta di niente e vedrai che ti diverti. Sarai il beniamino di tutti. Prima che te ne renda conto sarà già ora di tornare a casa, così passeremo una bella serata insieme, solo noi tre. Ho già tutto pronto, tutti i tuoi piatti preferiti.
Boris, infastidito, si liberò dell'abbraccio della madre e si allontanò di nuovo. Sophie lo seguì con gli occhi sorridendo, poi si girò verso di me:
- Non è meglio partire subito? Credo che ci voglia un po' per andare alla Galleria Karwinsky.
- Sì, - dissi, guardando l'orologio. - Sì, hai ragione -. Poi mi rivolsi alla grassona, che era tornata nella stanza: - Forse può consigliarci lei. Non sono del tutto sicuro di che autobus si debba prendere per andare alla galleria. Sa se ne passa uno fra poco?
- Per andare alla Galleria Karwinsky? - La grassona mi lanciò un'occhiata sprezzante, e mi parve che solo la presenza di Boris le impedisse di aggiungere un commento sarcastico. Poi disse: - Di qui non c'è nessun autobus che va alla Galleria Karwinsky. Dovete tornare in centro. Poi aspettare il tram davanti alla biblioteca. Ma non arriverete mai in tempo.
- Oh, che peccato. Contavo sul fatto che ci fosse un autobus.
La grassona mi lanciò un'altra occhiata sdegnosa, poi disse: - Prendete la mia auto. Questa sera non ne ho bisogno.
- Non so come ringraziarla, - dissi. - $è sicura che non...
- Oh, la pianti con le stronzate, Ryder. Avete bisogno dell'auto. Non c'è altro modo per arrivare in tempo alla Galleria Karwinsky. E anche con l'auto dovete partire subito.
- Sì, - dissi, - pensavo anch'io la stessa cosa. Ma vede, non vorremmo crearle disturbo.
- Prendete solo qualche scatola di libri. Se domani devo andare in città in autobus, non potrò portare niente.
- Ma certamente. Tutto ciò che vuole.
- Basta che le consegniate al negozio di Hermann Roth domattina prima delle dieci.
- Non preoccuparti, Kim, - disse Sophie, prima che potessi aprire bocca. - Ci penso io. Grazie ancora.
- Va bene, e adesso vi conviene muovervi. Ehi, giovanotto, - la grassona fece un cenno a Boris, - perché non mi aiuti a caricare i libri?
Per qualche minuto rimasi solo davanti alla finestra, a rimirare il panorama. Gli altri erano spariti in una camera da letto, e li sentivo ridere e chiacchierare. Forse avrei dovuto dare anch'io una mano, ma pensai che fosse più importante approfittare di quell'occasione per riordinare le idee in vista della serata, così continuai a contemplare il lago artificiale. C'erano dei bambini che stavano giocando a palla contro la recinzione sul lato opposto dello specchio d'acqua, ma il resto del perimetro era deserto.
Dopo un po' udii la grassona che mi chiamava, e mi accorsi che gli altri mi stavano aspettando per uscire. Quando fui nell'ingressino, vidi che Sophie e Boris, ciascuno con una scatola di cartone in mano, erano già sul pianerottolo. Mentre si avviavano giù per le scale, si misero a discutere di non so che cosa.
La grassona mi stava tenendo aperta la porta d'ingresso. - Sophie vuole che questa sera le cose vadano bene a tutti i costi, - mi disse, abbassando la voce. - Veda di non farle di nuovo qualche brutto tiro, Ryder.
- Non si preoccupi, - dissi. - Le garantisco che andrà tutto per il verso giusto.
Zia Kim mi guardò con durezza, poi si girò e cominciò a scendere le scale facendo tintinnare le chiavi.
La seguii. Mentre scendevamo la seconda rampa, vidi venirci incontro con passo affaticato una donna, che strisciò fra la grassona e il muro mormorando una scusa. Mi aveva già oltrepassato quando riconobbi Fiona Roberts, ancora in uniforme da controllore. Anche lei parve accorgersi di me solo all'ultimo momento - c'era così poca luce sulle scale. Si girò stancamente, con una mano sulla ringhiera di metallo, e disse:
- Oh, eccoti. Bravo, sei puntuale! Scusami se ci ho messo un po' più del previsto. Hanno dirottato un tram sulla linea orientale, e il mio turno è andato per le lunghe. Spero che tu non abbia dovuto aspettare molto.
- No, no -. Risalii di un paio di gradini. - Per niente. Solo che adesso ho pochissimo tempo...
- Non preoccuparti, non ti tratterrò più del necessario. Anzi, meglio che te lo dica subito. Ho fatto un giro di telefonate alle ragazze, come eravamo rimasti d'accordo. Le ho chiamate dalla mensa del deposito, durante l'intervallo. Le ho avvisate che sarei andata da loro con un amico, ma non ho detto che l'amico eri £tu. Inizialmente volevo farlo, ma ho cominciato da Trude, e quando ho sentito la sua voce, il modo in cui mi ha detto: «Ah, sì, sei £tu, cara», non ci ho più visto. Era così piena di bile e condiscendenza! Si capiva che era rimasta tutto il giorno attaccata al telefono per parlare di me con Inge e le altre, discutendo di ieri sera, fingendo di commiserarmi, dicendo che bisognava trattarmi con compassione, che in fondo ero una persona malata, ed era loro dovere essere gentili. Ma naturalmente avrebbero dovuto mandarmi via, come si poteva tenere nella Fondazione qualcuno come me? Oh, chissà come se la sono spassata, oggi! L'ho capito subito, solo dal modo in cui Trude ha risposto al telefono. «Ah, sì, sei £tu, cara». Allora ho pensato: te la sei voluta, io non ti avverto. Vediamo dove ti porta la tua incredulità. Ecco che cosa ho pensato. Voglio proprio vedere che faccia fai quando apri la porta e vedi chi c'è con me. Mi auguro che tu sia vestita malissimo, magari in £tuta £da £ginnastica, e senza trucco, in modo che quella bozza accanto al naso sia ben visibile, e con i capelli tirati indietro e fermati con una forcina, come fai qualche volta, che sembri almeno quindici anni più vecchia. Spero che il tuo appartamento sia in disordine, con quelle stupide riviste che leggi tu, i giornali scandalistici e i romanzetti rosa, sparsi da per tutto. Sarai così sbalordita che resterai senza parole, così imbarazzata che non saprai più da che parte girarti, e peggiorerai le cose infilando una scemenza dopo l'altra. Ci chiederai se vogliamo qualcosa da bere e scoprirai di non avere niente in casa, e finalmente capirai quanto sei stata
sciocca a non credermi. Questa sì che è un'idea, mi sono detta. E non ho avvertito né lei né le altre. Mi sono limitata a dire che sarei passata con un amico -. Fiona si interruppe un momento e si calmò un po'. Poi aggiunse: - Scusami. Non volevo sembrarti vendicativa. Ma è tutto il giorno che aspetto questo momento. Mi ha dato la forza per tirare avanti, per continuare a bucare biglietti. Probabilmente i passeggeri si sono chiesti che cosa avessi, perché mi luccicassero gli occhi. Be', se hai poco tempo, è meglio che ci muoviamo. Cominciamo da Trude. Credo che Inge sia da lei, di solito a quest'ora si vedono, così prendiamo due piccioni con una fava. Delle altre mi importa meno. Ah, voglio proprio vedere la faccia di quelle due. Su, andiamo.
Fiona riprese a salire le scale come se tutta la sua stanchezza fosse sparita. I gradini non finivano mai, rampa dopo rampa, tanto che dopo un po' cominciai ad ansimare. Fiona, invece, non sembrava fare nessuna fatica. Mentre salivamo, continuò a parlare, abbassando la voce come se qualcuno potesse sentirci.
- Non c'è bisogno che tu parli molto, - la sentii dire a un certo punto. - Mi basta che striscino ai tuoi piedi per qualche minuto. Sempre, naturalmente, che tu non voglia parlare con loro dei tuoi genitori.
Quando finalmente abbandonammo le scale, ero così a corto di fiato - il mio petto sibilava addirittura - che non badai molto a dove mi trovavo. Mi accorsi solo che stavamo percorrendo un lungo corridoio mal illuminato, con file e file di porte, e che Fiona mi precedeva, incurante delle mie difficoltà. Poi, all'improvviso, la vidi fermarsi e bussare a una porta. Non appena la raggiunsi, fui costretto ad appoggiarmi con una mano al montante e a chinare la testa per riprendere fiato. Quando la porta si aprì, dovevo offrire un ben misero spettacolo accanto alla mia trionfante accompagnatrice.
- Trude, - disse Fiona. - Ho portato con me un amico.
Con uno sforzo, mi raddrizzai e sorrisi cordialmente.
16.
La donna che ci aveva aperto la porta era sulla cinquantina, grassoccia, con corti capelli bianchi. Indossava un largo maglione rosa e pantaloni a righe tutti sformati. Mi diede una rapida occhiata, poi, non notando nulla di strano, si rivolse a Fiona e disse: - Ah, sì. Be', immagino che vogliate entrare.
Il tono era condiscendente, ma questo parve solo aumentare le attese di Fiona, che mi lanciò un sorriso da cospiratrice mentre seguivamo Trude in casa.
- C'è anche Inge? - domandò, quando fummo nel minuscolo vestibolo.
- Sì, siamo appena tornate, - disse Trude. - E guarda un po', abbiamo un sacco di novità. E visto che sei passata di qui, sarai la prima a saperle. Sei davvero fortunata.
Apparentemente, quest'ultima osservazione fu fatta senza la minima ironia. Trude sparì dietro una porta, lasciandoci in piedi nell'ingressino. Dall'interno sentimmo la sua voce che diceva: - Inge, c'è Fiona. Accompagnata da un amico. Forse dovremmo raccontarle che cosa ci è successo questo pomeriggio, non credi?
- Fiona? - La voce di Inge era leggermente indignata. Poi, come sforzandosi, la donna aggiunse: - Be', falla entrare.
Ascoltando questo dialogo, Fiona mi sorrise di nuovo tutta eccitata. Poi Trude mise la testa fuori della porta e ci accolse nel suo salotto.
Quanto a forma e dimensioni, la stanza era simile a quella della grassona, ma l'arredamento, dominato da motivi floreali, era più meticoloso. Forse l'alloggio aveva un'esposizione diversa, forse il cielo era meno coperto. Fatto sta che dalla grande finestra entrava un bel sole. Dunque, quando feci il mio ingresso e fui investito dalla luce, ero assolutamente sicuro che le due donne mi avrebbero riconosciuto con un sussulto. Probabilmente, anche Fiona pensò la stessa cosa, perché notai che si faceva da parte per evitare che la sua presenza diminuisse l'effetto. Ma né Trude né Inge parvero accorgersi di nulla. Si limitarono a darmi un'occhiata distratta, poi Trude ci invitò un po' freddamente a prendere posto. Ci sedemmo tutti e due su uno stretto divano. Fiona, che sulle prime era rimasta molto male, parve concludere che questa inattesa piega degli eventi avrebbe solo reso più intenso il momento dell'agnizione, e mi rivolse un altro sorrisetto giulivo.
- Glielo dico io, o vuoi dirglielo tu? - esordì Inge.
Trude, che chiaramente pendeva dalle labbra dell'amica più giovane, disse: - No, fallo tu, Inge. Lo meriti. Ma tu, Fiona, - aggiunse rivolgendosi a noi, - guai se vai in giro a raccontarlo. Vogliamo che sia una sorpresa per la riunione di questa sera, com'è giusto che sia. Oh, non ti avevamo detto della riunione di questa sera? Be', adesso lo sai. Mi raccomando, cerca di fare un salto, se hai tempo. Comunque, visto che hai questo amico per casa, - e accennò con il capo verso di me, - se non riesci a venire sarai giustificata. Su, Inge, diglielo tu, lo meriti, veramente.
- Be', Fiona, sono sicura che la cosa ti interesserà. Abbiamo avuto una giornata emozionante. Come sai, il signor von Braun ci aveva invitate oggi nel suo ufficio per discutere di persona il programma dei genitori del signor Ryder. Ah, non lo sapevi? Pensavo che lo sapeste £tutte. Be', questa sera vi racconteremo l'incontro nei minimi particolari, per ora ti basti sapere che è andato molto bene, anche se è stato più breve del previsto. Oh, il signor von Braun era proprio contrito, non si può usare altra parola, vero Trude? Non la finiva più di scusarsi, ma quando abbiamo saputo perché doveva scappare via, be', abbiamo capito perfettamente. Vedi, era stata organizzata una visita importantissima allo zoo. Ah, tu ridi, Fiona cara, ma non si trattava di una visita come le altre. Un comitato ufficiale, di cui naturalmente faceva parte anche il signor von Braun, doveva accompagnare il signor Brodsky allo zoo. Lo sapevi che il signor Brodsky non ci era mai stato? Ma non basta: erano riusciti a convincere la signorina Collins a farsi trovare là. Sì, allo zoo! Te lo immagini? Dopo tutti questi anni! Ci siamo affrettate a dire che il signor Brodsky non meritava certo di meno. Sì, la signorina Collins sarebbe stata là al loro arrivo, li avrebbe aspettati nel luogo convenuto, sarebbe andata incontro al gruppo e avrebbe scambiato qualche parola con il signor Brodsky. Tutto combinato. Te lo immagini? Vedersi e parlarsi dopo tutto questo tempo! Abbiamo assicurato al signor von Braun che capivamo £perfettamente le ragioni che lo obbligavano a interrompere la nostra riunione, ma lui è stato gentilissimo, evidentemente si sentiva un po' in colpa, e ci ha detto: «Perché non venite anche voi allo zoo? Non posso invitarvi a fare parte della nostra comitiva, ma nulla vi impedisce di osservare la scena da qualche passo di distanza». Gli abbiamo subito risposto che la sola idea ci elettrizzava. Ed è stato allora che lui ha aggiunto: «Naturalmente, se fate come vi dico, non solo assisterete al primo incontro tra il signor Brodsky e sua moglie dopo tutti questi anni, ma...» E qui ha fatto una pausa, vero Trude? Ha fatto una pausa, poi, come se nulla fosse, ha continuato: «Ma potrete vedere da vicino il signor Ryder, che molto gentilmente ha accettato di unirsi a noi. E se dovesse capitare l'occasione, anche se questo non posso garantirvelo, vi farò segno e vi presenterò tutte e due a lui». Siamo rimaste a bocca aperta! Ma quando ci abbiamo ripensato più tardi, tornando a casa... poco fa stavamo appunto parlando di questo... ci siamo dette che, a ben vedere, l'invito non era poi così sorprendente. In fondo ne abbiamo fatta di strada in questi ultimi anni, basti pensare alle bandierine per quelli di Pechino, e a tutta la fatica che ci sono costati i panini per il pranzo con Henri Ledoux...
- La vera svolta è stata il Balletto di Pechino, - s'intromise Trude.
- Sì, quella è stata la svolta. Ma si vede che non ci eravamo mai fermate a riflettere; abbiamo semplicemente continuato a darci da fare, a impegnarci, senza renderci conto che nel frattempo stavamo crescendo nella stima di tutti. La verità è che ormai abbiamo una posizione di spicco nella vita di questa città. $è giunto il momento di rendersene conto. Inutile negarlo; se non fosse così, perché il signor von Braun ci inviterebbe £personalmente nel suo ufficio? Perché si lancerebbe in proposte come quella che ci ha fatto oggi? «E se dovesse capitare l'occasione giusta, vi presenterò a lui». Ha detto così, vero, Trude? «Sono sicuro che il signor Ryder sarebbe felice di conoscervi, visto e considerato che vi occuperete dei suoi genitori, che gli stanno infinitamente a cuore». In fondo ci siamo sempre dette, vero?, che grazie a questo incarico avremmo avuto buone probabilità di conoscere il signor Ryder. Ma che potesse succedere così presto proprio non ce l'aspettavamo, quindi puoi immaginare la nostra eccitazione. Fiona, c'è qualcosa che non va, cara?
Fiona si agitava impaziente al mio fianco, cercando di interrompere il flusso di parole di Inge. Approfittando della pausa, mi diede una gomitata e mi lanciò un'occhiata come per dire: «Adesso! Questo è il momento!» Purtroppo ero ancora un po' a corto di fiato per colpa di tutti quei piani di scale, e forse per questo esitai. Vi fu un momento d'imbarazzo in cui le tre donne mi fissarono. Poi, vedendo che non dicevo nulla, Inge proseguì:
- Be', se non ti spiace, Fiona, finisco quello che stavo dicendo. Sono sicura che hai tante cose interessanti da raccontarci, cara, e le ascolteremo molto volentieri. Senza dubbio hai passato un'altra interessantissima giornata sui tuoi tram, mentre noi, in città, facevamo quello che ti sto raccontando, ma se sei così gentile da pazientare un minutino, sentirai qualcosa che, di sfuggita, potrebbe interessare anche a te. In fondo, - e qui mi parve che il suo tono sarcastico oltrepassasse i limiti della buona educazione, - c'è di mezzo il tuo £vecchio £amico, sì proprio il signor Ryder...
- Inge, insomma! - intervenne Trude, ma sulle sue labbra indugiava un sorrisetto. Le due amiche si scambiarono un'occhiata compiaciuta.
Fiona mi diede un'altra gomitata. Voltandomi verso di lei, mi accorsi che aveva esaurito la pazienza e voleva che le sue tormentatrici ricevessero immediatamente il giusto castigo. Chinandomi in avanti, mi schiarii la gola, ma prima che potessi aprire bocca, Inge aveva ricominciato a parlare.
- Be', come stavo dicendoti, a ben pensarci ce lo siamo meritate. Questa evidentemente è l'opinione del signor von Braun, se non altro. $è stato di una gentilezza e di una cortesia squisite, non ti sembra? Si è profuso in scuse quando ha dovuto scappare dal municipio per raggiungere il comitato ufficiale. «Saremo allo zoo fra circa mezz'ora, - continuava a ripetere. - Spero proprio che ci sarete anche voi, mie care signore». Ha detto che potevamo avvicinarci senza problemi fino a cinque o sei metri dal gruppo. In fondo, non eravamo persone qualsiasi in visita allo zoo! Oh, scusami, Fiona, guarda che non ce ne siamo dimenticate. £Avevamo intenzione di accennare al signor von Braun che una del nostro gruppo, cioè £tu, cara, era molto amica del signor Ryder, anzi, un'amica di lunga data. Avevamo proprio intenzione di accennarglielo, ma sai com'è, non si è mai presentata l'opportunità, vero, Trude?
Di nuovo, le due donne si scambiarono un'occhiatina compiaciuta. Fiona le fissò con gelido furore. Capii che la situazione stava degenerando e decisi di intervenire. Tuttavia, mi si presentarono due possibili strade da seguire. La prima era di attirare l'attenzione sulla mia identità inserendomi elegantemente nel filo del discorso di Inge. Per esempio, intromettendomi con voce pacata per dire: «Be', non abbiamo avuto il piacere di conoscerci allo zoo, ma poco male, visto che possiamo farlo comodamente qui, a
casa vostra», o qualcosa del genere. L'alternativa era quella di alzarmi di scatto, magari allargando le braccia, e di dire seccamente: «Ryder sono io!» Naturalmente, fra le due, volevo scegliere la strada che avrebbe provocato il massimo scalpore, ma l'attimo di esitazione fu fatale, perché Inge aveva già ripreso a parlare.
- Siamo andate allo zoo e abbiamo aspettato, mah, sarà stato una ventina di minuti, vero, Trude? Abbiamo aspettato vicino al piccolo bar dove puoi prenderti una tazza di caffè in piedi, e dopo una ventina di minuti abbiamo visto le macchine entrare dai cancelli. Ne sono scesi dieci o undici signori, tutti molto eleganti. C'erano il signor von Winterstein, il signor Fischer e il signor Hoffman. E il signor von Braun, naturalmente. E in mezzo al gruppo il signor Brodsky, con un'aria proprio distinta, vero, Trude? Se pensi com'era una volta, è proprio cambiato. Trude e io abbiamo subito cercato il signor Ryder, ma non l'abbiamo visto. Abbiamo guardato tutti in faccia, ma c'erano solo i soliti consiglieri comunali. Per un attimo, mentre il signor Reitmayer scendeva dall'automobile, l'abbiamo scambiato per il signor Ryder. Ma alla fine abbiamo capito che lui non c'era; allora ci siamo dette: probabilmente verrà un po' più tardi, con tutto quello che ha da fare. Poi il gruppetto si è incamminato per il sentiero; erano tutti in cappotto scuro, tranne il signor Brodsky, che indossava un cappotto grigio, molto distinto, con un cappello dello stesso colore. Senza fretta, hanno oltrepassato gli aceri e si sono diretti verso la prima gabbia. Il signor von Winterstein faceva gli onori di casa, mostrando le cose al signor Brodsky, indicandogli gli animali dentro le varie gabbie. Ma si vedeva che tutti pensavano solo all'incontro del signor Brodsky con la signorina Collins, e che nessuno faceva molta attenzione agli animali. Noi non abbiamo saputo resistere alla curiosità, vero, Trude? Ci siamo spinte avanti, abbiamo girato l'angolo, e lì, nello slargo principale, chi ti abbiamo visto? La signorina Collins, tutta sola, che guardava le giraffe. In giro c'erano anche altre persone, ma naturalmente nessuna di loro poteva sapere, e solo quando hanno visto il comitato ufficiale hanno capito che qualcosa bolliva in pentola e si sono allontanate rispettosamente. La signorina Collins, invece, è rimasta davanti alle giraffe, e ci è parsa ancora più sola. Di tanto in tanto lanciava un'occhiata al comitato ufficiale, che si stava avvicinando. Sembrava calmissima, e se era emozionata non lo dava a vedere nel modo più assoluto. Poi abbiamo visto la faccia del signor Brodsky, tutto compito, che la cercava con gli occhi sebbene fossero ancora piuttosto lontani, con le gabbie delle scimmie e dei procioni di mezzo. Sembrava che il signor von Winterstein volesse presentare tutti gli animali al signor Brodsky, come se fossero stati gli invitati di un banchetto ufficiale, vero, Trude? Non capivamo proprio perché quei signori non potessero andare dritti dalle giraffe e dalla signorina Collins, ma evidentemente avevano deciso di fare così. E ti assicuro che la scena era così emozionante, così £commovente, che per un momento ci siamo persino dimenticate della possibilità che arrivasse il signor Ryder. Nell'aria fredda si vedeva il fiato del signor Brodsky e degli altri signori, come una nebbiolina, poi, quando sono stati a poche gabbie di distanza, il signor Brodsky ha perso ogni interesse per gli animali e si è tolto il cappello. Ah, Fiona, avessi visto che gesto all'antica, pieno di riguardo. E noi abbiamo avuto il privilegio di assistervi.
- Un gesto così rivelatore, - s'intromise Trude. - Il modo in cui si è tolto il cappello e lo ha portato al petto. $è stata una dichiarazione d'amore e allo stesso tempo una richiesta di perdono. Davvero commovente.
- Grazie, Trude, ma stavo raccontando io. La signorina Collins è proprio elegante, da lontano non la diresti tanto vecchia. Ha ancora una figura giovanile. Si è girata verso di lui con gran disinvoltura, quando ormai li separava una sola gabbia. Gli altri visitatori si erano ritirati in buon ordine, ma Trude e io ci siamo ricordate delle parole del signor von Braun, sai, a proposito dei cinque metri, così ci siamo avvicinate di soppiatto, ma non troppo, perché il momento ci è sembrato così intimo che non abbiamo osato. Dapprima la signorina Collins e il signor Brodsky si sono salutati molto banalmente con un cenno di capo, poi, di punto in bianco, il signor Brodsky ha fatto qualche passo avanti tendendo le mani, con un gesto così repentino che secondo Trude non poteva non essere premeditato...
- Oh sì, si sarebbe detto che l'avesse provato di nascosto per giorni e giorni...
- Sì, sono d'accordo con te. L'impressione era quella. Il signor Brodsky ha sollevato la mano della signorina Collins, l'ha sfiorata educatamente con le labbra e l'ha lasciata andare. Lei si è limitata a fargli un lieve inchino, poi si è girata subito verso gli altri, salutando e sorridendo, ma eravamo troppo lontane per sentire che cosa si sono detti. Poi per un istante è sembrato che nessuno sapesse più che cosa fare. Finché il signor von Winterstein ha preso l'iniziativa e ha cominciato a spiegare qualcosa sulle giraffe al signor Brodsky e alla signorina Collins, come se si stesse rivolgendo a una coppia, vero, Trude? Sì, a una bella coppia di vecchietti rimasti insieme dal primo giorno. Ti immagini la scena? Il signor Brodsky e la signorina Collins a fianco a fianco... senza toccarsi, solo a fianco a fianco... tutti e due che guardano le giraffe e ascoltano il signor von Winterstein. La cosa è andata avanti per un po', e intanto vedevamo che gli altri consiglieri bisbigliavano fra di loro per decidere che cosa fare dopo. Poi, gradualmente, senza dare nell'occhio, tutti sono indietreggiati di qualche passo, cercando di dileguarsi. Ti dico che l'hanno fatto benissimo, con grande £stile. A poco a poco, fingendo di chiacchierare fra di loro, si sono allontanati, e alla fine davanti alle giraffe sono rimasti solo il signor Brodsky e la signorina Collins. Noi, naturalmente, abbiamo seguito tutta la scena con grande attenzione, e credo che gli altri abbiano fatto lo stesso, anche se ovviamente fingevano di guardare dall'altra. Così abbiamo visto il signor Brodsky girarsi con eleganza verso la signorina Collins, indicare con la mano la gabbia delle giraffe e pronunciare qualche parola. Deve avere detto qualcosa di molto sentito, perché la signorina Collins ha chinato leggermente il capo; nemmeno lei riusciva a trattenere la commozione. Il signor Brodsky ha continuato a parlare. Di tanto in tanto lo vedevamo sollevare di nuovo la mano, a questo modo, con garbo, verso le giraffe. Non possiamo dire se parlasse di giraffe o di altro, ma continuava a indicare la gabbia. La signorina Collins sembrava sopraffatta dall'emozione, ma è una donna così elegante! Si è data un contegno, ha sorriso, poi è tornata con il signor Brodsky verso il gruppetto dei consiglieri. L'abbiamo vista scambiare qualche parola con loro, molto cordiale e garbata; in particolare ha avuto un lungo scambio con il signor Fischer, poi ha cominciato a salutare tutti, a uno a uno. Al signor Brodsky ha rivolto un piccolo inchino, e si vedeva che lui non stava più nella pelle dalla gioia. $è rimasto lì imbambolato, come in una specie di sogno, con il cappello premuto contro il petto. Poi la signorina Collins si è incamminata per il viottolo, ha superato il baracchino delle bibite e la fontana ed è sparita dietro il recinto degli orsi polari. E in quel preciso istante, i consiglieri hanno smesso di recitare e si sono stretti intorno al signor Brodsky; si vedeva che erano felici ed eccitati, e sembrava che si congratulassero con lui. Oh, che cosa non daremmo per sapere che cosa si sono detti il signor Brodsky e la signorina Collins! Forse, se fossimo state più audaci e ci fossimo avvicinate di più, avremmo sentito qualche parola. Ma capisci anche tu che adesso, con la posizione che abbiamo, dobbiamo essere prudenti. Comunque, è stato fantastico. E poi, in questa stagione gli alberi dello zoo sono bellissimi. Chissà che cosa si sono detti? Trude è convinta che torneranno presto insieme. Lo sapevi che non hanno mai divorziato? Interessante, no? $è passato un sacco di tempo, ma sebbene lei insista a farsi chiamare signorina Collins, non hanno mai divorziato. Il signor Brodsky merita di riconquistarla. Oh, ma scusami, mi sono lasciata trasportare dall'entusiasmo e non ti ho ancora raccontato la cosa più importante! A proposito del signor Ryder! Vedi, visto che il signor Ryder non faceva parte della comitiva, non eravamo affatto sicure di poterci avvicinare, anche se la signorina Collins se ne era andata. Se ben ricordi, il signor von Braun ci aveva detto di farci avanti solo per conoscere il signor Ryder. Comunque, anche se siamo rimaste nei paraggi e non l'abbiamo perso di vista un istante, il signor von Braun non ha mai guardato verso di noi. Probabilmente era troppo occupato con il signor Brodsky. Così ci siamo tenute in disparte. Poi, mentre i consiglieri uscivano dallo zoo, li abbiamo visti fermarsi proprio sul cancello, e lì si è unita a loro una persona, un uomo. Ormai eravamo lontane, e non si vedeva bene, ma Trude è sicura che fosse il signor Ryder; lei è meno miope di me, e io non avevo neppure le lenti. Sei sicura, vero, Trude? Secondo lei, il signor Ryder, dimostrando molto tatto, era rimasto in disparte per non rendere le cose più difficili di quello che già erano al signor Brodsky e alla signorina Collins, e si stava aggregando al gruppo all'uscita dallo zoo. Sulle prime, quell'uomo mi è sembrato solo il signor Braunthal, ma come ti dico non avevo le lenti, e Trude giura che era il signor Ryder. Ripensandoci, anch'io mi sono convinta che potesse essere lui. E così abbiamo perso l'occasione di farci presentare! Vedi, ormai erano molto lontani, praticamente al cancello, e gli autisti avevano già aperto le portiere delle auto. Anche se ci fossimo messe a correre non saremmo arrivate in tempo. In senso £stretto, quindi, non possiamo dire di avere incontrato il signor Ryder. Ma poco fa ne stavamo discutendo, e ci sembra che in tutti gli altri sensi, cioè in quelli che contano, sia lecito dire che oggi lo abbiamo incontrato. In fondo, se avesse fatto parte della comitiva, sono sicura che davanti alla gabbia delle giraffe, subito dopo la partenza della signorina Collins, il signor von Braun ci avrebbe presentate. Non è colpa nostra se non abbiamo pensato che il signor Ryder sarebbe stato così delicato da aspettare vicino al cancello. E poi, e qui sta il punto, è indiscutibile che la nostra presentazione £sarebbe £stata £opportuna. Ed è questo ciò che conta. Il primo a esserne convinto, date la posizione che occupiamo adesso, era il signor von Braun. E sai una cosa, Trude, - aggiunse Inge girandosi verso l'amica, - più ci penso e più sono d'accordo con te. Alla riunione di questa sera possiamo benissimo annunciare che abbiamo incontrato il signor Ryder. Ci scosteremmo dalla verità meno che se dicessimo il contrario. E poi, questa sera ci sono tante cose da discutere, e non abbiamo assolutamente tempo di spiegare tutto daccapo. In fondo, se non ci hanno presentate formalmente, è stato solo per un capriccio del destino. A tutti gli effetti, lo £abbiamo conosciuto. Sicuramente il signor Ryder verrà a sapere ogni cosa di noi, se già non la sa; come potrebbe trascurare di informarsi su chi si occuperà dei suoi genitori? Quindi è come se l'avessimo già conosciuto, e come dici tu, sarebbe ingiusto lasciar credere il contrario. Oh, ma ti prego di scusarmi, - continuò Inge, voltandosi improvvisamente verso Fiona, - dimenticavo che sto parlando a una £vecchia £amica del signor Ryder. Alla quale sembrerà che stiamo facendo tanto chiasso per nulla...
- Inge, - disse Trude, - la povera Fiona è tutta confusa. Non prenderla in giro -. Poi, sorridendo a Fiona, aggiunse: - Va tutto bene, cara, non preoccuparti.
Mentre Trude diceva queste parole, mi tornò in mente la calda amicizia che mi aveva legato a Fiona da bambino. Ricordai la casetta bianca, poco lontano dalla nostra lungo quel viottolo fangoso del Worcestershire; le ore passate a giocare insieme sotto il tavolo da pranzo dei suoi. Ricordai le volte che ero andato a trovarla spaventato e confuso, e come era brava a consolarmi, facendomi dimenticare in fretta le scenate che mi ero appena lasciato alle spalle. Quando mi accorsi che Inge stava sbeffeggiando sotto i miei occhi quella preziosa amicizia, non ci vidi più dalla rabbia; anche se aveva già ricominciato a parlare, mi dissi che non potevo permettere che quella situazione si protraesse un solo secondo di più. Risoluto a non ripetere l'errore di prima, quando avevo tergiversato, mi chinai in avanti con l'intenzione di interrompere Inge e di annunciare spavaldamente chi ero, per poi abbandonarmi di nuovo sul divano e godermi l'effetto delle mie parole. Purtroppo, anche se ci misi tutto il mio impegno, dalle mie labbra uscì solo un grugnito leggermente strozzato, che bastò tuttavia a bloccare Inge e ad attirarmi gli sguardi delle tre donne. Vi fu un momento di silenzio, poi Fiona, senza dubbio per togliermi dall'imbarazzo, forse per un momentaneo ridestarsi del suo istinto di protezione nei miei confronti, urlò:
- Voi due non avete idea della figura da stupide che state facendo! E lo sapete perché? No, non lo immaginate nemmeno, voi due, non potete immaginare quanto siete stupide e incredibilmente ridicole in questo momento. Come potreste? Il vostro atteggiamento è tipico, tipico di entrambe! Ho sempre sognato di dirvelo, da quando ci siamo conosciute, ebbene, adesso lo vedrete da sole, giudicherete voi stesse se siete delle stupide o cosa. Guardate!
Fiona si voltò di scatto verso di me. Inge e Trude mi fissarono sbalordite. E io feci un secondo, deliberato tentativo di presentarmi, ma con mia grande costernazione emisi un altro grugnito, più energico del precedente ma non per questo meno incomprensibile. Mentre il panico cominciava a impossessarsi di me, respirai a fondo e riprovai, ma anche questa volta dalle mie labbra uscì solo un lungo suono inarticolato.
- Che cosa diavolo vuole questa troietta, Trude? - disse Inge. - Perché ci parla così? Come osa? Che cosa le è preso?
- Tutta colpa mia, - disse Trude. - Ho sbagliato. Sono io che ho proposto di invitarla a fare parte del nostro gruppo. Meno male che si sta rivelando per quello che è prima dell'arrivo dei genitori del signor Ryder. $è gelosa, tutto lì. $è gelosa perché oggi abbiamo incontrato il signor Ryder. Mentre lei deve accontentarsi delle sue patetiche storielle...
- Come sarebbe a dire che lo avete incontrato? - esplose Fiona. - Se avete appena detto il contrario...
- Sai benissimo che è come se l'avessimo incontrato! Vero, Trude? Siamo perfettamente autorizzate a dire che lo abbiamo conosciuto. Mi spiace per te, Fiona, ma devi prenderla con filosofia...
- Ah, sì? - Fiona ormai stava quasi strillando. - Vediamo allora come prendete voi £questo! - E così dicendo, tese le braccia verso di me come per annunciare una teatrale e drammatica entrata in scena. Di nuovo feci del mio meglio per non deluderla. Questa volta il suono inarticolato che mi uscì dalle labbra, sostenuto da una rabbia e da una frustrazione ancora più intense, fu più violento che mai, tanto che sentii il divano tremare.
- Che cos'ha il tuo amico? - domandò Inge, come accorgendosi solo allora della mia presenza. Ma Trude non mi badò nemmeno.
- Non avrei mai dovuto darti retta, - stava dicendo in tono acido a Fiona. - Avrei dovuto capire subito con che razza di bugiarda avevo che fare. E come se non bastasse abbiamo lasciato che i nostri figli giocassero con i tuoi mocciosi! Probabilmente sono dei piccoli bugiardi anche loro, e adesso avranno insegnato a dire bugie anche ai nostri figli. Che ridicolaggine il tuo ricevimento di ieri sera. E come avevi agghindato il tuo appartamento! Davvero comico! Abbiamo riso tutta la mattina...
- Perché non mi aiuti! - disse Fiona all'improvviso, rivolgendosi direttamente a me per la prima volta. - Che cosa ti prende, perché non fai qualcosa?
In realtà, per tutto questo tempo mi ero sforzato di parlare. Ma quando Fiona si girò verso di me, mi vidi di sfuggita nello specchio appeso alla parete di fronte. La mia faccia era diventata paonazza e deforme, con un che di maialesco, mentre i pugni, stretti all'altezza del petto, mi tremavano insieme con tutto il busto. Il vedermi ridotto in quello stato mi tolse ogni energia; avvilito, mi lasciai andare sul divano ansimando affannosamente.
- Cara Fiona, - disse Inge, - penso che sia ora che tu e questo... questo tuo amico leviate il disturbo. Non credo che sia necessario che tu venga questa sera.
- Ci mancherebbe altro, - urlò Trude. - Abbiamo delle responsabilità, adesso. Non possiamo permetterci di stare dietro agli uccellini con le ali rotte. Non siamo più un semplice gruppo di volontarie. Abbiamo un compito molto importante da svolgere, e chi non ne è degno deve essere abbandonato per strada.
Vidi che gli occhi della mia amica d'infanzia si stavano riempiendo di lacrime. Fiona mi guardò di nuovo, questa volta con amarezza; avrei voluto fare ancora un tentativo per dire chi ero, ma il ricordo del volto che avevo scorto nello specchio mi fece cambiare idea. Invece, mi alzai in piedi barcollando e mi diressi verso l'uscita. Ero ancora senza fiato per lo sforzo di parlare, e quando raggiunsi la porta dovetti appoggiarmi un momento allo stipite. Alle mie spalle sentii le due donne che continuavano ad accalorarsi. A un certo punto Inge disse: - E che persona disgustosa ci hai portato in casa! - Con un ultimo sforzo, attraversai quasi di corsa l'entrata, armeggiai per qualche frenetico istante con la serratura della porta d'ingresso e uscii nel corridoio. Subito mi sentii meglio e potei avviarmi verso le scale in maniera più composta.
17.
Mentre scendevo la lunga serie di rampe di scale, diedi un'occhiata all'orologio e vidi che non potevamo assolutamente rimandare oltre la partenza per la Galleria Karwinsky. Naturalmente mi spiaceva molto dovermi lasciare alle spalle una situazione del genere, ma era ovvio che il mio primo compito, adesso, era cercare di arrivare puntuale all'impegno più importante della serata. Decisi però che mi sarei occupato dei problemi di Fiona in un futuro non troppo lontano.
Quando finalmente arrivai al pianterreno, fui accolto da un cartello sul muro che diceva «Posteggio» e da una freccia che mi indicava la strada. Oltrepassata una fila di armadietti, uscii all'aperto.
Sbucai sul retro dell'edificio, sul lato opposto al lago artificiale. Il sole era ormai basso sull'orizzonte. Davanti a me una vasta distesa verde digradava dolcemente perdendosi in lontananza. Il posteggio, quasi attaccato alla casa, era un semplice rettangolo d'erba cintato, e mi ricordò i recinti per il bestiame dei £ranch americani. Lo spiazzo non era stato ricoperto di cemento, ma l'andirivieni dei veicoli aveva quasi messo a nudo la terra. C'era posto per una cinquantina di automobili, anche se in quel momento non ce n'erano più di sette o otto, tutte piuttosto lontane le une dalle altre. I colori del tramonto si riflettevano sulle carrozzerie. In fondo al posteggio la grassona e Boris stavano caricando il bagagliaio di una giardinetta. Avvicinandomi, vidi che Sophie si era seduta al posto del passeggero e fissava con sguardo assente il tramonto attraverso il parabrezza.
Quando arrivai, la grassona stava chiudendo il bagagliaio.
- Mi spiace, - le dissi. - Non mi ero reso conto che aveste così tanta roba da caricare. Vi avrei dato volentieri una mano, ma...
- Non si preoccupi. Con l'aiuto di questo giovanotto me la sono cavata -. La grassona arruffò i capelli di Boris, poi gli disse:
- Su con la vita, d'accordo? Passerete una magnifica serata insieme. Vedrai. Tua madre ti ha cucinato tutti i tuoi piatti preferiti.
La donna si chinò e se lo strinse al petto in maniera rassicurante, ma il bambino continuò a fissare il vuoto con aria sognante. Poi la grassona mi porse le chiavi della macchina.
- Benzina dovrebbe essercene abbastanza. Guidi con prudenza.
La ringraziai e la seguii con gli occhi mentre si allontanava verso i condomini. Quando mi girai, vidi che Boris fissava imbambolato il tramonto. Gli toccai una spalla e lo accompagnai dall'altra parte della macchina. Senza parlare, il bambino si sistemò sul sedile posteriore.
Evidentemente il tramonto doveva avere un effetto ipnotico, perché quando mi misi al volante notai che anche Sophie aveva gli occhi persi nel vuoto. Pensai che non si fosse nemmeno accorta del mio arrivo, ma mentre mi stavo familiarizzando con i comandi la sentii dire sottovoce:
- Non possiamo lasciare che questa storia della casa ci trascini a fondo. Guai. Non sappiamo nemmeno quando tornerai qui la prossima volta. Con la casa o senza la casa, dobbiamo cominciare a fare qualcosa insieme, qualcosa di £bello. Me ne sono resa conto questa mattina, mentre tornavo indietro in autobus. Anche in quell'appartamento, anche con la cucina in quello stato.
- Sì, sì, - dissi, inserendo la chiave nell'accensione. - Senti, la sai la strada per andare alla galleria?
La mia domanda la strappò da quella specie di trance. - Oh, - disse Sophie, portandosi le mani alla bocca come se si fosse appena ricordata di qualcosa. Poi aggiunse: - Probabilmente dal centro della città ci saprei arrivare. Ma di qui non sono sicura.
Sbuffai un po' seccato. Intuivo che la situazione rischiava di sfuggirmi nuovamente di mano e, come già quella mattina, provai un profondo fastidio nei confronti di Sophie, per il caos che aveva portato nella mia vita. Ma un attimo dopo sentii accanto a me la sua voce che diceva allegramente:
- Perché non chiediamo al custode? Forse lui lo sa.
Stava indicandomi l'entrata del posteggio, dove, per l'appunto, c'era un gabbiotto di legno con un uomo in uniforme, visibile dalla cintola in su.
- Buona idea, - dissi. - Vado a chiederglielo.
Scesi e mi incamminai da quella parte. Una macchina che stava uscendo dal recinto si era fermata accanto al gabbiotto; avvicinandomi, vidi il custode - un tizio calvo e grasso - sporgersi dallo sportello, fare un gran sorriso e gesticolare al guidatore. La conversazione andò per le lunghe; stavo per intromettermi tra i due, quando la macchina finalmente ripartì. Il custode la seguì con gli occhi lungo l'ampia curva che girava intorno al complesso residenziale. Anche lui sembrava ipnotizzato dal tramonto; sebbene tossicchiassi proprio sotto il suo sportello, continuava a fissare la macchina con aria sognante. Alla fine latrai un buonasera.
Il pingue individuo sobbalzò, poi, girandosi verso di me, mi restituì il saluto: - Oh, buona sera, signore.
- Mi scusi se la disturbo, - dissi. - Siamo un po' di fretta. Dobbiamo andare alla Galleria Karwinsky, ma non essendo di queste parti, non so qual è la strada più corta.
- La Galleria Karwinsky -. L'uomo rifletté un momento, poi disse: - Veramente, è piuttosto complicato. Credo che vi convenga seguire il signore che è uscito poco fa. Quello con la macchina rossa -. E il custode alzò la mano indicando un punto lontano. - Quel signore, per combinazione, abita vicinissimo alla Galleria Karwinsky. Volendo, potrei provare a darvi qualche indicazione, ma ci sono così tanti bivi, soprattutto verso la fine, che prima dovrei pensarci su un momento. Il problema è quando si lascia la statale e bisogna districarsi in quel labirinto di stradine tra le fattorie. Sì, è molto meglio che seguiate il signore della macchina rossa. Se non sbaglio, abita due o tre curve dopo il bivio della Galleria Karwinsky. $è una zona amena, e lui e sua moglie sono contenti di vivere lì. Sono quasi in aperta campagna. Il signore mi ha raccontato che hanno un bel villino, con le galline e un melo nel cortile dietro casa. Una zona simpatica per una galleria d'arte, anche se un po' fuori mano. Vale la pena di andarci. Il signore della macchina rossa dice che non ha nessuna intenzione di trasferirsi, anche se ogni giorno deve fare un bel po' di strada per venire qui da noi. Eh, sì, lavora qui, nell'amministrazione -. L'uomo si sporse improvvisamente dal suo sportello e mi indicò alcune finestre alle sue spalle. - Laggiù, vede. Sembrano appartamenti, ma non lo sono. Per amministrare un complesso di queste dimensioni, oh, non sa quante scartoffie ci vogliono. Il signore della macchina rossa ci lavora dal giorno in cui la società dell'acqua ha cominciato a costruirlo. E adesso è incaricato di tutta la manutenzione. Un lavoro importante, sa, e ogni giorno deve fare un bel po' di strada, ma lui dice che non ci pensa nemmeno a trasferirsi più vicino. E non posso dargli torto, dove sta adesso è magnifico. Ma io sono qui che chiacchiero, mentre lei chissà che fretta che ha. Mi scusi. Come le dico, segua la macchina rossa, è la cosa più semplice. Sono sicuro che la Galleria Karwinsky le piacerà. La campagna intorno è proprio piacevole, e anche nella galleria mi hanno detto che ci sono degli oggetti molto belli.
Lo ringraziai concisamente e tornai alla macchina. Quando salii, vidi che Sophie e Boris stavano di nuovo fissando il tramonto. Accesi il motore senza dire nulla. Solo dopo essere transitati sobbalzando davanti al gabbiotto di legno - di passaggio salutai il custode con un cenno della mano - Sophie mi domandò: - Allora, hai scoperto dove dobbiamo andare?
- Sì, sì. Basta seguire la macchina rossa che è partita poco fa.
Mentre dicevo queste parole, mi accorsi che ero ancora furibondo con lei. Ma non aggiunsi altro e mi immisi sulla strada che girava intorno al complesso.
Passammo davanti alla sfilata di condomini, le cui innumerevoli finestre riflettevano il tramonto. Poi il complesso residenziale svanì alle nostre spalle e la strada divenne più larga, delimitata a destra e a sinistra da una foresta di abeti. Poiché era quasi vuota, la visibilità era ottima, e presto scorsi davanti a noi la macchina rossa, un puntino lontano che viaggiava senza fretta. Dato che non c'era quasi nessuno, non vidi la necessità di starle addosso, così rallentai, sebbene ci separasse ancora una notevole distanza. Nel frattempo Sophie e Boris erano rimasti assorti nel loro silenzio sognante, e anch'io, osservando il sole che tramontava sulla strada deserta, mi sentii avviluppare da una gran calma.
Dopo un po' mi accorsi che stavo rivivendo nella mia testa il secondo gol che l'Olanda aveva segnato all'Italia in una semifinale dei Mondiali di calcio di qualche anno prima. Quello stupendo tiro da fuori area era uno dei miei ricordi sportivi preferiti, ma in quel momento mi accorsi, un po' scocciato, di non rammentare il nome del marcatore. Continuava a venirmi in mente Rensenbrink, che certamente aveva giocato in quella partita, ma ero quasi sicuro che non fosse stato lui a segnare. Rividi la palla sfrecciare nel sole, scavalcare i difensori italiani stranamente imbambolati, avvicinarsi alla rete, superare le mani protese del portiere. Mi faceva rabbia avere dimenticato un particolare così importante e stavo ripassando sistematicamente tutti i nomi dei giocatori olandesi di quel periodo, quando alle mie spalle Boris disse all'improvviso:
- Siamo in mezzo alla strada. Bocceremo.
- Macché, - dissi. - Va benissimo così.
- Non è vero! - Sentii che Boris prendeva a pugni il mio schienale. - Siamo in mezzo. Se viene qualcuno dall'altra, bocciamo!
Non dissi nulla, ma mi spostai un po' di più verso il ciglio della strada. Apparentemente rassicurato, Boris tacque di nuovo. Poi fu la volta di Sophie, che disse:
- Sai, lo ammetto, non ero affatto contenta quando ho saputo del ricevimento. Temevo che ci rovinasse la serata. Poi però, ripensandoci, e soprattutto quando ho capito che non ci avrebbe impedito di cenare insieme, mi sono detta, be', non tutto il male viene per nuocere. In un certo senso, è proprio quello di cui abbiamo bisogno. Sono sicura che saprò comportarmi bene, e anche Boris. Ci comporteremo bene tutti e due, così avremo qualcosa da festeggiare quando torniamo a casa. Una serata così potrebbe davvero segnare una svolta nei nostri rapporti.
Prima che potessi rispondere, Boris gridò di nuovo:
- Viaggi in mezzo alla strada!
- Non mi sposterò di un centimetro, - dissi. - Va benissimo così.
- Forse è spaventato, - mi disse Sophie, pacatamente.
- E perché dovrebbe essere spaventato?
- Ho paura! Ci ammazzeremo tutti!
- Boris, smettila, per piacere. Sto guidando in maniera prudentissima.
Avevo parlato piuttosto seccamente, e Boris non ribatté. Tuttavia, mentre continuavo a guidare, mi accorsi che Sophie mi guardava un po' preoccupata. Di tanto in tanto si voltava a dare un'occhiata a Boris, poi i suoi occhi tornavano a posarsi su di me. Alla fine disse in tono calmo:
- Perché non ci fermiamo un momento?
- Fermarci? E perché mai?
- Arriveremo lo stesso puntuali alla galleria. Non sarà qualche minuto a fare differenza.
- Non sarebbe meglio trovare un posto, prima?
Sophie rimase zitta per un po'. Poi si girò di nuovo verso di me e disse: - Perché non ci fermiamo? Così beviamo qualcosa e facciamo merenda. Servirà a calmarti.
- Perché dovrei calmarmi?
- Voglio fermarmi! - strillò Boris da dietro.
- Perché dovrei calmarmi?
- Non voglio assolutamente che questa sera voi due litighiate di nuovo, - disse Sophie. - State ricominciando da capo. Ma questa sera, no. Non lo permetterò. Dobbiamo distendere i nervi. Diventare dell'umore giusto.
- Come sarebbe a dire, dell'umore giusto? Qui non c'è nessuno di cattivo umore.
- Voglio fermarmi! Ho paura! Ho la nausea!
- Guarda, - disse Sophie, mentre passavamo davanti a un cartello, - fra poco c'è una stazione di servizio. Per piacere, fermiamoci lì.
- Ma che bisogno c'è...
- Lo vedi che ti stai arrabbiando? Ma questa sera è troppo importante. Ti prego, non questa sera.
- Voglio fermarmi! Devo andare al gabinetto!
- Ecco la stazione. Per piacere, fermati. Cerchiamo di aggiustare le cose prima che degenerino.
- Secondo te che cosa c'è da aggiustare?
Sophie non rispose e continuò a guardare ansiosamente oltre il parabrezza. Stavamo attraversando una zona montuosa. I boschi di abeti erano spariti, lasciando il posto a pendii scoscesi che s'innalzavano ai due lati della strada. All'orizzonte si vedeva la stazione di servizio, una struttura che ricordava un'astronave costruita sulla sommità di una parete di roccia. Provai di nuovo una gran rabbia nei confronti di Sophie, ciò nonostante - quasi mio malgrado - rallentai e mi spostai sulla corsia esterna.
- Vedi, stiamo fermandoci, - disse Sophie a Boris. - Non devi preoccuparti.
- Non era affatto preoccupato, - dissi gelidamente, ma Sophie fece finta di non sentire e continuò a parlare al figlio.
- Faremo uno spuntino, e dopo ci sentiremo tutti molto meglio.
Seguendo le indicazioni, lasciai la statale e mi inerpicai su per una ripida stradina. Dopo numerosi zig-zag, l'inclinazione diminuì e ci trovammo in un posteggio all'aperto. C'erano parecchi autocarri allineati l'uno accanto all'altro, e almeno una dozzina di automobili.
Scesi e mi stirai le braccia. Poi mi girai e vidi che Sophie stava aiutando Boris a uscire dalla macchina. Il bambino mosse qualche passo sull'asfalto con aria intontita. Poi, come risvegliandosi, sollevò la faccia al cielo e lanciò un urlo da Tarzan, battendosi il petto con i pugni.
- Piantala, Boris! - gridai.
- Ma non dà noia a nessuno, - disse Sophie. - Chi vuoi che lo senta?
Effettivamente, eravamo in cima a una montagna e ancora piuttosto lontani dalla struttura di vetro della stazione di servizio. Il tramonto, di un rosso profondo, si rifletteva sulle superfici dell'edificio. Senza parlare, passai accanto a madre e figlio e mi diressi verso l'entrata.
- Non do noia a nessuno! - mi gridò dietro Boris. Poi ci fu un secondo urlo di Tarzan, che finì, questa volta, in uno yodel. Proseguii senza voltarmi. Solo quando giunsi all'ingresso mi fermai ad aspettare, tenendo aperta la pesante porta di vetro.
Attraversammo un atrio con una fila di telefoni pubblici, poi una seconda porta a vetri, ed entrammo nel bar ristorante. Fummo accolti da un profumo di carne alla griglia. La sala era enorme, con lunghe file di tavoli ovali Su ogni lato c'erano grandi vetrate, attraverso le quali si vedevano ampie distese di cielo. In lontananza si udivano i rumori della strada, che passava molto più in basso.
Boris corse al banco del self-service e prese un vassoio. Dissi a Sophie di comprarmi una bottiglia d'acqua minerale e partii in cerca di un tavolo. Non c'era molta gente - solo quattro o cinque tavoli erano occupati - ma io andai in fondo a una delle file e mi sedetti con la schiena alle nuvole.
Dopo qualche minuto Boris e Sophie mi raggiunsero con i loro vassoi. Si sedettero di fronte a me e cominciarono a sparpagliare le loro cose sul tavolo con uno strano mutismo. Solo allora notai che Sophie lanciava continue occhiate a Boris; immaginai che mentre erano al banco avesse insistito con il bambino perché mi dicesse qualcosa - qualcosa per rimediare ai danni del nostro recente alterco. Fino a quel momento non mi era nemmeno passato per la testa che fosse necessaria una qualche riconciliazione tra me e Boris, e mi infastidì che Sophie s'intromettesse in maniera così maldestra. Per alleviare la tensione, feci qualche battuta sull'arredamento futuristico del locale, ma Sophie mi rispose distrattamente e di nuovo lanciò un'occhiata a Boris. Lo fece con tale mancanza di discrezione che avrebbe potuto ottenere lo stesso effetto con una gomitata. Comprensibilmente, Boris era piuttosto restio ad assecondarla; aveva messo il broncio e continuava a rigirare tra le dita un pacchetto di noccioline appena comprato. Alla fine, senza alzare gli occhi, bofonchiò:
- Ho letto un libro in francese.
Feci spallucce e mi girai a guardare il tramonto. Mi accorsi che Sophie incitava Boris a dire qualcos'altro. Dopo un po' il bambino ripeté in tono scontroso:
- Ho letto un intero libro in francese.
Mi voltai verso Sophie e dissi: - Io con il francese non mi sono mai trovato. Continuo ad avere più problemi con il francese che con il giapponese. Sul serio. A Tokyo me la cavo meglio che a Parigi.
Sophie, evidentemente scontenta della mia risposta, mi fulminò con un'occhiataccia. Irritato dal suo tentativo di coercizione, mi girai di nuovo a guardare il tramonto. Dopo un po' la udii dire:
- Boris è migliorato moltissimo nelle lingue.
Poi, visto che né io né Boris le davamo retta, si chinò verso il figlio aggiungendo:
- Boris, fai ancora un piccolo sforzo. Fra poco arriveremo alla galleria. Ci sarà tanta gente. Certe persone ti sembreranno molto importanti, ma tu non avere paura, d'accordo? La mamma non si lascerà intimorire, e nemmeno tu. Mostreremo a tutti che sappiamo comportarci bene. Faremo un figurone, vero?
Per un po' Boris continuò a rigirare tra le dita il suo pacchetto. Poi alzò gli occhi e sospirò.
- Non preoccuparti, - disse. - So come si deve fare -. Poi raddrizzò la schiena e continuò: - Metti la mano in tasca. Così. E con l'altra tieni il bicchiere. Così.
Il bambino rimase in quella posizione per qualche secondo, assumendo un espressione altezzosa. Sophie scoppiò a ridere, e nemmeno io riuscii a trattenere un sorriso.
- E quando la gente ti viene vicino, - prosegui Boris, - ti limiti a ripetere: «Davvero straordinario! Davvero straordinario!» O se preferisci: «Impagabile! Impagabile!» E quando un cameriere ti porge un vassoio, gli fai così -. E Boris mostrò una faccia schifata e scosse il dito da una parte all'altra.
Sophie continuava a ridere. - Boris, questa sera spopolerai.
Boris sorrise beato, chiaramente soddisfatto della propria esibizione. Poi di colpo si alzò e disse: - Adesso devo andare al gabinetto. Me n'ero dimenticato. Vado e torno.
Ripeté un'ultima volta a nostro beneficio lo sdegnoso rifiuto con il dito e scappò via.
- Sa essere molto divertente, - dissi.
Sophie si era girata a guardare Boris che si allontanava fra i tavoli. - Cresce in fretta, - disse. Poi sospirò e assunse un'espressione pensierosa. - Presto sarà grande. Non abbiamo molto tempo.
Non dissi nulla, aspettando che proseguisse. Per qualche secondo Sophie continuò a guardare dietro di sé, poi si girò e aggiunse in tono sommesso: - La sua infanzia scivola via. Presto sarà grande e non avrà conosciuto altro che questo.
- Parli come se facesse una vita d'inferno. Invece conduce un'esistenza normalissima.
- Sì, lo so, la sua vita non è così brutta. Ma questa è la sua infanzia, e io ho un'idea molto chiara di come dovrebbe essere. Perché ricordo la mia, capisci, quando ero piccolina, prima che la mamma si ammalasse. Era bello, allora -. Parlava rivolta verso di me, ma i suoi occhi sembravano guardare le nuvole alle mie spalle. - Vorrei che fosse così anche per lui.
- Be', non preoccuparti. Risolveremo presto i nostri problemi. Nel frattempo Boris se la sta cavando benissimo. Non c'è nessun bisogno di preoccuparsi.
- Sei come tutti gli altri -. Adesso c'era una punta di rabbia nella sua voce. - Ti comporti come se avessimo tutto il tempo di questo mondo. Non capisci proprio, vero? Papà ha ancora un bel po' di anni davanti a sé, ma non sta certo ringiovanendo. Un giorno non ci sarà più, e allora resteremo solo noi. Tu, io e Boris. Ecco perché dobbiamo sbrigarci a costruire qualcosa -. Sophie respirò a fondo e scosse la testa, poi abbassò gli occhi sulla sua tazza di caffè. - Tu non hai idea. Non hai idea di come può diventare triste la vita quando tutto va storto.
Mi parve inutile ribattere. - Be', allora è deciso, - dissi. Troveremo presto una soluzione.
- Tu non ti rendi conto che il tempo stringe. Guardaci. Non abbiamo nemmeno cominciato.
Il tono d'accusa era sempre più aspro. Sembrava che Sophie avesse completamente dimenticato che il suo comportamento aveva avuto una parte non indifferente nell'impedirci di raddrizzare ciò che «andava storto». Ebbi improvvisamente la tentazione di rinfacciarle tutto, ma alla fine preferii tacere. Restammo qualche istante in silenzio, poi mi alzai e dissi:
- Scusa. Penso che mangerò qualcosa anch'io.
Sophie stava di nuovo fissando il cielo; ebbi l'impressione che non si fosse nemmeno accorta che l'avevo lasciata sola. Mi diressi verso il banco del self-service e presi un vassoio. Stavo esaminando le paste, quando mi ricordai di colpo che non sapevo la strada per la Galleria Karwinsky e che dipendevamo completamente dalla macchina rossa. Pensai all'automobile, che anche in quel momento stava viaggiando sulla statale, allontanandosi sempre di più da noi, e mi dissi che non potevamo assolutamente perdere altro tempo a bighellonare in quella stazione di servizio. Anzi, decisi che dovevamo ripartire subito. Tuttavia, mentre stavo per restituire il vassoio e per tornare di corsa al nostro tavolo, mi accorsi che lì accanto c'era qualcuno che parlava di me.
Guardandomi intorno, vidi due eleganti signore di mezza età sedute a un tavolo. Avevano avvicinato le teste e confabulavano sottovoce; a quanto capii, non sospettavano minimamente che in quel preciso istante mi trovassi a due passi da loro. Sulle prime, visto che non facevano quasi mai il mio nome, non fui del tutto sicuro di essere l'argomento della loro conversazione. Ma presto divenne impossibile supporre che stessero parlando di qualcun altro.
- Oh, sì, - diceva una delle signore. - Non so quante volte si sono messi in contatto con la signorina Stratmann. Lei continua a giurare che l'ispezione ci sarà, ma per il momento lui non si è fatto vedere. Dieter dice che per loro è lo stesso, intanto il lavoro non manca, ma sono tutti tesi come corde di violino all'idea che possa arrivare da un minuto all'altro. E naturalmente il signor Schmidt piomba lì in continuazione, sbraitando di fare ordine, perché che cosa succederebbe se lui arrivasse in quel momento e trovasse la sala dei concerti in quello stato? Dieter dice che tutti hanno i nervi a fior di pelle, persino quell'Edmundo. E poi, questi genii, non sai mai che cosa vanno a scovare pur di criticare. Nessuno ha dimenticato quando Igor Kobyliansky è venuto a ispezionare la sala e ha esaminato ogni cosa con incredibile pignoleria. Si è messo a quattro zampe sul palcoscenico, mentre gli altri facevano cerchio intorno a lui, e sotto gli occhi di tutti ha cominciato a strisciare di qui e di là, picchiando su ogni tavola del pavimento e posandovi sopra l'orecchio. Sono due giorni che Dieter non è più lui; è così irascibile quando deve andare a lavorare. Per loro è terribile. Ogni volta che lui non si fa vedere all'ora fissata, aspettano un'ora, poi telefonano di nuovo a questa Stratmann. E lei si profonde in scuse, trova mille giustificazioni, e combina un altro appuntamento.
Mentre ascoltavo questa tirata, mi tornò in mente una cosa cui avevo pensato più volte nelle ultime ore: e cioè che sarei stato saggio a contattare la signorina Stratmann più spesso di quanto avessi fatto finora. Anzi, mi dissi che avrei potuto telefonarle da una delle cabine pubbliche che avevo visto nell'ingresso. Ma prima che potessi soffermarmi a valutare quest'idea, la donna riprese a parlare.
- E questo dopo che la signorina Stratmann ha sostenuto per settimane che lui vuole assolutamente esaminare la sala. A sentire lei, è preoccupato non tanto per l'acustica e le solite cose, quanto per i suoi genitori, e vuole vedere dove li sistemeranno durante la serata. Pare che siano tutti e due piuttosto malconci, e abbiano bisogno di sedili e attrezzature particolari, oltre che di personale specializzato nel caso che a uno dei due venga un colpo o che so io. Un'organizzazione tutt'altro che semplice, e lui, secondo la Stratmann, è ansioso di riesaminare ogni singolo particolare con i responsabili. Be', è commovente che dimostri tanta premura per i vecchi genitori. Ma poi, chissà perché, non si fa vedere! Ovviamente, la colpa potrebbe essere della Stratmann più che sua. Dieter, almeno, la pensa così. Pare che £lui abbia un'ottima reputazione; non sembra il tipo che si diverte a creare fastidi al prossimo.
Stavo cominciando a irritarmi con le due signore, e naturalmente tirai un sospiro di sollievo quando udii quest'ultimo commento. Ma ciò che avevano detto a proposito dei miei genitori - a proposito della necessità di provvedere alle loro particolari esigenze - mi convinse a telefonare subito alla signorina Stratmann. Non potevo rimandare neanche di un secondo. Abbandonando il vassoio sul banco, mi affrettai verso l'ingresso.
Entrai in una cabina e mi frugai in tasca cercando il biglietto da visita della signorina Stratmann. Dopo un momento lo trovai e feci il numero. La donna rispose immediatamente.
- Signor Ryder, grazie per avere chiamato. Sono contenta che tutto proceda per il meglio.
- Ah. Lei è di questo parere?
- Ma certo! Ha riscosso da per tutto un grande successo. La gente non sta più nella pelle dall'eccitazione. Per non parlare del suo discorso dopo la cena di ieri sera. Tutti dicono che è stato spiritosissimo. Sa, è davvero piacevole lavorare con una persona come lei.
- Be', la ringrazio, signorina. Le sue parole sono davvero gentili. $è anche piacevole sentirsi così bene accuditi. Le telefono perché... ehm... volevo verificare alcuni punti del mio programma. Purtroppo oggi ho avuto un paio di contrattempi, con qualche spiacevole quanto inevitabile conseguenza.
Feci una pausa, aspettandomi che la signorina Stratmann dicesse qualcosa, ma dall'altro capo del filo tutto tacque. Ridacchiai e proseguii: - Adesso, ovviamente, stiamo andando alla Galleria Karwinsky. Anzi, siamo già per strada. $è chiaro che vogliamo arrivare là per tempo. Ci tengo a dirle che siamo molto contenti. Da quanto ho capito, la campagna intorno alla Galleria Karwinsky è bellissima. Sì, siamo molto contenti di andarci.
- Mi fa piacere, signor Ryder -. C'era una strana incertezza nella voce della signorina Stratmann. - Spero che al ricevimento si diverta -. Poi, all'improvviso, la donna aggiunse: - Signor Ryder, spero che non si sia offeso.
- Offeso io?
- Quando le abbiamo proposto di andare dalla Contessa questa mattina non intendevamo insinuare nulla. Non dubitavamo affatto che lei conoscesse alla perfezione i lavori del signor Brodsky, nessuno si sarebbe mai sognato di pensare il contrario. Solo che alcune di quelle registrazioni sono molto rare, e sia la Contessa sia il signor von Winterstein credevano che... Oh, cielo, spero che non si sia offeso, signor Ryder! Le assicuro che non intendevamo insinuare nulla.
- Non sono minimamente offeso, signorina Stratmann. Anzi, avevo paura del contrario, cioè che la Contessa e il signor von Winterstein, non vedendomi arrivare...
- Oh, di questo non deve preoccuparsi, signor Ryder.
- Avevo molta voglia di conoscerli e di parlare con loro, ma quando mi sono accorto che le circostanze mi impedivano di fare tutto ciò che avevamo sperato inizialmente, ho pensato che avrebbero capito, visto soprattutto, come dice anche lei, che non era assolutamente indispensabile che ascoltassi i dischi del signor Brodsky...
- Signor Ryder, sono sicura che la Contessa e il signor von Winterstein capiscono perfettamente la situazione. D'altronde, me ne rendo conto adesso, era davvero presuntuoso voler organizzare una cosa simile con tempi così stretti. Spero £veramente che non si sia offeso.
- Le assicuro che non sono assolutamente offeso. Ma se permette, le ho telefonato per discutere alcuni aspetti, o meglio, alcuni £altri aspetti del mio programma.
- E cioè, signor Ryder?
- Per esempio, la mia visita al palazzo dei concerti.
- Ah, sì.
Aspettai a vedere se avrebbe aggiunto qualcosa, ma dato che taceva, proseguii: - Volevo solo accertarmi che tutto fosse in ordine per il mio arrivo.
Finalmente la signorina Stratmann parve accorgersi dell'inquietudine della mia voce. - Ah, capisco che cosa intende, - disse. - Non ho previsto molto tempo per l'ispezione. Ma come può vedere... - La donna fece una pausa, durante la quale sentii il fruscio di un foglio di carta. - Come può vedere, prima e dopo la visita al palazzo dei concerti, ci sono due appuntamenti molto importanti. Così ho pensato che se si fosse trovato a corto di tempo, avremmo dovuto comprimere la visita al palazzo dei concerti. D'altronde, se lo riterrà necessario, potrà tornarci in un altro momento. Invece, capisce anche lei che non si possono accorciare i tempi degli altri due impegni. Per esempio, l'incontro con il Gruppo di Mutuo Soccorso dei Cittadini. So che reputa essenziale conoscere la gente comune che ha patito...
- Certo, certo, ha perfettamente ragione. Sono d'accordo con lei. Posso sempre infilare una seconda visita al palazzo dei concerti più tardi. Sì, sì. Ero solo un po' preoccupato per i preparativi. Sa, per i miei genitori.
Dall'altro capo del filo ci fu di nuovo silenzio. Mi schiarii la gola e continuai:
- Come lei sa, mia madre e mio padre sono avanti negli anni, ed è necessario che la sala sia attrezzata per accoglierli.
- Sì, sì, naturalmente -. La signorina Stratmann sembrava un po' perplessa. - E che ci sia assistenza medica per qualsiasi eventualità. Sì, abbiamo provveduto a tutto; lo vedrà con i suoi occhi durante l'ispezione.
Riflettei qualche istante sulle sue parole. Poi dissi: - Stiamo parlando dei miei genitori. Mi auguro che non ci sia nessuna confusione in proposito.
- No, assolutamente, signor Ryder. La prego di non preoccuparsi.
La ringraziai e uscii dalla cabina. Tornato nel bar, mi fermai un momento davanti alla porta a vetri. Il tramonto gettava lunghe ombre sul pavimento. Le due signore di mezza età discutevano animatamente, ma non riuscii a capire se parlassero ancora di me. In fondo alla sala, Boris stava spiegando qualcosa a Sophie; all'improvviso, tutti e due scoppiarono a ridere allegramente. Rimasi dov'ero ancora qualche istante, ripensando alla conversazione con la signorina Stratmann. Effettivamente, £c'£era qualcosa di presuntuoso nell'idea che potesse servirmi ascoltare i vecchi dischi di Brodsky. Senza dubbio la Contessa e von Winterstein avevano sperato di potermi accompagnare per mano attraverso la musica. Questo pensiero mi irritò, e ringraziai il cielo di essere stato costretto a saltare l'appuntamento.
Poi guardai l'orologio e mi accorsi che, nonostante tutte le assicurazioni che avevo dato alla signorina Stratmann, rischiavamo di arrivare in ritardo alla Galleria Karwinsky. Mi avvicinai al nostro tavolo e, senza sedermi, dissi:
- Dobbiamo muoverci. Siamo qui già da un bel po'.
Avevo parlato con una certa premura, ma Sophie si limitò a guardarmi, dicendo:
- Boris sostiene che non ha mai mangiato delle ciambelle buone come in questo posto. Hai detto così, vero, Boris?
Lanciai un'occhiata al bambino e vidi che mi stava ignorando. Ricordai allora il nostro recente litigio - che mi era completamente passato di mente - e ritenni opportuno dire qualcosa di conciliante. - Sono davvero così buone? - gli domandai. - Me ne fai assaggiare un pezzetto?
Boris continuò a guardare dall'altra. Aspettai qualche secondo, poi feci spallucce.
- Come vuoi, - dissi. - Se non ti va di parlare, per me fa lo stesso.
Sophie toccò Boris sulla spalla. Vedendo che stava per supplicarlo, guardai dall'altra e dissi: - Su, dobbiamo andare.
Sophie scrollò di nuovo Boris. Poi, con un filo di disperazione nella voce, mi implorò: - Restiamo ancora un pochino. Non ti sei quasi seduto con noi. E a Boris piace così tanto questo posto. Vero, Boris?
Di nuovo Boris fece finta di non avere sentito.
- Adesso dobbiamo proprio andare, - dissi. - Altrimenti faremo tardi.
Sophie, sempre più furente, ci fulminò tutti e due con lo sguardo. Poi cominciò ad alzarsi. Allora mi girai e mi diressi verso l'uscita senza guardarmi indietro.
18.
Quando mi immisi sulla statale dopo avere disceso la ripida stradina a zigzag, il sole era ormai molto basso. Il traffico, come al solito, era scarso, e per un bel po' potei procedere a velocità sostenuta, scrutando l'orizzonte in cerca dell'automobile rossa. Dopo parecchi minuti lasciammo le montagne e ci trovammo in una vasta pianura coltivata. Ai nostri lati, i campi si stendevano a perdita d'occhio. Mentre la strada faceva una lunga curva appena accennata in un tratto pianeggiante, vidi di nuovo la macchina rossa. Era ancora piuttosto lontana, ma mi accorsi che il guidatore continuava a viaggiare senza fretta. Rallentai anch'io, e presto cominciai a godermi il paesaggio che si dispiegava davanti ai miei occhi: i prati al tramonto, il sole bassissimo che baluginava dietro una macchia d'alberi lontana, i rari cascinali... e anche la macchina rossa, che spariva e riappariva davanti a noi secondo i capricci della strada. Poi, accanto a me, sentii la voce di Sophie che diceva:
- Quanta gente pensi che ci sarà?
- Al ricevimento? - Alzai le spalle. - Come faccio a saperlo? Ho l'impressione che tu ti stia agitando in maniera esagerata. $è solo un ricevimento.
Sophie continuò a tenere gli occhi fissi sul paesaggio. Poi disse: - Molte delle persone di questa sera saranno le stesse che c'erano al banchetto in onore di Rusconi. $è per questo che sono nervosa. Pensavo l'avessi capito.
Cercai di ricordare quel banchetto, ma il nome non mi diceva niente.
- Cominciavo a cavarmela molto meglio nelle occasioni mondane, - continuò Sophie. - Ma quella gente è stata perfida. Non mi sono ancora ripresa. E sicuramente questa sera gran parte degli invitati saranno gli stessi.
Stavo ancora sforzandomi inutilmente di ricordare quell'episodio. - Sono stati maleducati con te? - domandai.
- Maleducati? Be', immagino che si possa dire così. Una cosa è certa: mi hanno fatta sentire misera e patetica. Spero proprio che questa sera non siano di nuovo tutti lì.
- Se qualcuno si azzarda a trattarti male, vieni subito a dirmelo. Per quanto mi riguarda, rispondigli pure per le rime.
Sophie si girò a guardare Boris. Dopo un momento mi accorsi che il bambino si era addormentato. La madre rimase a osservarlo per un po', poi si voltò di nuovo verso di me.
- Perché ricominci daccapo? - mi domandò in tono molto diverso. - Sai bene quanto ne soffra Boris. Stai ricominciando tutto daccapo. Per quanto tempo pensi di continuare, questa volta?
- Continuare che cosa? - domandai stancamente. - Si può sapere di che cosa stai parlando?
Sophie mi fissò ancora per un istante, poi distolse gli occhi. - Proprio non lo capisci, - disse quasi a se stessa. - Non c'è più tempo per queste cose. Non lo capisci, vero?
Sentii che stavo per esaurire la pazienza. Ripensai al caos di quella giornata e non potei trattenermi dal dire ad alta voce:
- Insomma, chi ti dà il diritto di criticarmi in continuazione a questo modo? Porse non te ne sei accorta, ma in questo momento ho fior di preoccupazioni per la testa. E invece di aiutarmi, tu non fai che criticare, criticare, criticare. E adesso ti prepari a rovinarmi il ricevimento. Sì, da come ti comporti dài proprio questa impressione...
- Ah, sì? Allora Boris e io non veniamo! Ti aspetteremo in macchina. Vattene da solo al tuo ricevimento!
- Non occorre. Sto solo dicendo che...
- Parlo sul serio! Va' da solo. Così non ti rovineremo un bel niente.
Dopo questo alterco viaggiammo per parecchi minuti senza più parlarci. Alla fine dissi:
- Senti, mi spiace. Vedrai che molto probabilmente a questo ricevimento ti troverai bene. Anzi, ne sono sicuro.
Sophie non rispose. Continuammo a viaggiare in silenzio; ogni volta che mi giravo verso di lei la vedevo fissare con aria assente il puntino rosso della macchina. Mi sentii invadere da una strana sensazione di panico, tanto che a un certo punto dissi.
- Senti, anche se questa sera dovesse andare tutto storto, non farebbe nessuna differenza. Le cose che contano sono ben altre. Che bisogno abbiamo di comportarci come due sciocchi?
Sophie continuò a fissare la macchina rossa. Poi disse: - Ti sembro ingrassata? Dimmi la verità.
- Nient'affatto. Stai benissimo.
- Però è così. Ho messo su qualche chilo.
- Non importa. Qualunque cosa succeda questa sera, non cambierà nulla. Non devi preoccuparti. Presto sistemeremo tutto. La casa, e anche il resto. Vedi anche tu che non devi preoccuparti.
Mentre pronunciavo queste parole, cominciai a ricordare qualcosa del banchetto cui Sophie aveva accennato poco prima. In particolare, rividi un'immagine di Sophie in abito da sera rosso scuro, sola e imbarazzata in mezzo a una stanza piena di gente che rideva e conversava in gruppetti. Pensai a come doveva essere stato umiliante per lei, e le accarezzai un braccio. Con mio sollievo, Sophie reagì posandomi la testa sulla spalla.
- Vedrai, - disse, quasi in un sussurro. - Sarai fiero di me. E anche di Boris. Non importa chi ci sarà questa sera, sarai fiero di noi.
- Sì, sì. Ne sono sicuro. Vi troverete tutti e due bene.
Passarono parecchi minuti, poi notai che la macchina rossa aveva messo la freccia per lasciare la statale e ridussi la distanza che ci separava. Un attimo dopo stavamo seguendo la nostra guida su per una tranquilla stradina circondata di prati. Mentre salivamo, il rumore della statale svanì alle nostre spalle. Presto ci trovammo su piste di terra battuta poco idonee ai mezzi di trasporto moderni. A un certo punto sfregammo con tutta la fiancata contro una folta siepe, poi attraversammo sobbalzando un'aia fangosa piena di macchine agricole scassate. Infine sbucammo su una bella strada di campagna che serpeggiava tra i campi. Il fondo era buono e potemmo accelerare di nuovo. Dopo un po' sentii Sophie gridare: - Oh, eccoci! - e su un albero vidi un cartello di legno con la scritta «Galleria Karwinsky».
Davanti all'ingresso rallentai fin quasi a fermarmi. C'erano ancora due pali arrugginiti, ma il cancello era scomparso. Mentre la macchina rossa continuava per la sua strada scomparendo definitivamente dalla nostra vista, passai in mezzo ai pali e mi inoltrai in un vasto prato di erba alta.
Il campo era attraversato da un viottolo di terra battuta, e per un po' salimmo lentamente su per la collina. Giunti sul colmo, davanti ai nostri occhi si aprì un magnifico paesaggio. I prati digradavano verso una valletta, in fondo alla quale sorgeva una costruzione imponente, simile a un £château francese. Il sole stava tramontando dietro i boschi alle sue spalle. Sebbene fossimo ancora lontani, ebbi l'impressione che l'edificio emanasse un fascino alquanto sbiadito, che evocava il lento declino di una famiglia di proprietari terrieri un po' visionari.
Misi una marcia bassa e scesi con prudenza il pendio. Nello specchietto vedevo Boris, di nuovo perfettamente sveglio, che si guardava a destra e a sinistra. Ma l'erba era così alta che ostruiva completamente la vista dai finestrini laterali.
Quando fummo più vicini, mi accorsi che una vasta zona del prato davanti alla casa era invasa dalle automobili. Giunto in fondo alla discesa, mi diressi da quella parte; calcolai che ci fossero quasi cento macchine, alcune lustrate come specchi per l'occasione. Girai per un po' cercando un posto adatto per parcheggiare, poi mi fermai non lontano dal muro semidiroccato del cortile.
Uscii dall'auto e mi sgranchii le braccia e le gambe. Quando mi voltai, vidi che anche Sophie e Boris erano scesi. Sophie stava rassettando il figlio.
- Ricordatelo bene, - sentii che gli diceva. - Nessuno là dentro è più importante di te. Ripetitelo in continuazione. In ogni caso, non ci fermeremo molto.
Stavo per avviarmi verso la casa, quando notai con la coda dell'occhio qualcosa che attirò la mia attenzione. Girandomi, vidi una vecchia macchina sgangherata abbandonata nell'erba a pochi metri da me. Tutti gli invitati avevano posteggiato a rispettosa distanza, come se la ruggine e lo sfacelo di quella carcassa potessero contagiare le loro automobili.
Mi avvicinai di qualche passo al rottame, che era affondato nel terreno e circondato dall'erba alta. Se non fosse stato per il riflesso del tramonto sul cofano, non l'avrei sicuramente notato. Le ruote erano sparite, la porta del guidatore era stata scardinata. La carrozzeria mostrava i segni di parecchie riverniciature, l'ultima delle quali, in cui sembrava fosse stata usata pittura da imbianchino, era stata lasciata a metà. Entrambi i parafanghi posteriori erano stati sostituiti con pezzi scompagnati di altre macchine. Ciò nonostante, e prima ancora di esaminarli più attentamente, capii subito di avere sotto gli occhi i resti della vecchia automobile di famiglia che mio padre aveva guidato per tanti anni.
Naturalmente, era passato molto tempo dall'ultima volta che l'avevo avuta sotto gli occhi. Il ritrovarla in quel triste stato mi fece ripensare ai suoi ultimi giorni in casa nostra, quando ormai era così vecchia che mi vergognavo a morte perché i miei genitori continuavano a usarla. Ricordai che verso la fine avevo cominciato a inventarmi scuse complicatissime per evitare di salirci, tanta era la paura di essere visto da un compagno di scuola o da un insegnante. Ma questo solo alla fine. Per molti anni ero rimasto aggrappato alla convinzione che la nostra macchina - in realtà piuttosto modesta - fosse in qualche modo superiore a tutte le altre in circolazione, e che mio padre avesse deciso di non cambiarla per questo motivo. La rividi posteggiata nel vialetto della nostra casetta nel Worcestershire, con la vernice e le cromature luccicanti. Ero capace di ammirarla per minuti e minuti di fila, sentendomi immensamente orgoglioso. E spesso il pomeriggio, soprattutto di domenica, passavo ore e ore a giocarci dentro o intorno. Di tanto in tanto portavo fuori qualche gioco - magari persino la mia collezione di soldatini di plastica - che disponevo sul sedile posteriore. Ma il più delle volte mi limitavo a creare paesaggi immaginari intorno alla macchina, sparando con la pistola dai finestrini, oppure mettendomi al volante per inseguimenti a tavoletta. Ogni tanto mia madre metteva fuori la testa per dirmi di piantarla di sbattere le portiere, che quel rumore la faceva impazzire, e che se l'avessi fatto ancora una volta mi avrebbe «spellato vivo». La vidi come se fosse adesso, in piedi davanti all'ingresso posteriore della casetta, mentre urlava in direzione della macchina. La casa era piccola, ma trovandosi in aperta campagna aveva mezzo acro di prato. Davanti al nostro cancello passava un viottolo che conduceva a una cascina. Due volte al giorno vi transitava una fila di vacche, accompagnate da ragazzini armati di bastoni infangati. Mio padre lasciava sempre l'automobile nel vialetto di casa con la coda rivolta verso il viottolo, e spesso io interrompevo quello che stavo facendo per osservare la processione delle vacche dal lunotto posteriore.
Il «vialetto», in realtà, non era che uno spiazzo erboso di fianco alla casa. Nessuno aveva mai pensato di rivestirlo di cemento, e quando pioveva molto la macchina finiva a bagno in una profonda pozzanghera. Questo sicuramente non aveva giovato ai suoi problemi di ruggine, e forse ne aveva affrettato il declino. Ma per me, da bambino, i giorni di pioggia erano una festa. Oltre a rendere particolarmente accogliente l'interno della macchina, la pioggia creava canali di fango che io ero costretto a saltare ogni volta che entravo o uscivo. All'inizio i miei mi sgridavano, dicendo che macchiavo le fodere dei sedili, ma quando la macchina era diventata vecchia avevano smesso di preoccuparsi di queste cose. Le portiere sbattute, invece, avevano continuato a infastidire mia madre. Questo era un vero peccato, perché il gesto di sbattere la porta era un elemento fondamentale delle mie fantasie e ne sottolineava invariabilmente i momenti più drammatici. Le cose erano complicate dal fatto che mia madre, a volte, passava settimane, persino mesi, senza lamentarsi, finché io mi dimenticavo che le portiere potevano essere fonte di conflitto. Poi sul più bello, mentre ero completamente assorto in qualche drammatica vicenda, mi compariva davanti con la faccia stravolta, urlando che, se l'avessi fatto ancora una volta, mi avrebbe «spellato vivo». Talvolta la minaccia veniva pronunciata mentre una delle portiere era aperta, lasciandomi in un grave dubbio. Non sapevo infatti se lasciarla aperta anche dopo avere finito di giocare - con il rischio che restasse così per tutta la notte - oppure se azzardarmi a chiuderla il più silenziosamente possibile. Il dilemma mi tormentava per il resto del gioco, avvelenandomi tutto il divertimento.
- Ma che cosa fai? - disse la voce di Sophie alle mie spalle. - Dobbiamo entrare.
Capii che stava parlando a me, ma ero così commosso dalla scoperta della nostra vecchia automobile che le risposi mormorando qualcosa a vanvera. Un attimo dopo la sentii dire:
- Che cosa ti prende? Ti sei innamorato di quel rottame?
Solo allora mi accorsi che stavo praticamente abbracciando la macchina; avevo posato la guancia sul tetto e ne accarezzavo la superficie scrostata con lenti movimenti circolari delle mani. Mi raddrizzai scoppiando in una breve risata, poi mi voltai e vidi che Sophie e Boris mi stavano fissando.
- Innamorato? Vorrai scherzare -. Risi di nuovo. - Chi lascia in giro simili rottami sarebbe da denunciare.
Poi, visto che madre e figlio continuavano a guardarmi, urlai: - Carcassa disgustosa! - e tirai un paio di calci alla macchina. Questo parve soddisfare Sophie e Boris, che finalmente si girarono dall'altra. Poi notai che Sophie, sebbene mi avesse appena fatto fretta, stava ancora curando l'aspetto di Boris e aveva ricominciato a ravviargli i capelli.
Tornai allora a occuparmi dell'automobile, improvvisamente angosciato dall'idea di averla ammaccata. Un attento esame dimostrò che i miei calci avevano solo staccato qualche scaglia rugginosa, ma ormai sentivo un profondo rimorso per avere dimostrato tanta insensibilità. Camminando nell'erba alta, girai intorno al veicolo e vi sbirciai dentro da dietro. Un sasso aveva colpito il lunotto, ma il vetro si era solo incrinato. Attraverso una ragnatela di crepe potei osservare il sedile su cui avevo passato tante ore felici. In gran parte era coperto di funghi. La pioggia aveva formato una piccola pozza in un angolo, dove il cuscino del sedile si saldava al bracciolo. Diedi uno strattone alla porta, che si aprì docilmente per poi bloccarsi a metà nell'erba alta. C'era giusto lo spazio per infilarmi dentro, e divincolandomi un po' riuscii a sedermi.
Quando fui nella macchina, mi sentii innaturalmente basso, e mi accorsi che dalla mia parte il sedile aveva sfondato il pavimento. Dal finestrino accanto alla mia testa vedevo steli d'erba e un tratto di cielo rosato dal tramonto. Cambiai posizione, poi tirai la porta verso di me fino ad accostarla - anche se qualcosa le impedì di chiudersi del tutto - e dopo qualche istante mi parve di essere discretamente comodo.
Presto mi sentii avvolgere da una grande pace e socchiusi le palpebre. In quell'istante mi tornò alla mente una delle gite familiari più felici che avessimo fatto con quella macchina. Avevamo girato tutta la campagna in cerca di una bicicletta di seconda mano per me. Era una domenica pomeriggio piena di sole, e noi eravamo andati di paese in paese, esaminando biciclette. I miei parlottavano animatamente, mentre io, seduto dietro di loro su quel medesimo sedile, osservavo il paesaggio del Worcestershire scorrere dinanzi a noi. A quei tempi i telefoni non erano ancora molto diffusi in Inghilterra, e mia madre teneva in grembo una copia del giornale locale, dove chi metteva un annuncio economico per vendere qualcosa stampava l'indirizzo per esteso. Gli appuntamenti erano inutili; una famiglia come la nostra poteva semplicemente presentarsi alla porta e dire: «Veniamo per la bicicletta», e i padroni ci accompagnavano nella rimessa dietro casa per farcela vedere. I più cordiali ci offrivano una tazza di tè, che ogni volta mio padre rifiutava con la stessa identica spiritosaggine. Ma un'anziana signora - che in realtà non stava affatto vendendo una «bicicletta da bambini» ma quella del marito morto da poco - aveva insistito perché entrassimo. - Fa sempre così piacere, - ci aveva detto, - ricevere persone come voi -. Poi, mentre eravamo seduti nel suo salottino per bere il tè, ci aveva di nuovo definiti «persone come voi», e di punto in bianco, ascoltando mio padre che concionava sul tipo di bicicletta più adatto per i bambini della mia età, avevo capito che per l'anziana signora i miei genitori e io rappresentavamo un ideale di felicità familiare. Questa rivelazione mi aveva messo addosso un'ansia terribile, che era andata crescendo per tutta la mezz'ora che eravamo rimasti lì. Non avevo certo paura che i miei smettessero di colpo di fingere: non si sarebbero mai sognati di cominciare neppure il più blando dei loro litigi. Ma mi ero convinto che da un istante all'altro un segno, magari persino un odore, avrebbe fatto scoprire alla signora l'enormità del suo sbaglio, e aspettavo con terrore il momento in cui, all'improvviso, ci avrebbe guardati agghiacciata.
Seduto sul sedile posteriore della vecchia macchina, cercai di ricordare come fosse finito quel pomeriggio, ma la mia mente divagò e mi ritrovai a pensare a un pomeriggio completamente diverso, in cui pioveva a dirotto e io mi ero rintanato in macchina per sfuggire ai litigi che infuriavano in casa. Quel pomeriggio mi ero sdraiato a pancia in su sul sedile posteriore, con la testa schiacciata sotto il bracciolo. Di lì, tutto quello che vedevo erano le gocce di pioggia che scorrevano sul vetro dei finestrini. In quel momento avevo desiderato solo di poter restare lì indisturbato per ore e ore. Ma sapevo per esperienza che a un certo punto mio padre sarebbe emerso dalla casa, sarebbe passato accanto alla macchina e si sarebbe diretto verso il cancello per uscire in strada. Così ero rimasto a lungo con le orecchie tese, aspettando il rumore del chiavistello della porta. Quando finalmente l'avevo sentito, ero scattato su e mi ero messo a giocare. Avevo mimato un'emozionante zuffa per impossessarmi di una pistola caduta per terra, in modo da far credere di essere troppo impegnato per accorgermi di qualcosa. Solo quando i passi bagnati erano giunti in fondo al vialetto avevo osato fermarmi. Inginocchiandomi in fretta sul sedile, avevo sbirciato cautamente dal lunotto posteriore, appena in tempo per vedere mio padre con l'impermeabile addosso, fermo accanto al cancello, leggermente ingobbito mentre apriva il paracqua. Un attimo dopo mio padre era uscito risolutamente in strada, sparendo dalla mia vista.
Probabilmente mi ero assopito, perché mi svegliai di soprassalto e mi accorsi di essere ancora seduto sul sedile posteriore del rottame, nella più completa oscurità. Un po' spaventato, spinsi la portiera più vicina. Sulle prime non si mosse, poi cominciò a cedere un po' per volta, finché potei sgusciare fuori.
Stirandomi le pieghe del vestito, mi guardai intorno. La casa era tutta illuminata - si vedevano i lampadari scintillare dietro le alte finestre - e accanto alla nostra macchina Sophie stava ancora trafficando con i capelli di Boris. Io ero fuori dell'alone di luce della casa, ma Sophie e Boris sembravano sotto un riflettore. Mentre li osservavo, vidi Sophie chinarsi verso lo specchietti laterale per ritoccarsi il trucco.
Quando emersi dalle tenebre, Boris si girò verso di me. - Non arrivavi più, - disse.
- Hai ragione, mi spiace. $è meglio che entriamo, adesso.
- Solo un secondo, - mormorò Sophie ansiosamente, ancora china sullo specchietto.
- Comincio ad avere fame, - mi disse Boris. - Quando torniamo a casa?
- Non preoccuparti. Non ci fermeremo molto. C'è un sacco di gente che ci sta aspettando, quindi dobbiamo almeno entrare a salutarla. Ma ce ne andremo quasi subito. Poi torniamo a casa e passiamo una bella serata insieme. Solo noi tre.
- Possiamo giocare a Warlord?
- Ma certo, - dissi, contento che il bambino, almeno in apparenza, avesse dimenticato il nostro precedente litigio. - Al gioco che preferisci. E anche se dopo averne cominciato uno vuoi cambiare perché ti sei stufato o stai perdendo, nessun problema. Questa sera si gioca a quello che vuoi tu. E se a un certo punto vuoi piantare lì tutto per chiacchierare un po', magari di pallone, non hai che da dirlo. Sarà una serata magnifica, solo noi tre. Ma prima leviamoci questo fastidio. Vedrai, sarà meno peggio di quel che pensi.
- Sono pronta, - annunciò Sophie, anche se subito dopo si chinò un'ultima volta a guardarsi nello specchietto.
Passammo sotto un arco di pietra ed entrammo nel cortile. Mentre ci dirigevamo verso la porta d'ingresso, Sophie disse: - Non mi spiace più, sai? Ci vengo volentieri.
- Magnifico, - le dissi. - Adesso rilassati e comportati normalmente. Andrà tutto bene.
19.
La porta ci fu aperta da una pingue cameriera. Mentre, un po' spaesati, entravamo nell'ampio vestibolo, la donna bofonchiò:
- Mi fa piacere rivederla, signore.
Solo quando udii queste parole mi accorsi di essere già stato in quella casa: era la stessa in cui mi aveva portato Hoffman la sera prima.
- Ah, sì, - dissi, guardando le pareti rivestite di pannelli di quercia, - sono contento di essere di nuovo qui. Come vede, questa volta ho portato la famiglia.
La cameriera non rispose. Poteva essere deferenza, ma quando la vidi imbronciata accanto alla porta, non potei fare a meno di percepire una certa ostilità. Solo allora, sul tavolino rotondo di legno accanto al portaombrelli, notai la mia faccia che mi sbirciava da un coacervo di riviste e giornali. Andai verso il tavolino e tirai fuori l'edizione del pomeriggio della gazzetta locale: l'intera prima pagina era occupata da una mia fotografia. Sembrava scattata in un campo spazzato dal vento. Poi scorsi l'edificio bianco sullo sfondo e ricordai la spedizione fotografica di quella mattina in cima alla collina. Mi avvicinai con il giornale a una lampada e tenni l'immagine sotto la luce gialla.
La forza del vento mi gettava indietro i capelli. La cravatta era sospesa a mezz'aria dietro un orecchio. Anche la giacca svolazzava alle mie spalle, dando l'impressione che indossassi una cappa. Ma la cosa più stupefacente era l'espressione di furia scatenata del mio volto. Agitavo un pugno al vento, e sembrava che stessi lanciando un grido di guerra. Non riuscivo nel modo più assoluto a capire come potessi avere assunto una posa simile. Il titolo - non c'erano altri testi in tutta la prima pagina - proclamava: «L'appello di Ryder».
Con un certo nervosismo aprii il giornale e mi trovai davanti sei o sette fotografie più piccole, semplici variazioni sul tema della prima pagina. Il mio atteggiamento bellicoso era palese in tutte tranne due. In queste ultime, presentavo con fierezza l'edificio bianco alle mie spalle, sfoggiando uno strano sorriso che rivelava ampiamente i miei denti inferiori ma nessuno dei superiori. Scorrendo le colonne sotto le immagini, vidi che vi ricorreva spesso il nome di un certo Max Sattler.
- Avrei continuato volentieri a esaminare il giornale, ma mi venne il sospetto che l'ostilità della cameriera fosse in qualche modo legata a quelle fotografie e cominciai a sentirmi a disagio. Posai il giornale sul tavolino e mi allontanai, ripromettendomi di studiare con cura il servizio più tardi.
- Su, è ora di andare, - dissi a Sophie e a Boris, che stavano indugiando in mezzo al vestibolo. Avevo parlato forte, e mi aspettavo che la cameriera sentisse e ci accompagnasse al ricevimento. Invece la donna non si mosse. Dopo qualche istante di imbarazzo, le sorrisi e aggiunsi: - Ma certo, ricordo la strada da ieri sera -. Detto questo, mi avviai verso la parte interna della casa facendo strada agli altri.
In realtà, l'edificio era un po' diverso da come me lo ricordavo, e presto ci trovammo in un lungo corridoio rivestito di legno che mi era del tutto nuovo. Ma la cosa si rivelò di scarsa importanza, perché dopo pochi passi cominciammo a sentire un notevole brusio, e un attimo dopo ci affacciammo sulla soglia di una stretta sala stipata di persone in abito da sera con un bicchiere da cocktail in mano.
L'ambiente mi parve subito molto più piccolo del vasto salone da ballo in cui gli ospiti si erano riuniti la sera prima. Esaminandola meglio, vidi che in origine non doveva nemmeno essere una stanza, ma un semplice corridoio, o al massimo un lungo vestibolo arcuato. La curvatura delle pareti lasciava pensare che descrivessero addirittura un semicerchio, anche se dalla porta era impossibile dirlo con certezza. Sul lato esterno le alte finestre, adesso protette dalle tende, sparivano dietro la curva; sulla parete interna, invece, c'era una fila di porte. Il pavimento era di marmo, dal soffitto pendevano lampadari, e qui e là per la sala erano sparse le opere d'arte, su piedistalli o dentro eleganti mobiletti di vetro.
Ci fermammo sulla soglia a contemplare la scena, e io mi guardai intorno in cerca di qualcuno che ci accompagnasse dentro, magari annunciasse addirittura il nostro arrivo. Restammo lì ad aspettare per un bel po', ma nessuno si fece avanti. Di tanto in tanto qualcuno si dirigeva frettolosamente verso di noi, ma all'ultimo momento scoprivamo che stava puntando verso un altro invitato.
Diedi un'occhiata a Sophie. Teneva un braccio sulle spalle di Boris, e tutti e due fissavano la folla con aria tesa.
- Su, entriamo, - dissi disinvoltamente. Muovemmo qualche passo dentro la sala, ma quasi subito ci fermammo di nuovo.
Mi guardai intorno cercando Hoffman, o la signorina Stratmann, o qualcuno di conosciuto, ma non vidi nessuno. Poi, mentre continuavo a passare con gli occhi da una faccia all'altra, mi venne in mente che molte di quelle persone, forse, avevano partecipato al banchetto in cui Sophie era stata così spaventosamente maltrattata. All'improvviso vidi con grande chiarezza ciò che Sophie aveva dovuto sopportare, e mi sentii pericolosamente gonfio di rabbia. Anzi, mentre continuavo a guardarmi intorno, scorsi almeno un gruppetto di invitati - dove la sala curvava sparendo dalla nostra vista - che sicuramente erano da considerarsi tra i principali colpevoli. Li studiai attraverso la folla: gli uomini con i loro sorrisetti compiaciuti, con quel modo di infilare e togliere la mano dalla tasca dei pantaloni con aria tronfia, come per far vedere al mondo intero quanto si sentissero a loro agio in queste occasioni mondane; le donne con i loro comici vestiti, con quel modo di ridere scuotendo la testa come se non potessero farci niente. Era incredibile - assolutamente ridicolo - che persone simili avessero il coraggio di schernire o di guardare dall'alto in basso il loro prossimo, per non parlare di Sophie. Anzi, non vedevo per quale motivo non avrei dovuto andare immediatamente da loro per strigliarli a dovere sotto gli occhi dei loro pari. Dopo avere mormorato qualcosa all'orecchio di Sophie per tranquillizzarla, partii risoluto.
Mentre mi aprivo un varco nella folla, vidi che la sala girava veramente fino a formare un ampio semicerchio. Adesso vedevo anche i camerieri allineati come sentinelle lungo la parete interna, con i loro vassoi di bicchieri e salatini. Di tanto in tanto qualche invitato mi spingeva e si scusava con garbo, oppure mi ritrovavo a scambiare un sorriso con qualcuno che cercava di avanzare nella direzione opposta, ma stranamente nessuno sembrava riconoscermi. A un certo punto passai accanto a tre signori di mezza età che per qualche ragione scuotevano il capo avviliti e notai che uno di loro teneva sotto il braccio una copia dell'edizione pomeridiana del giornale. Vidi la mia faccia battuta dal vento fare capolino dietro il suo gomito, e per un attimo mi domandai se la pubblicazione delle fotografie fosse in qualche modo da collegare allo strano modo in cui, fino a quel momento, eravamo stati ignorati. Ma ormai ero vicino alle persone che avevo preso di mira e non ci pensai più.
Vedendomi arrivare, due del gruppo si fecero da parte come per accogliermi nel cerchio. Non appena mi trovai in mezzo, capii che era in corso una discussione sulle opere d'arte esposte intorno a noi; tutti stavano annuendo alle parole dell'ultimo che aveva parlato. Poi una delle donne disse:
- Sì, è evidente che si potrebbe tracciare una linea a metà della sala, subito dopo questo Van Thillo -. E indicò una statuetta bianca su un piedistallo non lontano da noi. - Il giovane Oskar non ha mai avuto occhio. A suo merito va detto che lo sapeva, ma purtroppo sentiva un obbligo, un obbligo morale nei confronti della famiglia.
- Mi spiace, ma devo dare ragione ad Andreas, - disse uno degli uomini. - Oskar era troppo orgoglioso. Avrebbe dovuto delegare. Rivolgersi a persone con maggiore esperienza.
Poi uno degli altri, sorridendomi affabilmente, mi domandò: - E lei che cosa ne pensa del contributo di Oskar alla collezione?
Per un attimo la domanda mi colse alla sprovvista, ma non avevo nessuna intenzione di lasciarmi sviare.
- Non ho nulla in contrario che ve ne stiate qui a discutere dell'inettitudine di Oskar, - cominciai. - Ma mi sembra più importante e pertinente...
- Mi pare esagerato,- mi interruppe una donna, - definire inetto il giovane Oskar. $è vero che i suoi gusti erano molto diversi da quelli di suo fratello, ed è anche vero che ha fatto qualche errore, ma tutto sommato credo che abbia dato un'impronta piacevole alla collezione. Ha spezzato l'austerità. Senza il suo contributo, la collezione sarebbe rimasta come una buona cena senza il dolce. Quel vaso laggiù, a forma di bruco, - e così dicendo indicò un punto in mezzo alla folla, - è veramente delizioso.
- Tutto questo mi sta bene... - riattaccai, accalorandomi, ma prima che potessi proseguire un uomo disse in tono risoluto:
- Il vaso a forma di bruco è l'£unica, dico l'unica delle sue scelte che meriti un posto qui dentro. Il guaio di Oskar era che non aveva il senso della globalità della collezione, del suo equilibrio intrinseco.
Mi accorsi che stavo per esaurire la pazienza.
- Piantatela! - urlai. - Interrompete per un secondo queste ciance! Chiudete la bocca e lasciate parlare anche gli altri, ascoltate qualcuno che viene da fuori, che non appartiene al mondo meschino e ristretto in cui sguazzate tanto felicemente!
Feci una pausa e li guardai con occhio torvo. La mia veemenza aveva dato i suoi frutti, perché tutti - quattro uomini e tre donne - mi guardavano sbalorditi. Ottenuta finalmente la loro attenzione, riuscii di nuovo a dominare la mia rabbia, una sensazione molto gradevole, come se disponessi di un'arma che potevo usare a mio piacimento. Abbassai la voce, che avevo alzato un po' più di quanto fosse nelle mie intenzioni, e continuai:
- C'è forse da stupirsi? C'è forse da stupirsi se in questa cittaduccia avete tanti problemi? Se, come a qualcuno di voi piace dire, siete in £crisi? Se così tanti di voi sono infelici e delusi? C'è forse qualcuno, qualcuno da fuori, che possa meravigliarsene? Che ne sia sorpreso? Ci grattiamo forse la testa sbalorditi, noi osservatori che veniamo da un mondo più grande e più vasto? Ci chiediamo forse come sia possibile che una città come questa... - Sentii che qualcuno mi toccava un braccio, ma ormai ero deciso a dire la mia. - Che una città, una comunità come £questa sia preda di una crisi del genere? Siamo meravigliati? Costernati? No! Neanche per sogno! Uno arriva qui, e che cosa vede immediatamente? Esemplificato, miei cari signori, dalla gente come voi? Sì, proprio da voi! Perché voi £impersonate... e vi chiedo scusa se sono ingiusto, se sotto le pietre e l'asfalto di questa città ci sono esempi ancora più grossolani e mostruosi di voi... ma ai miei occhi lei, signore, e anche lei, signora, sì, per quanto mi spiaccia darvi questa notizia, sì, voi £esemplificate tutto ciò che in questa città non funziona! - Mi accorsi che la mano che mi tirava la manica apparteneva a una delle donne del gruppo, che per qualche ragione aveva allungato un braccio dietro la schiena dell'uomo che mi stava accanto. Le diedi un'occhiata di sfuggita, poi continuai: - Tanto per cominciare, vi mancano le buone maniere. Guardate come vi comportate fra voi. Guardate come trattate la mia famiglia. E persino me, un personaggio illustre, un vostro ospite. Ma guardatevi, tutti presi dai gusti artistici di Oskar. In altre parole, così ossessionati dai minuscoli mali interni di questa vostra presunta comunità da non dimostrare nemmeno un minimo di buona educazione nei nostri confronti.
La donna che mi tirava per il braccio si era spostata ed era venuta a mettersi alle mie spalle. Sentii che mi diceva qualcosa per cercare di strapparmi via di lì. La ignorai e continuai:
- E come è crudele la sorte! Con tutti i posti che ci sono al mondo, proprio qui dovevano venire i miei genitori. Proprio qui, a ricevere la vostra bella ospitalità. Ironia di un destino crudele! Dopo tutti questi anni, con tutti i posti che ci sono, proprio qui, da gente come voi, dovevano venire! E dire che i miei poveri genitori affrontano questo viaggio per sentirmi suonare per la prima volta in vita loro! Pensate che mi rallegri l'idea di essere obbligato a lasciarli nelle mani di persone come lei, e lei, e lei?
- Signor Ryder, signor Ryder... - La donna accanto a me mi stava tirando il braccio ormai da un pezzo; solo allora mi accorsi che altri non era se non la signorina Collins. Questa scoperta smorzò il mio impeto, e prima che me ne accorgessi la donna era già riuscita a trascinarmi via dal gruppo.
- Ah, signorina Collins, - le dissi un po' confuso. - Buona sera.
- Sa, signor Ryder, - cominciò l'anziana signorina, continuando a tirarmi. - Sono sinceramente meravigliata, bisogna che glielo dica. Parlo del modo in cui la gente si lascia incantare. Un'amica mi ha appena detto che tutta la città ne parla. Oh, mi ha assicurato che si tratta di pettegolezzi estremamente affettuosi! Ma proprio non capisco la ragione di tanto scalpore. Solo perché oggi sono andata allo zoo! Proprio non lo capisco. Io ho acconsentito perché mi hanno convinta che era nell'interesse di tutti che Leo, domani sera, non facesse fiasco. Per questo ho acconsentito a farmi trovare lì, solo per questo. E poi, ammetto che non mi spiaceva l'idea di dire due parole di incoraggiamento a Leo, adesso che è un po' che non beve più. Mi sembrava giusto dargliene atto. Le assicuro, signor Ryder, che se Leo, in un momento qualsiasi di questi ultimi vent'anni, avesse smesso di bere per un periodo così lungo, avrei fatto esattamente lo stesso. Ma finora, purtroppo, non era mai capitato. Davvero, nella mia visita di oggi allo zoo non c'era niente di speciale.
Aveva smesso di tirarmi, ma continuava a tenere il suo braccio infilato nel mio. Cominciammo a passeggiare lentamente nella calca.
- Ne sono sicuro anch'io, signorina Collins, - dissi. - E mi creda, poco fa, quando mi sono avvicinato, non avevo alcuna intenzione di sollevare l'argomento dei rapporti fra lei e il signor Brodsky. A differenza della stragrande maggioranza di questa città, io preferisco non ficcare il naso nelle sue faccende private.
- Lei è una persona molto ammodo, signor Ryder. Ma come le dico, l'incontro di questo pomeriggio non ha avuto alcun significato particolare. La gente sarebbe così delusa se lo sapesse. Tutto quel che è successo è che Leo è venuto verso di me e mi ha detto: «Sei incantevole, oggi». Che altro ci si poteva aspettare da Leo dopo vent'anni in stato di ubriachezza? E in pratica la storia finisce qui Naturalmente, l'ho ringraziato, e gli ho detto che era un pezzo che non lo vedevo così bene. Allora lui si è guardato la punta delle scarpe, una cosa che non ricordo di avergli mai visto fare quando era più giovane. A quei tempi non avrebbe tenuto un atteggiamento così timido. Sì, il suo fuoco si è spento, me ne sono accorta. Ma è stato sostituito da qualcosa di più ponderato. Be', eccolo lì che si fissa la punta delle scarpe, mentre il signor von Winterstein e gli altri consiglieri temporeggiavano a qualche passo di distanza, guardando dall'altra, fingendo di essersi dimenticati di noi. Allora ho fatto un commento sul tempo, e Leo ha alzato gli occhi e ha detto che sì, gli alberi erano magnifici. Poi ha cominciato a parlarmi degli animali che gli erano piaciuti di più. Era chiaro che non aveva prestato assolutamente attenzione, perché ha detto: «Mi piacciono proprio questi animali. Gli elefanti, i coccodrilli, gli scimpanzè». Be', la gabbia delle scimmie era vicina, e senza dubbio vi era passato davanti, ma ero sicura che non avesse ancora visto né gli elefanti né i coccodrilli, e gliel'ho fatto notare. Ma Leo ha sollevato la mano come per dirmi che la cosa non aveva nessuna importanza. Poi di colpo gli ho visto un'ombra di panico negli occhi. Forse perché in quel momento il signor von Winterstein aveva mosso qualche passo verso di noi. Vede, eravamo rimasti intesi che avrei scambiato due parole con Leo, ma proprio due di numero. Il signor von Winterstein mi aveva assicurato che dopo circa un minuto si sarebbe intromesso. Avevo posto io questa condizione, ma non appena abbiamo cominciato a chiacchierare quel minuto mi è parso disperatamente corto. Anch'io ho cominciato a paventare la vicinanza del signor von Winterstein. Leo, comunque, deve avere intuito che il tempo stringeva, perché è andato subito al sodo. Ha detto: «Perché non proviamo a vivere di nuovo insieme? Siamo ancora in tempo». Deve ammettere, signor Ryder, che dopo tutti questi anni era una proposta un po' brusca, anche tenuto conto del limitato tempo a nostra disposizione. Ho semplicemente risposto: «Ma che cosa faremmo insieme? Non abbiamo quasi nulla in comune, ormai». E per un paio di secondi l'ho visto perplesso, come se avessi fatto un'obiezione cui non aveva mai pensato. Poi ha indicato la gabbia davanti a noi e ha detto: «Potremmo tenere un animale. Potremmo volergli bene e occuparci di lui insieme. Forse è proprio questo che ci è mancato l'altra volta». Io non sapevo bene che cosa rispondere, così siamo rimasti in silenzio. Ho visto che il signor von Winterstein veniva verso di noi, poi, però, deve avere notato qualcosa nel nostro atteggiamento, perché ha cambiato idea e si è allontanato di nuovo, mettendosi a chiacchierare con il signor von Braun. A questo punto Leo ha alzato un dito, un gesto che ha sempre fatto, ha alzato un dito e ha detto: «Io avevo un cane, come sai, ma è morto ieri. I cani non vanno bene. Sceglieremo un animale che viva di più. Venti, venticinque anni. In questo modo, se lo tratteremo bene, moriremo prima noi, e non dovremo piangerlo. Visto che non abbiamo mai avuto dei figli, prendiamo un animale». A questo ho risposto: «Nel tuo ragionamento c'è una pecca. Anche se il nostro adorato animale dovesse vivere più a lungo di noi, è assai improbabile che tu e io moriamo lo stesso giorno. Magari non dovrai piangere l'animale, ma se io, per esempio, morissi prima di te, ti toccherebbe piangere me». E lui ha ribattuto in fretta: «Be', sempre meglio che non avere nessuno che ti pianga dopo che te ne sei andata». «Oh, non ho di questi problemi», gli ho detto, e gli ho fatto notare che in questi anni ho aiutato parecchia gente qui in città, e che quando morirò non mancheranno certo le persone disposte a piangermi. E lui: «Non si sa mai. Di qui in avanti le cose potrebbero mettersi bene per me. Anch'io potrei avere molta gente disposta a piangermi quando morirò. Magari centinaia di persone». Poi ha aggiunto: «Ma in realtà non saprei che cosa farmene, se poi nessuna di loro mi volesse veramente bene. Sarei pronto a scambiarle tutte per una donna che mi abbia amato e che io abbia amata». Devo ammettere, signor Ryder, che questa conversazione mi stava rattristando un po', e non mi è venuto in mente nient'altro da dire. Poi Leo ha aggiunto: «Se avessimo avuto dei figli, che età avrebbero adesso? Ormai sarebbero bellissimi». Come se ci volessero anni per diventare belli! Poi ha ripetuto: «Ma visto che non abbiamo avuto figli, prendiamo un animale». E quando ha ripetuto queste parole, be', probabilmente mi sono sentita un po' confusa e ho lanciato un'occhiata al signor von Winterstein, che si trovava alle spalle di Leo, e lui è subito venuto verso di noi dicendo qualcosa di scherzoso. E questo è tutto. Fine della nostra conversazione.
Stavamo ancora vagando lentamente per la sala a braccetto. Mi occorse qualche istante per assimilare il racconto, poi dissi:
- Se la memoria non mi tradisce, signorina Collins, l'ultima volta che ci siamo visti ha avuto la cortesia di invitarmi a casa sua per discutere dei miei problemi. Per una strana ironia della sorte, però, mi sembra che ci sia molto più da discutere sulle decisioni che attendono £lei. Mi chiedo proprio che cosa deciderà di fare. Se mi permette, lei si trova a una specie di bivio.
La signorina Collins rise. - Oh, cielo, signor Ryder, sono troppo vecchia per trovarmi a un bivio. Ed è davvero troppo tardi perché Leo venga a dirmi certe cose. Se tutto ciò fosse successo sette o otto anni fa... - La donna sospirò, e per lo spazio di un secondo il suo volto fu attraversato da una profonda tristezza. Ma subito ricomparve il suo sorriso garbato. - Non è il momento di abbandonarsi a una nuova serie di speranze, di paure e di sogni. Sì, sì, lei si affretterà a dire che non sono ancora così vecchia, che la mia vita è tutt'altro che finita. La ringrazio. Ma di fatto è troppo tardi, e poi... be', diciamo che verrebbe fuori un £pasticcio se andassimo a complicarci le cose adesso. Ah, il Mazursky! Non cessa di affascinarmi! - Mi indicò un gatto di argilla rossa montato su un sostegno. - No, Leo ha già provocato abbastanza scompiglio nella mia esistenza. Da molto tempo ormai mi sono costruita una vita diversa. Lo chieda pure in giro; molti, così almeno spero, le diranno che ho assolto piuttosto bene i miei doveri. Che mi sono prodigata per aiutare il prossimo in un periodo di crescenti difficoltà. Naturalmente, nulla che vedere con ciò che ha fatto lei, signor Ryder. Ma ciò non significa che non provi una certa soddisfazione quando mi guardo alle spalle e vedo ciò che sono riuscita a fare. Sì, nel complesso sono più che soddisfatta della vita che ho condotto dopo avere lasciato Leo, e preferisco che le cose rimangano come stanno.
- Ma signorina Collins. Non pensa di dover valutare attentamente la situazione? Non capisco perché, dopo tante opere buone, non le sembri una bella ricompensa poter trascorrere la sera della vita con l'uomo che... mi scusi... con l'uomo che, in qualche modo, lei deve amare ancora. Altrimenti non si spiegherebbe perché abbia continuato a vivere qui per tutti questi anni. E perché non abbia mai preso in considerazione la possibilità di risposarsi.
- Oh, £l'£ho presa in considerazione, signor Ryder. Ho conosciuto almeno tre uomini con i quali mi sarei potuta sistemare. Ma non erano... non erano gli uomini che facevano per me. Forse in quello che dice c'è una punta di vero. La presenza di Leo nei paraggi mi impediva di provare sufficiente affetto per altri. Be', in ogni caso sto parlando di molto tempo fa. Lei mi chiede, e posso anche capirlo, perché non dovrei finire i miei giorni con Leo. Be', ragioniamoci su un momento. Adesso Leo è sobrio e calmo. Rimarrà così a lungo? Forse. Una probabilità c'è, lo ammetto. Soprattutto se adesso otterrà qualche riconoscimento, se diventerà di nuovo un personaggio celebre con grandi responsabilità. Ma se io accettassi di tornare a vivere con lui, be', le cose cambierebbero. Ben presto Leo deciderebbe di distruggere tutto ciò che ha costruito, esattamente come ha fatto la volta scorsa. Con quali conseguenze per tutti? Con quali conseguenze per questa città? In realtà, signor Ryder, penso che sia mio dovere di cittadina non accettare le sue proposte.
- Mi perdoni, signorina Collins, ma non posso fare a meno di pensare che lei sia la prima a essere poco convinta di questi ragionamenti. Che nell'intimo lei abbia sempre aspettato e aspettato di poter riprendere la sua vecchia vita con il signor Brodsky. Che tutte le sue opere buone, per le quali non dubito che gli abitanti di questa città le conserveranno eterna gratitudine, siano state un semplice passatempo per tirare avanti nell'attesa.
La signorina Collins inclinò il capo e rifletté sulle mie parole con un sorrisetto divertito.
- Forse non ha tutti i torti, signor Ryder, - disse alla fine. - Forse non mi rendevo conto di come passasse in fretta il tempo. Me ne sono accorta solo recentemente; l'anno scorso, per l'esattezza. Ho capito che stavamo invecchiando tutti e due, e che probabilmente era troppo tardi per illuderci di poter tornare sui nostri passi. Sì, forse ha ragione lei. Quando ho lasciato Leo, non pensavo a una cosa definitiva. Ma ho davvero £aspettato, come sostiene lei? Questo non lo so. Sono sempre vissuta alla giornata. E adesso scopro che il tempo è fuggito. Ma se mi volto indietro a guardare la mia vita, se ripenso al modo in cui l'ho spesa, non ne sono insoddisfatta. E mi piacerebbe concluderla così, senza cambiamenti. Perché dovrei cacciarmi nei guai con Leo e il suo animale? No, verrebbe fuori un pasticcio.
Stavo per ribadire, nel più gentile dei modi, che ero assai scettico sul fatto che fosse davvero convinta di ciò che diceva, quando mi accorsi che al mio fianco c'era Boris.
- Dobbiamo andare subito a casa, - disse il bambino. - La mamma sta crollando.
Guardai nella direzione che mi stava indicando. Sophie era più o meno dove l'avevo lasciata io, completamente sola, senza un cane con cui parlare. Sulla faccia conservava un flebile sorriso, sebbene non avesse nessuno cui rivolgerlo. Teneva le spalle curve, e i suoi occhi sembravano fissi sulle scarpe del gruppo di invitati più vicino.
La situazione era chiaramente disperata. Trattenendo la rabbia nei confronti dell'intera sala, dissi a Boris: - Sì, hai ragione. Meglio andare. Va' a prendere tua madre. Cercheremo di battercela senza che ci vedano. Al ricevimento siamo venuti, quindi nessuno potrà lamentarsi.
Ricordavo, dalla sera prima, che la casa confinava con l'albergo. Quando Boris scomparve nella folla, mi girai a guardare la fila di porte lungo il muro, cercando di rammentare quale avessi preso con Stephan Hoffman per ritrovarmi nel corridoio dell'albergo. Ma in quel momento la signorina Collins, che mi teneva ancora per il braccio, riprese a camminare, dicendo:
- Se devo essere sincera, ma proprio sincera, allora mi tocca riconoscerlo. Sì, nei momenti meno razionali, l'ho anche sognato.
- Sognato che cosa, signorina Collins?
- Be', tutto. Tutto quello che sta succedendo adesso. Che Leo si redimesse, che ottenesse in questa città una posizione degna di lui. Che le cose tornassero come prima, che gli anni terribili venissero relegati per sempre nel passato. Sì, devo riconoscerlo, signor Ryder. $è facile, alla luce del giorno, essere saggi e ragionevoli. Ma di notte è tutt'altra cosa. Molto spesso, in questi anni, mi svegliavo nel cuore della notte e restavo lì, sdraiata nell'oscurità, a sognare che potesse succedere qualcosa di questo genere. E adesso che comincia a succedere per davvero, mi sento confusa. Ma vede, in realtà non sta cominciando un bel niente. Oh, forse Leo riuscirà a combinare qualcosa; una volta era molto dotato, e il suo talento non può essere sparito nel nulla. E bisogna anche dire che prima di oggi non aveva mai avuto un'opportunità, una vera opportunità. Ma per quanto riguarda noi due è troppo tardi. Checché ne dica lei, è sicuramente troppo tardi.
- Signorina Collins, mi piacerebbe molto poter approfondire meglio l'argomento con lei. Ma ora, purtroppo, temo di dover andare.
Mentre dicevo queste parole, vidi Sophie e Boris venire verso di me attraverso la sala. Liberai il braccio dalla signorina Collins ed esaminai di nuovo le porte, facendo qualche passo indietro per abbracciare con lo sguardo anche quelle nascoste dietro la curva. Le studiai a una a una; mi parevano tutte vagamente familiari, ma di nessuna avrei potuto giurare che fosse quella giusta. Pensai di chiedere a qualcuno, poi cambiai idea per timore di attirare l'attenzione sulla nostra partenza anticipata.
Ancora dubbioso, condussi Sophie e Boris verso le porte. Non so perché, mi vennero in mente le numerose scene cinematografiche in cui un personaggio, desiderando fare un'uscita in grande stile, spalanca la porta sbagliata ed entra in un armadio. Anche se per il motivo opposto - io volevo andarmene di soppiatto, in modo che più tardi nessuno sapesse dire con certezza quando ciò era avvenuto - era altrettanto importante evitare una simile calamità.
Alla fine scelsi la porta di mezzo, semplicemente perché era la più imponente. I pannelli profondamente incassati erano abbelliti da intarsi di madreperla; a destra e a sinistra c'erano due colonne di pietra. E in quel momento, davanti a ciascuna colonna, c'era un cameriere in uniforme, rigido come una sentinella. Una porta così maestosa, pensai, anche se non direttamente nell'albergo, ci avrebbe sicuramente condotti in un posto di un certo rilievo, da cui avremmo potuto cercarci la strada lontano dagli occhi della gente.
Facendo segno a Sophie e a Boris di seguirmi, scivolai verso la porta, poi, rivolto un brusco cenno del capo ai camerieri, come per dire: «Non occorre che vi scomodiate, so dove sto andando», la aprii di scatto. Con mio grande orrore, si avverò ciò che più avevo temuto: dietro la porta c'era l'armadio delle scope, pieno, tra l'altro, da scoppiare. Parecchie ramazze rotolarono fuori e caddero sul pavimento di marmo con gran fracasso, spargendo dappertutto una sostanza ovattata e scura. Guardando nell'armadio, vidi un ammasso disordinato di secchi, stracci unti e bombolette di prodotti per la pulizia.
- Mi scusi, - mormorai al più vicino dei camerieri, che si era precipitato a raccogliere le scope, e mentre la gente cominciava a guardarci con riprovazione mi diressi in tutta fretta verso la porta accanto.
Non volendo commettere due volte lo stesso errore, cominciai ad aprirla lentamente, con grande cautela. Anche se mi sentivo molti occhi puntati sulla schiena, anche se il brusio stava aumentando e se una voce accanto a me aveva detto: «Santo cielo, ma quello non è il signor Ryder?», non mi lasciai prendere dal panico; tirai la porta verso di me un centimetro per volta, sbirciando dentro lo spiraglio per assicurarmi che non ci fosse nulla sul punto di cadermi addosso. Quando, con gran sollievo, vidi che la porta dava su un corridoio, mi infilai dentro in fretta e furia e feci un cenno imperioso a Sophie e a Boris.
20.
Richiusi la porta alle loro spalle, poi tutti e tre ci guardammo intorno. Con una sensazione di trionfo, vidi che al secondo tentativo avevo fatto la scelta giusta. Eravamo proprio nel lungo corridoio buio che passava davanti al soggiorno dell'albergo e sbucava nell'atrio. Sulle prime restammo immobili, un po' storditi dall'improvviso silenzio dopo il chiasso della galleria. Poi Boris sbadigliò e disse: - Che festa noiosa.
- Atroce, - dissi, di nuovo furioso con tutti gli invitati del ricevimento, dal primo all'ultimo. - Che gentaglia patetica. Non hanno la minima idea di come ci si comporti -. Poi aggiunsi: - La mamma era la donna più bella, là dentro. Vero, Boris?
Sophie ridacchiò nell'oscurità.
- Sul serio, - ribadii. - Era di gran lunga la più bella.
Boris sembrava sul punto di dire qualcosa, ma in quel momento udimmo un rumore strisciante. Non appena i miei occhi cominciarono ad abituarsi all'oscurità che ci avvolgeva, scorsi in fondo al corridoio la sagoma di una grande bestia che ci veniva incontro lentamente, emettendo un fruscio a ogni passo. Anche Sophie e Boris si erano accorti della sua presenza, e per un momento rimanemmo tutti e tre paralizzati. Poi Boris esclamò in un sussurro:
- $è il nonno!
Vidi allora che la bestia era davvero Gustav: piegato in due, teneva una valigia sotto il braccio, un'altra per il manico, e ne tirava una terza - la fonte del rumore strisciante - dietro di sé. Per un momento ebbi l'impressione che non avanzasse affatto e si dondolasse piano piano sul posto.
Boris corse verso di lui, mentre Sophie e io seguivamo un po' esitanti. Quando fummo più vicini, Gustav sì accorse finalmente della nostra presenza, si fermò e raddrizzò un po' la schiena. Nell'oscurità non riuscivo a distinguere l'espressione del suo volto, ma quando parlò la sua voce mi parve allegra.
- Boris. Che bella sorpresa.
- $è il nonno! - esclamò Boris di nuovo. Poi disse: - Sei occupato?
- Oh, sì, il lavoro non manca.
- Devi essere molto occupato -. C'era una strana tensione nella voce di Boris. - Molto, £molto occupato.
- Sì, - disse Gustav, riprendendo fiato. - Abbiamo parecchio da fare.
Mi avvicinai di un passo e dissi a Gustav: - Ci spiace averla interrotta durante il lavoro. Veniamo da un ricevimento, ma adesso stiamo andando a casa. Per una cena con i fiocchi.
- Ah, - disse il facchino guardandoci. - Ah, sì. $è una bella idea. Mi fa proprio piacere vedervi tutti e tre insieme -. Poi, rivolto a Boris, aggiunse: - Come stai, Boris? E tua madre come sta?
- La mamma è un po' stanca, - disse il bambino. - Non vediamo l'ora di metterci a tavola. E dopo giocheremo a Warlord.
- Magnifico. Sono sicuro che vi divertirete. Be'... - Gustav fece una breve pausa, poi aggiunse: - Meglio che mi rimetta al lavoro. In questo momento siamo oberati dalle cose da fare.
- Sì, - disse Boris sottovoce.
Gustav scompigliò i capelli del bambino. Poi si curvò di nuovo e ricominciò a tirare. Allungando una mano verso Boris, lo scostai dal suo percorso. Forse perché lo stavamo osservando, forse perché la sosta gli aveva ridato le forze, il facchino ci passò accanto con andatura più risoluta. Mi avviai verso l'atrio, ma Boris sembrava restio a seguirmi e continuava a girarsi per guardare in fondo al corridoio, dove nell'oscurità si intravedeva ancora la sagoma ingobbita del nonno.
- Su, sbrighiamoci, - dissi, mettendogli un braccio sulle spalle. - Non cominciate anche voi ad avere fame?
Ripresi a camminare, ma dietro di me sentii Sophie che diceva: - No, da questa parte -. Mi girai e la vidi piegata accanto a una porticina che fino a quel momento mi era sfuggita. In realtà, anche se l'avessi notata prima, l'avrei presa per un semplice armadio, visto che mi arrivava non più in alto della spalla. Ma ora Sophie la stava tenendo aperta, e Boris, con l'aria di chi l'aveva già fatto spesso, si infilò dentro. Sophie continuò a tenere la porta, e dopo una breve esitazione mi chinai anch'io e seguii il bambino.
Avevo quasi temuto di finire in un cunicolo e di dover strisciare sulle mani e sulle ginocchia, invece mi trovai in un altro corridoio, se possibile ancora più spazioso di quello che avevamo appena lasciato, anche se chiaramente di servizio. Il pavimento era nudo, e lungo il muro c'erano tubature scoperte. Eravamo di nuovo nella semioscurità, ma poco più avanti si vedeva sul pavimento la striscia di luce di una lampadina elettrica. Facemmo qualche passo in quella direzione, poi Sophie si fermò di nuovo e spinse la sbarra di una porta antincendio. Un attimo dopo eravamo fuori, in una tranquilla stradina laterale.
Era una bella notte stellata. Guardandomi intorno, vidi che la strada era deserta e che tutti i negozi erano chiusi. Mentre ci incamminavamo, Sophie disse allegramente:
- $è stata una sorpresa incontrare il nonno. Vero, Boris?
Il bambino non rispose. Ci precedeva a grandi passi, borbottando sottovoce fra sé e sé.
- Chissà come sarai affamato? - mi disse Sophie. - Spero solo che ci sia abbastanza da mangiare. Mi sono lasciata prendere la mano mentre preparavo tutti quegli stuzzichini, e mi sono dimenticata di fare un bel piatto sostanzioso. Questo pomeriggio mi sembrava che ci fosse roba in abbondanza, ma adesso, ripensandoci...
- Non essere sciocca, basterà, - dissi. - E poi è proprio quello di cui ho voglia. Tante cosette da piluccare. Capisco perché a Boris piaccia mangiare così.
- Lo faceva anche mia madre, quando ero piccola. Per le serate speciali. Non per i compleanni o per Natale. In quelle occasioni mangiavamo come tutti gli altri. Ma nelle serate che volevamo rendere speciali, in cui c'eravamo solo noi tre, mia madre preparava tanti piattini deliziosi da piluccare. Poi, quando ci siamo trasferiti, la mamma non stava più bene, così l'abitudine si è un po' persa. Spero di avervi fatto abbastanza da mangiare. Dovete avere tutti e due una fame da lupi -. Poi improvvisamente Sophie aggiunse: - Mi spiace. Questa sera non sono stata gran che, vero?
La rividi sola e inerme in mezzo alla calca della galleria, e le misi un braccio intorno alle spalle. Sophie reagì stringendosi a me, e per qualche minuto camminammo così, in silenzio, attraversando una serie di vie deserte. A un certo punto Boris venne a mettersi al nostro fianco per chiedere:
- Posso mangiare sul divano, questa sera?
Sophie rifletté un istante, poi disse: - Va bene. Ma solo per questa sera.
Boris ci camminò accanto per un pezzo, poi domandò: - Posso mangiare sdraiato sul pavimento?
Sophie rise. - Solo per questa sera, Boris. Domani mattina, a colazione, dovrai sederti di nuovo a tavola.
La concessione parve rendere felice il bambino, che corse avanti pieno di entusiasmo.
Dopo un po' ci fermammo davanti a una porta schiacciata tra la bottega di un barbiere e una panetteria. La via, già stretta, era resa ancora più angusta dalle numerose automobili posteggiate sui marciapiedi. Mentre Sophie cercava la chiave, alzai gli occhi e vidi che sopra i negozi c'erano altri quattro piani. Qualche finestra era illuminata, e si udiva un debole suono di televisione.
Seguii madre e figlio su per due rampe di scale. Mentre Sophie apriva la porta d'ingresso, mi colpì un pensiero. Si aspettavano che mi comportassi come uno di casa o - cosa altrettanto probabile - come un ospite? Entrando, mi ripromisi di osservare attentamente il comportamento di Sophie e di regolarmi di conseguenza. Non appena ebbe richiuso la porta alle nostre spalle, Sophie annunciò che doveva accendere il forno e sparì. Boris, invece, si tolse la giacca, la scagliò per terra e partì di corsa ululando come una sirena della polizia.
Rimasto solo nell'ingresso, ne approfittai per darmi un'occhiata intorno. Evidentemente, sia Sophie sia Boris davano per scontato che sapessi orientarmi; e in effetti, mentre osservavo le molte porte semiaperte che avevo davanti a me, o la sudicia tappezzeria gialla con il suo sbiadito disegno floreale, o le tubature esterne che andavano dal pavimento al soffitto dietro l'appendiabiti, quell'entrata cominciò a diventarmi vagamente familiare.
Dopo qualche minuto passai in soggiorno. Sebbene molti particolari mi fossero nuovi - la coppia di vecchie poltrone sfondate ai due lati del camino in disuso erano sicuramente un acquisto recente - ebbi l'impressione di ricordare questa stanza più chiaramente dell'ingresso. Il grande tavolo da pranzo ovale spinto contro la parete, la seconda porta che dava in cucina, l'informe divano scuro e lo stracco tappeto arancione mi erano sicuramente noti. La luce appesa al soffitto - una lampadina coperta da un paralume di chintz - proiettava intorno un ricamo di ombre che mi impediva di capire se sulla tappezzeria vi fossero macchie di umidità. Boris era sdraiato a pancia in giù in mezzo alla stanza; non appena mi avvicinai, si rotolò sulla schiena.
- Ho deciso di tentare un esperimento, - dichiarò, non capii bene se rivolto al soffitto o a me. - Terrò il collo così.
Abbassai lo sguardo e vidi che aveva incassato il collo tra le spalle e premeva il mento contro le clavicole.
- Vedo. E per quanto tempo hai intenzione di restare in quella posizione?
- Almeno ventiquattro ore.
- Molto bene, Boris.
Lo scavalcai e proseguii per la cucina. Anche quella stanza lunga e stretta era innegabilmente familiare. Le pareti sporche, le tracce di ragnatele sulla cornice, la lavatrice sgangherata andavano tutte a solleticare fastidiosamente la mia memoria. Sophie aveva indossato un grembiule e si era inginocchiata per mettere qualcosa dentro il forno. Quando entrai, alzò gli occhi, fece un commento a proposito della cena, mi indicò il forno e rise allegramente. Risi anch'io, poi, dando un'ultima occhiata alla cucina, mi girai e tornai in salotto.
Boris era ancora sdraiato per terra; sentendomi entrare, s'affrettò ad accorciare di nuovo il collo. Non gli prestai attenzione e andai a sedermi sul divano. Sul tappeto c'era un giornale; lo raccolsi, pensando che potesse trattarsi dell'edizione con le mie fotografie. In realtà il giornale era di parecchi giorni prima, ma decisi lo stesso di sfogliarlo. Mentre leggevo l'articolo in prima pagina - un'intervista a von Winterstein sui progetti per la conservazione della città vecchia - Boris restò sdraiato sul tappeto, senza parlare, emettendo di tanto in tanto qualche piccolo suono da robot. Ogni volta che gli lanciavo un'occhiata, vedevo che aveva ancora il collo incassato; decisi di non rivolgergli la parola fino a quando non avesse smesso quel ridicolo gioco. Non avrei saputo dire se accorciasse il collo ogni volta che intuiva che stavo per guardarlo o se lo tenesse contratto in continuazione, ma presto smisi di occuparmene. «Che se ne stia lì», pensai, e andai avanti a leggere.
Dopo una ventina di minuti Sophie entrò con un vassoio pieno di roba da mangiare. Vidi dei vol-au-vent, degli involtini piccanti, delle tortine, tutti di piccole dimensioni e in gran parte molto raffinati. Sophie posò il vassoio sulla tavola.
- Come siete silenziosi, - disse, guardandosi intorno. - Su, adesso godiamocela. Guarda, Boris! E di là c'è un altro vassoio così. Con tutte le cose che preferisci! Senti, perché non scegli un gioco mentre io vado a prendere il resto?
Non appena Sophie sparì in cucina, Boris scattò in piedi, si avvicinò al tavolo e si cacciò in bocca una tortina. Ebbi la tentazione di fargli notare che il suo collo era tornato alla normalità, ma alla fine decisi di continuare a leggere il giornale senza parlare. Boris ricominciò a fare la sirena, attraversò di corsa il salotto e si fermò nell'angolo opposto, davanti a un alto armadio. Ricordai che lì dentro teneva tutti i suoi giochi di società; le larghe scatole piatte erano precariamente impilate sopra altri giochi e oggetti di casa. Boris rimase per un po' a guardare l'armadio, poi di colpo ne spalancò la porta.
- A che cosa giochiamo? - domandò.
Feci finta di non sentire e continuai a leggere. Vedevo Boris, con la coda dell'occhio. Dapprima il bambino si girò verso di me, poi, quando capì che non gli avrei risposto, tornò a esaminare l'armadio. Per qualche istante rimase lì a contemplare la pila dei giochi, allungando di tanto in tanto un dito per toccare lo spigolo di una delle scatole.
Sophie tornò con un secondo vassoio. Mentre sistemava le cose in tavola, Boris le si avvicinò. Sentii che madre e figlio litigavano sottovoce.
- Hai detto che potevo mangiare per terra, - sosteneva Boris.
Dopo un po' venne di nuovo a stravaccarsi sul tappeto davanti ai miei piedi, portando con sé un piatto traboccante.
Mi alzai e mi avvicinai alla tavola. Mentre prendevo un piatto ed esaminavo i manicaretti, Sophie mi girellò intorno con aria inquieta.
- Hanno un aspetto magnifico, - dissi, servendomi.
Tornato sul divano, scoprii che mettendo il piatto sul cuscino accanto a me potevo mangiare e leggere allo stesso tempo. Avevo deciso di esaminare molto attentamente il giornale, studiandone persino gli annunci economici. Tenni fede al mio progetto, allungando la mano verso il piatto senza nemmeno staccare gli occhi dalla carta stampata.
Nel frattempo Sophie era andata a sedersi per terra vicino a Boris; di tanto in tanto gli chiedeva se gli piacesse una particolare tortina di carne, oppure come stesse un suo compagno di scuola. Ma ogni volta che cercava di avviare una conversazione in questo modo, Boris aveva la bocca piena e rispondeva solo a grugniti. Alla fine Sophie disse: - Allora, Boris, hai scelto il gioco?
Sentii gli occhi di Boris posarsi su di me. Poi il bambino disse sottovoce:
- Per me è lo stesso.
- Per te è lo stesso? - Sophie sembrava incredula. Dopo una lunga pausa aggiunse: - Va bene. Se davvero non te ne importa niente, lo scelgo io -. Sentii che si alzava dal pavimento. - E lo scelgo subito.
Questa strategia parve ottenere lo scopo. Scattando in piedi, Boris seguì la madre fino all'armadio. Li sentii confabulare di fronte alla pila di scatole. Parlavano sottovoce, come se temessero di disturbarmi mentre leggevo. Alla fine tornarono a sedersi sul pavimento.
- Dài, prepariamolo subito, - disse Sophie. - Possiamo cominciare a giocare mentre mangiamo.
Quando li guardai di nuovo, vidi che avevano aperto il tabellone e che Boris stava preparando le carte e le fiches di plastica con un certo entusiasmo. Fui dunque stupito, qualche minuto più tardi, di sentire Sophie che diceva:
- Che cosa c'è? L'hai voluto tu questo gioco.
- $è vero.
- E allora che cosa c'è, Boris?
Ci fu una pausa, poi Boris rispose: - Sono troppo stanco. Come papà.
Sophie sospirò. Ma all'improvviso disse in tono più vivace:
- Boris, papà ti ha comprato un regalo.
Non potei fare a meno di dare una sbirciatina da dietro il giornale; vidi che Sophie mi stava sorridendo con aria complice.
- Posso darglielo adesso? - mi domandò.
Non avevo la minima idea di che cosa stesse parlando; la guardai senza capire, ma Sophie si alzò e uscì dalla stanza. Un attimo dopo tornò con il logoro manuale del tuttofare che avevo comprato al cinema la sera prima. Boris, dimenticando la sua presunta stanchezza, balzò in piedi, ma Sophie tenne il libro fuori della sua portata, stuzzicandolo.
- Ieri papà e io siamo usciti insieme, - disse. - Abbiamo passato una magnifica serata, e sul più bello lui si è ricordato di te e ti ha comprato questo. Non avevi mai posseduto una cosa del genere prima di oggi, vero, Boris?
- Non montargli la testa, - dissi da dietro il giornale. - $è solo un vecchio manuale.
- Papà è stato proprio bravo, vero?
Senza farmi vedere, diedi un'altra occhiata. Sophie aveva lasciato che Boris prendesse il libro, e il bambino si era inginocchiato sul pavimento per esaminarlo.
- Fantastico, - mormorò, sfogliandolo. - Questo libro è davvero fantastico -. Poi si soffermò a guardare una pagina. - Ti insegna a fare tutto.
Mentre Boris riprendeva a girare le pagine, il libro gemette e si spaccò in due. Boris continuò a sfogliarlo come se non fosse successo nulla. Vedendo la reazione del figlio, Sophie, che aveva accennato a chinarsi, si fermò e raddrizzò il busto.
- Ti insegna tutto, - disse Boris. - $è proprio un bel libro.
Ebbi la netta impressione che stesse cercando di parlare con me. Continuai a leggere, e qualche secondo più tardi sentii Sophie che diceva sottovoce: - Vado a prendere lo scotch. Vedrai che sarà sufficiente.
Sophie uscì dalla stanza. Senza interrompere la lettura, vidi con la coda dell'occhio che Boris stava ancora girando le pagine. Dopo un po' il bambino alzò gli occhi verso di me e disse:
- Esiste una spazzola speciale per mettere la tappezzeria.
Continuai a leggere. Dopo un po' Sophie tornò in salotto.
- Strano, non riesco a trovare lo scotch da nessuna parte, - borbottò.
- Questo libro è fantastico, - le disse Boris. - Ti insegna a fare tutto.
- Strano. Forse l'abbiamo finito -. Sophie sparì di nuovo in cucina.
Ricordavo vagamente che dovevano esserci diversi rotoli di nastro adesivo nello stesso armadio dei giochi di società, in uno dei cassettini in basso a destra. Ebbi la tentazione di posare il giornale e di andare a frugare, ma proprio in quel momento Sophie tornò nella stanza.
- Poco male, - disse. - Domani mattina compro il nastro adesivo e aggiustiamo il libro. Adesso vieni, Boris, cominciamo questa partita, altrimenti non riusciamo a finirla prima di andare a letto.
Boris non rispose. Sentivo che stava ancora sfogliando il libro sul tappeto.
- Be', se non hai intenzione di giocare, - disse Sophie, - comincio da sola.
Mi giunse il suono di un dado scosso in un bicchierino e, mentre continuavo a leggere il mio giornale, non potei fare a meno di provare un po' di pena per Sophie al pensiero di come si era messa la serata. D'altronde, non poteva illudersi di creare un simile scompiglio senza che poi dovessimo pagarne lo scotto. Tra l'altro, non si era nemmeno sprecata a cucinare. Per esempio, non aveva pensato di fare i triangolini di pane tostato con le sardine, né gli spiedini di formaggio e salsiccia. Non aveva preparato frittatine di alcun genere, né le patate ripiene di formaggio, né il tortino di pesce. E mancavano anche i peperoni ripieni. Per non parlare dei cubetti di pane con la pasta d'acciughe, o delle fettine di cetriolo tagliate per lungo, o dei dischi di uovo sodo con i margini dentellati. E come dolce non aveva fatto né il £plum-£cake, né i biscottini di pastafrolla, e neppure una rolata svizzera alla fragola.
A poco a poco mi resi conto che Sophie stava scuotendo il dado da un'eternità. In realtà, da quando aveva cominciato, il rumore era cambiato. Adesso Sophie sembrava scuotere il dado in maniera lenta e fiacca, come al ritmo di una melodia che le stava passando per la testa. Abbassai il giornale vagamente allarmato.
Sophie era per terra, appoggiata a un braccio teso, in una posizione tale per cui i capelli le spiovevano davanti alle spalle nascondendole il volto. Era completamente assorta nel gioco, e a causa del busto stranamente sbilanciato in avanti, sembrava protesa sul tabellone. L'intero suo corpo si dondolava piano piano. Boris la guardava imbronciato, passando la mano sulla spaccatura del libro.
Sophie continuò a scuotere il dado per altri trenta o quaranta secondi, poi lo fece finalmente rotolare davanti a sé. Dopo averlo studiato con aria sognante, mosse alcuni pezzi sul tabellone, poi ricominciò a scuotere il bicchierino. Sentii il pericolo nell'aria e decisi che era giunto il momento di prendere in pugno la situazione. Gettando via il giornale, battei le mani con uno schiocco e mi alzai in piedi.
- Io devo tornare in albergo, - annunciai. - E a voi due consiglio caldamente di andare a letto. La giornata è stata lunga per tutti.
Mentre mi dirigevo verso l'ingresso, notai di sfuggita l'espressione meravigliata di Sophie, che un attimo dopo mi corse dietro.
- Te ne vai già? Sei sicuro di avere mangiato abbastanza?
- Scusami, so che hai lavorato come una matta per preparare la cena. Ma si è fatto tardi, e domani mi attende una mattina piena di impegni.
Sophie sospirò avvilita. - Mi spiace, - disse alla fine. - Non è stata gran che come serata. Mi spiace.
- Non crucciarti. Non è colpa tua. Siamo tutti molto stanchi. Adesso devo proprio andare.
Sophie, scura in volto, mi aprì la porta, dicendo che mi avrebbe chiamato in mattinata.
Vagai parecchi minuti per le vie deserte, cercando di ricordarmi come si facesse a tornare in albergo. Finalmente sbucai in una strada che mi era familiare e cominciai a trovare piacevole la pace della notte e la possibilità di restare solo con i miei pensieri e con il suono dei miei passi. Presto, però, provai di nuovo un certo rimpianto per il modo in cui si era conclusa la serata. D'altronde, non potevo dimenticare che Sophie, oltre a tutto il resto, era riuscita a buttarmi all'aria un programma studiato con ogni cura. Tanto che alla fine del secondo giorno in questa città avevo ancora una conoscenza estremamente superficiale della crisi su cui avrei dovuto dare il mio parere. Ricordai che quella mattina mi era stato persino impedito di presentarmi all'appuntamento con la Contessa e il sindaco, durante il quale avrei avuto finalmente modo di ascoltare un po' di musica di Brodsky. Certo, c'era tutto il tempo per rimediare; mi aspettavano ancora parecchi importanti impegni - come l'incontro con il Gruppo di Mutuo Soccorso dei Cittadini - che mi avrebbero sicuramente fornito un quadro molto più completo della situazione. Non si poteva però negare che ero stato sottoposto a notevoli pressioni, e Sophie non poteva lamentarsi se avevo finito la giornata con i nervi non del tutto distesi.
Immerso in questi pensieri, attraversai un ponte di pietra. Quando mi fermai a guardare l'acqua e la fila di lampioni lungo il canale, mi venne in mente che avevo ancora la possibilità di accettare l'invito della signorina Collins, che mi aveva lasciato intendere di essere nella posizione ideale per aiutarmi. Visto che il tempo stringeva, pensai che una bella chiacchierata con lei avrebbe potuto sveltire le cose, fornendomi quasi tutte le informazioni che per colpa di Sophie non ero ancora riuscito a raccogliere. Ripensai al salotto della signorina Collins, alle tende di velluto e ai mobili sgangherati, e mi venne improvvisamente voglia di essere là in quel momento. Ripresi a camminare, oltrepassai il ponte e mi infilai in una strada buia, deciso a farle visita la mattina dopo alla prima occasione.
Parte terza
21.
Quando mi svegliai, un bel sole filtrava attraverso i listelli verticali degli scuri. Al pensiero di essermi lasciato sfuggire buona parte della mattina, fui preso dal panico. Poi mi ricordai che la sera prima avevo deciso di fare visita alla signorina Collins, e scesi dal letto sentendomi molto più calmo.
La camera era più piccola e assai più soffocante della precedente. Provai un nuovo impeto di rabbia nei confronti di Hoffman, che mi aveva costretto a cambiarla. Ma la questione delle stanze mi parve meno essenziale della mattina precedente; mentre mi lavavo e mi vestivo, non ebbi difficoltà a concentrarmi totalmente sull'incontro con la signorina Collins, dal quale ormai dipendeva tutto. Quando uscii dalla camera, avevo smesso di preoccuparmi per essere rimasto addormentato; sapevo che alla lunga il sonno si sarebbe rivelato preziosissimo. In compenso, non vedevo l'ora di sedermi davanti a una bella colazione per riordinare le idee su ciò che avrei dovuto domandare alla signorina Collins.
Fui dunque meravigliato, arrivando davanti alla sala da pranzo, di essere accolto dal rumore di un aspirapolvere. Le porte erano chiuse, e quando le spinsi aprendole di qualche centimetro vidi due donne in tuta da lavoro che pulivano la moquette dopo avere ammucchiato i tavoli e le sedie contro le pareti. La prospettiva di affrontare un incontro così importante senza colazione non era delle più allegre, quindi tornai nell'atrio di pessimo umore. Scansando un gruppo di turisti americani mi avvicinai al banco della reception. Il portiere stava leggendo una rivista, ma non appena mi vide scattò in piedi.
- Buon giorno, signor Ryder.
- Buon giorno. Sono molto contrariato che non servano più la colazione.
Per un attimo il portiere parve sconcertato. Poi disse: - In condizioni normali, signore, ci sarebbe qualcuno in grado di servirle la colazione anche a quest'ora. Ma lei capisce. Visto che giorno è oggi, è abbastanza naturale che buona parte del personale sia al palazzo dei concerti per dare una mano coi preparativi. Persino il signor Hoffman è là dalle prime ore del mattino. Temo proprio che l'albergo sia a mezzo servizio. Purtroppo abbiamo dovuto chiudere anche il patio fino all'ora di pranzo. Naturalmente, se è solo questione di una tazza di caffè e di un paio di paste...
- Va bene così, - dissi freddamente. - Non ho tempo di aspettare che me le trovi. Si vede che questa mattina è destino che resti senza colazione.
Il portiere cominciò di nuovo a scusarsi, ma io tagliai corto con un cenno della mano e me ne andai.
Uscii nella luce del sole, ma solo dopo un po' che camminavo per la strada intasata dal traffico mi resi conto di non sapere dove fosse la casa della signorina Collins. La sera che ci eravamo andati con Stephan non avevo fatto attenzione, e ora le strade erano così affollate di pedoni e automobili da essere irriconoscibili. Mi arrestai un momento sul marciapiede e pensai di chiedere indicazioni a un passante. Probabilmente la signorina Collins era abbastanza conosciuta. Stavo per fermare un signore in giacca e cravatta che mi veniva incontro a grandi passi, quando mi sentii sfiorare una spalla da dietro.
- Buon giorno, signor Ryder.
Mi girai e vidi Gustav, con un'enorme scatola di cartone che quasi gli nascondeva la metà superiore del corpo. Stava ansimando, ma non riuscii a capire se ciò fosse dovuto solo al carico o anche al fatto di essermi corso dietro. In ogni caso, quando lo salutai e gli domandai dove stesse andando, ci volle un momento prima che potesse rispondere.
- Oh, stavo solo portando questa scatola al palazzo dei concerti, signor Ryder, - disse finalmente il facchino. - Gli oggetti più ingombranti sono stati trasportati con un furgone ieri sera, ma c'è ancora bisogno di un'infinità di cose. $è da questa mattina presto che devo fare la spola tra l'albergo e il palazzo dei concerti. Le posso assicurare che laggiù regna già una grande eccitazione. C'è il clima delle grandi occasioni.
- Mi fa piacere sentirlo, - dissi. - Anch'io non vedo l'ora che si cominci. Ma chissà se può aiutarmi. Vede, questa mattina ho un appuntamento dalla signorina Collins, ma in questo momento temo di essermi un po' smarrito.
- La signorina Collins? Be', non siamo affatto lontani. $è da quella parte, signor Ryder. Se vuole, l'accompagno. Oh, no, non si preoccupi, è proprio sulla mia strada.
Forse la scatola era meno pesante di quel che sembrava, perché Gustav si mise a camminare al mio fianco di buon passo.
- Sono contento della coincidenza, signor Ryder, - proseguì il facchino, - perché, se devo essere sincero, volevo parlarle di una cosa. In realtà, è da quando ci siamo conosciuti che voglio parlargliene, ma per una ragione o per l'altra non l'ho mai fatto. E adesso manca poco all'inizio della serata, e io non le ho ancora chiesto niente. $è un'idea che ci è venuta qualche settimana fa al Caffè Ungherese, durante una delle nostre riunioni domenicali. Avevamo saputo da poco che avrebbe visitato la nostra città, e naturalmente, come tutti d'altronde, stavamo commentando la notizia. Qualcuno, credo Gianni, ha detto di avere letto che lei è una persona per bene, l'opposto di quei tipi che amano fare la prima donna, e che ha fama di essere molto attento ai bisogni della gente comune. Questo ci diceva Gianni. Eravamo seduti intorno il tavolo, in otto o nove, perché quella sera Josef non c'era; guardavamo il sole tramontare dietro la piazza e sono sicuro che tutti pensavamo alla stessa cosa. Sulle prime siamo rimasti zitti; non osavamo aprire bocca. Ma alla fine il solito Karl ha detto quello che tutti avevamo in mente. «Perché non glielo chiediamo? Che cosa abbiamo da perdere? Chiederglielo non costa niente. All'apparenza è completamente diverso da quell'altro. Non si sa mai, potrebbe persino accettare. Perché non chiederglielo? Potrebbe essere la nostra ultima possibilità». E di colpo ci siamo messi tutti a parlarne, e non la finivamo più. Le posso assicurare che da quel giorno, signor Ryder, non siamo mai rimasti a lungo seduti a quel tavolo senza sollevare l'argomento. Magari stavamo chiacchierando d'altro, o ridendo allegramente, quando di colpo scendeva il silenzio e tutti ci accorgevamo di pensare di nuovo alla stessa cosa. Per questo cominciavo a sentirmi un po' in colpa, signor Ryder. Se ci penso! L'ho già vista parecchie volte, ho avuto persino l'onore di parlare con lei e non ho mai trovato il coraggio di farle la nostra richiesta. E adesso mancano poche ore al concerto e io non le ho ancora accennato alla cosa. Come avrei fatto a spiegarlo ai ragazzi domenica prossima? Così questa mattina, quando mi sono alzato, mi sono detto: devi trovarlo, devi almeno provare a chiederglielo, lo sai che i ragazzi ci contano. Ma poi non ho avuto un attimo di respiro, e lei chissà quanti impegni ha, così ho pensato, be', mi sa che ho perso il treno. Quindi capisce che sono proprio contento della coincidenza, e spero che non me ne voglia se le faccio la nostra richiesta. Naturalmente, se ritiene che la cosa sia impossibile, non insisterò un istante di più; oh sì, i ragazzi sapranno mettersi il cuore in pace.
Avevamo svoltato in un viale gremito. Mentre lo attraversavamo a un semaforo, Gustav tacque, e solo quando fummo dall'altra parte, davanti a una fila di caffè italiani, disse:
- Sono sicuro che ha già indovinato che cosa ho intenzione di chiederle, signor Ryder. Vorremmo solo una menzioncina. Tutto lì.
- Una menzioncina?
- Solo una menzioncina, signor Ryder. Come lei sa, molti di noi lavorano da anni e anni per cercare di modificare l'atteggiamento di questa città nei confronti del nostro mestiere. Qualcosetta abbiamo ottenuto, ma nel complesso non siamo riusciti a ribaltare la situazione. Com'è comprensibile, la delusione serpeggia tra le nostre file. Gli anni passano anche per noi, e c'è la diffusa sensazione che di questo passo le cose non cambieranno mai. Ma una sua parolina questa sera, signor Ryder, potrebbe mutare il corso degli eventi. Potrebbe costituire una svolta storica per il nostro mestiere. Così, almeno, pensano i ragazzi. Anzi, alcuni sono convinti che questa sia l'ultima possibilità, se non altro per la nostra generazione. «Quando si ripresenterà un'occasione simile?» continuano a domandarsi. Per questo ho voluto accennargliene, signor Ryder. Naturalmente, se ritiene sconveniente la richiesta, posso anche capirlo, visto che è venuto qui per affrontare temi molto importanti e questo invece è un'inezia. Grande per noi, ma un'inezia, me ne rendo conto, in un contesto più generale. Se ritiene che la cosa sia impossibile, signor Ryder, la prego di dirlo e non se ne parla più.
Riflettei un momento, consapevole dello sguardo penetrante del facchino che mi sbirciava da dietro la scatola.
- Mi sta proponendo, - dissi dopo un po', - di nominarvi durante... durante il mio discorso alla cittadinanza?
- Solo poche parole, signor Ryder.
Sicuramente, l'idea di aiutare in quel modo il vecchio facchino e i suoi colleghi aveva il suo fascino. Ci pensai su un momento, poi dissi: - Va bene. Dirò volentieri qualcosa in vostro favore.
Sentii che Gustav inalava a fondo mentre il significato della mia risposta si faceva strada nella sua mente. Poi, con voce più calma del previsto, disse:
- Le saremo per sempre debitori, signor Ryder.
Stava per continuare, ma per qualche ragione mi venne voglia di ostacolare almeno per un po' i suoi tentativi di manifestarmi la sua gratitudine.
- Sì, bisogna pensarci bene. Come possiamo fare? - mi affrettai ad aggiungere, assumendo un'aria preoccupata. - Sì, non appena salgo sul podio potrei dire qualcosa come: «Prima di cominciare, vorrei fare una piccola ma importante precisazione». Una cosa così. Sì, non dovrebbe essere difficile.
All'improvviso vidi con grande vividezza il gruppetto di vecchi dalle spalle robuste riuniti intorno al tavolo di un bar; vidi l'espressione del loro volto - incredulità, incommensurabile gioia - mentre Gustav dava loro la notizia. Poi vidi me stesso farmi avanti in mezzo a loro con atteggiamento pacato e modesto, vidi le loro facce che si giravano a guardarmi. Nel frattempo ero consapevole che Gustav camminava al mio fianco e senza dubbio scoppiava dal desiderio di finire di ringraziarmi. Ciò nonostante continuai a chiacchierare.
- Sì, sì. «Una piccola ma importante precisazione». Potrei cominciare così. «Io ho girato il mondo e conosco molte altre città, ma in questa c'è qualcosa che mi sembra davvero singolare...» Forse «singolare» è troppo forte. Magari è meglio usare «originale».
- Oh, sì, - mi interruppe Gustav. - «Originale» è la parola giusta. Nessuno di noi vuole scatenare antagonismi. Ed è proprio per questo che lei rappresenta per noi un'opportunità irripetibile. Vede, anche se fra qualche anno un'altra celebrità accettasse di venire in questa città, anche se riuscissimo a convincerla a parlare di noi, che probabilità ci sarebbero che dimostri un simile tatto? «Originale» è perfetto, signor Ryder.
- Sì, sì, - continuai. - Poi magari faccio una breve pausa, lanciando sul pubblico uno sguardo lievemente accusatorio, in modo che in sala tutti tacciano e si crei un po' di attesa. E alla fine potrei dire qualcosa come... vediamo un po'... sì, potrei dire: «Signore e signori, voi che vivete qui da tanti anni considerate normali certe cose che invece vsaltano agli occhiv di un osservatore esterno...»
Gustav si fermò all'improvviso. Sulle prime pensai che non resistesse più al bisogno di manifestare la sua riconoscenza. Ma quando mi voltai, capii che il motivo non era quello. Il facchino si era paralizzato sul marciapiede, con la testa tutta inclinata da una parte e la guancia schiacciata contro la scatola. Aveva gli occhi chiusi e un'espressione leggermente accigliata, come se stesse cercando di eseguire mentalmente un calcolo difficile. Mentre lo osservavo, il pomo d'Adamo gli andò su e giù lentamente, una, due, tre volte.
- Si sente bene? - domandai, mettendogli un braccio dietro la schiena. - Santo cielo, è meglio che si sieda da qualche parte.
Feci per prendergli la scatola, ma le mani di Gustav non mollarono la presa.
- No, no, signor Ryder, - mi disse il facchino senza aprire gli occhi. - Sto benissimo.
- Ne è sicuro?
- Sì, sì, sto benissimo.
Per qualche secondo ancora Gustav rimase immobile. Poi riaprì gli occhi e si guardò intorno, proruppe in una flebile risata e riprese a camminare.
- Non ha idea di che cosa significhi per noi, signor Ryder, - disse dopo avere percorso un tratto al mio fianco. - Dopo tutti questi anni -. Scosse la testa sorridendo. - Darò la notizia ai ragazzi alla prima occasione. Questa mattina sono oberato di lavoro, ma una telefonata a Josef sarà sufficiente. Lo dirà lui agli altri. Riesce a immaginare che cosa proveranno? Ah, ecco il suo incrocio. Io proseguo ancora per un pezzo. Oh, non si preoccupi, signor Ryder, sto benissimo. La casa della signorina Collins, come sa, è quella laggiù, sulla destra. Bene, non ho parole per ringraziarla, signor Ryder. I ragazzi aspetteranno questa sera come non hanno mai aspettato nulla in vita loro. Ne sono sicuro.
Augurandogli una buona giornata, imboccai la via che mi aveva indicato. Quando, dopo qualche passo, mi girai, Gustav era ancora fermo sull'angolo e mi guardava da dietro la sua scatola. Vedendo che mi ero voltato, mi fece un energico cenno con il capo - lo scatolone gli impediva di agitare una mano - poi andò per la sua strada.
La via in cui mi trovavo era prevalentemente residenziale, e dopo qualche isolato divenne molto tranquilla. Presto vidi sopra la mia testa i condomini con i balconi spagnoleschi che avevo notato due sere prima dalla macchina di Stephan. Ce n'era una lunga serie, e mentre camminavo cominciai a temere di non riuscire a riconoscere quello davanti al quale avevo aspettato con Boris. Ma poco dopo mi fermai di fronte a un ingresso dall'aspetto familiare, salii i gradini e andai a sbirciare nei pannelli di vetro ai due lati del portone.
L'atrio era ordinato e asettico, e non mi diede alcun indizio. Poi ricordai che quella sera ero rimasto per un pezzo a osservare Stephan e la signorina Collins che conversavano dietro al portone prima di entrare in casa. A rischio di essere preso per un ficcanaso, scavalcai con una gamba il basso muretto e mi sporsi per guardare nella finestra più vicina. Il riflesso del sole mi impediva di vedere con chiarezza, ma riuscii a distinguere un ometto tarchiato in camicia bianca e cravatta seduto solo soletto in una poltrona rivolta più o meno verso la finestra. I suoi occhi sembravano puntati su di me, ma lo sguardo era assente; non avrei saputo dire se si fosse accorto della mia presenza, o se stesse semplicemente guardando fuori della finestra immerso nei suoi pensieri. Neppure questo mi disse molto, ma quando ritirai la gamba dal muretto e osservai di nuovo il portone, mi convinsi di avere trovato quello giusto e schiacciai il campanello dell'appartamento al pianterreno.
Dopo una breve attesa ebbi la soddisfazione di vedere attraverso i vetri smerigliati la figura della signorina Collins che veniva verso di me.
- Oh, signor Ryder, - disse la donna aprendo la porta. - Mi chiedevo proprio se questa mattina l'avrei vista.
- Come va, signorina Collins. Ci ho riflettuto e ho deciso di approfittare del suo cortese invito. Ma ho visto che questa mattina ha già un ospite -. Feci un gesto in direzione del salottino affacciato sulla strada. - Forse preferisce che torni in un altro momento.
- Non se ne parla nemmeno, signor Ryder. In realtà, anche se le sembro molto occupata, questa è una mattina più tranquilla del solito. Come vede ho una sola persona in sala d'aspetto. In questo momento sono con una giovane coppia. $è già da un'ora che parliamo, ma hanno dei problemi così radicati e un tale bisogno di sfogarsi, cosa che finora non erano riusciti a fare, che non me la sento di mettergli fretta. Comunque, se non le dispiace aspettare nel salottino, credo che non ci vorrà più molto -. Poi, abbassando improvvisamente la voce, aggiunse: - Il poveretto che aspetta di là ha solo bisogno di qualcuno che lo stia ad ascoltare qualche minuto per potergli raccontare che si sente tanto triste e solo. Nient'altro. Con lui me la sbrigo in quattro e quattr'otto. Viene quasi tutte le mattine, e non se la prende se di tanto in tanto gli faccio premura. D'altronde gli dedico un sacco di tempo -. Poi la sua voce riprese il tono normale. - Be', entri, per piacere, non stia lì sulla porta, anche se oggi c'è una temperatura davvero piacevole. Più tardi, se ne ha voglia e se non c'è nessun altro che aspetta, possiamo andare a spasso nel Giardino Sternberg. $è qui vicino, e noi abbiamo parecchie cose da dirci, ne sono sicura. Ho già analizzato a fondo la sua posizione.
- La ringrazio, signorina Collins. In realtà, immaginavo che questa mattina avrebbe avuto da fare, e non sarei piombato così a casa sua se non avessi un po' di fretta. Vede, il guaio... - Sospirai rumorosamente e scossi la testa. - Il guaio è che per una ragione o per l'altra non sono riuscito a fare le cose come mi ero proposto, e adesso eccomi qui, con il tempo che stringe e... Be', tanto per cominciare, come saprà, questa sera devo rivolgere un discorso alla cittadinanza, e se devo essere sincero, signorina Collins... - Fui sul punto di rinunciare, poi vidi che l'anziana signorina mi guardava con aria benevola e feci uno sforzo per continuare. - Onestamente, ci sono alcuni temi... temi di carattere locale... sui quali desidererei il suo parere prima... prima di dare la veste definitiva... - Feci una pausa nel tentativo di eliminare il tremito dalla mia voce. - Prima di dare la veste definitiva al mio discorso. In fondo, tutta questa gente si fida di me...
- Signor Ryder, signor Ryder, - disse la signorina Collins posandomi una mano sulla spalla. - La prego, si calmi. E soprattutto entri, per piacere. Così va meglio, venga dentro. E adesso la smetta di preoccuparsi. $è comprensibile che si senta un po' agitato, è più che naturale. Anzi, il fatto di darsi tanto pensiero le rende onore. Discuteremo di tutto ciò che vuole, temi locali compresi, fra pochissimo, niente paura. Ma lasci che le dica subito una cosa, signor Ryder. Secondo me, si sta preoccupando inutilmente. $è vero, questa sera sulle sue spalle ricadrà una grande responsabilità, ma non è la prima volta che si trova in una situazione del genere, e a detta di tutti ha sempre assolto onorevolmente il suo compito. Perché non dovrebbe andare così anche questa sera?
La interruppi: - Ma quello che le sto dicendo, signorina Collins, è proprio che questa volta la situazione è diversa. Questa volta non ho avuto modo di vesaminare i fattiv... - Sospirai di nuovo. - Il guaio è che non ho avuto la possibilità di prepararmi come al solito...
- Ne riparleremo fra un momento. Ma sono sicura che sta perdendo il senso delle proporzioni, signor Ryder. Perché si preoccupa tanto? Ha un'esperienza inuguagliabile, il suo genio è universalmente riconosciuto, davvero, di che cosa ha paura? Se vuole sapere la verità, - aggiunse la signorina Collins abbassando la voce, - la gente, in una città come questa, le sarà riconoscente £qualunque cosa dica. Si limiti a riferire le sue impressioni generali, non se lo sognano nemmeno di lamentarsi. Non ha proprio nulla da temere.
Annuii, rendendomi conto che la signorina Collins aveva ragione. E quasi subito mi sentii sollevato.
- Ma ne discuteremo a fondo fra poco -. Senza togliermi la mano dalla spalla, la signorina Collins mi stava guidando verso il salottino che dava sulla strada. - Le prometto che torno subito. Intanto si sieda e si metta comodo, per piacere.
Entrai in una piccola stanza quadrata, piena di sole e di fiori freschi. L'assortimento poco omogeneo delle poltrone e le riviste sul tavolino da caffè mi ricordarono la sala d'aspetto di un dentista o di un dottore. Alla vista della signorina Collins, l'ometto tarchiato balzò subito in piedi, non saprei dire se per educazione o perché sperava di essere invitato a passare in soggiorno. Mi aspettavo di venire presentato, ma evidentemente le regole erano simili a quelle delle sale d'aspetto, perché la signorina Collins si limitò a sorridere all'ometto, poi uscì dalla stanza mormorando in tono di scusa: - Torno subito, - apparentemente rivolta a entrambi.
L'ometto tarchiato si risedette e si mise a fissare il pavimento. Per un momento pensai che avrebbe detto qualcosa, ma vedendo che restava zitto mi girai e andai verso il divano di vimini che occupava la nicchia soleggiata della finestra da cui avevo sbirciato poc'anzi. Mentre mi sedevo, l'intreccio di vimini cigolò in maniera rassicurante. Un'ampia striscia di sole mi cadeva in grembo; accanto al mio volto c'era un grosso vaso di tulipani. Mi sentii subito a mio agio e cominciai a considerare ciò che mi aspettava con animo ben diverso rispetto a pochi minuti prima, quando avevo suonato il campanello. La signorina Collins aveva perfettamente ragione. Una città come quella mi sarebbe stata riconoscente qualunque cosa avessi detto. Era quasi inconcepibile che i suoi abitanti potessero muovermi appunti o assumere un atteggiamento critico. E come mi aveva fatto notare la signorina Collins, mi ero già trovato in situazioni analoghe un'infinità di volte. Anche se non avevo potuto prepararmi come avrei voluto, ero sicuramente in grado di pronunciare un discorso autorevole. Mentre me ne stavo lì seduto al sole, mi sentii invadere da una crescente tranquillità, e soprattutto mi meravigliai di aver potuto cedere in quel modo all'ansia.
- Mi stavo chiedendo, - mi disse all'improvviso l'ometto tarchiato, - se hai ancora visto qualcuno della vecchia banda? Per esempio Tom Edwards? O Chris Farleigh? O quelle due ragazze che vivevano alla Fattoria Allagata?
Solo allora mi accorsi di avere davanti Jonathan Parkhurst, un tizio che conoscevo abbastanza bene quand'ero studente in Inghilterra.
- No, - gli risposi, - purtroppo ho perso ogni contatto con gli amici di allora. Dovendo girare da un paese all'altro come faccio io, diventa impossibile.
Parkhurst annuì senza sorridere. - Sì, immagino che sia difficile, - disse. - Be', £loro, invece, si ricordano tutti di te. Quando sono tornato in Inghilterra l'anno scorso, ne ho rivisti parecchi. Credo che si riuniscano più o meno una volta all'anno. Ogni tanto li invidio, ma sono ben contento di non essere rimasto invischiato in quel giro. Mica per niente mi piace vivere qui, dove posso essere chi voglio e nessuno si aspetta che faccia il pagliaccio in continuazione. Perché sai, quando sono tornato in Inghilterra e ci siamo trovati in quel pub, hanno subito ricominciato. «Ehi, ma è il vecchio Parkers!» si sono messi a gridare tutti insieme. Mi chiamano ancora così, come se il tempo si fosse fermato. «Parkers! Il vecchio Parkers!» Ti assicuro che quando sono entrato mi hanno accolto così, ragliando come asini; oh, Dio, non ti dico che pena. E nell'istante stesso in cui si sono messi a ragliare, io mi sono sentito di nuovo il patetico pagliaccio di un tempo. E dire che sono venuto via proprio per fuggire da quella dannazione. Non credere, era un bel pub, un tipico vecchio pub delle campagne inglesi, con un fuoco vero, una spada antica sopra la mensola del caminetto e un padrone cordiale che diceva spiritosaggini. Da farti venire la nostalgia. Vivendo qui tutte queste cose mi mancano. Ma per il resto, Dio mio, mi vengono i brividi solo a pensarci. Si sono messi a ragliare come asini aspettandosi che io saltellassi verso il tavolo facendo il pagliaccio. E hanno passato la sera a ricordare i nomi dei compagni, l'uno dopo l'altro. Mica per parlarne; si limitavano a fare dei versacci, oppure dicevano un nome e subito scoppiavano a ridere. Sai cosa intendo, per esempio nominavano Samantha, e cominciavano a ridere, applaudire e schiamazzare. Poi tiravano fuori un altro nome, che so, Roger Peacock, e attaccavano tutti insieme una specie di coro calcistico. Spaventoso, te l'assicuro. Ma la cosa peggiore è che si aspettavano di rivedere il vecchio pagliaccio, e io non ho potuto farci niente. Il pensiero che potessi essere diventato una persona diversa non li ha nemmeno sfiorati, e così ho ricominciato da capo, con le vocine buffe, le smorfie, oh sì, ho scoperto che me la cavo ancora bene. D'altronde, perché avrebbero dovuto supporre che qui avessi smesso di fare queste cose? Uno di loro l'ha persino detto. Credo sia stato Tom Edwards. A un certo punto, quando tutti erano ubriachi, mi ha dato una gran pacca sulla schiena e ha detto: «Parkers! Dove stai adesso devono essere pazzi di te! Parkers!» Probabilmente avevo appena fatto uno dei miei numeri; che ne so, magari avevo raccontato qualche aspetto della vita di quaggiù facendo un po' il buffone, ma Edwards ha detto proprio così, mentre gli altri si sbellicavano dalle risate. Oh, sì, ho fatto furore. Continuavano a ripetermi che avevano sentito la mia mancanza, che nessuno li faceva ridere come me. Oh, quanto tempo che nessuno mi diceva una cosa del genere, quanto tempo che non ricevevo un'accoglienza così, piena di calore e di amicizia. Eppure mi sono chiesto perché ci fossi ricascato. Mi ero ripromesso di non farlo più, per questo ero venuto a vivere qui. Quella sera, per strada... faceva freddo e c'era la nebbia quella sera... ad ogni modo, per strada, mentre andavo al pub, continuavo a dirmi: sono passati tanti anni, non sei più quello di una volta, fagli vedere chi sei diventato, e me lo ripetevo per farmi forza, ma nell'istante in i cui sono entrato, in cui ho visto quel bel fuoco e li ho sentiti ragliare a quel modo per accogliermi... oh, non sai com'è triste la vita in questa città. Certo, qui non devo fare smorfie e voci buffe, ma almeno queste cose funzionavano. Non le sopportavo, ma funzionavano, e tutti mi volevano bene. E i miei vecchi compagni di università, poveri stronzi, devono essere convinti che io sia ancora così. Non indovinerebbero mai che i miei vicini di casa mi considerano un inglese molto serio e noioso. Educato, ma molto noioso. Molto solo e molto noioso. Be', sempre meglio che tornare a essere Parkers. Oh, quei versacci erano proprio patetici; un gruppo di signori di mezza età che si mette a ragliare, e io che faccio le smorfie e parlo come uno scemo. Oh, Dio, che spettacolo' nauseante. Ma non ho potuto farci niente, era da così tanto tempo che non mi trovavo in mezzo ad amici. E tu, Ryder, non provi un po' di nostalgia per quei giorni? Anche se ormai sei un uomo di successo? Ah, sì, ecco che cosa volevo dirti. Magari tu non te li ricordi più, ma ti assicuro che loro si ricordano benissimo di te. Da quello che ho capito, tutte le volte che si ritrovano, ti dedicano un angolino della serata. Proprio così, ho assistito anch'io. Prima passano in rassegna una sfilza di altri nomi, sai, per non arrivare subito a te; come se volessero scaldarsi un po'. Poi fanno una pausa, fingendo di non ricordare nessun altro compagno dei tempi dell'università, finché uno salta su e dice: «E Ryder? Ne sapete qualcosa?» Allora scoppia il finimondo, e tutti si mettono a faro dei rumoracci disgustosi, a metà fra il dileggio e il conato di vomito. Li fanno tutti insieme, ripetutamente; anzi, per almeno un minuto dopo che è stato pronunciato il tuo nome non fanno altro. Poi cominciano a ridere e a mimare qualcuno che suona il pianoforte, sai cosa intendo, così... - Parkhurst assunse un'espressione altezzosa e strimpellò su un'invisibile tastiera con raffinata eleganza. - Proprio così, poi fingono altri sforzi di vomito. Solo a questo punto cominciano con le storielle, con le piccole cose che ricordano di te, e ti accorgi subito che se le sono già raccontate un'infinità di volte, perché tutti sanno benissimo quand'è il momento di fare di nuovo i versacci, o di dire: «Come? Vorrai scherzare!» e così via. Oh, si divertono un mondo. La volta che c'ero io, qualcuno ha ricordato la sera in cui sono finiti gli esami. Pare che tutti si stessero preparando per uscire a fare baldoria quando ti hanno visto arrivare serio serio. Allora ti hanno detto: «Su, Ryder, vieni a prenderti una bella sbornia con noi!» E pare che tu abbia risposto... - e qui Parkhurst si trasformò di nuovo in un individuo altezzoso e la sua voce assunse un tono ridicolmente pomposo, - sì, pare che tu abbia risposto: «Ho da fare. Questa sera non posso permettermi di non esercitarmi. Ho già perso due giorni per colpa di questi orrendi esami!» Poi tutti hanno finto di nuovo di vomitare e di suonare il pianoforte a mezz'aria, ed è stato allora che hanno cominciato a... ma non starò a raccontarti le altre cose che hanno tirato fuori, sono davvero spaventose. Un branco di bastardi, quasi tutti così infelici, così frustrati e pieni di rancore.
Mentre Parkhurst parlava, mi era tornato in mente un ricordo dei tempi dell'università; per un attimo quel frammento di memoria mi diede una grande tranquillità, tanto che per un po' non badai più a ciò che Parkhurst stava dicendo. Mi ero ricordato di un'altra bella mattina - non dissimile da questa - in cui me ne stavo pacifico su un divano accanto a una finestra inondata di sole. Mi trovavo nella mia stanzetta, nella vecchia fattoria in cui abitavo con altri quattro studenti. In grembo avevo la partitura di un concerto che avevo studiato svogliatamente per almeno un'ora, e stavo pensando di abbandonarla per uno dei romanzi dell'Ottocento impilati accanto ai miei piedi sul pavimento di legno. Dalla finestra aperta entrava una brezza leggera, che mi portava le voci di un gruppetto di studenti seduti nell'erba alta e intenti a discutere di filosofia, poesia o argomenti simili. Oltre al divano, nella mia stanzetta c'era ben poco: un materasso sul pavimento e, in un angolo, un piccolo scrittoio con una sedia. Ma le ero molto affezionato. Spesso il pavimento si ricopriva interamente di libri e riviste che io leggiucchiavo in quei lunghi pomeriggi; avevo preso anche l'abitudine di lasciare la porta spalancata, in modo che chi passava potesse entrare a fare quattro chiacchiere. Chiusi gli occhi, e per un momento mi venne una gran voglia di essere di nuovo in quella piccola fattoria, circondato dai campi e dai compagni che oziavano nell'erba alta. Ci volle quindi un po' di tempo perché il significato delle parole di Parkhurst si facesse strada nel mio cervello. Solo allora mi accorsi che le persone di cui stava parlando, i cui volti ormai si confondevano nella mia memoria, erano le stesse che una volta si affacciavano alla porta di camera mia, le stesse che accoglievo pigramente e con le quali discutevo per un'ora o due di qualche romanziere o di un chitarrista spagnolo. Ciò nonostante, era così piacevole crogiolarsi al sole sul divano di vimini della signorina Collins che le parole di Parkhurst mi lasciarono solo una vaga e remota sensazione di disagio.
L'ometto continuò a parlare. Avevo smesso da un pezzo di prestargli attenzione, quando fui riscosso da qualcuno che picchiava sul vetro alle mie spalle. Parkhurst parve non curarsene, e anch'io cercai di ignorare il rumore, un po' come facciamo con la sveglia quando ci disturba nel bel mezzo di un sonno voluttuoso. Ma i colpi alla finestra continuarono, e alla fine Parkhurst si interruppe, dicendo: - Oh cielo, ci mancava Brodsky.
Riaprii gli occhi e mi guardai alle spalle. Brodsky stava proprio sbirciando dalla finestra. Forse per l'intensa luminosità esterna, forse per qualche difetto della vista, sembrava avere difficoltà a vedere dentro. Teneva il volto premuto contro il vetro e si schermava gli occhi con entrambe le mani, ma ebbi l'impressione che non ci avesse ancora notati e che picchiasse sul vetro convinto che nella stanza ci fosse la signorina Collins.
Alla fine Parkhurst si alzò in piedi e disse: - Meglio che vada a vedere che cosa vuole.
22.
Sentii Parkhurst che apriva la porta, poi delle voci che discutevano nell'ingresso. Dopo un momento Parkhurst tornò nel salottino, alzò gli occhi al cielo e sospirò.
Dietro di lui entrò Brodsky. Sembrava più alto dell'ultima volta che l'avevo visto, in un salone affollato; mi colpì di nuovo lo strano atteggiamento del suo corpo, leggermente inclinato in avanti come se dovesse ribaltarsi da un momento all'altro. Notai però che era perfettamente sobrio. Portava un farfallino scarlatto e un vestito nero da damerino, chiaramente nuovo di zecca. Il caletto della camicia bianca aveva le punte in fuori, se di proposito o per eccessiva inamidatura non avrei saputo dire. Brodsky aveva in mano un mazzo di fiori, e i suoi occhi erano stanchi e tristi. Si fermò sulla soglia e si guardò intorno con cautela, forse aspettandosi di trovare la signorina Collins.
- $è occupata, gliel'ho detto, - disse Parkhurst. - Senta, io sono in confidenza con la signorina Collins, e posso dirle a colpo sicuro che non avrà nessuna voglia di vederla -. Parkhurst mi lanciò un'occhiata, aspettandosi una conferma da parte mia, ma io avevo deciso di non immischiarmi e mi limitai a rivolgere a Brodsky un sorrisetto. Solo allora Brodsky mi riconobbe.
- Signor Ryder, - disse, inchinando solennemente la testa Poi si rivolse di nuovo a Parkhurst. - Se la signorina è in casa, la prego di chiamarla -. Così dicendo accennò al mazzo di fiori, come se quest'ultimo fosse sufficiente a spiegare l'urgenza. - La prego.
- Gliel'ho già detto, non posso aiutarla. La signorina Collins non ha nessuna intenzione di vederla. E poi in questo momento sta parlando con due persone.
- Ho capito, - mormorò Brodsky. - Ho capito. Non vuole aiutarmi. Ho capito.
Detto questo, si avviò verso la porta attraverso la quale un istante prima era sparita la signorina Collins. Parkhurst fu lesto a bloccargli la strada, e per un attimo la figura alta e allampanata di Brodsky si scontrò con la mole bassa e tarchiata dell'altro. Per arrestare Brodsky, Parkhurst gli mise le palme delle mani contro il petto. Brodsky, invece, aveva posato una mano sulla spalla di Parkhurst e teneva gli occhi fissi sulla porta interna, come se si trovasse in mezzo alla folla e stesse educatamente sbirciando oltre la persona che gli stava davanti. Nel frattempo, strisciava i piedi sul pavimento con insistenza e borbottava: - La prego.
- D'accordo! - urlò Parkhurst alla fine. - D'accordo. Vado a parlarle. So già che cosa dirà, ma ci vado lo stesso. D'accordo!
I due si separarono. Poi Parkhurst sollevò un dito e disse:
- Ma lei aspetti qui! Badi a non muoversi!
Dopo avere lanciato un'ultima occhiata di fuoco a Brodsky, Parkhurst si girò e varcò la porta, richiudendola con decisione alle sue spalle.
Sulle prime Brodsky rimase a fissare la maniglia, tanto che pensai che volesse seguire Parkhurst, ma dopo un attimo lasciò perdere e venne a sedersi.
Per qualche minuto ebbi l'impressione che stesse provando mentalmente un discorso. Dalle labbra gli sfuggivano parole isolate, e mi parve inopportuno interromperlo. Di tanto in tanto esaminava i fiori che aveva in mano, come se da quel mazzo dipendesse tutto, e la minima pecca potesse provocare un disastro. Poi, dopo un bel po' che ce ne stavamo zitti, mi guardò e disse:
- Signor Ryder. Sono felice di fare finalmente la sua conoscenza.
- Il piacere è mio, signor Brodsky, - dissi. - Come sta?
- Oh... - Brodsky fece un gesto un po' vago con la mano. - Non posso dire di stare bene. Sa, ho un dolore.
- Davvero? Un dolore? - Poi, vedendo che non aggiungeva altro, gli domandai: - Intende dire un dolore spirituale?
- No, no. Una ferita. Sono passati molti anni, ma continua a darmi problemi. Forti dolori. Forse è per questo che bevevo tanto. Quando bevo, non la sento.
Aspettai altre spiegazioni, ma Brodsky ricadde nel suo mutismo. Dopo un po' dissi:
- Sta parlando di una ferita del cuore, signor Brodsky?
- Del cuore? Il mio cuore sta benissimo. No, no... - Improvvisamente Brodsky scoppiò a ridere. - Adesso capisco, signor Ryder. Crede che stia facendo il poetico. No, no, sto parlando di un taglio bell'e buono. Mi sono ferito molti anni fa, in Russia. I dottori non valevano gran che e hanno fatto un pessimo lavoro. Il dolore non mi è mai passato perché la ferita non si è rimarginata a dovere. Sono passati tanti anni, ma mi fa ancora male.
- Mi spiace. Deve essere una bella scocciatura.
- Scocciatura? - Brodsky ci pensò su, poi rise di nuovo. - Può dirlo forte, amico mio. Una bella scocciatura. Una scocciatura d'inferno -. Di punto in bianco parve ricordarsi dei fiori che aveva in mano. Li annusò e respirò a fondo. - Ma non parliamo di queste cose. Mi ha chiesto come sto e io gliel'ho detto, ma non avevo intenzione di tirare fuori questo argomento. Faccio del mio meglio per sopportarla, quella ferita. Per anni non ne ho parlato con nessuno, ma adesso che sono vecchio e non bevo più mi fa molto male. Non è assolutamente guarita.
- Ci sarà pur qualcosa da fare. $è andato da un dottore? Magari da uno specialista?
Brodsky guardò di nuovo i suoi fiori e sorrise. - Voglio fare di nuovo l'amore con la signorina Collins, - disse, quasi a se stesso. - Prima che la ferita peggiori. Voglio fare di nuovo l'amore con lei.
Vi fu un silenzio imbarazzato. Poi dissi:
- Se la ferita è così vecchia, signor Brodsky, mi sembra improbabile che possa peggiorare.
- Eh, le vecchie ferite -. Brodsky fece spallucce. - Restano uguali per anni. Ti illudi di conoscerle bene. Poi invecchi e loro ricominciano a crescere. Ma per il momento non sono ancora così mal ridotto. Forse posso ancora fare l'amore. So che sono vecchio, ma a volte... - Si sporse in avanti confidenzialmente. - Ho provato, sa. Per conto mio. Ce la faccio ancora. Riesco persino a dimenticare il dolore. Quando ero ubriaco, il mio uccello era come se non esistesse. Non ci pensavo più. Buono per fare la pipì, nient'altro. Ma adesso ce la faccio di nuovo, nonostante il male. Ho provato, l'altroieri notte. Non è detto che ci riesca sempre, sa, non sino in fondo. Il mio uccello è vecchio, e per troppi anni l'ho usato solo, sì, insomma, solo per fare la pipì. Ah! - Brodsky si appoggiò allo schienale della poltrona e guardò il sole che entrava dalla finestra alle mie spalle. Gli venne un'aria malinconica. - Ho proprio voglia di fare di nuovo l'amore con lei. Ma non vivremo qui. Non in questo posto. L'ho sempre odiato. Venivo spesso a passeggiare da queste parti, sì, lo confesso, venivo a notte fonda, quando nessuno poteva vedermi. La signorina Collins non l'ha mai saputo, ma io mi piazzavo spesso là fuori e tenevo d'occhio la casa. Odiavo questa strada, odiavo questo alloggio. No, non potremmo vivere qui. Sa, è la prima volta, la prima in assoluto che entro in questo luogo spaventoso. Ma perché ha scelto un posto così? Sono sicuro che non piace nemmeno a lei. Vivremo fuori città. E se non vuole tornare alla fattoria, poco male. Troveremo un'altra sistemazione, magari una casetta. Un posto circondato dall'erba e dagli alberi, dove il nostro animale possa vivere bene. Al nostro animale non piacerebbe stare qui -. Brodsky esaminò con cura le pareti e il soffitto, forse riconsiderando per un attimo i pregi dell'alloggio. Poi concluse: - No, il nostro animale non starebbe bene qui. Andremo a vivere dove ci siano erba, alberi, campi. Sa, fra un anno, forse sei mesi se il dolore peggiora, il mio uccello non ce la farà più, non potremo più fare l'amore, ma non m'importa. Purché possa farlo ancora una volta. No, una volta non basta, perché sa, dovremo tornare indietro, ritrovarci. Sei volte, ecco, sei volte saranno sufficienti per ricordare tutto, non voglio altro. E dopo, pace. Se qualcuno, che so, un dottore, o Dio, mi dicesse: puoi fare l'amore con lei ancora sei volte, poi basta, sarai troppo vecchio, la ferita ti farà troppo male, ancora sei volte poi chiuso l'argomento, lo userai solo per fare la pipì, be', non ci farei una malattia. Direi, d'accordo, a me sta bene. Purché possa di nuovo stringerla fra le mie braccia, sei volte saranno sufficienti; mi basta tornare come eravamo allora, poi me n'infischio, può succedere quello che vuole. Ci sarà il nostro animale. Non avremo bisogno di fare l'amore. Fare l'amore serve ai giovani, che non si conoscono bene, che non si sono mai odiati e riamati. Sa, mi funziona ancora. Ho fatto la prova per conto mio, l'altroieri notte. Non sono arrivato fino in fondo, ma mi è venuto duro.
Brodsky fece una pausa e annuì con espressione grave.
- Accipicchia, - dissi sorridendo. - Ma è magnifico.
Brodsky si appoggiò allo schienale della poltrona e guardò di nuovo fuori della finestra. Dopo un po' riprese a parlare. - $è stato diverso, non come quando si è giovani. Quando si è giovani si pensa alle puttane, sa, alle puttane che fanno le porcherie, o cose del genere. Ma adesso tutto ciò mi lascia indifferente; c'è una sola cosa che chiedo ancora al mio uccello, di fare l'amore con lei nella vecchia maniera, come prima di lasciarci, tutto lì. Se dopo vuole andare a riposo, mi sta bene, non gli chiedo altro. Ma voglio farlo di nuovo come un tempo, sei volte saranno sufficienti. Da giovani non eravamo grandi amanti. Non facevamo l'amore dappertutto come pare che facciano i giovani d'oggi. Però ci intendevamo bene. Sì, è vero, a volte, quando ero giovane mi stufavo di farlo sempre nello stesso modo. Ma lei era così, era... non voleva provare in nessun altro modo. Io mi arrabbiavo, e lei non capiva perché. Ma adesso voglio ritrovare le vecchie abitudini, passo dopo passo, esattamente come un tempo. L'altroieri notte, sa, mentre provavo, pensavo a puttane, puttane immaginarie, puttane fantastiche che facevano cose fantastiche, e non succedeva niente, niente di niente. E mi sono detto, be', è logico. Povero vecchio uccello, lo attende solo un'ultima missione, perché tormentarlo con tutte queste puttane? Cosa c'entrano ormai le puttane con il mio vecchio uccello? Se lo attende solo un'ultima missione, allora dovresti pensare a quella. E così ho fatto. Sdraiato al buio, ho ricordato, ricordato, ricordato. Come lo facevamo una volta, passo dopo passo. Ed è così che lo rifaremo. Certo, i nostri corpi sono invecchiati, ma ho già previsto tutto. Lo faremo esattamente come un tempo. E anche lei ricorderà, non può avere dimenticato, passo dopo passo dopo passo. Quando saremo al buio, sotto le coperte... sa, non siamo mai stati molto audaci. Colpa sua, era così pudica, insisteva per farlo così. Allora la cosa mi scocciava, avrei sempre voluto dirle: «Perché non puoi comportarti come una puttana? Farti vedere alla luce?» Ma adesso non mi importa più, voglio farlo esattamente come una volta, fingere di addormentarci, stare zitti dieci, quindici minuti. Poi all'improvviso, nell'oscurità, dirò qualcosa di audace e sconcio. «Voglio che ti vedano nuda, - dirò. - I marinai ubriachi di una taverna del porto, uomini sudici e ubriachi, voglio che ti vedano nuda sul pavimento». Sì, signor Ryder, le dicevo cose del genere all'improvviso, dopo avere finto per un po' di dormire; sì, è importante rompere il silenzio all'improvviso. Naturalmente, a quei tempi era giovane, bellissima; adesso è un po' strano pensare a una vecchia nuda sul pavimento di una taverna, ma lo dirò lo stesso, perché era così che cominciavamo. Lei non risponderà, e io continuerò. «Voglio che ti guardino tutti. Mentre te ne stai a quattro zampe sul pavimento». Se la immagina? Una fragile vecchietta che fa una cosa simile? Che cosa direbbero i nostri marinai ubriachi? Ma forse sono invecchiati anche loro, in quella taverna del porto; forse nella loro immaginazione continuerebbero a vederla come era un tempo e non ci farebbero caso. «Sì, ti guarderanno! Tutti!» Poi la toccherò, le sfiorerò appena l'anca; me lo ricordo bene, le piaceva che le toccassi i fianchi. La toccherò come facevo allora, poi mi avvicinerò e le sussurrerò: «Ti farò lavorare in un bordello. Giorno e notte». Se la immagina? Ma dirò così, perché è così che dicevo. Poi butterò via le coperte e mi curverò su di lei; le scosterò le cosce, che forse scricchioleranno. Sì, può darsi che la giuntura del femore crepiti un po', qualcuno mi ha detto che si è fatta male proprio all'anca. Magari adesso non riesce nemmeno a divaricare le gambe. Però faremo del nostro meglio, perché questo era il passo successivo. Poi mi chinerò a baciarle la passera. Probabilmente non avrà più l'odore di un tempo; no, ho già previsto tutto, e so che potrebbe puzzare di pesce vecchio. Forse avrà un cattivo odore anche il resto del suo corpo. D'altronde, mi guardi: non è che il mio stia meglio. Vede la pelle come desquama? Non so come mai. L'anno scorso, quand'è cominciato, mi ha preso solo il cuoio capelluto. Mi pettinavo e si staccavano delle grosse scaglie trasparenti, come squame di pesce. All'inizio mi ha preso solo il cuoio capelluto, ma adesso mi succede dappertutto, sui gomiti, sulle ginocchia, persino sul petto. Anche le mie squame puzzano di pesce. Be', continuerò a desquamare, non posso farci niente, e visto che lei dovrà sopportarmi così, io non mi lamenterò se la sua passera avrà cattivo odore, o se le sue cosce non si apriranno più come si deve e senza scricchiolare. Non mi arrabbierò, non cercherò di divaricargliele a forza come un giocattolo rotto, no, no. Faremo tutto come una volta. E al momento giusto lei afferrerà il mio vecchio uccello, che magari sarà duro solo a metà, e mi bisbiglierà: «Sì, li lascerò fare! Lascerò che tutti i marinai mi guardino! Li ecciterò sino a farli scoppiare!» Se la immagina? Ridotta com'è adesso? Ma noi non ci baderemo. E poi, come le dicevo, può darsi che anche i marinai siano invecchiati. Sì, afferrerà il mio vecchio uccello... allora sarebbe stato duro come la pietra, nulla al mondo avrebbe potuto farlo afflosciare, tranne... be', può darsi che questa volta si rizzi solo a metà, l'altra notte non sono riuscito a fare di meglio, ma chi può dire, forse sarà bello dritto, e cercheremo di metterlo dentro. Può darsi che lei sia sigillata come un guscio, ma noi proveremo lo stesso. E al momento giusto... lo riconosceremo anche se là sotto non succederà niente... sapremo come finire, perché ormai avremo riscoperto tutte le nostre abitudini, e niente potrà più fermarci, anche se là sotto non succederà niente, anche se non faremo altro che tenerci stretti l'uno all'altra, non importa, al momento giusto lo diremo. «Ti scoperanno! Ti scoperanno, li hai provocati troppo!» E lei risponderà: «Sì, che mi prendano, tutti i marinai, che mi prendano pure!» E anche se là sotto non succederà nulla, nessuno ci impedirà di tenerci stretti e di dire così, come facevamo una volta. Chi se n'infischia. Forse il dolore sarà troppo forte per il mio vecchio uccello, sa, per colpa della ferita, ma non importa, sono sicuro che lei saprà fare l'amore come un tempo. Sono passati tanti anni, ma si ricorderà ogni singolo passo. Signor Ryder, lei ce l'ha una ferita?
Brodsky si era improvvisamente girato verso di me.
- Una ferita?
- Io ho la mia vecchia ferita. Forse è per questo che bevo. Mi dà dei dolori tremendi.
- Mi dispiace -. Poi, dopo un breve silenzio, aggiunsi: - Una volta mi sono fatto male al dito di un piede giocando a pallone. Avevo diciannove anni. Ma non è stato nulla di grave.
- Già quando facevo il direttore d'orchestra in Polonia, signor Ryder, già allora ero convinto che la mia ferita non sarebbe mai guarita. Dirigevo l'orchestra e intanto mi toccavo la ferita, la accarezzavo. Certi giorni ne pizzicavo i margini, o li tenevo stretti tra le dita. Si capisce presto se una ferita è destinata a non rimarginarsi. La musica, persino quando facevo il direttore d'orchestra, non era che una consolazione, lo sapevo benissimo. Per un po' mi ha aiutato. In realtà la sensazione di premere la ferita tra le dita non mi dispiaceva; la trovavo affascinante. Sì, può succedere che una bella ferita sia affascinante. Ti sembra un po' diversa ogni giorno. $è cambiata? ti chiedi. Starà finalmente guarendo? La guardi allo specchio, ti sembra diversa. Poi però la tocchi e ti accorgi che è ancora la stessa, la tua vecchia amica di sempre. Fai così anno dopo anno, finché capisci che non guarirai mai, e alla fine ti stufi. Ti stufi davvero -. Brodsky tacque ed esaminò di nuovo il suo mazzo di fiori. Poi aggiunse: - Sì, ti stufi davvero. Lei non si è ancora stufato, signor Ryder? Secondo me ci si stufa proprio.
- Chissà, - risposi esitante, - forse la signorina Collins ha il potere di guarire la sua ferita.
- Lei? - Brodsky scoppiò a ridere, poi tacque di nuovo. Dopo un po' disse sottovoce: - Sarà come la musica. Una consolazione. Una magnifica consolazione. Ormai non chiedo altro. Un po' di consolazione. Ma guarire la ferita? - Scosse il capo. - Se gliela facessi vedere, amico mio, e se vuole posso fargliela vedere subito, capirebbe che la cosa è impossibile. Impossibile dal punto di vista medico. Ormai non voglio altro, non chiedo altro che un po' di consolazione. Anche se il mio uccello, come le ho detto, dovesse rizzarsi solo a metà, anche se per sei volte non faremo altro che un po' di ginnastica, per me sarà sufficiente. Dopo, la ferita può fare quello che vuole. A quel punto avremo il nostro animale, l'erba, i campi. Chissà perché si è scelta un posto come questo?
Brodsky si guardò di nuovo intorno scuotendo la testa. Questa volta tacque a lungo, forse addirittura due o tre minuti. Stavo per dire qualcosa, quando all'improvviso si sporse in avanti sulla poltrona.
- Io avevo un cane, signor Ryder. Si chiamava Bruno ed è morto. Non l'ho... non l'ho ancora sepolto. L'ho messo in una scatola, una specie di bara. Era un buon amico. Un semplice cane, ma un buon amico. Ho organizzato una piccola cerimonia di addio. Niente di speciale. Bruno appartiene al passato, ormai, ma che c'è di male in una piccola cerimonia per dirgli addio? Signor Ryder, volevo chiederle un piccolo favore. Per me e per Bruno.
La porta si aprì all'improvviso, e la signorina Collins entrò nella stanza. Poi, mentre Brodsky e io ci alzavamo in piedi, arrivò alle sue spalle anche Parkhurst, che richiuse la porta.
- Mi spiace moltissimo, signorina Collins, - disse Parkhurst, lanciando un'occhiata furiosa a Brodsky. - Non ha voluto saperne di rispettare la sua vita privata.
Brodsky rimase impalato in mezzo alla stanza. Quando la signorina Collins gli si avvicinò, le fece un inchino, in cui vidi l'ombra della notevole eleganza che doveva avere posseduto un tempo. Poi le porse il mazzo di fiori, dicendo: - Solo un pensierino. Li ho raccolti con le mie mani.
La signorina Collins prese i fiori, ma non li degnò di uno sguardo. - Avrei dovuto immaginarlo che saresti piombato a casa mia, - disse. - Solo perché ieri sono venuta allo zoo, adesso pensi di poterti prendere qualsiasi libertà.
Brodsky abbassò gli occhi. - Ma abbiamo così poco tempo, - disse. - Non possiamo permetterci di sprecarlo.
- Sprecare tempo per che cosa? $è ridicolo che piombi qui a questo modo. Dovresti saperlo che la mattina sono occupata.
- Per piacere -. Brodsky sollevò la palma della mano. - Per piacere. Siamo vecchi, ormai. Non c'è bisogno che litighiamo come una volta. Sono venuto solo a portare i fiori. E a farti una piccola proposta. Ecco tutto.
- Una proposta? Che razza di proposta?
- Semplicemente di trovarci questo pomeriggio al Cimitero di St' Peter. Mezz'ora, niente di più. Per discutere in santa pace di un paio di cosette.
- Non abbiamo niente da dirci. Evidentemente ho fatto male a venire ieri allo zoo. E poi hai detto al £cimitero? Perché mai proponi un posto simile per un appuntamento? Ti ha dato di volta il cervello? Un ristorante, un caffè, magari un giardino pubblico o un lago. Ma un cimitero!
- Mi spiace -. Brodsky sembrava sinceramente avvilito. - L'ho detto senza pensarci. Me n'ero dimenticato. Voglio dire, che il Cimitero di St' Peter è un cimitero.
- Non essere sciocco.
- $è che ci sono stato così tante volte. Bruno e io ci sentivamo sereni in quel posto. Anche nei momenti peggiori mi bastava andare lì per stare un po' meglio. $è un luogo così tranquillo, così bello. Ci piaceva molto. Per questo l'ho proposto. Davvero, me n'ero dimenticato, che c'è sepolta della gente.
- E che cosa pensi di fare una volta là? Sederti su una tomba e abbandonarti ai ricordi? Dovresti studiarle meglio le tue proposte.
- Ma a me e a Bruno quel posto piaceva. Ho pensato che sarebbe piaciuto anche a te.
- Oh, capisco. Adesso che il cane è morto, vuoi che prenda il suo posto.
- Non intendevo questo -. Brodsky abbandonò improvvisamente l'atteggiamento dimesso, e un lampo di impazienza gli attraversò il volto. - Non intendevo affatto questo, e lo sai. Sei sempre stata così. Io mi spremo le meningi per trovare qualcosa di bello da fare con te, poi arrivi tu e lo respingi sdegnosamente, ci ridi sopra, sostieni che le mie idee sono ridicole. Con chiunque altro le troveresti bellissime. Sei sempre stata così. Come la volta che avevo trovato due posti in prima fila al concerto di Kobyliansky...
- $è successo più di trent'anni fa. Come fai a parlare ancora di quelle cose?
- Ma è così da sempre, da sempre. Io mi spremo le meningi e trovo qualcosa di bello da fare con te, perché ti conosco bene e so che ti piacciono le cose un po' insolite. E tu ti limiti a riderci su. Forse perché nell'intimo le mie idee, come quella del cimitero, ti affascinano. Perché ti accorgi che ti leggo nel cuore, e allora fingi di...
- Quante assurdità. Non vedo proprio il motivo di parlare ancora di queste cose. Ormai è tardi. Non abbiamo più nulla da dirci. Al di là del fatto che mi affascini o no, non posso accettare l'appuntamento al cimitero perché non ho nulla da discutere con te...
- Volevo solo spiegarti perché è successo quello che sai, perché mi comportavo così...
- $è tardi per tornare indietro. Almeno vent'anni troppo tardi. E poi, non sopporto l'idea di ascoltare da capo tutte le tue giustificazioni. Sono sicura che ancora oggi non riuscirei a sentir pronunciare una scusa dalle tue labbra senza rabbrividire. Per troppi, troppi anni le tue scuse non sono state la fine ma l'inizio. L'inizio di un nuovo periodo di sofferenza e umiliazione. Oh, perché non mi lasci in pace? $è tardi, non lo capisci? E poi, da quando non bevi più hai cominciato a vestirti in maniera ridicola. Ma dove li hai presi questi vestiti?
Brodsky esitò, poi disse: - Mi hanno consigliato di vestirmi così. Le persone che mi stanno aiutando. Devo ritornare a essere un direttore d'orchestra. E bisogna che mi vesta in modo da dare questa impressione alla gente.
- Ieri allo zoo stavo per dirtelo. Quel cappotto grigio era assurdo. Chi ti ha detto di metterlo? Il signor Hoffman? Davvero, ti manca proprio il senso del ridicolo. Quella gente ti agghinda come un burattino, e tu li lasci fare. E guardati adesso! Con questo vestito. Pensi di avere l'aspetto di un artista, conciato così?
Brodsky diede un'occhiata ai propri indumenti, un po' offeso. Poi alzò lo sguardo e disse: - Sei vecchia. Non sai nulla della moda moderna.
- $è tipico dei vecchi criticare il modo di vestire dei giovani. Ma è ridicolo che sia £tu a vestirti così. Non lo capisci che è inutile, che non è nel tuo stile? Sinceramente, penso che la città preferirebbe vederti con i vestiti che indossavi qualche mese fa. Erano stracci, ma avevano una parvenza di eleganza.
- Non ridere di me. Non sono più quello di una volta. Presto potrei essere di nuovo un direttore d'orchestra. Adesso mi vesto così. Quando mi sono guardato allo specchio, mi sono detto che stavo bene. Ti dimentichi che a Varsavia avevo dei vestiti molto simili a questi. Anche il farfallino. Te ne sei dimenticata?
Per un attimo gli occhi della signorina Collins furono appannati da un velo di tristezza.
- Certo che me ne sono dimenticata. Perché dovrei ricordarmene? Da allora mi sono rimaste impresse nella memoria ben altre cose.
- Il tuo vestito, - disse Brodsky all'improvviso, - è molto bello. Molto elegante. Ma le scarpe non vanno, sono il solito disastro. Non hai mai voluto ammettere di avere le caviglie spesse. Magra come sei, hai sempre avuto le caviglie spesse. Guardati, ancora adesso -. E Brodsky indicò i piedi della signorina Collins.
- Non essere infantile. Pensi di essere ancora a Varsavia, quando riuscivi a farmi cambiare dalla testa ai piedi pochi minuti prima di uscire con un semplice commento di questo genere? Quando la smetterai di vivere nel passato? Credi che m'importi qualcosa della tua opinione sulle mie scarpe? E credi che non abbia capito che lo facevi apposta di aspettare fino all'ultimo istante per criticare il mio abbigliamento? E naturalmente io mi cambiavo, mi mettevo qualcosa in fretta e furia. Poi, quando eravamo in macchina, oppure al palazzo dei concerti, mi ricordavo all'improvviso che l'ombretto era del colore sbagliato per il vestito, o che la collana stonava terribilmente con le scarpe. Allora ci tenevo moltissimo a queste cose. Ero la moglie del direttore d'orchestra! Ci tenevo moltissimo e tu lo sapevi. Credi che non abbia capito il tuo trucchetto? Mi dicevi: «Bene, bene, sei bellissima» fino a pochi minuti prima di uscire. Poi tiravi fuori un commento come quello di poco fa. «Le tue scarpe sono un disastro!» Come se tu ne capissi qualcosa! E che cosa vuoi capire di moda adesso, dopo avere passato gli ultimi vent'anni in stato di ubriachezza?
- Ciò non toglie, - disse Brodsky, in tono leggermente imperioso, - ciò non toglie che io abbia ragione. Quelle scarpe ti rendono ridicola dalla cintola in giù. Ti dico che è così.
- Ma pensa al tuo vestito! Senza dubbio l'assurda creazione di qualche sarto italiano. Il genere di roba che potrebbe mettere un ballerino. E credi che possa farti acquistare credibilità agli occhi della gente?
- Che scarpe assurde. Sembri un soldatino di plastica, con la base larga per non cadere.
- $è ora che te ne vada! Come osi piombare qui a questo modo, disturbando la mia mattinata! La giovane coppia che è di là vive nell'angoscia; questa mattina ha più che mai bisogno dei miei consigli, e tu vieni a disturbarci. Questa è la nostra ultima conversazione. Ho fatto male ad accettare di vederti ieri allo zoo.
- Al cimitero -. La voce di Brodsky si era fatta improvvisamente disperata. - Devi assolutamente venire, questo pomeriggio. $è vero, non ho pensato che c'erano i morti, non ci ho proprio pensato. Ma ti ho spiegato perché. Dobbiamo parlarci prima... prima di questa sera. Altrimenti come faccio? Come faccio a salire sul podio? Non capisci l'importanza di questa sera? Dobbiamo parlarci, devi assolutamente venire...
- Mi ascolti bene -. Parkhurst fece un passo avanti e guardò Brodsky torvamente. - Non ha sentito la signorina Collins? Le ha chiesto di andarsene. Di sparire, di uscire dalla sua vita. La signorina è troppo educata, quindi glielo dico io al posto suo. Dopo tutto quello che ha combinato, signor Brodsky, lei non ha il diritto, non ha uno straccio di diritto, di fare simili richieste. Come si permette di pretendere un incontro, come se tutte quelle cose non fossero mai successe? Vuol forse farci credere che era così ubriaco da non ricordarsene più? Bene, allora le rinfrescherò la memoria. Non molto tempo fa lei è venuto qui davanti a urinare contro il muro della casa, urlando oscenità in direzione di questa precisa finestra. Alla fine è intervenuta la polizia, che l'ha trascinata via mentre urlava le cose più ignobili sul conto della signorina Collins. E questo risale a non più di un anno fa. Senza dubbio, si illude che la signorina Collins se ne sia dimenticata. Ma le posso assicurare che questo non è che uno di tanti episodi analoghi. E quanto alle sue affermazioni nel campo della moda, mi risulta che meno di tre anni fa lei sia stato trovato privo di sensi nel Volksgarten, con gli indumenti sporchi di vomito; e dopo averla portata nella Chiesa della Santa Trinità, si è scoperto che aveva anche i pidocchi. Pensa che alla signorina Collins possa importare qualcosa dell'opinione di una simile persona sul suo modo di vestire? Siamo sinceri, signor Brodsky, quando un uomo cade in un simile stato di abiezione, non può più redimersi. Lei non riconquisterà mai, £mai, l'amore di una donna, glielo posso dire quasi a colpo sicuro. Non riconquisterà mai nemmeno il suo rispetto. La sua compassione, forse, ma nient'altro. Direttore d'orchestra! Non si illuderà che questa città possa vedere in lei altro che un disgustoso mentecatto? Mi permetta di ricordarle, signor Brodsky, che quattro anni fa, forse cinque, lei ha aggredito la signorina Collins nei paraggi di Bahnhofplatz; e se non fosse stato per due studenti che passavano di lì, sicuramente l'avrebbe mandata all'ospedale. E mentre cercava di colpirla, le urlava le più ignobili...
- No, no, no! - gridò Brodsky all'improvviso, scuotendo la testa e tappandosi le orecchie.
- Le urlava le più ignobili oscenità. Sconcezze da pervertito. Si è anche parlato di sbatterla in prigione per questo incidente. Poi naturalmente c'è stato l'episodio della cabina telefonica di Tillgasse...
- No, no!
Brodsky afferrò Parkhurst per il bavero. L'ometto si ritrasse spaventato, ma Brodsky non spinse oltre la sua aggressione, limitandosi ad aggrapparsi alla sua giacca come a un'ancora di salvezza. Per qualche secondo Parkhurst lottò per liberarsi dalle dita di Brodsky. Quando finalmente ci riuscì, il vecchio musicista parve afflosciarsi. Chiuse gli occhi, sospirò, poi si girò e uscì dalla stanza senza dire una parola.
Restammo tutti e tre in silenzio, incerti su che cosa fare o dire. Poi il rumore della porta d'ingresso che veniva sbattuta da Brodsky ci riscosse; Parkhurst e io andammo alla finestra.
- Eccolo che se ne va, - disse Parkhurst, premendo la fronte contro il vetro. - Non si preoccupi, signorina Collins, non si farà rivedere.
La signorina Collins parve non udire. Si diresse verso la porta, poi tornò indietro.
- Vi prego di scusarmi, ma io devo... devo... - Si avvicinò con aria sognante alla finestra e guardò fuori. - Scusatemi, ma io devo... Spero che capirete...
Non si rivolgeva a nessuno dei due in particolare. Poi, come se la nebbia che le offuscava la mente si fosse dileguata, disse: - Signor Parkhurst, lei non aveva alcun diritto di parlare in quel modo a Leo. Da un anno a questa parte ha dimostrato un enorme coraggio -. E fulminando Parkhurst con gli occhi uscì di corsa dalla stanza. Un attimo dopo sentimmo di nuovo sbattere la porta.
Poiché ero rimasto accanto alla finestra, vidi la figuretta della signorina Collins avviarsi per la strada. La donna aveva scorto Brodsky un bel po' più avanti; dopo qualche secondo si mise a trotterellare, sperando forse di evitarsi l'umiliazione di doverlo chiamare. Ma Brodsky, con quella sua strana andatura sbilenca, teneva un passo sorprendentemente veloce. Si vedeva che era sconvolto, e non doveva essergli nemmeno passato per la testa che lei potesse corrergli dietro.
La signorina Collins lo inseguì ansimando oltre la fila di condomini, poi oltre i negozi in fondo alla strada, senza riuscire a ridurre in modo apprezzabile il distacco. Brodsky continuava a camminare di buon passo. Svoltò all'angolo dove mi ero separato da Gustav e passò davanti ai caffè italiani del grande viale. Il marciapiede era ancora più affollato di quando l'avevo percorso quella mattina in compagnia del facchino; Brodsky camminava a testa bassa, rischiando spesso di urtare le persone che si trovavano sulla sua strada.
Poi, quando Brodsky giunse all'attraversamento pedonale, la signorina Collins si accorse di non avere più alcuna possibilità di raggiungerlo. Fermandosi, accostò le mani alla bocca a mo' d'imbuto, poi parve presa da un ultimo dubbio; forse si chiese se chiamare «Leo» oppure «Signor Brodsky». Ma sicuramente l'istinto l'avvertì dell'estrema gravità della situazione, perché gridò: - Leo! Leo! Leo! Per piacere, aspettami!
Brodsky si girò con un'espressione stupefatta, e la signorina Collins si affrettò a raggiungerlo. Aveva ancora in mano il mazzo di fiori, e Brodsky, un po' confuso, tese le braccia come per offrirsi di portarglielo. Ma la signorina Collins si tenne i fiori e ripeté: - Per piacere, aspettami -. E la sua voce, nonostante il fiato corto, era di nuovo calmissima.
Rimasero un momento l'uno accanto all'altra, imbarazzati, poi si accorsero di colpo di essere in mezzo alla strada; i passanti cominciavano a guardare dalla loro parte, nascondendo a stento la curiosità. Allora la signorina Collins accennò con la mano in direzione di casa sua, dicendo sottovoce: - Il Giardino Sternberg è bellissimo in questa stagione. Perché non andiamo lì a parlare?
S'incamminarono, attirando gli sguardi di un numero sempre maggiore di persone, la signorina Collins un paio di passi davanti a Brodsky, entrambi grati di avere un buon motivo per rimandare la conversazione a quando fossero giunti alla meta. Svoltarono nella strada della signorina Collins, e poco dopo passarono di nuovo sotto i condomini. Poi, a un paio di isolati da casa sua, la signorina Collins si fermò davanti a un cancelletto di ferro poco appariscente, un po' arretrato rispetto al marciapiede.
Mise una mano sul chiavistello, ma prima di aprirlo si fermò un attimo. Mi resi conto allora che per la signorina Collins quella banale passeggiata, il semplice fatto di trovarsi accanto a Brodsky davanti all'ingresso del Giardino Sternberg, erano molto più importanti di quanto lui potesse sospettare in quel momento. Perché la verità era che, nella sua fantasia, la signorina Collins aveva compiuto con lui quel breve tragitto - dal trambusto del viale fino al cancelletto di ferro - innumerevoli volte nel corso degli anni, sin da quel pomeriggio di mezza estate in cui si erano incontrati per caso nel viale davanti alla gioielleria. E in tutti quegli anni la signorina Collins non aveva mai dimenticato lo sguardo di studiata indifferenza con cui Brodsky quel giorno si era girato dall'altra, fingendo di esaminare qualcosa nella vetrina del negozio.
In quel periodo - un anno buono prima che cominciassero l'ubriachezza e gli insulti - queste ostentazioni di indifferenza erano ancora la nota dominante di ogni contatto fra loro. E sebbene la signorina Collins avesse già deciso più volte di tentare qualche forma di riconciliazione, quel pomeriggio anche lei aveva guardato dall'altra e tirato dritto per la sua strada. Solo dopo un po', oltre i caffè italiani, aveva ceduto alla curiosità e si era voltata, scoprendo così che Brodsky l'aveva seguita. Stava di nuovo sbirciando nella vetrina di un negozio, ma era lì, a pochi metri da lei.
La signorina Collins aveva rallentato il passo, pensando che prima o poi lui l'avrebbe raggiunta. Ma all'angolo della sua strada, visto che Brodsky non compariva, si era voltata di nuovo. Anche quel giorno, come oggi, l'ampio marciapiede soleggiato brulicava di passanti, ma la signorina Collins aveva avuto la soddisfazione di scorgere Brodsky che si bloccava a metà di un passo e si girava dall'altra fingendo di guardare un banchetto di fiori. Un'immagine nitidissima. Si era lasciata sfuggire un sorrisetto, e mentre svoltava nella sua strada si era accorta con piacere, e un po' di stupore, di essere allegra. Aveva rallentato ancora, cominciando anche lei a guardare le vetrine. Si era fermata davanti alla pasticceria francese, al negozio di giocattoli, a quello di stoffe - allora la libreria non c'era ancora. E intanto si era studiata mentalmente le parole con cui accogliere Brodsky quando l'avesse raggiunta. «Leo, ci stiamo comportando come due bambini», aveva pensato di dire. Ma la frase le era sembrata troppo assennata, e aveva cercato qualcosa di più ironico: «A quanto pare facciamo la stessa strada», o una battuta del genere. Poco dopo Brodsky era comparso all'angolo, e la signorina Collins gli aveva visto in mano un vivace mazzo di fiori. Girandosi di scatto, aveva ripreso a camminare a passo quasi normale. Poi, quando ormai era nelle vicinanze di casa, aveva provato - per la prima volta quel giorno - un senso di fastidio. Si era già programmata tutto il pomeriggio. Perché Brodsky aveva scelto proprio quel momento per cercare di parlarle? Arrivata davanti al portone, si era voltata furtivamente a guardare, scoprendo che Brodsky era ancora ad almeno venti metri.
Allora aveva richiuso la porta alle sue spalle e, resistendo alla tentazione di guardare dalla finestra, era corsa in camera sua, sul retro dell'edificio. Lì si era guardata allo specchio e aveva cercato di calmarsi. Poi, uscendo dalla camera da letto, si era fermata con un tuffo al cuore. La porta in fondo al corridoio era spalancata, e attraverso il bovindo del salottino pieno di sole che dava sulla strada si vedeva il marciapiede. E lì, con la schiena alla casa, c'era Brodsky, che indugiava come se avesse dato appuntamento a qualcuno in quel posto. Per un attimo la signorina Collins era rimasta immobile, per il timore che lui si girasse e la vedesse attraverso i vetri. Poi Brodsky si era spostato, uscendo dal suo campo visivo, e la signorina Collins si era ritrovata a fissare la facciata della casa di fronte, con le orecchie tese per sentire il campanello.
Ma dopo un minuto Brodsky non aveva ancora suonato, e la signorina Collins aveva provato un altro impeto di rabbia nei suoi confronti. Evidentemente, si era detta, stava aspettando che lei lo invitasse a entrare. Allora si era nuovamente sforzata di calmarsi e, dopo avere analizzato attentamente la situazione, aveva deciso di non fare nulla finché lui non avesse suonato il campanello.
Aveva aspettato per parecchi minuti. A un certo punto era persino rientrata in camera da letto senza una precisa ragione, per poi tornare subito in corridoio. Alla fine, colta dal dubbio che Brodsky se ne fosse andato, era uscita nell'atrio.
Con suo gran stupore, aprendo la porta e guardando a destra e a sinistra, non aveva più trovato traccia di lui. Si era aspettata di vederlo in agguato qualche porta più in là, o almeno di trovare i fiori sui gradini. Ma in quel momento non aveva provato il minimo rammarico. Un briciolo di sollievo, questo sì, e un po' di eccitazione, nient'affatto sgradevole, all'idea che il processo di riconciliazione fosse finalmente avviato, ma non rammarico. Anzi, tornata nel suo salottino, aveva assaporato un attimo di trionfo per aver saputo resistere. Queste piccole vittorie, si era detta, erano importantissime, e li avrebbero aiutati a evitare di ripetere gli errori del passato.
Solo parecchi mesi più tardi le era venuto il dubbio di avere compiuto, quel giorno, un errore. Sulle prime non aveva dato molto peso a questa impressione e non l'aveva neppure analizzata a fondo. Ma con il passare dei mesi quel pomeriggio d'estate aveva finito con il dominare i suoi pensieri. Il suo grande sbaglio, aveva concluso la signorina Collins, era stato entrare in casa. Così facendo, aveva chiesto a Brodsky un po' troppo. Dopo averlo guidato per tutto quel tragitto, dopo avergli fatto girare l'angolo e oltrepassare i negozi, avrebbe dovuto fermarsi davanti al cancelletto di ferro, assicurarsi che lui la vedesse, ed entrare nel Giardino Sternberg. Lì, senza dubbio, Brodsky l'avrebbe seguita. E anche se avessero vagato per un po' tra gli arbusti in silenzio, prima o poi si sarebbero messi a parlare. E prima o poi lui le avrebbe dato i fiori. Da quel giorno erano passati più di vent'anni, e da allora, quando le capitava di posare lo sguardo su quel cancello di ferro, la signorina Collins provava quasi sempre una piccola fitta al cuore. Questo spiega come mai, quella mattina, mentre finalmente entrava con Brodsky nel giardino, vi fosse nel suo contegno una punta di cerimoniosità.
Sebbene avesse finito con l'occupare un posto preminente nelle fantasie della signorina Collins, il Giardino Sternberg non era un luogo particolarmente piacevole. Quel quadrato di cemento, non più grande del posteggio di un supermercato, sembrava rispondere più agli interessi dei floricultori che alle esigenze di bellezza o comodità della gente del quartiere. Non c'erano alberi, non c'era erba, solo file di aiuole fiorite; a quell'ora del giorno il giardino era uno spiazzo assolato senza traccia d'ombra. Ma la signorina Collins, rimirando i fiori e le felci, batté le mani felice. Brodsky, dopo avere richiuso con cura il cancelletto, si guardò intorno senza entusiasmo. Tuttavia, quando vide che l'intimità, se si escludevano le finestre dei condomini circostanti, era assoluta, parve soddisfatto.
- A volte, le persone che vengono a parlarmi le porto qui, - disse la signorina Collins. - $è un posto così affascinante. Vedrai esemplari che non si trovano da nessun'altra parte in Europa.
Continuava a passeggiare lentamente, guardandosi intorno piena di ammirazione, mentre Brodsky la seguiva rispettosamente a qualche passo di distanza. L'imbarazzo che avevano dimostrato l'uno in presenza dell'altra pochi minuti prima era completamente svanito, tanto che se qualcuno li avesse scorti dal cancello avrebbe potuto facilmente scambiarli per una vecchia coppia con un lungo matrimonio alle spalle che faceva la sua abituale passeggiatina al sole.
- Ma tu, naturalmente, - disse la signorina Collins, fermandosi accanto a un arbusto, - non hai mai amato i giardini come questo, vero? Tu disprezzi tutti i tentativi di imbrigliare la natura. Preferisci i luoghi selvaggi. Ma vedi, alcune di queste specie possono resistere solo se sono ben curate e piantate al momento giusto.
Brodsky osservò solennemente la foglia che la signorina Collins stava toccando. Poi disse: - Ti ricordi? La domenica mattina, dopo aver preso il caffè insieme al Praga, andavamo in quella libreria. Ovunque ci girassimo c'erano solo mucchi di vecchi libri polverosi. Ti ricordi? Tu ti spazientivi subito. Ma ci andavamo lo stesso, ogni domenica, dopo il caffè al Praga.
La signorina Collins tacque per qualche secondo. Poi rise sommessamente e riprese a camminare piano piano. - L'uomo girino, - disse.
Brodsky sorrise. - L'uomo girino, - ripeté, annuendo. - Proprio così. Chissà, forse se tornassimo adesso lo troveremmo ancora lì, dietro il suo tavolo. L'uomo girino. Gli abbiamo mai chiesto il suo vero nome? Era sempre gentilissimo. Anche se non compravamo mai i suoi libri.
- Tranne quella mattina che si è messo a inveire contro di noi.
- A inveire contro di noi? Non me ne ricordo. L'uomo girino era sempre gentilissimo. E dire che non gli abbiamo mai comprato un libro.
- Ma sì. Una volta siamo entrati che stava piovendo e abbiamo fatto molta attenzione a non gocciolare sui suoi libri. Abbiamo persino scosso i soprabiti sulla porta, ma lui quella mattina era di cattivo umore e si è messo a inveire contro di noi. Non ti ricordi? Ce l'aveva con il fatto che ero inglese. Oh, sì, è stato davvero maleducato, ma solo quella mattina. La domenica dopo sembrava avere dimenticato tutto.
- Strano, - disse Brodsky. - Non ricordo. L'uomo girino. Era sempre così timido ed educato. Non ricordo proprio l'episodio di cui parli.
- Forse sono io che ricordo male, - disse la signorina Collins. - Forse mi confondo con qualcun altro.
- Lo penso anch'io. L'uomo girino era sempre così rispettoso. Non avrebbe mai fatto una cosa simile. Perché eri inglese? - Brodsky scosse il capo. - No, era sempre così rispettoso.
La signorina Collins si fermò di nuovo, in assorta contemplazione di una felce.
- Allora ce n'erano tanti fatti così, - disse dopo un momento. - Sembravano educati, pazienti. Si facevano in quattro per aiutarti, erano pronti a sacrificare qualsiasi cosa, finché un giorno, senza alcun motivo, che so, magari per colpa del tempo, esplodevano. Poi tornavano di nuovo normali. Ce n'erano tanti. Per esempio Andrzej. Anche lui era fatto così.
- Andrzej era matto. Sai, ho letto da qualche parte che è rimasto ucciso in un incidente d'auto. Sì, l'ho letto su un giornale polacco, cinque o sei anni fa. Ucciso in un incidente d'auto.
- Che tristezza. Chissà quante delle persone che conoscevamo allora se ne sono già andate.
- Andrzej mi era simpatico, - disse Brodsky. - L'ho letto su un giornale polacco. C'era solo un accenno. Dicevano che era rimasto ucciso. In un incidente d'auto. La cosa mi ha rattristato. Ho ripensato a quelle sere nel vecchio alloggio, quando ci avviluppavamo nelle coperte e spartivamo il caffè, circondati da libri e giornali, chiacchierando di musica e di letteratura per ore e ore, fissando il soffitto. Non la smettevamo più.
- Io non vedevo l'ora di andare a letto, ma Andrzej non voleva mai tornarsene a casa. A volte restava fino all'alba.
- Già. Se si trovava a mal partito in una discussione, non se ne andava più. Si alzava solo se aveva l'impressione di averla spuntata. Per questo a volte restava fino all'alba.
La signorina Collins sorrise, poi sospirò. - Che tristezza che sia morto, - disse.
- Non era l'uomo girino, - disse Brodsky. - Ma quello della galleria d'arte. $è lui che si è messo a urlare. Un tipo strano. Ha sempre finto di non sapere chi fossimo. Ti ricordi? Persino dopo quell'esecuzione di £Lafcadio. I camerieri, i tassisti, tutti volevano stringermi la mano, ma quando siamo entrati nella sua galleria, niente. Ci ha guardati come sempre, con quella sua faccia di pietra. Poi verso la fine, quando le cose cominciavano a mettersi male, siamo entrati un giorno che pioveva, e lui ha inveito contro di noi. Gli bagnavamo il pavimento, diceva. E non era la prima volta, erano anni che quando pioveva gli bagnavamo il pavimento, anni, e lui ne aveva abbastanza. Sì, è l'uomo della galleria che si è messo a urlare, che se l'è presa perché eri inglese, lui, non il girino. Il girino è sempre stato rispettoso, fino all'ultimo. Il girino mi ha stretto la mano, me lo ricordo benissimo, poco prima che partissimo. Ti ricordi? Siamo andati nella sua libreria, e lui sapeva che quella sarebbe stata l'ultima volta; ha fatto il giro del tavolo e mi è venuto a dare la mano. Quasi tutti ormai evitavano di stringermi la mano, ma lui l'ha fatto. Era rispettoso, il girino, lo è sempre stato.
La signorina Collins si riparò gli occhi e guardò in direzione dell'angolo opposto del giardino. Poi riprese lentamente a camminare, dicendo: - $è bello rammentare alcune di queste cose. Ma non possiamo vivere nel passato.
- Ma ti ricordi, vero? - domandò Brodsky. - Ti ricordi del girino, della sua libreria. E di quel guardaroba? Della porta che si è staccata? Sono sicuro che ti ricordi di tutto, come me.
- Certe cose le ricordo. Altre, inevitabilmente, le ho dimenticate -. Il tono della signorina Collins si era fatto guardingo. - D'altronde, anche di quel periodo ci sono cose che è meglio dimenticare.
Brodsky parve riflettere su questa affermazione. Poi disse: - Forse hai ragione. Nel passato c'è di tutto. Io me ne vergogno, lo sai che me ne vergogno, quindi lasciamo perdere. Lasciamo perdere il passato. Scegliamo invece un animale.
La signorina Collins continuò a camminare, precedendo Brodsky di parecchi passi. Poi si fermò di nuovo e si girò verso di lui. - Verrò questo pomeriggio al cimitero, se è questo che desideri. Ma non devi attribuire alcun significato a questo mio gesto. Non vuol dire che sono d'accordo sull'animale o su altro. Semplicemente, capisco che tu possa essere preoccupato per questa sera e voglia sfogare le tue ansie con qualcuno.
- In questi ultimi mesi vedevo dappertutto insetti che strisciavano, ma non ho mollato, ho tenuto duro, mi sono preparato. Ma sarà tutto inutile se tu non torni.
- Ho solo accettato di vederti un momento questo pomeriggio. Magari una mezz'oretta.
- Ma ci penserai, vero? All'animale e a tutto il resto. Promettimi che ci penserai prima che ci vediamo.
La signorina Collins si girò e per un lungo momento studiò un altro arbusto. Alla fine disse: - Va bene, ci penserò.
- Tu lo sai che cosa ho passato. Come è stata dura. A volte stavo così male che avrei voluto morire, solo per mettere fine a questa tortura; ma non ho mollato, perché questa volta vedevo una possibilità. Di nuovo direttore d'orchestra. E tu saresti tornata. Vedrai, sarà tutto come prima, forse meglio. A volte era terribile, con tutti quegli insetti striscianti. Non posso fare altro per dare prova di me. Non abbiamo mai avuto figli. Prendiamo un animale.
La signorina Collins ricominciò a camminare, e questa volta Brodsky rimase al suo fianco, fissandola gravemente in volto. La donna parve sul punto di dire qualcosa, ma proprio in quel momento Parkhurst si mise improvvisamente a parlare alle mie spalle.
- Sai, io non partecipo. Mi riferisco a quando cominciano a sbeffeggiarti a quel modo. Non rido nemmeno, neppure un sorriso. Non partecipo e basta. Probabilmente penserai che le mie sono solo parole, ma ti assicuro che è vero. Quel loro modo di fare mi ripugna. E quando cominciano con quei versacci! Appena sono entrato, si sono messi a ragliare! Non mi hanno dato neppure un minuto, nemmeno sessanta secondi per fargli vedere che ero cambiato. «Parkers! Parkers!» Ah, che schifo...
- Senti, - dissi, perdendo improvvisamente la pazienza, - se ti danno tanto fastidio, perché non glielo dici apertamente? Perché la prossima volta non li prendi di petto? Di' che la piantino di ragliare. E chiedi per quale strana ragione mi odino tanto. E perché mai si sentano così oltraggiati dal mio successo. Sì, chiediglielo un po'! Anzi, per fare più colpo, perché non glielo chiedi mentre fai il pagliaccio? Sì, nel bel mezzo di una delle tue storielle, mentre fai le vocine buffe e le smorfie. Aspetta che ridano, che ti battano sulla schiena felici che tu non sia cambiato neanche un po', poi chiedi all'improvviso: «Ma perché? Perché il successo di Ryder vi brucia tanto?» Ecco come devi fare. Non mi renderesti solo un servizio; sarebbe un modo elegante per dimostrare a quegli idioti che dietro le tue pagliacciate c'è, e c'è sempre stata, una persona molto più profonda. Una persona che non si lascia manipolare facilmente e non scende a compromessi. Io ti consiglio di fare così.
- Ma bravo! - gridò Parkhurst furente. - Per te è facile dirlo! Non hai niente da perdere, visto che intanto ti odiano! Ma quelli sono i miei amici di gioventù. Quando sono qui, in mezzo a tutti questi continentali, le cose non vanno troppo male. Ma di tanto in tanto succede qualcosa, qualcosa di sgradevole, e allora mi dico: «Ma che te ne importa? Questi sono stranieri. A casa sei pieno di amici. Non hai che da tornare, sono tutti là che ti aspettano». Per te è facile dare di questi bei consigli. Anche se probabilmente, ora che ci penso, non conviene neanche a te. Non capisco perché sei così compiaciuto. Nemmeno tu puoi permetterti di dimenticare i vecchi amici. Sai, alcune delle cose che dicono di te sono vere. Sei maledettamente compiaciuto, e un giorno la sconterai. Solo perché sei diventato celebre! Oh sì, hanno ragione. «Perché non li prendi di petto?» Che arroganza!
Parkhurst continuò su questo tono ancora per un po', ma io smisi di ascoltarlo. Infatti, l'accenno al mio «compiacimento» era andato a smuovere qualcosa, facendomi improvvisamente ricordare che i miei genitori stavano per arrivare in città. E lì, nel salottino della signorina Collins, mi piombò addosso - gettandomi tra le gelide dita del panico - la consapevolezza di non avere nemmeno cominciato a preparare il pezzo che avrei dovuto suonare davanti a loro quella sera. Anzi, erano parecchi giorni, forse addirittura settimane, che non toccavo più un pianoforte. Ed eccomi lì, a poche ore da uno dei concerti più importanti della mia vita, senza avere nemmeno fissato le prove. Più ci pensavo, più la situazione mi sembrava allarmante. Mi ero lasciato distrarre in maniera esagerata dal discorso che avrei dovuto tenere quella sera, e inspiegabilmente avevo trascurato il concerto, di gran lunga più importante. In quel momento non riuscivo nemmeno a ricordare che cosa avessi deciso di suonare. vStrutture globulari: numero Iiv di Yamanaka? Oppure vAmianto e fibrav di Mullery? Quando provai a ripassarli mentalmente, mi accorsi di avere un ricordo assai nebuloso di entrambi i pezzi. La cosa era inquietante. Sapevo che sia Yamanaka sia Mullery presentano parti di grande complessità, ma quando cercai di concentrarmi su quei punti, scoprii di non ricordare quasi nulla. E nel frattempo, per quel che ne sapevo, i miei genitori erano già in città. Capii che non c'era un minuto da perdere. Al diavolo tutti gli altri impegni; per prima cosa dovevo assicurarmi almeno due ore di tranquillità e isolamento con un buon pianoforte.
Parkhurst stava ancora parlando tutto infervorato.
- Senti, mi spiace, - dissi, dirigendomi verso la porta, - ma devo andare via immediatamente.
Parkhurst scattò in piedi, e la sua voce assunse di colpo un tono di supplica.
- Io non partecipo, lo sai. Oh no, non partecipo mai -. Mi venne dietro come se volesse afferrarmi per un braccio. - Non sorrido nemmeno. Quel loro modo di sbeffeggiarti è disgustoso...
- Va bene, va bene, ti ringrazio, - dissi, allontanandomi da lui. - Ma adesso devo proprio andare.
Uscito dalla casa della signorina Collins, mi incamminai per la strada a passo veloce, incapace di pensare ad altro se non all'assoluta necessità di tornare in albergo e al pianoforte del soggiorno. Ero così assorto nei miei pensieri che non solo ignorai il cancelletto di ferro quando gli passai davanti, ma non vidi neppure Brodsky fermo sul marciapiede fin quando non gli fui praticamente addosso. Brodsky fece un inchino e mi salutò in modo pacato, come se fosse lì da un pezzo e mi avesse visto avvicinare.
- Signor Ryder. Ci si rivede.
- Ah, signor Brodsky, - risposi, senza fermarmi. - La prego di scusarmi, ma ho una fretta terribile.
Brodsky mi venne dietro, e per un tratto camminammo l'uno accanto all'altro in silenzio. La cosa mi parve un po' strana, ma ero così preoccupato che non provai nemmeno a conversare.
All'angolo svoltammo insieme nell'ampio viale. Il marciapiede era più affollato che mai - gli impiegati stavano uscendo per l'intervallo del pranzo - e fummo costretti a rallentare. Fu allora che Brodsky, sempre al mio fianco, disse:
- Quante chiacchiere l'altra sera. Prima una grande cerimonia, poi una statua. No, no, alla larga. Bruno la odiava quella gente. Lo seppellirò da solo, senza fanfare. Che cosa c'è di male? Questa mattina ho trovato un posto adatto, un posticino per seppellirlo, solo io, Bruno non avrebbe voluto nessun altro, odiava tutti. Ma vorrei della musica, signor Ryder, della musica sublime. $è un posticino tranquillo, l'ho trovato questa mattina, sono sicuro che a Bruno piacerebbe. Scaverò io. Non occorrerà scavare molto profondo. Poi mi siederò accanto alla tomba e penserò a lui, a tutte le cose che abbiamo fatto insieme, gli dirò addio, nient'altro. Ma mentre penso a lui vorrei della musica, della musica sublime. Lo farebbe per me, signor Ryder? Per me e per Bruno? Glielo chiedo come un favore, signor Ryder.
- Signor Brodsky, - dissi, accelerando di nuovo il passo, - non mi è ben chiaro che cosa voglia da me. Ma sappia che non sono in condizione di prendere nessun impegno.
- Signor Ryder...
- Signor Brodsky, mi spiace molto per il suo cane. Ma purtroppo sono stato costretto a soddisfare troppe richieste, con il risultato che adesso mi resta pochissimo tempo per le cose più importanti, quelle per cui sono qui... - All'improvviso persi la pazienza e mi fermai di botto. - Sinceramente, signor Brodsky, - dissi, quasi urlando, - devo pregare lei e tutti gli altri di piantarla di chiedermi favori. $è venuto il momento di piantarla! Dovete piantarla!
Per un attimo Brodsky mi guardò con aria un po' stupita. Poi abbassò gli occhi avvilito. Mi pentii subito del mio sfogo, anche perché mi accorsi che non aveva senso incolpare Brodsky delle numerose distrazioni che mi avevano tenuto occupato da quando ero arrivato in città. Sospirai e, in tono più gentile, dissi:
- Senta, facciamo così. In questo momento sto tornando in albergo per provare il mio pezzo. Avrò bisogno di almeno due ore senza che nessuno mi disturbi. Ma dopo, secondo come vanno le cose, può darsi che sia in grado di approfondire con lei il discorso sul suo cane. Sia chiaro che non posso prometterle niente, ma... - Era solo un cane, - disse Brodsky di punto in bianco. - Ma voglio dirgli addio. E vorrei della musica sublime.
- Certo, signor Brodsky, ma adesso devo scappare. Ho davvero pochissimo tempo.
Ripresi a camminare. Ero convinto che Brodsky si sarebbe incollato al mio fianco come prima, invece non si mosse. Ebbi un attimo di esitazione, mi spiaceva un po' abbandonarlo lì sul marciapiede, ma subito mi ricordai che non potevo più concedermi la minima distrazione. Oltrepassai velocemente i caffè italiani e mi guardai indietro solo quando giunsi al passaggio pedonale e dovetti aspettare il verde. Per un momento la calca dei passanti rimase impenetrabile, poi scorsi la sagoma di Brodsky esattamente dove lo avevo lasciato. Era leggermente chino in avanti e fissava il traffico che arrivava dalla sua parte. Mi venne il dubbio che il posto dove mi ero arrestato poco prima fosse in realtà una fermata, e che Brodsky fosse rimasto lì per il semplice motivo che doveva prendere il tram. Poi il semaforo divenne verde, e mentre attraversavo il viale i miei pensieri tornarono alla questione assai più urgente del mio concerto di quella sera.
23.
Arrivando in albergo, ebbi l'impressione che l'atrio fosse molto affollato, ma ormai ero così ansioso di provare il mio pezzo che non mi guardai nemmeno intorno. Anzi, probabilmente, mentre mi appoggiavo al banco della reception per parlare al portiere, scavalcai addirittura qualche altro cliente.
- Mi scusi, c'è qualcuno nel soggiorno, in questo momento?
- Nel soggiorno? Be', sì, signor Ryder. I clienti ci vanno volentieri dopo pranzo, quindi penso...
- Devo parlare immediatamente con il signor Hoffman. Si tratta di una questione della massima urgenza.
- Certamente, signor Ryder.
Il portiere prese un telefono e scambiò qualche parola. Poi, riattaccando, mi disse: - Il signor Hoffman sarà qui fra un istante, signor Ryder.
- Bene. Ma si tratta di una questione della massima urgenza.
In quel momento mi sentii toccare una spalla e, girandomi, vidi Sophie accanto a me.
- Oh, ciao, - le dissi. - Che cosa ci fai qui?
- Volevo solo consegnare una cosa. Sai, per papà -. Sophie ridacchiò imbarazzata. - Ma è occupato, l'hanno mandato al palazzo dei concerti.
- Ah, il cappotto, - dissi, notando il pacco ripiegato sul suo braccio.
- Sta venendo freddo, così ho pensato di portarglielo, ma l'hanno mandato al palazzo dei concerti e non è ancora tornato. Lo stiamo aspettando da quasi mezz'ora. Se non arriva nei prossimi minuti, per oggi dovremo rinunciare.
Notai Boris su un divano dall'altra parte dell'atrio. Era quasi nascosto dietro un gruppo di turisti piantati in mezzo alla sala, ma vidi che era tutto preso dalla lettura del logoro manuale che gli avevo comprato al cinema. Sophie seguì il mio sguardo e rise di nuovo.
- Non lo ha mollato un istante, - disse. - Ieri sera, quando sei uscito, ha continuato a sfogliarlo fino all'ora di andare a letto. E questa mattina ha ricominciato appena sveglio -. Poi rise ancora e guardò di nuovo il figlio. - Hai avuto proprio una bella idea, quando gliel'hai comprato.
- Sono contento che gli piaccia, - dissi, girandomi di nuovo verso il banco della reception. Alzai una mano per chiedere al portiere che cosa ne fosse di Hoffman, ma proprio in quel momento Sophie mi si avvicinò di un passo e disse in tono molto diverso:
- Per quanto tempo hai intenzione di andare avanti così? Non vedi che Boris ci soffre?
La guardai stupefatto, ma Sophie continuò a fissarmi con durezza.
- So che stai attraversando un momento difficile, - proseguì. - E mi rendo conto di non esserti molto di aiuto. Ma Boris ci soffre ed è preoccupato. Per quanto tempo andrà ancora avanti questa storia?
- Temo di non capire a che cosa ti riferisci.
- Senti, ho già ammesso che in parte è anche colpa mia. Che senso ha negare la realtà?
- Negare che cosa? Immagino che sia un consiglio di Kim, vero? Quello di piombare qui con tutte queste accuse.
- $è vero, Kim dice sempre che dovrei essere più schietta con te. Ma questa volta lei non c'entra. Ho affrontato l'argomento perché... perché non sopporto di vedere Boris così in pena.
Un po' scombussolato, mi girai di nuovo verso il portiere. Ma prima che riuscissi ad attirare la sua attenzione, Sophie disse:
- Senti, non ti sto accusando di niente. Anzi, riconosco che sei stato molto comprensivo. Non avrei potuto chiederti di essere più ragionevole. Non hai neppure urlato una volta. Ma ho sempre saputo che mi serbavi rancore, e adesso lo fai venire fuori così.
Scoppiai a ridere. - Immagino che questi siano i discorsi di psicologia spicciola che fai con Kim, vero?
- L'ho sempre saputo, - continuò Sophie, ignorando il mio commento. - Sei stato molto comprensivo, più di quanto ci si potesse aspettare, persino Kim lo ha ammesso. Ma il tuo comportamento non era realistico. Non potevamo continuare così, come se non fosse successo nulla. Tu sei pieno di rancore. Chi potrebbe darti torto? E io ho sempre saputo che prima o poi il rancore sarebbe venuto fuori. Ma non avrei mai pensato in questo modo. Povero Boris. Non riesce a capire che cosa ha fatto.
Guardai di nuovo in direzione del divano su cui era seduto il bambino. Boris sembrava ancora immerso nella lettura del suo manuale.
- Senti, - dissi, - non ho ancora capito bene di che cosa stai parlando. Forse ti riferisci al fatto che Boris e io, negli ultimi tempi, abbiamo modificato un po' il nostro comportamento reciproco. Ma la cosa mi sembra solo opportuna, viste le circostanze. Se sono un po' più freddo con lui, è solo perché non voglio illuderlo sulle reali possibilità di vivere insieme d'ora in avanti. Dobbiamo essere estremamente cauti. Dopo quello che è successo, chi può sapere che cosa ci riserverà il futuro? Boris deve imparare a essere più elastico, più indipendente. E sono sicuro che a modo suo lo capisce anche lui.
Sophie abbassò gli occhi e per un momento parve riflettere. Poi, quando stavo per provare di nuovo ad attirare l'attenzione del portiere, disse improvvisamente:
- Per piacere. Vai da lui. Digli qualcosa.
- Andare da lui? Be', il problema è che ho una cosa piuttosto urgente da fare, e appena arriva Hoffman...
- Ti prego, solo due parole. Non sai quanto sarebbe importante per lui. Ti prego.
Mi guardò intensamente e, quando feci spallucce, si girò e mi guidò attraverso l'atrio dell'albergo.
Mentre ci avvicinavamo a lui, Boris alzò brevemente il capo, poi ricominciò a fissare il libro con espressione seria. Mi ero aspettato che Sophie dicesse qualcosa; invece, con mio grande fastidio, si limitò a rivolgermi un'occhiata molto eloquente e oltrepassò il divano di Boris, dirigendosi verso uno scaffale di riviste accanto alle finestre. Mi trovai così solo accanto al bambino, che intanto continuava a leggere. Alla fine avvicinai una poltrona e mi sedetti di fronte a lui.
Boris non interruppe la lettura né diede segno di avere notato la mia presenza. Poi, senza alzare lo sguardo, mormorò tra sé e sé:
- Questo libro è fantastico. Ti insegna a fare di tutto.
Mi stavo chiedendo che cosa dire, quando gli occhi mi caddero su Sophie. Ci dava la schiena, fingendo di esaminare una rivista che aveva appena preso dallo scaffale. Provai un improvviso impeto di rabbia, e mi pentii amaramente di averla seguita attraverso l'atrio. Capii che era riuscita a manovrarmi in modo che a questo punto, qualunque cosa avessi detto a Boris, lei avrebbe potuto cantare vittoria e accampare scuse. Diedi un'altra occhiata alla sua schiena, a quelle spalle leggermente curve per dimostrare tutto il suo falso interesse per la rivista, e sentii la rabbia crescere.
Boris girò pagina e continuò a leggere. Dopo un po' ricominciò a borbottare senza alzare gli occhi: - Adesso non avrò più problemi a piastrellare il bagno.
Lì accanto c'era un tavolino da caffè con un'ampia scelta di giornali. Non vedendo perché non avrei dovuto leggere anch'io, ne presi uno e lo tenni aperto davanti a me. Vi fu qualche istante di silenzio. Poi, mentre scorrevo un articolo sull'industria automobilistica tedesca, Boris disse all'improvviso:
- Scusa.
Aveva pronunciato la parola con una certa aggressività, e per un attimo mi venne il dubbio che sua madre fosse riuscita a spronarlo o a fargli un segnale mentre leggevo. Ma quando alzai gli occhi, Sophie ci dava ancora la schiena e non sembrava essersi mossa di un centimetro. Poi Boris disse:
- Scusa se sono stato egoista. Non lo farò più. Non parlerò mai più di Numero Nove. Ormai sono grande. Con questo libro sarà facile. $è fantastico. Presto sarò capace di fare tutto. Ripiastrellerò il bagno. Prima non me ne rendevo conto. Ma qui ti fa vedere, ti fa vedere tutto. Non parlerò mai più di Numero Nove.
Sembrava che stesse recitando frasi imparate a memoria e provate più volte. Ciò nonostante, nella sua voce c'era qualcosa di commovente, e sentii l'impulso di abbracciarlo e consolarlo. Ma in quell'istante vidi Sophie sollevare e riabbassare le spalle, e ricordai che ero irritato con lei. Inoltre, sapevo che alla lunga, se le avessi lasciato manipolare le cose come stava cercando di fare, sarei andato contro gli interessi di tutti noi.
Chiudendo il giornale, mi alzai in piedi e diedi un'occhiata alle mie spalle per vedere se Hoffman fosse comparso. Subito Boris riprese a parlare, e dal tono capii che era in preda al panico.
- Lo prometto. Prometto che imparerò a fare tutto. Adesso sarà facile.
La sua voce era un po' tremula, ma quando lo guardai, vidi che continuava cocciutamente a fissare la pagina. Il suo volto, notai, era stranamente paonazzo. Poi la mia attenzione fu attratta da un movimento dall'altra parte dell'atrio. Alzando gli occhi, vidi Hoffman che mi faceva segno dal banco della reception.
- Adesso devo andare, - dissi ad alta voce a Sophie. - Ho una cosa molto importante da fare. Ci vediamo un'altra volta.
Boris girò pagina, ma non sollevò lo sguardo.
- Presto, - dissi a Sophie, che si era finalmente voltata. - Ne riparleremo molto presto. Ma adesso devo andare.
Hoffman si era portato in centro all'atrio e mi stava aspettando con aria ansiosa.
- Scusi se l'ho fatta attendere, signor Ryder, - disse. - Avrei dovuto prevederlo che per un incontro di questo genere sarebbe arrivato in anticipo. Vengo per l'appunto dalla sala riunioni, e le posso assicurare che quelle brave persone, tutta gente senza pretese, le sono estremamente riconoscenti per avere accettato di incontrarle di persona e per avere capito l'importanza di ascoltare dalla loro viva voce quello che hanno passato.
Lo guardai severamente. - Signor Hoffman, temo che ci sia un malinteso. Io, adesso, ho assolutamente bisogno di due ore per esercitarmi. Due ore di completo isolamento. Le devo chiedere di far sgombrare il soggiorno il più in fretta possibile.
- Ah, sì, il soggiorno -. Poi Hoffman si lasciò sfuggire una risatina. - Mi scusi, signor Ryder, ma non capisco. Come lei sa, in questo preciso istante il comitato del Gruppo di Mutuo Soccorso dei Cittadini la sta aspettando in sala riunioni...
- Signor Hoffman, lei sembra non rendersi conto della gravità della situazione. Per una serie di imprevedibili contrattempi, sono parecchi giorni che non tocco un pianoforte. Esigo che me ne venga messo a disposizione uno al più presto.
- Ma certamente, signor Ryder. La cosa è più che comprensibile. Farò tutto il possibile per aiutarla. Per quanto riguarda il soggiorno, però, la sua richiesta mi sembra poco pratica. Vede, è pieno di ospiti dell'albergo...
- Per il signor Brodsky non esitate a sgombrarlo.
- $è vero. Be', se con tutti i pianoforti che ci sono nell'albergo, lei insistesse nel volere usare assolutamente quello del soggiorno, allora asseconderei volentieri la sua richiesta. Andrei personalmente a chiedere ai clienti di uscire, anche a costo di interromperli mentre prendono il caffè o quant'altro. Sì, se sarò costretto, lo farò. Ma forse, prima di obbligarmi a ricorrere a provvedimenti così drastici, avrà la compiacenza di prendere in considerazione le altre possibili soluzioni. Vede, signor Ryder, si dà il caso che il pianoforte del soggiorno non sia affatto il migliore dell'albergo. Anzi, alcune note basse mi lasciano molto dubbioso.
- Signor Hoffman, se non posso usare il pianoforte del soggiorno, allora la prego di dirmi che cos'altro può mettermi a disposizione. Non ho particolari preferenze per il soggiorno. Ho solo bisogno di un buon pianoforte e di essere lasciato in pace.
- La stanza delle esercitazioni. $è sicuramente quella che risponde meglio alle sue esigenze.
- D'accordo. Vada per la stanza delle esercitazioni, allora.
- Benissimo.
Hoffman cominciò a farmi strada, ma dopo qualche passo si fermò di nuovo e si chinò verso di me confidenzialmente.
- Se ho ben capito, signor Ryder, la stanza le serve subito dopo la riunione?
- Signor Hoffman, non mi costringa a ribadirle la gravità della situazione...
- D'accordo, d'accordo, signor Ryder. Ma naturalmente. Capisco benissimo. Dunque... vuole esercitarsi £prima della riunione. Sì, sì, capisco perfettamente. Non ci sono problemi, sono sicuro che le persone del comitato aspetteranno volentieri. Be', poco male. Da questa parte, per piacere.
Lasciammo l'atrio da una porta che non avevo ancora notato, sulla sinistra dell'ascensore, e un attimo dopo stavamo camminando in un corridoio che non poteva essere che di servizio. Le pareti non erano nemmeno imbiancate, e i tubi fluorescenti appesi al soffitto davano a ogni cosa un aspetto duro e immobile. Oltrepassammo una serie di larghe porte scorrevoli, dalle quali provenivano vari rumori di cucina. Una delle porte era aperta, e con la coda dell'occhio vidi una stanza crudamente illuminata, con un banco di legno su cui erano state impilate alte colonne di scatole di latta.
- Gran parte del banchetto di questa sera dobbiamo prepararlo qui in albergo, - disse Hoffman. - Le cucine del palazzo dei concerti, come può immaginare, non sono gran che.
Dopo una svolta, il corridoio passò davanti alle lavanderie, così almeno credo. A un certo punto udii delle grida che provenivano da una porta chiusa: due donne stavano litigando con allarmante velenosità. Hoffman parve non accorgersene e passò oltre in silenzio. Dopo un po' lo sentii borbottare:
- No, no, i cittadini saranno comunque riconoscenti. Un piccolo ritardo non li disturberà affatto.
Alla fine si fermò davanti a una porta priva di indicazioni. Mi aspettavo che me la aprisse; invece, abbassò gli occhi e si girò dall'altra.
- Lì dentro, signor Ryder, - bofonchiò, indicandomi con un gesto rapido e furtivo la porta alle sue spalle.
- Grazie, signor Hoffman -. Spinsi la porta e la aprii.
Il direttore rimase impalato, continuando a guardare dall'altra. - La aspetterò qui, - borbottò.
- Non occorre, signor Hoffman. Riuscirò a trovare la strada per tornare di là.
- Resterò qui, signor Ryder. Non si preoccupi.
Non avevo nessuna voglia di discutere e mi affrettai a entrare.
Mi trovai in una stanza lunga e stretta, con il pavimento di pietra grigia. Le pareti erano rivestite fino al soffitto di piastrelle bianche. Mi parve che alla mia sinistra vi fosse una fila di lavandini, ma ormai ero così ansioso di trovare il pianoforte che non prestai molta attenzione ai particolari. Il mio sguardo, tra l'altro, era stato immediatamente attratto dai cubicoli di legno alla mia destra. Ce n'erano tre, l'uno di fianco all'altro, dipinti di uno sgradevole verde rana. Le porte del primo e dell'ultimo erano chiuse, ma quella del cubicolo centrale - che sembrava leggermente più largo - era socchiusa, e dentro vidi un pianoforte, con il coperchio aperto per lasciare in bella vista la tastiera. Senza perdere tempo, cercai di infilarmi dentro, scoprendo con un certo fastidio che la cosa non era affatto facile. La porta si apriva verso l'interno del cubicolo, ma era bloccata dal pianoforte; per entrare e richiuderla, dovetti schiacciarmi nell'angolo e farmi passare piano piano il taglio della porta sul petto. Riuscii a riaccostarla e a chiuderla; poi, sempre con una certa difficoltà visto il poco spazio, tirai fuori lo sgabello da sotto il pianoforte. Tuttavia, quando finalmente mi sedetti, mi sentii abbastanza a mio agio, e quando feci scorrere le dita avanti e indietro sulla tastiera scoprii che lo strumento, nonostante i tasti sbiaditi e la vernice tutta graffiata, aveva un suono caldo e delicato ed era perfettamente accordato. Persino l'acustica del cubicolo era meno opprimente di quanto mi aspettassi.
Fui invaso da un grande senso di sollievo, e improvvisamente mi resi conto di quanto fossi stato teso nell'ultima ora. Respirai a fondo, lentamente, preparandomi all'importantissima esercitazione. Solo allora mi ricordai che non avevo ancora deciso quale pezzo suonare quella sera. Sapevo che mia madre avrebbe trovato particolarmente commovente il movimento centrale delle vStrutture globulari: numero Iiv di Yamanaka. Ma mio padre avrebbe sicuramente preferito vAmianto e fibrav di Mullery. Anzi, era addirittura possibile che buona parte del brano di Yamanaka non gli piacesse. Rimasi a fissare i tasti ancora per qualche istante, poi non ebbi più dubbi e scelsi Mullery.
La decisione mi fece sentire meglio; stavo per attaccare gli esplosivi accordi iniziali, quando sentii qualcosa di duro battermi sulla spalla. Costernato, mi girai e vidi che la porta del cubicolo, chissà come, si era aperta.
Strisciando, mi alzai in piedi e la richiusi con uno spintone. Così facendo, notai che il fermo del chiavistello dondolava capovolto sul montante della porta. Esaminandolo meglio e ingegnandomi un po', riuscii a rimetterlo a posto. Mentre richiudevo la porta, però, mi accorsi che la mia riparazione era estremamente precaria. Nessuno poteva assicurarmi che il chiavistello non scivolasse di nuovo giù da un momento all'altro. Magari, proprio mentre suonavo vAmianto e fibrav - per esempio, nel bel mezzo di uno di quegli intensissimi passaggi del terzo movimento - la porta si sarebbe riaperta, esponendomi agli sguardi di chiunque si fosse trovato in quel momento fuori del cubicolo. E sicuramente, se qualche persona un po' ottusa, non sapendo che ero dentro, avesse cercato di entrare, il chiavistello non avrebbe opposto la minima resistenza.
Tutti questi pensieri mi attraversarono la testa mentre mi risedevo sullo sgabello. Dopo un po', però, giunsi alla conclusione che, se non avessi approfittato di questa opportunità per esercitarmi, forse non se ne sarebbe presentata un'altra. D'altronde, anche se le condizioni non si potevano definire ideali, il pianoforte era più che adeguato. Con notevole determinazione, mi imposi di non preoccuparmi più della porta difettosa alle mie spalle e mi preparai di nuovo a suonare le battute d'apertura di Mullery.
Poi, quando già le mie dita si erano posate sulla tastiera, udii un rumore - un lieve fruscio, come quello che potrebbe produrre una scarpa o un pezzo di stoffa. La vicinanza del suono era allarmante. Mi girai di scatto sullo sgabello. Solo allora notai che la porta, sebbene fosse rimasta chiusa, era priva dell'intera parte superiore, al punto da somigliare più o meno a quella di una stalla. Ero così impensierito dal chiavistello difettoso che, non so come, non mi ero nemmeno accorto di questo madornale difetto. Adesso vidi che la porta terminava con un margine irregolare poco sopra la vita. Non si capiva se fosse stata spaccata per un gratuito atto di vandalismo o perché era in corso una ristrutturazione. In ogni caso, anche da seduto, mi bastava allungare un po' il collo per vedere senza difficoltà le piastrelle bianche e i lavandini.
Non riuscivo a credere che Hoffman avesse avuto l'impudenza di offrirmi un posto del genere. $è vero che fino a quel momento nessuno era entrato nella stanza, ma chi poteva garantirmi che da un momento all'altro non piombasse lì un gruppo di sei o sette dipendenti dell'albergo per lavarsi le mani nei lavandini? La situazione mi parve insostenibile; furente, stavo per abbandonare il cubicolo quando scorsi uno straccio appeso a un chiodo piantato nel montante della porta all'altezza del cardine superiore.
Lo fissai per un momento, poi vidi un secondo chiodo sull'altro montante, esattamente alla stessa altezza. Indovinando subito lo scopo dello straccio e dei chiodi, mi alzai in piedi e li esaminai meglio. Lo straccio si rivelò un vecchio asciugamano da bagno. Quando lo aprii e lo tesi fra i due chiodi, vidi che funzionava ottimamente da tenda, coprendo la parte mancante della porta.
Mi risedetti sentendomi molto meglio e mi accinsi di nuovo a suonare le prime battute di Mullery. Poi, proprio mentre stavo per attaccare, fui di nuovo bloccato da un fruscio. Quando lo udii per la terza volta, capii che veniva dal cubicolo alla mia sinistra. Mi resi improvvisamente conto che per tutto questo tempo nel cubicolo accanto c'era stato qualcuno; ma non solo, l'isolamento acustico tra i cubicoli era praticamente inesistente, e se fino a quel momento non mi ero accorto della presenza dell'estraneo, ciò era dovuto unicamente al fatto che costui, per chissà quale motivo, era rimasto immobile.
Furioso, mi alzai di nuovo e aprii la porta, strappando il chiavistello e facendo cadere per terra l'asciugamano. Mentre strisciavo fuori, l'uomo del cubicolo accanto, forse pensando che non c'era più motivo di trattenersi, si schiarì la gola rumorosamente. Uscii di corsa dalla stanza in preda al disgusto più totale.
Fui un po' sorpreso di trovare Hoffman nel corridoio, poi ricordai che aveva promesso di aspettarmi. Si era appoggiato con la schiena al muro, ma appena mi vide si raddrizzò e si mise sull'attenti.
- Bene, signor Ryder, - mi disse sorridendo, - se vuole seguirmi, sono tutti ansiosi di conoscerla.
Lo guardai freddamente. - Tutti chi, signor Hoffman?
- Ma come, i membri del comitato, signor Ryder. Il comitato del Gruppo di Mutuo Soccorso dei Cittadini...
- Mi stia a sentire, signor Hoffman... - Ero fuori di me, ma la delicatezza di ciò che dovevo spiegare mi indusse a fare una pausa. Hoffman, notando finalmente che ero irritato, si fermò in mezzo al corridoio e rimase a fissarmi con aria premurosa.
- Mi stia a sentire, signor Hoffman. Mi spiace molto per la sua riunione. Ma è indispensabile che io provi il mio pezzo. Non farò nient'altro se prima non mi verrà consentito di esercitarmi.
Hoffman parve sinceramente stupito. - Mi scusi, signor Ryder, - disse, abbassando con discrezione la voce. - Ma non si è esercitato fino adesso?
- No. Non ho potuto.
- Non ha potuto? C'è qualcosa che non va, signor Ryder? Voglio dire, non è che si senta male?
- Io sto benissimo -. Sospirai. - Se proprio vuole saperlo, non ho potuto esercitarmi perché... be', perché là dentro non ci sono le necessarie condizioni di isolamento. No, signor Hoffman, mi lasci finire. L'isolamento è insufficiente. Andrà bene per qualcun altro, ma non per me... Be', glielo dirò, signor Hoffman, glielo dirò in tutta sincerità. $è così da quand'ero bambino. Non sono mai riuscito a esercitarmi se non nel più completo e totale isolamento.
- Davvero, signor Ryder? - Hoffman stava annuendo gravemente. - Capisco, capisco.
- Me lo auguro. Le condizioni là dentro non erano nemmeno lontanamente adeguate -. Scossi il capo. - Ma adesso ho bisogno, ripeto, ho bisogno di un posto soddisfacente per esercitarmi...
- Sì, sì, naturalmente -. Hoffman annuì comprensivo. - Credo di avere la soluzione, signor Ryder. La stanza per le esercitazioni dell'annesso le offrirà un perfetto isolamento. Il pianoforte è eccellente, e quanto all'isolamento, be', glielo posso garantire. $è una stanza molto, molto isolata.
- Benissimo. Sembra il posto che fa per me. Nell'annesso, ha detto?
- Sissignore. La accompagnerò io stesso al termine della riunione con il Gruppo di Mutuo Soccorso dei...
- Signor Hoffman! - urlai improvvisamente, trattenendomi a stento dal prenderlo per il bavero. - Mi stia bene a sentire! Non me ne frega niente di questo gruppo di cittadini! Non me ne frega niente se aspettano! Voglio solo esercitarmi, altrimenti faccio immediatamente i bagagli e me ne vado via da questa città, subito! Sono stato chiaro, signor Hoffman? Niente conferenza, niente concerto, niente di niente! Ci siamo capiti? Mi dica, ci siamo capiti?
Hoffman sbiancò in volto e mi guardò con gli occhi sbarrati. - Sì, sì, - mormorò. - Certamente, signor Ryder.
- Quindi glielo chiedo per piacere, - dissi, riuscendo a dominare un po' la voce. - Sia così gentile da accompagnarmi in questo annesso senza perdere altro tempo.
- Va bene, signor Ryder -. Hoffman scoppiò in una strana risata. - Capisco perfettamente. In fondo, non sono che dei comuni cittadini. Che bisogno c'è che uno come lei... - Poi si diede un contegno e disse risoluto: - Da questa parte, signor Ryder, se vuole seguirmi...
24.
Percorremmo ancora un breve tratto di corridoio, poi attraversammo una grande lavanderia in cui brontolavano parecchie macchine. Hoffman mi indicò una stretta porticina; uscendo, mi trovai davanti ai due battenti del soggiorno.
- Se passiamo di qui facciamo prima, - disse Hoffman.
Appena entrammo nel soggiorno, capii meglio perché in precedenza si fosse dimostrato così restio a far sgombrare la sala per me. Il soggiorno traboccava di persone che ridevano e parlavano; alcune indossavano vestiti molto appariscenti, e per un attimo pensai di essere capitato nel bel mezzo di un ricevimento privato. Tuttavia, mentre ci aprivamo lentamente un varco attraverso la calca, cominciai a distinguere diversi gruppi. Parte della sala era occupata da gente del posto assai chiassosa. Un altro gruppo sembrava composto di giovani americani danarosi, molti dei quali, in quel momento, stavano cantando in coro un inno universitario; in un'altra zona ancora, un gruppo di giapponesi aveva unito parecchi tavoli e faceva una gran cagnara. Fatto curioso, sebbene i gruppi fossero palesemente distinti, sembrava che fra l'uno e l'altro avvenissero intensi scambi. Tutto intorno a me, vedevo gente che si aggirava fra i tavoli, si dava grandi pacche sulla schiena, si scattava fotografie a turno, si passava avanti e indietro vassoi di panini. Un cameriere in uniforme bianca vagava per la sala con la faccia angustiata e una caffettiera per mano. Mi venne in mente di cercare il pianoforte, ma scoprii che avevo già il mio da fare a intrufolarmi fra la gente per stare dietro a Hoffman. Finalmente giunsi sul lato opposto del soggiorno, dove il direttore dell'albergo mi stava tenendo aperta un'altra porta.
Mi trovai in un corridoio che conduceva all'aperto, e un attimo dopo sbucai in un piccolo piazzale soleggiato, nel quale riconobbi subito il posteggio in cui mi aveva portato Hoffman la sera del banchetto in onore di Brodsky. Il direttore mi accompagnò verso un macchinone nero, e qualche minuto più tardi stavamo avanzando lentamente nell'ingorgo dell'ora di pranzo.
- Il traffico di questa città, - sospirò Hoffman. - Signor Ryder, vuole che metta l'aria condizionata? Sicuro? Santo cielo, guardi che traffico. Per fortuna ci toglieremo presto di qui. Prenderemo la strada che porta a sud.
Detto fatto, al semaforo successivo Hoffman svoltò in una strada in cui il traffico era molto più scorrevole. Un attimo dopo stavamo viaggiando a forte velocità in aperta campagna.
- Eh, sì, questo è il bello della nostra città, - disse Hoffman. - Non occorre fare molta strada per trovarsi in luoghi ameni. Lo sente che l'aria è già migliore?
Bofonchiai una risposta affermativa, poi tacqui. In quel momento non avevo nessuna voglia di fare conversazione. Tanto per cominciare, non ero più così sicuro della mia precedente decisione di suonare vAmianto e fibra.v A furia di pensarci, mi era sembrato di ricordare che mia madre, una volta, aveva manifestato un certo fastidio nei confronti di questa composizione. Per un momento esaminai la possibilità di suonare qualcosa di completamente diverso, come vGallerie del ventov di Kazan, ma subito mi venne in mente che il pezzo avrebbe richiesto due ore e un quarto. Non c'era dubbio che vAmianto e fibra,v per la sua brevità e intensità, fosse la scelta giusta. Nessun altro brano di quella lunghezza mi avrebbe offerto la stessa opportunità di esprimere stati d'animo così diversi. Inoltre, almeno all'apparenza, vAmianto e fibrav era un pezzo che a mia madre sarebbe dovuto piacere moltissimo. Eppure c'era qualcosa - lo ammetto, nient'altro che l'ombra di un ricordo - che mi impediva di sentirmi a mio agio con questa scelta.
Se si esclude un autocarro in lontananza, molto più avanti di noi, la strada era deserta. Osservai la campagna che scorreva ai nostri lati e mi sforzai di nuovo di far tornare a galla quello sfuggente frammento di memoria.
- Non ci metteremo molto, signor Ryder, - disse Hoffman al mio fianco. - Sono sicuro che troverà la stanza dell'annesso di suo gradimento. $è molto tranquilla, il luogo ideale per esercitarsi un paio di ore. Presto sarà perso nel mondo della sua musica. Come la invidio! Potrà piluccare questa o quell'altra idea musicale. Come se si trovasse in una magnifica galleria d'arte e per una sorta di miracolo le avessero detto di prendere un cestino della spesa e di portarsi a casa quello che vuole. Mi perdoni, - Hoffman scoppiò a ridere, - mi sono sempre crogiolato in fantasie del genere. Mia moglie e io che percorriamo insieme una splendida galleria piena di bellissimi oggetti. Oltre a noi due non c'è nessuno. Nemmeno un guardiano. Al braccio ho un cestino della spesa; ci hanno detto che possiamo prendere quello che vogliamo. Bisogna rispettare qualche regola, naturalmente. Per esempio, non possiamo prendere più di quanto stia nel cestino. E ovviamente non ci sarà consentito di vendere nulla di ciò che prenderemo, anche se non ci sogneremmo mai di abusare a quel modo di una simile opportunità. Eccoci dunque lì, mia moglie e io, insieme in questa sala celestiale. La galleria si trova in una grande villa di campagna che domina vaste distese di terra. Il balcone ha una vista spettacolare. E grandi statue di leoni a ogni angolo. Mia moglie e io contempliamo il panorama discutendo quali oggetti prendere. In questa fantasia, non so perché, sta sempre per scoppiare un temporale. Il cielo è grigio ardesia, eppure le ombre sono nitide come se su di noi brillasse il più luminoso dei soli estivi. La terrazza è invasa di edera e altre piante rampicanti. E mia moglie e io siamo lì, soli, con il nostro cestino da supermercato ancora vuoto, e discutiamo che cosa scegliere -. Hoffman proruppe in un'altra risata. - Mi perdoni, signor Ryder, mi sono lasciato andare. Ma è questo che immagino debba succedere alle persone geniali come lei quando vengono lasciate un paio d'ore al pianoforte in un luogo tranquillo. $è questo che deve succedere a chi è ispirato. Vagherà tra le sue sublimi idee musicali. Ne esaminerà una, scuoterà la testa, la rimetterà al suo posto. Per quanto splendida, non è esattamente quella che sta cercando. Ah! Come deve essere bello trovarsi dentro la sua testa, signor Ryder! Come vorrei poterla accompagnare nel viaggio che intraprenderà nell'istante in cui le sue dita si poseranno sulla tastiera. Ma lei, naturalmente, partirà per lidi che mi sono preclusi. Come la invidio, signor Ryder!
Borbottai qualcosa di vago, poi viaggiammo in silenzio. Dopo un po' Hoffman disse:
- Prima che ci sposassimo, credo che mia moglie se la figurasse così la nostra vita. Che si aspettasse qualcosa del genere, signor Ryder. Come se dovessimo entrare a braccetto in un bel museo deserto con il nostro cestino della spesa. Anche se lei, naturalmente, non avrebbe mai usato termini così fantasiosi. Vede, mia moglie discende da una lunga stirpe di grandi geni. Sua madre era una bravissima pittrice. Suo nonno uno dei massimi poeti di lingua fiamminga del suo tempo. Per qualche inspiegabile ragione è stato trascurato, ma questo non cambia nulla. E poi ce ne sono altri, in famiglia, tutti grandi artisti. Essendo cresciuta in un ambiente simile, ha sempre considerato la bellezza e l'ingegno come qualcosa di scontato. Come poteva essere altrimenti? Le confesso che questo ha generato incomprensioni, e agli inizi della nostra relazione addirittura un gravissimo malinteso.
Hoffman tacque e fissò la strada che si snodava davanti a noi.
- $è stata la musica ad avvicinarci, - disse dopo un po'. - Ci siedevamo nei caffè di Herrengasse e parlavamo di musica. O meglio, ero io che parlavo. Non stavo mai zitto. Ricordo che una volta, mentre passeggiavo con lei nel Volksgarten, le ho descritto nei minimi particolari, forse per un'ora intera, ciò che sentivo ascoltando £Ventilazioni di Mullery. Che vuole, eravamo giovani e avevamo tempo per queste cose. Già allora Christine non parlava molto, ma ascoltava quello che avevo da dire io, e mi accorgevo che ne era profondamente commossa. Oh, sì. Tra l'altro, signor Ryder, dico che eravamo giovani, ma in realtà non eravamo più dei ragazzi. Avevamo tutti e due un'età per cui avremmo già potuto essere sposati da un pezzo. Che ne so, forse Christine sentiva che il tempo stringeva. Fatto sta che abbiamo cominciato a parlare di matrimonio. Ero innamoratissimo di lei, signor Ryder, sin dal principio sono stato innamoratissimo. Era così bella. Ancora oggi, se la vedesse, si renderebbe conto di quanto doveva essere bella da giovane. Ma bella in una maniera un po' speciale. Si capiva subito che aveva una grande sensibilità per le cose più raffinate. Non mi vergogno di ammetterlo, signor Ryder, ero innamoratissimo di lei. Non sa che cosa ho provato quando ha acconsentito a sposarmi. Ho pensato che la mia vita sarebbe stata felice, una felicità continua e ininterrotta. Ma pochi giorni dopo è successo qualcosa. Christine è venuta per la prima volta a farmi visita nella mia stanza. Allora lavoravo all'Hotel Burgenhof e affittavo una camera non lontano dall'albergo, in Glockenstrasse, sul canale. Non era gran che, ma rispondeva ai miei bisogni. C'erano dei robusti scaffali per i libri su una parete e uno scrittoio di quercia sotto la finestra. E come le ho detto, la camera dava sul canale. Era inverno, una magnifica mattina d'inverno piena di sole, e dalla finestra entrava una bellissima luce. Naturalmente avevo fatto ordine, sistemato tutto per bene. Christine è entrata e si è guardata intorno. Ha guardato dappertutto. Poi mi ha chiesto con voce pacata: «Ma dove la componi la tua musica?» Ricordo il preciso istante in cui l'ha detto, signor Ryder. Me ne ricordo come se fosse adesso. Quelle parole hanno segnato una svolta nella mia vita. Non esagero. A posteriori, mi accorgo che la mia vita attuale, per molti versi, è cominciata in quel momento. Rivedo la luce di quella mattina di gennaio, Christine in piedi accanto alla finestra con una mano sul tavolo, solo la punta delle dita, come per tenersi in equilibrio. Era così bella. E dal tono con cui mi ha fatto quella domanda era ovvio che era davvero meravigliata. Vede, non capiva. «Ma dove la componi la tua musica? Non hai un pianoforte». Non sapevo che cosa rispondere. Mi sono reso conto all'istante che c'era stato un malinteso, un malinteso crudele, di proporzioni catastrofiche. Può biasimarmi se ho avuto la tentazione di salvarmi? Non avrei mai detto una bugia smaccata. Oh, no, neppure per salvarmi. Ma in quel frangente! Ancora adesso, a ripensarci, mentre glielo racconto, mi vengono i brividi. «Ma dove la componi la tua musica?» «No, non c'è un pianoforte, - ho detto allegramente. - Non c'è niente. Né partiture scritte a mano, né altro. Ho deciso di non comporre più per due anni». Ecco che cosa le ho risposto. Sono stato prontissimo, l'ho detto senza la minima ansia o esitazione. Ho persino stabilito la data in cui progettavo di ricominciare a comporre. Ma per il momento, no, non volevo più saperne. Che cos'altro avrei dovuto dirle, signor Ryder? Potevo forse guardare negli occhi quella donna, quella donna che amavo disperatamente, quella donna che solo pochi giorni prima aveva acconsentito a sposarmi, e aspettare che il destino si compisse? Potevo forse dirle: «Oh, cielo, che malinteso. Ritienti libera da ogni obbligo nei miei confronti. Ti prego, separiamoci subito...»? Certo che no! Forse lei mi considera disonesto, ma è un giudizio troppo severo. E poi, ciò che avevo detto non era completamente falso. In quel periodo avevo tutte le intenzioni di mettermi a studiare uno strumento, e non mi sarebbe spiaciuto nemmeno cimentarmi con la composizione. Vede dunque che la mia non era una bugia smaccata. Sono stato insincero, questo sì, lo ammetto. Ma che altro avrei dovuto fare? Non potevo lasciarmi sfuggire Christine. Così le ho detto che avevo preso la decisione di non comporre più per due anni solari. Perché avevo bisogno di sgombrare la testa e acquisire maggiore distacco; qualcosa del genere, ricordo di avere parlato per un bel po'. E Christine mi ascoltava comprensiva, accettava tutto, annuiva con la sua bella testa intelligente, mentre io le rifilavo queste stupidaggini. Ma che altro avrei potuto fare? E la sa una cosa? Da quella mattina Christine non ha più accennato alla mia attività di compositore, mai una volta in tutti questi anni. Tra parentesi, signor Ryder, visto che le leggo la domanda in faccia, glielo dico subito. Glielo assicuro: prima di quella mattina, per tutto il tempo del corteggiamento, durante le nostre passeggiate lungo il canale, o quando ci trovavamo nei caffè di Herrengasse, io non ho mai, dico mai, fatto nulla per indurla a credere che componessi musica. Che io fossi perennemente innamorato della musica, che la musica fosse l'alimento quotidiano del mio spirito, che ogni mattino al risveglio me la sentissi nel sangue, questo sì, questo glielo avevo lasciato intendere ed era vero. Ma non l'ho mai ingannata intenzionalmente, signor Ryder. Oh, no, mai. $è stato solo un terribile malinteso. Forse Christine, venendo da una famiglia come la sua, non aveva potuto fare a meno di £presumere... Chissà? Ma le assicuro che prima di quella mattina non avevo mai pronunciato nemmeno una parola che potesse farle credere una cosa simile. Be', come le dicevo, signor Ryder, Christine non ha più accennato alla cosa, non una sola volta. Poco dopo ci siamo sposati e abbiamo comprato un alloggetto in Piazza Friedrich. Io ho trovato un buon posto all'Ambassadors. Abbiamo cominciato a vivere insieme e per un po' siamo stati abbastanza felici. Naturalmente, non ho mai dimenticato il... sì, insomma, il malinteso. Ma ero meno preoccupato di quanto forse si immagina lei. Vede, come le ho già detto, avevo tutte le intenzioni, al momento buono, quando si fosse presentata l'opportunità, di studiare uno strumento. Magari il violino. Facevo molti progetti allora, come tutti noi quando siamo giovani, quando non ci rendiamo ancora conto di come sia limitato il tempo a nostra disposizione, quando non abbiamo ancora scoperto che intorno a noi c'è un guscio, un guscio così duro che è... £impossibile... £uscire! - Improvvisamente, Hoffman staccò le mani dal volante e le spinse verso l'alto, contro l'invisibile cupola che lo attorniava. Nel gesto c'era più stanchezza che rabbia, e un attimo dopo il direttore dell'albergo lasciò ricadere le mani sul volante. Poi riprese a parlare con un sospiro: - No, allora non le sapevo queste cose. Speravo ancora di poter diventare un giorno la persona che Christine credeva che fossi. Anzi, ero convinto che ci sarei riuscito proprio grazie alla sua presenza, al suo influsso. E come le dico, signor Ryder, il primo anno del nostro matrimonio è stato abbastanza felice. Avevamo comprato quell'appartamento, che sembrava fatto per noi, e in certi giorni pensavo che Christine si fosse accorta del malinteso e che non ne facesse una malattia. Non so, in quel periodo mi attraversavano la testa pensieri di ogni genere. Poi, naturalmente, la data che avevo stabilito, la scadenza dei due anni, quando avrei dovuto ricominciare a comporre, è arrivata ed è passata. Osservavo Christine attentamente, ma lei non diceva nulla. Era taciturna, questo è vero, ma lo era sempre stata. Non diceva né faceva nulla di insolito. Ma credo che sia stato allora, verso la fine dei due anni, che la tensione è entrata nella nostra vita. Era una tensione strisciante, onnipresente. Anche quando passavamo insieme una serata piacevole, era sempre lì. Organizzavo piccole cenette a sorpresa nel suo ristorante preferito. Oppure arrivavo a casa con un mazzo di fiori o un boccetto di profumo. Sì, mi sforzavo diligentemente di rallegrarla. Ma la tensione era sempre lì. Per molto tempo sono riuscito a non badarvi. Mi dicevo che era frutto della mia immaginazione. Probabilmente non volevo ammettere che ci fosse e che aumentasse di giorno in giorno. Mi sono convinto della sua esistenza solo il giorno in cui è svanita. Sì, a un certo punto è svanita, e allora ho capito che c'era stata. $è successo un pomeriggio. Eravamo sposati ormai da tre anni. Sono tornato a casa dal lavoro con un regalino per lei, un libro di poesie. Sapevo che lo desiderava. Non me l'aveva detto esplicitamente, ma lo avevo intuito. Sono entrato in casa e l'ho trovata alla finestra, intenta a guardare la piazza. A quell'ora del pomeriggio si vedeva la gente che usciva dal lavoro. L'alloggio era un po' rumoroso, ma non era male per una coppia relativamente giovane come noi. Le ho porto il volume. «$è solo un regalino», ho detto. Christine ha continuato a guardare dalla finestra. Era inginocchiata sul sofà, con i gomiti appoggiati sullo schienale in modo da cullarsi la testa mentre scrutava fuori. Poi, stancamente, ha tolto il libro dalle mie mani, e senza dire una parola ha ripreso a osservare la piazza. Sono rimasto in piedi in mezzo alla stanza, aspettando che dicesse qualcosa, che ringraziasse per il regalo. Forse non si sentiva bene. Ho aspettato, un po' impensierito, finché Christine si è girata e mi ha guardato. Non in malo modo, oh no, ma mi ha guardato, ed è stato uno sguardo particolare. Lo sguardo di chi cerca con gli occhi £conferma di ciò che sta pensando. Proprio
così. In quel momento ho capito che Christine aveva finalmente visto dentro di me. E mi sono reso conto della tensione che c'era stata fra noi. L'avevo aspettato quel momento, l'avevo aspettato sin dal principio. E le sembrerà strano, ma ho provato un immenso sollievo. Finalmente, finalmente, aveva visto dentro di me. Oh, che sollievo! Ho provato un tale senso di liberazione che ho addirittura esclamato: «Ah!» e ho sorriso. Christine mi ha guardato storto, e io mi sono dato subito un contegno. Ho capito immediatamente... oh sì, il senso di liberazione è stato di breve durata... ho capito immediatamente con quali draghi avrei dovuto combattere da quel momento, e mi sono fatto cautissimo. Mi sono reso conto che avrei dovuto raddoppiare, triplicare il mio impegno per non perdere Christine. Ma ero ancora convinto che se mi fossi messo d'impegno, veramente d'impegno, sarei riuscito a conquistarla, anche se ormai aveva £capito. Povero idiota! Ma lo sa che per parecchi anni ho continuato a sperarlo, anzi, ho persino creduto di riuscirci? Oh, stavo molto attento. Facevo tutto ciò che era in mio potere per assecondarla. Non abbassavo mai la guardia. Sapevo che con il tempo i suoi gusti, le sue preferenze, si sarebbero sicuramente modificati, quindi osservavo ogni sfumatura, pronto ad anticipare qualsiasi cambiamento. Oh sì, signor Ryder, anche se sono io a dirlo, le assicuro che in quegli anni sono stato un marito fantastico. Se un compositore che le era piaciuto per anni cominciava a non garbarle, me ne accorgevo subito, prima ancora che lei stessa diventasse consapevole del cambiamento. $è la prima volta che si parlava di lui, mentre Christine ancora esitava a esprimere i suoi dubbi, io mi affrettavo a dire: «Eh, sì, non è più quello di una volta. Senti, non vale la pena andare a concerto questa sera. Ti annoieresti». E venivo ricompensato dall'innegabile espressione di sollievo che compariva sul suo volto. Oh, sì, ero attentissimo, e come le dico, ero convinto di farcela. Mi sono illuso. Ero così innamorato che mi sono illuso di riconquistarla a poco a poco. Per qualche anno ho sperato davvero. Poi è cambiato tutto, è cambiato tutto nel giro di una sera. Ho capito che non c'era niente da fare, che i miei sforzi non avrebbero dato alcun risultato. E l'ho capito nello spazio di una sera, signor Ryder. Eravamo stati invitati a casa del signor Fisher, che dopo il concerto di Jan Piotrowski aveva organizzato un piccolo ricevimento in suo onore. Erano le prime volte che venivamo invitati a questo genere di cose; stavo cominciando a guadagnarmi un certo rispetto grazie alla mia irrefrenabile passione per l'arte. Be', come le dicevo, ci trovavamo a casa signor Fisher, nel suo bel salotto. Non eravamo in molti, una quarantina al massimo, una serata tranquilla, insomma. Non so se conosce Piotrowski. Quella sera si è dimostrato una persona molto gradevole, estremamente abile nel mettere gli altri a loro agio. La conversazione scorreva senza intoppi e tutti sembravano felici e contenti. Poi a un certo punto mi sono avvicinato al buffet; mi stavo servendo, quando mi sono accorto che il signor Piotrowski era proprio accanto a me. Ero ancora piuttosto giovane, allora; non avevo molta esperienza di celebrità, e sì, le confesso che ero un po' emozionato. Ma il signor Piotrowski mi ha sorriso amabilmente, mi ha chiesto che cosa ne pensavo della serata, insomma mi ha messo subito a mio agio. Poi ha detto: «Poco fa stavo parlando con sua moglie. Che donna affascinante! Mi ha raccontato del suo grande amore per Baudelaire. Ho dovuto confessarle di avere solo una conoscenza superficiale delle opere del poeta. E molto giustamente lei mi ha rimproverato questa deplorevole mancanza. Oh, mi sono sentito sprofondare dalla vergogna, e ho intenzione di rimediare al più presto. L'amore di sua moglie per Baudelaire è assolutamente contagioso!» Al che io ho annuito e gli ho risposto: «Sì, certo. Christine ha sempre amato Baudelaire». «E con quanta passione, - ha aggiunto Piotrowski. - Mi ha fatto sprofondare dalla vergogna». Tutto lì, non ci siamo detti altro. Ma vede, signor Ryder, il punto è questo: vio non sapevo affatto che Christine amasse Baudelaire!v Non l'avevo mai neppure sospettato! Capisce dove voglio arrivare? vChristine non mi aveva mai rivelato la sua passione per quel poeta!v E quando Piotrowski mi ha detto questo, si è come accesa una lampadina. All'improvviso ho visto chiaramente qualcosa che per anni avevo cercato di non vedere. E cioè che Christine mi aveva sempre nascosto una parte di sé. Preservandola, come se il contatto con la mia grossolanità potesse danneggiarla. Come le dico, signor Ryder, probabilmente lo sospettavo già. Che Christine mi nascondesse un'intera parte di se stessa. E chi avrebbe potuto darle torto? Una donna della sua sensibilità, cresciuta in una famiglia come la sua. Non aveva esitato a parlare a Piotrowski del suo amore per Baudelaire, ma non una volta, in tutti quegli anni, ne aveva accennato a me. Per parecchi minuti ho vagolato per il salotto senza quasi sapere che cosa dicevo alla gente, limitandomi ai soliti convenevoli, con il cuore in tumulto. Poi, forse mezz'ora dopo la conversazione con Piotrowski, mi sono guardato intorno. E dall'altra parte della sala ho visto mia moglie che rideva felice su un sofà, accanto a Piotrowski. Nel suo modo di fare non c'era nulla di civettuolo, badi bene. Oh, no. Mia moglie ha sempre rispettato meticolosamente le convenienze. Ma mi sono accorto che rideva con una disinvoltura che non vedevo più dai tempi delle nostre passeggiate lungo il canale, prima di sposarci. Prima, cioè, che lei £capisse. Sul divano, che era molto largo, c'erano altre due persone, e alcuni invitati si erano seduti per terra per stare vicini a Piotrowski. Lui aveva appena detto qualcosa a mia moglie, e Christine rideva felice. Ma non è stata solo quella risata ad aprirmi gli occhi, signor Ryder. Adesso le racconto che cosa è successo dopo, mentre li osservavo dal lato opposto del salotto. Piotrowski era seduto in punta al divano, con le mani intorno alle ginocchia, così! Ebbene, mentre rideva e diceva qualcos'altro a mia moglie, ha cominciato a raddrizzare il busto, come se volesse appoggiarsi allo schienale. E mentre si inclinava all'indietro, mia moglie, velocissima, con incredibile destrezza, ha spostato un cuscino dal proprio schienale a quello di Piotrowski, in modo che quando la sua testa ha toccato il divano, il cuscino era già lì. Un gesto rapidissimo, elegante, fatto quasi senza pensarci, signor Ryder. E quando l'ho visto, mi si è spezzato il cuore. Quel gesto era così pieno di rispetto spontaneo, di sollecitudine, di desiderio di rendere un piccolo favore. Un'azione da nulla, che mi ha rivelato l'esistenza nel cuore di Christine di un intero mondo che mi era rigidamente precluso. E in quel preciso istante mi sono reso conto che mi ero ingannato. Ho capito una cosa di cui, da allora, non ho mai più dubitato. E cioè, signor Ryder, che Christine, prima o poi, mi avrebbe lasciato. Era solo questione di tempo. Quella sera ne ho avuto la certezza.
Hoffman tacque e parve sprofondare di nuovo nei suoi pensieri. Adesso la campagna ai due lati della strada era coltivata; in lontananza si vedevano dei trattori muoversi lentamente in mezzo ai campi. Dopo un momento dissi:
- Mi scusi, ma la sera di cui mi sta parlando, quando è stata?
- Quando è stata? - Hoffman pareva un po' offeso dalla mia domanda. - Oh... credo che... be', il concerto di Piotrowski deve risalire a ventidue anni fa.
- Ventidue anni? - dissi. - Mi risulta che per tutto questo tempo sua moglie sia rimasta con lei.
Hoffman si girò verso di me furente. - Che cosa vuole insinuare, signor Ryder? Che non so come stanno le cose in casa mia? Che non capisco mia moglie? Io mi confido con lei, le racconto i miei pensieri più intimi, e lei monta in cattedra come se conoscesse la situazione meglio di me...
- Le chiedo scusa, signor Hoffman, non volevo darle questa impressione. Desideravo solo farle notare...
- Notare un corno! Lei non sa niente! Di fatto, la mia situazione è disperata. E lo è da un pezzo. L'ho visto quella sera a casa del signor Fisher, chiaro come il sole, chiaro come in questo momento vedo la strada davanti ai miei occhi. Ebbene sì, non è ancora successo, ma solo... solo grazie ai miei £sforzi. Sissignore, e lei non ha idea degli sforzi che ho fatto! Forse riderà di me. Se so che la causa è persa, perché mi torturo a questo modo? Perché mi ostino ad aggrapparmi a Christine? Per lei è facile fare queste domande. Ma io l'amo profondamente, signor Ryder, e oggi più che mai. Per me sarebbe impensabile, non potrei mai sopportare che se ne andasse; ogni cosa perderebbe senso. Sì, lo so che è inutile, che prima o poi mi lascerà per qualcuno come Piotrowski, qualcuno di quella levatura, qualcuno come la persona che pensava che fossi prima di capire. Ma non si può schernire un uomo per la sua ostinazione. Ho fatto del mio meglio, signor Ryder, e l'ho fatto nell'unico modo possibile per uno come me. Ho lavorato sodo, ho organizzato manifestazioni, ho fatto parte di comitati, e con il passare degli anni sono riuscito a conquistarmi una certa considerazione nei circoli artistici e musicali di questa città. E poi, naturalmente, c'era quell'unica speranza. La sola cosa che forse può spiegare come sia riuscito a trattenere Christine così a lungo. Adesso quella speranza è morta; è morta parecchi anni fa, ma vede, per un bel po' quell'unica, singola speranza c'è stata! Come avrà capito, sto parlando di nostro figlio. Ah, se Stephan fosse diverso, se avesse ricevuto almeno in parte le doti che la famiglia di sua madre possedeva in tale abbondanza! Per qualche anno abbiamo sperato tutti e due. Anche se con occhi diversi, osservavamo Stephan e speravamo. L'abbiamo mandato a lezione di pianoforte, l'abbiamo seguito attentamente, abbiamo sperato l'impossibile. Tendevamo le orecchie per cogliere una scintilla che non c'era mai, oh, non sa con quanta attenzione ascoltavamo, ciascuno per i suoi motivi; desideravamo con ogni forza udire qualcosa che invece non c'era mai...
- Mi scusi, signor Hoffman. Lei sta dicendo questo di Stephan, ma le posso assicurare...
- Per anni mi sono illuso! Mi dicevo, be', forse maturerà tardi. Qualcosa c'è di sicuro, anche solo un semino. Oh, mi sono illuso, e credo che si sia illusa anche mia moglie. Abbiamo aspettato, aspettato, fino a quando, negli ultimi anni, abbiamo capito che era inutile fingere ancora. Ormai Stephan ha ventitré anni. Non posso più dirmi che sboccerà all'improvviso domani, o magari fra qualche giorno. Ho dovuto arrendermi alla realtà. Stephan ha preso da me. E ormai so che anche Christine l'ha capito. Naturalmente, essendo sua madre, lo ama con tutto il cuore. Ma Stephan, invece di diventare il mezzo della mia salvezza, si è trasformato nell'opposto. Ogni volta che posa gli occhi su di lui, Christine vede l'errore madornale che ha fatto sposandomi...
- Signor Hoffman, gliel'assicuro, ho avuto il piacere di sentire Stephan suonare, e devo dirle che...
- L'incarnazione, signor Ryder! Stephan è diventato l'incarnazione del più grave errore della sua vita. Oh, se avesse conosciuto la famiglia di mia moglie! Credo che da giovane Christine abbia sempre £presunto. Probabilmente, pensava che un giorno avrebbe avuto dei figli bellissimi e dotati. Sensibili alla bellezza, come lei. Poi ha fatto quell'errore! Come madre, ama Stephan incondizionatamente, questo è ovvio. Ma ciò non significa che non veda il suo errore ogni volta che posa gli occhi su di lui. Stephan è così simile a me, signor Ryder. Ormai non posso più negarlo. $è quasi un uomo...
- Signor Hoffman, Stephan è un giovane molto dotato...
- Non occorre che dica queste cose, signor Ryder! La prego di non offendere la sincerità con cui le apro il mio cuore con le sue banali espressioni di cortesia! Non sono uno stupido, lo vedo anch'io di che pasta è fatto Stephan. Per un po' ha rappresentato la mia unica speranza, è vero, ma da quando ho capito che non c'era niente da fare, e sinceramente credo di averlo capito almeno sei o sette anni fa, ebbene, da allora ho cercato di aggrapparmi a Christine praticamente giorno per giorno. Mi si può forse biasimare? Le dicevo, senti, aspetta almeno la prossima manifestazione che sto organizzando. Aspetta che sia conclusa, forse dopo mi vedrai sotto una luce diversa. E, passata quella manifestazione, subito le dicevo, no, aspetta, sto organizzando qualcos'altro, una manifestazione magnifica, ci sto già lavorando. Ti prego aspetta ancora quella. $è così che me la sono cavata negli ultimi sei o sette anni, signor Ryder. E so che questa sera è la mia ultima opportunità. Su questo concerto ho puntato tutto. Quando ne ho parlato a Christine l'anno scorso, quando le ho esposto per la prima volta il progetto della serata, descrivendo a grandi linee tutti i particolari, la disposizione dei tavoli, il programma, accennando persino, se mi permette, al fatto che lei, o qualcun altro di comparabile fama, avrebbe accettato l'invito e sarebbe stato al centro della serata, sì, quando per la prima volta le ho spiegato tutto ciò, quando le ho spiegato che grazie a £me, a quella mediocrità cui era incatenata da così tanto tempo, sì, proprio grazie a me, il signor Brodsky avrebbe conquistato i cuori e la fiducia dei nostri concittadini e, sull'onda di questa grandiosa serata, avrebbe capovolto la situazione della città, eh, eh! le assicuro, signor Ryder, che Christine mi ha guardato come per dire: «Ci risiamo». Ma nei suoi occhi ho visto anche un lampo. Un lampo che significava: «Forse ce la farai davvero. Sarebbe già qualcosa». Sì, solo un lampo, ma sono questi lampi che mi hanno dato la forza di continuare per così tanto tempo. Oh, eccoci arrivati, signor Ryder.
Ci eravamo fermati in una piazzola di fianco a un campo di erba alta.
- Signor Ryder, - disse Hoffman. - Sono un po' in ritardo. Se non sono troppo scortese, le chiederei di salire da solo fino all'annesso.
Seguendo il suo sguardo, vidi che il campo si inerpicava su per il fianco di una collina, sulla cui sommità c'era una piccola capanna di legno. Hoffman frugò nel vano portaoggetti e tirò fuori una chiave.
- Troverà un lucchetto sulla porta della capanna. L'edificio non è lussuoso, ma l'isolamento è garantito, proprio come mi ha chiesto. Il pianoforte è un ottimo strumento, simile ai Bechstein prodotti negli anni Venti.
Guardai di nuovo la cima della collina, poi dissi: - Quella capanna lassù?
- Tornerò a prenderla fra due ore, signor Ryder. Sempre che non desideri una macchina prima.
- Due ore vanno bene.
- Allora mi auguro che trovi tutto di suo gradimento -. Hoffman accennò con la mano in direzione della capanna, come per indicarmi gentilmente la strada, ma nel suo gesto notai una traccia di impazienza. Lo ringraziai e scesi dall'automobile.
25.
Aprii un cancello sprangato e seguii un sentiero che saliva fino alla piccola capanna di legno. In principio il prato era stranamente fangoso, ma più in alto il terreno si rassodò. A metà cammino, mi voltai indietro e vidi che la strada faceva una lunga curva attraverso i campi coltivati. Scorsi anche il tetto di una macchina, molto probabilmente quella di Hoffman, che si perdeva in lontananza.
Quando giunsi alla capanna e girai la chiave nel lucchetto arrugginito della porta ero un po' senza fiato. Da fuori la capanna era identica a una baracca per gli attrezzi da giardinaggio, ma fui sorpreso di scoprire che anche all'interno era completamente spoglia. Le pareti e il pavimento erano di assi grezze, alcune delle quali si erano incurvate. Nelle fessure tra l'una e l'altra vidi strisciare qualche insetto; dalle travi del soffitto pendevano i resti di vecchie ragnatele. Gran parte dello spazio era occupato da un pianoforte verticale dall'aspetto un po' sudicio; quando tirai fuori lo sgabello e mi sedetti, mi accorsi che la mia schiena toccava quasi la parete alle mie spalle.
Quella parete era anche la sola ad avere una finestra; girandomi sullo sgabello e allungando il collo, vidi che dava sul ripido prato che scendeva giù fino in strada. Il pavimento della capanna era un po' inclinato, e quando mi voltai di nuovo verso il pianoforte ebbi la sgradevole sensazione di essere sul punto di scivolare all'indietro lungo il pendio. Tuttavia, quando aprii il coperchio e provai qualche accordo, scoprii che il pianoforte aveva un ottimo suono. Soprattutto le note basse erano piacevolmente piene. La meccanica non era troppo leggera, e lo strumento era accordato alla perfezione. Pensai persino che il legname grezzo della capanna fosse stato accuratamente scelto per offrire il giusto equilibrio fra assorbimento e riflessione. Se si esclude un lieve cigolio ogni volta che schiacciavo il pedale di risonanza, non potevo proprio lamentarmi.
Dopo essermi concentrato un breve istante per raccogliere le idee, attaccai il vertiginoso inizio di vAmianto e fibra.v Poi, mentre il primo movimento si placava entrando nella sua fase più riflessiva, cominciai a distendermi, tanto che alla fine mi accorsi di averlo suonato quasi tutto a occhi chiusi.
Al principio del secondo movimento riaprii gli occhi e vidi che il sole del pomeriggio inondava la finestra alle mie spalle, proiettando nitidamente la mia ombra sulla tastiera. Neppure le difficoltà del secondo movimento, però, riuscirono a infrangere la mia calma. Anzi, mi accorsi di dominare perfettamente ogni singola dimensione del componimento. Ricordai come mi ero lasciato prendere dall'ansia nel corso della giornata e mi sentii uno sciocco. Inoltre, ora che mi trovavo nella parte centrale del pezzo, mi parve inconcepibile che mia madre potesse restare insensibile a quella musica. Di fatto, non c'era ragione al mondo perché non dovessi guardare con la massima fiducia al concerto di quella sera.
Fu mentre affrontavo la sublime malinconia del terzo movimento che mi accorsi di un rumore di sottofondo. Sulle prime pensai che fosse legato al pedale di sordina, poi che dipendesse dal pavimento. Era un rumore debole, ritmico, che andava e veniva, e per un po' cercai di non farvi caso. Ma il rumore continuava a ripresentarsi, finché, durante i passaggi in pianissimo a metà del movimento, mi resi conto che qualcuno stava scavando non lontano dalla capanna.
La scoperta che il rumore non dipendeva da me mi permise di ignorarlo più facilmente; continuai così a suonare il terzo movimento, godendomi la naturalezza con cui i nodi di sentimento salivano languidamente a sciogliersi in superficie. Richiusi gli occhi, e dopo un attimo cominciai a immaginare il volto dei miei genitori, seduti l'uno accanto all'altro, intenti ad ascoltare con solenne concentrazione. Stranamente non me li figurai in una sala da concerto, come sapevo che li avrei visti quella sera, ma nel salotto di una nostra vicina di casa del Worcestershire, una certa signora Clarkson, una vedova con la quale mia madre aveva intrattenuto per un certo periodo rapporti di amicizia. Forse era stata l'erba alta fuori della capanna che mi aveva fatto ripensare a lei. La sua casetta, come la nostra, era circondata da un campicello, e naturalmente, essendo sola, la signora Clarkson non riusciva in alcun modo a tenere a bada l'erba. Dentro casa sua, invece, regnava un ordine impeccabile. In un angolo del soggiorno c'era un pianoforte, che non ricordavo di avere mai visto con il coperchio sollevato. Per quel che ne sapevo, lo strumento poteva essere scordato o rotto. Mi tornò però alla mente una volta in cui, seduto in quella stanza con la tazza del tè sulle ginocchia, avevo ascoltato in silenzio i miei genitori e la signora Clarkson che chiacchieravano di musica. Forse mio padre le aveva semplicemente chiesto se non suonasse mai il suo pianoforte, perché sicuramente la musica non era un argomento di conversazione abituale con la signora Clarkson. In ogni caso, senza una spiegazione logica, mentre lì, in quella capanna di legno, entravo nel cuore del terzo movimento di vAmianto e fibra,v mi tolsi questa soddisfazione: finsi di essere di nuovo dalla signora Clarkson, e che mio padre, mia madre e la padrona di casa, con volto serio, mi ascoltassero suonare il pianoforte nell'angolo del soggiorno, mentre la tendina di pizzo minacciava di sbattere sulla mia faccia nella brezzolina estiva.
Mentre mi avvicinavo alle battute finali del terzo movimento, il rumore della pala fuori della capanna si fece di nuovo strada nella mia coscienza. Non avrei saputo dire se fosse cessato per un po' e ricominciato allora oppure se fosse andato avanti per tutto il tempo, ma ora mi sembrava molto più intenso di prima. All'improvviso capii che a produrre quel rumore non poteva essere che Brodsky, intento a seppellire il suo cane. Mi ricordai che quella mattina il musicista aveva manifestato più di una volta la sua intenzione di seppellire l'animale proprio quel giorno; avevo persino la vaga sensazione di avere acconsentito a suonare il piano durante la cerimonia funebre.
Cominciai a immaginare almeno in parte ciò che doveva essere successo prima del mio arrivo alla capanna. Presumibilmente, Brodsky era giunto un po' in anticipo e si era appostato subito dietro la cima della collina, a un tiro di sasso dalla baracca di legno, dove c'era una macchia d'alberi e il terreno faceva un avvallamento. Era rimasto lì in silenzio, dopo avere appoggiato la pala al tronco di un albero; accanto a lui, quasi interamente nascosto dall'erba, c'era il cadavere del cane avviluppato in un lenzuolo. Come mi aveva detto quella mattina, aveva in mente una cerimonia semplice, che doveva essere abbellita solo dal mio accompagnamento al pianoforte; era dunque comprensibile che non avesse voluto dare il via alle esequie prima del mio arrivo. Così aveva aspettato, forse un'ora, contemplando il cielo e il panorama.
Sulle prime, com'era naturale, Brodsky aveva rivisitato i ricordi del suo defunto compagno. Ma con il passare dei minuti, visto che non comparivo ancora, i suoi pensieri erano andati alla signorina Collins e al loro prossimo appuntamento al cimitero. Presto alla sua memoria si era riaffacciato il ricordo di una mattina di primavera di molti anni prima, in cui lui aveva preso due poltroncine di vimini e le aveva portate fuori nel prato dietro casa. L'episodio era successo non più di quindici giorni dopo il loro arrivo in città. Nonostante fossero al verde, la signorina Collins si era data da fare con notevole energia per arredare la loro nuova abitazione. Quella mattina era scesa a colazione e aveva espresso il desiderio di fare un riposino al sole e all'aria fresca.
Ripensando a quel giorno, Brodsky si era accorto di ricordare vividamente come l'erba fosse gialla e bagnata e il sole alto nel cielo mentre sistemava le poltroncine l'una accanto all'altra. La signorina Collins era uscita di casa un momento dopo. Si erano seduti ed erano rimasti insieme per un po', scambiandosi qualche tranquilla osservazione. Per un attimo, quella mattina, dopo mesi e mesi, Brodsky aveva avuto la sensazione che il futuro, in fondo, potesse ancora riservare loro qualcosa. Era stato sul punto di esprimere questo pensiero, ma subito dopo, temendo di risollevare il delicato argomento dei suoi recenti fiaschi, aveva cambiato idea.
Poi la signorina Collins aveva detto quella cosa a proposito della cucina: visto che lui, sebbene avesse promesso di farlo da giorni, si ostinava a non portare via i pannelli di truciolato, non c'era nessuna speranza che la cucina facesse progressi. Dopo qualche istante di silenzio Brodsky aveva risposto pacatamente che nella rimessa aveva una montagna di cose da fare. Dal momento che non riuscivano a stare insieme due minuti senza diventare sgradevoli, tanto valeva che si mettesse subito al lavoro. Poi si era alzato e aveva attraversato il pianterreno per andare nella piccola rimessa davanti a casa. Nessuno dei due aveva alzato la voce, e l'intero litigio era durato non più di qualche secondo. Sulle prime Brodsky aveva dato poca importanza all'episodio e si era concentrato quasi subito sui suoi progetti di falegnameria. Un paio di volte, nel corso della mattina, aveva sollevato gli occhi e, attraverso la polverosa finestra della rimessa, aveva visto la moglie vagolare sfaccendata per il cortile. Aveva continuato a lavorare, quasi sicuro di vederla comparire sulla soglia, ma ogni volta la signorina Collins tornava in casa. Brodsky era rientrato per il pranzo - un po' tardi, effettivamente - e aveva scoperto che la moglie aveva già mangiato ed era sparita al piano di sopra. Aveva aspettato per un po', poi, tornato nella rimessa, aveva continuato a lavorare per tutto il pomeriggio. Al calar delle tenebre aveva visto accendersi le finestre, e verso mezzanotte era finalmente rincasato.
L'intero pianterreno era immerso nell'oscurità. Brodsky era andato in soggiorno e si era seduto su una sedia di legno. Contemplando alla luce della luna i loro mobili sgangherati, aveva pensato alla strana piega presa dalla giornata. Non ricordava che avessero mai passato un giorno intero trattandosi in quel modo e, risoluto a chiudere la giornata su una nota migliore, si era alzato in piedi ed era salito su per le scale.
Giunto sul pianerottolo, aveva visto che in camera loro la luce era ancora accesa. Mentre si avvicinava, il pavimento di legno aveva scricchiolato rumorosamente sotto i suoi piedi, annunciando il suo arrivo non meno chiaramente che se avesse chiamato la moglie ad alta voce. Davanti alla stanza si era fermato e, fissando la striscia di luce sotto la porta, aveva cercato di farsi coraggio. Poi, proprio mentre allungava la mano verso la maniglia, dall'altra parte della porta era giunto un colpo di tosse. Nient'altro che un colpetto, quasi sicuramente involontario, eppure in quella tossetta c'era qualcosa che lo aveva bloccato e gli aveva fatto ritrarre la mano. Qualcosa che gli aveva ricordato un lato della moglie che ultimamente era riuscito a scacciare di mente; un lato del suo carattere che in tempi più felici aveva molto ammirato, ma che dopo la £débâcle da cui erano appena fuggiti - se ne accorgeva solo ora - aveva cercato di ignorare con crescente determinazione. In qualche modo, quel colpetto di tosse era l'epitome del suo perfezionismo, della sua magnanimità, di quella parte di lei che si chiedeva in continuazione se stesse impiegando le proprie energie nel modo più utile. All'improvviso Brodsky aveva provato un'immensa irritazione nei confronti della moglie, per quel colpetto di tosse, per la piega presa da quella giornata; aveva fatto dietrofront e se ne era andato, incurante che il pavimento di legno scricchiolasse sotto i suoi piedi. Poi, tornato nell'oscurità screziata del soggiorno, si era sdraiato sul vecchio divano coprendosi con un soprabito e si era addormentato.
La mattina dopo si era svegliato presto e aveva preparato colazione per tutti e due. La moglie era scesa alla solita ora, e lo scambio di saluti era avvenuto in maniera non sgarbata. Brodsky aveva cominciato a esprimere il suo rincrescimento per quel che era successo, ma lei gli aveva impedito di continuare, dicendo che si erano comportati tutti e due in modo incredibilmente infantile. Avevano fatto colazione, chiaramente soddisfatti di essersi messi il litigi spalle. Ma per il resto della giornata, anzi, per parecchi dei giorni seguenti, era rimasta un'ombra di gelo. E mesi più tardi, quando i periodi di silenzio tra loro erano diventati sempre più lunghi e frequenti, Brodsky aveva incominciato a chiedersi quale fosse la loro origine, e ogni volta i suoi pensieri tornavano a quel giorno di primavera, a quella mattina nata sotto i migliori auspici, quando si erano seduti a fianco a fianco sull'erba bagnata.
Mentre Brodsky era perso in questi ricordi, io ero finalmente arrivato nella capanna e mi ero messo a suonare. Per parecchie battute, Brodsky aveva continuato a fissare il vuoto con aria assente. Poi, con un sospiro, aveva rivolto di nuovo la mente al compito che lo attendeva e aveva preso la pala. Ma dopo avere saggiato il terreno con il ferro, si era subito fermato, forse perché lo spirito della musica non gli sembrava ancora quello giusto. Aveva cominciato a scavare solo quando ero giunto alla lenta malinconia del terzo movimento. Il terreno era soffice e non gli aveva dato problemi. Poi, senza tante storie, Brodsky aveva trascinato il cadavere del cane attraverso l'erba alta e l'aveva deposto nella fossa; non aveva nemmeno avuto la tentazione di sollevare il lenzuolo per dargli m'ultima occhiata. Aveva già cominciato a coprirlo di terra con la pala quando qualcosa, forse la tristezza di quella musica che aleggiava nell'aria giungendo fino a lui, lo aveva costretto a interrompersi. Raddrizzando la schiena, Brodsky si era concesso qualche tranquillo momento di contemplazione davanti alla tomba riempita a metà. Solo verso la fine aveva ripreso a spalare.
Giunto al termine del terzo movimento, sentii che Brodsky stava ancora lavorando e decisi di tralasciare il movimento finale, che mi sembrava poco adatto per l'occasione, e di ricominciare da capo il terzo. Era il minimo che potessi fare, dopo averlo costretto ad aspettare così a lungo. Il rumore della pala continuò ancora per un po', poi cessò di colpo quando mi restava da suonare quasi la metà del movimento. Non era un male, mi dissi, perché Brodsky avrebbe avuto modo di restare ancora per qualche istante solo con i suoi pensieri davanti alla tomba. Mi accorsi addirittura che, rispetto alla precedente esecuzione, stavo dando maggior enfasi alle sfumature elegiache del pezzo.
Giunto di nuovo in fondo al movimento, rimasi immobile al pianoforte per parecchi minuti; poi mi alzai e mi stirai le membra nel poco spazio a disposizione. Il sole pomeridiano inondava la capanna, e dal prato vicino mi giungeva il rumore dei grilli. Dopo un po' mi venne in mente che forse avrei fatto bene a uscire per dire qualche parola a Brodsky.
Quando spinsi la porta e guardai fuori, rimasi sorpreso vedendo come il sole si fosse già abbassato sulla strada che correva in pianura. Qualche passo nell'erba alta mi riportò sul sentiero, e in breve giunsi sulla sommità della collina. Vidi che dall'altra parte il terreno digradava dolcemente in una valle deliziosa. Brodsky era poco più giù, accanto alla tomba, sotto una macchia di alberi dal tronco sottile.
Mentre scendevo verso di lui, non si girò, ma in tono tranquillo, senza staccare gli occhi dalla tomba, disse: - Grazie, signor Ryder. $è stato magnifico. Le sono riconoscente, molto riconoscente.
Mormorai qualcosa e mi fermai nell'erba a rispettosa distanza dal sepolcro. Brodsky tenne ancora per un po' gli occhi bassi, poi disse:
- Era solo un vecchio animale. Ma volevo della musica sublime. Le sono molto riconoscente.
- Si figuri, signor Brodsky. Per me è stato un piacere.
Brodsky sospirò e finalmente si voltò verso di me. - Sa, non riesco a piangere per Bruno. Ci ho provato, ma non ci riesco. La mia mente è tesa al futuro. E a volte sguazza nel passato. Mi riferisco, come può immaginare, alla mia vita coniugale. Ma adesso andiamo, signor Ryder. Lasciamo Bruno nella sua tomba -. Brodsky si girò e si avviò lentamente giù per il pendio. - $è giunto il momento di andare. Addio, Bruno, addio. Sei stato un buon amico, ma eri solo un cane. Lasciamolo, signor Ryder. Venga con me. Lasciamolo nella sua tomba. $è stato gentile a suonare per lui. Una musica sublime. Ma adesso non riesco a piangere. La signorina Collins sta per arrivare. Sarà lì a momenti. La prego, venga con me.
Guardai di nuovo la valle che si stendeva sotto di noi e solo allora notai che era interamente coperta di lapidi. Capii che eravamo diretti al cimitero dove Brodsky aveva dato appuntamento alla signorina Collins. E a conferma di ciò, mentre lo raggiungevo e mi mettevo al suo fianco, lo sentii dire:
- La tomba di Per Gustavsson. $è lì che dobbiamo trovarci. Non c'è una ragione precisa. Ma mi ha detto che la conosce anche lei. La aspetterò lì, non m'importa se dovrò aspettare.
Per un po' avevamo camminato nell'erba alta, ma ora avevamo trovato un viottolo, e mentre scendevamo lungo il fianco della collina cominciai a distinguere meglio il cimitero. Era un luogo tranquillo e appartato. Le lapidi erano disposte in file ordinate sul fondo della valle; alcune risalivano i pendii erbosi ai due lati. Notai che proprio in quel momento era in corso un funerale; sulla nostra sinistra, illuminate dal sole, vedevo le figurine nere dei familiari del defunto, una trentina di persone in tutto.
- Spero proprio che le vada bene, - dissi. - Mi riferisco al suo appuntamento con la signorina Collins, naturalmente.
Brodsky scosse il capo. - Questa mattina ero su di morale. Pensavo che sarebbe bastato parlarci per sistemare le cose. Ma adesso non ne sono più così sicuro. Forse quel tizio che c'era questa mattina, sa, quel suo amico, ha ragione. Forse la signorina Collins non potrà mai più perdonarmi. Forse ho esagerato e non mi perdonerà mai più.
- Sono sicuro che non è il caso di essere così pessimisti, - dissi. - Qualunque cosa sia successa, ormai appartiene al passato. Se solo riusciste...
- Per tutti questi anni, signor Ryder, - continuò Brodsky, - non ho mai veramente accettato quello che avevano detto di me. Nel mio intimo non ho mai creduto di essere una... una nullità. Forse razionalmente, sì, accettavo il loro giudizio. Ma nel mio cuore, no, non ci ho mai creduto. Nemmeno un istante, in tutti questi anni. Perché io sentivo la musica, continuavo a sentirla. Quindi sapevo di valere di più di quanto dicessero gli altri. E per un po', dopo che ci siamo trasferiti qui, ne era convinta anche lei, ne sono sicuro. Poi però ha cominciato a dubitare. E chi può darle torto? Non ce l'ho con lei perché se ne è andata. No, nel modo più assoluto. Ma non le perdono, questo no, di non averne approfittato. Sì, avrebbe dovuto sfruttare meglio l'occasione! Io ho fatto in modo che mi odiasse; riesce a immaginare che cosa mi è costato? Le ho reso la sua libertà, e lei? Niente. Non se ne è nemmeno andata da questa città, ha sprecato il suo tempo e basta. Con questa £gente, queste persone smidollate e inutili con cui parla tutto il giorno. Ah, se avessi saputo che si sarebbe limitata a questo! $è doloroso, signor Ryder, allontanare da sé qualcuno che si ama. Crede forse che l'avrei fatto? Crede che mi sarei trasformato in una simile bestia se avessi saputo che nella sua vita non avrebbe fatto altro? Ah, la gente smidollata e infelice con cui parla! Una volta era una donna che si prefiggeva le mete più alte. Ambiva a grandi cose. Proprio così. E guardi come ha sprecato tutto. Non ha nemmeno lasciato la città. C'è da stupirsi se di tanto in tanto inveivo contro di lei? Se non aveva intenzione di fare altro, perché non me l'ha detto allora? Crede che sia uno scherzo, uno scherzo da niente, trasformarsi in un accattone ubriaco? La gente pensa: è sempre sbronzo, che cosa vuoi che gliene importi. Ma non è così. A volte tutto diventa chiaro, chiarissimo, e allora... e allora è spaventoso, signor Ryder, se ne rende conto? Quella donna non ha mai approfittato dell'occasione che le ho dato. Non ha nemmeno lasciato la città. Non ha fatto altro che parlare e parlare con questa gente smidollata. Le urlavo dietro. Mi può forse dare torto? Se lo meritava. Si meritava ogni cosa che le dicevo, fino all'ultimo lurido insulto, tutto...
- Signor Brodsky, la prego. Le sembra il modo di prepararsi a un incontro così importante?
- Pensava forse che ci provassi gusto, quella là? Che lo facessi per divertimento? Nessuno mi costringeva. Lo vede anche lei, signor Ryder, che quando voglio smettere di bere ci riesco. E quella là pensa che lo facessi per scherzo?
- Signor Brodsky, non voglio intromettermi. Ma credo che sia venuto il momento di seppellire questi pensieri per sempre. Dovete dimenticare ogni dissapore, ogni malinteso. Sforzarvi di sfruttare al massimo ciò che resta della vostra vita. La prego, cerchi di calmarsi. Non le conviene incontrare la signorina Collins in questo stato d'animo; sono sicuro che più tardi se ne pentirebbe. Anzi, lasci che le dica che ha fatto benissimo, finora, a parlarle soprattutto del futuro. La sua idea di prendere un animale mi sembra ottima. Sono convinto che deve battere su questo tasto, o su cose analoghe. Non serve a niente rivangare il passato. E poi il futuro si preannuncia sotto i migliori auspici. Per quel che mi riguarda, questa sera intendo fare il possibile perché lei venga accettato dalla gente di questa città...
- Oh, sì, signor Ryder! - L'umore di Brodsky sembrava improvvisamente cambiato. - Sì, sì, sì. Questa sera... sì, questa sera farò... farò faville!
- Questo è lo spirito giusto, signor Brodsky.
- Questa sera non scenderò a compromessi, nel modo più assoluto. Sì, è vero, mi hanno braccato, mi sono arreso, siamo scappati via per venire qui. Ma in cuor mio non ho mai veramente capitolato. Sapevo che non mi era stata data una vera opportunità. E finalmente questa sera... Ho aspettato per anni questo momento, e non scenderò a compromessi. L'orchestra non ha nemmeno idea di come la strapazzerò. Signor Ryder, non so come ringraziarla. Lei mi ha dato l'ispirazione. Fino a questa mattina avevo paura. Paura di questa sera, paura di quello che sarebbe potuto succedere. Ti conviene essere cauto, pensavo. Hoffman e tutti gli altri mi dicevano: sii prudente, non strafare. Vacci piano soprattutto all'inizio. Così mi dicevano. Conquistali poco per volta. Ma questa mattina ho visto la sua fotografia sul giornale, con il monumento di Sattler. E mi sono detto: è così che si fa! $è così che si fa! Vai, vai sino in fondo! Non tenerti dentro nulla! Quegli orchestrali strabilieranno! Strabilieranno anche gli abitanti di questa città. Sì, vai sino in fondo! Così anche lei aprirà gli occhi. E finalmente vedrà chi sei, chi sei sempre stato! Il monumento di Sattler, ecco quello che ci voleva!
Il terreno, ormai, si era fatto pianeggiante, e noi stavamo camminando lungo il viottolo erboso che tagliava a metà il cimitero. Sentendo muovere alle mie spalle, voltai la testa e vidi che uno dei partecipanti al funerale correva verso di noi facendoci grandi gesti. Quando fu più vicino, notai che era un uomo di circa cinquant'anni, scuro di capelli e piuttosto robusto.
- Signor Ryder, che onore, - mi disse ansimando quando mi girai verso di lui. - Sono il fratello della vedova. Mia sorella sarebbe felicissima se lei si unisse a noi.
Guardando nella direzione che mi stava indicando, vidi che eravamo molto vicini al funerale; la brezza mi portava addirittura un suono di singhiozzi disperati.
- Da questa parte, la prego, - disse l'uomo.
- Ma non crede che in un momento come questo...
- No, no, la prego. Mia sorella, tutti, ne saremmo onoratissimi. La prego, da questa parte.
Un po' riluttante, lo seguii. Mentre avanzavamo tra le lapidi, il terreno divenne acquitrinoso. Inizialmente non riuscii a individuare la vedova in mezzo alle schiene curve e scure, ma quando raggiungemmo il gruppo la vidi in prima fila, china sulla fossa ancora aperta. Il suo dolore sembrava così immenso che non mi sarei stupito se si fosse buttata sulla bara. Forse proprio per scongiurare questa eventualità, un vecchio signore con i capelli bianchi la teneva saldamente per un braccio e una spalla. Dietro di loro, la maggior parte dei presenti singhiozzava con afflizione apparentemente sincera; ciò nonostante, i gemiti angosciati della vedova si udivano in maniera chiara e distinta - grida lente e spossate, eppure di una sconvolgente potenza, quali avrebbe potuto lanciare la vittima di una tortura prolungata. Quel suono mi mise voglia di scappare, ma il mio accompagnatore stava ormai facendomi segno di avvicinarmi alla prima fila. Vedendo che non mi muovevo, mi bisbigliò con voce tutt'altro che sommessa:
- Signor Ryder, la prego.
Queste parole ci attirarono qualche occhiata.
- Da questa parte, signor Ryder.
L'uomo robusto mi prese per il braccio e cominciò a trascinarmi attraverso la piccola folla. Al nostro passaggio, parecchie facce si girarono verso di me; udii almeno due voci mormorare: - $è il signor Ryder -. Quando finalmente sbucammo in prima fila, i singhiozzi si erano in gran parte placati. Sentivo molti occhi puntati sulla mia schiena. Assunsi un atteggiamento compito e silenzioso, pur con la fastidiosa consapevolezza di indossare una giacca sportiva verde chiaro e di non avere nemmeno la cravatta. Come se non bastasse, portavo una camicia con un vivace disegno giallo e arancio. Mi abbottonai in tutta fretta la giacca, mentre l'uomo robusto cercava di attirare l'attenzione della vedova.
- Eva, - stava dicendo in tono gentile. - Eva.
Il signore dai capelli bianchi si girò a guardarci, ma la vedova non diede segno di avere udito. Rimase sprofondata nella sua angoscia, lanciando ritmicamente i suoi gemiti sulla tomba. Il fratello si voltò verso di me con evidente imbarazzo.
- La prego, - sussurrai, cominciando a indietreggiare, - le farò le mie condoglianze un po' più tardi.
- No, no, signor Ryder. Un momento solo -. L'uomo posò una mano sulla spalla della sorella e ripeté, questa volta in tono spazientito: - Eva. Eva.
La vedova si raddrizzò e finalmente, dominando i singhiozzi, si girò verso di noi.
- Eva, - disse il fratello. - C'è il signor Ryder.
- Il signor Ryder?
- Le mie più sentite condoglianze, signora, - dissi, chinando il capo solennemente.
La vedova continuava a fissarmi.
- Eva! - sibilò il fratello.
La donna sussultò, si girò verso il fratello, poi di nuovo verso di me.
- Signor Ryder, - disse, con voce sorprendentemente composta, - quale onore. Hermann - fece un gesto verso la tomba - è un suo grande ammiratore -. Ma all'improvviso fu sopraffatta dai singhiozzi.
- Eva!
- Signora, - mi affrettai a dire, - sono qui solo per porgerle le mie più sentite condoglianze. Mi spiace moltissimo. Ma ora la prego, e anche voi, permettetemi di lasciarvi al vostro dolore...
- Signor Ryder, - disse la vedova, e mi accorsi che aveva riacquistato la padronanza di sé. - Questo è un vero onore. Sono sicura che tutti i presenti sono d'accordo con me nell'affermare che ci sentiamo immensamente, profondamente lusingati.
Alle mie spalle si levò un mormorio d'assenso.
- Signor Ryder, - continuò la donna, - come procede il suo soggiorno nella nostra città? Qualcosa di bello l'avrà trovato anche qui, spero.
- Oh, meglio di così non potrebbe andare. Sono tutti gentilissimi con me. Una comunità incantevole. Mi spiace molto per... per la dipartita.
- Le farebbe piacere un po' di merenda? Magari una tazza di tè o di caffè?
- No, no, davvero, la ringrazio...
- Si fermi almeno a bere qualcosa con noi. Oh, cielo, non c'è nessuno che abbia portato del tè, o del caffè? Niente? - La vedova scrutò attentamente la piccola folla.
- Grazie, gliel'assicuro, non avevo intenzione di interrompervi. Vi prego, continuate quello... quello che stavate facendo.
Ma dobbiamo assolutamente offrirle qualcosa. Non c'è proprio nessuno che abbia un thermos di caffè?
Sentii alle mie spalle molte voci che si consultavano a vicenda; quando mi voltai, parecchie persone stavano rovistando nelle borse o frugandosi in tasca. L'uomo robusto fece segno a qualcuno in fondo al gruppo, e un attimo dopo gli venne passato un involto. Mentre lo esaminava, vidi che si trattava di una fetta di torta avviluppata nel cellofan.
- Non c'è niente di meglio? - gridò il mio accompagnatore. - Che cos'è questa roba?
Dietro di me c'era gran fermento. In particolare, una voce arrabbiata stava domandando: - Otto, dove hai messo quel formaggio? - Alla fine qualcuno porse un pacchetto di mentini all'uomo robusto. Quest'ultimo lanciò uno sguardo furente alla piccola folla, poi si girò e porse la torta e i mentini alla sorella.
- Grazie, siete molto gentili, - dissi, - ma sono qui solo per...
- Signor Ryder, - esordì la vedova, con voce commossa, - a quanto pare non abbiamo altro da offrirle. Non oso pensare a che cosa avrebbe detto Hermann. Una simile vergogna proprio il giorno del suo funerale. Ma non c'è niente da fare, posso solo chiederle scusa. Guardi, questo è tutto, tutto ciò che abbiamo da offrirle in segno di ospitalità.
Le voci alle mie spalle, che avevano taciuto non appena la vedova aveva cominciato a parlare, esplosero in una babele di litigi. Udii qualcuno gridare: - Non è vero! Non ho detto niente del genere!
Poi il signore dai capelli bianchi che in precedenza aveva sorretto la vedova sull'orlo della tomba fece un passo avanti e mi rivolse un inchino.
- Signor Ryder, - disse, - ci perdoni per la misera accoglienza con cui ricambiamo questo grande onore. Come vede ci trova deprecabilmente impreparati. Le posso però assicurare che tutti, qui, le siamo profondamente grati. La prego, accetti lo spuntino, per quanto inadeguato.
- Signor Ryder, venga qui, si sieda per piacere -. La vedova stava passando un fazzoletto sulla liscia superficie di una tomba di marmo accanto a quella del marito. - La prego.
Capii che ormai una ritirata era fuori discussione. Mi avvicinai con aria contrita alla tomba che la vedova aveva pulito per me e dissi: - Siete tutti così gentili.
Non appena mi fui seduto sulla pallida lastra di marmo, ebbi l'impressione che tutti i conoscenti del defunto avanzassero di un passo facendo cerchio intorno a me.
- La prego, - disse di nuovo la vedova. Era in piedi accanto a me e stava strappando il cellofan che avviluppava la torta. Quando finalmente riuscì ad aprire l'involto, me lo porse. La ringraziai e cominciai a mangiare. La torta era alla frutta, e dovetti mettere ogni cura per evitare che mi si sbriciolasse fra le mani. Inoltre, la fetta era assai generosa, non una cosetta da divorare in due bocconi. Mentre mangiavo, ebbi la sensazione che il cerchio di persone intorno a me continuasse a stringersi, ma quando alzai gli occhi vidi tutti immobili, con gli occhi rispettosamente bassi. Per un po' regnò il silenzio, poi l'uomo robusto tossì e disse:
- Bella giornata.
- Sì, molto bella, - risposi, anche se avevo la bocca piena. - Davvero molto bella.
Il vecchio signore dai capelli bianchi fece un passo avanti e disse: - Nei dintorni della nostra città ci sono delle magnifiche passeggiate, signor Ryder. Splendide passeggiate agresti a pochi minuti dal centro. Se le avanza un'ora, sarei felicissimo di fargliene conoscere una.
- Signor Ryder, gradisce un mentino?
La vedova mi teneva il pacchetto aperto sotto il naso. La ringraziai e mi misi in bocca una caramella alla menta, pur sapendo che il suo sapore avrebbe fatto a pugni con la torta.
- Quanto alla città, - stava dicendo il signore dai capelli bianchi, - per poco che le interessi l'architettura medievale, ci sono case che troverebbe immensamente affascinanti. Soprattutto nella città vecchia. Sarò felicissimo di farle da guida.
- Grazie, - dissi, - davvero gentile.
Continuai a mangiare, ansioso di finire la torta il più in fretta possibile. Vi fu un altro silenzio, poi la vedova sospirò e disse:
- $è venuto bello.
- Sì, - dissi, - da quando sono qui il tempo è splendido.
La mia affermazione fu accolta da un mormorio di approvazione; qualcuno rise persino educatamente, come se avessi fatto una battuta. Mi ficcai ciò che restava della torta in bocca e mi spazzolai le mani per togliere le briciole.
- Sentite, - dissi, - siete molto gentili. Ma ora, vi prego, continuate la cerimonia.
- Un altro mentino, signor Ryder. Non abbiamo altro da offrirle -. La vedova mi cacciò di nuovo il pacchetto sotto il naso.
In quel preciso istante mi accorsi che la vedova provava nei miei confronti un odio viscerale. Anzi, mi resi conto che, per quanto si comportassero con educazione, quasi tutti i presenti - compreso l'uomo robusto - erano profondamente infastiditi dalla mia presenza. Fatto curioso, proprio mentre questo pensiero mi attraversava la testa, una voce dal fondo, non molto forte ma chiarissima, disse:
- Che cos'ha quel tizio di tanto speciale? Siamo qui per Hermann.
Vi fu un brusio imbarazzato, e almeno due persone bisbigliarono in tono incredulo: - Chi ha parlato? - Il signore dai capelli bianchi tossì, poi disse:
- Ci sono delle passeggiate molto belle anche lungo i canali.
- Me lo dite che cos'ha di così speciale? Come si permette di interromperci!
- Chiudi il becco, idiota! - ribatté qualcuno. - Vuoi disonorarci tutti? Ti sembra questo il momento?
Parecchi dei presenti ringhiarono a sostegno di quest'ultimo intervento, ma già una seconda voce aveva cominciato a inveire in maniera aggressiva.
- Signor Ryder, la prego -. La vedova mi stava di nuovo porgendo i mentini.
- No, grazie...
- La prego. Ne prenda un altro.
In fondo alla piccola folla scoppiò un furioso litigio, che coinvolse quattro o cinque persone. Una voce stava gridando: - Ci porterà alla rovina. Con il monumento di Sattler ha superato tutti i limiti!
Poi un numero crescente di persone si mise a strepitare, e intuii che stava per esplodere una baruffa generale.
- Signor Ryder, - disse l'uomo robusto chinandosi verso di me, - la prego di ignorarli. Hanno sempre disonorato la famiglia. Sempre. Ci vergogniamo di loro. Oh, sì, ci vergogniamo. La prego di non accrescere la nostra vergogna ascoltandoli.
- Ma forse... - Feci per alzarmi, ma mi sentii ricacciare giù. Vidi allora che la vedova mi aveva afferrato per una spalla. - Si rilassi, signor Ryder, - mi disse recisamente. - E finisca il suo spuntino, per piacere.
Gli alterchi, ormai, infuriavano ovunque, ed ebbi l'impressione che verso il fondo qualcuno fosse già passato agli spintoni. La vedova continuava a trattenermi per la spalla, fissando la folla con aria di sfida.
- Me ne infischio, me ne infischio, - stava strillando una voce. - Stiamo meglio così come siamo!
Vi furono altri spintoni, poi un giovane corpulento si fece largo a gomitate e sbucò dalla calca. Aveva la faccia tonda ed era chiaramente accalorato. Mi guardò torvamente, poi gridò:
- Per lei è facile venire qui. Piantarsi davanti al monumento di Sattler! Sorridere a quel modo! Intanto poi se ne va. Ma per chi deve continuare a vivere qui non è così semplice. Il monumento di Sattler!
Il giovanotto dalla faccia tonda non sembrava il tipo di persona abituata a fare simili sparate; non c'era dubbio che i suoi sentimenti fossero sinceri. Fui preso un po' alla sprovvista, e per un momento non seppi che cosa rispondere. Poi, mentre il giovane dalla faccia tonda attaccava con un'altra raffica di accuse, sentii qualcosa spezzarsi dentro di me. Mi venne il dubbio che il giorno prima, quando avevo deciso di farmi fotografare davanti al monumento di Sattler, avessi, per qualche inesplicabile ragione, compiuto un errore di calcolo. Sul momento, questo è certo, mi era sembrato il modo più efficace per inviare un segnale adeguato agli abitanti della città. Naturalmente, ero più che consapevole dei pro e dei contro - ricordavo che la mattina, a colazione, li avevo soppesati con cura - ma ora vedevo che la faccenda del monumento di Sattler rischiava di essere più complessa di quanto avessi immaginato.
Incoraggiati dal giovane dalla faccia tonda, anche altri avevano cominciato a urlare alla mia volta. I vicini cercavano di trattenerli, ma non con la sollecitudine che sarebbe stato lecito aspettarsi. Poi, in mezzo a tutte quelle grida, udii una nuova voce, che mi parlava gentilmente da un punto alle mie spalle. Era una voce maschile, colta e calma, che mi parve vagamente familiare.
- Signor Ryder, - diceva. - Signor Ryder. Il palazzo dei concerti. Che cosa fa ancora qui? La stanno aspettando. Davvero, deve concedersi tutto il tempo per ispezionare i servizi e le condizioni...
La voce fu sommersa dal nuovo, chiassoso battibecco che era esploso davanti a me. Il giovane dalla faccia tonda mi puntò addosso un dito e cominciò a ripetere qualcosa più e più volte.
Poi, quasi all'improvviso, sulla piccola folla scese il silenzio.
Sulle prime pensai che familiari e conoscenti del defunto si fossero finalmente calmati e aspettassero che prendessi la parola. Poi però notai che il giovane dalla faccia tonda - anzi, tutti - stavano fissando un punto sopra la mia testa. Passò qualche secondo prima che mi venisse in mente di girarmi, e quando lo feci vidi che Brodsky era salito in piedi sulla tomba e mi sovrastava.
Sarà stato perché lo guardavo da sotto in su - Brodsky era leggermente chino in avanti, per cui vedevo gran parte della sua gola stagliarsi contro il vasto sfondo del cielo - ma il suo aspetto aveva qualcosa di straordinariamente imperioso. Sembrava incombere su di noi come una statua immensa, con le mani aperte sospese nell'aria. Scrutava la piccola folla più o meno come immaginavo che avrebbe fatto con un'orchestra negli ultimi secondi prima di cominciare a dirigerla. Il suo atteggiamento lasciava supporre una strana autorità sui sentimenti che un attimo prima si erano scatenati di fronte a lui, come se avesse il potere di accenderli e spegnerli a suo piacimento. Il silenzio continuò ancora per qualche istante. Poi una voce isolata urlò:
- E tu che cosa vuoi? Vecchio ubriacone!
Forse la persona sperava che il suo grido provocasse un'altra esplosione di invettive. Invece nessuno parve udirlo.
- Vecchio ubriacone! - riprovò la stessa persona, ma già la convinzione stava svaporando dalla sua voce.
Poi tornò il silenzio, e tutti puntarono gli occhi su Brodsky. Dopo un istante che parve un'eternità, Brodsky disse:
- Se è così che volete chiamarmi, fate pure. Vedremo. Vedremo chi sono davvero. Nei giorni, nelle settimane, nei mesi che verranno. Vedremo davvero se sono solo un vecchio ubriacone.
Aveva parlato senza fretta, con una tranquillità che aveva lasciato intatta l'impressione iniziale. La piccola folla continuò a fissarlo, apparentemente stregata. Poi Brodsky disse in tono affettuoso:
- Qualcuno che amavate è morto. Questo è un momento prezioso.
Sentii i lembi del suo impermeabile sfiorarmi la nuca e mi accorsi che si era chinato per tendere una mano verso la vedova.
- Questi istanti sono preziosi. Venga. Accarezzi ora la sua ferita. Se la porterà dentro per il resto dei suoi giorni. Ma la accarezzi ora, mentre è aperta e sanguinante. Venga.
Brodsky scese dalla tomba, con la mano ancora protesa verso la vedova, che gliela prese con aria sognante. Poi Brodsky le mise l'altra mano sulla schiena e cominciò a sospingerla gentilmente verso l'orlo della fossa.
- Venga, - lo sentivo dire sottovoce. - Adesso venga.
Avanzarono lentamente sul tappeto di foglie secche, finché la vedova fu di nuovo accanto alla tomba. Poi, mentre la donna, abbassati gli occhi sulla bara, ricominciava a singhiozzare, Brodsky si ritirò con discrezione, indietreggiando di un passo. Ormai anche molti dei presenti stavano di nuovo piangendo, e capii che presto ogni cosa sarebbe tornata come prima del mio arrivo. Ad ogni modo, visto che in quel momento nessuno più badava a me, ne approfittai per tagliare la corda.
Mi alzai piano piano, ed ero già riuscito ad allontanarmi di parecchie tombe quando sentii che qualcuno mi stava seguendo da vicino. Una voce disse:
- Davvero, signor Ryder, è ora che si rechi al palazzo dei concerti. Non si sa mai. Potrebbe essere necessaria qualche modifica.
Girandomi, riconobbi Pedersen, l'anziano consigliere che avevo incontrato al cinema la prima sera. Capii che la voce sommessa che avevo udito poc'anzi alle mie spalle era la sua.
- Oh, signor Pedersen, - dissi, mentre il consigliere mi raggiungeva. - Grazie per avermi ricordato il palazzo dei concerti. Le confesso che quando laggiù gli animi si sono riscaldati ho perso la nozione del tempo.
- Sì, è successo anche a me, - disse Pedersen lasciandosi sfuggire una risatina. - Anch'io ho una riunione. Non certo così importante, ma pur sempre legata alla manifestazione di questa sera.
Raggiungemmo il viottolo erboso che correva in mezzo al cimitero e ci fermammo.
- Forse può aiutarmi, signor Pedersen, - dissi, guardandomi intorno. - Ho chiesto una macchina per farmi portare al palazzo dei concerti. Dovrebbe essere già arrivata, ma non so come tornare sulla strada.
- Sarò lieto di mostrarglielo, signor Ryder. La prego di seguirmi.
Riprendemmo a camminare, allontanandoci dalla collina da cui ero sceso in compagnia di Brodsky. Il sole stava tramontando sul lato opposto della valle, e le ombre delle lapidi si erano notevolmente allungate. Almeno due volte, mentre camminavamo, ebbi l'impressione che Pedersen fosse sul punto di parlare e poi cambiasse idea. Alla fine, in modo molto schietto, gli dissi:
- Poco fa c'erano delle persone che sembravano davvero molto turbate per le fotografie che sono comparse sul giornale.
- Vede, signor Ryder, - disse Pedersen con un sospiro, - quello è il monumento di Sattler. E Max Sattler continua a suscitare intense emozioni nella gente.
- Immagino che anche lei abbia una sua opinione. Mi riferisco alle foto davanti al monumento di Sattler.
Pedersen sorrise imbarazzato e schivò il mio sguardo. - Come spiegarle? - disse alla fine. - Per chi viene da fuori è così difficile capire. Anche per un esperto del suo calibro. Non è affatto chiaro perché Max Sattler... o meglio, quell'episodio della nostra storia cittadina... abbia assunto una tale importanza per noi. Sulla carta, tutto si riduce a ben poco. E per di più è successo quasi un secolo fa. Ma vede, signor Ryder, come senza dubbio si sarà accorto, Sattler ha un'enorme presa sull'£immaginazione degli abitanti di questa città. Il suo personaggio, se vuole, è diventato mitico. Qualche volta è temuto, qualche volta aborrito. E in altri momenti la sua memoria è venerata. Come posso spiegarglielo? Proverò con un esempio. C'è un tale che conosco, un buon amico. $è avanti negli anni, ormai, ma non si può dire che abbia avuto una brutta vita. Gode di molto rispetto e svolge ancora una funzione attiva negli affari civici. No, tutt'altro che una brutta vita. Ma questo tale, di tanto in tanto, si volta a guardarla e si chiede se per caso non si sia lasciato sfuggire certe opportunità. Si chiede come sarebbero andate le cose se fosse stato... be', un po' meno timoroso. Un po' meno £timoroso e un po' più appassionato.
Pedersen proruppe in una breve risata. Il viottolo aveva fatto una lunga curva, e davanti a noi vidi il cancello di ferro nero del cimitero.
- Sa com'è, magari comincia a rimuginare, - proseguì Pedersen. - Rivive certi momenti cruciali della sua giovinezza, quando ancora non si era cementato nelle sue abitudini. Per esempio, può capitargli di ricordare quella volta in cui una donna aveva cercato di sedurlo. Naturalmente lui non gliel'aveva permesso; era una persona troppo per bene. O forse un codardo. O forse troppo giovane. Chi può sapere? E lui si chiede che cosa sarebbe successo se si fosse comportato diversamente, se avesse avuto un po' più di fiducia nel... nell'amore e nella passione. Sa com'è, signor Ryder. I vecchi talvolta si mettono a sognare, chiedendosi che cosa sarebbe successo se in certi momenti chiave della loro vita avessero imboccato un'altra strada. Ebbene, lo stesso può capitare a una città, a una comunità. Di tanto in tanto la gente si volta indietro a guardare la propria storia e si chiede: «Cosa sarebbe successo se...? Come saremmo oggi se avessimo...?» Ah, signor Ryder, se avessimo che cosa? Permesso a Max Sattler di portarci dove voleva lui? Saremmo forse diversi, oggi? Una città come Anversa? Come Stoccarda? Sinceramente credo di no, signor Ryder. Vede, certe caratteristiche di questa città sono profondamente radicate. Non cambieranno né in cinque, né in sei, né in sette generazioni. Sattler, dal punto di vista pratico, è stato irrilevante. Nient'altro che un uomo che coltivava sogni folli. Non sarebbe mai riuscito a cambiare nulla in maniera sostanziale. Esattamente come questo mio amico. $è fatto così com'è. Nessuna esperienza, per quanto cruciale, avrebbe potuto cambiarlo. Eccoci, signor Ryder. Scendendo quegli scalini, arriverà sulla strada.
Eravamo passati attraverso gli alti cancelli di ferro del cimitero e ci trovavamo in un grande giardino all'inglese molto ben tenuto. Pedersen stava indicando una siepe alla mia sinistra, dietro la quale vedevo alcuni gradini di pietra che sparivano verso il basso compiendo una curva. Esitai un momento, poi dissi:
- Signor Pedersen, lei è troppo educato. Le assicuro che, quando mi viene il sospetto di avere compiuto un errore di valutazione, non sono il tipo che scappa a nascondersi. Tra l'altro, una persona nella mia posizione deve imparare ad accettare queste cose. Vede, nel corso delle mie giornate sono costretto a prendere molte decisioni importanti, e la verità è che non posso fare altro che soppesare come meglio posso le informazioni di cui dispongo in quel momento e tirare dritto per la mia strada. E inevitabilmente a volte, sì, mi rendo colpevole di un errore di calcolo. Come potrebbe essere altrimenti? $è una cosa che ho imparato ad accettare da molto tempo. E come vede, quando succede, la mia unica preoccupazione è di trovare il modo di rimediare quanto prima allo sbaglio. La prego quindi di sentirsi libero di parlare con franchezza. Se a suo avviso ho sbagliato a posare davanti al monumento di Sattler, allora la prego di dirmelo.
Pedersen sembrava a disagio. Si voltò a guardare un mausoleo in lontananza, poi disse: - Be', signor Ryder, è solo la mia opinione.
- Sono ansioso di ascoltarla, signor Pedersen.
- Visto che me lo chiede, sì, signor Ryder. Se devo essere sincero, questa mattina sono rimasto molto deluso quando ho visto il giornale. Come le ho appena spiegato, credo che non sia nell'indole di questa città abbracciare le idee estreme di Sattler. Se certa gente ne è ancora affascinata, è £proprio £perché Sattler è un personaggio così remoto, un pezzo di mitologia locale. Lo riproponga come qualcosa di serio, signor Ryder, e la gente cadrà in preda al panico. Farà un balzo indietro. Si aggrapperà di colpo alle cose note, a costo di dimenticare l'infelicità che queste ultime le hanno già causato. Ha chiesto la mia opinione, signor Ryder. Io penso che l'avere tirato in ballo Max Sattler abbia gravemente compromesso le possibilità di un miglioramento. Ma naturalmente, c'è ancora il concerto. In fin dei conti, tutto dipenderà da ciò che succede questa sera. Da quello che dirà lei. E da quello che ci farà vedere il signor Brodsky. E come mi ha fatto notare, nessuno più di lei è in grado di ricuperare il terreno perduto -. Per un attimo Pedersen parve riflettere su qualcosa in silenzio. Poi scosse la testa gravemente. - Signor Ryder, adesso la cosa migliore che può fare è andare al palazzo dei concerti. Guai se questa sera le cose non vanno secondo i piani.
- Sì, sì, ha perfettamente ragione, - dissi. - Sono sicuro che la macchina mi starà già aspettando per portarmi là. Signor Pedersen, grazie per la sua franchezza.
26.
I gradini scendevano ripidi tra alte siepi e arbusti. Presto mi ritrovai sul ciglio della strada, e il mio sguardo fu attratto dal sole che tramontava oltre i campi del lato opposto. La scalinata mi aveva portato in un punto in cui la strada curvava bruscamente, ma mi bastò seguirla per un breve tratto perché il panorama si aprisse. Più avanti vidi la collina su cui ero salito quel pomeriggio - il contorno della capanna si stagliava contro il cielo - e ai suoi piedi l'automobile di Hoffman, che aspettava nella piazzola dove il direttore dell'albergo mi aveva fatto scendere.
Mi incamminai verso la macchina, ripensando al dialogo con Pedersen. Ricordai che quando lo avevo conosciuto al cinema la stima nei miei confronti era evidente in ogni suo gesto e parola. Ora, nonostante le buone maniere, era chiaro che Pedersen era molto deluso. Questo pensiero, stranamente, mi disturbò; mentre percorrevo il ciglio della strada contemplando il tramonto, cominciai a sentirmi sempre più contrariato per non avere usato maggiore prudenza nella questione del monumento di Sattler. Certo, come avevo fatto notare a Pedersen, avevo preso la decisione che in quel momento mi era sembrata più saggia. Tuttavia, non riuscivo a scacciare la fastidiosa sensazione che a quel punto, pur tenendo conto delle limitazioni di tempo e delle enormi pressioni che interferivano con il mio lavoro, avrei dovuto disporre di informazioni migliori. Ancora adesso, alle soglie della serata, certi aspetti dei problemi locali mi erano tutt'altro che chiari. Giunsi alla conclusione che avevo fatto un grave errore, quel pomeriggio, a non andare alla riunione del Gruppo di Mutuo Soccorso dei Cittadini... e per di più per un'esercitazione al pianoforte che si era rivelata del tutto inutile.
Arrivai alla macchina di Hoffman stanco e scoraggiato. Il direttore dell'albergo, seduto al volante, scriveva con impegno su un taccuino; non si accorse di me finché non aprii la porta sul lato del passeggero.
- Oh, signor Ryder, - esclamò allora, riponendo in fretta e furia il libricino. - Spero che la sua prova sia andata bene.
- Oh, sì.
- E la sistemazione? - Hoffman accese subito il motore. - Era di suo gradimento?
- Ottima, signor Hoffman, grazie. Ma ora devo recarmi al più presto al palazzo dei concerti. Non si sa mai. Potrebbe essere necessaria qualche modifica.
- Naturalmente. Guarda caso anch'io devo correre al palazzo dei concerti -. Hoffman diede un'occhiata all'orologio. - Devo controllare i preparativi per il banchetto. Sono lieto di dirle che un'ora fa, quando sono passato di lì, tutto procedeva per il meglio. Anche se so che basta un niente per mandare tutto a carte quarantotto.
Hoffman riportò la macchina sulla carreggiata, e per qualche minuto viaggiammo in silenzio. La strada, anche se il traffico era un po' più intenso che all'andata, era tutt'altro che ingombra, e presto il direttore dell'albergo si mise ad andare forte. Io guardai la campagna che scorreva fuori del finestrino e cercai di rilassarmi, ma la mia mente continuava a tornare alla serata ormai imminente. Poi sentii Hoffman dire:
- Signor Ryder, spero che non le spiaccia se gliene parlo. $è una cosa da niente. Senza dubbio se ne è dimenticato -. Il direttore dell'albergo proruppe in una breve risata e scosse la testa.
- Di che si tratta, signor Hoffman?
- Mi riferivo agli album di mia moglie. Forse si ricorda che gliene ho parlato quando ci siamo incontrati la prima volta. Mia moglie è una sua devota ammiratrice da così tanti anni...
- Sì, naturalmente, me ne ricordo benissimo. Sua moglie ha preparato degli album di ritagli di giornale sulla mia carriera. Sì, sì, non me ne sono dimenticato. Anzi, nonostante l'accavallarsi degli impegni, avevo una gran voglia di vederli.
- Mia moglie se ne è occupata con enorme devozione, signor Ryder. Per anni e anni. Ha mosso mari e monti per procurarsi certi numeri arretrati di riviste o giornali che contenevano importanti articoli su di lei. Le assicuro che per me è stato meraviglioso essere testimone di tanta dedizione. Non sa come sarebbe importante per lei...
- Signor Hoffman, ho tutte le intenzioni di esaminare al più presto quegli album. Come le ho detto, ne ho proprio voglia. Ma in questo momento gradirei approfittare dell'occasione per discutere... be', diciamo alcuni aspetti di questa sera.
- Come desidera, signor Ryder. Ma le garantisco che tutto è sotto controllo. Non ha motivo di preoccuparsi.
- Sì, sì, ne sono sicuro. Ma visto che ormai manca poco al concerto, mi sembra più che ragionevole fare un attimo mente locale. Per esempio, signor Hoffman, c'è il problema dei miei genitori. Anche se ho fiducia nella gente di questa città e so che verranno trattati bene, resta il fatto che tutti e due sono cagionevoli di salute, dunque le sarei molto grato se...
- Ma certamente, capisco benissimo. Anzi, se mi permette, trovo commovente che dimostri tanta premura nei confronti dei suoi genitori. Sono lieto di dirle che sono state prese tutte le misure necessarie per farli sentire a loro agio in ogni istante. Un gruppo di simpatiche e capaci signore è stato incaricato di badare a loro per l'intera durata del soggiorno. E per il concerto di questa sera abbiamo preparato per i suoi genitori una cosa un po' speciale, un piccolo ghiribizzo che mi auguro possa essere di suo gradimento. Come senza dubbio saprà, qui da noi c'era una ditta di carrozzai, i F'lli Seeler, che per due secoli ha goduto di grande rinomanza. Un tempo riforniva numerosi illustri clienti, persino in luoghi lontani come la Francia e l'Inghilterra. In città ci sono ancora alcune splendide testimonianze dell'arte dei F'lli Seeler, e ho pensato che ai suoi genitori non sarebbe spiaciuto arrivare al palazzo dei concerti su una carrozza di grande distinzione, per la quale abbiamo già pronta una coppia di purosangue magnificamente bardati. Riesce a immaginarsi la scena, signor Ryder? A quell'ora della sera la radura di fronte al palazzo dei concerti sarà inondata di luci, e tutti i cittadini più in vista staranno radunandosi proprio lì, ridendo e salutandosi a vicenda, elegantissimi. Ci sarà grande eccitazione. Le macchine, naturalmente, non possono arrivare nella radura, e la gente sbucherà a piedi dal bosco. E quando davanti al palazzo si sarà raccolta una bella folla... si figura lo spettacolo, signor Ryder?... dall'oscurità del bosco giungerà lo scalpitare dei cavalli che si avvicinano. Dame e cavalieri smetteranno di parlare e gireranno la testa. Il rumore di zoccoli crescerà d'intensità, risuonando sempre più vicino all'alone di luce. Finché l'equipaggio comparirà all'improvviso: una coppia di magnifici cavalli, il cocchiere in marsina e cilindro, la luccicante carrozza dei F'lli Seeler, e dentro i suoi incantevoli genitori! Si immagina l'eccitazione, la trepidazione della folla in quel momento? Naturalmente, ai suoi genitori non verrà chiesto di compiere un lungo tragitto in carrozza. Solo il viale che attraversa il bosco. E le posso assicurare che la vettura è un capolavoro di sontuosità. La troveranno accogliente e comoda come una qualsiasi limousine. Naturalmente, sarà inevitabile un lieve dondolio, che tuttavia, in una carrozza di prim'ordine, diventa sicuramente una caratteristica gradevole. Spero che riesca a figurarsi lo spettacolo, signor Ryder. Confesso che in origine avevo concepito l'intera messa in scena per il suo arrivo; poi mi sono reso conto che a quel punto della serata lei avrebbe preferito starsene ben acquattato dietro le quinte. Tra l'altro, non avrei mai voluto diluire l'efficacia della sua apparizione sul palcoscenico. Ma quando abbiamo ricevuto la bella notizia che anche i suoi genitori avrebbero onorato la nostra città, ho subito pensato: «Ah, questa è la soluzione ideale!» Sissignore, l'arrivo dei suoi genitori predisporrà gli animi nel modo migliore. Naturalmente, non pretendiamo che dopo essere scesi dalla carrozza i suoi genitori restino lì fuori. Verranno immediatamente accompagnati in sala, dove li attendono le loro poltrone speciali, e questo sarà per tutti il segnale che è giunto il momento di cominciare a prendere posto. Poco dopo, avrà inizio la parte ufficiale della serata. Attaccheremo con una breve esecuzione al pianoforte di mio figlio Stephan. Ah ah! Ammetto che questa è stata una piccola debolezza da parte mia. Ma Stephan ardeva dal desiderio di fare un'apparizione in pubblico, e in quel momento, forse scioccamente, credevo che... Be', ormai è inutile tornare su questo punto. Stephan suonerà un pezzo leggero al pianoforte, solo per creare una certa atmosfera. Durante questa parte le luci resteranno accese, per dar modo alla gente di trovare il suo posto, di salutarsi, di chiacchierare nei corridoi e così via. Poi, quando tutti saranno seduti, le luci si abbasseranno. Seguirà qualche parola ufficiale di benvenuto. Poi, a poco a poco, gli orchestrali entreranno, prenderanno posto, accorderanno gli strumenti. E dopo una pausa comparirà il signor Brodsky, che... che dirigerà il concerto. Quando avrà finito e ci sarà stato... così spero, anzi £presumo... un fragoroso applauso, e il signor Brodsky avrà ringraziato con una serie di inchini, faremo una breve interruzione. Non un vero e proprio intervallo; il pubblico non potrà alzarsi. Solo cinque minutini, in cui le luci verranno riaccese e la gente avrà modo di raccogliere le idee. Poi, mentre tutti staranno ancora scambiandosi le loro opinioni, il signor von Winterstein comparirà davanti al sipario. Farà una presentazione semplice semplice. Non più di qualche minuto... d'altronde, che bisogno c'è di una presentazione? Poi si ritirerà dietro le quinte. L'intera sala precipiterà nell'oscurità. Ed ecco finalmente il gran momento, signor Ryder. Il momento della sua apparizione. In realtà, questa è una cosa che avevo intenzione di discutere con lei, visto che per certi aspetti la sua collaborazione è indispensabile. Vede, il nostro palazzo dei concerti è un bellissimo edificio, ma naturalmente, essendo antico, è privo di molte attrezzature che ormai si danno per scontate nelle costruzioni più moderne. Il servizio di ristorazione, come credo di averle già accennato, è tutt'altro che adeguato, e ci obbliga a ricorrere a quello dell'albergo. Ma quello che volevo dirle è questo, signor Ryder. Ho preso in prestito dal nostro centro sportivo, questo sì, moderno e ben attrezzato, il tabellone elettronico del campo coperto. In questo momento, il palazzetto ha un aspetto tristissimo, con quei brutti fili neri che pendono dove prima c'era il tabellone. Be', signor Ryder, per tornare a quanto le dicevo, dopo la breve presentazione, il signor von Winterstein si ritirerà dietro le quinte. L'intero auditorium, per un istante, precipiterà nell'oscurità, e in quel momento si alzerà il sipario. Poi si accenderà un unico riflettore, che rivelerà la sua persona al centro del palcoscenico, dietro un leggio. Ovviamente, il pubblico esploderà in un applauso eccitato. Poi, quando i battimani si saranno spenti, prima che lei pronunci una sola parola... sempre che sia d'accordo, naturalmente... si udrà tuonare una voce, che pronuncerà la prima domanda. La voce sarà quella di Horst Jannings, l'attore più anziano della città. Horst sarà nella cabina di regia e parlerà attraverso gli altoparlanti che servono per gli annunci al pubblico. Ha una voce bella e profonda da baritono, e leggerà ogni domanda lentamente. E mentre lui legge... questa è la mia piccola trovata, signor Ryder!... le parole compariranno simultaneamente sul tabellone elettronico appeso proprio sopra la sua testa. Vede, fino a quel momento, data l'oscurità, nessuno si sarà accorto del tabellone. Sembrerà che le parole compaiano nell'aria sopra di lei. Ah ah! Mi scusi, ma ho pensato che l'effetto avrebbe contribuito ad accentuare la drammaticità delle circostanze e allo stesso tempo a chiarirle. Mi azzardo a dire che le parole sul tabellone aiuteranno i presenti a ricordare l'importanza e la gravità degli argomenti di cui lei parlerà. In fondo, potrebbe facilmente succedere che per l'eccitazione qualcuno si distragga. Be', vede signor Ryder, con la mia piccola trovata la cosa sarà quasi impossibile. Ogni domanda sarà lì davanti agli occhi di tutti, scritta a lettere giganti. Quindi, se lei è d'accordo, procederemo in questo modo. Dopo che la prima domanda sarà stata annunciata dagli altoparlanti e sillabata sul tabellone, lei darà la sua risposta dal leggio, poi, quando avrà finito, Horst leggerà la domanda successiva e così via. L'unica cosa che le chiedo, signor Ryder, è che alla fine di ogni risposta lei abbandoni il leggio e venga sul proscenio a fare un inchino. La ragione della mia richiesta è duplice. In primo luogo, dato che l'installazione del tabellone elettronico è provvisoria, è inevitabile che vi siano alcune difficoltà tecniche. L'elettricista impiegherà parecchi secondi a caricare ogni domanda sul tabellone, e ce ne vorranno almeno altri quindici o venti prima che le parole comincino ad apparire. Quindi capisce anche lei che, venendo sul proscenio e facendo un inchino che sicuramente provocherà un applauso, eviteremo di inframmezzare la serata con una serie di pause imbarazzanti. Poi, ogni volta che lo scroscio di applausi si smorzerà, la voce di Horst e il tabellone annunceranno la domanda successiva, dandole tutto il tempo di tornare al leggio. Ma c'è anche una seconda ragione che rende raccomandabile questa strategia. Il fatto che lei venga sul proscenio e si inchini indicherà senza possibilità di equivoci all'elettricista che la sua risposta è finita. In fondo, dobbiamo evitare a tutti i costi che sul tabellone, per esempio, cominci a comparire la domanda successiva mentre lei sta ancora parlando. Perché vede, a causa dei problemi cui le accennavo, un simile inconveniente potrebbe capitare facilmente. Basterebbe che lei desse l'impressione di avere finito, o che facesse una semplice pausa, e poi le venisse in mente un'ultima cosa da dire. E quando ricomincia a parlare, l'elettricista potrebbe avere già... Ah! Che disastro! Non voglio nemmeno pensarci! Mi permetta quindi di suggerirle il semplice ma efficace espediente di venire sul proscenio alla fine di ogni risposta. Anzi, per dare all'elettricista qualche secondo in più per caricare la domanda successiva, sarebbe utilissimo se in aggiunta, avvicinandosi al termine della risposta, lei gli lanciasse un segnale che non dia troppo nell'occhio. Che so, magari una lieve spallucciata. Naturalmente, signor Ryder, tutte queste disposizioni sono soggette alla sua approvazione.
Se qualcuna delle mie idee non le piace, la prego di dirlo apertamente.
Mentre Hoffman parlava, nella mia mente cominciò a prendere forma un'immagine incredibilmente vivida della serata ormai prossima. Sentii gli applausi, il ronzio del tabellone elettronico sopra la mia testa. Mi vidi fare spallucce, poi avanzare verso il proscenio nella luce accecante dei riflettori. E quando mi resi conto di essere assolutamente impreparato, fui invaso da uno strano, sognante senso di irrealtà. Vidi che Hoffman aspettava la mia risposta e mormorai stancamente:
- Mi sembra fantastico, signor Hoffman. Ha pensato davvero a tutto.
- Ah. Quindi ho la sua approvazione. I particolari le sembrano...
- Sì, sì, - dissi, con un cenno impaziente della mano. - Il tabellone elettronico, la passeggiatina fin sul proscenio, le spallucciate, sì, sì, sì. Tutto ben congegnato.
- Ah -. Per un attimo Hoffman parve ancora perplesso, poi dovette concludere che avevo parlato sinceramente. - Fantastico, fantastico. Allora è deciso -. Annuì e per un po' rimase in silenzio, ma un attimo dopo, senza staccare gli occhi dalla strada, borbottò di nuovo: - Sì, sì. $è deciso.
Per parecchi minuti Hoffman non mi disse altro, pur continuando a mormorare sottovoce tra sé e sé. Gran parte del cielo aveva assunto una tinta rosata, e dato che la strada serpeggiava attraverso la campagna, il sole compariva di tanto in tanto davanti al parabrezza, riempiendo la macchina con il suo bagliore e obbligandoci a strizzare gli occhi. Poi, all'improvviso, mentre guardavo fuori del finestrino, sentii Hoffman esclamare:
- Un bue! Un bue, un bue, un bue!
Anche queste parole erano state pronunciate sottovoce, ma ne fui così sorpreso che mi girai. Vidi allora che Hoffman fissava la strada annuendo per conto proprio, ancora perso nel suo mondo. Guardai i campi intorno a noi; in molti c'erano delle pecore, ma non vidi traccia di buoi. Ricordavo vagamente che Hoffman aveva già detto qualcosa del genere durante un altro viaggio in macchina, ma quasi subito mi disinteressai della cosa.
Presto ci ritrovammo nelle vie cittadine, dove il traffico rallentò moltissimo. I marciapiedi erano affollati di gente che tornava a casa dal lavoro, e molte vetrine erano già state accese per la notte. Adesso che ero di nuovo in città, ritrovai un po' della mia sicurezza. Pensai che non appena fossi arrivato al palazzo dei concerti, non appena avessi avuto la possibilità di salire sul palcoscenico e guardarmi intorno, molte cose si sarebbero sistemate.
- Davvero, signor Ryder, - disse Hoffman di punto in bianco. - Tutto va secondo i piani. Non deve preoccuparsi di nulla. Vedrà che sarà fiero di questa città. E per quel che riguarda il signor Brodsky, io continuo a riporre in lui la massima fiducia.
Pensai di dovermi almeno fingere ottimista. - Sì, - dissi allegramente, - sono sicuro che questa sera il signor Brodsky farà faville. Quando l'ho visto poco fa mi è sembrato veramente in gran forma.
- Come? - Hoffman mi lanciò un'occhiata sbalordita. - Lei l'ha visto recentemente?
- Poco fa, al cimitero. Come le dico, aveva l'aria molto sicura...
Hoffman mi scrutò con occhi indagatori, e per un attimo pensai di raccontargli tutto del funerale e del solenne intervento di Brodsky. Alla fine però non trovai la forza per farlo e mi limitai a dire:
- Credo che sia lì perché ha un appuntamento. Con la signorina Collins.
- Con la signorina Collins? Santo cielo. Che cosa significa questa storia?
Lo guardai, un po' sorpreso dalla sua reazione. - Sembra che la possibilità di una riconciliazione non sia più tanto remota, - dissi. - E in caso di lieto fine, signor Hoffman, ci sarebbe qualcos'altro di cui potrebbe legittimamente attribuirsi gran parte del merito.
- Sì, sì -. Hoffman stava riflettendo con il volto accigliato. - Il signor Brodsky è ancora al cimitero? E sta aspettando la signorina Collins? Curioso. Davvero curioso.
Man mano che ci avvicinavamo al centro della città, il traffico diventava più intenso, finché a un certo punto, in una stradina laterale, restammo bloccati. Hoffman, che dava segni di crescente nervosismo, si girò di nuovo verso di me.
- Signor Ryder, devo sbrigare subito una cosa. Ciò non toglie che più tardi la raggiungerò al palazzo dei concerti, ma in questo momento... - Il direttore, ormai in preda al panico, guardò l'orologio. - Vede, devo proprio... - Poi strinse le mani sul volante e rimase a fissarmi imbambolato. - Non voglio dire, ma con questi maledetti sensi unici e questo diabolico traffico serale, ci vorrà un bel po' di tempo per andare in macchina al palazzo dei concerti. Mentre a piedi... - Improvvisamente Hoffman mi indicò qualcosa fuori del finestrino passandomi con la mano davanti alla faccia. - Eccolo là. Sotto i suoi occhi. Non più di due minuti a piedi. Sissignore, quel tetto laggiù.
Non molto lontano vidi spuntare sopra le case una grande cupola. Effettivamente, non sembrava a più di tre o quattro isolati di distanza.
- Signor Hoffman, - dissi, - se ha da fare qualcosa di urgente, non si preoccupi per me, posso fare a piedi il resto del tragitto.
- Davvero? Riuscirà a perdonarmi?
La colonna di automobili avanzò di qualche centimetro, poi si bloccò di nuovo.
- Anzi, ho proprio bisogno di sgranchirmi le gambe, - aggiunsi. - Sembra una serata piacevole. E come dice lei, a piedi ci vuole poco.
- Questi infernali sensi unici! Rischieremmo di restare in macchina per un'altra ora! Signor Ryder, le sarò immensamente grato se non mi serberà rancore. Ma vede, c'è una cosa che... che non posso assolutamente rimandare...
- Sì, sì, naturalmente. Scendo qui. In realtà è stato gentilissimo a scarrozzarmi a questo modo, con tutte le cose che ha da fare. Non so come ringraziarla.
- Arriverà al palazzo dei concerti da dietro. Basta che cammini in direzione del tetto. Non può sbagliarsi se non lo perde di vista.
- Non si preoccupi. Me la caverò benissimo -. Troncando le sue scuse, lo ringraziai di nuovo e scesi sul marciapiede.
Imboccai quasi subito una stretta viuzza, che prima passò davanti a una fila di librerie specializzate, poi ad alcuni alberghi per turisti dall'aspetto piacevole. Non era affatto difficile non perdere di vista la cupola, e per un po' fui grato di poter passeggiare all'aria fresca.
Non avevo fatto più di due o tre isolati, però, quando fui assalito da pensieri quanto mai fastidiosi e mi accorsi di non riuscire più a scacciarli. Tanto per cominciare, mi resi conto che esistevano forti probabilità che l'intermezzo con le domande e le risposte non andasse affatto liscio. Infatti, a giudicare dall'intensità dei sentimenti che si erano manifestati al cimitero, l'eventualità di sgradevoli scenate non si poteva escludere. Inoltre, se l'intermezzo fosse andato male, era immaginabile che i miei genitori, dopo avere assistito allo spettacolo con crescente orrore e imbarazzo, chiedessero di essere accompagnati fuori della sala. In altre parole se ne sarebbero andati prima di darmi l'opportunità di avvicinarmi al pianoforte, e chissà quando sarebbero venuti di nuovo a sentirmi suonare. Ancora peggio, se le cose si fossero messe veramente male, non era affatto impossibile che a uno dei due venisse un colpo. Ero sicurissimo che mia madre e mio padre sarebbero rimasti entrambi a bocca aperta non appena avessi cominciato a suonare, ma per il momento l'intermezzo con le domande e le risposte mi sembrava un ostacolo oltremodo ingombrante.
Ero così assorto in questi pensieri, che lasciai che la cupola sparisse dietro qualche edificio. Sulle prime, quando me ne accorsi, non ci badai, supponendo che presto sarebbe ricomparsa. Più avanti, però, la strada divenne ancora più stretta, e mi trovai circondato da case che sembravano tutte alte sei o sette piani, tanto che ormai vedevo a stento un pezzetto di cielo; altro che la mia cupola! Decisi di cercare una strada parallela, ma dopo avere imboccato la prima traversa mi ritrovai a vagare da una viuzza all'altra, forse addirittura a girare in tondo, senza più riuscire a scorgere il palazzo dei concerti.
Dopo parecchi minuti mi sentii invadere da un senso di paura pensai di fermare qualcuno per chiedere indicazioni. Subito, però, mi parve una cosa poco saggia da fare. Mentre andavo a spasso, infatti, la gente si girava a guardarmi, talvolta persino arrestandosi di botto sul marciapiede. Ne ero stato vagamente consapevole, anche se l'ansia di ritrovare la strada mi aveva impedito di farci caso. Adesso però mi rendevo conto che con il concerto ormai alle soglie e con una posta in gioco così alta non era affatto opportuno che la gente mi vedesse vagare per le strade con aria palesemente smarrita e insicura. Facendomi forza, raddrizzai la schiena e assunsi l'atteggiamento di qualcuno che, perfettamente padrone della situazione, si concede una rilassante passeggiatina per la città. Mi costrinsi anche a rallentare il passo e a sorridere amabilmente a chiunque mi guardasse.
Finalmente, all'ennesima svolta, scorsi il palazzo dei concerti dritto davanti a me, più vicino che mai. La strada che avevo imboccata era più ampia, con caffè e negozi pieni di luci su entrambi i lati. La cupola era a un paio di isolati, poco oltre il punto in cui la strada curvava nascondendosi alla mia vista.
Provai sollievo, ma non solo; l'intera serata mi apparve improvvisamente sotto una luce molto migliore. La sensazione di poc'anzi - cioè che molte cose si sarebbero sistemate non appena fossi giunto sul posto e salito sul palcoscenico - mi tornò, tanto che proseguii per la mia strada con qualcosa di molto simile all'entusiasmo.
Ma dopo la curva mi si presentò uno strano spettacolo. Poco più avanti il cammino era sbarrato da un muro di mattoni che attraversava la strada in tutta la sua larghezza. Per prima cosa pensai che dietro il muro passasse una ferrovia, poi notai che su entrambi i lati della strada i piani alti delle case passavano senza interruzione sopra l'ostacolo, perdendosi in lontananza. Il muro mi incuriosì, ma sulle prime non lo considerai un problema; pensai che quando fossi stato più vicino avrei trovato un arco o un sottopassaggio che mi avrebbe portato dall'altra parte. In ogni caso, la cupola era ormai vicinissima, illuminata dai riflettori sullo sfondo del cielo che imbruniva.
Solo quando fui quasi sotto il muro mi accorsi che non c'era modo di passare. Su entrambi i lati della strada, il marciapiede finiva bruscamente contro la parete di mattoni. Mi guardai intorno sbalordito, poi percorsi il muro per tutta la sua lunghezza fino al marciapiede opposto, incapace di accettare l'idea che non vi fosse nemmeno una porta, nemmeno un piccolo varco per strisciare dall'altra. Non trovai nulla, e alla fine, dopo essere rimasto per un pezzo davanti al muro senza sapere che pesci prendere, feci cenno a una passante, una signora di mezza età che stava uscendo da un negozio di regali, dicendole:
- Mi scusi, voglio andare al palazzo dei concerti. Come si fa a passare questo muro?
La donna parve stupita dalla mia domanda. - Oh, no, - disse. - Il muro non si può passare. $è ovvio che non si può. Sbarra completamente la strada.
- Bella seccatura, - dissi. - Io devo andare al palazzo dei concerti.
- Già, immagino che sia una bella seccatura, - disse la donna, come se non ci avesse mai pensato prima di allora. - Poco fa, quando l'ho vista fissare il muro, ho creduto che fosse un turista. Come può vedere il muro è una vera e propria attrazione turistica.
Mi indicò un espositore girevole di cartoline davanti al negozio di regali. Ed effettivamente, alla luce che usciva dalla porta, vidi una sfilza di cartoline che riproducevano orgogliosamente il muro.
- Ma qual è l'utilità di un muro in un posto come questo? - domandai, alzando la voce mio malgrado. - $è una mostruosità. Si può sapere a che cosa diavolo serve?
- Sono d'accordo con lei. Per gli estranei, soprattutto per chi va di fretta, il muro rappresenta una bella seccatura. Immagino che si possa definire una follia. $è stato costruito da un eccentrico personaggio della fine del secolo scorso. $è una stranezza, non c'è dubbio, ma da allora è diventato famoso. D'estate questo tratto di strada si riempie di turisti. Americani, giapponesi, tutti che scattano foto.
- $è un'assurdità, - dissi, furente. - Per piacere, mi indichi la strada più breve per andare al palazzo dei concerti.
- Il palazzo dei concerti? Be', è lontanuccio se ha intenzione di andarci a piedi. Naturalmente, siamo vicinissimi, - e la donna alzò lo sguardo in direzione del tetto, - ma dal punto di vista pratico ciò non significa molto a causa del muro.
- Ma è ridicolo! - Avevo perso la pazienza. - Mi cercherò la strada da solo. Evidentemente, l'idea che qualcuno possa essere oberato di impegni e avere il tempo contato, e non possa permettersi di bighellonare ore e ore per la città, non le sfiora nemmeno il cervello. E le dirò di più: il muro è un esempio tipico di come vanno le cose in questa città. Ostacoli completamente assurdi da per tutto. E voi che cosa fate? Vi arrabbiate, forse? Chiedete che il muro venga immediatamente abbattuto in modo che la gente possa andarsene per le sue faccende? No, lo sopportate per quasi un secolo. Ci fate le cartoline e credete che sia una meraviglia. Una meraviglia questo muro di mattoni? $è una mostruosità! Nel mio discorso di questa sera potrei usare questo muro come un simbolo, ne avrei proprio voglia! Vi va bene che abbia già in mente gran parte di quello che dirò e che quindi sia riluttante ad apportare cambiamenti all'ultimo momento. Buona sera!
Piantai in asso la donna e tornai rapidamente sui miei passi, risoluto a non permettere che questo assurdo contrattempo distruggesse la ritrovata fiducia in me stesso. Tuttavia, mentre camminavo - consapevole, a ogni passo, di allontanarmi sempre più dal palazzo dei concerti - ripiombai nello sconforto. La strada mi parve molto più lunga di quanto ricordassi, e quando finalmente giunsi in fondo, mi persi di nuovo in un labirinto di angusti vicoletti.
Dopo parecchi minuti di sterili vagabondaggi, mi sentii improvvisamente incapace di proseguire e mi fermai. Vedendo che mi trovavo davanti a un caffè all'aperto, mi lasciai cadere su una delle sedie del tavolo più vicino; immediatamente, mi sentii svuotato di ogni residua energia. Ero vagamente consapevole che intorno a me si stava facendo buio, che da qualche parte sopra la mia testa c'era una lampadina accesa, e che questa luce, molto probabilmente, mi esponeva agli sguardi dei passanti e degli altri avventori; ciò nonostante non trovai le forze né di drizzare la schiena, né di tentare di mascherare il mio abbattimento. Dopo un po' comparve un cameriere. Gli ordinai un caffè, poi ripresi a fissare l'ombra della mia testa sulla superficie metallica del tavolo. Tutte le precedenti preoccupazioni riguardo al concerto di quella sera tornarono ad accavallarsi nella mia mente. In particolare, continuava ad assillarmi l'avvilente pensiero che la decisione di farmi fotografare davanti al monumento di Sattler avesse irrimediabilmente danneggiato la mia immagine in questa città, e che risalire la china sarebbe stato durissimo. Solo un'esibizione a dir poco autorevole durante l'intermezzo con le domande e le risposte avrebbe potuto evitare conseguenze catastrofiche su tutti i fronti. Per un attimo mi sentii così oppresso da questi pensieri che fui sul punto di piangere. Poi mi accorsi che qualcuno mi aveva posato una mano sulla spalla e stava ripetendo in tono gentile sopra la mia testa: - Signor Ryder. Signor Ryder.
Pensai che il cameriere fosse tornato con il mio caffè e gli feci cenno di posarlo sul tavolo. Ma la voce continuava a pronunciare il mio nome. Alzai gli occhi e vidi Gustav, che mi stava osservando con la faccia preoccupata.
- Oh, salve, - dissi.
- Buona sera, signor Ryder. Come sta? Mi sembrava che fosse lei, ma non ne ero sicuro, così sono venuto a controllare. C'è qualcosa che non va? Noi siamo laggiù, ci siamo tutti, perché non viene anche lei? I ragazzi ne sarebbero elettrizzati.
Mi guardai intorno e vidi che ero seduto ai margini di una piazza. Sebbene nel mezzo ci fosse un solitario lampione, lo slargo era in gran parte buio, e le sagome delle persone che lo attraversavano erano poco più che ombre. Gustav mi stava indicando il lato opposto, dove c'era un altro caffè, leggermente più grande di quello in cui mi trovavo adesso. Dalla porta aperta e dalle finestre usciva una luce accogliente. Anche da quella distanza, vidi all'interno una notevole animazione; sprazzi di musica di violino e di risate giungevano fino a noi attraversando la quiete della sera. Solo allora mi resi conto di essere seduto nella piazza della città vecchia, e di avere di fronte a me il Caffè Ungherese. Mentre continuavo a guardarmi intorno, sentii Gustav dire:
- Sa, i ragazzi me l'hanno fatto raccontare un'infinità di volte. Volevano sapere che cosa mi aveva detto, in che modo aveva £accettato. E anche se gliel'avevo già raccontato cinque o sei volte, volevano sentirselo ripetere. Non avevano ancora finito di ridere e di darsi pacche sulla schiena, che già ricominciavano: «Su, Gustav, lo sappiamo che non ci hai ancora raccontato tutto. Che cosa ti ha detto £esattamente il signor £Ryder?» E io: «Ve l'ho già raccontato. Lo sapete benissimo». Ma loro volevano sentire tutta la storia da capo, e temo che vorranno sentirla parecchie altre volte prima di domani mattina. Naturalmente, anche se quando mi chiedono di raccontare adotto un tono spazientito, lo faccio solo per aumentare l'effetto. In realtà, sono emozionato esattamente come loro, e potrei beatamente ripetere la nostra conversazione di questa mattina all'infinito. $è così bello vedere di nuovo quelle espressioni allegre. La sua promessa, signor Ryder, ha ridato speranza, una nuova £giovinezza, a quei volti. Persino Igor sorrideva a certe battute! Non ricordo più quand'è stata l'ultima volta che li ho visti così. Oh, sì, signor Ryder, gliela racconterei volentieri all'infinito, questa storia. Ogni volta che arrivo al punto in cui lei dice: «Va bene, dirò volentieri qualcosa in vostro favore», ogni volta che arrivo lì, dovrebbe vederli! Applausi, risate, grandi pacche sulla schiena; era davvero molto tempo che non li vedevo fare così. E sul più bello, mentre bevevamo le nostre birre e parlavamo della sua grande generosità, e del fatto che finalmente questa sera, dopo tutti questi anni, il mestiere dei facchini sarebbe cambiato per sempre, sì, mentre eravamo lì che ci dicevamo queste cose, ho alzato gli occhi per caso e l'ho vista, signor Ryder. Il padrone, come vede, ha lasciato la porta aperta. L'atmosfera del caffè ne acquista, se al calar della notte si può guardare fuori. Be', mentre scrutavo la piazza mi sono detto: «Chissà chi sarà quel poveretto che se ne sta seduto laggiù tutto solo». Ma la mia vista non è molto buona, e non mi sono accorto che era lei. Poi Karl mi ha bisbigliato... deve avere intuito che era meglio non dirlo forte... mi ha bisbigliato: «Mi sbaglierò, ma quel tizio laggiù non è il signor Ryder?» Allora ho guardato di nuovo e mi sono detto sì, è possibile. Ma che cosa diavolo ci fa là fuori al freddo con un'aria così triste? Meglio che vada a vedere se è proprio lui. Le assicuro che Karl è stato molto discreto. Gli altri non hanno sentito quello che diceva, quindi, tolto lui, nessuno sa perché me la sono squagliata, anche se suppongo che adesso staranno guardando in parecchi da questa parte e si domanderanno che cosa sto combinando. Ma è sicuro di sentirsi bene, signor Ryder? Si direbbe che ci sia qualcosa che la tormenta.
- Oh... - sospirai e mi passai una mano sulla faccia. - Non è nulla. $è solo che tutti questi viaggi, tutte queste responsabilità. Di tanto in tanto si ha l'impressione... - non terminai la frase e proruppi in una breve risata.
- Ma perché se ne sta qui tutto solo? Fa freddo, e lei non ha che la giacca. Come se non le avessi mai detto che poteva venire a trovarci al Caffè Ungherese in qualsiasi momento e che ci avrebbe fatto molto piacere. Pensava forse che non l'avremmo accolto con il dovuto entusiasmo? Starsene qui solo come un cane! Ma che idea, signor Ryder! Su, venga subito da noi. Così potrà rilassarsi e distrarsi per qualche istante. Metta da parte tutte le sue preoccupazioni. I ragazzi non staranno nella pelle dalla gioia. Venga, la prego.
Dall'altro lato della piazza la calda luce della porta, la musica e le risate erano sicuramente molto invitanti. Mi alzai e mi passai di nuovo una mano sulla faccia.
- Così va bene, signor Ryder. Fra un attimo si sentirà meglio.
- Grazie. Grazie. Grazie davvero -. Dovetti fare uno sforzo per dominare l'emozione. - Vi sono molto riconoscente. Davvero. Spero solo di non disturbare.
Gustav rise. - Se ne accorgerà subito, se disturba o no, signor Ryder.
Mentre attraversavamo la piazza, pensai che dovevo essere pronto a presentarmi ai facchini, i quali sicuramente, vedendomi comparire, sarebbero stati sopraffatti dalla gratitudine e dall'eccitazione. A ogni passo mi sentivo più baldanzoso, e stavo per fare un commento spiritoso, quando Gustav si fermò di botto. Quando ci eravamo incamminati attraverso la piazza, il facchino, con garbo, mi aveva posato una mano sulla schiena; adesso, per un attimo sentii le sue dita stringere la stoffa della giacca. Mi voltai, e nella penombra vidi Gustav perfettamente immobile, con gli occhi fissi al suolo e una mano sulla fronte come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa di importante. Poi, prima che potessi aprire bocca, cominciò a scuotere la testa e a sorridere imbarazzato.
- Mi scusi, signor Ryder. Stavo solo... ecco... - Proruppe in una breve risata e riprese a camminare.
- C'è qualcosa che non va?
- Oh, no, no. Sa, i ragazzi saranno davvero elettrizzati quando la vedranno comparire da quella porta.
Precedendomi di qualche passo, Gustav attraversò risoluto l'ultimo tratto di piazza.
27.
Solo quando entrai e sentii il tepore del fuoco di ciocchi che ardeva in fondo alla sala mi resi conto di quanto fosse diventata fredda la sera. L'interno del caffè era stato risistemato dall'ultima volta che vi avevo messo piede. La maggior parte dei tavolini era stata spinta contro le pareti per fare spazio a un grande tavolo circolare che troneggiava al centro del pavimento, e intorno al quale erano seduti una dozzina di uomini, che bevevano birra e facevano chiasso. Sembravano un po' meno vecchi di Gustav, sebbene quasi tutti fossero alle soglie della terza età. Poco distante da loro, accanto al banco, due tizi magri vestiti da zingari suonavano un valzer vivace sui loro violini. C'erano anche altri avventori, che tuttavia sembravano contenti di starsene in disparte, spesso negli angoli più bui della sala, come consapevoli di assistere alla festa di qualcun altro.
Quando Gustav e io entrammo, i facchini si girarono a guardarci, incerti se credere ai propri occhi. Poi Gustav disse: - Sì, ragazzi miei, è proprio lui. $è venuto di persona a farci gli auguri.
Nel caffè scese il silenzio, mentre tutti - facchini, camerieri, musicanti, altri avventori - mi fissavano. Poi la sala proruppe in un caloroso applauso. Per qualche ragione, questa accoglienza mi colse alla sprovvista e rischiò di farmi tornare le lacrime agli occhi. Sorrisi, dicendo: - Grazie, grazie, - mentre l'applauso continuava così scrosciante che stentavo a sentire la mia voce. I facchini si erano alzati in piedi, e persino i musicanti zigani si erano messi il violino sotto il braccio per partecipare all'applauso. Gustav mi spinse verso il tavolo centrale e, mentre prendevo posto, i battimani finalmente si spensero e i musicanti ricominciarono a suonare. Mi trovai circondato da un cerchio di volti eccitati. Gustav, che si era seduto accanto a me, esordì:
- Ragazzi, il signor Ryder è stato così gentile da...
Prima che potesse finire, un robusto facchino con il naso paonazzo si sporse verso di me sollevando il suo boccale di birra. - Signor Ryder, lei ci ha salvati, - dichiarò l'uomo. - D'ora in poi la nostra vita cambierà. I miei nipoti avranno un ricordo ben diverso di me. Questa, per noi, è una grande serata.
Stavo ancora ricambiandolo con un sorriso, quando mi sentii afferrare per un braccio e mi trovai davanti una faccia macilenta e ansiosa.
- La prego, signor Ryder, - disse l'uomo, fissandomi in volto. - La prego, lo farà sul serio, vero? Non è che al momento buono, con tante altre cose importanti per la testa, davanti a tutta quella gente, non è che ci ripenserà e...
- Non essere insolente, - disse un'altra voce, e l'uomo dalla faccia ansiosa svanì come se qualcuno lo avesse tirato indietro. Poi sentii dire alle mie spalle: - Puoi giurarci che non ci ripenserà. Con chi credi di avere che fare?
Mi girai sulla sedia per cercare di rassicurare il mio precedente interlocutore, ma qualcun altro mi strinse la mano dicendo:
- Grazie, signor Ryder, grazie.
- Siete molto cari, - dissi sorridendo un po' a tutti. - Anche se... ecco, bisogna che vi avverta che...
In quel momento qualcuno mi urtò, rischiando di buttarmi addosso alla persona seduta accanto a me. Sentii una voce chiedere scusa e un'altra dire: - Non spingere a quel modo! - Poi una terza voce, più vicina, disse: - Mi sembrava che fosse lei, là fuori. Sono io che ho richiamato l'attenzione di Gustav su di lei. $è stato davvero gentile a venire a trovarci. Questa sarà una sera che ricorderemo per sempre. Una svolta nell'esistenza di ogni facchino della città.
- Sentite, bisogna che lo sappiate, - dissi ad alta voce. - Farò tutto ciò che posso per voi, ma bisogna che lo sappiate, può darsi che io non abbia più l'autorità di un tempo. Vedete...
Ma le mie parole furono coperte da alcuni facchini che avevano cominciato a gridare «urrà» in mio onore. Al secondo urrà, l'intera compagnia si unì al coro, finché anche la musica cessò un istante e tutti i presenti parteciparono all'ultima, assordante acclamazione. Subito scoppiarono altri applausi.
- Grazie, grazie, - dissi, sinceramente commosso. Poi, mentre l'applauso si affievoliva, il facchino dal naso paonazzo seduto dall'altra parte del tavolo disse:
- Sia il benvenuto fra noi, signor Ryder. Lei è famoso e conosciuto, ma voglio che sappia che noi, qui, siamo capaci di riconoscere una brava persona a prima vista. Già, mica per niente facciamo questo mestiere da tanti anni. Abbiamo imparato a fiutare la gente per bene. Lei è un tipo come si deve, al cento per cento, lo vedono tutti. Come si deve e gentile. Magari penserà che le abbiamo riservato questa accoglienza solo perché ha intenzione di aiutarci. $è ovvio che le siamo riconoscenti per questo. Ma i miei amici li conosco: l'hanno preso in simpatia, e questo non sarebbe successo se non fosse una brava persona. Se fosse pieno di spocchia, o in qualche modo insincero, l'avrebbero indovinato subito. Oh, certo. Le sarebbero stati riconoscenti lo stesso e l'avrebbero trattato bene, ma non l'avrebbero mai preso in simpatia a questo modo. Quello che voglio dire, signor Ryder, è che anche se non fosse famoso, anche se fosse un semplice straniero capitato qui dentro per caso, noi ci saremmo accorti che è una persona per bene; e se ci avesse raccontato che aveva nostalgia di casa e cercava un po' di compagnia, be', noi l'avremmo accolto a braccia aperte. Vedendo che avevamo che fare con una brava persona, l'avremmo ricevuto né più né meno come abbiamo fatto adesso. Oh, sì, non siamo affatto freddi come dicono. Da questo momento, signor Ryder, può considerare di avere un amico in ciascuno di noi.
- Proprio così, - disse qualcuno alla mia destra. - Adesso siamo suoi amici. Se mai dovesse trovarsi in difficoltà in questa città, sappia che può contare su di noi.
- Vi ringrazio, - dissi. - Vi ringrazio moltissimo. Questa sera farò tutto ciò che posso per aiutarvi. Ma veramente, bisogna che vi avverta che...
- Signor Ryder, la prego -. Era Gustav che mi parlava gentilmente all'orecchio. - La smetta di preoccuparsi. Andrà tutto bene. Perché non si prende qualche minuto di svago?
- Ma io volevo solo avvertire i suoi amici che...
- Dico sul serio, signor Ryder, - continuò Gustav tranquillamente. - La sua dedizione è ammirevole. Ma lei vive nell'ansia. La prego, si rilassi e si prenda un po' di svago. Solo per qualche minuto. Ci guardi. Tutti noi abbiamo le nostre preoccupazioni. Io stesso devo tornare fra poco al palazzo dei concerti, dove mi aspetta una montagna di lavoro. Quando ci ritroviamo qui, siamo felici di essere tra amici e dimentichiamo il resto. Distendiamo i nervi e ci divertiamo -. Poi Gustav alzò la voce per farsi sentire nel baccano generale. - Su, facciamo vedere al signor Ryder che siamo £davvero capaci di divertirci! Facciamoglielo vedere!
Questo invito fu accolto da un'acclamazione e da un altro scroscio d'applausi, che a poco a poco si trasformò in un ritmico batter di mani tutto intorno al tavolo. Gli zingari suonarono più in fretta per tenere il ritmo, e presto anche parte degli altri avventori cominciò a battere il tempo. Notai che nella sala molti interrompevano la conversazione e giravano la sedia come preparandosi ad assistere a uno spettacolo molto atteso. Un tizio che supposi fosse il padrone - scuro e allampanato - si affacciò dal retrobottega e si appoggiò allo stipite della porta, evidentemente non meno ansioso degli altri di godersi il seguito.
Nel frattempo i facchini continuavano a battere la mani, sempre più allegri; alcuni pestavano anche i piedi sul pavimento per marcare il ritmo. Poi arrivarono due camerieri che in tutta fretta cominciarono a sgombrare la superficie del tavolo. Boccali da birra, tazzine da caffè, zuccheriere e portacenere sparirono in un battibaleno, poi uno dei facchini, un omone barbuto, salì sul tavolo. Sotto la barba cespugliosa la sua faccia era paonazza, ma non avrei saputo dire se per l'imbarazzo o per l'alcool. Comunque sia, non appena fu sul tavolo parve perdere ogni inibizione e cominciò a ballare con un ghigno sulle labbra.
Una danza curiosa, statica, in cui i piedi non si staccavano quasi dalla superficie del tavolo; una danza che metteva in risalto la statuarietà del corpo umano più che la sua agilità o la sua mobile grazia. Il facchino barbuto assunse la posa di un dio greco, sollevando le braccia come se portasse un invisibile peso; poi, mentre i compagni continuavano a battere le mani e a lanciargli grida di incoraggiamento, si limitò a modificare leggermente l'inclinazione dell'anca o a ruotare piano piano su se stesso. Per un istante mi chiesi se la messa in scena volesse essere comica, ma, anche se intorno al tavolo tutti si sbellicavano dalle risa, mi fu subito chiaro che la danza non aveva alcun intento satirico. Mentre osservavo il facchino barbuto, qualcuno mi diede una gomitata e disse:
- Ecco la nostra danza, signor Ryder. La Danza del Facchino. Sono sicuro che ne ha sentito parlare.
- Sì, - risposi. - Oh, sì. Sicché questa sarebbe la Danza del Facchino?
- Proprio così. Ma non ha ancora visto il meglio -. Il tizio che mi aveva parlato sogghignò e mi diede un'altra gomitata.
Mi accorsi che i facchini si stavano passando una grossa scatola di cartone marrone. La scatola aveva più o meno le dimensioni di una valigia, ma a giudicare da come veniva sballottata doveva essere leggera e vuota. Girò intorno al tavolo per qualche minuto, poi, a un certo punto della danza, fu lanciata al facchino barbuto. L'intera successione di movimenti rivelava una lunga consuetudine. Nel preciso istante in cui il facchino barbuto cambiò posizione e sollevò di nuovo le braccia, la scatola di cartone solcò l'aria e gli atterrò elegantemente tra le mani.
Il danzatore reagì come se avesse afferrato una lastra di pietra; per un attimo parve crollare sotto il peso, e dal pubblico si levò un gemito d'apprensione. Poi, con incredibile forza di volontà, l'uomo cominciò a tirarsi su, finché fu di nuovo perfettamente dritto, con la scatola stretta al petto. Mentre la sua impresa veniva salutata da grandi acclamazioni, il facchino barbuto cominciò a sollevare lentamente la scatola sopra la testa, fino a tenerla in alto, con le braccia tesissime. Anche se in realtà non aveva fatto nulla di speciale, i suoi gesti erano stati così dignitosi e drammatici che anch'io mi unii alle acclamazioni, come se davvero avesse sollevato un peso enorme. Poi, con una certa abilità, il facchino barbuto finse che la scatola diventasse sempre più leggera. Presto cominciò a tenerla su con una mano sola, eseguendo al contempo piccole piroette; oppure la lasciava cadere dietro le spalle riacchiappandola al volo. Quanto più la scatola si alleggeriva, tanto più i colleghi del facchino si eccitavano. Poi, mentre le imprese del danzatore si facevano sempre più insolenti, i suoi amici cominciarono a guardarsi in faccia, a sogghignare, a incitarsi a vicenda, finché un altro di loro, un ometto tutto nervi con un paio di baffi sottili, cercò di arrampicarsi sul piano del tavolo.
Il tavolo traballò e si inclinò; i facchini risero, come se anche questo facesse parte del gioco, poi lo tennero fermo mentre il collega tutto nervi vi saliva sopra. Sulle prime l'uomo con la barba non si accorse di nulla e continuò a pavoneggiarsi con la scatola di cartone, mentre il compagno se ne stava imbronciato dietro di lui, come un cavaliere che aspetta il suo turno per poter ballare con una dama molto corteggiata. Finalmente il facchino barbuto lo vide e gli tirò la scatola. Afferrandola, l'ometto tutto nervi indietreggiò barcollando e sembrò sul punto di cadere dal tavolo. Ma si riprese in tempo e, con uno sforzo sovrumano, ritrovò l'equilibrio e si mise la scatola sul dorso. Intanto, il compagno barbuto era sceso dal tavolo aiutato da una selva di mani e si era messo a battere il tempo insieme con gli altri, sorridendo beato.
Il facchino tutto nervi ripeté gran parte delle scene del suo predecessore, anche se spesso con un tocco di comicità in più. Facendo smorfie e fingendo di inciampare nella migliore tradizione delle farse, provocava grandi risate. Mentre lo osservavo, ebbi l'impressione che il ritmico battimani, i violini zigani, le risa, le grida di finto stupore mi colmassero non solo le orecchie ma tutti i sensi. Poi, mentre un terzo facchino saliva sul tavolo al posto dell'ometto tutto nervi, mi sentii risucchiare dal calore di quella gente. All'improvviso le parole di Gustav mi sembrarono profondamente sagge. Che senso aveva vivere nell'ansia? Di tanto in tanto era indispensabile scaricare i nervi e prendersi un po' di svago.
Chiusi gli occhi e mi lasciai lambire dalla piacevole atmosfera, solo vagamente consapevole che stavo ancora applaudendo e che il mio piede batteva il tempo sul pavimento di legno. Nella mia mente comparve un'immagine dei miei genitori; li vidi arrivare sulla loro carrozza a cavalli nella radura davanti al palazzo dei concerti. La gente del posto - i signori in giacca nera, le signore con cappotti, scialli e gioielli - interrompevano la conversazione e si giravano verso il rumore di zoccoli che proveniva dall'oscurità degli alberi. Poi la carrozza luccicante entrava all'improvviso nell'alone di luce, e i bei cavalli arrestavano di colpo il loro trotto, lanciando sbuffi di vapore nell'aria notturna. Mia madre e mio padre sbirciavano dal finestrino; i loro volti mostravano i primi segni di trepidante attesa, ma anche cautela e riservatezza, una certa riluttanza ad abbandonarsi completamente alla speranza che la serata potesse rivelarsi uno straordinario trionfo. Poi, mentre il cocchiere in livrea si precipitava ad aiutarli a scendere e i dignitari si disponevano in fila per accoglierli, i miei genitori assumevano quel sorrisetto ostinatamente calmo che ricordavo dai tempi della mia infanzia, nelle rare occasioni in cui invitavamo qualcuno a pranzo o a cena.
Riaprii gli occhi e vidi che sul tavolo c'erano adesso due facchini, che mimavano una scenetta divertente. Quello che aveva la scatola barcollava come se dovesse afflosciarsi sotto il suo peso e cadere di sotto, ma all'ultimo istante riusciva a passarla all'altro. Mi accorsi che Boris - il quale probabilmente si trovava nel caffè sin dall'inizio - si era avvicinato al tavolo e osservava i due facchini con evidente divertimento. Dal modo in cui batteva le mani e rideva al momento giusto, era chiaro che conosceva molto bene tutte le scenette. Era seduto tra due imponenti facchini dalla carnagione scura, che si assomigliavano abbastanza da essere fratelli. Mentre lo osservavo, il bambino disse qualcosa a uno di loro; l'uomo rise e gli diede un affettuoso pizzicotto sulla guancia.
Lo spettacolo continuava ad attirare gente dalla piazza, e il caffè stava diventando molto affollato. Al mio arrivo, i suonatori zigani erano solo due, ma adesso notai che se ne erano aggiunti altri tre, e che la musica dei loro violini, più energica che mai, veniva da ogni direzione. Poi qualcuno in fondo alla sala - non mi parve uno dei facchini - urlò: - Gustav! -, e in men che non si dica il grido passò di bocca in bocca fino al nostro tavolo. - Gustav! Gustav! - gridarono i facchini, trasformando il richiamo in una cantilena. Presto anche l'uomo dal volto ansioso che mi aveva parlato poco prima e ora era di turno sul tavolo - un'esibizione vivace ma non particolarmente abile - si unì al coro, e mentre faceva volteggiare la scatola giù per la schiena e intorno ai fianchi, cantilenò: - Gustav! Gustav!
Mi guardai intorno cercando il vecchio facchino, che non era più accanto a me; vidi che si era avvicinato a Boris e gli stava dicendo qualcosa nell'orecchio. Uno dei due fratelli dalla carnagione scura gli posò una mano sulla spalla e lo implorò di salire anche lui sul tavolo. Gustav sorrise e scosse il capo modestamente, con l'unico effetto di dare nuovo vigore alla cantilena. Ormai quasi tutti nel caffè gridavano il suo nome; mi parve che persino chi si trovava in piazza si unisse al coro. Alla fine, sorridendo stancamente a Boris, Gustav si alzò in piedi.
Avendo parecchi anni in più degli altri facchini, Gustav si arrampicò con qualche difficoltà sul tavolo, ma molte mani si protesero per aiutarlo. Quando fu sul tavolo, Gustav si raddrizzò e sorrise al pubblico. Il facchino dal volto ansioso gli passò la scatola, poi si affrettò a scendere.
Sin dall'inizio Gustav si distinse dai danzatori che l'avevano preceduto. Non appena ebbe ricevuto la scatola, invece di fingere che fosse pesantissima, se la mise in groppa senza sforzo e fece spallucce. Il gesto provocò una gran risata; sentii qualcuno gridare «Ah, il vecchio Gustav!» e «Di lui sì che ci si può fidare!» Poi, mentre Gustav continuava a trastullarsi con la scatola, un cameriere si fece largo tra la folla e buttò sul tavolo una valigia vera. Dal modo in cui la fece dondolare prima di sollevarla e dal gran tonfo, si capì che non era vuota. La valigia finì accanto ai piedi del facchino, e dalla folla si levò un mormorio. Poi la cantilena riprese a un ritmo ancora più veloce: - Gustav! Gustav! Gustav! - Vidi che Boris seguiva con attenzione ogni mossa del nonno, battendo energicamente le mani e gridando a gran voce con gli altri; il bambino sprizzava orgoglio da tutti i pori. Scorgendo il nipote, Gustav gli sorrise di nuovo, poi si chinò e afferrò il manico della valigia.
Mentre l'anziano facchino, ancora curvo in avanti, sollevava la valigia all'altezza dell'anca, ebbi l'impressione che il suo sforzo non fosse affatto simulato. Poi, mentre raddrizzava la schiena, con la scatola sempre in spalla e la valigia in mano, Gustav chiuse gli occhi, e il suo volto si rannuvolò. Ma nessuno parve allarmarsi - forse la smorfia non era che un vezzo di Gustav prima di dare un saggio della sua forza. Tanto la cantilena quanto il battimani continuarono assordanti, coprendo lo strepito dei violini. Ed ecco che Gustav riaprì gli occhi e rivolse a tutti un largo sorriso. Poi, sollevando ancora un po' la valigia, riuscì a mettersela sotto il braccio, e in questa posizione - con la valigia da una parte e la scatola dall'altra - cominciò a ballare, strisciando lentamente i piedi. Vi furono acclamazioni e grida di entusiasmo, e sentii che qualcuno accanto alla porta chiedeva: - Che cosa sta facendo? Non riesco a vedere. Che cosa sta facendo?
Poi Gustav sollevò ancora la valigia e danzò con la valigia su una spalla e la scatola sull'altra. Poiché la prima era molto più pesante della seconda, era costretto a stare inclinato da una parte, ma per il resto sembrava a suo agio, e i suoi passetti non avevano perso il brio iniziale. Boris, raggiante, gridò al nonno qualcosa che non riuscii a udire, e Gustav gli rispose storcendo la testa in un modo beffardo che suscitò nuove urla e risate.
Poi, mentre Gustav continuava a ballare, mi accorsi che alle mie spalle stava succedendo qualcosa. Era da un pezzo che qualcuno mi piantava un gomito nella schiena con fastidiosa regolarità, ma fino a quel momento avevo pensato che ciò dipendesse semplicemente dal desiderio della folla di vedere meglio lo spettacolo. Quando mi girai, invece, scoprii che proprio dietro di me, incuranti della gente che li spingeva da ogni lato, due camerieri si erano inginocchiati sul pavimento e armeggiavano con una valigia. L'avevano già riempita in gran parte con taglieri di legno provenienti dalla cucina, o così almeno mi parve. Uno dei due sistemava le assicelle in modo che ce ne stessero di più, mentre l'altro gesticolava incollerito in direzione del retrobottega, indicando gli spazi vuoti che ancora restavano nella valigia. Poi vidi arrivare altri taglieri, due o tre alla volta, passati di mano in mano attraverso la calca. I camerieri lavorarono speditamente, stipando le assicelle fino a quando la valigia fu piena da scoppiare. Ma i taglieri - a volte anche rotti - continuavano ad arrivare, e i camerieri, con l'abilità che veniva loro dall'esperienza, trovavano il modo di infilarli dentro. Forse sarebbero andati avanti ancora per un pezzo, ma a un certo punto si stufarono di essere urtati dalla folla; allora chiusero il coperchio, strinsero le cinghie e, spingendomi da parte, issarono la valigia sul tavolo.
Boris guardò fissamente la nuova valigia, poi, un po' titubante, alzò gli occhi verso il nonno. Gustav danzava strisciando lentamente i piedi come un torero. Sembrava che per il momento lo sforzo necessario per tenere la scatola e la valigia in equilibrio sulle spalle gli impedisse di notare la nuova sfida che era stata posta ai suoi piedi. Boris osservava la scena attentamente, aspettando il momento in cui il nonno avrebbe visto la seconda valigia. In realtà, lo stavano aspettando tutti, ma Gustav continuava a ballare fingendo di non essersi accorto di nulla. Boris era pronto a scommettere che fosse un trucco! Quasi sicuramente il nonno stava prendendosi gioco del pubblico, e da un momento all'altro avrebbe sollevato la pesante valigia, forse gettando via la scatola vuota per liberare una mano. Ma per chi sa quale ragione, Gustav si ostinava a non vedere, tanto che la gente cominciò a urlare e a gesticolare. Poi finalmente il vecchio facchino abbassò gli occhi, e sul suo volto - schiacciato tra la scatola e la prima valigia - si dipinse un'espressione di sgomento. Intorno a Boris tutti risero e batterono le mani ancora più forte. Gustav continuò a girare lentamente su se stesso senza staccare gli occhi dalla nuova valigia; aveva ancora la faccia preoccupata, e per un attimo Boris temette che non stesse del tutto fingendo. Ma intorno a lui la gente rideva, gente che aveva visto suo nonno recitare quella scena molte altre volte, e un attimo dopo anche Boris si mise a ridere e a incitare Gustav. La voce del bambino attirò l'attenzione dell'anziano facchino, e di nuovo nonno e nipote si scambiarono un sorriso.
Poi Gustav fece scivolare la scatola vuota lungo il braccio e, con un gesto sprezzante ma aggraziato, la scagliò sulla folla. Vi fu un nuovo boato di risa e acclamazioni, e la scatola, passando di mano in mano sopra la testa degli spettatori, svanì nei recessi della sala. Gustav diede un'altra occhiata alla seconda valigia e si issò la prima ancora più in alto sulla spalla. Poi assunse di nuovo un'espressione sgomenta; questa volta la simulazione era evidente, e Boris rise insieme con tutti gli altri. Il vecchio facchino cominciò a piegare le ginocchia. Lo fece con incredibile lentezza, non si capiva bene se per debolezza o per istrionismo, finché fu quasi accovacciato, con la prima valigia in spalla e la mano libera sul manico della seconda. Poi piano piano, senza strappi, mentre tutti continuavano a battere il ritmo con le mani, si raddrizzò, e la pesante valigia venne su con lui.
Ora Gustav stava mimando uno sforzo enorme - un po' come aveva fatto il facchino barbuto quando gli avevano lanciato la scatola di cartone. Boris lo osservava, gonfio d'orgoglio, staccando di tanto in tanto gli occhi dal nonno per guardare le facce piene di ammirazione degli spettatori pigiati intorno a lui. Persino i violinisti zigani cercavano di farsi largo per vedere meglio e sfruttavano l'energico movimento dell'archetto per sgomitare di nascosto. Con questo sistema, uno di loro era già riuscito ad arrivare in prima fila; ormai suonava con la pancia contro il tavolo, tutto proteso in avanti.
Poi Gustav ricominciò a strisciare i piedi. Il peso delle due valigie, soprattutto di quella piena di taglieri di legno, che il facchino non aveva nemmeno tentato di mettersi in spalla - cosa che sicuramente non era nelle sue possibilità - aveva ridotto a una mera parvenza l'elasticità dei suoi passi; ciò nonostante, lo spettacolo era di grande effetto, e la folla andò in estasi. - Ah, il vecchio Gustav! - si sentì di nuovo gridare, e anche Boris, per quanto non abituato a rivolgersi in questo modo al nonno, urlò a squarciagola: - Ah, il vecchio Gustav! Il vecchio Gustav!
Di nuovo il vecchio facchino parve udire la voce di Boris in mezzo a quel baccano, e anche se questa volta non si girò verso di lui - stava fingendo troppo impegno con le sue valigie per poter fare una cosa simile - i suoi movimenti acquistarono una nuova baldanza. Ricominciò a ruotare lentamente su se stesso, e dalla sua schiena scomparve qualsiasi accenno di scompostezza. Per un attimo Gustav fu splendido, in equilibrio sul tavolo come una statua, con una valigia sulla spalla e l'altra all'altezza dell'anca, volteggiando al ritmo dei battimani e della musica. Poi finse di inciampare, riprendendosi quasi subito, e questa piccola variazione strappò alla folla un «ooh!» e altre risate.
A questo punto Boris notò un certo trambusto alle sue spalle e vide che i due camerieri erano tornati e stavano di nuovo trafficando sul pavimento, spingendo via la gente per farsi un po' di spazio. Erano tutti e due in ginocchio e armeggiavano con qualcosa che sembrava una grossa sacca da golf. I loro gesti erano bruschi e insofferenti, forse perché le persone che si accalcavano intorno a loro li urtavano in continuazione con le ginocchia e questo li infastidiva. Boris distolse un attimo gli occhi per guardare il nonno, e quando si girò di nuovo vide che uno dei camerieri teneva l'apertura della sacca spalancata, come se bisognasse introdurvi un oggetto voluminoso. In quell'istante dalla folla emerse l'altro cameriere; camminava a ritroso, trascinando qualcosa sul pavimento e distribuendo a tutti violenti spintoni. Intrufolandosi nella folla, Boris vide che l'oggetto era un pezzo meccanico. Era difficile capire - c'erano troppe gambe di mezzo - ma doveva trattarsi di un vecchio motore di motocicletta, o forse di motoscafo. I due camerieri si sforzarono di ficcarlo nella sacca da golf, tirando la stoffa già tesa, dando strattoni alla cerniera lampo. Alzando gli occhi, Boris vide che il nonno maneggiava ancora con sicurezza le due valigie, e gli sembrò che non avesse bisogno di una pausa. D'altronde, la folla non era intenzionata a concedergliela. Poi Boris notò un'improvvisa animazione intorno a sé e vide che i due camerieri avevano issato la sacca da golf sul tavolo.
Per un attimo, mentre la notizia dell'arrivo della borsa passava dalla prima linea alle retrovie, il baccano aumentò di intensità. Gustav non si accorse subito della sacca da golf, perché in quel momento teneva le palpebre ben chiuse per concentrarsi meglio; presto, però, gli incitamenti della folla lo obbligarono a guardarsi intorno. I suoi occhi si posarono sulla sacca da golf, e per un secondo Gustav divenne molto serio. Poi sorrise e riprese a girare lentamente su se stesso. Come prima, anche se in maniera molto meno disinvolta, si scrollò dalla spalla la più leggera delle due valigie e la fece scivolare lungo il braccio e, mentre la valigia cadeva, riuscì, con uno sforzo sovrumano, a sollevare la mano in modo da scagliarla verso la folla. Poiché era molto più pesante della scatola vuota, la valigia non descrisse una bella parabola, ma rimbalzò sul piano del tavolo prima di finire fra le braccia dei facchini in prima fila. Anche la valigia, come la scatola, fu inghiottita dalla calca; poi tutti puntarono di nuovo gli occhi su Gustav e ripresero a cantilenare il suo nome. Il vecchio facchino guardò attentamente la sacca da golf ai suoi piedi. Il momentaneo sollievo di avere una sola valigia - anche se era quella piena di taglieri di legno - parve ridargli forza. Gustav fece una smorfia di disapprovazione e scosse la testa con fare dubbioso, con l'effetto di aumentare gli incitamenti da parte della folla. Boris sentì il facchino al suo fianco gridare: - Forza, Gustav, facci vedere!
Gustav, allora, cominciò a sollevare la valigia pesante verso la spalla su cui prima aveva quella leggera. Lo fece con gesti calcolati, a occhi chiusi, mettendo giù un ginocchio per poi tirarsi su lentamente. Barcollò un paio di volte, poi si piantò sulle gambe con la valigia saldamente in spalla e il braccio libero proteso verso la sacca da golf. Boris fu colto da un'improvvisa paura e urlò: «No!», ma il suo grido fu soffocato dalla cantilena e dalle risate, dagli «ooh» e dai gemiti della folla.
- Forza, Gustav! - stava urlando il facchino accanto a lui. - Facci vedere di che cosa sei capace! Faccelo vedere!
- No! No! Nonno! Nonno!
- Ah, il vecchio Gustav! - gridavano parecchie voci. - Forza! Facci vedere di che cosa sei capace!
- Nonno! Nonno! - Boris allungò le braccia sul tavolo per richiamare l'attenzione del nonno, ma il volto di Gustav era una maschera di feroce determinazione; i suoi occhi fissavano con straordinaria intensità la cinghia della sacca da golf adagiata sul piano del tavolo. Poi il vecchio facchino cominciò di nuovo a piegarsi, tremando in tutto il corpo per il peso della valigia che aveva in spalla, annaspando troppo presto con la mano per afferrare la cinghia ancora lontana. Nell'aria si percepiva una nuova tensione, forse per la sensazione che Gustav stesse finalmente tentando un'impresa superiore persino alle sue capacità. L'atmosfera, però, rimase festosa, la cantilena incensatoria.
Boris scrutò con aria supplice le facce degli adulti che gli stavano intorno, poi scosse il braccio del facchino più vicino.
- No! No! Basta così. Il nonno ha fatto fin troppo!
Il facchino barbuto - perché di lui si trattava - guardò stupito il bambino, poi disse ridendo: - Non preoccuparti, non preoccuparti. Tuo nonno è fantastico. Può fare questo e molto di più. Molto di più. $è fantastico!
- No! Il nonno ha già fatto fin troppo!
Ma nessuno, nemmeno il facchino barbuto - che per rassicurarlo gli aveva messo un braccio intorno alle spalle - lo stava ad ascoltare. Perché ormai Gustav era quasi accucciato sul tavolo, con la mano a pochi centimetri dalla cinghia della sacca da golf. Finalmente riuscì ad afferrarla e, con il corpo ancora rannicchiato, se la passò sulla spalla libera. Poi si strinse la cinghia al corpo e ricominciò a drizzarsi in piedi. Boris gridò e picchiò il pugno sul tavolo, e questa volta Gustav lo notò. Aveva già cominciato a distendere le gambe, ma si fermò, e per un paio di secondi nonno e nipote si fissarono negli occhi.
- No! - Boris scosse il capo. - No. Hai fatto abbastanza.
Forse, in tutto quel baccano, Gustav non sentì, ma parve capire i timori del nipote. Gli fece un rapido cenno con il capo, mentre sul suo volto balenava un sorriso rassicurante. Poi richiuse gli occhi per concentrarsi.
- No! No! Nonno! - Boris scosse di nuovo il braccio del facchino barbuto.
- Che cosa c'è? - gli domandò l'uomo, con le lacrime agli occhi dal gran ridere. Poi, senza attendere una risposta, si girò di nuovo verso Gustav e riprese a cantilenare il suo nome più forte che ma.
Gustav continuò lentamente a raddrizzarsi. Una volta, due volte, il suo corpo si mise a tremare come se stesse per crollare. Il volto gli divenne stranamente paonazzo. Le mascelle si serrarono convulsamente, le guance si deformarono, i muscoli del collo si gonfiarono. Nonostante il chiasso, avevo l'impressione di udire il suo respiro. Eppure nessun altro all'infuori di Boris sembrava accorgersi di tutto ciò.
- Non preoccuparti, tuo nonno è fantastico! - gli disse il facchino barbuto. - Questo è niente! Lo fa ogni settimana!
Gustav continuò a distendere le gambe, con la sacca da golf appesa a una spalla e la valigia issata sull'altra, finché fu di nuovo perfettamente dritto, con il volto tremulo ma trionfante. Per la prima volta dopo parecchi minuti il ritmico battimani si spezzò in un boato di applausi e acclamazioni. Anche i violini attaccarono una melodia più lenta e più solenne, adatta al gran finale. Gustav ruotò lentamente, con gli occhi socchiusi, la faccia trasformata in una maschera di dignitosa sofferenza.
- Basta! Nonno! Fermati! Fermati!
Gustav continuò a girare su se stesso, risoluto a mostrare la sua prodezza a ogni occhio presente nel caffè. Poi di colpo qualcosa dentro di lui parve spezzarsi. Il vecchio facchino si arrestò bruscamente, e per un istante oscillò piano piano, come un albero nella brezza. Ma subito si riprese e ricominciò a ruotare. Solo quando tornò esattamente nel punto in cui si trovava quando si era drizzato in piedi, solo allora si calò la valigia dalla spalla. La lasciò cadere sul tavolo con un gran tonfo, avendola giudicata troppo pesante per gettarla sulla folla senza il rischio di ferire uno spettatore, poi la spinse con il piede finché scivolò giù fra le braccia dei suoi colleghi in attesa.
La folla lo acclamò e applaudì, poi un gruppo cominciò a cantare una canzone - un'ondeggiante ballata ungherese - al ritmo della musica suonata dagli zingari. Un numero sempre maggiore di persone si unì al coro, e presto l'intera sala si mise a cantare. Sul tavolo, Gustav si liberò della sacca da golf, che cadde ai suoi piedi con un colpo metallico. Questa volta non tentò di spingerla verso la folla; si limitò ad alzare brevemente le braccia sopra la testa - un gesto che parve costargli un'immensa fatica - poi si affrettò a scendere dal tavolo. Molte mani si protesero per aiutarlo, e Boris vide il nonno calarsi sano e salvo sul pavimento.
Ormai tutti sembravano impegnati solo a cantare. La ballata aveva un che di dolce e nostalgico, e qui e là la gente cominciò a prendersi sottobraccio e a ondeggiare. Uno dei violinisti zigani si arrampicò sul tavolo, subito imitato da un secondo, e un attimo dopo i due dirigevano l'intera sala, dondolando il corpo a tempo con la musica mentre suonavano i loro strumenti.
Boris si fece largo tra la folla per raggiungere il nonno, che stava prendendo fiato. Stranamente, anche se fino a pochi secondi prima Gustav era stato al centro degli sguardi di tutti, nessuno parve prestare molta attenzione quando nonno e nipote si abbracciarono affettuosamente, con gli occhi chiusi, senza neppure tentare di nascondere l'uno all'altro il proprio immenso sollievo. Dopo un lungo momento, Gustav chinò la testa e sorrise a Boris, ma il bambino continuò a tenerlo stretto stretto, senza aprire gli occhi. - Boris, - disse Gustav. - Boris. Devi promettermi una cosa.
Come unica risposta il bambino continuò a stringere il nonno.
- Boris, ascoltami. Tu sei un bravo bambino. Se mai dovesse capitarmi qualcosa... se mai dovesse... bisogna che tu prenda il mio posto. Vedi, tua madre e tuo padre sono delle ottime persone. Ma a volte si lasciano sopraffare dalle difficoltà. Non sono forti come te o me. Quindi, se mi capita qualcosa e non ci sono più, l'uomo forte devi essere tu. Devi badare a tua madre e tuo padre, dare forza alla famiglia, tenerla unita -. Gustav si sciolse dall'abbraccio di Boris e gli sorrise. - Me lo prometti, vero, Boris?
Il bambino parve riflettere, poi annuì gravemente. Un attimo dopo nonno e nipote furono inghiottiti dalla folla e non riuscii più a vederli. Qualcuno mi stava tirando per la manica, implorandomi di prenderlo a braccetto e di unirmi al coro.
Alzando gli occhi, vidi che gli altri violinisti avevano raggiunto i primi due sul tavolo e che l'intera sala sembrava ruotare intorno a loro, unita nella canzone. Nel caffè era entrata molta altra gente, e la sala era diventata una massa compatta di corpi. La porta che dava sulla piazza era ancora aperta, e notai che anche là fuori la gente ondeggiava e cantava al buio. Presi a braccetto un omone - all'apparenza un facchino - e una grassa signora che probabilmente era riuscita a infilarsi dentro dalla piazza e cominciai a girare in tondo per il caffè con quei due al mio fianco. Non conoscevo la canzone, ma presto mi accorsi che gran parte dei presenti erano nelle mie stesse condizioni, anzi non avevano alcuna familiarità con la lingua ungherese. Si limitavano a cantare vaghe approssimazioni di quelle che immaginavano fossero le parole del testo. L'uomo e la donna che avevo accanto a me, per esempio, cantavano cose completamente diverse, senza alcun imbarazzo o incertezza. Anzi, prestando un attimo d'attenzione, scoprii che tutti e due cantavano parole senza senso; nessuno sembrava darvi importanza, e presto anch'io mi lasciai trascinare dall'atmosfera e cominciai a cantare, inventandomi parole dal vago suono ungherese. Con mia gran meraviglia, il trucco funzionò - scoprii che le parole mi uscivano di bocca sempre più numerose con gratificante facilità - e un attimo dopo stavo cantando anch'io con grande sentimento.
Poi, dopo forse venti minuti, vidi che la folla cominciava finalmente a diradarsi. I camerieri si misero a spazzare per terra e a rimettere a posto i tavoli del caffè. Ma il gruppo di cui facevo parte, che continuava a girare per la sala tenendosi a braccetto e cantando appassionatamente, era ancora piuttosto numeroso. Anche gli zingari erano rimasti sul tavolo, e non sembravano intenzionati a smettere di suonare. Mentre giravo in tondo trascinato dai miei compagni, che con garbo mi tiravano da una parte e mi spingevano dall'altra, mi sentii battere sulla schiena. Girandomi, vidi l'uomo allampanato che avevo preso per il padrone del caffè. Mi stava sorridendo, e mentre proseguivo il mio girotondo ondeggiante mi venne cortesemente dietro, strascicando i piedi con la schiena un po' curva in una posizione che mi ricordò Groucho Marx.
- Signor Ryder, ha la faccia stanca, - mi urlò nell'orecchio, ma il canto era così assordante che lo udii a stento. - E l'aspetta una serata molto lunga e importante. Non vuole riposarsi qualche minuto? Sul retro abbiamo una stanza accogliente; mia moglie le ha preparato il divano con coperte e guanciali e ha acceso la stufetta a gas. Vedrà che starà comodissimo. Potrebbe raggomitolarsi e dormire qualche minuto. La stanza è piccola, è vero, ma dà sul retro ed è molto silenziosa. Nessuno verrà a disturbarla, ci penseremo noi. Vedrà che starà comodissimo. Davvero, signor Ryder, credo che dovrebbe approfittare del poco tempo che le resta prima dell'inizio della serata. La prego, venga da questa parte. Ha una faccia così stanca.
Sebbene mi stessi godendo il canto e la compagnia, mi resi conto di essere davvero stremato. Il consiglio non era privo di buon senso. Anzi, quanto più ci pensavo, tanto più l'idea di un riposino mi allettava. Il padrone del caffè continuava a venirmi dietro strascicando i piedi; cominciai a provare una profonda gratitudine nei suoi confronti, non solo per la sua gentile offerta, ma per averci messo a disposizione quel magnifico caffè e per la sua generosità verso i facchini - una categoria di persone ovviamente sottovalutata dalla comunità. Liberai le braccia e sorrisi in segno di saluto alle persone che mi stavano a fianco. Poi il padrone mi mise una mano sulla spalla e mi guidò verso una porta in fondo al caffè.
Attraversata una stanza buia, dove scorsi pile di cassette ammonticchiate contro le pareti, aprì un'altra porta, dalla quale filtrava una luce tenue e calda.
- Ecco qua, - disse il padrone, facendomi segno di entrare. - Si distenda sul divano e si rilassi. Tenga chiusa questa porta, e se ha caldo abbassi la stufetta a gas mettendola sul minimo. Non si preoccupi, è assolutamente sicura.
La fiamma della stufa era l'unica fonte di luce nella stanza. Nel bagliore aranciato scorsi il divano, che aveva un non sgradevole odore di muffa, e prima che me ne accorgessi la porta si richiuse e io rimasi solo. Mi distesi sul divano, che era lungo a sufficienza solo a patto di rannicchiare le gambe, poi mi tirai sulle spalle la coperta che la moglie del padrone mi aveva preparato.
Parte quarta
28.
Mi svegliai con la spaventosa sensazione di avere dormito troppo a lungo. Il mio primo pensiero fu che fosse già mattina, e temetti di essermi perso l'intera serata. Ma quando mi misi a sedere sul divano vidi che intorno a me, tolto il bagliore della stufa a gas, tutto era ancora immerso nell'oscurità.
Andai alla finestra e scostai la tenda. Vidi un angusto cortiletto ingombro di bidoni della spazzatura. Una luce lasciata accesa da qualche parte lo illuminava fiocamente, ma ebbi l'impressione che il cielo non fosse più completamente buio. Di nuovo temetti che l'alba fosse vicina. Lasciando ricadere la tenda, mi diressi verso la porta, rimpiangendo amaramente di avere dato ascolto al padrone del caffè quando mi aveva offerto un posto per riposare.
Entrai nella piccola stanza di comunicazione, dove in precedenza avevo visto pile di mercanzie contro i muri. Faceva buio pesto, e per due volte, mentre cercavo a tentoni la porta, urtai contro qualcosa di duro. Finalmente sbucai nella sala principale del caffè, dove non molto tempo prima avevamo ballato e cantato così piacevolmente. Dalle finestre che davano sulla piazza filtrava un po' di luce, che permetteva di distinguere le forme caotiche delle sedie impilate sui tavoli. Destreggiandomi fra gli ostacoli, andai alla porta e guardai attraverso i vetri.
Fuori tutto era immobile. La tenue luce che entrava nel caffè proveniva dal solitario lampione in mezzo alla piazza vuota, ma di nuovo mi parve di scorgere in cielo i primi indizi dell'alba. Mentre contemplavo la piazza, mi sentii invadere dalla rabbia. Mi resi conto di avere lasciato che troppe cose mi distraessero dai miei obiettivi principali, al punto che avevo dormito per buona parte di una delle serate più importanti della mia vita. Poi la rabbia si mescolò alla disperazione, e fui sul punto di mettermi a piangere.
Tuttavia, mentre scrutavo il cielo notturno, cominciai a domandarmi se i presagi dell'alba non fossero frutto della mia fantasia. Infatti, ora che lo stavo studiando più attentamente, mi accorsi che il cielo era ancora nerissimo; mi venne il dubbio che non fosse poi così tardi. Era inutile lasciarsi prendere dal panico. Per quel che ne sapevo, potevo ancora arrivare al palazzo dei concerti in tempo per assistere a gran parte della serata, e sicuramente per dare il mio contributo.
Nel frattempo mi ero messo a scuotere la porta distrattamente. Solo allora notai la sfilza di chiavistelli; li feci scorrere a uno a uno e uscii nella piazza.
L'aria mi parve magnificamente rinfrescante dopo l'odore di chiuso del caffè, e se avessi avuto meno fretta sarei rimasto volentieri a passeggiare nella piazza per schiarirmi le idee. Invece, partii risoluto in cerca del palazzo dei concerti.
Per parecchi minuti camminai come una furia per le strade deserte, passando davanti a caffè e negozi chiusi, senza mai scorgere la cupola. Alla luce dei lampioni la città vecchia era senza dubbio affascinante, ma quanto più procedevo, tanto più stentavo a reprimere il panico. Mi ero aspettato, non del tutto irragionevolmente, di incontrare un tassì a caccia di clienti notturni; o almeno qualche passante uscito da un locale notturno cui chiedere indicazioni. Ma tolti i gatti randagi, sembravo l'unica creatura sveglia nel raggio di chilometri.
Attraversai le rotaie di una tranvia, poi m'incamminai lungo l'argine di un canale. Sull'acqua soffiava un vento gelido, e dopo un po', dato che il palazzo dei concerti sembrava sparito nel nulla, non riuscii più a scacciare la sensazione di essermi perso. Avevo deciso di tentare una traversa poco più avanti - una viuzza che si diramava ad angolo acuto - quando udii un rumore di passi e vidi una donna sbucare proprio di lì.
Ero ormai così abituato all'idea che le strade fossero deserte che a quella vista mi fermai di botto. Lo stupore era accentuato dal fatto che la donna indossava un ondeggiante vestito da sera. Anche lei esitò, poi parve riconoscermi e mi venne incontro con un sorriso. Quando arrivò sotto la luce dei lampioni, vidi che era prossima alla cinquantina; forse l'aveva addirittura superata. Sebbene fosse grassottella, si muoveva con notevole grazia.
- Buona sera, signora, - dissi. - Chissà se può aiutarmi. Cerco il palazzo dei concerti. Sto andando nella direzione giusta?
La donna mi era ormai giunta accanto. Sorridendo di nuovo, disse:
- No, veramente il palazzo si trova da quella parte. Vengo giusto di lì. Stavo prendendo un po' d'aria, ma l'accompagnerò volentieri, signor Ryder. Sempre che non abbia nulla in contrario, naturalmente.
- Mi farebbe un enorme piacere, signora. Ma non voglio interrompere la sua passeggiata.
- No, no. $è quasi un'ora che cammino. Devo tornare anch'io. Avrei fatto meglio a prendermela con calma e ad arrivare con tutti gli altri invitati. Ma scioccamente mi ero messa in testa di dover assistere ai preparativi, caso mai ci fosse stato bisogno di me. Naturalmente, non c'era niente che potessi fare. Ma la prego di scusarmi, signor Ryder, non mi sono presentata. Sono Christine Hoffman. Mio marito è il direttore del suo albergo.
- Lieto di conoscerla, signora Hoffman. Suo marito mi ha parlato molto di lei.
Mi pentii di questa osservazione non appena mi uscì di bocca. Lanciai un'occhiata alla signora Hoffman, ma il suo volto era di nuovo nella penombra.
- Da questa parte, signor Ryder, - disse la donna. - Non siamo lontani.
Mentre ci incamminavamo, le maniche del suo vestito da sera si gonfiarono. Tossii e domandai:
- Devo dedurre, da ciò che ha detto, che al palazzo dei concerti la serata non è ancora in pieno svolgimento, signora Hoffman? E che gli invitati non sono ancora arrivati?
- Gli invitati? Oh, no. Non credo che nessuno arriverà prima di un'altra ora.
- Ah. Bene.
Continuammo senza fretta lungo il canale, girandoci di tanto in tanto a contemplare il riflesso dei lampioni sull'acqua.
- Mi chiedevo, signor Ryder, - disse finalmente la signora Hoffman, - se mio marito, quando le ha parlato di me, le ha dato l'impressione che io fossi... ecco, una persona un po' fredda. Mi chiedevo se le ha dato questa impressione.
Proruppi in una breve risata. - Suo marito, signora Hoffman, mi ha dato soprattutto l'impressione di essere una persona estremamente devota a lei.
La donna continuò a camminare in silenzio, e mi venne il dubbio che non avesse udito la mia risposta. Dopo un po' disse:
- Quand'ero giovane, signor Ryder, nessuno si sarebbe mai sognato di descrivermi come una persona fredda. Le assicuro che da bambina ero tutt'altro che fredda. E nemmeno oggi riesco a vedermi così.
Borbottai qualcosa di vagamente diplomatico. Poi, mentre lasciavamo il canale per imboccare una stretta via laterale, vidi finalmente la cupola del palazzo dei concerti, illuminata sullo sfondo nero del cielo.
- Ancora adesso, la mattina presto, - disse accanto a me la signora Hoffman, - faccio strani sogni. Solo la mattina presto. Sono sempre sogni sulla... sulla tenerezza. Non vi succede quasi nulla, di solito si tratta di semplici frammenti. Magari osservo mio figlio Stephan. Lo osservo mentre gioca in giardino. Un tempo, quando lui era piccolo, eravamo molto vicini, signor Ryder. Lo consolavo, partecipavo ai suoi piccoli trionfi. Ah, com'eravamo vicini quando lui era piccolo. Talvolta il sogno riguarda mio marito. L'altra mattina ho sognato che stavamo disfacendo una valigia insieme. Eravamo in una stanza e mettevamo le cose sul letto. Forse eravamo in un albergo all'estero, forse a casa nostra. Ma la cosa importante era che stavamo disfacendo i bagagli insieme, e che ci sentivamo... ci sentivamo bene... lavoravamo gomito a gomito. Tirava fuori qualcosa lui, poi tiravo fuori qualcosa io. E intanto chiacchieravamo, di nulla in particolare, una banale conversazione mentre svuotavamo la valigia. Questo sogno l'ho fatto non più tardi dell'altra mattina. Poi mi sono svegliata e sono rimasta a letto a guardare la luce dell'alba che filtrava attraverso le tende, con una gran felicità in cuore. Mi sono detta che presto le cose sarebbero andate £davvero così. Che forse quel giorno stesso avremmo vissuto un istante simile. Non c'era bisogno che disfacessimo una valigia, naturalmente. Ma qualcosa, avremmo fatto qualcosa proprio quel giorno; la possibilità £c'£era. Mi sono riaddormentata con questo pensiero e con una gran felicità in cuore. Poi è arrivata la mattina. $è strano, signor Ryder, tutte le volte è la stessa storia. Non appena la giornata comincia, interviene quest'altra cosa, questa £forza, che arriva e prende il sopravvento. E per quanto m'impegni, i nostri rapporti imboccano una strada diversa da quella che vorrei. Io lotto contro questa dannazione, signor Ryder, ma in tutti questi anni non ho fatto che perdere terreno. E... è più forte di me. Mio marito ce la mette tutta, cerca di aiutarmi, ma è inutile. Quando scendo a colazione, tutto ciò che ho provato in sogno è già sparito da un pezzo.
Alcune automobili posteggiate sul marciapiede ci costrinsero a camminare in fila indiana, e la signora Hoffman mi precedette di qualche passo. Quando fui di nuovo al suo fianco, le domandai:
- Che cosa pensa che sia questa forza?
La donna si mise improvvisamente a ridere. - Non avevo intenzione di fargliela sembrare una cosa così soprannaturale, signor Ryder. Ovviamente, la risposta più semplice sarebbe che all'origine di tutto c'è il signor Christoff. Io stessa, per un po', l'ho pensato, e certamente mio marito ne è ancora convinto. Come molti altri in questa città credevo che sarebbe bastato sostituire nei nostri affetti il signor Christoff con qualcuno di meno fatuo. Ma ultimamente non ne sono più così sicura. Comincio a pensare che possa dipendere da me. Che sia come una specie di malattia. O che faccia parte del processo di invecchiamento. In fondo, tutti invecchiamo, e certe parti di noi cominciano a morire. Forse cominciamo a morire anche spiritualmente. Pensa che sia possibile, signor Ryder? Ho una grande paura, sa, una grande paura che la verità sia questa. Che dopo avere dato il benservito al signor Christoff scopriremo, nel mio caso particolare almeno, che non è cambiato nulla.
Svoltammo in un'altra via. Dato che i marciapiedi erano molo stretti, ci spostammo in mezzo alla carreggiata. Ebbi l'impressione che la signora Hoffman si aspettasse una risposta, e dopo un po' dissi:
- Secondo me, di là dagli effetti dell'invecchiamento, è fondamentale che lei non si abbatta, che non si arrenda a questa... la chiami come vuole.
La signora Hoffman alzò lo sguardo verso il cielo notturno e per un po' camminò senza ribattere. Poi disse: - Sa, a proposito di questi sogni incantevoli che faccio la mattina presto... Spesso, quando vedo che la giornata comincia e i sogni non si realizzano, mi amareggio e do la colpa a me stessa. Ma le assicuro che non mi sono ancora arresa, signor Ryder. Se capitolassi, resterebbe ben poco nella mia vita. Per il momento mi rifiuto di abbandonare i miei sogni. Non ho ancora rinunciato ad avere una famiglia unita e affettuosa. Ma non è solo per questo. Vede, signor Ryder, forse sono una sciocca a farmi di queste illusioni, e la prego di dirmi che cosa ne pensa. Ma un giorno spero di smascherarla questa... questa £cosa. Sì, spero di smascherarla, e allora non mi importerà più di nulla; tutti questi anni di lento logorio saranno spazzati via. Ho la sensazione che basterebbe un istante, anche £minuscolo, purché sia quello giusto. Come se una corda si spezzasse all'improvviso, e uno spesso sipario cadesse a terra rivelando un mondo interamente nuovo, un mondo pieno di luce e di calore. Signor Ryder, perché fa quella faccia incredula? Sono davvero matta a sperare in una cosa simile? A sperare che, anche se sono passati tanti anni, un solo istante, l'istante giusto, possa cambiare tutto?
Ciò che la donna aveva preso per incredulità era tutt'altra cosa. Mentre parlava, mi ero ricordato dell'imminente esibizione al pianoforte di Stephan, e senza dubbio non avevo saputo nascondere la mia eccitazione. Forse un po' troppo precipitosamente le dissi:
- Signora Hoffman, non voglio darle false speranze. Ma è possibile, solo possibile, che molto presto le capiti qualcosa, un'esperienza che potrebbe essere proprio l'istante di cui mi stava parlando. $è possibile che questo istante si presenti nell'immediato futuro. Che le capiti qualcosa di stupefacente, che la costringerà a riesaminare tutto sotto una luce nuova e migliore. Qualcosa che sicuramente spazzerà via questi anni di patimenti. Non voglio darle false speranze; dico solo che la possibilità esiste. Il fatidico istante potrebbe presentarsi addirittura questa sera, quindi è essenziale che lei non si abbatta.
Mi fermai, improvvisamente consapevole che stavo tentando il destino. In fondo, anche se quel poco che avevo sentito di Stephan mi aveva colpito, c'era sempre il rischio che il ragazzo crollasse per effetto della tensione. Anzi, ripensandoci, mi pentii di essermi lasciato andare a simili dichiarazioni. Tuttavia, quando guardai la signora Hoffman, mi accorsi che le mie parole non l'avevano né meravigliata né eccitata. Dopo qualche istante, la donna disse:
- Poco fa, signor Ryder, quando mi ha trovata a passeggio per queste strade, non stavo semplicemente prendendo una boccata d'aria, come le ho fatto credere. Cercavo di prepararmi. Perché naturalmente anch'io ho pensato alla possibilità cui mi ha accennato lei. Sì, in una notte come questa sono possibili molte cose. Dunque mi stavo preparando. E non ho ritegno a confessarle che in questo momento sono un po' spaventata. Perché vede, in passato, anche se raramente, questi attimi si sono già presentati, e io non sono stata abbastanza forte per afferrarli. Chi può dire quante occasioni avrò ancora? Per questo, signor Ryder, stavo facendo del mio meglio per prepararmi. Oh, eccoci arrivati. Questo è il retro dell'edificio. Di qui si va nelle cucine. L'accompagno all'ingresso degli artisti, ma io non entrerò con lei. Credo di avere ancora bisogno di prendere un po' d'aria.
- Sono felice di averla conosciuta, signora Hoffman. $è stata molto gentile ad accompagnarmi in un momento per lei così delicato. Spero che questa sera tutto vada per il meglio.
- Grazie, signor Ryder. Sono sicura che anche lei ha da pensare a tante cose. $è stato un vero piacere conoscerla.
29.
Mentre la signora Hoffman spariva nella notte, mi girai e mi affrettai verso la porta che mi aveva indicato. Lo feci dicendomi che il falso allarme di poc'anzi doveva servirmi da lezione; era assolutamente indispensabile evitare qualunque cosa potesse distrarmi dagli importantissimi impegni che mi attendevano. In realtà, in quel momento, mentre finalmente entravo nel palazzo dei concerti, tutto mi parve all'improvviso molto semplice. L'unica cosa che contava era che dopo tutti questi anni avrei suonato di nuovo davanti ai miei genitori. Il primo obiettivo, quindi, era i quello di suonare nella maniera più strabiliante e irresistibile di cui fossi capace. Al confronto, persino l'intermezzo con le domande e le risposte passava in second'ordine. Tutti i contrattempi e i disguidi dei giorni precedenti si sarebbero rivelati privi di importanza, purché quella sera riuscissi a conseguire il mio scopo principale.
L'ampia porta bianca era debolmente illuminata dall'alto da un'unica lampadina. Per aprirla dovetti spingere con tutto il mio peso, tanto che entrando incespicai leggermente.
Sebbene la signora Hoffman mi avesse assicurato che quella era l'entrata degli artisti, la mia prima impressione fu di essere finito lo stesso nelle cucine. Mi trovavo in un corridoio largo e spoglio, crudamente illuminato da tubi fluorescenti applicati al soffitto. Da ogni parte mi giungeva il suono di voci che chiamavano e urlavano, il fragore di pesanti oggetti metallici, il sibilo di acqua e vapore. Proprio davanti a me c'era un carrello portavivande con due individui in uniforme che litigavano selvaggiamente. Uno dei due teneva in mano una lunga striscia di carta che arrivava quasi a terra e la colpiva ripetutamente con la punta del dito. Pensai di interromperli per chiedere dove fosse Hoffman - dato che innanzitutto volevo esaminare l'auditorium e il pianoforte, prima che arrivasse il pubblico - ma i due sembravano così presi dal loro litigio che decisi di proseguire oltre.
Il corridoio curvava gradualmente. Incontrai parecchie persone, ma mi sembrarono tutte indaffaratissime e di cattivo umore. La maggior parte, vestita in uniforme bianca, andava di qui e di là con la faccia preoccupata, portando pesanti sacchi o spingendo carrelli. Sentendomi poco invogliato a fermarne una, continuai lungo il corridoio, presumendo che prima o poi sarei arrivato in un'altra parte dell'edificio, dove avrei trovato i camerini - e con un po' di fortuna Hoffman o qualcuno che potesse farmi visitare l'auditorium. Poi, però, sentii alle mie spalle una voce che mi chiamava per nome; voltandomi, vidi un uomo correre verso di me. Aveva un aspetto familiare, e un attimo dopo riconobbi il facchino barbuto che quella sera aveva aperto le danze nel caffè.
- Signor Ryder, - mi disse ansimando, - grazie al cielo l'ho trovata. Finalmente. $è la terza volta che faccio il giro dell'edificio. Ha una fibra d'acciaio, ma abbiamo fretta di portarlo in ospedale, e lui dice che non si muoverà se prima non parla con lei. La prego, da questa parte. Per fortuna ha una fibra d'acciaio, che Dio lo benedica.
- Chi ha una fibra d'acciaio? Che cosa è successo?
- Da questa parte, signor Ryder. Meglio spicciarci, se non le dispiace. Mi scusi, non le ho spiegato. Gustav si è sentito male. Io non c'ero quando è successo, ma ci hanno avvertiti due dei ragazzi, Wilhelm e Hubert, che erano venuti a dare una mano per i preparativi di questa sera e lavoravano con lui. Naturalmente, appena l'ho saputo sono corso qui, e così hanno fatto tutti gli altri. Pare che Gustav stesse lavorando di buona lena, ma a un certo punto è andato al gabinetto e non è più uscito. Visto che non è da lui comportarsi così, Wilhelm è entrato a dare un'occhiata. E pare che abbia trovato Gustav chino su un lavabo. Non stava ancora molto male; ha detto a Wilhelm che gli girava un po' la testa, tutto lì, e che non era il caso di agitarsi. Wilhelm, fatto com'è, non sapeva che pesci prendere, anche perché Gustav gli aveva detto di stare calmo, così è andato a chiamare Hubert. Hubert ha dato un'occhiata a Gustav e ha deciso che bisognava sdraiarlo da qualche parte. Così si sono messi uno da una parte e uno dall'altra per aiutarlo, e in quel momento si sono accorti che Gustav era svenuto in piedi. Si era aggrappato ai lati del lavabo, e li stringeva con tale forza che hanno dovuto staccargli le dita a una a una, così almeno dice Wilhelm. Poi Gustav si è un po' riavuto, e i ragazzi l'hanno portato fuori di lì sostenendolo per le braccia. Gustav ha ricominciato a dire che non c'era bisogno di agitarsi, che stava benone e poteva riprendere a lavorare. Ma Hubert non gli ha dato retta e l'ha sistemato in un camerino, uno di quelli vuoti.
Il facchino mi precedeva per il corridoio camminando di buon passo; non aveva cessato un istante di parlarmi con la testa voltata verso di me, ma a un certo punto dovette interrompersi per schivare un carrello.
- Questo è un bel guaio, - dissi. - Quando è successo, esattamente?
- Credo un paio di ore fa. Sulle prime Gustav non sembrava così grave; sosteneva di avere solo bisogno di qualche minuto per riprendere fiato. Hubert però era preoccupato e ci ha avvertiti, e un attimo dopo eravamo tutti qui, dal primo all'ultimo. Abbiamo trovato un materasso su cui farlo sdraiare e una coperta, poi ci è sembrato che peggiorasse; allora ne abbiamo discusso e ci siamo detti che Gustav aveva bisogno di assistenza. Ma lui non ha voluto saperne; sul più bello si è incaponito e ha detto che doveva parlarle. Cocciuto come un mulo. Ha detto che in ospedale ci andrà, se proprio vogliamo, ma non prima di avere parlato con lei. Lo vedevamo peggiorare sotto i nostri occhi, ma non c'era verso di farlo ragionare, signor Ryder, così abbiamo cominciato a cercarla. Grazie a Dio, l'ho trovata. Gustav è lì, nell'ultimo camerino in fondo al corridoio.
Avevo pensato che il corridoio facesse il giro completo, invece vidi che finiva poco più avanti contro un muro color panna. L'ultima porta prima del muro era socchiusa; fermandosi sulla soglia, il facchino barbuto sbirciò cautamente dentro la stanza. Poi mi fece cenno di seguirlo ed entrò.
Ammassate dietro la porta c'erano una dozzina di persone, che si girarono verso di noi e si fecero subito da parte. Immaginai che fossero gli altri facchini, ma non mi soffermai a controllare, perché i miei occhi furono attratti dalla figura di Gustav, sdraiata in fondo alla stanzetta.
Il vecchio facchino giaceva su un materasso steso sul pavimento di piastrelle, con una coperta addosso. Uno dei suoi colleghi si era accucciato accanto a lui e gli stava parlando sottovoce, ma quando mi vide si alzò. In un attimo la stanza si svuotò, la porta si chiuse e io rimasi solo con Gustav.
Il minuscolo camerino non aveva mobili, nemmeno una sedia di legno. Era anche privo di finestre, e, sebbene dalla griglia di aerazione vicino al soffitto provenisse un lieve ronzio, l'aria sapeva di chiuso. Il pavimento era freddo e duro, e la lampada sopra la nostra testa era stata spenta o non funzionava; l'unica fonte di luce erano le lampadine disposte intorno allo specchio per il trucco. Ci vedevo abbastanza, però, per accorgermi che la faccia di Gustav aveva assunto una strana tonalità di grigio. Il vecchio giaceva supino, perfettamente immobile; solo di tanto in tanto s'inarcava all'indietro, affondando ancora di più la testa nel materasso, come se il suo corpo fosse investito da un'onda. Quando ero entrato mi aveva sorriso, ma non aveva aperto bocca, senza dubbio risparmiandosi per il momento in cui saremmo rimasti soli. Ora, con voce flebile ma per il resto incredibilmente serena, mi disse:
- Mi spiace molto averla trascinata fin qui, signor Ryder. $è la seccatura peggiore che potesse capitarmi, e per di più questa sera, quando sta per renderci un grande favore.
- Sì, sì, - mi affrettai a interromperlo, - ma mi dica, come si sente? - Mi accovacciai accanto a lui.
- Credo di essere piuttosto mal messo. E penso che dovrò andare in ospedale per fare qualche controllo.
Gustav tacque, mentre un'altra onda lo investiva; per qualche secondo sul materasso si svolse una lotta silenziosa, durante la quale il vecchio facchino tenne gli occhi chiusi. Poi li riaprì e continuò:
- Avevo bisogno di parlarle, signor Ryder. Devo dirle una cosa.
- Voglio subito assicurarle, - dissi, - che terrò fede all'impegno preso. Anzi, sono ansioso di dimostrare a tutti coloro che si riuniranno qui questa sera le ingiustizie che voi facchini avete dovuto sopportare in questi anni. Sono intenzionatissimo a mettere in evidenza i numerosi malintesi...
Mi fermai, perché mi accorsi che Gustav stava cercando di attirare la mia attenzione.
- Non ho mai dubitato un istante, signor Ryder, - disse il facchino dopo una pausa, - che avrebbe mantenuto la sua parola. Le sono molto riconoscente per avere preso le nostre parti. Ma è di qualcos'altro che desidero parlarle -. Gustav fece di nuovo una pausa, e sotto la coperta cominciò un'altra battaglia silenziosa.
- Veramente, - dissi, - mi chiedo se non sarebbe saggio andare di filato in ospedale...
- No, no. La prego. Se mi portano in ospedale, be', dopo potrebbe essere troppo tardi. Vede, è giunto il momento che io parli a Sophie. Sì devo assolutamente parlarle. So che questa sera ha ben altro cui pensare, signor Ryder, ma vede, tolto lei, nessuno sa niente della situazione fra me e Sophie, della nostra £intesa. Mi rendo conto di chiederle molto, ma non potrebbe cercarla e spiegarle come stanno le cose? Non c'è nessun altro che possa farlo.
- Mi scusi, - dissi, sinceramente confuso. - Spiegarle che cosa, di preciso?
- Spiegarle perché la nostra intesa... insomma, perché debba finire proprio adesso. Non sarà facile convincerla dopo tutti questi anni. Ma se lei ci provasse, se riuscisse a farle capire perché dobbiamo cercare di mettere fine all'intesa... Mi rendo conto di chiederle molto, ma ci vuole ancora un po' prima che la chiamino in scena. E, come le dico, lei è l'unico che sappia...
La frase gli morì sulle labbra, mentre un'altra ondata di dolore investiva il suo corpo. Mi accorsi che sotto la coperta i suoi muscoli si tendevano allo spasimo per resistere; ma questa volta Gustav continuò a fissarmi in volto, riuscendo a tenere gli occhi aperti nonostante il violento tremito. Quando finalmente si rilassò di nuovo, dissi:
- $è vero, ho ancora un po' di tempo. D'accordo, vedrò che cosa posso fare. Cercherò di spiegarle. In ogni caso, gliela porterò qui il più in fretta possibile. Ma spero proprio che lei si riprenda presto, e che i suoi timori sulle sue condizioni di salute si rivelino infondati...
- La prego, signor Ryder, me la porti qui, faccia in fretta. Intanto io cercherò di tenere duro...
- Sì, sì, vado subito. Non si agiti, ci metterò pochissimo.
Mi alzai in piedi e mi diressi verso la porta. Ero quasi sulla soglia, quando mi venne in mente una cosa. Mi girai e tornai dalla figura distesa sul pavimento.
- Boris, - dissi, accovacciandomi di nuovo. - Che cosa devo fare di Boris? Porto qui anche lui?
Gustav mi guardò, poi trasse un profondo respiro e chiuse gli occhi. Dopo qualche istante, vedendo che si ostinava a non parlare, aggiunsi:
- Forse è meglio che non la veda in queste... in queste condizioni.
Gustav rimase zitto, con gli occhi chiusi, ma mi parve di cogliere un lievissimo cenno affermativo.
- In fondo, - continuai, - si è creato una certa immagine di lei, e forse è meglio che la ricordi così. Non crede?
Questa volta Gustav annuì più risolutamente.
- Ho pensato che fosse meglio chiederglielo, - dissi, alzandomi di nuovo in piedi. - D'accordo, le porterò solo Sophie. Vado e torno.
Andai verso la porta, e stavo già girando la maniglia quando Gustav urlò all'improvviso:
- Signor Ryder!
Non solo mi aveva chiamato in tono sorprendentemente alto, ma nella sua voce c'era una tale veemenza che stentai a credere che potesse venire da lui. Quando mi voltai, aveva di nuovo gli occhi chiusi e sembrava immobile. Mi avvicinai con un po' di apprensione, ma Gustav riaprì le palpebre e mi fissò.
- Porti anche Boris, - disse con un filo di voce. - Non è più un bambino. Che mi veda pure in questo stato. Deve imparare a conoscere la vita. Imparare ad affrontarla.
Gli occhi si richiusero, e vedendo che la sua faccia si tendeva, pensai che Gustav fosse colpito da un altro accesso di dolore. Ma questa volta c'era qualcosa di diverso; preoccupato, guardai meglio e mi accorsi che il vecchio stava piangendo. Rimasi un momento a osservarlo senza sapere che cosa fare, poi gli sfiorai una spalla.
- Ci metterò pochissimo, - sussurrai.
Quando uscii dal camerino, gli altri facchini, radunati davanti alla porta, si girarono verso di me con la faccia ansiosa. Mi feci largo fra loro, dicendo con fermezza:
- Signori, vi prego di avere cura di lui. Bisogna che mi occupi di un'urgente richiesta di Gustav, quindi vi prego di scusarmi.
Qualcuno cercò di rivolgermi una domanda, ma io passai oltre senza fermarmi.
Avevo intenzione di trovare Hoffman e di chiedergli di accompagnarmi immediatamente a casa di Sophie in macchina. Ma un attimo dopo, mentre avanzavo a grandi passi per il corridoio, mi resi conto che non avevo la minima idea di dove fosse il direttore dell'albergo. Inoltre, il corridoio aveva un aspetto molto diverso da quando l'avevo percorso in compagnia del facchino barbuto. In giro si vedeva ancora qualche carrello, ma adesso il corridoio era invaso soprattutto da persone che potevo solo supporre facessero parte dell'orchestra ospite. Ai miei lati erano comparse due lunghe file di camerini, molti dei quali con la porta aperta; i musicisti conversavano e ridevano a gruppetti di due o tre, chiamandosi a gran voce da una parte all'altra del corridoio. Di tanto in tanto passavo davanti a una porta chiusa da cui veniva il suono di uno strumento, ma nell'insieme l'atmosfera mi parve stranamente frivola. Stavo per fermarmi a chiedere a uno dei musicisti dove potessi trovare Hoffman, quando scorsi il direttore dell'albergo attraverso lo spiraglio di una porta semiaperta. Mi avvicinai e la aprii un po' di più.
Hoffman si stava esaminando attentamente davanti a uno specchio a muro. Indossava un abito da cerimonia, e notai che si era truccato in maniera esagerata, tanto che un po' di cipria gli era finita sulle spalle e sui risvolti della marsina. Borbottava qualcosa sottovoce, senza staccare gli occhi dalla propria immagine riflessa. Poi, mentre lo osservavo dalla soglia, fece una cosa curiosa. Piegandosi improvvisamente in avanti ad angolo retto, sollevò un braccio con il gomito in fuori e si batté la fronte con il pugno - una, due, tre volte. E questo senza distogliere gli occhi dallo specchio, né interrompere il borbottio. Poi raddrizzò il busto e rimase a guardarsi in silenzio. Temendo che stesse per ricominciare da capo, mi schiarii la gola e dissi:
- Signor Hoffman.
Il direttore sussultò e mi fissò con gli occhi sbarrati.
- L'ho disturbata, - dissi. - Mi scusi.
Hoffman si guardò intorno disorientato, poi parve ritrovare il suo contegno.
- Signor Ryder, - disse con un sorriso. - Come sta? Spero che stia trovando tutto di suo gradimento.
- Signor Hoffman, c'è un'emergenza. Devo fare una scappata in città e ho bisogno di un'automobile. La prego di provvedere immediatamente.
- Un'automobile, signor Ryder? Adesso?
- Si tratta di una questione della massima urgenza. Ovviamente non starò via molto e tornerò in tempo per i vari impegni che mi attendono.
- Sì, sì, naturalmente -. Hoffman sembrava un po' perplesso. - Non credo che sia un problema procurarle un'automobile, signor Ryder. E in circostanze normali avrei potuto trovarle anche un autista, o l'avrei accompagnata io stesso molto volentieri. Ma purtroppo in questo momento tutto il personale è occupatissimo. E io devo pensare a un'infinità di cose, oltre a provare il mio modesto discorsino. Ah ah! Come sa, questa sera dirò qualche parola anch'io. E anche se il mio contributo apparirà indubbiamente trascurabile in confronto al suo, e persino.a quello del signor Brodsky, che tra parentesi è un po' in ritardo, sento il dovere di prepararmi con la massima cura. Sì, sì, il signor Brodsky è un po' in ritardo, è vero, ma non c'è motivo di preoccuparsi. Questo, tra l'altro, è il suo camerino; stavo controllando che tutto fosse in ordine. Un ottimo camerino. Sono sicurissimo che il signor Brodsky sarà qui a momenti. Come lei sa, ho seguito personalmente il... ehm... il suo recupero, ed è stata un'esperienza davvero esaltante. Vedesse che impegno, che dignità! Quindi questa sera, anche se è una sera così importante, sono estremamente fiducioso. Oh, sì. Estremamente fiducioso! A questo punto, una ricaduta sarebbe inconcepibile. Una catastrofe per l'intera città! E naturalmente una catastrofe personale per il sottoscritto. Questa dovrebbe essere l'ultima delle mie preoccupazioni, ma mi perdonerà se le dico che una ricaduta adesso, proprio questa sera, be', segnerebbe la mia fine. Proprio alle soglie del trionfo, mi darebbe il colpo di grazia. E che fine umiliante! Non potrei più guardare in faccia nessuno, in questa città. Dovrei nascondermi. Ah! Ma che mi prende? Perché parlo di eventualità così remote? Ho la massima fiducia nel signor Brodsky. Arriverà.
- Sì, ne sono sicuro, signor Hoffman, - dissi. - Anzi, sono sicuro che la serata sarà un grande successo...
- Sì, sì, lo so! - urlò il direttore spazientito. - Non ho bisogno delle sue rassicurazioni! Non gliene avrei nemmeno parlato... In fondo, manca ancora parecchio all'inizio, e non gliene avrei nemmeno parlato se non fosse per... per ciò che è successo questo pomeriggio.
- Che cosa è successo?
- Sì, sì. Ah, non lo sa ancora. E come potrebbe saperlo? Ma non è il caso di darvi troppo peso, signor Ryder. Questo pomeriggio sono successe un po' di cose, e una delle conseguenze è che il signor Brodsky, quando l'ho lasciato un paio di ore fa, stava sorseggiando un dito di whisky. No, no, signor Ryder! So già che cosa sta pensando! No, no! Prima ha chiesto il mio parere. E dopo attenta riflessione ho ceduto, convinto che in quelle specialissime circostanze un bicchierino non gli avrebbe fatto male. Ho agito a fin di bene, signor Ryder. Se ho avuto torto, lo vedremo. Personalmente, credo di no. Perché, se davvero ho preso la decisione sbagliata, l'intera serata... uh!... sarà un disastro dal principio alla fine! E io sarò costretto a nascondermi per il resto dei miei giorni. Ma vede, signor Ryder, le cose si sono complicate più del previsto, e mi sono trovato costretto a prendere una decisione. Sia come sia, il risultato è che ho lasciato il signor Brodsky a casa sua con un bicchierino di whisky. Ho piena fiducia che non ne berrà altro. Il mio unico cruccio, adesso, è che forse avrei dovuto fare qualcosa a proposito dell'armadio. Ma, di nuovo, sono sicuro che mi preoccupo per niente. In fondo, il signor Brodsky ha fatto enormi progressi, e senza dubbio ci si può fidare di lui nel modo più assoluto, più assoluto -. Mentre parlava, Hoffman aveva giocherellato con il farfallino; adesso si girò verso lo specchio per rimetterlo in ordine.
- Signor Hoffman, - dissi, - si può sapere che cos'è questa storia? Se è successo qualcosa al signor Brodsky, o se è capitato qualcosa che possa in qualche modo modificare il quadro generale, credo che dovrei esserne informato immediatamente. Sono sicuro che ne converrà anche lei.
Il direttore dell'albergo rise. - Signor Ryder, si è fatto un'idea completamente sbagliata. Non c'è nessunissimo bisogno che si preoccupi. Mi guardi, le sembro preoccupato? No. Tutta la mia reputazione dipende da questa serata, eppure non sono forse calmo e fiducioso? Le assicuro che non ha il benché minimo motivo di stare in pensiero.
- Signor Hoffman, a che cosa si riferiva poco fa, quando ha parlato di un armadio?
- Un armadio? Oh, mi riferivo all'armadio che ho scoperto questa sera a casa del signor Brodsky. Come forse saprà, il signor Brodsky vive da molti anni in una vecchia fattoria dalle parti dell'uscita nord. Ci ero già stato parecchie volte, naturalmente, ma dato il disordine... perché senza dubbio il signor Brodsky ha un modo tutto suo di riporre le cose... non avevo mai esaminato attentamente la sua abitazione. Vale a dire che solo questa sera ho scoperto che, nonostante tutto, il signor Brodsky aveva una riserva di alcolici. Mi ha giurato che se ne era completamente dimenticato. $è stato solo quando siamo venuti sull'argomento, quando gli ho detto che, be', date le circostanze, date le specialissime circostanze create dallo sconvolgente rifiuto della signorina Collins... Perché vede, in nessun altro caso mi sarei lasciato convincere che, a conti fatti, anche a costo di correre un minuscolo rischio, era opportuno che prendesse un bicchierino di whisky, uno solo, per calmarsi. In fondo, signor Ryder, il poveretto era angosciato dal rifiuto della signorina Collins. Ed è stato allora, quando mi sono offerto di andare a prendere la fiaschetta da tasca in macchina, che il signor Brodsky si è ricordato che c'era ancora un armadio in cui non aveva fatto pulizia. Così siamo andati nella sua... ehm... cucina, così almeno credo che si possa definire. Negli ultimi mesi il signor Brodsky ha lavorato con impegno per aggiustarla. Ha fatto notevoli progressi, e adesso è quasi al riparo dalle intemperie, anche se naturalmente non ci sono ancora delle vere finestre. Comunque sia, ha aperto l'armadio, che in realtà era coricato su un fianco, e dentro, be', dentro c'erano una dozzina di vecchie bottiglie di liquore. Soprattutto whisky. Il signor Brodsky era meravigliato quanto me. Lì per lì, lo ammetto, ho pensato che avrei dovuto fare qualcosa. Magari portare via le bottiglie, o vuotarle per terra. Ma capisce anche lei che sarebbe stato un insulto. Un grave affronto al coraggio e alla determinazione che il signor Brodsky ha saputo dimostrare. E visto che per colpa della signorina Collins il suo io aveva già ricevuto una bella batosta...
- Mi scusi, signor Hoffman, ma perché continua a tirare in.ballo la signorina Collins?
- Ah, sì, la signorina Collins. Be', questa è un'altra storia. Ed è anche il motivo per cui mi trovavo lì, nella fattoria del signor Brodsky. Vede, signor Ryder, questa sera mi è toccato farmi latore di un tristissimo messaggio. Nessuno mi avrebbe invidiato questo compito. Per dirgliela tutta, era da un pezzo che mi sentivo inquieto, già da prima dell'incontro di ieri allo zoo. O meglio, ero preoccupato per la signorina Collins. Chi avrebbe mai immaginato che quei due facessero le cose così in fretta dopo tutti questi anni? Sì, sì, ero preoccupato. La signorina Collins è una cara signora per la quale nutro la massima considerazione. Non sopportavo l'idea che la sua vita venisse distrutta proprio adesso. Vede, signor Ryder, la signorina Collins è una donna molto saggia, l'intera città può testimoniarlo, ciò nonostante... e se lei vivesse qui, sono sicuro che mi darebbe ragione... ha sempre avuto un lato vulnerabile. Tutti, qui, la rispettiamo moltissimo, e parecchie persone hanno scoperto quanto siano preziosi i suoi consigli, ma allo stesso tempo... come dire?... siamo sempre stati £protettivi nei suoi confronti. Negli ultimi mesi, man mano che il signor Brodsky diventava... sempre più se stesso, si sono presentati molti problemi che io per primo avevo fin qui trascurato; e, come le dico, ho cominciato a preoccuparmi. Può quindi immaginare che cosa ho provato questo pomeriggio, signor Ryder, quando la stavo riaccompagnando in città dopo le prove e lei, innocentemente, mi ha accennato al fatto che la signorina Collins aveva acconsentito a incontrarsi con il signor Brodsky, anzi, che in quel momento il signor Brodsky la stava aspettando al Cimitero di St' Peter... Santo cielo, quanta fretta! In gioventù il nostro signor Brodsky doveva essere una specie di Rodolfo Valentino! Mi sono reso conto che dovevo intervenire, signor Ryder. Non potevo permettere che la vita della signorina Collins riprecipitasse nell'infelicità, soprattutto a causa di qualcosa che, anche se indirettamente, avevo fatto io. E quando lei, così gentilmente, mi ha autorizzato a lasciarla per strada, ne ho approfittato per andare a trovare la signorina Collins a casa sua. Naturalmente era stupita di vedermi. Stupita che avessi scelto proprio questa sera per recarmi da lei di persona. In altre parole, la mia semplice presenza la diceva lunga. La signorina Collins mi ha fatto entrare subito, e io le ho chiesto scusa di essere piombato lì a quel modo e di non poter affrontare il difficile argomento che desideravo discutere con lei con la cautela e il tatto che avrei impiegato in altre circostanze. Com'è naturale, la signorina Collins ha capito perfettamente. «So anch'io che questa sera deve avere un diavolo per capello, signor Hoffman», ha detto. Ci siamo seduti nel salottino che dà sulla strada e sono venuto subito al dunque. Le ho detto che avevo saputo dell'appuntamento con il signor Brodsky, e la signorina Collins ha abbassato gli occhi come una scolaretta. Poi, imbarazzatissima, ha ammesso: «Sì, signor Hoffman. Un momento fa, quando ha suonato alla porta, mi stavo preparando. $è più di un'ora che provo diversi abbigliamenti. Diversi modi di puntare i capelli. Non le sembra buffo, alla mia età? Sì, signor Hoffman, è vero. Leo è venuto qui questa mattina e mi ha convinta. Ho accettato di incontrarlo». Ha detto più o meno così, ma in maniera confusa, non certo con l'eleganza che le è solita. Allora sono passato all'azione. Naturalmente con molto tatto. Le ho fatto notare con garbo le possibili trappole; ho usato frasi come: «Tutto ciò è molto bello, signorina Collins»; mi sono mosso con la massima cautela possibile tenuto conto dei limiti di tempo. Naturalmente, se la sera fosse stata un'altra, se avessimo avuto modo di farci i convenevoli, di chiacchierare del più e del meno, sono sicuro che me la sarei cavata meglio. Ma forse non ci sarebbe stata molta differenza. Per lei, la verità sarebbe stata difficile da accettare in ogni caso. Comunque sia, anche se ho cercato di affrontare il discorso meglio che potevo, quando finalmente è giunto il momento della verità, quando le ho detto: «Signorina Collins, le vecchie ferite si riapriranno. Le faranno male, la getteranno nell'angoscia. Questa storia la spezzerà, signorina Collins. Questione di settimane, di giorni. Come può avere dimenticato? Come può esporsi da capo a queste sofferenze? Tutto ciò che ha subito in passato, l'umiliazione, il cuore infranto, tutto, si ripeterà in maniera ancora più atroce. Pensi agli sforzi di questi anni per costruirsi una nuova vita!» Insomma, quando le ho esposto le cose in questi termini... e le assicuro, signor Ryder, che non è stato facile... l'ho vista sgretolarsi, anche se esteriormente ha cercato di mantenere la calma. Ho visto che i ricordi la riassalivano, che le vecchie piaghe ricominciavano a dolere. Non è stato facile, signor Ryder, glielo assicuro, ma mi sono sentito in dovere di insistere. Finché, con un filo di voce, la signorina Collins ha detto: «Ma signor Hoffman, gliel'ho promesso. Gli ho promesso che ci saremmo visti questo pomeriggio. E lui ci conterà. Ha sempre avuto bisogno di me prima dei grandi concerti». E io le ho risposto: «Signorina Collins, so anch'io che ci resterà male. Ma farò del mio meglio per spiegargli le cose. E poi, sono sicuro che nell'intimo il signor Brodsky sa già, così come lo sa lei, che questo appuntamento è sconsiderato. Che è meglio non dissotterrare il passato». La signorina Collins ha guardato fuori della finestra come in sogno e ha detto: «Ma sarà già là. Sarà là che mi aspetta». Al che ho ribattuto: «Ci andrò di persona, signorina Collins. $è vero che questa sera sono occupatissimo, ma considero la cosa così importante che non potrei fidarmi di nessun altro. Andrò subito al cimitero, immediatamente, e informerò il signor Brodsky della situazione. Può essere sicura, signorina Collins, che farò tutto il possibile per confortarlo. Lo inciterò a guardare avanti, a pensare all'immensa sfida di questa sera». Sì, signor Ryder, le ho detto più o meno così. E anche se le confesso che li per lì mi è sembrata completamente affranta, la signorina Collins ha dimostrato di essere una persona di buon senso. Una parte di lei doveva sapere che avevo ragione, infatti, sfiorandomi un braccio con garbo, mi ha detto: «Vada da lui. Corra. Faccia ciò che può». Mi sono alzato per andarmene, ma un attimo dopo mi sono ricordato che mi attendeva ancora un ultimo compito doloroso. «A proposito, signorina Collins, - ho detto. - Riguardo al concerto di questa sera, date le circostanze, riterrei più opportuno che lei restasse a casa». La signorina Collins ha annuito, e ho visto che aveva le lacrime agli occhi. «In fondo, - ho proseguito, - bisogna avere riguardo per i sentimenti del signor Brodsky. Date le circostanze, la sua presenza in sala potrebbe ripercuotersi negativamente su di lui in un momento così delicato». La signorina Collins ha annuito di nuovo e mi ha detto che capiva perfettamente. Allora mi sono scusato e sono filato via. Poi, anche se avevo un'infinità di cose urgenti cui badare... la consegna della pancetta affumicata, la consegna del pane... mi sono reso conto che il signor Brodsky aveva precedenza assoluta. Bisognava fargli superare indenne anche quest'ultimo, inaspettato ostacolo. Cosi sono andato in macchina al cimitero. Quando sono arrivato faceva già buio, e ho dovuto girare per un pezzo tra le lapidi prima di trovarlo. Era seduto su una tomba con aria abbacchiata; quando mi ha visto arrivare, ha alzato stancamente la testa e mi ha detto: «$è venuto a darmi la bella notizia. Lo sapevo. Lo sapevo che sarebbe finita così». Lei penserà che questo abbia reso più facile il mio compito, ma le posso assicurare, signor Ryder, che non è stato facile affatto. Dover dare una simile notizia! Ho annuito gravemente e gli ho detto che sì, aveva colto nel segno, la signorina Collins non sarebbe venuta. Dopo attenta riflessione aveva cambiato idea. Inoltre, aveva deciso che quella sera non sarebbe andata nemmeno al palazzo dei concerti. Mi è sembrato inutile scendere nei particolari. Il signor Brodsky era sconvolto, così mi sono girato dall'altra e per qualche istante ho finto di esaminare la tomba accanto a quella su cui era seduto lui. «Oh, il vecchio signor Kaltz, - ho detto rivolto agli alberi, perché sapevo che il signor Brodsky stava piangendo silenziosamente. - Ah, il signor Kaltz. Quanti anni fa l'abbiamo seppellito? Mi sembra ieri, ma vedo che sono già passati quattordici anni. Com'era solo prima di morire». Parlavo a vanvera, per dare modo al signor Brodsky di piangere. Quando mi è parso che riuscisse a dominare le lacrime, mi sono girato verso di lui e gli ho proposto di tornare con me al palazzo dei concerti per prepararsi. Ma lui ha detto di no. Era ancora troppo presto; se avesse dovuto aspettare sul posto così a lungo, la tensione sarebbe diventata intollerabile. Ho pensato che non avesse tutti i torti e gli ho proposto di accompagnarlo a casa. Questa volta ha accettato, così siamo usciti dal cimitero e siamo scesi fino alla macchina. Per tutto il tragitto, mentre percorrevamo la statale nord della città, il signor Brodsky ha fissato il finestrino senza dire nulla; di tanto in tanto gli occhi gli si gonfiavano di lacrime. Allora ho capito che non eravamo ancora salvi. Che la situazione era molto più incerta di quanto sembrasse fino a poche ore prima. Ma ero ancora fiducioso, signor Ryder, così come lo sono adesso. Poi siamo arrivati alla fattoria. Il signor Brodsky l'ha restaurata bene, adesso molte stanze sono perfettamente agibili. Siamo andati in soggiorno e abbiamo acceso la luce; poi mi sono messo a chiacchierare del più e del meno guardandomi intorno. Mi sono offerto di
mandargli qualcuno per risolvere il problema della muffa sui muri. Ma lui sembrava non sentire; se ne stava sulla sua poltrona con gli occhi persi nel vuoto. Poi ha detto che voleva bere qualcosa. Solo un bicchierino. Ho ribattuto che non era possibile. Allora lui, molto calmo, ha detto che non aveva nessuna intenzione di bere come ai vecchi tempi. Oh, no. Quel modo di bere apparteneva ormai al passato. Ma aveva appena patito una terribile delusione. Il suo cuore era a pezzi. Sì, ha usato queste parole. Il suo cuore era a pezzi, ha detto, ma sapeva quante cose dipendessero da lui quella sera. Sapeva di non poter fallire. Non mi stava chiedendo da bere come ai vecchi tempi. Possibile che non lo capissi? Allora l'ho fissato negli occhi e ho visto che diceva la verità. Ho visto un uomo afflitto, deluso, ma responsabile. Un uomo perfettamente padrone delle sue azioni, che aveva imparato a conoscersi meglio di quanto possa sperare di fare la maggior parte di noi. E quest'uomo mi stava dicendo che, in quel frangente, gli serviva un bicchierino. Per aiutarlo a superare il trauma della batosta sentimentale. Per dargli la fermezza di cui aveva bisogno per non sfigurare quella sera. Signor Ryder, l'ho sentito chiedere da bere molte volte, nei primi tempi, ma questa era una richiesta completamente diversa. Me ne rendevo conto. L'ho guardato dritto in faccia e gli ho detto: «Signor Brodsky, posso fidarmi di lei? In macchina ho una fiaschetta con un po' di whisky. Se gliene do un bicchierino, ho la sua parola che la cosa finisce lì? Un bicchierino e basta?» E lui, reggendo il mio sguardo senza battere ciglio, ha risposto: «Non è più come una volta. Glielo giuro». Così sono uscito; era buio pesto, e gli alberi rumoreggiavano furiosamente nel vento. Ho preso la fiaschetta in macchina e sono tornato dentro, ma lui non c'era più. La sua poltrona era vuota. Allora sono andato di là e l'ho trovato in cucina. In realtà non è che una rimessa collegata all'edificio principale, ma il signor Brodsky sta trasformandola con notevole abilità. Sì, è stato allora che l'ho trovato alle prese con l'armadio, quello coricato su un fianco. Quando mi ha visto entrare, ha detto che se ne era completamente dimenticato. E dentro c'era il whisky. Intere bottiglie. Lui ne ha presa una, l'ha aperta e si è versato un dito di liquore in un bicchiere. Poi, guardandomi negli occhi, ha rovesciato il resto sul pavimento. Il pavimento della cucina, deve sapere, è in gran parte di terra battuta, quindi non è che abbia fatto un disastro. Ebbene, ha rovesciato la bottiglia per terra, poi siamo tornati in soggiorno, e lui si è seduto in poltrona e ha cominciato a sorseggiare il whisky. L'ho osservato attentamente, e ho visto che non beveva alla maniera di un tempo. Il solo fatto che riuscisse a sorseggiare il liquore a quel modo... Insomma, ho capito che avevo preso la decisione giusta. Gli ho detto che dovevo tornare in città. Che mi ero già assentato fin troppo a lungo. Dovevo ancora occuparmi della pancetta affumicata e del pane. Mi sono alzato, e in quel momento tutti e due, senza bisogno di parlare, ci siamo capiti. Il signor Brodsky sapeva che stavo pensando all'armadio. Mi ha guardato dritto in faccia e ha detto: «Non è più come una volta». A me è bastato. Se mi fossi trattenuto oltre, avrei rischiato di minare il suo morale. Sarebbe stato un insulto. E poi, come le ho detto, quando l'ho guardato in faccia mi sono sentito assolutamente tranquillo. Me ne sono andato senza ripensamenti. Ed è solo in questi ultimi minuti, signor Ryder, che sono stato sfiorato dai dubbi. Ma razionalmente so che i miei timori sono da addebitare alla tensione che precede i grandi eventi. Il signor Brodsky sarà qui da un momento all'altro, ne sono sicuro. E ho piena fiducia che l'intera serata sarà un successo, un grande successo...
- Signor Hoffman, - dissi, esaurendo la pazienza, - se è contento di aver lasciato il signor Brodsky con un bicchiere di whisky, be', quelli sono fatti suoi. Nei suoi panni non sarei così sicuro di avere agito bene, ma lei senz'altro conosce la situazione molto meglio di me. In ogni caso, vorrei ricordarle che in questo momento ho bisogno io stesso di assistenza. Come le ho spiegato, mi serve subito un'automobile. Si tratta di una questione piuttosto urgente, signor Hoffman.
- Ah, sì, un'automobile -. Hoffman si guardò intorno pensoso. - La cosa più semplice, signor Ryder, è che le impresti la mia. $è posteggiata qui fuori, davanti a quell'uscita di sicurezza -. Così dicendo mi indicò un punto del corridoio poco più avanti. - E adesso, dove sono le chiavi? Ah, eccole. Lo sterzo tira leggermente a sinistra. Avevo intenzione di farlo sistemare, ma non ho avuto un attimo di tempo. La prego, tenga la macchina quanto vuole. Non ne avrò più bisogno fino a domani mattina.
30.
Portai il macchinone nero di Hoffman fuori del posteggio e imboccai una stradina tortuosa, fiancheggiata su entrambi i lati da abeti. Chiaramente non era quella la via solita per uscire dal parco. La strada era piena di buche, priva di illuminazione e così stretta che due veicoli avrebbero dovuto rallentare per incrociarsi. Guidai con prudenza, scrutando le tenebre, aspettandomi da un momento all'altro un ostacolo o una curva a gomito. Poi la strada divenne dritta, e alla luce dei fari vidi che stavo attraversando una foresta. Accelerai e per qualche minuto viaggiai immerso nell'oscurità. Poi notai una luce tra gli alberi alla mia sinistra e, rallentando di nuovo, mi accorsi che stavo passando davanti al palazzo dei concerti, fastosamente illuminato sullo sfondo della notte.
L'edificio era ormai piuttosto distante, e io lo osservavo da una posizione angolata, ma riuscii lo stesso a distinguere gran parte della grandiosa facciata. C'erano due file di austere colonne di pietra ai lati di un arco centrale, e alte finestre che si protendevano verso il grande tetto a cupola. Mi chiesi se gli invitati stessero già arrivando e, fermata la macchina, abbassai il finestrino per guardare meglio. Ma la parte bassa dell'edificio era nascosta dagli alberi, e non riuscii a vederla nemmeno sollevandomi sul sedile.
Poi, mentre continuavo a contemplare il palazzo dei concerti, fui colpito dal pensiero che i miei genitori potessero arrivare proprio in quel momento. Improvvisamente ricordai con grande vividezza la descrizione di Hoffman: la carrozza a cavalli che emergeva dall'oscurità sotto gli occhi ammirati della folla. E in quell'istante, mentre mi sporgevo dal finestrino, ebbi la netta impressione di udire il rumore della carrozza che transitava non molto lontano da me. Spensi il motore e mi rimisi in ascolto, sporgendomi il più possibile. Poi scesi dall'auto e rimasi lì al buio con le orecchie tese.
Il vento soffiava tra gli alberi, ma dopo un attimo sentii di nuovo i deboli rumori di poc'anzi: il pulsare degli zoccoli, un ritmico scampanellio, il cigolio di un veicolo di legno. Poi i suoni svanirono nel fruscio delle foglie. Restai in ascolto ancora per un po', ma non udii più nulla. Allora mi girai e risalii in macchina.
Mi ero sentito calmo - quasi serafico - fuori, sulla strada, ma non appena riaccesi il motore fui sopraffatto da un incontenibile miscuglio di frustrazione, paura e rabbia. I miei genitori stavano arrivando, e io ero ancora lì, tutt'altro che pronto, anzi, addirittura in procinto di allontanarmi dal palazzo dei concerti per occuparmi di qualcosa di completamente estraneo alla serata. Non riuscivo a capire come mi fossi potuto cacciare in una situazione simile. Sempre più furioso, proseguii la mia corsa attraverso la foresta, risoluto a sbrigare in quattro e quattr'otto l'impegno che mi ero preso per tornare al palazzo dei concerti il più in fretta possibile. Poi, però, mi venne in mente che non sapevo andare a casa di Sophie, e nemmeno se la strada della foresta mi portasse nella direzione giusta. Mi sentii invadere da una sensazione di impotenza, ma continuai a pestare sull'acceleratore, scrutando la foresta che si apriva davanti alla luce dei miei fari.
All'improvviso scorsi poco più avanti due figure che gesticolavano sbarrandomi il cammino. Quando fui più vicino, si scostarono, ma continuarono a farmi segnali concitati. Rallentando, vidi che a lato della strada c'era un gruppetto di cinque o sei persone che si erano accampate intorno a un fornello portatile. Sulle prime pensai che fossero vagabondi, poi vidi una signora di mezza età vestita elegantemente e un signore con i capelli grigi in giacca e cravatta chinarsi per guardare dentro il finestrino. Alle loro spalle, gli altri - seduti intorno al fornello su quelle che sembravano delle cassette capovolte - si stavano alzando per avvicinarsi alla macchina. Notai che tutti avevano in mano un tazzone di latta da campeggio.
Quando abbassai il finestrino, la donna sbirciò dentro, poi disse:
- Oh, meno male che è arrivato lei. Vede, la discussione è arrivata a un punto morto, e non riusciamo a trovare un compromesso. $è il guaio di sempre, vero? Quando viene il momento di agire, non si riesce mai a trovare un accordo.
- Ma non c'è dubbio, - disse solennemente l'uomo dai capelli grigi che indossava giacca e cravatta, - che dobbiamo arrivare presto a una definizione.
Prima che potessero aggiungere altro, mi accorsi che la faccia che si era avvicinata alle loro spalle e si era chinata a guardarmi apparteneva a Geoffrey Saunders. Riconoscendomi, il mio vecchio compagno di scuola spinse via gli altri e batté la mano sulla portiera della macchina.
- Oh, mi chiedevo proprio quando ti avrei rivisto, - esordì. - A dire il vero, stavo cominciando ad arrabbiarmi un po'. Ti rendi conto che non sei nemmeno venuto a prendere una tazza di tè a casa mia. Dopo tutto quello che avevi detto. Forse non è il momento più adatto per parlarne, ma lascia che ti dica che sei un gran maleducato, vecchio mio. Pace. Adesso scendi di lì -. E così dicendo, aprì la portiera e si fece da parte. Stavo per protestare, ma Saunders continuò: - Vieni a prendere una tazza di caffè. Poi potrai partecipare alla discussione.
- Francamente, Saunders, - dissi, - non mi prendi nel momento migliore.
- Oh, non fare storie, vecchio mio -. Il tono della voce era leggermente infastidito. - Sai, ho pensato parecchio a te dopo che ci siamo incontrati l'altra sera. Ho ricordato i tempi della scuola e tutto il resto. Questa mattina, per esempio, mi sono svegliato pensando a quella volta... tu probabilmente non te ne ricordi... a quella volta che ci hanno mandati a segnalare il tracciato di una corsa campestre per i ragazzi più piccoli di noi. Eravamo in sesta, credo. Tu probabilmente non te ne ricordi, ma questa mattina, a letto, ho ripensato proprio a quella volta. Aspettavamo in piedi davanti a un pub, e di fronte a noi c'era un grande campo. Tu eri sconvolto, non so più per che cosa. Su, vecchio mio, esci di lì, come faccio a parlarti? - Saunders continuava con impazienza a farmi cenno di scendere. - Oh, così va meglio -. E mentre, un po' riluttante, uscivo dall'auto, mi afferrò per il gomito con una mano. Nell'altra aveva il tazzone di latta. - Sì, ho ripensato a quel giorno. Una di quelle nebbiose mattine d'ottobre inglesi. Ce ne stavamo lì a girarci i pollici, aspettando che i bambini di terza sbucassero con il fiato corto dalla nebbia, e ricordo che continuavi a ripetere con una faccia da funerale: «Oh, tu sei fortunato, tu sì che sei fortunato». Tanto che alla fine ti ho detto: «Senti, ragazzo mio, non sei l'unico. Non sei la sola persona al mondo che ha dei guai». E ho cominciato a raccontarti un episodio di quando avevo sette o otto anni. Eravamo partiti tutti insieme per una delle nostre vacanze familiari, i miei, il mio fratellino e io. Eravamo andati in una tipica stazione balneare inglese, un posto come Bournemouth. Forse l'isola di Wight. Il tempo era bello, il posto anche, ma sai com'è, c'era qualcosa che non andava, bisticciavamo in continuazione. Cosa più che normale nelle vacanze familiari, naturalmente; ma allora non lo sapevo, avevo solo sette o otto anni. Comunque sia, le cose non funzionavano, e un pomeriggio papà ci ha piantati in asso. Così, di punto in bianco. Stavamo guardando qualcosa sul lungomare, e mia madre ci stava indicando non so più che cosa, quando all'improvviso mio padre se ne è andato. Senza scenate né altro, si è semplicemente messo a camminare. Non sapendo che pesci prendere, la mamma, il piccolo Christopher e io gli siamo andati dietro, abbiamo cominciato a seguirlo. Non da vicino, sempre a una trentina di metri, quel tanto che bastava a non perderlo di vista. E papà ha continuato a camminare. Per tutto il lungomare, su per il sentiero della scogliera, oltre le cabine e i bagnanti che prendevano il sole. Poi si è diretto verso la città, ha oltrepassato i campi da tennis e attraversato i centri commerciali. L'abbiamo seguito per più di un'ora. E dopo un po' abbiamo cominciato a prenderlo per un gioco. Dicevamo: «Guardate, non è più arrabbiato. Sta solo scherzando!» Oppure: «Lo fa apposta. Guardatelo!» e ci sbellicavamo dalle risa. Osservandolo attentamente sembrava proprio che camminasse in modo buffo. A Christopher, che era piccolino, ho detto così, gli ho detto che papà camminava in quel modo per divertirci, e Christopher rideva e rideva, come se tutto fosse un grande gioco. Persino la mamma rideva, dicendo: «Ah, bambini, vostro padre!» e giù a ridere. Abbiamo continuato a seguirlo, e io ero l'unico, capisci, l'unico, anche se avevo solo sette o otto anni, che si accorgesse che papà non stava scherzando. Che non gli era affatto passata, anzi, che forse stava arrabbiandosi sempre di più perché gli andavamo dietro. Magari aveva voglia di sedersi su una panchina, o di entrare in un caffè, ma non poteva farlo per colpa nostra. Ti ricordi? Ti ho raccontato tutto quel giorno. Fatto sta che a un certo punto mi sono girato verso mia madre per farla finita con questa storia, e in quel momento ho capito. Ho capito che si era convinta, completamente convinta, che mio padre facesse tutto per ridere. E intanto il piccolo Christopher voleva corrergli dietro. Capisci, correre dietro a papà e raggiungerlo. E io dovevo trovare in continuazione delle scuse; senza smettere di ridere gli dicevo: «No, non si può. Non è nelle regole del gioco. Dobbiamo restare indietro, altrimenti non vale». Ma mia madre, invece, gli diceva: «Oh, sì! Perché non vai a tirargli la camicia, così vedi se riesci a tornare qui prima che ti acchiappi!» E io dovevo ripetergli... perché ero l'unico, capisci, l'unico... dovevo ripetergli: «No, no, non ancora. Stai indietro, stai indietro». Era davvero buffo, mio padre. A guardarlo così, da lontano, aveva una strana andatura. Senti, vecchio mio, perché non ti siedi? Hai l'aria esausta, oltre che molto preoccupata. Siediti e aiutaci a prendere una decisione.
Geoffrey Saunders mi indicò una cassetta per le arance capovolta, accanto al fornello da campeggio. Era vero, mi sentivo stanchissimo; mi dissi che in ogni caso, qualunque cosa avessi dovuto fare, l' avrei fatta meglio dopo un riposino e un goccio di caffè. Mentre piegavo le gambe per sedermi sulla cassetta, mi accorsi di avere le ginocchia che mi tremavano e di vacillare pericolosamente. Gli altri mi si fecero intorno premurosi Qualcuno mi porse una tazza di caffè, qualcun altro mi mise una mano sulla schiena dicendo: - Si rilassi. Se la prenda comoda.
- Grazie, grazie, - dissi, e afferrando la tazza trangugiai avidamente il caffè sebbene fosse bollente.
L'uomo dai capelli grigi che indossava giacca e cravatta si accovacciò davanti a me e, fissandomi in volto, disse in tono estremamente cortese: - Dobbiamo prendere una decisione. E lei dovrà aiutarci.
- Una decisione?
- Sì. A proposito del signor Brodsky.
- Ah, certo -. Bevvi un altro sorso dalla tazza di latta. - Sì, capisco. So che ormai tutto dipende da me.
- Non esageriamo, - ribatté l'uomo dai capelli grigi.
Lo guardai di nuovo. Era una persona rassicurante, con un modo di fare calmo e gentile. Ma vidi che in quel momento era serissimo.
- Mi sembra esagerato sostenere che £tutto dipende da lei. Ma, date le circostanze, ognuno di noi deve assumersi le sue responsabilità. La mia opinione, come ho già detto chiaramente, è che bisogna amputare.
- Amputare?
L'uomo dai capelli grigi annuì gravemente. Solo allora gli vidi lo stetoscopio intorno al collo e capii che doveva essere un dottore.
- Oh, certamente, - dissi. - Bisogna amputare. Sì.
In quel momento mi guardai intorno e sussultai. Per terra, non lontano dall'automobile, c'era un grosso groviglio di metallo. Mi venne il dubbio di essere la causa del disastro; forse avevo provocato un incidente senza nemmeno accorgermene. Alzandomi in piedi - subito parecchie mani si protesero per sorreggermi - andai verso i rottami e scoprii i resti di una bicicletta. Il telaio era irrimediabilmente contorto, e lì in mezzo, con mio grande orrore, vidi Brodsky. Giaceva supino sulla nuda terra, e mentre mi avvicinavo i suoi occhi mi fissarono calmi.
- Signor Brodsky, - mormorai, guardandolo stupefatto.
- Ah. Ryder, - disse Brodsky, e mi meravigliò che la sua voce fosse così poco sofferente.
Mi girai verso l'uomo dai capelli grigi, che mi era venuto dietro, e gli dissi: - Le giuro che io non c'entro. Non ricordo di avere avuto alcun incidente. Stavo semplicemente guidando...
L'uomo dai capelli grigi annuì con fare comprensivo e mi fece segno di tacere. Poi, tirandomi un po' in disparte, mi disse sottovoce: - Si tratta quasi certamente di un tentativo di suicidio. $è ubriaco. Molto ubriaco.
- Ah, capisco.
- Sono sicuro che volesse uccidersi. Ma è riuscito solo a intrappolarsi le gambe. La destra è praticamente illesa. $è solo incastrata. Anche la sinistra è incastrata. Ma mi preoccupa. $è piuttosto malconcia.
- Già, - dissi, e mi girai a dare un'altra occhiata a Brodsky. Lui parve accorgersene e disse a voce alta nell'oscurità:
- Salve, Ryder.
- Ne abbiamo discusso a lungo prima del suo arrivo, - proseguì l'uomo dai capelli grigi. - La mia opinione è che bisogna amputare. In questo modo forse riusciremo a salvargli la vita. Dopo un acceso dibattito, la maggioranza dei presenti si è detta d'accordo con me. Ma le due signore laggiù sono contrarie. Sostengono che bisogna aspettare l'ambulanza ancora per un po'. Ma così facendo correremmo un grave rischio. Questa è la mia opinione professionale.
- Ah, certo. Sì, capisco quel che vuol dire.
- Secondo me, la gamba sinistra va amputata immediatamente. Sono un chirurgo, ma purtroppo non ho con me né ferri, né analgesici, né niente. Neppure un'aspirina. Vede, avevo finito il mio turno, e anch'io sono venuto qui per prendere una boccata d'aria. Come tutta questa brava gente. Per caso avevo ancora in tasca lo stetoscopio, ma nient'altro. Ora che è arrivato lei, però, le cose potrebbero cambiare. $è attrezzata la sua macchina?
- La macchina? Be', veramente non lo so. Vede, è una macchina imprestata.
- Vuole dire noleggiata.
- Non proprio. Imprestata. Da un conoscente.
- Capisco -. L'uomo abbassò gli occhi con aria grave, riflettendo. Alle sue spalle vedevo gli altri che ci osservavano ansiosi. Poi il chirurgo disse:
- Le spiacerebbe guardare nel baule? Magari c'è qualcosa che può servirci. Che so, uno strumento affilato con il quale potrei eseguire l'operazione.
Ci pensai un attimo, poi dissi: - Lo farò volentieri. Ma forse è meglio che prima vada a scambiare due parole con il signor Brodsky. Sa, lo conosco abbastanza bene, e credo proprio che dovrei parlargli prima... prima che venga preso un provvedimento così drastico.
- Come vuole, - disse il chirurgo. - Ma la mia impressione, o meglio, la mia opinione professionale, è che si sia già perso fin troppo tempo. La prego di sbrigarsi.
Mi avvicinai di nuovo a Brodsky e mi chinai a guardarlo in faccia.
- Signor Brodsky... - cominciai, ma lui non mi lasciò proseguire.
- Ryder, mi aiuti. Devo andare da lei.
- Dalla signorina Collins? Credo che ci sia ben altro cui pensare, in questo momento.
- No, no. Devo parlarle. Adesso ho capito. Finalmente ho visto chiaro. Sono lucidissimo. Da quando mi è capitato l'incidente... non so come sia successo, ero in bicicletta, e qualcosa, che so, un veicolo, un'automobile, mi ha urtato... probabilmente ero ubriaco, questo non lo ricordo, ma il resto lo ricordo benissimo. Adesso ho capito, ho capito tutto. $è stato lui. Ha sempre voluto che la cosa finisse male. $è stato lui, è lui il colpevole.
- Chi? Hoffman?
- $è un verme. Un verme. Prima non me ne rendevo conto, ma ora vedo tutto chiaro. Da quando quel veicolo, va a sapere che cos'era, una macchina, un camion, mi ha preso sotto, da quel preciso istante, ho capito tutto. Quel verme è venuto a cercarmi, tutto premuroso. Io stavo aspettando al cimitero. Aspettavo e aspettavo. Con il cuore in tumulto. Ho aspettato per tutti questi anni. Non lo sapeva, Ryder? Ho aspettato per un'eternità. Aspettavo anche quando mi ubriacavo. La settimana prossima, mi dicevo. La settimana prossima smetterò di bere e andrò da lei. Le chiederò di incontrarci al Cimitero di St' Peter. Anno dopo anno mi dicevo così. Ed eccomi finalmente lì, sulla tomba di Per Gustavsson, dove a volte andavo a sedermi con Bruno. E ho aspettato. Un quarto d'ora, poi mezz'ora, poi un'ora. Ed ecco che arriva £lui. Mi tocca, qui, sulla spalla. La signorina Collins ha cambiato idea, mi dice. Non verrà. Non verrà neppure a concerto questa sera. $è gentile, come al solito. Lo ascolto. Beva un po' di whisky, mi dice. La calmerà. Questa è una circostanza particolare. Ma io non posso bere whisky, rispondo. Come faccio a bere whisky? $è impazzito? No, lo beva, dice lui. Solo un dito. Le farà bene. Sembrava gentile. Ma adesso vedo chiaro. Quel verme non ha mai creduto, neppure per un momento, che la cosa potesse funzionare. Era convinto che non ce l'avrei mai fatta. Che non ce l'avrei mai fatta perché sono un... un vpezzo di merda.v Ecco quel che pensava di me. Adesso sono sobrio. Ho bevuto abbastanza da uccidere un cavallo, ma da quando mi hanno preso sotto, sono sobrio. Finalmente vedo tutto in maniera chiarissima. $è stato lui. Quell'individuo è ben più ignobile di me. Ma non gliela darò vinta. Ce la farò. Mi aiuti, Ryder. Non voglio dargli questa soddisfazione. Andrò subito al palazzo dei concerti. Mostrerò a tutti quel che valgo. Sono pronto, la musica è qui, nella mia testa. Mostrerò a tutti quel che valgo. Ma bisogna che ci sia anche lei. Devo assolutamente parlarle. Mi aiuti, Ryder. Mi porti da lei. Bisogna che venga, che si sieda in sala. Allora ricorderà. Quell'individuo è un verme, ma finalmente me ne sono accorto. Mi aiuti, Ryder.
- Signor Brodsky, - lo interruppi. - C'è qui un chirurgo. Dovrà farle un intervento. Può darsi che sia un po' doloroso.
- Mi aiuti, Ryder. Mi aiuti solo ad andare da lei. Ha una macchina? Ha una macchina? Mi porti. Mi porti da lei. Sarà in casa. Odio quell'appartamento. Ah, come lo odio, come lo odio. Andavo sempre ad appostarmi lì davanti. Mi porti da lei, Ryder. Mi porti subito.
- Signor Brodsky, a quanto pare non si rende conto delle sue condizioni. Non c'è tempo da perdere. Anzi, ho promesso al chirurgo che avrei guardato nel baule. Torno subito.
- Quella donna è piena di paure. Ma non è ancora troppo tardi. Potremmo tenere un animale. Ma adesso non ha importanza, al diavolo l'animale. Voglio solo che venga al palazzo dei concerti. Nient'altro. Al palazzo dei concerti. Solo quello.
Lasciai Brodsky e tornai alla macchina. Aprendo il baule, vidi che Hoffman vi aveva cacciato dentro oggetti di ogni genere. C'era una sedia rotta, un paio di stivali di gomma, una collezione di scatole di plastica. Poi mi capitò tra le mani una torcia e, quando la accesi per esplorare il bagagliaio, scoprii un seghetto in un angolo. Era un po' sporco di grasso, ma quando passai un dito sulla lama mi parve che i denti fossero belli aguzzi. Richiusi il baule e mi diressi verso il gruppetto degli altri, che stavano chiacchierando intorno al fornello. Avvicinandomi, sentii il chirurgo che diceva:
- L'ostetricia è una disciplina noiosa, ormai. Non è più come quand'ero studente.
- Mi scusi, - dissi. - Ho trovato questo.
- Ah, - disse il chirurgo, voltandosi verso di me. - Grazie. Ha parlato con il signor Brodsky? Bene.
Improvvisamente, il fatto di essermi lasciato coinvolgere a quel modo in questa storia mi irritò, e, forse con una punta di stizza, guardando il cerchio di facce intorno a me, dissi:
- Possibile che in città non ci siano mezzi idonei per affrontare queste evenienze? Non avete chiamato un'ambulanza?
- L'abbiamo chiamata circa un'ora fa, - disse a voce alta Geoffrey Saunders. - Da quella cabina laggiù. Purtroppo, questa sera le ambulanze scarseggiano a causa della grande manifestazione al palazzo dei concerti.
Guardai verso il punto che mi stava indicando e vidi davvero, un po' discosto dalla strada, più o meno dove cominciavano le tenebre della foresta, un telefono pubblico. Quella vista mi ricordò all'improvviso l'urgente incombenza dalla quale ero stato distolto; pensai che, telefonando subito a Sophie, avrei potuto non solo avvertirla in anticipo, ma anche chiederle come fare per arrivare a casa sua.
- Scusatemi, - dissi, avviandomi. - Devo fare una telefonata importante.
Mi diressi verso gli alberi ed entrai nella cabina telefonica. Mentre mi frugavo in tasca in cerca di qualche moneta, vidi attraverso la parete di vetro il chirurgo che si avvicinava lentamente alla figura distesa di Brodsky, con il seghetto dietro la schiena per riguardo. Geoffrey Saunders e gli altri vagolavano a disagio, fissando il fondo delle tazze di latta o guardandosi i piedi. Poi il chirurgo si girò e disse qualcosa, e due uomini, Geoffrey Saunders e un giovane con una giacca di pelle marrone, lo raggiunsero di malavoglia. Per qualche istante, tutti e tre fissarono Brodsky con aria truce.
Mi girai e feci il numero. Il telefono suonò a lungo, poi Sophie, con voce assonnata e leggermente impaurita, rispose. Respirai a fondo.
- Senti, - dissi, - evidentemente non ti rendi conto di come sia faticoso per me. Credi che mi diverta? Resta pochissimo tempo, e non ho ancora avuto un secondo per ispezionare il palazzo dei concerti. E intanto la gente pretende da me i miracoli. Credi che questa sera sia uno scherzo? Ti rendi conto di che cosa significa per me questo concerto? Questa sera vengono i miei genitori. Proprio così! Questa sera, finalmente, vengono! Può darsi addirittura che siano già là! E gli altri sai cosa fanno? Credi forse che mi lascino in pace perché possa prepararmi? No, mi subissano di cose da fare. Questo maledetto intermezzo con le domande e le risposte, per esempio. Hanno persino portato in sala un tabellone elettronico. Ci crederesti? E io che cosa dovrei fare? Danno tutto per scontato. Ma che cosa vogliono da me, e per di più proprio questa sera? $è sempre la stessa storia, da per tutto. Pretendono mari e monti. Probabilmente questa sera si scaglieranno contro di me. La cosa non mi sorprenderebbe. Se le mie risposte non saranno di loro gradimento, si arrabbieranno, e allora in che situazione mi troverò? Magari non mi lasceranno nemmeno arrivare al pianoforte. Oppure i miei genitori potrebbero decidere di andarsene nell'istante stesso in cui il pubblico comincerà a prendersela con me...
- Senti, calmati, - disse Sophie. - Andrà tutto bene. Il pubblico non se la prenderà con te. Dici così ogni volta, e in tutti questi anni nessuno, non una sola persona, l'ha mai fatto...
- Ma non capisci quello che ti sto dicendo? Questa non è una serata come le altre. Vengono i miei genitori. Se questa sera il pubblico si scagliasse contro di me, sarebbe... sarebbe...
- Nessuno si scaglierà contro di te, - mi interruppe di nuovo Sophie. - Lo dici sempre. Telefoni da tutto il mondo per dire la stessa cosa. Ogni volta che stai per salire sul palcoscenico. Si scaglieranno contro di me, mi coglieranno in fallo. E poi che cosa succede? Qualche ora dopo richiami, e sei tutto calmo e soddisfatto. Ti chiedo come è andata e tu ti fingi un po' stupito della mia domanda. «Oh, bene», dici. Una frasetta del genere, sempre, poi cambi argomento, come se non valesse nemmeno la pena discuterne...
- Aspetta un momento. A che cosa ti riferisci? Di che telefonate parli? Non lo sai che fatica mi costano quelle telefonate. A volte ho da fare fin sopra i capelli, ma cerco di rubare qualche minuto per telefonarti, solo per assicurarmi che tu stia bene. E il più delle volte tu, proprio tu, mi riversi addosso tutti i tuoi problemi. Che cosa vuoi insinuare quando sostieni che cambio argomento...
- Lascia perdere, intanto è inutile. Dico solo che anche questa sera andrà tutto bene...
- Per te è facile. Sei come tutti gli altri. Dài per scontata ogni cosa. Sei convinta che mi basti mostrare la faccia e che il resto venga da sé... - All'improvviso mi ricordai di Gustav sdraiato sul materasso nel camerino senza mobili e mi interruppi bruscamente.
- Che cosa ti prende? - domandò Sophie.
Per qualche istante ancora cercai di dominarmi, poi dissi:
- Senti. Devo darti una cattiva notizia. Mi spiace.
Dall'altro capo del filo Sophie tacque.
- Si tratta di tuo padre, - dissi. - Si è sentito male. $è al palazzo dei concerti. Devi venire immediatamente.
Feci un'altra pausa, ma Sophie continuò a tacere.
- Ha una fibra d'acciaio, - proseguii dopo un istante. - Ma devi venire subito. Porta anche Boris. In realtà è per questo che ti telefonavo. Ho una macchina. Vi sto venendo a prendere tutti e due.
Per un tempo che mi parve lunghissimo il telefono rimase muto. Poi Sophie disse:
- Mi spiace per ieri sera, alla Galleria Karwinsky -. Poi fece una pausa, e temetti che ripiombasse nel suo silenzio. Invece continuò: - Ero patetica. Non occorre che tu finga. So che ero patetica. Non capisco perché, ma in quelle situazioni non so cavarmela. Bisogna che mi arrenda alla realtà. Non sarò mai in grado di viaggiare con te di città in città, accompagnandoti ai ricevimenti. Semplicemente non ci riesco. Mi spiace.
- Ma che cosa vuoi che m'importi? - dissi gentilmente. - Avevo già dimenticato tutto, e di ieri e della galleria. Me n'infischio di ciò che pensa di te quella gente. Sono persone disgustose, dalla prima all'ultima. E tu eri di gran lunga la donna più bella là dentro.
- Non ci credo, - disse Sophie, scoppiando a ridere. - Ormai sono una vecchia cornacchia.
- Ma stai invecchiando benissimo.
- Ti sembra una cosa da dire? - Sophie rise di nuovo. - Come ti permetti!
- Scusa, - mi corressi, ridendo anch'io. - Volevo dire che non sei affatto invecchiata. Non all'apparenza, almeno.
- Non all'apparenza?
- Che ne so... - Confuso, proruppi in un'altra risata. - Forse eri brutta e sciupata. Adesso non ricordo più bene.
Sophie rise ancora, poi tacque. Quando riprese a parlare, la sua voce era di nuovo seria. - Però ero patetica. Non potrò mai viaggiare con te finché sono così.
- Senti, ti prometto che smetterò presto di viaggiare. Questa sera, se andasse bene... Non si sa mai, potrebbe essere la volta buona.
- E mi spiace di non avere ancora trovato una sistemazione. Ti prometto che troverò presto qualcosa che faccia al caso nostro. Qualcosa di veramente accogliente.
Lì sui due piedi non mi venne in mente nulla da rispondere, e per qualche secondo restammo tutti e due zitti. Poi la sentii dire:
- Veramente non te ne importa? Della figura che ho fatto ieri? Della figura che faccio sempre?
- Non me ne importa niente. Ai ricevimenti come quello puoi comportarti come vuoi. Agire come ti pare e piace. Non fa nessuna differenza. Tu vali più di tutta quella gente messa insieme.
Sophie non disse nulla. Dopo un momento proseguii:
- In parte è anche colpa mia. Mi riferisco alla casa. Non è giusto che lasci a te il compito di trovarla. Chissà, d'ora in poi, se questa notte le cose vanno bene, potremmo fare in maniera diversa. Magari cercarla insieme.
Il telefono rimase muto, e per un attimo temetti che Sophie avesse riattaccato. Poi, però, mi giunse la sua voce, distaccata e sognante:
- Troveremo qualcosa molto presto, vero?
- Certamente. Cercheremo insieme. Con Boris. Troveremo qualcosa.
- Adesso stai venendo qui, vero? Per portarci da papà?
- Sì, sì. Sarò lì fra un attimo. Quindi fatevi trovare tutti e due pronti.
- Va bene -. La voce di Sophie aveva ancora un che di distaccato e di serafico. - Sveglio subito Boris.
Quando uscii dalla cabina telefonica, ebbi la netta impressione che in cielo vi fossero i primi segni dell'alba. Vidi il gruppetto di persone intorno a Brodsky e, avvicinandomi, scorsi il chirurgo; si era inginocchiato e segava con foga. Brodsky sembrava accettare la terribile prova in silenzio, ma quando giunsi accanto alla macchina lanciò un grido straziante che riecheggiò tra gli alberi.
- Io devo andare, - dissi, rivolto a nessuno in particolare, ed effettivamente nessuno parve sentirmi. Ma quando chiusi la portiera e accesi il motore, tutti si girarono verso di me con un'espressione inorridita. Prima che potessi tirare su il finestrino, Geoffrey Saunders si avvicinò di corsa.
- Ehi, - disse furente. - Ehi, non puoi andartene così. Non appena l'avremo liberato, dovremo portarlo da qualche parte. Ci servirà la tua macchina. Non ci vuole molto a capirlo, non ti pare?
- Sentimi bene, Saunders, - dissi con fermezza. - Lo vedo anch'io che siete nei guai. E vorrei aiutarvi ancora, ma ho già fatto tutto quello che potevo. Adesso devo pensare alle mie cose.
- Sei sempre il solito, vecchio mio, - disse Saunders. - Non sei cambiato.
- Sentimi bene, tu non hai idea. Davvero, Saunders, non hai la minima idea. Non ti immagini nemmeno le responsabilità che ho. Cosa credi? Non faccio mica la vita che fai tu!
Quest'ultima frase la urlai. Il chirurgo aveva smesso di lavorare e mi stava guardando. Ebbi la sensazione che persino Brodsky avesse dimenticato il dolore e mi stesse fissando. Un po' imbarazzato, dissi in tono più conciliante:
- Scusatemi, ma ho da fare una commissione urgentissima. Sono sicuro che quando avrete finito, cioè quando il signor Brodsky sarà in condizioni di essere trasportato, l'ambulanza sarà qui. Scusatemi proprio, ma non posso fermarmi un minuto di più.
Detto questo, mi affrettai a tirare su il finestrino e ripartii con la macchina.
31.
La strada continuò nella foresta ancora per un pezzo. Quando finalmente gli alberi cominciarono a diradarsi, scorsi in lontananza i primi tenui bagliori dell'alba. Poi gli alberi sparirono, e io mi ritrovai nelle strade deserte della città.
Un semaforo rosso mi costrinse a fermarmi a un incrocio; mentre aspettavo immerso nel silenzio - non c'erano altre macchine in vista - mi guardai intorno e a poco a poco cominciai a riconoscere il quartiere in cui ero entrato. Con sollievo, mi accorsi di essere molto vicino alla casa di Sophie; anzi, la strada che avevo di fronte, ne ero sicuro, mi avrebbe portato dritto da lei. Ricordavo anche che il suo alloggio era sopra la bottega di un barbiere, e quando il semaforo cambiò colore attraversai l'incrocio e imboccai la via silenziosa, esaminando attentamente le case che mi sfilavano accanto. Poi davanti a me, in lontananza, vidi due figure che aspettavano sul marciapiede e pigiai sull'acceleratore.
Sophie e Boris indossavano solo una giacchetta e sembravano infreddoliti dall'aria del mattino. Vennero di corsa verso la macchina, e Sophie, chinandosi, urlò adirata:
- Non arrivavi più! Perché ci hai messo tutto questo tempo?
Prima che potessi rispondere, Boris posò una mano sul braccio di Sophie e disse:
- Non importa. Arriveremo lo stesso in tempo. Non importa.
Guardai il bambino. Portava una grossa cartella, che somigliava a una borsa da dottore e gli dava una solennità un po' comica. Ma il suo modo di fare era stranamente rassicurante, e, almeno all'apparenza, il bambino riuscì a calmare la madre.
Pensavo che Sophie si sarebbe seduta di fianco a me, invece sia lei sia Boris salirono dietro.
- Mi spiace, - dissi, mentre giravo la macchina, - ma non sono ancora pratico del posto.
- Chi c'è con lui, adesso? - domandò Sophie, e la sua voce era di nuovo molto tesa. - C'è qualcuno che si occupa di lui, in questo momento?
- $è in compagnia dei suoi colleghi. Sono tutti lì. Dal primo all'ultimo.
- Vedi? - disse gentilmente la voce di Boris alle mie spalle. - Te l'ho detto. Non devi preoccuparti. Andrà tutto bene.
Sophie emise un profondo sospiro, ma ebbi l'impressione che Boris fosse riuscito anche questa volta a calmarla. Qualche istante più tardi il bambino disse:
- Si stanno prendendo cura di lui. Quindi non preoccuparti. Vero che si stanno prendendo cura di lui?
La domanda, evidentemente, era rivolta a me. Tuttavia, mi aveva dato un po' fastidio che Boris si fosse arrogato quella parte, e mi seccava anche che lui e sua madre si fossero seduti tutti e due dietro, come se fossi un taxista, così decisi di non rispondere.
Per qualche minuto viaggiammo in silenzio. Tornammo all'incrocio, poi mi sforzai di ricordare il percorso per ritrovare la strada della foresta. Stavamo ancora attraversando le vie vuote della città, quando Sophie, con un filo di voce appena udibile sopra il rombo del motore, disse:
- Questo è un campanello d'allarme.
Non ero sicuro che si fosse rivolta a me. Stavo per girarmi, quando lei riprese a parlare con la stessa voce sommessa:
- Boris, mi stai a sentire? Dobbiamo affrontare la realtà, questo è un campanello d'allarme. Tuo nonno sta invecchiando. Bisogna che lavori meno. $è inutile negarlo. Bisogna che lavori meno.
Boris rispose qualcosa che non riuscii a capire.
- Ormai è un po' che ci penso, - continuò Sophie. - Non ti ho mai detto niente perché so che... che pensi meraviglie di tuo nonno. Ma è un po' che ci penso. C'erano già stati altri avvertimenti, molto prima di questo. Ma adesso non possiamo più fare finta di niente. Il nonno sta invecchiando e deve lavorare meno. Ho in mente un piano, non te l'ho mai detto, ma è parecchio tempo che ci penso. Andrò a parlare al signor Hoffman. Una bella chiacchierata sul futuro del nonno. Ho già raccolto informazioni. Ho parlato al signor Sedelmayer dell'Hotel Imperiale e anche al signor Weissberg dell'Ambasciatori. Non te l'ho mai detto prima, ma io lo vedevo che il nonno non era più forte come una volta. Così ho indagato un po'. Quando qualcuno ha lavorato in un albergo per molti anni come tuo nonno, non è affatto insolito che a un certo punto gli venga affidato un incarico leggermente diverso. In modo che possa risparmiarsi un poco. All'Hotel Imperiale c'è un signore molto più vecchio del nonno; lo vedi subito quando entri. Una volta faceva il cuoco, ma quando è diventato troppo vecchio per quel lavoro, hanno trovato una soluzione. Gli hanno dato una magnifica uniforme e l'hanno messo in un angolo dell'atrio dietro una grande scrivania di mogano, con portapenne e calamaio. Il signor Sedelmayer dice che la cosa funziona a meraviglia, e che quei soldi sono tutt'altro che sprecati. I clienti, soprattutto quelli abituali, s'indignerebbero se entrando nell'atrio non vedessero più quel vecchio seduto dietro la sua scrivania; pare che la cosa dia molta distinzione all'albergo. Ebbene, pensavo di parlarne con il signor Hoffman. Anche il nonno potrebbe fare qualcosa del genere. Naturalmente lo pagherebbero meno, ma potrebbe conservare la sua stanzetta, alla quale è così affezionato, e mangiare gratis. Forse potrebbero sistemarlo con una scrivania come all'Imperiale. Ma non è escluso che il nonno voglia stare in piedi. Con un'uniforme speciale, da qualche parte nell'atrio. Non dico che si debba fare subito. Ma non possiamo aspettare molto. Non è più un giovincello, e questo è un avvertimento. $è inutile nascondercelo. Non c'è niente da guadagnare fingendo che non sia successo niente.
Sophie fece una pausa. Nel frattempo avevo riportato la macchina ai margini della foresta. Albeggiava, e il cielo era diventato color porpora.
- Non preoccuparti, - disse Boris. - Il nonno si rimetterà.
Sophie emise un profondo sospiro, poi disse:
- Così, tra l'altro, avrà più tempo. Sarà molto meno occupato, e il pomeriggio potrete andare più spesso nella città vecchia. O dove più ti piacerà. Ma gli seme un buon cappotto. Per questo gli porto il pacco. $è ora che glielo dia. $è un pezzo che me lo tiro dietro.
Udii un fruscio di carta e, guardando nello specchietto, vidi che Sophie aveva accanto a sé il soffice involto marrone che conteneva il cappotto del padre. A questo punto fui costretto a richiamare la sua attenzione per chiederle qualcosa a proposito della strada. Sophie parve accorgersi della mia presenza per la prima volta da quando eravamo partiti; si chinò in avanti e mi disse all'orecchio:
- Sapevo che sarebbe successo. Andrò subito a parlare con il signor Hoffman.
Mormorai qualcosa in segno di assenso, poi misi i fari abbaglianti perché stavamo entrando nell'oscurità della foresta.
- Certa gente, - disse Sophie, - si comporta come se avesse sempre tutto il tempo di questo mondo. Io non ne sono mai stata capace.
Per qualche minuto proseguimmo in silenzio, ma io sentivo vicinissima la sua presenza, e non so perché mi aspettavo di sentire da un momento all'altro il tocco delle sue dita sulla mia faccia. Poi Sophie disse in tono pacato:
- Ricordo quando è morta la mamma. Come mi sono sentita
sola.
La osservai di nuovo nello specchietto. Era ancora china in avanti, protesa verso di me, ma i suoi occhi erano fissi sulla foresta che ci correva incontro.
- Non preoccuparti, - aggiunse sottovoce, facendo frusciare di nuovo il pacco del cappotto. - Farò in modo che stiamo bene. Tutti e tre. Ci penserò io.
Fermai l'automobile in un piccolo posteggio dietro il palazzo dei concerti. Davanti a noi c'era una porta su cui brillava ancora una luce accesa; sebbene non fosse la stessa di cui mi ero servito la prima volta, scesi e mi diressi da quella parte. Quando mi voltai indietro, vidi che Boris stava aiutando la madre a uscire dall'auto. Con fare protettivo, il bambino le tenne una mano dietro la schiena anche mentre la accompagnava verso il palazzo, e la borsa da dottore che stringeva nell'altra gli sbatacchiò sulle gambe intralciandolo.
Varcata la soglia ci trovammo nel lungo corridoio circolare, e quasi subito fummo costretti a farci da parte per lasciar passare un carrello spinto da due uomini. Mi sembrò che la temperatura fosse molto più alta di prima - l'aria adesso era soffocante - ma, quando vidi due musicisti in frac che chiacchieravano amabilmente davanti a una porta, capii con sollievo che non eravamo lontani dal camerino dove avevo lasciato Gustav.
Mentre facevo strada lungo il corridoio, gli orchestrali divennero sempre più numerosi. In gran parte si erano già cambiati per il concerto, ma l'atmosfera era ancora estremamente frivola. Tutti urlavano e ridevano a più non posso da un capo all'altro del corridoio, e a un certo punto rischiammo addirittura di scontrarci con un musicista che usciva da un camerino imbracciando un violoncello come se fosse una chitarra. Poi qualcuno disse:
- Oh, il signor Ryder, vero? Ci siamo già incontrati si ricorda di me?
Un gruppetto di quattro o cinque signori che veniva dalla direzione opposta si era fermato e ci stava guardando. Indossavano tutti abiti da cerimonia, e mi accorsi subito che erano ubriachi. L'uomo che mi aveva rivolto la parola brandiva un mazzo di rose; mi venne incontro sventolandolo con noncuranza.
- Al cinema, l'altra sera, - proseguì. - Ci ha presentati il signor Pedersen. Come sta, signor Ryder? I miei amici dicono che l'altra sera mi sono comportato in maniera vergognosa e che le devo delle scuse.
- Ah, sì, - dissi, riconoscendolo. - Come sta? Sono molto contento di rivederla. Ma in questo momento ho una fretta terribile...
- Mi auguro di non essere stato maleducato, - disse l'ubriaco, avvicinandosi finché la sua faccia fu quasi contro la mia. - Non lo sono mai di proposito.
A queste parole i suoi compagni gorgogliarono, come soffocando una risata.
- Maleducato? Niente affatto, - dissi. - Ma adesso deve scusarmi...
- Stavamo cercando il maestro, - disse l'ubriaco. - No, no, non lei, signor Ryder. Quello £tutto £nostro. Gli abbiamo portato dei fiori, vede? In segno del grande rispetto che gli portiamo. Sa dove possiamo trovarlo?
- Purtroppo non ne ho la minima idea. Credo che per il momento non troverete il signor Brodsky da... da queste parti.
- No? Non è ancora arrivato? - L'ubriaco si girò verso i suoi compagni. - Il nostro maestro non c'è ancora. Che cosa vi viene da pensare? - Poi verso di me: - Abbiamo dei fiori per lui -. Sventolò di nuovo il mazzo di rose, e qualche petalo cadde volteggiando per terra. - Un segno d'affetto e di riguardo da parte del consiglio municipale. $è un modo per chiedere scusa, naturalmente. Per avere tardato così tanto a capirlo -. Di nuovo i suoi compagni repressero una risata. - Non è ancora arrivato? Il nostro diletto maestro? Be', in questo caso possiamo ammazzare il tempo in compagnia degli orchestrali. Oppure tornare al bar. Voi che ne dite, amici miei?
Vidi che Sophie e Boris davano crescenti segni di impazienza.
Bofonchiai una scusa e ripresi a camminare. Alle mie spalle il gruppetto di signori si mise di nuovo a ridacchiare, ma questa volta preferii non voltarmi.
Finalmente l'ambiente divenne più tranquillo; di fronte a noi scorgemmo il muro di fondo del corridoio e i facchini ammassati davanti all'ultimo camerino. Sophie accelerò il passo, ma poco dopo, quand'eravamo ancora a una certa distanza, si fermò. Vedendoci arrivare, i facchini lasciarono libero il passaggio, e uno di loro - un uomo con i baffi, tutto nervi, che ricordavo di avere visto al Caffè Ungherese - ci venne incontro. Sembrava titubante, e in principio si rivolse solo a me.
- Gustav sta tenendo duro, signor Ryder. Ha una fibra d'acciaio -. Poi si girò verso Sophie, abbassò lo sguardo e mormorò: - Sì, ha una fibra d'acciaio, signorina Sophie.
Sulle prime Sophie non rispose e si limitò a fissare la porta appena socchiusa del camerino, alle spalle dei facchini. Poi, come per giustificare la sua presenza, disse all'improvviso:
- Ho portato una cosa a papà. Ecco, - sollevò il pacco, - gli ho portato questo.
Qualcuno mise la testa dentro il camerino, e un attimo dopo sulla soglia comparvero altri due facchini che si trovavano all'interno. Sophie non si mosse, e per un istante nessuno seppe che cosa dire o fare. Poi Boris ci passò davanti, tenendo sollevata la sua cartella nera.
- Vi prego, signori, - disse. - Spostatevi. Toglietevi di lì, per piacere.
Fece segno ai facchini di allontanarsi dalla porta. I due uomini sulla soglia rimasero dov'erano, guardandolo stupefatti, e Boris rivolse loro un gesto impaziente. - Signori! Toglietevi di lì, per piacere!
Dopo avere fatto un po' di spazio davanti al camerino, Boris, si voltò a guardare la madre. Sophie venne avanti di qualche passo, poi si fermò di nuovo. I suoi occhi fissavano la porta - che il due facchini avevano lasciata aperta a metà - con un po' di apprensione. Ancora una volta tutti sembrarono incerti sul da farsi, e fu di nuovo Boris a rompere il silenzio.
- Aspettami qui, mamma -. Detto questo, si girò e sparì dentro il camerino.
Sophie mostrò un evidente sollievo. Si avvicinò ancora di qualche passo e, quasi con disinvoltura, si sporse in avanti per sbirciare dentro la stanza. Poi, vedendo che Boris aveva praticamente richiuso la porta, drizzò la schiena e rimase ad aspettare come in coda alla fermata dell'autobus, con il pacco ripiegato sulle braccia incrociate.
Boris riemerse dopo qualche minuto. Aveva ancora la sua borsa da dottore in mano, e si chiuse la porta alle spalle con cura.
- Il nonno è molto contento che siamo venuti, - disse in tono tranquillo, guardando Sophie. - Molto contento.
Poi rimase a fissare la madre, e sulle prime il suo atteggiamento mi sconcertò. Impiegai qualche secondo a capire che stava aspettando un messaggio da riferire a Gustav. Di fatti, dopo un attimo di riflessione, Sophie aprì finalmente bocca.
- Digli che ho una cosa per lui. Un regalo. Glielo porto dentro fra un momento. Mi sto... mi sto solo preparando.
Quando Boris scomparve di nuovo nel camerino, Sophie si mise il cappotto su un braccio e cominciò a lisciare le pieghe della soffice carta marrone. In quell'istante, forse per la manifesta inutilità di quel gesto, mi ricordai improvvisamente dei numerosi altri impegni che mi attendevano. Mi venne in mente, per esempio, che non avevo ancora esaminato l'auditorium, e che le possibilità di farlo - se volevo che l'ispezione avesse un senso - diminuivano di minuto in minuto.
- Torno subito, - dissi a Sophie. - Devo controllare una cosa.
Sophie continuò a gingillarsi con il pacco e non mi rispose. Stavo per ripetere la frase a voce più alta, quando pensai che era meglio non attirare troppo l'attenzione su di me. Zitto zitto, partii in cerca di Hoffman. 32.
Dopo avere percorso un breve tratto di corridoio, vidi davanti a me un certo trambusto. Una dozzina di persone si spingevano a vicenda, urlando e gesticolando. Il mio primo pensiero fu che, a causa della crescente tensione, fosse scoppiato un litigio tra il personale delle cucine. Poi notai che la piccola folla veniva lentamente verso di me ed era composta di una curiosa mescolanza di persone. Alcune erano in abito da sera, altre invece indossavano giacche a vento, impermeabili e jeans, e sembravano arrivare direttamente dalla strada. Al gruppo si era unito anche qualche orchestrale.
Uno degli uomini che urlavano di più aveva un aspetto familiare. Stavo cercando di ricordare dove l'avessi già visto, quando lo udii strillare:
- Signor Brodsky, devo assolutamente insistere!
Riconobbi allora il chirurgo dai capelli grigi che avevo incontrato nella foresta, e mi accorsi che al centro della piccola folla c'era niente meno che Brodsky, che avanzava lentamente con cocciuta determinazione. Aveva un aspetto da far paura. La pelle della faccia e del collo era bianca e orrendamente grinzosa.
- Dice di sentirsi bene! Perché non lascia decidere a lui? - urlò di rimando un signore di mezza età in smoking. Parecchie voci appoggiarono immediatamente questa affermazione, suscitando a loro volta un coro di proteste.
Nel frattempo Brodsky continuava la sua lenta avanzata, ignorando completamente il trambusto che lo attorniava. Sulle prime ebbi l'impressione che fosse sorretto dalla folla, ma quando fu più vicino, vidi che camminava da solo con l'aiuto di una gruccia. Quest'ultima aveva qualcosa di strano, che mi indusse a osservarla più attentamente; mi accorsi allora che si trattava di un'asse da stiro, che Brodsky teneva chiusa e in posizione verticale sotto l'ascella.
Mentre osservavo la scena, gli accompagnatori di Brodsky cominciarono a notare la mia presenza, e a uno a uno ammutolirono rispettosamente, per cui la piccola folla si fece sempre più silenziosa man mano che si avvicinava. Il chirurgo, invece, continuava a strepitare:
- Signor Brodsky! Il suo organismo ha subito un trauma gravissimo. Insisto perché si sieda e si riposi!
Brodsky teneva gli occhi bassi, concentrandosi su ogni passo, e per un po' non mi vide. Poi, notando il cambiamento nelle persone che gli stavano intorno, alzò finalmente lo sguardo.
- Ah, Ryder, - disse. - Eccola.
- Signor Brodsky. Come si sente?
- Bene, bene, - disse Brodsky in tono calmo.
La folla si scostò un po', e lui poté percorrere più agevolmente l'ultimo tratto di corridoio. Quando gli feci i miei complimenti per come aveva imparato in fretta l'arte di camminare con la gruccia, Brodsky abbassò gli occhi sulla sua asse da stiro come se l'avesse ormai dimenticata da un pezzo.
- Il tizio che mi ha portato qui, - disse, - aveva questa trappola nel suo furgone. Non funziona male. $è robusta, e mi permette di camminare abbastanza bene. L'unico guaio è che tende ad aprirsi. Così.
Brodsky scosse l'asse da stiro, che effettivamente cominciò a schiudersi. Un fermo ne bloccò quasi subito l'apertura, ma era chiaro che il continuo ripetersi di questo movimento, per quanto lieve, poteva essere oltremodo irritante.
- Avrei bisogno di un cordino per legarla, - disse Brodsky con aria triste. - Un cordino come questo. Ma adesso non c'è tempo.
Seguii con lo sguardo il suo dito e non potei fare a meno di sgranare gli occhi dal raccapriccio alla vista della gamba sinistra dei suoi pantaloni, annodata poco sotto la coscia.
- Signor Brodsky, - dissi, costringendomi a guardarlo di nuovo in faccia, - non è possibile che si senta bene. Pensa di avere la forza di dirigere l'orchestra questa sera?
- Sì, sì. Sto bene. Dirigerò l'orchestra e sarà... sarà un concerto stupendo. Come ho sempre saputo che sarebbe stato. E allora lei vedrà con i suoi occhi, udirà con le sue orecchie. Per tutti questi anni ho solo finto di essere un idiota. Per tutti questi anni mi sono tenuto dentro ogni cosa, aspettando. E questa notte lei vedrà finalmente chi sono. Sarà un concerto stupendo, signor Ryder.
- Parla della signorina Collins? Ma non aveva detto che non sarebbe venuta?
- Verrà, verrà. Oh, sì, sì. Hoffman ha fatto di tutto per impedirglielo, per spaventarla, ma lei verrà, oh, sì. Ormai ho smascherato il suo gioco. Sono andato a trovarla, Ryder, ho fatto un lunghissimo pezzo a piedi, è stato faticoso, ma alla fine è arrivato quest'uomo, questo brav'uomo... - Brodsky si girò a guardare la piccola folla e mi indicò vagamente qualcuno. - $è arrivato, aveva un furgone. Siamo andati da lei, e io ho bussato alla porta, ho bussato, bussato. Un vicino ha creduto che avessi ricominciato come un tempo. Sa, a volte lo facevo, di bussare e bussare alla sua porta di notte, finché qualcuno chiamava la polizia. Ma io gli ho detto, no, pezzo d'idiota, non sono più ubriaco. Ho avuto un incidente e adesso sono sobrio, vedo tutto con chiarezza. Gliel'ho urlato in faccia, a quel vecchio lardoso. Vedo tutto con chiarezza, adesso, vedo tutto ciò che quel verme mi ha fatto in questi mesi, sì, gli ho urlato così. Poi l'ho vista avvicinarsi alla porta, proprio lei, veniva avanti e mi sentiva parlare con il suo vicino, e io la vedevo attraverso il vetro, titubante, allora ho lasciato perdere il vicino e ho cominciato a rivolgermi a lei. Mi ha ascoltato, ma sulle prime non ha aperto la porta, poi però le ho detto, senti, ho avuto un incidente, allora lei mi ha aperto. Dov'è il sarto? Dove si è cacciato? Non doveva tenermi pronta la giacca? - Brodsky si guardò intorno, e una voce in fondo alla piccola folla disse:
- Arriva subito, signor Brodsky. Anzi, eccolo qui.
Comparve un ometto che cominciò a prendere le misure a Brodsky con un metro a nastro.
- Ma che cosa fa? Ma che cosa fa? - borbottò Brodsky impaziente. Poi, rivolto a me, aggiunse: - Sono senza vestito. Ne avevano uno pronto. Dicono di avermelo consegnato a casa. Chi lo sa? Ho avuto un incidente, non so dove sia finito. Dovranno procurarmene un altro. Un vestito e una camicia da sera. Voglio il meglio per questa notte. Le mostrerò quali sono state le mie vere intenzioni per tutti questi anni.
- Signor Brodsky, - dissi, - mi stava appunto parlando della signorina Collins. Se ho ben capito, alla fin fine è riuscito a convincerla a venire qui questa sera?
- Oh, verrà. Me l'ha promesso. Non mancherà alla sua promessa per la seconda volta. Al cimitero non è venuta. Io ho aspettato, aspettato, e lei non è venuta. Ma non era colpa sua. $è stato lui, il direttore dell'albergo, a spaventarla. Ma io le ho detto che il tempo della paura è finito. Che abbiamo avuto paura per tutta la nostra vita, e adesso dobbiamo essere coraggiosi. In principio non mi stava nemmeno a sentire. Ma che cosa ti sei fatto? continuava a chiedermi. Era molto diversa dal solito. Aveva gli occhi pieni di lacrime, si portava le mani al volto come se fosse sul punto di mettersi a piangere. Non si preoccupava nemmeno che i vicini potessero sentirci. Era notte fonda, e lei mi diceva, Leo, Leo... sì, mi chiama di nuovo così... Leo che cosa ti sei fatto alla gamba? C'è del sangue. E io, non è niente, non ha importanza. Un incidente, per fortuna c'era un dottore che passava di lì, ma non è di questo che devi preoccuparti adesso, è molto più importante che tu venga al concerto. Non stare ad ascoltare quello sciagurato, quel... quel £fattorino. Le ho detto che ci restava pochissimo tempo. Che questa sera avrebbe visto quali erano sempre state le mie vere intenzioni. Avrebbe capito che non ero l'idiota che aveva creduto per tutti questi anni. E lei mi ha risposto che non poteva venire, che non era pronta; e poi, ha detto, tutte le ferite si sarebbero riaperte. E io le ho ripetuto, non stare ad ascoltare quel fattorino, quel portiere d'albergo, è troppo tardi per queste cose. E lei mi indicava la gamba, ma che cosa ti sei fatto, diceva, sta sanguinando, e io mi sono messo a urlare. Non importa, le ho urlato. Non capisci che ho bisogno che tu venga! Devi venire! Devi vedere con i tuoi occhi, devi venire! E finalmente lei ha capito che stavo facendo sul serio. Gliel'ho letto negli occhi, ho visto il cambiamento dietro il suo sguardo, la paura dileguarsi, qualcosa di nuovo germogliare dentro di lei, e ho capito che avevo vinto, e che quel lavatore di cessi d'albergo aveva perso. E le ho detto, con voce pacata, questa volta, le ho detto: «Allora verrai?» Lei ha annuito con calma, e io ho avuto la certezza che potevo fidarmi di lei. Sì, Ryder, la certezza assoluta, così mi sono girato e me ne sono andato. Sono venuto qui, mi ha portato questo brav'uomo con il suo furgone... dove si è cacciato? Ma sarei venuto anche a piedi; non sono mica così malconcio.
- Ma signor Brodsky, - dissi, - è sicuro di essere in grado di salire sul podio? In fondo, ha avuto un terribile incidente...
Sebbene non fosse nelle mie intenzioni, l'accenno a questo argomento ebbe l'effetto di scatenare un'altra raffica di grida. Il chirurgo si fece largo a gomitate e, quando fu in prima fila, alzò la voce più degli altri, picchiando il pugno contro la palma della mano per dare maggior enfasi alle sue parole.
- Signor Brodsky, insisto! Anche se solo per qualche minuto, lei £deve riposarsi!
- Sto bene, sto bene, lasciatemi in pace! - urlò Brodsky riprendendo a camminare. Poi, vedendo che non mi ero mosso, si girò verso di me e gridò: - Ryder, se vede quel fattorino, gli dica che sono qui -. Sì, glielo dica. Pensava che non ce l'avrei mai fatta, perché è convinto che sia una cacca di cane. Gli dica che sono qui. Vediamo che faccia fa -. Detto questo si allontanò per il corridoio, seguito dalla piccola folla altercante.
Io continuai nella direzione opposta, sulle tracce di Hoffman. Il numero degli orchestrali che ciondolavano nel corridoio era diminuito, e molti dei camerini avevano la porta chiusa. Ero sul punto di tornare indietro per guardare meglio dentro a quelli aperti, quando scorsi la figura di Hoffman poco più avanti di me.
Mi dava la schiena e camminava lentamente a testa china. Sebbene fossi troppo lontano per sentire ciò che diceva, era chiaro che stava ripetendo il suo discorsetto. Poi, quando fui a pochi passi da lui, lo vidi barcollare improvvisamente in avanti. Temetti che cadesse, ma un attimo dopo capii che stava semplicemente provando il curioso gesto che gli avevo già visto fare davanti allo specchio del camerino di Brodsky. Piegando in due il busto, Hoffman sollevò un braccio con il gomito in fuori e cominciò a battersi la fronte con il pugno. Era ancora in questa posizione quando lo raggiunsi e diedi un colpetto di tosse. Hoffman si raddrizzò di scatto e si girò verso di me.
- Ah, signor Ryder. Non si preoccupi. Sono sicuro che il signor Brodsky sarà qui a momenti.
- Certamente, signor Hoffman. Anzi, se per caso stava provando il discorsetto con cui intendeva chiedere scusa al pubblico per il mancato arrivo del signor Brodsky, sappia che non ce ne sarà bisogno. Sono lieto di informarla che il signor Brodsky è già qui -. Indicai il corridoio. - $è appena arrivato.
Hoffman fece una smorfia stupefatta e per un secondo rimase impietrito. Poi si diede un contegno e disse:
- Oh, bene. Che sollievo. D'altronde, sono sempre stato... sì, insomma, estremamente fiducioso -. Rise e si guardò intorno, come se sperasse di vedere Brodsky. Poi rise di nuovo e disse: - Be', forse è meglio che vada a occuparmi di lui.
- Signor Hoffman, prima di andarsene, sarebbe così gentile da darmi notizie aggiornate sui miei genitori? Confido che siano al sicuro dentro l'edificio. E mi auguro che la sua idea del cavallo e della carrozza abbia avuto l'effetto sperato. Tra l'altro credo di avere sentito la carrozza quando sono passato in macchina davanti al palazzo.
- I suoi genitori? - Hoffman parve di nuovo disorientato. Poi mi mise una mano sulla spalla e disse: - Ah, sì. I suoi genitori. Vediamo un po'.
- Signor Hoffman, contavo che lei e i suoi colleghi si prendessero cura dei miei genitori. Le loro condizioni di salute sono tutt'altro che buone...
- Certo, certo. Non occorre che si preoccupi. Solo che con tutte le cose che ho per la testa, con il signor Brodsky che per giunta era leggermente in ritardo, anche se ora a quanto pare è arrivato... ah, ah... - Hoffman smise di parlare e guardò di nuovo in fondo al corridoio. Un po' freddamente gli domandai:
- Signor Hoffman, dove sono i miei genitori in questo momento? Ne ha una vaga idea?
- Ah. In questo istante, a dire il vero, io... ecco... Ma le assicuro che sono in mani fidatissime. Naturalmente, sarebbe il massimo delle mie aspirazioni poter seguire personalmente ogni aspetto della serata, ma deve capire che... Ah, ah. La signorina Stratmann. Sì, lei sa di sicuro dove sono i suoi genitori. Le è stato ordinato di sorvegliare attentamente tutto ciò che li riguarda. Anche se, finché sono qui da noi, non c'è alcun pericolo che vengano trascurati. Anzi, ho dovuto chiedere alla signorina Stratmann di fare molta attenzione che non si stanchino troppo. Sa, è inevitabile che siano sommersi di inviti da ogni parte...
- Signor Hoffman, se ho ben capito, non ha la minima idea di dove siano i miei in questo momento? E la signorina Stratmann dov'è?
- Oh, è certamente qui da qualche parte. Su, muoviamoci e andiamo a vedere come sta il signor Brodsky. Sono sicuro che per strada incontreremo la signorina Stratmann. Magari è in ufficio. In ogni caso, signor Ryder, - e improvvisamente Hoffman assunse un tono più autoritario, - non otterremo gran che restando qui.
Ci avviammo lungo il corridoio. Mentre camminavamo, Hoffman parve ritrovare tutta la sua compostezza; con un sorriso, mi disse:
- Adesso possiamo essere sicuri che tutto andrà per il meglio. Lei, signor Ryder, mi sembra una persona che sa molto bene il fatto suo. E ora che anche il signor Brodsky è arrivato, non ci sono più problemi. Tutto si svolgerà secondo i piani. Ci attende una splendida serata.
Poi notai un cambiamento nel suo passo e mi accorsi che stava fissando qualcosa davanti a noi. Seguendo il suo sguardo, vidi Stephan in mezzo al corridoio. Il giovane aveva la faccia preoccupata e, non appena ci scorse, ci venne rapidamente incontro.
- Buona sera, signor Ryder, - disse. Poi, abbassando la voce, si rivolse a Hoffman: - Papà, possiamo parlarci un momento?
- Non ho tempo, Stephan. Il signor Brodsky è appena arrivato.
- Sì, l'ho saputo. Ma vedi, papà, si tratta della mamma.
- Ah. La mamma.
- $è ancora nel foyer, e io devo cominciare fra quindici minuti. L'ho vista poco fa, era lì che vagava. Le ho detto che presto sarebbe toccato a me, e lei mi ha risposto: «Be', caro, adesso proprio non posso. Cercherò di sentire almeno l'ultima parte del tuo pezzo, ma prima devo occuparmi di un paio di cose». Ha detto così, ma a me è sembrato che non avesse niente di particolare da fare. Sul serio, è ora che tu e la mamma veniate a sedervi. Fra meno di quindici minuti tocca a me.
- Sì, sì, arrivo subito. Quanto a tua madre, sono sicuro che sbrigherà in fretta quel che deve fare. Perché ti preoccupi tanto? Torna nel tuo camerino e pensa a prepararti.
- Ma che cosa ci fa nel foyer? Se ne sta lì a chiacchierare con tutti quelli che passano. Fra poco resterà solo lei. La gente ormai sta prendendo posto.
- Immagino che voglia semplicemente sgranchirsi le gambe, visto che dovrà stare seduta per il resto della serata. Adesso calmati, Stephan. Devi far decollare bene la serata. Contiamo tutti su di te.
Il giovane rifletté su queste parole, poi parve ricordarsi improvvisamente di me.
- $è stato davvero gentile, signor Ryder, - disse con un sorriso. - Non so che cosa avrei fatto senza il suo incoraggiamento.
- Il suo incoraggiamento? - Hoffman mi guardò stupefatto.
- Oh, sì, - disse Stephan. - Il signor Ryder è stato estremamente generoso, sia con il suo tempo, sia con i suoi elogi. Mi ha ascoltato mentre provavo il pezzo, e mi ha dato il più grande incoraggiamento che abbia ricevuto da anni.
Hoffman guardava ora me ora il figlio, con un sorrisetto incredulo sulle labbra. Poi mi disse:
- Lei ha trovato il tempo di ascoltare Stephan? Di ascoltare lui?
- Proprio così. Ho già tentato di dirglielo una volta, signor Hoffman. Suo figlio è molto dotato, e sono sicuro che la sua esecuzione sbalordirà tutti, comunque vada il resto della serata.
- Caspita, lo crede davvero? Resta però il fatto che Stephan, che lui... insomma... - Hoffman parve confondersi, poi diede una pacca sulla schiena al figlio, prorompendo una breve risata. - Bene, Stephan, a quanto pare hai in serbo una sorpresa per noi.
- Lo spero, papà. Ma la mamma è ancora nel foyer. Forse sta aspettando £te. Voglio dire, fa sempre una brutta impressione che una signora se ne stia seduta per conto suo in un'occasione come questa. Forse il motivo è solo quello. Se vai in sala e prendi posto, può darsi che lei ti raggiunga. Mica per altro, ma fra pochissimo tocca a me.
- D'accordo, Stephan, ci penso io. Non preoccuparti. Adesso torna nel tuo camerino e preparati. Prima devo solo sistemare un paio di cose con il signor Ryder.
Sebbene Stephan avesse ancora l'aria infelice, lo lasciammo e continuammo per la nostra strada.
- Devo avvertirla di una cosa, signor Hoffman, - dissi, dopo avere percorso un altro tratto di corridoio. - Forse noterà che il signor Brodsky ha assunto un atteggiamento un po' ostile verso... be', verso di lei.
- Verso di me? - Hoffman pareva stupito.
- Quando l'ho visto poco fa, era piuttosto irritato con lei. Si direbbe che nutra un certo risentimento nei suoi confronti. Ho pensato che fosse meglio dirglielo.
Hoffman borbottò qualcosa che non capii. Poi, mentre il corridoio continuava lentamente a girare, davanti a noi comparve il camerino di Brodsky, riconoscibile dalla piccola folla raccolta fuori della porta. Il direttore dell'albergo rallentò, poi si fermò del tutto.
- Signor Ryder, ho ripensato a quello che mi ha appena detto Stephan, e credo che farei meglio ad andare da mia moglie. Per accertarmi che stia bene. In fondo, in una serata come questa, capisce anche lei, i nervi...
- Certamente.
- La prego quindi di scusarmi. Tra l'altro, posso chiederle di dare un'occhiata nel camerino del signor Brodsky, per controllare che tutto proceda bene? Perché io, davvero, - Hoffman guardò l'orologio, - bisogna proprio che vada a prendere posto. Stephan ha ragione.
Hoffman si lasciò sfuggire una risatina, poi scappò via nella direzione da cui eravamo venuti.
Aspettai che se ne fosse andato, poi mi incamminai verso il gruppetto riunito davanti alla porta di Brodsky. Alcuni dei presenti erano li per semplice curiosità; altri invece discutevano concitatamente sottovoce. Il chirurgo dai capelli grigi indugiava accanto alla soglia; stava parlando animatamente a un orchestrale e gesticolava esasperato in direzione del camerino. Con mio grande stupore, la porta era spalancata; mentre mi avvicinavo, il piccolo sarto che avevo visto poco prima mise fuori la testa e urlò: - Il signor Brodsky vuole un paio di forbici. Ma grandi! - Qualcuno partì di corsa, e il sarto sparì di nuovo nel camerino. Mi feci largo tra la folla e guardai dentro la stanza.
Brodsky era seduto con la schiena alla porta e si guardava nello specchio a muro. Indossava uno smoking, e il sarto gli stava pizzicando e tirando la stoffa sulle spalle. Aveva anche una camicia da sera, ma non ancora il farfallino.
- Ah, Ryder, - disse, vedendomi nello specchio. - Entri, entri. Sa, era un pezzo che non indossavo più un vestito così.
Sembrava molto più calmo di prima, e mi tornò in mente l'atteggiamento imperioso che aveva assunto al cimitero, quando era comparso davanti ai familiari del defunto.
- Come le sembra, signor Brodsky, - disse il sarto, raddrizzandosi. Per qualche istante tutti e due esaminarono la giacca allo specchio. Poi Brodsky scosse il capo.
- No, no. La voglio più aderente, - disse. - Qui e qui. $è troppo larga.
- Non ci vuole niente, signor Brodsky -. Il sarto gli sfilò in fretta e furia la giacca, mi passò davanti facendo un rapido inchino e sparì dalla porta.
Brodsky continuò a guardarsi allo specchio, giocherellando pensieroso con le punte ripiegate del colletto. Poi prese un pettine e si diede qualche tocco ai capelli, che, notai, erano stati impomatati e luccicavano.
- Come si sente adesso? - domandai, avvicinandomi.
- Bene, - disse lui lentamente, continuando ad aggiustarsi i capelli. - Adesso mi sento bene.
- E la gamba? Non può certo dirigere un'orchestra con una ferita così grave!
- La mia gamba non ha niente -. Brodsky posò il pettine e osservò il risultato. - La ferita era meno grave di quanto sembrasse. Adesso sto bene.
Mentre Brodsky diceva queste parole, vidi nello specchio il chirurgo - che per tutto questo tempo era rimasto vicino alla porta - fare un passo dentro la stanza, con l'aria di chi non riesce più a trattenersi. Ma prima che l'uomo potesse dire qualcosa, Brodsky urlò in tono quasi feroce alla sua immagine riflessa:
- Sto bene, adesso! La ferita è una cosa da niente!
Il chirurgo batté in ritirata, ma si fermò sulla soglia e di lì continuò a fissare rabbiosamente la schiena di Brodsky.
- Ma signor Brodsky, - dissi in tono pacato, - ha perso una gamba. Non può essere una cosa tanto trascurabile.
- Ho perso una gamba, è vero -. Brodsky stava di nuovo ravviandosi i capelli. - Ma è successo anni fa, Ryder. Molti anni fa. Forse quando ero bambino. $è passato così tanto tempo che non me lo ricordo nemmeno. Quell'idiota di un dottore non se ne è accorto. Ero tutto attorcigliato alla bicicletta, ma la gamba intrappolata era quella artificiale. Quell'idiota non se ne è nemmeno accorto. E ha il coraggio di definirsi chirurgo! A me, Ryder, sembra di non averla mai avuta quella gamba. Quanto tempo fa è successo? Alla mia età si comincia a dimenticare. E si smette persino di angustiarsi. Una ferita così diventa come una vecchia amica. Certo, di tanto in tanto mi dà fastidio, ma ci ho vissuto insieme per così tanto tempo! Deve essere successo quando ero bambino. Forse in un incidente ferroviario. Da qualche parte in Ucraina. Mi pare che ci fosse la neve. Ma chi può dire? Ormai non ha nessuna importanza. A me sembra di essere stato così per tutta la mia vita. Con una gamba sola. Non è una tragedia. Si fa il callo. Quell'idiota di un dottore. Mi ha segato la gamba di legno. Sì, c'era sangue, sanguina ancora, e mi servono delle forbici, Ryder. Ho mandato a prendere delle forbici. No, no, non per la ferita. Per la gamba dei pantaloni, questa qui. Non posso mica dirigere l'orchestra con una gamba dei pantaloni vuota, che sbatacchia a questo modo. Quell'idiota di un dottore, quel tirocinante, mi ha segato la gamba di legno, e mi ha messo in un bel guaio. Non mi resta che... - Brodsky mimò con le dita un paio di forbici che tagliavano la stoffa poco sopra il ginocchio. - Devo rimediare in qualche modo. Renderla il più possibile elegante. Quell'idiota, non solo mi rovina la gamba di legno, mi graffia anche il moncone. Erano anni che la ferita non sanguinava più così. Che razza di idiota, con quella faccia tutta seria. Si crede chissà chi e va ad amputarmi una gamba di legno. Mi incide persino il moncone. Non c'è da stupirsi se continua a sanguinare. C'era sangue da per tutto. Ma la gamba l'ho persa da anni. Da un'eternità. Ho avuto tutta la vita per farci l'abitudine. Poi arriva quell'idiota con la sua sega e la ferita ricomincia a sanguinare -. Brodsky abbassò gli occhi sul pavimento e sfregò qualcosa con la scarpa. - Ho mandato a prendere delle forbici. Voglio fare bella figura, Ryder. Non sono vanitoso. Non lo faccio per vanità. Ma in certi momenti ci vuole decoro. C'è una persona che mi verrà a vedere, questa sera, e che si ricorderà di questa serata per tutti gli anni che ci restano da vivere. L'orchestra è una buona orchestra. Ecco, guardi qui -. Brodsky allungò una mano e prese una bacchetta, mettendola sotto la luce. - $è una buona bacchetta. Basta prenderla in mano per capirlo. Fa differenza, sa. Per me la punta è importante. La punta deve essere fatta in un certo modo e solo in quello -. Brodsky fissò la bacchetta. - $è passato tanto tempo, ma non ho paura. Questa sera farò vedere a tutti quel che valgo. E non scenderò a compromessi. Andrò sino in fondo. Come dice lei, Ryder. Max Sattler. Ma che idiota quell'uomo! Quell'imbecille! Quel barelliere!
Queste ultime parole Brodsky le urlò allo specchio con un certo gusto; il chirurgo - che era rimasto a guardare dalla porta con la faccia stupefatta - si ritirò imbarazzato.
Quando se ne fu andato, Brodsky lasciò trasparire per la prima volta i segni della tensione. Chiuse gli occhi e si inclinò sulla sedia, respirando pesantemente. Ma un attimo dopo nella stanza piombò un uomo con un paio di forbici.
- Oh, finalmente, - disse Brodsky, prendendole. Poi, non appena l'uomo fu uscito, posò le forbici sulla mensola dello specchio e cominciò ad alzarsi in piedi. Per sollevare il corpo si servì dello schienale della sedia, poi allungò una mano verso l'asse da stiro, appoggiata al muro di fianco allo specchio. Mi feci avanti per aiutarlo, ma prima che potessi intervenire Brodsky afferrò l'asse e se la mise sotto il braccio con sorprendente agilità.
- Vede, - disse, guardandosi tristemente la gamba dei pantaloni che penzolava vuota. - Devo rimediare.
- Vuole che le chiami il sarto?
- No, no. Quell'uomo non saprebbe che cosa fare. Me la caverò da solo.
Brodsky continuava a guardarsi il pantalone penzolante. Mentre lo osservavo, mi ricordai che avevo lasciato parecchie altre questioni urgenti in sospeso. In particolare, dovevo tornare da Sophie e Boris e informarmi sulle condizioni di Gustav. Poteva persino darsi che qualche vitale decisione riguardante il vecchio facchino fosse stata rinviata in attesa del mio ritorno. Diedi un colpetto di tosse e dissi:
- Se non le spiace, signor Brodsky, devo andare.
Brodsky continuava a guardarsi la gamba dei pantaloni. - Sarà un magnifico concerto, Ryder, - disse quasi sottovoce. - E lei sarà lì a vedermi. Finalmente.
33.
La scena davanti al camerino di Gustav non era cambiata gran che durante la mia assenza. I facchini si erano forse allontanati un po' dalla porta, e ora, accalcati sul lato opposto del corridoio, discutevano fra loro sottovoce. Sophie, invece, era ancora dove l'avevo lasciata, con il pacco ripiegato sulle braccia e gli occhi fissi sulla porta socchiusa. Vedendomi arrivare, uno dei facchini mi venne incontro e disse a voce bassa:
- Gustav sta tenendo duro, signor Ryder. Ma Josef è andato a chiamare un dottore. Non si poteva più rimandare.
Annuii, poi, accennando con gli occhi a Sophie, domandai sottovoce: - Non è ancora entrata?
- No, signor Ryder. Ma sono sicuro che la signorina Sophie lo farà molto presto.
Restammo tutti e due a guardarla per un momento.
- E Boris? - domandai.
- Oh, lui è entrato un paio di volte.
- Un paio di volte?
- Oh, sì. Adesso è dentro.
Annuii di nuovo, poi mi avvicinai a Sophie. Non si era ancora accorta che ero tornato e, quando le sfiorai gentilmente una spalla, sussultò. Poi rise e disse.
- Papà è lì dentro.
- Sì
Sophie cambiò lievemente posizione, sporgendosi da una parte come per vedere meglio attraverso la porta.
- Non volevi dargli il cappotto? - domandai.
Sophie abbassò gli occhi sul pacco, poi disse: - Oh, sì. Sì, sì. Stavo proprio per... - Non terminò la frase e si sporse di nuovo. Poi chiamò:
- Boris? Boris! Vieni fuori un momento.
Dopo qualche secondo il bambino, calmissimo, uscì dalla stanza e richiuse con cura la porta.
- Allora? - domandò Sophie.
Boris mi guardò brevemente. Poi si rivolse alla madre:
- Il nonno dice che gli dispiace. Ha detto di dirti che gli dispiace.
- Tutto lì? Non ha detto altro?
Il bambino ebbe un attimo di incertezza, poi aggiunse in tono rassicurante: - Tornerò dentro. Vedrai che mi dirà di più.
- Ma finora non ti ha detto altro? Solo che gli dispiace?
- Non preoccuparti. Tornerò dentro.
- Aspetta un momento -. Sophie cominciò a strappare la carta che avvolgeva il cappotto. - Porta questo al nonno. Daglielo. Vedi se gli va bene. Digli che se occorre posso accomodarglielo.
Sophie lasciò cadere per terra la carta strappata e tenne sollevato il cappotto di colore marrone scuro. Boris lo prese senza fare storie e tornò nel camerino. Forse a causa del voluminoso indumento che gli ingombrava le braccia, il bambino lasciò la porta aperta a metà; un attimo dopo in corridoio si udì un mormorio proveniente dalla stanza. Sophie restò dov'era, ma vidi che si sforzava di cogliere qualche parola. Alle nostre spalle, i facchini si mantenevano a rispettosa distanza, ma anche loro fissavano con ansia la porta.
Passò un lungo momento, poi Boris uscì di nuovo.
- Il nonno ringrazia, - disse a Sophie. - Adesso è molto contento. Dice che è molto contento.
- Non ha detto altro?
- Ha detto che è contento. Prima era preoccupato, ma ora che è arrivato il cappotto, dice che per lui è molto importante -. Boris diede un'occhiata alle sue spalle, poi si girò di nuovo verso la madre. - Dice che è molto contento del cappotto.
- Non ti ha detto altro? Non ti ha detto se... se gli va bene? Se il colore gli piace?
Stavo guardando Sophie, per cui non vidi con precisione ciò che Boris fece a questo punto. A me non parve nulla di speciale, una semplice pausa mentre pensava come rispondere alla domanda della madre. Ma Sophie si mise improvvisamente a urlare:
- Perché fai così?
Il bambino sgranò gli occhi.
- Perché fai così? Sai benissimo cosa voglio dire. Così! Così! - Sophie afferrò Boris per la spalla e cominciò a scuoterlo violentemente. - Come suo nonno! - disse, rivolta a me. - L'ha copiato da lui! - Poi, girandosi verso i facchini, che osservavano la scena allarmati, aggiunse: - Dal nonno! Ecco da chi l'ha preso. L'avete vista quella mossa della spalla? Così compiaciuta, così tronfia. L'avete vista? Esattamente come suo nonno! - Poi fissò Boris con faccia torva e riprese a scuoterlo. - Oh, credi di essere un grand'uomo, vero? Vero?
Boris si liberò dalla stretta e indietreggiò barcollando di qualche passo.
- L'hai visto? - mi domandò Sophie. - Quel modo di alzare la spalla. Come suo nonno.
Boris si allontanò ancora di qualche passo. Poi raccattò dal pavimento la borsa nera da dottore e se la mise davanti al petto come per difendersi. Pensai che stesse per scoppiare in lacrime, ma all'ultimo momento riuscì a dominarsi.
- Non preoccuparti... - disse, poi si fermò. Vidi che sollevava ancora un po' più in alto la borsa nera. - Non preoccuparti. Io... io... - Boris rinunciò a parlare e si guardò intorno. La stanza adiacente al camerino di Gustav era a pochi passi da lui. Il bambino girò sui tacchi, si infilò dentro e sbatté la porta.
- Sei impazzita? - domandai a Sophie. - Non ti sembra che sia già abbastanza sconvolto?
Sophie non disse nulla. Poi sospirò e si diresse verso la stanza in cui era sparito Boris. Bussò ed entrò.
Sentii che Boris diceva qualcosa, ma non riuscii a cogliere le sue parole, sebbene Sophie avesse lasciato la porta aperta.
- Mi dispiace, - gli rispose la madre. - Non volevo.
Boris aggiunse qualcos'altro che non capii.
- No, no, va tutto bene, - disse Sophie in tono gentile. - Sei stato magnifico -. Poi, dopo una pausa: - Adesso devo andare a parlare a tuo nonno. Bisogna che lo faccia.
Boris disse ancora qualcosa.
- Sì, va bene, - disse Sophie. - Gli chiederò di venire qui e di farti compagnia.
Il bambino attaccò un discorso piuttosto lungo. - No, sta' tranquillo, - lo interruppe Sophie dopo un momento. - Ti tratterà bene. Te lo prometto. Vedrai. Gli chiederò di venire qui. Ma adesso devo andare a parlare al nonno. Prima che arrivi il dottore.
Sophie uscì dalla stanza e chiuse la porta. Poi, venendomi vicino, disse in un sussurro:
- Ti prego, va' dentro e fagli compagnia. $è sconvolto. Io devo andare a parlare a papà -. Poi, prima che potessi reagire, mi mise una mano sul braccio e aggiunse: - Per piacere, sii di nuovo affettuoso con lui. Come lo eri una volta. Gli manca così tanto il tuo affetto.
- Scusa, sai, ma non so di che cosa parli. Se Boris è sconvolto, è solo perché tu...
- Ti prego, - disse Sophie. - Forse è colpa mia, ma adesso, ti prego, cerchiamo di rimediare. Per piacere, vai dentro e stai con lui.
- Certo che starò con lui, - dissi freddamente. - Perché non dovrei? E tu faresti meglio ad andare da tuo padre, che probabilmente ha sentito tutto.
Entrai nella stanza in cui si era rifugiato Boris e scoprii, un po' meravigliato, che non somigliava agli altri camerini che avevo visto lungo il corridoio. In realtà, con le sue file ordinate di banchi e la grande lavagna sulla parete di fronte, ricordava piuttosto un'aula. Era spaziosa e mal illuminata, con fitte ombre da per tutto. Boris era seduto in uno degli ultimi banchi e, quando entrai, alzò brevemente gli occhi. Non gli dissi nulla e cominciai a guardarmi intorno.
Sulla lavagna c'era un violento scarabocchio, e mi chiesi distrattamente se l'avesse fatto Boris. Mentre vagavo tra i banchi vuoti, esaminando le carte nautiche e geografiche appese alle pareti, il bambino emise un profondo sospiro. Gli lanciai un'occhiata e vidi che si era messo la borsa nera in grembo e stava cercando di estrarne qualcosa. Alla fine tirò fuori un grosso tomo e lo posò sul banco.
Mi girai dall'altra e continuai a gironzolare per la stanza. Quando lo guardai di nuovo, Boris stava sfogliando il libro con un'espressione ammirata sul volto; mi accorsi che era di nuovo alle prese con il manuale di bricolage. Piuttosto irritato, mi voltai a esaminare un manifesto che metteva in guardia sui pericoli causati dall'uso sconsiderato dei solventi. Alle mie spalle, Boris disse:
- Questo libro mi piace proprio. Spiega tutto.
Aveva cercato di pronunciare la frase come se stesse parlando a se stesso, ma io mi ero allontanato dal suo banco, sicché era stato costretto ad alzare la voce in maniera un po' innaturale. Decisi di non rispondergli e continuai a vagare per la stanza.
Dopo un po' Boris emise un altro sospiro.
- Certe volte la mamma perde la testa, - disse.
Ebbi di nuovo la sensazione che non mi avesse rivolto la parola in modo appropriato, così non gli risposi. Per di più, quando finalmente mi girai verso di lui, Boris finse di essere sprofondato nella lettura del suo libro. Andai nell'angolo opposto della stanza e vidi sul muro un grande foglio con la scritta «Oggetti smarriti». C'era una lunga lista scritta a mano nelle grafie più diverse, con una colonna per la data, una per l'oggetto smarrito e una per il nome del proprietario. Non so perché, il tabellone mi parve divertente e rimasi a studiarlo per un po'. Le prime voci a partire dall'alto - una penna, un pezzo degli scacchi, un portafoglio - sembravano scritte seriamente. Poi, dalla metà circa in giù, le denunce diventavano scherzose. Qualcuno sosteneva di avere perso «tre milioni di dollari». Un'altra persona, che si firmava «Gengis Khan», diceva di avere perso «il continente asiatico».
- Questo libro mi piace proprio, - disse Boris alle mie spalle. - Spiega tutto.
Improvvisamente persi la pazienza, mi avvicinai come una furia e picchiai la mano sul suo banco.
- Si può sapere perché leggi questa roba? - domandai. - Che cosa ti ha detto tua madre? Che ti ho fatto un magnifico regalo, scommetto. Ebbene, non è vero. Ti ha detto così? Che ti ho fatto un magnifico regalo? Che l'ho scelto apposta per te? Ma guardalo! Guardalo! - Cercai di strappargli il libro dalle mani, ma Boris lo tenne stretto e ci mise sopra le braccia. - Non è che un vecchio, inutile manuale che qualcuno stava per buttare via. Non penserai che un libro come questo, una robaccia di questo genere, possa insegnarti qualcosa?
Cercavo di tirargli via il libro da sotto le braccia, ma Boris si era piegato sul banco e lo stava proteggendo con il corpo. Il suo silenzio era esasperante. Tirai di nuovo, risoluto a far sparire quel libro una volta per tutte.
- Ascoltami bene, è un regalo inutile. Assolutamente inutile. Non ci ho messo niente di mio, né un pensiero, né un briciolo d'affetto. $è una cosa riciclata, ce l'ha scritto su ogni pagina. E invece sei convinto che ti abbia fatto un regalo meraviglioso! Dammelo, dammelo!
Forse per il timore che il manuale potesse strapparsi, Boris sollevò di scatto le braccia, e io mi ritrovai il libro in mano, appeso alla copertina. Il bambino non aveva ancora emesso un suono, e mi sentii un po' sciocco per questa esplosione di rabbia. Guardai il libro che mi penzolava dalla mano e lo scagliai in fondo alla stanza. Il manuale colpì un banco, poi cadde per terra nell'ombra. Subito mi sentii più calmo e inspirai a fondo. Quando mi girai, Boris era seduto con la schiena rigida e lo sguardo fisso sull'angolo in cui era atterrato il manuale. Poi si alzò in piedi e corse a recuperarlo. Non era ancora a metà strada, però, che la voce di Sophie lo chiamò con urgenza dal corridoio:
- Boris, vieni qui un momento. Solo un momento.
Il bambino esitò e guardò ancora una volta l'angolo in cui era atterrato il manuale, poi uscì dalla stanza.
- Boris, - sentii che diceva Sophie nel corridoio, - va' a chiedere al nonno come si sente. E chiedigli se vuole che gli aggiusti il cappotto. Forse bisogna abbassare gli ultimi bottoni. Altrimenti, quando si fermerà sul ponte, c'è il rischio che il vento sollevi i lembi. Va' a chiederglielo, ma non fermarti a chiacchierare. Chiediglielo e torna subito fuori.
Quando uscii in corridoio, Boris era già sparito nel camerino di Gustav. La scena che si offrì ai miei occhi mi era ormai familiare: Sophie immobile e tesa, con lo sguardo fisso sulla porta; i facchini un po' più indietro, con la faccia preoccupata. Sul volto di Sophie, però, c'era un'espressione sconsolata che prima non avevo notato. Provai un improvviso impeto di tenerezza nei suoi confronti. Mi avvicinai e le misi un braccio intorno alle spalle.
- Questo è un momento difficile per tutti, - le dissi gentilmente. - Un momento molto difficile.
Cominciai a tirarla verso di me, ma lei si liberò bruscamente e continuò a fissare la porta. Sbigottito dal rifiuto, le dissi in tono rabbioso:
- Ascolta, in questi frangenti abbiamo tutti il dovere di aiutarci a vicenda.
Sophie non rispose; un attimo dopo Boris uscì di nuovo dal camerino.
- Il nonno dice che il cappotto è esattamente come lo voleva lui, e che il fatto che glielo abbia dato la mamma lo rende ancora più bello.
Sophie emise un suono esasperato. - Ma ha bisogno che glielo aggiusti o no? Perché non me lo dice? Il dottore sarà qui a momenti.
- Dice... dice che il cappotto gli piace. Che gli piace moltissimo,
- Chiedigli se devo abbassare i bottoni. Se ha intenzione di stare sul ponte quando soffia vento, bisogna che il cappotto chiuda bene.
Boris meditò per un istante sulla richiesta della madre, poi annuì e tornò dentro il camerino.
- Ascolta, - dissi a Sophie, - sembra che tu non ti renda conto della situazione in cui mi trovo. Lo capisci che fra pochissimo devo salire sul palcoscenico? Dovrò rispondere a domande tutt'altro che facili sul futuro di questa comunità. Ci sarà anche un tabellone elettrico. Lo capisci che cosa significa tutto questo? Per te è facile preoccuparti di bottoni e stupidaggini del genere. Non ti rendi conto della situazione in cui mi trovo?
Sophie mi rivolse uno sguardo angosciato e parve sul punto di dire qualcosa, ma proprio in quel momento ricomparve Boris. Questa volta il bambino fissò la madre con espressione serissima, ma non aprì bocca.
- Allora, che cosa ha detto? - gli domandò Sophie.
- Dice che il cappotto gli piace moltissimo. Gli ricorda un cappotto che avevi tu da piccola. Per il colore. C'era anche il disegno di un orso. Sul tuo cappotto, naturalmente.
- Ha bisogno che glielo aggiusti? Perché non risponde a tono? Il dottore sarà qui a momenti!
- Allora non vuoi proprio capire, - la interruppi. - Là fuori c'è gente che pende dalle mie labbra. Ci sarà un tabellone elettronico, e chissà che altro. Vogliono che dopo ogni risposta vada a fare un inchino sul proscenio. Una cosa dell'altro mondo. Non vuoi proprio...
Mi arrestai, perché mi accorsi che Gustav stava chiamando. Boris si girò immediatamente e rientrò nel camerino. Per un tempo che mi parve lunghissimo Sophie e io restammo dove eravamo, aspettando che tornasse. Quando finalmente ricomparve, il bambino non ci degnò di uno sguardo; passò oltre e andò a fermarsi davanti ai facchini.
- Prego, signori -. Boris fece un gesto come per invitarli a entrare. - Il nonno vi vuole tutti dentro. Desidera avervi intorno a sé in questo momento.
Poi si girò per fare loro strada, e dopo una lieve esitazione i facchini gli andarono dietro. Ci sfilarono davanti mormorando qualche parola imbarazzata a Sophie.
Quando anche l'ultimo fu entrato, sbirciai nella stanza, ma non riuscii a vedere Gustav perché i suoi colleghi facevano ressa dietro la porta. Udii tre o quattro voci che parlavano insieme; stavo per avvicinarmi ancora, quando improvvisamente Sophie mi passò accanto sfiorandomi ed entrò nel camerino. Ci fu un po' di trambusto, poi le voci tacquero.
In due passi mi affacciai alla porta. Poiché i facchini si erano fatti da parte per lasciar passare Sophie, potei vedere Gustav sdraiato sul suo materasso. Il cappotto marrone era drappeggiato sulla parte alta del corpo, sopra la coperta grigia che ricordavo dalla volta precedente. Gustav era senza guanciale, ed era chiaro che non aveva la forza di sollevare la testa, ma guardava sua figlia con occhi affettuosi e sorridenti.
Sophie si era fermata a due o tre passi dal padre. Mi dava la schiena, quindi non riuscivo a vederla in faccia, ma ebbi l'impressione che lo stesse fissando. Dopo un lungo silenzio disse:
- Ti ricordi della volta che sei venuto a scuola? Quando mi hai portato la roba per il nuoto? L'avevo dimenticata a casa e non mi ero data pace per tutta la mattina. Mi chiedevo che cosa avrei fatto, poi sei arrivato tu con la sacca azzurra, quella con la tracolla di corda, sei entrato addirittura in classe. Te lo ricordi, papà?
- Questo cappotto mi terrà caldo, - disse Gustav. - Ne avevo proprio bisogno.
- Avevi solo mezz'ora d'intervallo, così sei venuto di corsa dall'albergo. Sei entrato in classe tenendo in mano la sacca azzurra.
- Sono sempre stato molto fiero di te.
- Non mi ero data pace per tutta la mattina. Mi chiedevo che cosa avrei fatto.
- $è un ottimo cappotto. Guarda che bel colletto. E qui è tutto di vera pelle.
- Mi scusi, - disse una voce accanto a me. Girandomi, vidi un giovanotto con gli occhiali e una borsa da dottore che cercava di sgusciare fra me e gli altri. Dietro di lui veniva un facchino che avevo già visto al Caffè Ungherese. I due entrarono nella stanza, e il giovane dottore, inginocchiatosi accanto a Gustav, cominciò a esaminarlo.
Sophie li osservò in silenzio. Poi, come arrendendosi al fatto che adesso toccava a un altro ricevere l'attenzione del padre, indietreggiò di qualche passo. Boris le andò vicino, e per un istante madre e figlio rimasero a fianco a fianco, quasi toccandosi. Ma Sophie parve non accorgersi del bambino e continuò a fissare la schiena curva del dottore.
A questo punto, mi ricordai improvvisamente di tutte le cose che dovevo ancora fare prima di comparire in pubblico, e mi dissi che, essendo arrivato il dottore, tanto valeva che ne approfittassi per sgusciare via. Mi girai e uscii silenziosamente in corridoio; stavo per partire in cerca di Hoffman, quando udii muovere alle mie spalle e mi sentii afferrare rudemente un braccio.
- Dove credi di andare? - mi bisbigliò Sophie irosamente.
- Mi spiace, ma è evidente che non vuoi capire. Non posso più perdere un minuto. Ci sarà un tabellone elettrico, per non parlare del resto. Ho una responsabilità enorme -. Mentre dicevo così, cercai di liberare il braccio dalla sua stretta.
- Ma Boris ha bisogno di te. Abbiamo tutti e due bisogno di te.
- Senti, è ovvio che non ti rendi conto! I miei genitori, non capisci? I miei genitori arriveranno da un momento all'altro! Ho mille cose da fare! Tu non ti rendi conto, è ovvio che non ti rendi minimamente conto! - Riuscii finalmente a liberarmi con uno strattone. - Senti, ti prometto che tornerò, - gridai in tono conciliante mentre scappavo via. - Tornerò appena posso.
34.
Stavo ancora percorrendo a passo rapido il corridoio quando mi accorsi che lungo il muro c'era una fila di parecchie persone. Di sfuggita, notai che tutte indossavano grembiuli da cucina; apparentemente, aspettavano il loro turno per arrampicarsi dentro un piccolo guardaroba nero. Incuriosito, rallentai il passo, poi feci dietrofront e tornai verso di loro.
Vidi che il guardaroba, oltre a essere alto e stretto come un armadio delle scope, era fissato al muro a circa mezzo metro da terra. Vi si arrivava salendo una breve successione di gradini. Dall'atteggiamento delle persone in coda, mi feci l'idea che l'armadio contenesse un urinatoio o forse una fontanella d'acqua potabile. Ma quando fui più vicino, vidi che l'uomo che in quel momento si trovava in cima agli scalini aveva il busto piegato in avanti e il sedere in fuori, e dava l'impressione di rovistare nell'armadio. Gli altri, intanto, gesticolavano e gridavano spazientiti perché si sbrigasse. Poi, mentre l'uomo usciva dall'armadio a ritroso cercando cautamente il primo gradino, qualcuno lanciò un'esclamazione e indicò nella mia direzione. Tutti si girarono verso di me, affrettandosi a farmi largo, e in un attimo la coda si dissolse. L'uomo che si trovava nell'armadio scese i gradini il più in fretta possibile, poi si inchinò e fece un ampio gesto come per invitarmi a salire.
- Grazie, - dissi, - ma credo che ci fossero altri prima di me.
Vi fu una raffica di proteste, e parecchie mani mi spinsero quasi a forza su per la breve scaletta.
La porticina dell'armadio si era richiusa, e quando la aprii - tirandola verso di me con un delicato equilibrismo sull'ultimo gradino - mi ritrovai affacciato sull'auditorium da grandissima altezza. Con mia grande sorpresa constatai che l'armadio era privo di fondo, e, se fossi stato più temerario, mi sarebbe bastato sporgermi e allungarmi un po' per toccare il soffitto della sala dei concerti. La vista era senza dubbio grandiosa, ma nell'insieme quel pertugio mi parve stupidamente pericoloso. L'armadio, per giunta, era inclinato in avanti e invitava lo spettatore disattento a sbilanciarsi verso il baratro. Per evitargli di precipitare in testa al pubblico c'era solo una sottile corda tesa all'altezza della vita. Non riuscii a trovare una ragione logica che giustificasse quell'armadio; forse serviva per appendere bandiere e cose simili da un capo all'altro della sala.
Muovendomi con cautela, misi entrambi i piedi dentro l'armadio, poi, afferrandomi saldamente alla cornice della porta, guardai di sotto.
Sebbene circa tre quarti delle poltrone fossero già occupate, le luci erano ancora accese, e da per tutto c'era gente che chiacchierava e si salutava. Alcuni invitati gesticolavano in direzione di file lontane, altri affollavano i corridoi conversando e ridendo. Nel frattempo dalle due porte principali continuavano ad affluire nuovi spettatori. Il luccicante schieramento di leggii nella fossa dell'orchestra rifletteva le luci della sala, mentre sul palcoscenico - il sipario era aperto - c'era un solitario pianoforte a coda con il coperchio sollevato. Guardando dall'alto lo strumento sul quale di lì a poco avrei dato uno dei concerti più importanti della mia vita, capii che ormai sarebbe stato ben difficile che mi si presentasse un'occasione migliore di questa per esaminare la sala, e provai di nuovo una profonda irritazione per il modo in cui avevo organizzato il mio tempo da quando ero arrivato in città.
Poi, proprio sotto i miei occhi, Stephan Hoffman uscì dalle quinte e si presentò sul palcoscenico. Nessuno lo aveva annunciato, e le luci non furono nemmeno abbassate. Le sue maniere, tra l'altro, erano prive di cerimoniosità. Il giovane aveva l'aria pensierosa e si avvicinò a passo rapido al pianoforte, senza degnare di uno sguardo la sala. Non c'è dunque da stupirsi se la maggior parte del pubblico manifestò solo una blanda curiosità e riprese subito a chiacchierare e a scambiarsi saluti. Indubbiamente, quando Stephan attaccò l'esplosivo inizio di vPassioni di vetro,v vi fu un attimo di stupore, ma dopo qualche secondo la stragrande maggioranza degli spettatori concluse che il giovane stava semplicemente provando il pianoforte o il sistema di amplificazione. Poi, dopo poche battute, qualcosa attrasse lo sguardo di Stephan, e la sua esecuzione si svuotò di ogni intensità, come se qualcuno avesse improvvisamente tolto un tappo. Il giovane seguì con gli occhi un movimento attraverso la folla, finché si ritrovò a suonare con la testa completamente girata dall'altra. Solo allora mi accorsi che stava osservando una coppia diretta verso l'uscita; sporgendomi un po' di più, feci appena in tempo a riconoscere Hoffman e la moglie prima che sparissero sotto di me, fuori del mio campo visivo.
Stephan smise di suonare e, ruotando sullo sgabello, rimase lì a fissare imbambolato i genitori. Questo parve togliere ogni dubbio residuo sul fatto che fosse incaricato di controllare l'acustica. Anzi, per un istante sembrò addirittura che stesse aspettando un segnale dai tecnici appostati sul lato opposto della sala, e nessuno gli prestò attenzione quando finalmente si alzò e abbandonò a grandi passi il palcoscenico.
Solo quando fu dietro le quinte Stephan permise all'indignazione che lo stava invadendo di rompere gli argini. D'altronde, la consapevolezza di avere abbandonato la scena dopo poche battute era per il momento avvolta da una sensazione di totale irrealtà, e Stephan quasi non vi si soffermò mentre scendeva a precipizio i gradini di legno e attraversava di corsa le porte del retropalco.
Quando sbucò nel corridoio, lo trovò pieno di macchinisti teatrali e di camerieri che correvano avanti e indietro. Si diresse allora verso il foyer, sperando di raggiungere i suoi genitori, ma quasi subito vide venirgli incontro il padre, solo e pensieroso. Da parte sua, il direttore dell'albergo non si accorse di Stephan se non quando gli fu quasi addosso. Allora si fermò e guardò il figlio con stupore.
- Ma come? Non stai suonando?
- Papà, perché tu e la mamma ve ne siete andati a quel modo? Dov'è la mamma, adesso? Non si sente bene?
- Tua madre -. Hoffman sospirò gravemente. - Tua madre ha ritenuto giusto andarsene. Naturalmente, io l'ho accompagnata e... Be', voglio essere sincero, Stephan. Lascia che te lo dica. In linea di massima, sono d'accordo con lei. Non ho potuto farne a meno. Non guardarmi così, Stephan. Sì, mi rendo conto di averti deluso. Ti avevo promesso questa opportunità, questa tribuna per suonare davanti all'intera città, davanti a tutti i tuoi amici e colleghi. Sì, sì, te l'avevo promessa. Forse sei stato tu che me l'hai chiesta, forse mi hai preso sovrappensiero, non so come sia successo. Ma non ha importanza. Ciò che conta è che ho detto di sì, che ti ho fatto una promessa. Non ho voluto rimangiarmela, e questo è stato il mio errore. Ma tu, Stephan, devi cercare di capire come è difficile per noi che siamo i tuoi genitori. Come è difficile dover assistere...
- Andrò a parlare alla mamma, - disse Stephan e cominciò ad allontanarsi. Hoffman fece una smorfia inorridita, poi afferrò bruscamente il figlio per un braccio e lo trattenne, ridendo impacciato.
- Non puoi, Stephan. Cioè, insomma... voglio dire che tua madre è nella toilette delle signore. Ah, ah. In ogni caso, penso sia meglio lasciare che la situazione sedimenti un pochino, per così dire. Ma Stephan, che cosa ci fai qui? Non dovresti essere al pianoforte? Ah, ma forse è meglio così. Ci sarà qualche domanda imbarazzante, ma niente di più.
- Papà, io torno a suonare, ma tu per piacere va' a sederti, e convinci anche la mamma a rientrare in sala.
- Stephan, Stephan -. Hoffman scosse la testa e mise una mano sulla spalla del figlio. - Voglio che tu sappia che abbiamo tutti e due molta stima di te. Siamo tutti e due fierissimi. Ma questa tua fissazione, quest'idea che hai covato per tutta la vita. Mi riferisco alla... alla tua musica. Be', tua madre e io non abbiamo mai avuto il coraggio di dirtelo. Naturalmente, volevamo che anche tu avessi i tuoi sogni. Ma questo. Tutto questo... - e così dicendo fece un gesto verso l'auditorium, -... è stato un terribile errore. Non avremmo mai dovuto lasciare che le cose giungessero a questo punto. Vedi, Stephan, il fatto è questo. Il tuo modo di suonare è incantevole. In un certo senso persino molto raffinato. Ci è sempre piaciuto sentirti suonare in casa. Ma la musica, la musica seria, la musica che ci vuole in una serata come questa... be', quella, vedi, è tutt'altra cosa. No, no, non interrompermi, sto cercando di dirti qualcosa, qualcosa che avrei dovuto dirti molto tempo fa. Vedi, questo è l'auditorium della città. Il pubblico, il pubblico che viene ai concerti, non ha niente che vedere con gli amici e i parenti che ti ascoltano con simpatia in salotto. Il vero pubblico dei concerti è abituato a certi standard, standard professionistici. Stephan, come posso spiegartelo?
- Papà, - lo interruppe Stephan, - tu non capisci. Ho lavorato sodo. E anche se il pezzo che sto per suonare l'ho scelto all'ultimo momento, ti assicuro che l'ho provato e riprovato. Ti prego, torna in sala e ti accorgerai...
- Stephan, Stephan... - Hoffman scosse di nuovo il capo. Se fosse solo questione di esercitarsi con impegno. Se tutto si limitasse solo a questo. Ma vedi, alcuni di noi nascono senza talento. Non hanno la musica dentro di sé, e non possono fare altro che accettare la realtà. $è terribile che debba dirti queste cose proprio adesso, per di più dopo averti incoraggiato così a lungo. Spero che tu possa perdonarci; tua madre e io siamo stati due deboli. Ma vedi, ci accorgevamo del piacere che ti dava la musica, e non ce la siamo sentita. Anche se questo non ci giustifica, lo so. Che cosa spaventosa! Il mio cuore sanguina per te in questo momento, te l'assicuro. Spero che un giorno tu riesca a perdonarci. $è stato un terribile errore lasciarti arrivare fino a questo punto. Lasciarti salire sul palcoscenico davanti all'intera città. Tua madre e io ti amiamo troppo per poter assistere a una cosa simile. Sarebbe semplicemente intollerabile vedere... vedere il nostro carissimo figlio trasformato in zimbello. Ecco, l'ho detto, ho vuotato il sacco. Sono parole crudeli, ma finalmente te le ho dette. Ero convinto di potercela fare. Di riuscire a restare seduto tra i sorrisetti e le risatine soffocate. Ma quando è venuto il momento, sia tua madre sia io ci siamo accorti che era più forte di noi. Che cosa ti prende? Perché non mi ascolti? Non capisci che tutto questo mi addolora moltissimo? Non è facile parlare così apertamente, nemmeno al proprio figlio...
- Papà, ti prego, ti supplico. Vieni a sentirmi suonare, solo per pochi minuti, poi giudicherai da te. E anche la mamma. Ti prego, ti prego, convincila. Vi ricrederete, ne sono sicuro...
- Stephan, devi tornare sul palcoscenico. Il tuo nome è stampato sul programma. Sei già comparso una volta. Adesso, come minimo, devi tentare. Che tutti vedano almeno che hai fatto del tuo meglio. Ascolta il mio consiglio. Non badare al pubblico, non badare alle risatine soffocate. Anche se la gente dovesse ridere apertamente, come se si trattasse di una farsa e non di un brano musicale solenne e profondo, anche in quel caso, ricordati che tua madre e tuo padre sono fieri che tu abbia avuto il coraggio di andare sino in fondo. Sì, adesso devi andare sino in fondo, Stephan. Ma perdonaci, ti amiamo troppo per assistere allo scempio. Ti dirò di più, temo che a tua madre si spezzerebbe il cuore. Adesso vai, ti resta pochissimo tempo. Va', va', va'.
Hoffman si girò portandosi una mano alla fronte, come sopraffatto dall'emicrania, e in questo atteggiamento si allontanò di qualche passo da Stephan. Poi raddrizzò di scatto la schiena e si voltò a guardare il figlio.
- Stephan, - disse severamente. - Devi tornare sul palcoscenico.
Stephan fissò ancora per un istante il padre, poi, resosi finalmente conto di combattere per una causa persa, gli diede le spalle e tornò indietro lungo il corridoio.
Mentre riattraversava le porte del retropalco, Stephan fu assalito da pensieri e sentimenti diversi. Naturalmente, era deluso di non essere riuscito a convincere i suoi genitori a tornare ai loro posti. Inoltre, sentiva risvegliarsi dentro di sé, in profondità, una fastidiosa paura che non provava più da anni; gli venne il timore che le parole di suo padre fossero vere, e di essere dunque vittima di una colossale illusione. Poi, però, mentre si avvicinava al palcoscenico, ritrovò rapidamente la fiducia in se stesso, e con la fiducia venne il bisogno imperioso di scoprire da sé ciò di cui era capace.
Quando Stephan si presentò di nuovo sul palcoscenico, le luci erano state abbassate. L'auditorium, però, era tutt'altro che al buio, e molti invitati erano ancora in piedi. Qui e là si vedevano onde di persone che si alzavano per consentire a qualche ritardatario di strisciare lungo una fila. Quando Stephan si sedette al pianoforte, il brusio calò in maniera impercettibile, poi continuò inalterato mentre il giovane aspettava che il suo animo in subbuglio si placasse. Finalmente, le sue mani calarono sulla tastiera con la stessa aspra precisione della volta precedente, evocando un mondo sospeso tra sgomento e ilarità, essenziale per le prime battute di vPassioni di vetro.v
Quando Stephan giunse a metà del breve prologo, l'auditorium si era fatto notevolmente più silenzioso; quando completò il primo movimento, in sala si sarebbe sentita volare una mosca. Gli spettatori che fino a un attimo prima chiacchieravano nei corridoi della platea erano rimasti in piedi, ma fissavano il palcoscenico immobili come statue. Il pubblico seduto osservava e ascoltava attentissimo. Davanti a uno degli ingressi, dove i ritardatari si erano irrigiditi sul posto, si era formata una piccola folla. Quando Stephan cominciò il secondo movimento, i tecnici spensero del tutto le luci, e da quel momento non riuscii più a distinguere bene il pubblico. Ma lo stupore generale che continuava ad avvincere la sala era evidente. Senza dubbio, questa reazione era dovuta in parte alla sorpresa degli invitati quando avevano scoperto che un giovane della loro città era capace di simili virtuosismi tecnici. Ma al di là e più ancora della perizia, nel modo di suonare di Stephan c'era una strana intensità che difficilmente si lasciava ignorare. Ebbi anche l'impressione che buona parte del pubblico vedesse in questo inizio inaspettato una specie di auspicio. Se questo non era che il preludio, che altro aveva in serbo la serata? Il concerto avrebbe davvero segnato una svolta nella vita della comunità? Queste, almeno, sembravano le domande inespresse che si celavano dietro molti volti stupefatti nella folla sotto di me.
Stephan concluse con una lettura pensosa e lievemente ironica della coda del brano musicale, e dopo un paio di secondi di silenzio la sala esplose in un applauso entusiastico. Il giovane balzò in piedi per ringraziare. Era palesemente al settimo cielo; non so se gli dolesse che i suoi genitori non avessero assistito al suo trionfo, ma in ogni caso non lo dava a vedere. Mentre il pubblico applaudiva, si chinò ripetutamente, poi forse ricordandosi all'improvviso che la sua esibizione era solo una parte modesta dell'intero programma, si ritirò frettolosamente dietro le quinte.
Gli applausi continuarono per un po', poi si spensero lasciando il posto a un concitato mormorio. Tuttavia, prima che la gente avesse modo di scambiarsi le proprie opinioni, dalle quinte uscì un uomo con la faccia severa e i capelli argentati. Mentre avanzava lentamente e impettito verso il leggio del proscenio, riconobbi in lui il signore che aveva presieduto il banchetto in onore di Brodsky la sera del mio arrivo.
In sala si fece rapidamente il silenzio, ma per almeno trenta secondi l'uomo dalla faccia severa non disse nulla, limitandosi a fissare il pubblico con lieve disgusto. Alla fine sospirò stancamente e disse:
- Anche se è mio desiderio che la serata sia di vostro gradimento, vi ricordo che non siamo venuti qui per assistere a uno spettacolo di cabaret. Deve essere ben chiaro che all'origine del concerto di questa sera vi sono questioni gravi e importanti. Questioni che riguardano il nostro futuro, l'identità stessa della nostra comunità.
Per parecchi minuti, l'uomo dalla faccia severa ripeté pedantemente questo concetto, facendo di tanto in tanto una lunga pausa per scrutare la sala con sguardo corrucciato. Cominciai a perdere interesse in ciò che diceva e, ricordando che alle mie spalle c'era una lunga fila di persone in attesa di usare l'armadio, pensai di cedere il posto a qualcun altro. Tuttavia, proprio mentre strisciavo fuori dell'armadio, mi accorsi che l'uomo dalla faccia severa aveva cambiato argomento, o meglio, stava presentando qualcuno.
Il personaggio, a quanto pareva, non solo era «la pietra angolare dell'intero mondo letterario della città», ma possedeva anche la capacità di «catturare l'incurvarsi della goccia di rugiada sulla punta di una foglia autunnale». L'uomo dalla faccia severa lanciò un'ultima occhiata sprezzante al pubblico, poi bofonchiò un nome e se ne andò tutto impettito. La sala applaudì fragorosamente, e l'applauso mi parve diretto più a lui che alla persona di cui aveva parlato. Quest'ultima, tra l'altro, si fece attendere per almeno un minuto, e quando finalmente comparve ricevette un'accoglienza assai tiepida.
Si trattava di un uomo piccolo ed elegante, con la testa calva e i baffi. Arrivò con una cartellina in mano e andò a posarla sul leggio. Poi tolse il fermaglio ad alcuni fogli e cominciò a rimescolarli, senza degnare il pubblico di uno sguardo. In sala cominciò a serpeggiare un certo nervosismo. Incuriosito dalla scena, mi convinsi che le persone in coda sarebbero state felici di aspettare ancora un po' e tornai cautamente verso il fondo dell'armadio.
Quando finalmente si decise a parlare, l'omino calvo mise la bocca troppo vicino al microfono, e la sua voce vibrò e rimbombò.
- Questa sera desidero presentarvi una scelta di poesie di ciascuno dei miei tre periodi. Molte le conoscerete già per averle sentite durante le mie letture pubbliche al Caffè Adele, ma spero che non vi dispiaccia riascoltarle in questa solenne occasione. E vi dico già sin d'ora che alla fine ci sarà una piccola sorpresa. Qualcosa che mi auguro possa procurarvi un moderato piacere.
Mentre il poeta ricominciava ad armeggiare con i suoi fogli, qui e là nella folla si accese qualche conversazione bisbigliata. Poi l'omino calvo smise finalmente di tergiversare e tossì forte nel microfono, ottenendo di nuovo il silenzio.
Molte delle poesie erano rimate e relativamente brevi. Ce n'erano sui pesci del parco municipale, sulle tempeste di neve, sulle finestre rotte dell'infanzia - tutte recitate con voce stranamente acuta come fossero incantesimi. Per qualche minuto mi distrassi, poi mi accorsi che una parte del pubblico, proprio sotto di me, si era messa a chiacchierare.
Sulle prime le voci mantennero una certa discrezione, ma presto si fecero più sfacciate. Dopo un po' - mentre l'omino calvo recitava una lunga poesia sui numerosi gatti posseduti da sua madre nel corso degli anni - mi parve che il rumore proveniente dal basso fosse quello di un considerevole gruppo di persone che conversavano in tono più o meno normale. Abbandonando ogni cautela, mi sporsi dall'armadio e sbirciai di sotto tenendomi con le mani al telaio di legno.
Il parlottio, in effetti, veniva da un gruppo seduto proprio sotto di me, ma il numero delle persone che partecipavano alla conversazione era minore di quanto avessi supposto. C'erano sette o otto individui che evidentemente avevano deciso di non prestare più attenzione al poeta e stavano chiacchierando piacevolmente fra loro; per maggiore comodità, alcuni si erano girati completamente sulla loro poltrona. Stavo per esaminare più attentamente il gruppetto, quando, parecchie file più indietro, scorsi la signorina Collins.
Indossava l'elegante abito da sera nero che le avevo visto al banchetto della prima notte, con lo stesso scialle. Osservava l'omino calvo affettuosamente, con la testa inclinata da una parte e il mento appoggiato a un dito. Rimasi a fissarla per un po', ma nel suo aspetto non c'era nulla che facesse intuire un animo non perfettamente calmo e sereno.
Tornai con lo sguardo al turbolento gruppetto di persone sedute sotto di me e vidi che si stavano passando delle carte da gioco. Solo allora mi resi conto che il nucleo di questo gruppo era composto dei signori ubriachi che avevo incontrato al cinema la prima notte e poco prima nel corridoio.
La partita a carte divenne ancora più chiassosa, finché l'intera masnada scoppiò in schiamazzi e risate. Molti guardavano i giocatori con disapprovazione, ma gradualmente un numero sempre più grande di persone si mise a chiacchierare, anche se con voce più controllata.
L'omino calvo non mostrò di accorgersene e tutto serio continuò a recitare una poesia dopo l'altra. Poi, una ventina di minuti dopo essere comparso in scena, fece una pausa e, ricomponendo qualche foglio, disse:
- Adesso entriamo nel secondo periodo. Come alcuni di voi già sapranno, il secondo periodo ha preso avvio da un episodio fondamentale. Un episodio che mi ha tolto la possibilità di continuare a creare con gli strumenti che avevo impiegato fino a quel momento. In altre parole, la scoperta che mia moglie mi aveva tradito.
Il poeta chinò il capo come se questo ricordo lo affliggesse ancora. Fu allora che uno spettatore del gruppo seduto sotto di me urlò:
- Quindi ammette anche lui che stava usando gli strumenti sbagliati!
I suoi compagni si misero a ridere, poi qualcun altro disse forte:
- Il cattivo operaio dà sempre la colpa agli strumenti.
- Anche sua moglie, a quanto pare, - aggiunse la prima voce.
Questo dialogo, chiaramente destinato a essere udito dal maggior numero possibile di persone, suscitò parecchie risatine soffocate. Non si capì quanto ne fosse giunto sul palcoscenico; fatto sta che l'omino calvo si fermò e, senza guardare i disturbatori, rimescolò di nuovo i suoi papiri. Poi, sempre che ne avesse avuto l'intenzione, rinunciò a dire ancora qualcosa a mo' di presentazione del secondo periodo e riprese a recitare.
Il secondo periodo dell'omino calvo non era gran che differente dal primo, e questo non fece che aumentare l'irrequietezza del pubblico, tanto che un paio di minuti dopo, quando uno dei signori ubriachi urlò qualcosa che non riuscii a capire, gran parte della sala rise apertamente. Per la prima volta l'omino calvo parve accorgersi che il pubblico gli stava sfuggendo di mano; alzando gli occhi a metà di una frase, rimase a sbattere le palpebre sotto i riflettori come paralizzato dallo stupore. Un'ovvia scappatoia sarebbe stata quella di abbandonare la scena, oppure, più dignitosamente, di leggere ancora tre o quattro poesie prima di tagliare la corda. L'omino calvo, invece, scelse una terza soluzione. In preda al panico, ricominciò a leggere a precipizio, probabilmente con l'intenzione di completare il programma originale il più in fretta possibile, con il risultato non solo di apparire un po' sconclusionato, ma anche di incoraggiare i suoi nemici, che si accorsero di essere quasi riusciti a metterlo in fuga. I motteggi - non più gridati solo dal gruppo seduto sotto di me - si moltiplicarono, accolti ogni volta da risate generali.
Alla fine l'omino calvo fece un tentativo per riprendere in pugno la situazione. Mise da parte la sua cartellina e, senza dire una parola, lanciò uno sguardo implorante dal leggio. La folla, che in gran parte stava sghignazzando, si zittì - forse più per curiosità che per rimorso. E quando l'omino calvo riprese a parlare, la sua voce aveva riacquistato una certa autorità.
- Vi ho promesso una piccola sorpresa, - disse. - Ebbene, eccola. Una nuova poesia. L'ho finita non più tardi di una settimana fa, e l'ho composta proprio per questa grande occasione. $è intitolata, semplicemente, vBrodsky il Conquistatore.v Se mi permettete.
Il poeta armeggiò di nuovo con i suoi fogli, ma questa volta il pubblico tacque. Poi si chinò in avanti e cominciò a recitare. Dopo i primi versi alzò un attimo gli occhi, come meravigliato che la sala fosse rimasta silenziosa. Continuò a leggere, sempre più sicuro di sé, tanto che poco dopo stava già gesticolando altezzosamente per sottolineare le frasi più significative.
Mi aspettavo che la poesia fosse una specie di ritratto di Brodsky, ma mi accorsi presto che riguardava solo le sue battaglie con l'alcool. Le prime strofe paragonavano Brodsky a vari eroi mitologici. C'erano immagini in cui Brodsky scagliava giavellotti dalla cima di una collina per respingere un esercito di invasori, oppure lottava con un serpente di mare, oppure era incatenato a una rupe. Il pubblico ascoltava in modo rispettoso, persino solenne. Guardai di sfuggita la signorina Collins, ma non mi parve che il suo atteggiamento fosse cambiato. Come prima, osservava il poeta con interesse e allo stesso tempo distacco, con un dito premuto contro il mento.
Poi la poesia cambiò tema. Abbandonò lo sfondo mitologico e si occupò invece di una serie di episodi recenti di cui era stato protagonista Brodsky, episodi che ormai - così almeno mi parve di capire - erano entrati nella leggenda. Naturalmente, su di me la maggior parte delle allusioni andò sprecata, ma non mi sfuggì il tentativo di rivalutare e nobilitare la figura di Brodsky in ciascun episodio. Sul piano letterario, questa parte mi parve di gran lunga migliore della precedente, ma l'inserimento di elementi così concreti e familiari ebbe la conseguenza di sgretolare quel po' di rispetto che l'omino calvo era riuscito a ottenere dal pubblico. Il riferimento alla «tragedia della pensilina dell'autobus» provocò di nuovo qualche risatina soffocata, e le sghignazzate dilagarono quando si udì che Brodsky «in inferiorità numerica e spossato dalla battaglia» era stato «infine costretto a capitolare dietro la cabina del telefono». Ma fu quando l'omino calvo parlò della «sfavillante prova di coraggio durante la gita scolastica» che l'intera sala, come un sol uomo, esplose in una risata.
Da quel momento fu chiaro che nulla avrebbe potuto salvare l'omino calvo. Quasi ogni verso delle ultime strofe, dedicate a elogiare la recente sobrietà di Brodsky, fu accolto da scrosci di risa. Quando guardai di nuovo la signorina Collins, notai che si stava sfregando il mento con il solito dito, ma per il resto mi parve composta come sempre. L'omino calvo, la cui voce, ormai, si udiva a stento tra le risate e gli schiamazzi, concluse finalmente la recita, raccolse sdegnato i suoi papiri e tutto impettito abbandonò il palcoscenico. Una parte del pubblico, forse pensando di avere esagerato, lo applaudì generosamente.
Per qualche minuto il palcoscenico rimase vuoto, e presto tutti si misero a parlare ad alta voce. Osservando i volti sotto di me, rimasi colpito da una cosa: sebbene molte persone si scambiassero occhiate ridanciane, un numero non indifferente di spettatori sembrava adirato e gesticolava severamente all'indirizzo di altre persone. Poi sul palcoscenico si accese un riflettore e comparve Hoffman.
Il direttore dell'albergo era furibondo e si precipitò verso il leggio senza tante cerimonie.
- Signore e signori, per piacere! - gridò, anche se il clamore stava cominciando a scemare. - Per piacere! Vi prego di ricordare l'importanza di questa serata. Per usare le parole del signor von Winterstein, non siamo a uno spettacolo di cabaret!
A una parte del pubblico la veemenza del rimprovero non andò giù, e dal gruppo seduto sotto di me si levò un ironico «ooh». Ma Hoffman proseguì:
- In particolare, sono indignato che così tanti di voi si ostinino stupidamente a pensare del signor Brodsky cose ormai superate. Senza entrare nel merito degli altri grandi pregi della poesia del signor Ziegler, nessuno può metterne in dubbio la premessa centrale, e cioè che il signor Brodsky ha vinto una volta per tutte i dèmoni che lo tormentavano. Quelli di voi che un attimo fa hanno scelto di ridere dell'eloquente esposizione di questo concetto offertaci dal signor Ziegler, ebbene, sono sicuro che fra pochissimo... sì, nei prossimi istanti!... proveranno vergogna. Sì, vergogna! Come poco fa ho provato io per l'intera città!
Mentre pronunciava queste parole, Hoffman batté il pugno sul leggio, e una parte sorprendentemente grande del pubblico scoppiò in un applauso ipocrita. Il direttore dell'albergo, visibilmente sollevato, ma anche incerto su come interpretare questa reazione, fece un paio di inchini impacciati. Poi, prima che l'applauso si spegnesse completamente, si ricompose e dichiarò ad alta voce nel microfono:
- Il signor Brodsky merita come minimo di diventare un personaggio eminente della nostra comunità! Una fonte spirituale e culturale per i nostri giovani! Un faro per quelli di noi più avanti negli anni, forse, ma che ugualmente hanno smarrito la strada e sono precipitati nella disperazione durante questi bui capitoli della storia della nostra città! Questo è il minimo che meriti il signor Brodsky! Sì, guardatemi bene in faccia! Mi gioco la mia reputazione, la mia £credibilità su ciò che vi sto dicendo ora! Ma che bisogno c'è di usare tante parole? Fra un attimo lo verificherete voi stessi con i vostri occhi e le vostre orecchie. Non era questa la presentazione che avevo in mente di fare, e mi spiace essere stato costretto a parlarvi in questo modo. Ma non perdiamo altro tempo. Permettetemi di chiamare i nostri esimi ospiti, l'Orchestra della Fondazione Nagel di Stoccarda, diretta questa sera dal nostro, nostrissimo... signor Leo Brodsky!
Mentre Hoffman spariva dietro le quinte, vi fu un forte scroscio di applausi. Per qualche minuto non successe nulla, poi la fossa dell'orchestra si illuminò e i musicisti vennero fuori. Vi fu un altro scroscio di applausi, seguito da un silenzio carico di tensione mentre gli orchestrali si agitavano sulle sedie, accordavano gli strumenti e armeggiavano con i leggii. Persino il turbolento gruppetto seduto sotto di me sembrava essersi reso conto della gravità del momento; i giocatori avevano messo via le carte e sedevano attenti, con lo sguardo dritto davanti a sé.
Quando l'orchestra ebbe terminato i preparativi, un riflettore illuminò un punto in fondo al palcoscenico. Per un altro minuto non successe niente, poi da dietro le quinte giunsero dei tonfi. Il rumore crebbe di intensità, finché Brodsky uscì nel cerchio di luce e si fermò, come per dare agio al pubblico di notare la sua comparsa.
Sicuramente molti dei presenti avrebbero stentato a riconoscerlo. In abito da sera, con una camicia di un bianco abbagliante e i capelli ben pettinati, Brodsky faceva colpo. Inutile negare, però, che la malconcia asse da stiro che ancora gli faceva da gruccia sminuiva un poco l'effetto. Inoltre, quando Brodsky si avviò verso il podio - con l'asse da stiro che batteva sul pavimento a ogni passo - notai il modo in cui aveva risolto il problema della gamba vuota dei pantaloni. Il desiderio che non sventolasse era perfettamente comprensibile. Ma invece di annodarla all'altezza del moncone, Brodsky l'aveva tagliata un paio di centimetri sotto il ginocchio, lasciando un orlo ondulato. Una soluzione del tutto elegante - me ne rendevo conto - non era possibile; ma molto probabilmente quell'orlo così appariscente sarebbe servito solo ad attirare maggiormente l'attenzione sulla sua ferita.
Tuttavia, mentre Brodsky attraversava il palcoscenico, capii che su questo punto mi sbagliavo. Mi aspettavo infatti che da un momento all'altro gli spettatori scoprissero le condizioni di Brodsky e restassero a bocca aperta, ma ciò non avvenne. Anzi, da quel che potevo vedere, il pubblico non si era minimamente accorto della gamba amputata e aspettava silenzioso e trepidante che Brodsky raggiungesse il podio.
Forse per la stanchezza, forse per la tensione, Brodsky non riusciva più a manovrare l'asse da stiro con la scioltezza di prima, quando l'avevo incontrato nel corridoio. Ondeggiava pericolosamente, e mi resi conto che quell'andatura, finché il pubblico non si fosse accorto della menomazione, avrebbe inevitabilmente destato il sospetto di ubriachezza. Brodsky era ancora a parecchi metri dal podio quando si fermò e lanciò un'occhiata furente all'asse da stiro; vidi allora che l'arnese stava ricominciando ad aprirsi. Brodsky lo scosse, poi riprese a camminare. Riuscì a fare ancora un paio di passi, poi qualcosa cedette e l'asse da stiro si aprì sotto di lui proprio mentre vi caricava sopra tutto il suo peso. Brodsky e asse da stiro finirono per terra in un unico groviglio.
La reazione del pubblico fu strana. Sulle prime, invece di lanciare grida allarmate, come uno si sarebbe potuto aspettare, gli spettatori ostentarono un silenzio di disapprovazione. Poi l'auditorium fu percorso da un mormorio, una specie di «hmm» collettivo, come se ognuno si riservasse di trarre le debite conclusioni da certi indizi scoraggianti. Anche i tre inservienti che si avvicinarono a Brodsky per aiutarlo lo fecero senza alcuna premura, persino con un briciolo di disgusto. In ogni caso, prima che potessero fare qualcosa, Brodsky, che intanto stava lottando con l'asse da stiro, urlò rabbiosamente che si levassero di torno. I tre uomini si fermarono immediatamente e rimasero a osservarlo con una certa affascinata morbosità.
Brodsky continuò per un po' a dibattersi sul pavimento, tentando ora di rialzarsi, ora invece di districare un lembo di stoffa intrappolato nel meccanismo dell'asse da stiro. A un certo punto esplose in una serie di bestemmie - presumibilmente indirizzate all'arnese - che il sistema di amplificazione ritrasmise fin troppo chiaramente. Lanciai un'altra occhiata alla signorina Collins e vidi che aveva il busto proteso in avanti. Poi però, mentre Brodsky continuava a dimenarsi, la donna si riappoggiò lentamente allo schienale, sollevando di nuovo il dito per sorreggere il mento.
Finalmente Brodsky vinse la sua battaglia. Riuscì a rimettere in piedi l'asse da stiro aperta e a tirarsi su. Poi, fiero dell'impresa, rimase lì sulla gamba buona, afferrandosi all'asse con entrambe le mani, i gomiti in fuori come se si preparasse a montare a cavallo. Subito lanciò un'occhiataccia ai tre inservienti, poi, quando questi cominciarono a indietreggiare verso le quinte, si girò a guardare il pubblico.
- Lo so, lo so, - disse, e sebbene non parlasse forte i microfoni disposti lungo la ribalta amplificarono la sua voce rendendola udibile. - Lo so a che cosa state pensando. Ma vi sbagliate.
Brodsky abbassò gli occhi e parve considerare la sua non facile situazione. Poi raddrizzò la schiena e cominciò a passare la mano sulla superficie imbottita dell'asse da stiro, come se si fosse accorto solo in quel momento della sua funzione originale. Infine guardò di nuovo il pubblico e disse:
- Non fatevi venire strane idee. Quello di poco fa, - e accennò con il capo al pavimento, - è stato solo uno spiacevole incidente. Nient'altro.
L'auditorium fu percorso da un altro mormorio, poi tornò il silenzio.
Brodsky rimase chino sull'asse da stiro, immobile, con gli occhi fissi sul podio del direttore d'orchestra. Capii che stava valutando la distanza che lo separava dalla meta. Un attimo dopo, infatti, si mise in marcia. Per avanzare, sollevava l'intera intelaiatura dell'asse da stiro, la sbatteva sul pavimento come un deambulatore, poi le andava dietro trascinando l'unica gamba. Sulle prime il pubblico parve perplesso, ma dato che Brodsky procedeva senza incertezze, qualche spettatore, pensando di assistere a una specie di numero da circo, cominciò a battere le mani. Il suggerimento fu subito raccolto da tutta la sala, e Brodsky compì il resto del tragitto accompagnato da vigorosi applausi.
Giunto alla meta, Brodsky lasciò andare l'asse da stiro, si aggrappò alla ringhiera semicircolare del podio e vi salì cautamente. Poi, appoggiandosi alla ringhiera per non perdere l'equilibrio, prese la bacchetta.
L'applauso per l'esibizione con l'asse da stiro si era ormai spento, e in sala regnava di nuovo un silenzio carico di attesa. Anche i musicisti fissavano Brodsky con un certo nervosismo. Ma Brodsky sembrava assaporare la sensazione di ritrovarsi al timone di un'orchestra dopo così tanti anni, e per un po' continuò a sorridere e a guardarsi intorno. Finalmente sollevò la bacchetta. Gli orchestrali si tennero pronti, ma Brodsky cambiò di nuovo idea, abbassò la bacchetta e si rivolse al pubblico. Sorridendo affabilmente, disse:
- Voi siete convinti che io non sia altro che un sudicio ubriacone. Adesso vedremo se è vero.
Il microfono più vicino era a una certa distanza, ed ebbi l'impressione che solo una parte del pubblico udisse le sue parole. Comunque sia, un attimo dopo Brodsky sollevò la bacchetta e lanciò l'orchestra nelle aspre semibrevi iniziali di £Verticalità di Mullery.
A me non parve un modo particolarmente insolito di attaccare il pezzo, ma chiaramente il pubblico si aspettava qualcosa di diverso. Molti spettatori sussultarono visibilmente sulle loro poltrone, e mentre le prolungate dissonanze si ripetevano nella sesta e settima battuta, notai su alcune facce un'espressione prossima al panico. Persino alcuni orchestrali guardavano preoccupati ora il direttore ora la loro partitura. Ma Brodsky continuò imperterrito ad aumentare l'intensità e a mantenere un tempo esageratamente lento. Quando giunse alla dodicesima battuta, in cui le note esplodono e ricadono ondeggiando, il pubblico emise una specie di gemito. Ma quasi subito la musica ricominciò a gonfiarsi.
Di tanto in tanto Brodsky si sorreggeva con la mano libera, ma ormai attingeva a una parte più profonda di se stesso e sembrava in grado di conservare l'equilibrio quasi senza sostegno. Ondeggiava con il busto. Roteava entrambe le braccia nell'aria con abbandono. Durante i passaggi iniziali del primo movimento, vidi qualche orchestrale lanciare sguardi contriti al pubblico, come per dire: «Ve lo giuro, ci ha detto lui di fare così!» Presto, però, i musicisti si lasciarono prendere dalla visione di Brodsky. I primi a esserne avvinti furono i violini, poi notai che un numero sempre maggiore di musicisti si concentrava nell'esecuzione. Quando Brodsky affrontò la malinconia del secondo movimento, l'orchestra aveva ormai accettato completamente la sua autorità. A questo punto anche il pubblico aveva dimenticato la precedente irrequietezza e sedeva pietrificato.
Brodsky approfittò della costruzione meno rigida del secondo movimento per avventurarsi in territori ancora più inconsueti, e persino io - per quanto abituato a vedere Mullery interpretato nei modi più diversi - ne fui affascinato. Brodsky, quasi perversamente, ignorava la struttura esteriore della musica - le concessioni alla tonalità e alla melodia con cui il compositore decorava la superficie dell'opera - per concentrarsi invece sulle singolari forme viventi che si nascondevano appena sotto il guscio. In tutto ciò c'era qualcosa di leggermente sordido, di prossimo all'esibizionismo, che induceva a pensare che lo stesso Brodsky fosse profondamente imbarazzato dalla natura di ciò che stava svelando, ma non riuscisse a resistere al bisogno di spingersi ancora più a fondo. L'effetto era snervante ma irresistibile.
Studiai di nuovo la folla sotto di me. Senza dubbio l'animo di quel pubblico provinciale era stato conquistato da Brodsky, e questo mi fece intravedere la possibilità che l'intermezzo con le domande e le risposte si rivelasse meno scabroso di quanto avessi temuto. Ovviamente, se Brodsky fosse riuscito a convincere gli spettatori con la sua arte, il modo in cui avrei risposto alle domande sarebbe stato molto meno determinante. In sostanza, non avrei dovuto fare altro che confermare qualcosa che il pubblico aveva già accettato, nel qual caso, anche se le mie ricerche erano state inadeguate, non c'era motivo perché non potessi cavarmela benissimo con qualche commento diplomatico e un paio di battute. Se invece Brodsky avesse lasciato il pubblico in tumulto e in preda all'indecisione, nonostante tutta la mia esperienza e la mia fama, mi sarei ritrovato con una bella gatta da pelare. L'atmosfera in sala era ancora tesa, e ricordando la rabbia tormentosa del terzo movimento mi domandai che cosa sarebbe successo quando Brodsky l'avesse attaccato.
- In quel preciso istante mi venne in mente che non avevo ancora cercato i miei genitori in mezzo al pubblico. E quasi simultaneamente mi balenò il pensiero che ben difficilmente ne avrei scoperto i volti sotto di me, visto che nelle numerose occasioni in cui avevo studiato la folla non li avevo mai notati. Ciò nonostante mi sporsi in maniera quasi temeraria e scandagliai l'auditorium con lo sguardo. Per quanto allungassi il collo, certe parti della sala rimanevano nascoste. Mi resi conto che prima o poi sarei dovuto scendere sotto anch'io. Lì, almeno, se non fossi riuscito a trovare i miei genitori, avrei potuto stanare Hoffman o la signorina Stratmann per chiedere loro notizie. Nell'uno come nell'altro caso, non potevo permettermi di restare un secondo di più a osservare il concerto dall'alto, così, girandomi con cautela, uscii dall'armadio.
Quando mi riaffacciai in cima alla scaletta, vidi che la coda si era allungata di parecchio. Adesso c'erano almeno venti persone in attesa, e mi sentii in colpa per essere rimasto dentro così a lungo. Tutti discutevano animatamente, ma quando mi videro ammutolirono. Scesi i gradini e bofonchiai qualcosa a mo' di scusa, poi, mentre la persona successiva si arrampicava affannosamente nell'armadio, mi allontanai in tutta fretta.
Il corridoio era molto più tranquillo di prima, soprattutto per il rallentamento dell'attività del personale addetto alla ristorazione. A intervalli di parecchi metri l'uno dall'altro incontrai numerosi carrelli carichi, ai quali talvolta erano appoggiati uomini in grembiule che fumavano e bevevano da tazzine di plastica. Dopo un po' mi fermai e domandai a uno di loro quale fosse la via più corta per scendere nell'auditorium. L'inserviente si limitò a indicarmi una porta alle mie spalle. Ringraziandolo, la aprii e mi affacciai su una tromba delle scale mal illuminata.
Scesi almeno cinque rampe di gradini, poi spinsi due pesanti porte oscillanti e mi trovai in una specie di antro dietro le quinte. Nella semioscurità scorsi, appoggiati al muro, i pannelli rettangolari di un fondale dipinto: la stanza di un castello, un cielo illuminato dalla luna, una foresta. Sopra la mia testa c'era un intreccio di cavi d'acciaio. Sentivo chiaramente l'orchestra, e mi diressi verso la musica facendo del mio meglio per non inciampare nelle casse e negli scatoloni che ingombravano il pavimento. Salita una breve scaletta di legno, mi accorsi di essere finito tra le quinte. Stavo per tornare indietro - avevo sperato di sbucare con discrezione accanto alle prime file della platea - quando qualcosa nella musica che mi giungeva in quel momento alle orecchie - qualcosa di inquietante che fino a un attimo prima non c'era - mi costrinse a fermarmi.
Rimasi ad ascoltare per circa un minuto, poi avanzai di un passo e sbirciai oltre i pesanti tendaggi che avevo davanti a me. Naturalmente, lo feci con grande cautela - volevo evitare a tutti i costi che la folla scorgesse la mia faccia e si mettesse ad applaudire freneticamente - ma scoprii che stavo guardando Brodsky e l'orchestra da una posizione molto angolata, e che ben difficilmente il pubblico avrebbe potuto vedermi.
Mi accorsi che mentre mi aggiravo per l'edificio le cose erano molto cambiate. Brodsky, così supposi, si era spinto troppo lontano, perché nell'esecuzione dell'orchestra si notava ora quella titubanza che spesso segnala una mancanza di affinità tra il direttore e i musicisti. Sul volto degli orchestrali - adesso potevo vederli da vicino - notai espressioni di incredulità, angoscia, persino disgusto. Poi, quando i miei occhi si furono abituati alla violenta luce dei riflettori, guardai oltre l'orchestra, in direzione del pubblico. Riuscii a distinguere solo le prime file, ma vidi subito che la gente si scambiava occhiate preoccupate, tossiva imbarazzata, scuoteva il capo. Proprio sotto i miei occhi, una signora si alzò per andarsene. Ma Brodsky continuava a dirigere in maniera appassionata, anzi sembrava desideroso di spingersi ancora più in là. Poi vidi due violoncellisti scambiarsi un'occhiata e scuotere la testa. Era un chiaro segno di ammutinamento, e senza dubbio Brodsky lo notò. Il suo modo di dirigere assunse un che di maniacale, e la musica sbandò pericolosamente verso i regni della perversità.
Fino a quel momento non ero riuscito a vedere bene l'espressione di Brodsky - per lo più mi dava le spalle - ma quando i suoi contorcimenti divennero più pronunciati, ebbi occasione di guardarlo meglio in faccia. Solo allora mi balenò il pensiero che il suo comportamento fosse influenzato da qualche altro fattore. Di nuovo lo osservai attentamente - osservai il modo in cui il suo corpo si torceva e si aggrappava a un ritmo interiore che si era impadronito di lui - e capii che Brodsky, probabilmente da un pezzo, stava soffrendo le pene dell'inferno. Non appena me ne accorsi, i segni divennero inequivocabili. Brodsky stava a stento in piedi, e il suo volto era deformato da qualcosa di più della semplice passione.
Sentii il dovere morale di fare qualcosa e valutai rapidamente la situazione. Brodsky aveva ancora davanti a sé un movimento e mezzo di musica assai ardua, oltre al complesso epilogo. L'impressione favorevole che era riuscito a creare in precedenza si stava rapidamente sgretolando. C'era il rischio che da un momento all'altro il pubblico ridiventasse indisciplinato. Più ci pensavo, più mi sembrava evidente che bisognava interrompere il concerto, tanto che cominciai a domandarmi se non dovessi uscire subito sul palcoscenico e incaricarmene io. Probabilmente ero l'unica persona che potesse farlo senza che il pubblico vi vedesse l'annuncio di una grave calamità.
Per qualche minuto, però, non mi mossi e rimasi lì a domandarmi come, esattamente, eseguire l'intervento. Dovevo venire avanti facendo segno con le braccia di smettere? C'era il pericolo che un simile gesto, oltre ad apparire presuntuoso, lasciasse supporre una certa disapprovazione da parte mia, e sarebbe stato un disastro. Forse era molto meglio aspettare l'inizio dell'andante, poi farmi avanti con la massima modestia, sorridendo cortesemente a Brodsky e all'orchestra, camminando al ritmo della musica come se l'ingresso fosse stato studiato in anticipo. Senza dubbio il pubblico avrebbe applaudito, e a questo punto anch'io - senza mai smettere di sorridere - avrei potuto battere le mani prima a Brodsky, poi agli orchestrali. Mi auguravo che Brodsky avesse la prontezza di far cessare gradualmente la musica e di ringraziare il pubblico. Con la mia presenza sul palcoscenico, le probabilità che la folla insorgesse contro di lui erano remote. Anzi, grazie al mio esempio - avrei continuato ad applaudire e a sorridere con grande convinzione, come se Brodsky fosse reduce da una prestazione di indiscutibile bellezza - il ricordo della parte precedente del concerto si sarebbe ripresentato con tale vigore da riconquistargli i favori del pubblico. Brodsky avrebbe eseguito un dignitoso numero di inchini, poi si sarebbe girato per andarsene, e a quel punto tutti avrebbero visto con quanta cordialità lo aiutavo a scendere dal podio, magari richiudendo l'asse da stiro e porgendogliela perché potesse usarla di nuovo a mo' di gruccia. Poi avrei potuto accompagnarlo verso le quinte, lanciando frequenti occhiate al pubblico per incoraggiare gli applausi e così via. Mi parve che la cosa potesse funzionare, a patto di valutare ogni mossa con la massima precisione.
Ma in quell'istante successe qualcosa che probabilmente era;ormai nell'aria da un pezzo. Brodsky descrisse un ampio arco con la bacchetta e quasi simultaneamente trafisse l'aria con l'altra mano. Così facendo, parve staccarsi da terra. Si sollevò in aria di qualche centimetro, poi ricadde sul proscenio trascinando con sé la ringhiera del podio, l'asse da stiro, la partitura e il leggio.
Mi aspettai che tutti corressero in suo aiuto, ma il grido che accompagnò la sua caduta si spense in un silenzio imbarazzato. Poi, mentre Brodsky giaceva a faccia in giù sul pavimento, senza più muoversi, nell'auditorium si levò un sommesso brusio. Finalmente, uno dei violinisti posò il suo strumento e gli andò vicino. Presto anche parecchie altre persone - macchinisti, orchestrali - imitarono il suo esempio, ma nel modo in cui si strinsero intorno alla figura prona di Brodsky notai ancora una punta di esitazione, come se si aspettassero di scoprire qualcosa di assolutamente disdicevole.
Più o meno a questo punto mi riscossi - avevo esitato a farmi avanti, non sapendo bene che effetto avrebbe avuto la mia apparizione - e corsi a unirmi ai soccorritori di Brodsky. Mentre mi avvicinavo, il violinista lanciò un grido e, lasciandosi cadere sulle ginocchia, cominciò a esaminare Brodsky con nuova sollecitudine. Poi alzò gli occhi verso di noi e bisbigliò esterrefatto: - Dio mio, ha perso una gamba! $è un miracolo che non sia svenuto prima!
Vi fu qualche esclamazione di stupore, e la dozzina di persone che si erano radunate intorno a Brodsky - fra le quali c'ero anch'io - si scambiarono un'occhiata. Non saprei dire perché, ma tutti avemmo la netta sensazione che la notizia della gamba mancante non dovesse trapelare, sicché stringemmo il cerchio per tenere lontani gli sguardi del pubblico. Quelli più vicini a Brodsky stavano discutendo a bassa voce se portarlo via dal palcoscenico. Poi qualcuno fece un segnale e il sipario cominciò a chiudersi. Ci accorgemmo subito che Brodsky era sdraiato esattamente sulla traiettoria della tenda; parecchie braccia si protesero e lo trascinarono via dalla ribalta proprio mentre il sipario si chiudeva.
Gli scossoni ebbero l'effetto di rianimarlo un po'; quando il violinista lo girò sul dorso, Brodsky aprì gli occhi e scrutò a una a una le facce che gli stavano attorno. Poi, con una voce che sembrava più assonnata che altro, disse:
- E lei dov'è? Perché non è qui a sorreggermi?
Vi fu un nuovo scambio di occhiate. Poi qualcuno bisbigliò:
- La signorina Collins. Credo che si riferisca alla signorina Collins.
Non appena queste parole furono pronunciate, udimmo alle nostre spalle un colpetto di tosse; girandoci, vedemmo la signorina Collins in piedi, al di qua del sipario. Aveva ancora un atteggiamento molto composto, il suo sguardo esprimeva una cortese sollecitudine. Solo le mani strette davanti al petto, un po' più in alto del dovuto, rivelavano il tumulto interiore.
- E lei dov'è? - domandò di nuovo Brodsky con voce assonnata. Poi cominciò improvvisamente a canticchiare fra sé e sé.
Il violinista alzò gli occhi verso di noi. - Dite che è ubriaco? Puzza parecchio d'alcool.
Brodsky smise di cantare, poi, richiudendo gli occhi, ripeté: - E lei dov'è? Perché non viene?
Questa volta la signorina Collins, che era rimasta accanto al sipario, gli rispose con voce sommessa ma chiarissima: - Sono qui, Leo.
Il tono era prossimo alla tenerezza, ma quando le aprimmo un varco per farla passare lei non si mosse. Tuttavia, alla vista del corpo steso sul pavimento, sul suo volto comparvero finalmente i segni dell'angoscia. Brodsky, sempre a occhi chiusi, ricominciò a canticchiare.
Un attimo dopo aprì le palpebre e si guardò intorno attentamente. Prima girò gli occhi verso il sipario - forse in cerca del pubblico - poi, scoprendolo chiuso, esaminò di nuovo le facce chine su di sé. Infine posò lo sguardo sulla signorina Collins.
- Abbracciamoci, - disse Brodsky. - Che il mondo intero ci veda. Il sipario... - Si sollevò a fatica sui gomiti e gridò: - Preparatevi a riaprire il sipario! - Poi, rivolgendosi alla signorina Collins, aggiunse sottovoce: - Vieni a sorreggermi. Abbracciamoci. E poi che aprano il sipario. Voglio che il mondo intero ci veda -. Lentamente, si lasciò andare di nuovo sulla schiena. - Su, avvicinati, - mormorò.
La signorina Collins fu sul punto di dire qualcosa, poi cambiò idea. Si voltò invece a dare un'occhiata al sipario, e nei suoi occhi comparve uno sguardo spaventato.
- Che ci vedano tutti, - disse Brodsky. - Che vedano che siamo stati insieme fino all'ultimo. Che ci siamo amati per tutta la vita. Mostriamoglielo. Voglio che lo vedano con i loro occhi quando si aprirà il sipario.
La signorina Collins rimase a fissarlo per qualche istante, poi finalmente cominciò ad avvicinarsi. La gente si scostò con discrezione; alcuni distolsero addirittura lo sguardo. Ma prima di giungergli accanto, la donna si fermò e disse con voce un po' tremula:
- Se vuoi possiamo tenerci per mano.
- No, no. Questo è l'ultimo atto. Abbracciamoci come si deve. Voglio che ci vedano tutti.
La signorina Collins ebbe un attimo di esitazione, poi andò risoluta a inginocchiarsi al suo fianco. Vidi che i suoi occhi erano pieni di lacrime.
- Amore mio, - disse Brodsky sottovoce. - Stringimi di nuovo. La ferita mi fa così male!
Improvvisamente, la signorina Collins ritrasse la mano che aveva cominciato a tendere e si alzò in piedi. Poi lanciò un'occhiata gelida a Brodsky e tornò a passo veloce verso il sipario.
Brodsky parve non accorgersi della sua fuga. Fissava il soffitto con le braccia protese e spalancate, come se si aspettasse che la signorina Collins scendesse dall'alto.
- Dove sei? - disse. - Voglio che ci vedano tutti. Quando si aprirà il sipario. Voglio che vedano che siamo stati insieme fino alla fine. Dove sei?
- Io non vengo, Leo. Ovunque tu stia andando adesso, dovrai andarci da solo.
Probabilmente Brodsky notò che il tono era cambiato, perché, pur continuando a fissare il soffitto, lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi.
- La tua ferita, - disse la signorina Collins in tono pacato. - Sempre la tua ferita -. Poi la sua faccia si contorse in una smorfia orrenda. - Oh, come ti odio! Come ti odio per avermi rovinato la vita! Non te lo perdonerò mai, mai! La tua ferita, la tua piccola, stupida ferita! La ferita, ecco il tuo vero amore, Leo, l'unico vero amore della tua vita! So già come andrebbe a finire, anche se provassimo, anche se riuscissimo a ricostruire qualcosa da capo. E con la musica succederebbe lo stesso. Anche se questa sera tu venissi accettato, anche se diventassi famoso in questa città, distruggeresti ogni cosa, ti faresti crollare tutto addosso come in passato. E tutto per colpa di quella ferita. Per te, io e la musica non siamo altro che amanti in cui cerchi conforto. Per poi tornare ogni volta dal tuo unico vero amore. La ferita! E lo sai che cosa mi fa imbestialire? Leo, mi stai ascoltando? La tua ferita non è niente di speciale, assolutamente niente di speciale. In questa città conosco molte persone che ne hanno di ben peggiori. Eppure tutte, dalla prima all'ultima, tirano avanti con molto più coraggio di te. Vivono la loro vita. Diventano degne persone. Invece tu guardati, Leo. Sempre lì a vezzeggiare la tua ferita. Mi ascolti? Apri bene le orecchie, perché voglio che tu senta fino all'ultima parola! Quella ferita è tutto ciò che ti resta. Un tempo ho tentato di darmi a te anima e corpo, ma non te ne importava niente, e non mi avrai una seconda volta. Mi hai rovinato la vita! E ora ti odio! Mi senti, Leo? Guarda in che stato ti sei ridotto! Vuoi sapere che cosa ne sarà di te adesso? Be', te lo dirò io. Andrai in un luogo orribile. Un luogo buio e deserto, e io non verrò con te. Vacci da solo! Vacci da solo con quella tua piccola, stupida ferita!
Brodsky stava agitando lentamente una mano. Approfittando della pausa, disse:
- Forse... forse tornerò a essere un direttore d'orchestra. La musica, poco fa, prima che cadessi. Era bella. L'hai sentita? Forse tornerò a essere un direttore d'orchestra...
- Leo, tu non mi stai a sentire. Non sarai mai un £vero direttore d'orchestra. Non lo sei mai stato, neppure ai bei tempi. Non sarai mai in grado di renderti utile agli abitanti di questa città, nemmeno se fossero loro a volerlo. Perché non te ne importa niente delle loro vite, ecco perché. La tua musica sarà sempre e solo imperniata su quella piccola, stupida ferita; non sarà mai altro che questo, non sarà mai qualcosa di profondo, qualcosa che abbia valore anche per gli altri. Io, almeno, nel mio piccolo, posso dire di avere fatto ciò che potevo. Di avere fatto del mio meglio per aiutare gli infelici di questa città. Tu, invece, guardati. Non ti sei mai curato di nulla all'infuori della tua ferita. Ecco perché non sei mai stato un £vero musicista, nemmeno ai bei tempi. E non lo diventerai certo adesso. Leo, mi ascolti? Voglio che tu senta bene le mie parole: sarai sempre e solo un ciarlatano. Un impostore codardo e irresponsabile...
Improvvisamente, un uomo robusto e paonazzo irruppe sul palcoscenico passando attraverso le tende del sipario.
- La sua asse da stiro, signor Brodsky! - annunciò allegramente, tenendo sollevato davanti a sé l'arnese. Poi, accorgendosi che c'era qualcosa che non andava, si ritrasse.
La signorina Collins squadrò il nuovo arrivato, poi, lanciando un'ultima occhiata in direzione di Brodsky, scappò via attraverso l'apertura del sipario.
La faccia di Brodsky era ancora rivolta al soffitto, ma i suoi occhi erano di nuovo chiusi. Mi feci largo e mi inginocchiai accanto a lui per sentirgli il polso.
- I nostri marinai, - mormorò Brodsky. - I nostri marinai. I nostri marinai ubriachi. Dove sono finiti? E tu dove sei? Dove sei?
- Sono io, - dissi. - Ryder. Signor Brodsky, dobbiamo trovarle subito un dottore.
- Ryder -. Brodsky aprì gli occhi e li girò verso di me. - Ryder. Forse quello che ha detto è vero.
- Non si preoccupi, signor Brodsky. La sua musica era magnifica. Soprattutto i primi due movimenti...
- No, no, Ryder. Non mi riferisco alla musica. Ormai quella non ha più importanza. Mi riferisco alle altre cose che ha detto. A proposito del posto buio e deserto dove dovrò andare da solo. Forse è vero -. All'improvviso Brodsky sollevò la testa dal pavimento e mi fissò negli occhi. - Non voglio andarci, Ryder, - disse in un sussurro. - Non voglio andarci.
- Signor Brodsky, cercherò di riportare qui la signorina Collins. Come le dico, i primi due movimenti erano straordinariamente innovativi. Sono sicuro che riuscirò a farla ragionare. Ma adesso mi lasci andare, torno subito.
Liberando il braccio dalla sua stretta, mi infilai anch'io tra le tende del sipario.
35.
Fui stupito di trovare l'auditorium completamente trasformato. Le luci erano state riaccese, e il pubblico, agli effetti pratici, non esisteva più. Almeno due terzi degli spettatori se ne erano andati, e quelli rimasti chiacchieravano in piedi nei corridoi. Non mi soffermai a lungo su questa scena, però, perché nel corridoio centrale avevo scorto la signorina Collins che si faceva largo verso l'uscita. Sceso dal palcoscenico, le corsi dietro attraverso la folla e le arrivai a tiro di voce proprio mentre stava per uscire.
- Signorina Collins! Aspetti un momento, per piacere!
La donna si voltò e, quando mi riconobbe, mi fissò con occhi duri. Colto un po' alla sprovvista, mi fermai a metà del corridoio. Improvvisamente, sentii svanire ogni proposito di raggiungerla e di parlarle; chi sa perché, abbassai gli occhi impacciato e mi guardai i piedi. Quando risollevai la testa, la signorina Collins era sparita.
Restai dov'ero, chiedendomi se avessi fatto una sciocchezza lasciandomela scappare a quel modo. Ma a poco a poco la mia attenzione fu attratta dalle conversazioni che si svolgevano intorno a me. In particolare, notai un gruppetto alla mia destra, formato da sei o sette persone piuttosto anziane. Sentii che uno degli uomini stava dicendo:
- Secondo la signora Schuster, quell'individuo non è rimasto sobrio un solo giorno da quando è cominciata questa storia. Come si può pretendere che rispettiamo un uomo del genere, per quanto dotato? Che esempio darebbe ai nostri figli? No, no, qui si è superato ogni limite.
- Alla cena della Contessa, - disse una donna, - persino lì era ubriaco, ne sono quasi sicura. Hanno dovuto fare i salti mortali perché non ce ne accorgessimo.
- Scusatemi, - dissi, intromettendomi nella discussione, - ma state parlando a vanvera. Vi posso assicurare che siete mal informati.
Mi aspettavo che la mia sola presenza li facesse ammutolire sbigottiti. Loro, invece, mi diedero un'occhiata cordiale - come se avessi semplicemente chiesto il permesso di unirmi al gruppo - e ripresero la conversazione.
- Nessuno vuole ricominciare a tessere gli elogi di Christoff, - disse il primo uomo. - Ma, come giustamente dicevi, l'interpretazione di poco fa sfiorava il cattivo gusto.
- Sfiorava l'immoralità. Te lo dico io. Sfiorava l'immoralità.
- Scusatemi, - m'intromisi, questa volta con maggior forza. - Ma ho ascoltato con molta attenzione ciò che il signor Brodsky è riuscito a fare prima della caduta, e la mia valutazione è diversa dalla vostra. Penso che ci abbia offerto qualcosa di stimolante, di nuovo, qualcosa di molto vicino all'intima essenza di quel brano musicale.
Rivolsi a tutti una gelida occhiata. Gli spettatori mi guardarono di nuovo con benevolenza; qualcuno rise educatamente, come se avessi fatto una battuta. Poi il primo uomo disse:
- Nessuno difende Christoff. Ormai sappiamo di che pasta è fatto. Ma quando ascolti un concerto come quello di poco fa, finisci con il vedere le cose sotto una prospettiva diversa.
- Evidentemente, - disse un altro uomo, - Brodsky è convinto che Max Sattler avesse ragione. $è persino andato in giro a dirlo per buona parte della giornata. Senza dubbio parlava sotto gli effetti dell'alcool, ma, visto che è sempre ubriaco, dobbiamo ritenere che il suo pensiero sia quello. Max Sattler. Questo spiega parecchio di ciò che abbiamo appena sentito.
- Christoff, almeno, aveva il senso della struttura. Un metodo cui potevi afferrarti saldamente.
- Signori, - gridai, - mi date il voltastomaco!
Quando vidi che non mi degnavano nemmeno di uno sguardo, mi allontanai furente.
Mentre tornavo indietro lungo il corridoio, mi accorsi che tutti stavano discutendo del concerto. Notai che molti parlavano per il semplice bisogno di sfogarsi dopo un'esperienza insolita, come avrebbero fatto dopo avere assistito a un incendio o a un incidente. Quando giunsi sotto il palcoscenico, vidi due donne che piangevano e una terza che le confortava dicendo: - Va tutto bene adesso, è finita. $è finita -. In questa parte della sala si sentiva un buon profumo di caffè. Parecchie persone stringevano convulsamente le tazze e i piattini, bevendo come per riprendersi da un'emozione.
In quell'istante mi ricordai che dovevo tornare di sopra a vedere come stava Gustav; facendomi largo attraverso la folla, abbandonai l'auditorium da un'uscita di emergenza.
Mi ritrovai in un corridoio vuoto e silenzioso. Anche questo curvava gradualmente, ma a differenza di quello del piano superiore era senza dubbio destinato al pubblico. La moquette era generosa, la luce soffusa e calda. Lungo la parete erano appesi quadri con la cornice dorata. Non mi ero aspettato che il corridoio fosse deserto, e per un attimo esitai non sapendo da che parte andare. Poi, non appena mi incamminai, sentii alle mie spalle una voce che mi chiamava:
- Signor Ryder!
Mi girai e, in fondo al corridoio, vidi Hoffman che si sbracciava. Il direttore dell'albergo mi chiamò di nuovo, ma per qualche strana ragione rimase incollato dov'era, tanto che alla fine fui costretto a tornare sui miei passi.
- Signor Hoffman, - dissi, avvicinandomi. - Mi spiace molto per ciò che è successo.
- Un disastro. Un disastro totale.
- Mi spiace davvero moltissimo, signor Hoffman. Ma non deve lasciarsi abbattere. Lei ha fatto tutto ciò che poteva perché la serata riuscisse bene. E poi, tenga presente che io devo ancora comparire in scena. Le assicuro che mi prodigherò per riportare la serata sui binari giusti. Anzi, mi stavo chiedendo se non sarebbe meglio rinunciare all'intermezzo con le domande e le risposte nella sua forma originale. Io suggerirei un semplice discorso, qualcosa di adatto alle circostanze. Per esempio, potrei dire qualche parola invitando tutti noi a serbare nel nostro cuore il significato della straordinaria interpretazione che il signor Brodsky ci stava offrendo prima di sentirsi male; a sforzarci di essere fedeli allo spirito di tale interpretazione, o qualcosa del genere. Naturalmente, non mi dilungherò. Poi, magari, potrei dedicare il mio concerto al signor Brodsky, o alla sua memoria, secondo le sue condizioni del momento...
- Signor Ryder, - disse Hoffman in tono grave, e mi accorsi che non mi era stato a sentire. Era pensieroso, ed evidentemente mi aveva guardato in faccia solo per potermi interrompere alla prima opportunità. - Signor Ryder, c'è una cosa di cui vorrei parlarle. Una cosa di poco conto.
- Oh, di che si tratta, signor Hoffman?
- Di poco conto per lei. Ma di una certa importanza per me e per mia moglie -. All'improvviso la sua faccia si contorse in una smorfia di rabbia. Hoffman tirò indietro il braccio di scatto; per un attimo temetti che volesse colpirmi, poi mi accorsi che stava indicandomi qualcosa in fondo al corridoio. Nella luce soffusa vidi la sagoma di una donna che ci dava la schiena; era davanti a una nicchia dalle pareti rivestite di specchi, con il busto flesso in avanti. La sua testa toccava quasi il vetro, tanto che l'immagine riflessa sembrava saldata al suo corpo. Mentre fissavo la donna, Hoffman, forse pensando che il primo gesto non fosse stato sufficientemente chiaro, tirò indietro il braccio una seconda volta. Poi disse:
- Mi riferisco, signor Ryder, agli album di mia moglie.
- Gli album di sua moglie. Ah, sì. Sì, sua moglie, davvero molto gentile... Ma non sembra anche a lei, signor Hoffman, che questo non sia il momento più...
- Signor Ryder, non avrà dimenticato che mi ha promesso di esaminarli? E che per riguardo alla sua persona, per evitare che potessi disturbarla in un momento inopportuno, ci eravamo messi d'accordo... se n'è forse dimenticato, signor Ryder?... ci eravamo messi d'accordo su un segnale. Un segnale che lei mi avrebbe fatto quando fosse stato pronto a esaminare gli album. Se ne ricorda?
- Ma certo, signor Hoffman. E avevo tutte le intenzioni di...
- L'ho osservata con ansia, signor Ryder. Ogni volta che la vedevo girare per l'albergo, attraversare l'atrio, prendere una tazza di caffè, mi dicevo: «Ah, sembra libero. Forse è il momento buono». E aspettavo un suo cenno, la osservavo con molta attenzione, ma chi l'ha visto il segnale? Puh! E adesso eccoci qui, la sua visita è agli sgoccioli, e fra poche ore sarà in volo per Helsinki, dove l'attende il suo prossimo impegno! A volte mi veniva il sospetto di non avere visto il segnale; pensavo magari di essermi distratto per un secondo e poi, dopo essermi girato di nuovo a guardarla, di avere scambiato la fine del suo segnale per un gesto qualsiasi. Naturalmente, se così fosse, se davvero mi avesse lanciato ripetuti segnali e fossi io il tonto che non li ha visti, allora mi profonderei in scuse, senza riserve, senza ritegno, senza dignità, striscerei ai suoi piedi. Ma io credo, signor Ryder, che lei non mi abbia mai fatto segnali. In altre parole, che lei abbia trattato... trattato... - Hoffman si voltò a guardare la figura in fondo al corridoio e abbassò la voce. - Che lei abbia trattato mia moglie con disprezzo. Tenga, eccoli qua!
Solo allora mi accorsi che aveva in mano due grossi volumi. Me li porse.
- Ecco, signor Ryder. Il frutto dell'ammirazione di mia moglie per la sua meravigliosa carriera. Il segno della sua devozione. Guardi queste pagine! - Hoffman si contorse per mettersi sotto il braccio uno degli album e aprire l'altro. - Guardi, signor Ryder. Ci sono persino piccoli ritagli insignificanti di riviste che nessuno ha mai sentito nominare. Frasi dette di sfuggita sul suo conto. Lo vede come le è devota mia moglie? Guardi qui, signor Ryder! E qui, e qui! E lei non trova nemmeno il tempo di dare un'occhiata a questi album? Che cosa racconterò, adesso, a mia moglie? - E di nuovo mi indicò la figura in fondo al corridoio.
- Mi spiace, - dissi. - Mi spiace moltissimo. Ma vede, mentre ero qui le cose si sono complicate. Avevo tutte le intenzioni di... - Improvvisamente capii che, nella crescente confusione della serata, io almeno dovevo mantenere la calma. Feci una pausa, poi dissi con una certa autorità: - Signor Hoffman, forse sua moglie troverà più facile accettare le mie scuse sincere se le sente direttamente dalle mie labbra. Ho avuto il grande piacere di conoscerla questa sera. Forse, se sarà così gentile da accompagnarmi subito da lei, riusciremo a risolvere la questione in fretta. Poi bisogna assolutamente che mi presenti sul palcoscenico, dica due parole sul signor Brodsky e suoni il mio pezzo. I miei genitori, in particolare, cominceranno a spazientirsi.
Hoffman parve leggermente sconcertato dalle mie parole. Poi, cercando di riattizzare la propria collera, disse: - Guardi queste pagine, signor Ryder! Le guardi! - Ma il fuoco si era spento, e il direttore dell'albergo mi fissò un po' impacciato. - Allora andiamo, - disse sommessamente, e nella sua voce c'era tutto lo scoramento dello sconfitto. - Andiamo pure.
Ma per un po' non si mosse, ed ebbi l'impressione che stesse rimuginando qualche lontano ricordo. Poi, fattosi coraggio, si avviò verso la moglie, e io lo seguii a qualche passo di distanza.
Mentre ci avvicinavamo, la signora Hoffman si girò. Per riguardo, mi fermai un po' in disparte, ma la donna non degnò di uno sguardo il marito e si rivolse a me:
- $è un piacere rivederla, signor Ryder. Purtroppo, sembra che la serata non stia andando come speravamo.
- Già, - dissi, - sembra proprio di no -. Poi, facendo un passo avanti, aggiunsi: - E come se non bastasse, signora, mi sono accorto che per un motivo o per l'altro ho trascurato parecchie cose che mi stavano molto a cuore.
Mi aspettavo che la donna cogliesse la mia allusione, invece si limitò a guardarmi con interesse, aspettando che proseguissi. Poi Hoffman si schiarì la gola e disse:
- Tesoro. Io... io sapevo che ti avrebbe fatto piacere.
Con un timido sorrisetto, il direttore dell'albergo sollevò gli album, tenendoli uno per mano.
La signora Hoffman inorridì. - Dammi quegli album, - disse aspramente. - Non avevi alcun diritto! Dammeli subito.
- Tesoro... - Hoffman ridacchiò e si guardò i piedi.
La signora Hoffman, con la faccia furibonda, continuava a tendere la mano. Il direttore dell'albergo le porse prima un volume, poi l'altro. La moglie diede a ciascuno una rapida occhiata per verificare che fossero proprio i suoi, poi parve sopraffatta dalla vergogna.
- Tesoro, - bofonchiò Hoffman, - pensavo che non ci fosse nulla di male... - Di nuovo lasciò la frase in sospeso e rise.
La signora Hoffman lo gelò con lo sguardo. Poi, rivolgendosi a me, disse: - Signor Ryder, sono davvero dispiaciuta che mio marito abbia sentito il bisogno di importunarla con simili sciocchezze. Buonasera a lei.
Si mise gli album sotto il braccio e si girò per andarsene. Non aveva fatto tre passi, però, che Hoffman esclamò all'improvviso:
- Sciocchezze? No, no! Non sono affatto sciocchezze! E non è una sciocchezza neppure l'album su Kosminsky. E neppure quello su Stefan Haller. Altro che sciocchezze! Ah, se lo fossero. Se solo riuscissi a convincermi che lo sono!
Sua moglie si fermò ma non si girò. Hoffman e io restammo a fissare da dietro la sua sagoma, immobile nella fioca luce del corridoio. Poi Hoffman si avvicinò di qualche passo.
- La serata è un macello. Perché fingere che non sia così? Perché continui a tollerarmi? Anno dopo anno, cantonata dopo cantonata. Sono sicuro che avevi già esaurito la pazienza dopo il Festival della Gioventù. Ma no, hai continuato a sopportarmi. Poi la Settimana delle Mostre. E hai continuato a sopportarmi. Mi hai dato ancora una possibilità. Sì, lo so, te l'ho chiesta io. Ti ho supplicato di darmi una prova d'appello. E tu non hai avuto il coraggio di rifiutarmela. Per farla breve, mi hai concesso questa serata. E con quale risultato? La serata è un macello. Nostro figlio, il nostro unico figlio, si è reso ridicolo davanti ai nostri concittadini più illustri. Sì, è stata colpa mia, lo so. Sono io che l'ho incoraggiato. Sapevo che avrei dovuto fermarlo, anche all'ultimo momento, ma non ne ho avuta la forza. Ho lasciato che andasse sino in fondo. Credimi, tesoro, non era questo che volevo. Sin dal principio mi sono detto, domani gliene parlo, domani, quando ci sarà più tempo, ci faremo una bella chiacchierata. Domani, domani, e continuavo a rimandare. Sì, sono stato un debole, lo ammetto. Ancora questa sera mi dicevo, qualche minuto e gliene parlo, invece no, no, non ce l'ho fatta, e lui è salito sul palcoscenico. Sì, il nostro Stephan è salito lassù di fronte al mondo intero e ha suonato il pianoforte! E ora ridono di lui! Ah, ma questo è il meno! Tutti sanno chi è il responsabile di questa serata. L'intera città sa chi si era preso l'impegno di recuperare il signor Brodsky. Sta bene, sta bene, non lo nego, ho fallito, non sono riuscito a farlo cambiare. Quell'uomo è un ubriacone, avrei dovuto accorgermi subito che non c'era niente da fare. Mentre noi siamo qui che parliamo, la serata sta andando a rotoli. Ormai neppure il signor Ryder, neppure lui, può salvarla. La sua presenza non fa che aumentare il nostro imbarazzo. Il miglior pianista del mondo, e a che scopo l'ho fatto venire qui? Perché partecipi a questa vergogna? Perché non mi è stato impedito di avvicinare le mie goffe manacce a cose così divine come la musica, l'arte, la cultura? Tu vieni da una famiglia piena di talento, avresti potuto sposare chiunque. Che errore hai fatto. Una tragedia. Ma tu sei in tempo. Sei ancora bellissima. Che cosa aspetti? Di che prova hai ancora bisogno? Lasciami. Lasciami. Trovati qualcuno degno di te. Un Kosminsky, un Haller, un Ryder, un Leonhardt. Come hai potuto compiere un simile errore? Lasciami, te ne supplico, lasciami. Non vedi come mi è odioso il pensiero di essere il tuo secondino? Peggio, di essere per te una palla al piede? Lasciami, lasciami... - Improvvisamente, Hoffman si piegò in avanti, si portò il pugno alla fronte e rifece il gesto che lo avevo visto provare quella sera nel camerino. - Amore mio, amore mio, lasciami. La mia posizione è diventata insostenibile. Questa sera la mia finzione è stata smascherata. Ormai lo sanno tutti, persino i neonati. Da oggi, ogni volta che mi vedranno correre di qui e di là tutto indaffarato, sapranno che non ho niente, né talento, né sensibilità, né finezza. Lasciami, lasciami. Sono un vbue, un bue, un bue!v
Hoffman ripeté il gesto, tenendo il gomito bizzarramente in fuori mentre si batteva la fronte. Poi cadde in ginocchio e si mise a piangere.
- $è andato tutto a rotoli, - mormorò tra i singhiozzi. - A rotoli.
La signora Hoffman si era girata e osservava il marito con attenzione. Non sembrava affatto stupita dello sfogo, e i suoi occhi avevano un'espressione tenera, quasi nostalgica. Un po' esitante, fece un passo, poi un altro, verso la sagoma accasciata di Hoffman e allungò plano piano un braccio, come per sfiorargli la testa. La sua mano indugiò per un secondo sopra di lui, senza toccarlo, poi si ritrasse. Un attimo dopo la donna si era girata ed era sparita in fondo al corridoio.
Hoffman continuò a singhiozzare, evidentemente ignaro del gesto della moglie. Rimasi un momento a guardarlo, senza sapere che cosa fare. Poi mi resi improvvisamente conto che mi aspettavano in scena, e che ero già molto in ritardo. In un impeto di commozione, mi ricordai che non avevo ancora trovato un solo segno della presenza dei miei genitori nell'edificio. I miei sentimenti per Hoffman, che fino a quel momento erano stati prossimi alla compassione, cambiarono di colpo. Avvicinandomi a lui, gli urlai nell'orecchio:
- Signor Hoffman, può anche darsi che sia riuscito a mandare a rotoli la sua serata. Ma io non mi lascerò trascinare a fondo con lei. Voglio presentarmi al pubblico e suonare. Farò del mio meglio per riportare un po' di ordine in questo caos. Ma prima, signor Hoffman, esigo che mi dica una volta per tutte che ne è dei miei genitori.
Hoffman sollevò gli occhi e parve leggermente stupito di non vedere più sua moglie. Poi, fissandomi con una punta di irritazione, si alzò in piedi.
- E lei che cosa vuole? - mi domandò in tono esausto.
- I miei genitori, signor Hoffman. Dove sono? Mi aveva assicurato che vi sareste occupati di loro. Eppure poco fa, quando ho guardato, non erano tra il pubblico. Fra un attimo mi presenterò in scena, e desidero che i miei genitori siano comodamente sistemati al loro posto. Quindi, signor Hoffman, esigo una risposta. Dove sono?
- I suoi genitori, signor Ryder? - Hoffman inspirò a fondo e si passò una mano tra i capelli con aria stanca. - Deve chiedere alla signorina Stratmann. $è lei che ha l'incarico di occuparsi di loro. Io ho curato solo l'organizzazione generale della serata. E dato che, come può vedere, ho fallito su tutta la linea, non capisco come possa sperare di ottenere da me una risposta alla sua domanda...
- Sì, sì, sì, - dissi, spazientendomi. - Allora dov'è la signorina Stratmann?
Hoffman sospirò e indicò alle mie spalle. Girandomi, vidi che dietro di me c'era una porta.
- La signorina Stratmann è lì dentro? - domandai seccamente.
Hoffman annuì, poi, barcollando verso la nicchia dove prima c'era sua moglie, si guardò allo specchio.
Bussai energicamente alla porta. Non ottenendo risposta, mi voltai verso Hoffman pronto ad accusarlo. Il direttore dell'albergo era chino sulla mensola della nicchia. Stavo per ricominciare a sfogare su di lui la mia rabbia, quando dall'interno udii una voce che mi diceva di entrare. Diedi un ultimo sguardo alla figura ingobbita di Hoffman, poi aprii la porta.
u36.
L'ufficio ampio e moderno in cui mi trovai si distaccava completamente dal resto dell'edificio. Era una specie di annesso, costruito - così mi sembrò - tutto di vetro. Nella stanza non c'era illuminazione artificiale, ma vidi che il giorno era finalmente spuntato. Le prime tenui chiazze di sole sfioravano le traballanti pile di documenti, le guide del telefono, le cartelline e gli schedari sparpagliati sui tavoli. Nell'ufficio c'erano tre scrivanie, ma in quel momento la signorina Stratmann era l'unica persona presente.
Stava lavorando, e mi parve strano che avesse spento la luce, perché il debole chiarore della stanza era appena sufficiente per leggere o scrivere. L'unica spiegazione era che l'avesse spenta momentaneamente per godersi lo spettacolo del sole che sorgeva in lontananza, dietro gli alberi. Infatti, quando entrai, la signorina Stratmann era seduta alla sua scrivania, con il telefono in mano e lo sguardo perso oltre gli enormi pannelli di vetro.
- Buon giorno, signor Ryder, - disse, girandosi verso di me. - Sarò da lei fra un secondo -. Poi riprese a parlare al telefono: - Sì, fra circa cinque minuti. Anche le salsicce. Bisogna cominciare a friggerle al più presto. E non dimenticate la frutta. Ormai dovrebbe essere pronta.
- Signorina Stratmann, - dissi, avanzando verso la scrivania, - non me ne importa niente di quando dovete friggere le vostre salsicce. Ci sono cose più urgenti.
La donna alzò gli occhi e ripeté: - Sarò da lei fra un secondo, signor Ryder -. Poi ricominciò a parlare al telefono prendendo appunti.
- Signorina Stratmann, - dissi, indurendo la voce, - devo chiederle di posare quel telefono e di starmi a sentire.
- Resta in linea, - disse la signorina Stratmann al telefono. - Mi è arrivato uno tra i piedi e devo occuparmi di lui. Mi libero in un secondo -. Poi posò il ricevitore e mi fulminò con lo sguardo. - Che cosa c'è, signor Ryder?
- Signorina Stratmann, - dissi, - la prima volta che ci siamo visti ha promesso di tenermi pienamente informato su tutti gli aspetti della mia visita. Di spiegarmi il programma e la natura dei miei numerosi impegni. Credevo di potermi fidare di lei. Mi spiace dover dire che si è dimostrata ben al di sotto delle mie aspettative.
- Signor Ryder, non so a che cosa devo questa tirata. C'è qualcosa in particolare che non la soddisfa?
- Tutto, signorina Stratmann. Non mi avete dato informazioni importanti quando ne avevo bisogno. Non mi avete avvertito che il mio programma era stato cambiato all'ultimo momento. Non mi avete aiutato né assistito nei momenti cruciali. Con la conseguenza che non ho potuto prepararmi come avrei voluto per il compito che mi era stato affidato. Ciò nonostante, fra poco mi presenterò sul palcoscenico e tenterò di salvare qualcosa di questa serata, che per tutti voi si sta rivelando una catastrofe. Prima, però, ho una semplice domanda da farle. Dove sono i miei genitori? Devono essere arrivati da un pezzo su una carrozza a cavalli. Ma poco fa, quando li ho cercati nell'auditorium, non li ho visti. Non erano nei palchi né nelle prime file, quelle riservate alle personalità. Quindi glielo chiedo di nuovo, signorina Stratmann: dove sono? Perché non vi siete presi cura di loro come avevate promesso?
La signorina Stratmann mi studiò attentamente alla luce dell'alba, poi sospirò.
- Signor Ryder, era da un po' che volevo affrontare questo discorso con lei. Qualche mese fa, quando ci ha informati che i suoi genitori avevano intenzione di visitare la nostra città, la cosa ci ha fatto molto piacere. Tutti si sono rallegrati. Ma le ricordo, signor Ryder, che è stato da lei, e da lei solo, che abbiamo saputo dei loro progetti. Ebbene, negli ultimi tre giorni, e oggi in particolare, ho fatto il possibile per scoprire dov'erano. Ho ripetutamente telefonato all'aeroporto, alla stazione ferroviaria, alle società di pullman, a tutti gli alberghi della città, e non ho trovato traccia dei suoi genitori. Nessuno li ha sentiti, nessuno li ha visti. Dunque, signor Ryder, sono £io che chiedo a £lei: è sicuro che vengano?
Mentre la signorina Stratmann parlava, ero stato assalito dai dubbi. Improvvisamente, qualcosa dentro di me cominciò a franare; per nascondere il mio disagio, mi voltai dall'altra e guardai lo spuntare del giorno.
- Be', - dissi infine, - ero sicurissimo che questa volta sarebbero venuti.
- Era sicurissimo -. La signorina Stratmann, ovviamente ferita nell'orgoglio professionale dalla mia lavata di capo, mi stava fissando con sguardo accusatore. - Si rende conto, signor Ryder, che tutti si sono fatti in quattro per l'arrivo dei suoi genitori? La predisposizione dell'assistenza medica, l'accoglienza, il cavallo e la carrozza. Un gruppo di signore ha dedicato parecchie settimane a preparare un programma per intrattenere i suoi genitori durante il loro soggiorno. E lei dice che era sicurissimo che sarebbero venuti.
- Naturalmente, - dissi accennando una risata. - Non avrei mai creato tutto questo trambusto se non ne fossi stato più che convinto. Il fatto è... - di nuovo mi venne da ridere, - il fatto è che ero sicuro che questa volta, finalmente, sarebbero venuti. Non mi dirà che la mia era una supposizione irragionevole? In fondo, ora sono al culmine delle mie capacità. Per quanto tempo sarò ancora costretto a viaggiare in questo modo? $è ovvio che mi spiace se ho causato disturbo a qualcuno inutilmente, ma vedrà che non è così. I miei devono essere qui da qualche parte. Li ho anche sentiti. Quando ho fermato la macchina nel bosco, ho sentito arrivare il cavallo e la carrozza. Li ho sentiti, devono essere qui, gliel'assicuro, non è poi così irragionevole...
Mi accasciai su una sedia e mi accorsi che stavo singhiozzando. Di colpo, ricordai che le probabilità che i miei visitassero quella città erano sempre state molto tenui. Non riuscivo a capire come mi fossi potuto sentire così sicuro da esigere una spiegazione prima da Hoffman, poi dalla signorina Stratmann, e per giunta con quel tono. Continuai a singhiozzare per un po', finché mi accorsi che la signorina Stratmann si era alzata in piedi ed era venuta accanto a me.
- Signor Ryder, signor Ryder, - ripeteva gentilmente la donna. Poi, quando riuscii a dominare le lacrime, aggiunse in tono cordiale: - Signor Ryder. Forse nessuno gliel'ha mai detto. Ma una volta, parecchi anni fa, i suoi sono venuti qui per davvero.
Smisi di singhiozzare e sollevai la testa per guardarla in faccia. La signorina Stratmann mi sorrise, poi si avvicinò lentamente alla vetrata e di nuovo contemplò l'alba.
- Probabilmente si erano presi una vacanza, - disse, con gli occhi ancora lontani. - Arrivarono in treno e si fermarono due o tre giorni a visitare la città. Come le dico, è passato molto tempo. Lei non era ancora celebre come adesso, ma non era certo uno sconosciuto, e qualcuno, forse il personale dell'albergo, chiese loro se fossero suoi parenti. Sa, stesso cognome, stessa nazionalità. E così scoprimmo che quei due simpatici vecchietti inglesi erano i suoi genitori. La notizia suscitò meno scalpore di quanto ne susciterebbe oggi, ma i suoi furono trattati con ogni riguardo. Poi, con il passare degli anni, la sua fama è cresciuta, e la gente si è ricordata di quell'episodio, della volta che i suoi genitori erano venuti qui. Personalmente, mi è rimasto impresso molto poco della loro visita, perché ero piccola. Ma ricordo che la gente ne parlava.
Osservai attentamente la sua schiena. - Signorina Stratmann, non lo sta dicendo solo per consolarmi, vero?
- No, no, è tutto vero. Chieda conferma a chi vuole. Come le dico, io ero solo una bambina, ma molti, qui in città, sarebbero in grado di raccontarle tutto per filo e per segno. E poi, esiste una documentazione completa.
- Ma sembravano felici? Ridevano insieme? Avevano l'aria di godersi la vacanza?
- Sono sicura di sì, signor Ryder. Stando ai racconti, si sono divertiti moltissimo. Tutti li ricordano come una coppia piacevole. Sempre gentili e premurosi l'uno con l'altra.
- Ma... ma quello che voglio sapere, signorina Stratmann, è se vi siete presi cura di loro. $è questo che mi interessa...
- Ma certo che ci siamo presi cura di loro. E le assicuro che si sono divertiti. Sono stati felici per tutta la durata del soggiorno.
- Come fa a ricordarselo? Mi ha detto lei stessa che allora era una bambina.
- Le riferisco quello che dicono tutti.
- Se la cosa è vera, come mai nessuno me ne ha parlato prima?
La signorina Stratmann esitò un istante e si girò di nuovo verso gli alberi e il sole nascente. - Non lo so, - disse sottovoce, scuotendo la testa. - Non so perché. Ma ha ragione. La gente ne parla poco, meno di quanto sarebbe logico aspettarsi. Ma è così, gliel'assicuro. Ricordo tutto distintamente da quand'ero bambina.
Dall'esterno giunsero i primi cori di uccelli. La signorina Stratmann continuò a fissare gli alberi in lontananza, forse ripensando ad altri ricordi d'infanzia. La osservai per un po', poi dissi:
- E mi assicura che li avete trattati bene?
- Oh, sì, - disse la signorina Stratmann quasi in un bisbiglio, con lo sguardo ancora distante. - Li abbiamo trattati benissimo. Doveva essere primavera, e qui la primavera è incantevole. La città vecchia, l'ha visto anche lei, è affascinante. Probabilmente la gente, la gente comune che incontravano per strada, indicava loro le cose da vedere. Gli edifici più interessanti, il museo dei mestieri, i ponti. E quando i suoi genitori si fermavano da qualche parte per un caffè o uno spuntino e non sapevano che cosa ordinare, magari a causa di un problema di lingua, il cameriere o la cameriera si facevano in quattro per aiutarli. Oh sì, sono stati benone, qui da noi.
- Ha detto che sono arrivati in treno. Qualcuno li avrà aiutati a portare le valigie?
- Oh, i facchini della stazione saranno corsi ad aiutarli. Avranno portato tutti i bagagli fino al tassì. Poi se ne sarà occupato il tassista. Avrà accompagnato i suoi genitori in albergo, e tutto sarà finito lì. Sono sicura che non hanno dovuto nemmeno preoccuparsi delle loro valigie.
- In albergo? Quale albergo?
- Un albergo molto confortevole, signor Ryder. Uno dei migliori di allora. Sicuramente i suoi genitori si sono trovati benissimo, sin dal primo momento.
- Spero che non fosse troppo vicino alle strade principali. Mia madre ha sempre odiato il rumore del traffico.
- Be', allora il traffico non era ancora un problema. Ricordo che da bambine, in certe zone residenziali, potevamo saltare la corda e giocare alla palla in mezzo alla strada. Oggi una cosa del genere non sarebbe nemmeno pensabile! Sì, giocavamo spesso così, anche per ore e ore. Ma per tornare alla sua domanda, signor Ryder, - e qui la signorina Stratmann si girò verso di me con un sorriso malinconico, - l'albergo dei suoi genitori era molto lontano dal traffico. Un posto idilliaco. Oggi non esiste più, ma se vuole le mostro una fotografia. Le farebbe piacere vedere l'albergo dove sono stati i suoi genitori?
- Moltissimo, signorina Stratmann.
La donna sorrise di nuovo e attraversò la stanza dirigendosi verso la scrivania. Pensai che stesse per aprire un cassetto, ma all'ultimo momento cambiò rotta e si avvicinò alla parete di fondo. Alzando il braccio, afferrò una corda e cominciò a srotolare qualcosa che sulle prime presi per una carta nautica. Poi vidi che si trattava invece di una gigantesca fotografia a colori. La signorina Stratmann la tirò giù, finché l'avvolgitore fece uno scatto e si bloccò. Poi tornò alla scrivania, accese la lampada da tavolo e la puntò sulla fotografia, che arrivava quasi al pavimento.
Per qualche istante tutti e due studiammo l'immagine in silenzio. L'albergo assomigliava in piccolo a quei castelli da fiaba che i re matti facevano costruire nel secolo scorso. Sorgeva sul ciglio di una valle scoscesa, coperta di felci e di fiori primaverili. La fotografia era stata scattata in un giorno di sole dal versante opposto della valle, e apparteneva a quel genere di tranquille composizioni che si addicono alle cartoline e ai calendari.
- Credo che i suoi genitori stessero in questa stanza, - sentii che diceva la signorina Stratmann. Aveva tirato fuori una bacchetta e mi stava indicando una finestra su una delle torrette dell'albergo. - Dovevano avere una vista magnifica, non le sembra?
- Sì, ha ragione.
La signorina Stratmann abbassò la bacchetta, ma io continuai a fissare la finestra, cercando di immaginarne la vista. Mia madre, soprattutto, doveva averla apprezzata. Ne avrebbe tratto grande consolazione anche se le fosse capitata una di quelle giornate storte che la costringevano a letto. Avrebbe osservato la brezza soffiare sulla valle, disturbando le felci e il fogliame degli alberi contorti che si arrampicavano sulle pendici opposte. Le sarebbe piaciuta anche l'ampia distesa di cielo visibile dalla stanza. Poi, proprio in primo piano - nell'angolino di destra - notai un tratto della strada collinare da cui presumibilmente era stata scattata la fotografia. Fui quasi sicuro che mia madre, dalla sua camera, vedesse anche la strada. Era quindi probabile che avesse avuto modo di osservare da lontano qualche scena di vita locale. Il saltuario passaggio di una macchina o del furgone del droghiere, forse persino un carro tirato da un cavallo; di tanto in tanto un trattore, o qualche bambino in gita. Sicuramente queste visioni l'avevano molto rallegrata.
Alla fine, mentre continuavo a guardare la finestra, ricominciai a piangere, anche se non più come prima, in maniera incontrollata. Le lacrime mi salivano agli occhi e mi rigavano il volto con regolarità. La signorina Stratmann se ne accorse, ma questa volta non reputò necessario consolarmi. Mi sorrise gentilmente e si girò di nuovo verso la fotografia.
Un improvviso colpo alla porta mi fece sobbalzare. Anche la signorina Stratmann sussultò. Poi disse: - Mi scusi, signor Ryder, - e andò ad aprire.
Girandomi sulla sedia, vidi entrare un individuo in uniforme bianca che si tirava dietro un carrello per le vivande. L'uomo lasciò il carrello a cavallo della soglia, in modo da puntellare la porta e tenerla aperta, poi guardò fuori della vetrata.
- Sarà una bella giornata, - disse, rivolgendoci a turno un sorriso. - Le ho portato la colazione, signorina. Vuole che gliela metta su quella scrivania?
- La colazione? - La signorina Stratmann pareva disorientata. - Dovrebbe essere servita non prima di un'altra mezz'ora.
- Il signor von Winterstein ha ordinato di cominciare subito, signorina. E secondo me ha ragione. A quest'ora la gente ha bisogno di fare colazione.
- Ah -. La signorina Stratmann non sembrava ancora convinta e mi guardò come in cerca di consiglio. Poi domandò al cameriere: - Sta andando tutto bene là fuori?
- Oh, adesso sì, signorina. Naturalmente, dopo che il signor Brodsky è svenuto, c'è stato un po' di panico, ma adesso la gente è contenta e beata. Vede, poco fa il signor von Winterstein ha tenuto un bel discorso nel foyer, parlando del magnifico retaggio di questa città, di tutte le cose di cui dobbiamo essere orgogliosi. Ha citato i risultati conseguiti nel corso degli anni; ha sottolineato gli spaventosi problemi che assillano le altre città e di cui noi non abbiamo mai dovuto preoccuparci. Era quel che ci voleva, signorina. Mi è dispiaciuto che lei non ci fosse. Quel discorso ci ha fatto sentire fieri di noi stessi e della nostra città, e adesso tutti sono beati. Guardi, c'è già qualcuno -. L'uomo indicò la vetrata, ed effettivamente, nella debole luce esterna, intravidi parecchie figure che passeggiavano sull'erba guardandosi intorno in cerca di un posto per sedersi, ben attente a non rovesciare il piatto che avevano in mano.
- Scusatemi, - dissi, alzandomi in piedi. - Devo andare a suonare, altrimenti farò tardi. Signorina Stratmann, le sono molto riconoscente. Per le sue attenzioni e per tutto il resto. Ma adesso la prego di scusarmi.
Senza aspettare una risposta, sgusciai tra il carrello della colazione e lo stipite della porta e uscii in corridoio.
37.
La pallida luce del mattino stava diffondendosi nella penombra del corridoio. Diedi un'occhiata alla nicchia dove avevo lasciato Hoffman, ma il direttore non c'era più. Mi affrettai in direzione dell'auditorium e ripassai accanto ai quadri con la cornice dorata. A un certo punto incontrai un altro cameriere munito di carrello della colazione che si era chinato per bussare a una porta, ma per il resto il corridoio era deserto.
Continuai a camminare a passo svelto, cercando l'uscita di sicurezza che mi aveva portato in quel corridoio. Sentivo un incontenibile bisogno di mettermi subito a suonare. Mi rendevo conto che le delusioni di poc'anzi non diminuivano affatto le mie responsabilità nei confronti di tutti coloro che aspettavano da settimane il momento in cui mi sarei finalmente seduto al pianoforte. In altre parole, era mio dovere suonare in maniera degna di me. Altrimenti - ne ebbi improvvisamente la certezza - si sarebbe aperta una strana porta oltre la quale sarei precipitato in uno spazio buio e sconosciuto.
Dopo un po' non riconobbi più il corridoio. La tappezzeria era diventata blu scuro, al posto dei quadri c'erano fotografie firmate. Capii di avere oltrepassato la mia porta, ma, vedendo che poco più avanti ce n'era un'altra assai più imponente con la scritta «Palcoscenico», decisi di entrare di lì.
Per qualche istante brancolai nel buio, poi mi trovai di nuovo tra le quinte. Vidi il pianoforte in mezzo al palcoscenico vuoto, fiocamente illuminato dall'alto da un paio di luci. Vidi anche che il sipario era ancora chiuso e mi feci avanti silenziosamente.
Diedi un'occhiata al punto in cui era caduto Brodsky, ma non erano rimasti segni. Poi mi girai a guardare il pianoforte, incerto sul da farsi. Forse, se mi fossi seduto sullo sgabello e avessi semplicemente cominciato a suonare, i tecnici avrebbero avuto il buon senso di aprire il sipario e di accendere i riflettori. Ma c'era il rischio - nessuno poteva sapere che cosa fosse successo - che i tecnici avessero abbandonato il loro posto, nel qual caso il sipario non si sarebbe nemmeno aperto. Inoltre, l'ultima volta che avevo visto la sala, gli spettatori erano in piedi e chiacchieravano imperterriti. La soluzione migliore, conclusi, era quella di sgusciare tra le tende del sipario per annunciarmi, in modo da dare a tutti - tanto al pubblico quanto ai tecnici - la possibilità di prepararsi. Mi studiai rapidamente un discorsetto, poi, senza altro indugio, mi avvicinai al sipario e scostai i pesanti tendoni.
Mi aspettavo di trovare un certo disordine in sala, ma ciò che vidi mi colse completamente alla sprovvista. Non solo non c'era più traccia del pubblico, ma erano sparite persino le poltrone. Sulle prime pensai che ci fosse un qualche marchingegno, una semplice leva da tirare, per far rientrare tutti i sedili nel pavimento - in modo che l'auditorium potesse trasformarsi in salone da ballo o che so io - poi ricordai l'età dell'edificio e la cosa mi parve assai improbabile. L'unica spiegazione era che le poltrone, del tipo impilabile, fossero state sgombrate per prevenire gli incendi. Fatto sta che davanti a me, adesso, c'era un immenso spazio buio e vuoto. Le luci erano spente, ma qui e là nel soffitto c'erano delle grandi aperture rettangolari, dalle quali la luce del giorno scendeva in pallide colonne sul pavimento.
Scrutando nella penombra, mi parve di scorgere un gruppetto di persone proprio in fondo alla sala. Sembravano impegnate in una discussione - forse erano i macchinisti teatrali che stavano finendo di mettere in ordine - poi udii l'eco dei passi di una di loro che si allontanava.
Rimasi li sul proscenio a chiedermi che cosa dovessi fare. Evidentemente, mi ero trattenuto nell'ufficio della signorina Stratmann più a lungo di quanto avessi pensato - forse addirittura un'ora - e il pubblico aveva abbandonato ogni speranza di vedermi comparire. Tuttavia, se si fosse fatto un annuncio, gli invitati sarebbero tornati in sala nel giro di pochi minuti. E anche se non c'erano più le poltrone, non vedevo per quale motivo non avrei potuto tenere un concerto più che soddisfacente. Non era chiaro, però, dove fosse finita tutta la gente, e mi resi conto che per prima cosa dovevo trovare Hoffman, o il nuovo responsabile, per discutere con lui la prossima mossa.
Scesi dal palcoscenico e mi incamminai attraverso la sala, ma non ero nemmeno a metà strada che già cominciai a sentirmi disorientato dall'oscurità. Deviai leggermente, puntando verso la colonna di luce più vicina, e in quel momento una sagoma mi passò davanti sfiorandomi.
- Oh, mi scusi, - disse la persona.
Riconobbi la voce di Stephan e dissi: - Ciao. Almeno tu ci sei ancora.
- Oh, signor Ryder. Mi spiace, non l'avevo vista -. Sembrava stanco e demoralizzato.
- Dovresti essere più allegro, - gli dissi. - Hai suonato benissimo. Il pubblico era profondamente commosso.
- Sì. Sì, credo di avere ricevuto una buona accoglienza.
- Be', congratulazioni. Dopo tante fatiche, deve essere una bella soddisfazione.
- Sì, immagino di sì.
Ci incamminammo nell'oscurità, l'uno di fianco all'altro. I fasci di luce che scendevano dal soffitto rendevano, se possibile, ancora più difficile vedere dove stavamo andando, ma Stephan dava l'impressione di conoscere la strada.
- Sa, signor Ryder, - disse il giovane dopo un momento. - Le sono davvero riconoscente. Ha saputo incoraggiarmi in maniera meravigliosa. Ma la verità è che questa notte ho tradito le attese. Le mie, se non altro. Certo, il pubblico mi ha dato una mano, ma solo perché non si aspettava nulla di speciale. In realtà, so che la strada è ancora lunga. I miei genitori hanno ragione.
- I tuoi genitori? Santo cielo, smettila di preoccuparti di loro.
- No, no, signor Ryder, lei non capisce. I miei genitori sono estremamente esigenti. Le persone che erano qui questa notte, be', sono state molto gentili, ma in realtà non sanno gran che di queste cose. Hanno visto un ragazzo del posto che suonava abbastanza bene e si sono entusiasmate. Ma io voglio essere valutato in termini assoluti. E so che anche i miei genitori la pensano così. Ho preso una decisione, signor Ryder. Me ne vado. Ho bisogno di un ambiente meno soffocante, ho bisogno di studiare sotto qualcuno come Lubetkin o Peruzzi. Ho capito che qui, in questa città, non riuscirò mai ad arrivare dove voglio. Pensi solo a come mi hanno applaudito dopo un'esecuzione di Passioni di vetro che, in fondo, era piuttosto ordinaria. Questo le dice tutto. Prima non me ne rendevo conto, ma credo di potermi definire un pesce grosso in uno stagno troppo piccolo. Ho bisogno di andare via per un po'. Per vedere di che cosa sono veramente capace.
Stavamo ancora camminando, e i nostri passi riecheggiavano nell'auditorium. Dopo un momento dissi:
- Potrebbe essere una decisione saggia. Anzi, hai sicuramente ragione. Il fatto di trasferirti in una città più grande, di porti traguardi più difficili, non potrà che giovarti. Ma devi scegliere bene i tuoi maestri. Se vuoi, provo a pensarci e vedo se posso organizzarti qualcosa.
- Signor Ryder, le sarei grato per l'eternità. Sì, ho bisogno di sapere fin dove posso arrivare. Poi un giorno tornerò qui e farò vedere a tutti qual è il £vero modo di suonare Passioni di vetro -. Stephan proruppe in una risata, ma si capiva che era ancora tutt'altro che allegro.
- Sei un ragazzo dotato. Hai la vita davanti a te. Non dovresti abbatterti a questo modo.
- Ha ragione. Ma forse sono un po' spaventato. Prima di questa notte non mi ero reso conto di quanto fosse ancora alta la montagna che devo scalare. Lei lo troverà molto divertente, ma si figuri che con il concerto di questa notte mi illudevo di essere arrivato. Ecco che cosa succede a vivere in un posto come questo. Si comincia a pensare in piccolo. Sì, pensavo che il concerto di questa sera fosse lo scopo della mia vita! Lo vede com'erano ridicole le mie convinzioni fino a oggi? I miei genitori hanno perfettamente ragione. Ho ancora moltissimo da imparare.
- I tuoi genitori? Senti, se vuoi un consiglio, dimenticati di loro per un po'. Non capisco proprio come possano...
- Oh, eccoci. Mi segua -. Eravamo arrivati davanti a un vano nel muro, e Stephan stava scostando la tenda che lo chiudeva.
- Scusa, ma dove si va di qui?
- Al conservatorio. Oh, non gliene hanno mai parlato? $è molto famoso. $è stato costruito un centinaio di anni dopo il palazzo dei concerti, ma ormai è quasi altrettanto celebre. Sono tutti lì a fare colazione.
Ci trovammo in un corridoio con una lunga fila di finestre su uno dei lati. Attraverso la più vicina vidi il cielo azzurro pallido del mattino.
- Tra l'altro, - dissi, mentre riprendevamo a camminare, - mi chiedevo che fine ha fatto il signor Brodsky. $è... è passato a miglior vita?
- Il signor Brodsky? Oh, no, sono sicuro che se la caverà. L'hanno portato da qualche parte. Mi sembra alla Clinica St' Nicholas.
- La Clinica St' Nicholas?
- $è un ospedale dove ricoverano la gente spiantata. Poco fa, nel conservatorio, la gente ne parlava e diceva, be', è il posto che fa per lui, lì almeno sanno come affrontare il suo problema. Se vuole saperlo, sono proprio indignato. Anzi, in confidenza, le dirò che questo è uno dei motivi per cui ho deciso di andarmene di qui. Secondo me, il concerto del signor Brodsky è la cosa migliore che si sia sentita in questo palazzo da molti molti anni a questa parte. Sicuramente da quando sono in grado di apprezzare la musica. E invece ha visto anche lei che cosa è successo. Non hanno voluto saperne, si sono spaventati. Il signor Brodsky li ha messi davanti a una musica molto più impegnativa di quella che si aspettavano. E quando è crollato a terra svenuto tutti hanno tirato un respiro di sollievo. E adesso si rendono conto di volere qualcos'altro. Qualcosa di un po' meno estremo.
- Magari qualcosa di non molto diverso dal signor Christoff.
Stephan rifletté sulla mia osservazione. - Non molto, ma un po' sì. Un nuovo nome, almeno. Ormai hanno capito che il signor Christoff non è una cima. Vogliono qualcosa di £un po' meglio. Ma non... non £questo.
Attraverso i vetri delle finestre vedevo un grande prato e il sole che spuntava in lontananza dietro una fila di alberi.
- Che cosa pensi che ne sarà del signor Brodsky? - domandai.
- Il signor Brodsky? Oh, tornerà a essere quello di sempre. Finirà i suoi giorni come l'ubriacone della città, immagino. Sicuramente non gli daranno molta scelta, non dopo questa sera. Come le dico, l'hanno portato alla Clinica St' Nicholas. Io sono cresciuto qui, signor Ryder, e amo ancora la mia città. Ma in questo momento non vedo l'ora di andarmene.
- Forse dovrei provare a dire qualcosa. Parlare al pubblico nel conservatorio. Dire due parole sul signor Brodsky. Aprire gli occhi alla gente.
Stephan rifletté per qualche passo, poi scosse la testa.
- Non ne vale la pena, signor Ryder.
- Ma questa storia mi disgusta non meno di quanto disgusti te. E poi, non si sa mai. Forse se glielo dicessi io...
- Non credo proprio, signor Ryder. Ormai non ascolteranno nemmeno lei. Non dopo ciò che ha fatto il signor Brodsky. Il suo concerto ha riportato a galla tutte le loro paure. E poi, nel conservatorio non c'è un microfono; non c'è niente, nemmeno un palco su cui salire per parlare. Non riuscirebbe mai a farsi sentire in quel bailamme. Vede, la sala è piuttosto grande, grande quasi come l'auditorium. Da un angolo all'altro saranno... be', anche se si attenesse rigidamente alla diagonale, abbattendo i tavoli e gli invitati che le intralciano la strada, sarebbero ancora almeno cinquanta metri. Vedrà con i suoi occhi quant'è grande. Se fossi in lei, signor Ryder, mi rilasserei e mi godrei la colazione. In fondo, deve cominciare a pensare a Helsinki.
Il conservatorio, effettivamente, era un salone gigantesco, inondato in quel momento dal sole del mattino. Dappertutto c'era gente che chiacchierava allegramente, in parte seduta ai tavoli, in parte in piedi, divisa in gruppetti. C'era chi beveva caffè o succo di frutta, chi invece mangiava da piatti o scodelle. Mentre avanzavamo attraverso la folla, il mio naso colse di volta in volta profumo di pane fresco, di crocchette di pesce, di pancetta affumicata. I camerieri sfrecciavano da una parte all'altra portando piatti e caraffe di caffè. Intorno a me era tutto un incrociarsi di saluti festosi, e notai che l'atmosfera della sala ricordava molto quella di una rimpatriata. Eppure quelle persone si vedevano tutti i santi giorni. Evidentemente gli avvenimenti della notte avevano provocato un profondo rivolgimento nel loro modo di giudicare se stessi e la loro comunità, e adesso, per qualche ragione, tutti sentivano il bisogno di festeggiarsi a vicenda.
Capii che Stephan aveva ragione. Era inutile tentare di parlare a quella folla, e ancora più inutile sperare di convincerla a tornare nell'auditorium per sentirmi suonare il pianoforte. Improvvisamente stanco e affamato, decisi di sedermi e di fare colazione anch'io. Quando mi guardai intorno, però, non vidi sedie libere. Stephan, tra l'altro, non era più al mio fianco; era stato fermato da un gruppo di persone di un tavolo che avevamo appena passato. Vidi che veniva accolto con calore, e pensai che probabilmente mi avrebbe presentato. Ma il giovane si mise a chiacchierare dimentico di tutto, e presto anche lui fu contagiato dall'allegria generale.
Decisi di lasciarlo dov'era e proseguii attraverso la folla. Pensavo che prima o poi un cameriere mi avrebbe visto e sarebbe accorso con un piatto e una tazza di caffè, o magari per accompagnarmi a un tavolo. Ma i pochi camerieri che mi venivano incontro mi scartavano all'ultimo momento, e ogni volta mi toccava guardarli mentre servivano qualcun altro.
Dopo un po' mi accorsi di essere vicino all'ingresso principale del conservatorio. Le porte erano state spalancate, e molti ospiti si erano riversati sul prato. Feci qualche passo all'aperto e fui stupito dalla temperatura gelida dell'aria. Anche qui la gente chiacchierava a gruppetti, bevendo e mangiando in piedi. C'era chi stava girato con la faccia al sole, chi invece passeggiava per sgranchirsi le gambe. Un gruppetto si era persino seduto sull'erba bagnata, sparpagliando tutto intorno piatti e caffettiere come per un picnic.
Non lontano da me scorsi un cameriere chino su un carrello portavivande. Sempre più affamato, mi diressi verso di lui. Stavo per toccarlo sulla spalla, quando l'uomo si girò e scappò via con le braccia cariche di piatti, lasciandomi con una fuggevole visione di uova strapazzate, salsicce, funghi e pomodori. Lo seguii con gli occhi mentre si allontanava di corsa, poi decisi che non mi sarei mosso dal carrello fino a quando non fosse tornato.
Mentre aspettavo e mi guardavo intorno, mi resi conto che mi ero preoccupato inutilmente di non essere capace di soddisfare le esigenze di questa città. Come sempre, la mia esperienza e il mio intuito erano stati più che sufficienti a trarmi dagli impicci. Certo, ero un po' deluso per l'andamento della serata; ma, ripensandoci, capii che il mio era un sentimento ingiusto. In fondo, se una comunità riusciva a trovare una forma di equilibrio senza bisogno di farsi guidare da un estraneo, tanto di guadagnato.
Visto che dopo parecchi minuti - durante i quali fui tormentato dai profumini che si levavano dai vari scaldavivande del carrello - il cameriere non era ancora tornato, pensai che potevo benissimo servirmi da solo. Avevo già preso un piatto, e stavo per chinarmi a cercare le posate sul piano inferiore, quando mi accorsi che alle mie spalle si era radunato un gruppetto di persone. Girandomi, mi trovai davanti i facchini.
Così, di primo acchito, mi parve che ci fossero tutti quelli - all'incirca una dozzina - che avevo visto al capezzale di Gustav. Quando mi voltai, parecchi abbassarono gli occhi, altri invece continuarono a fissarmi intensamente.
- Santo cielo, - dissi, cercando di non dare a vedere che avevo intenzione di riempirmi il piatto. - Santo cielo, che cosa è successo? Stavo proprio per venire a chiedervi notizie di Gustav. Pensavo che ormai fosse in ospedale, cioè in buone mani. Vi assicuro che sarei venuto non appena... - Mi fermai, vedendo l'espressione addolorata del loro volto.
Il facchino barbuto fece un passo avanti e tossicchiò impacciato. - Gustav è spirato mezz'ora fa, signor Ryder. Negli ultimi anni aveva avuto qualche problema di salute, ma era molto robusto, quindi non ce l'aspettavamo. No, non ce l'aspettavamo proprio.
- Mi spiace moltissimo -. Scoprii che la notizia mi rattristava per davvero. - Sì, mi spiace moltissimo. E grazie, grazie a tutti voi, di essere venuti subito a dirmelo. Come sapete, conoscevo Gustav solo da pochi giorni, ma era stato gentilissimo con me. Mi aveva portato le valigie e via dicendo.
Vedevo che i facchini fissavano il loro collega barbuto come per incitarlo a dire qualcosa. L'uomo respirò a fondo.
- Naturalmente, signor Ryder, - disse, - siamo corsi a cercarla perché sapevamo che le avrebbe fatto piacere essere informato subito. Ma anche... - Il facchino abbassò improvvisamente lo sguardo. - Ma anche perché... ecco, vede, signor Ryder, prima di spirare, Gustav continuava a chiederci. Voleva sapere se lei aveva già fatto il suo discorso. Sa, il discorsetto in nostro favore, signor Ryder. Fino all'ultimo istante ha insistito per avere notizie.
Adesso tutti i facchini avevano abbassato gli occhi e aspettavano in silenzio la mia risposta.
- Ah, - dissi. - Allora non sapete ancora che cosa è successo nell'auditorium.
- Siamo stati con Gustav fino a un attimo fa, - disse il facchino barbuto. - L'hanno appena portato via. Deve perdonarci, signor Ryder. $è stato molto maleducato da parte nostra non presenziare al suo discorso, soprattutto se ha avuto la bontà di ricordarsi della piccola promessa che ci aveva fatto...
- Sentite, - lo interruppi gentilmente, - le cose sono andate in maniera molto diversa dal previsto. Mi stupisce che non l'abbiate saputo, anche se effettivamente, viste le circostanze... - Feci una pausa, poi, inspirando a fondo, aggiunsi con voce più ferma: - Mi spiace, ma purtroppo ci sono state parecchie cose, e non solo il discorsetto che mi ero preparato per voi, che non sono andate secondo i piani.
- Quindi, signor Ryder, ci sta dicendo... - Il facchino barbuto non finì la frase e chinò il capo deluso. A uno a uno, anche i suoi colleghi, che mi stavano fissando, abbassarono gli occhi. Poi un facchino in fondo al gruppo gridò in tono quasi rabbioso:
- Gustav continuava a chiedercelo. Ce l'ha chiesto fino all'ultimo istante. «Ancora nessuna notizia del signor Ryder?» Così ci chiedeva.
I suoi colleghi si affrettarono a calmarlo, poi vi fu un lungo momento di silenzio. Alla fine il facchino barbuto, senza alzare lo sguardo dall'erba, disse:
- Non importa. Continueremo la nostra battaglia, come prima. Anzi, cercheremo di superarci. Non tradiremo Gustav. Ci è sempre stato di esempio, e anche se adesso non c'è più le cose non cambieranno. Sappiamo che la nostra strada è in salita, lo è sempre stata, e da oggi non sarà certo più facile. Ma non rinunceremo ai nostri principî, mai. Ci ricorderemo di Gustav e stringeremo i denti. Certo, il suo discorsetto, signor Ryder, avrebbe potuto... insomma, ci avrebbe aiutati, su questo non ci sono dubbi. Ma se lei non ha ritenuto opportuno...
- Sentite, - dissi, cominciando a perdere la pazienza, - presto scoprirete anche voi come sono andate le cose. Davvero, mi stupisce che non vi siate presi la briga di informarvi dei problemi ben più gravi della vostra comunità. E poi, si direbbe che non vi rendiate minimamente conto del tipo di vita che faccio. Delle enormi responsabilità che ricadono su di me. In questo momento, invece di stare qui a parlare con voi, dovrei pensare ai miei prossimi impegni di Helsinki. Se non tutto è andato come speravate, mi spiace. Ma non avete alcun diritto di venire a seccarmi con queste storie...
Le parole mi si spensero sulle labbra. In lontananza, alla mia destra, c'era un viottolo che dal palazzo dei concerti portava nel bosco circostante. Da un po' vedevo un rivolo di gente emergere dall'edificio e sparire dietro gli alberi, e avevo immaginato che gli invitati stessero tornando a casa per riposare un paio d'ore prima di cominciare la giornata. Ma ora, in mezzo alla folla, avevo scorto Sophie e Boris. Camminavano a passo svelto lungo il viottolo. Il bambino teneva di nuovo un braccio intorno alla madre, come per sorreggerla; per il resto, chi li avesse guardati di sfuggita non avrebbe mai sospettato la loro angoscia. Cercai di vedere l'espressione del loro volto, ma erano troppo lontani; e un attimo dopo anche loro svanirono dietro gli alberi.
- Mi spiace, - dissi un po' più gentilmente, girandomi verso i facchini, - ma adesso devo andare.
- Non rinunceremo ai nostri principî, - ripeté sottovoce il facchino barbuto. Guardava ancora per terra. - Un giorno vinceremo la nostra battaglia. Vedrà.
- Scusatemi.
Mentre stavo per andarmene, il cameriere tornò di corsa e spinse via i vecchi facchini per avvicinarsi al suo carrello. Ricordandomi del piatto che tenevo ancora nascosto dietro la schiena, glielo sbattei in mano.
- Questa mattina il servizio fa schifo, - dissi gelidamente, poi scappai via.
38.
Il viottolo tagliava il bosco in linea retta, per cui potevo spaziare con lo sguardo fino all'alto cancello di ferro che sorgeva all'altra estremità. Sophie e Boris avevano già fatto un notevole tratto di strada, e dopo qualche minuto, sebbene camminassi più in fretta che potevo, mi accorsi che la distanza che ci separava era rimasta quasi immutata. Tra l'altro, ero continuamente intralciato da un gruppo di ragazzi che camminavano davanti a me; ogni volta che cercavo di superarli, acceleravano il passo, oppure si allargavano bloccando il viottolo. Alla fine, quando vidi che Sophie e Boris stavano per raggiungere il cancello, mi misi a correre e li spinsi da parte, senza più preoccuparmi delle apparenze.
Superato il gruppo di ragazzi, continuai a passo veloce, ma quando Sophie e Boris varcarono il cancello io non ero ancora nemmeno a tiro di voce. Arrivai al cancello senza fiato e fui costretto a fermarmi.
Il viottolo sbucava su un viale vicino al cuore della città. Il sole del mattino illuminava il marciapiede opposto. I negozi erano ancora chiusi, ma in giro c'era già parecchia gente, probabilmente diretta al lavoro. Poi, alla mia sinistra, vidi una fila di persone che salivano su un tram. In fondo alla coda c'erano Sophie e Boris. Mi avviai da quella parte, ma il tram doveva essere più lontano di quanto pensassi, perché, pur camminando a passo svelto, lo raggiunsi solo quando tutti erano già a bordo e la vettura stava per ripartire. Gesticolando freneticamente, riuscii a fermare il conducente e a salire anch'io.
Mentre il tram si rimetteva in moto con uno scossone, avanzai barcollando lungo il corridoio. Ero così a corto di fiato che quasi non mi accorsi che la vettura era semivuota, e solo quando mi lasciai cadere su un sedile verso il fondo mi resi conto che dovevo avere oltrepassato Sophie e Boris. Ancora ansimante, mi sporsi di lato ed esaminai il corridoio.
La vettura era divisa in due parti, nettamente separate dall'uscita centrale. In quella anteriore, i sedili erano disposti in due lunghe file contrapposte. Scorsi Sophie e Boris seduti l'uno accanto all'altra sul lato al sole, non lontano dalla cabina del conducente. La mia visuale era ostacolata da alcuni passeggeri che erano rimasti in piedi accanto all'uscita e si tenevano alle cinghie. Mentre provavo a sporgermi di più, l'uomo seduto davanti a me - nella nostra metà della carrozza i sedili erano messi di traverso e si fronteggiavano a due a due - si batté la mano sulla coscia e disse:
- A quanto pare avremo un'altra giornata di sole.
I suoi vestiti, anche se modesti, erano in ordine. Portava un giubbotto con la cerniera lampo, e immaginai che fosse un operaio specializzato, magari un elettricista. Abbozzai un sorriso, e lui cominciò a raccontarmi qualcosa a proposito di una casa in cui lui e i suoi colleghi lavoravano ormai da parecchi giorni. Lo ascoltai distrattamente, ricordandomi di tanto in tanto di sorridergli o di fare qualche verso d'assenso. Nel frattempo i passeggeri si alzavano in piedi e si accalcavano davanti all'uscita sempre più numerosi, nascondendomi Sophie e Boris.
Poi il tram si fermò, la gente scese, e la mia visuale migliorò. Boris, composto come sempre, teneva una mano sulla spalla di Sophie e guardava gli altri passeggeri sospettosamente, come se rappresentassero una minaccia per sua madre. Il volto di Sophie era ancora nascosto, ma a intervalli di pochi secondi la vedevo fare un gesto irritato con la mano, come per scacciare un insetto che le svolazzava intorno.
Stavo per cambiare di nuovo posizione per vedere meglio, quando mi accorsi che l'elettricista, non so come, si era messo a parlare dei suoi genitori. Mi stava dicendo che ormai avevano superato tutti e due gli ottanta, e che lui cercava di andarli a trovare ogni giorno, anche se gli impegni di lavoro rendevano la cosa sempre più difficile. Di colpo mi balenò un pensiero e lo interruppi:
- Mi scusi, a proposito di genitori, mi hanno detto che qualche anno fa i miei sono venuti qui, in questa città. Sa, come turisti. Deve essere passato molto tempo, ormai. La persona che me l'ha raccontato era ancora una bambina, e purtroppo non se li ricorda molto bene. Quindi, visto che si parlava di genitori e che lei, be', non per essere maleducato, ma deve avere passato da un pezzo la cinquantina, mi chiedevo se per caso non ricorda qualcosa della loro visita.
- Può darsi, - disse l'elettricista. - Ma deve descrivermeli.
- Be', mia madre è una donna piuttosto alta. Capelli scuri lunghi fino alle spalle. Naso un po' aquilino. Quest'ultimo le dà un'aria arcigna anche quando non vorrebbe.
L'elettricista rifletté per un momento, guardando la città che scorreva fuori del finestrino. - Sì, - disse, annuendo. - Sì, mi sembra di ricordare una signora fatta così. Si è fermata pochi giorni. Andava in giro a visitare monumenti e cose del genere.
- Sì, sì. Allora se la ricorda?
- Sì, aveva l'aria simpatica. Ma sarà stato, oh, almeno tredici o quattordici anni fa. Se non di più.
Annuii con entusiasmo. - Quadra con quello che mi ha raccontato la signorina Stratmann. Sì, quella donna era mia madre. Mi dica, le è sembrato che si trovasse bene?
L'elettricista si concentrò, poi disse: - Da quel che ricordo, mi sembra che il posto le piacesse, sì. Anzi, - aggiunse, notando il mio sguardo preoccupato, - anzi, ne sono £sicuro -. Poi si sporse in avanti e mi batté gentilmente sul ginocchio. - Sono sicurissimo che si è trovata bene. Non potrebbe essere altrimenti, no? Ci pensi un momento.
- Forse ha ragione, - dissi, girandomi verso il finestrino. Il sole stava spostandosi attraverso il tram. - Sì, forse ha ragione. Solo che... - Emisi un profondo sospiro. - Solo che vorrei averlo saputo allora. Vorrei che qualcuno si fosse dato la briga di informarmi. E mio padre? Le è sembrato contento anche lui?
- Suo padre? Hhm -. L'elettricista incrociò le braccia e corrugò la fronte.
- Doveva essere già piuttosto magro, - dissi. - Capelli grigi. Aveva una giacca che portava sempre. Di tweed verde chiaro, con le toppe di pelle sui gomiti.
L'elettricista continuò a pensare. Alla fine scosse il capo. - Mi spiace. Non posso dire di ricordare suo padre.
- Ma non è possibile. La signorina Stratmann mi ha assicurato che i miei genitori sono venuti qui insieme.
- Sono sicuro che le ha detto la verità. Ma io personalmente non ricordo suo padre. Sua madre, sì. Ma suo padre... - E di nuovo scosse la testa.
- Ma è ridicolo! Che cosa ci sarebbe venuta a fare mia madre qui da sola?
- Non sto dicendo che suo padre non c'era. Dico solo che non lo ricordo. Senta, non si agiti così. Se l'avessi immaginato, non sarei stato così sincero. Ho una pessima memoria, sa. Lo dicono tutti. Non più tardi di ieri ho lasciato la cassetta degli attrezzi a casa di mio cognato, dove ero andato a pranzare. Ho perso quaranta minuti per tornare a prenderla. La mia cassetta degli attrezzi! - L'elettricista scoppiò a ridere. - Lo vede? Ho una pessima memoria. Sono l'ultima persona cui bisogna chiedere una cosa così importante. Di sicuro, suo padre era qui con sua madre. Soprattutto se anche altri le hanno detto così. Davvero, sono l'ultima persona al mondo di cui bisogna fidarsi.
Ma io avevo smesso di ascoltarlo e guardavo di nuovo la metà anteriore della carrozza, dove Boris aveva finalmente ceduto alla commozione. Si era lasciato abbracciare dalla madre e aveva le spalle scosse dai singhiozzi. Improvvisamente, tutto il resto mi parve privo di importanza, e volli solo correre da lui. Mormorando una scusa frettolosa all'elettricista, mi alzai e mi avviai lungo il corridoio.
Avevo quasi raggiunto Sophie e Boris, quando il tram svoltò bruscamente, e io fui costretto ad aggrapparmi a un palo per non cadere. Quando li guardai di nuovo, mi resi conto che non si erano accorti di me, sebbene ormai fossi vicinissimo a loro. Se ne stavano avvinghiati l'uno all'altra, con gli occhi chiusi. Sulle loro braccia e sulle loro spalle passavano fuggevoli chiazze di sole. In quel modo di consolarsi a vicenda c'era qualcosa di così intimo che sul momento mi parve impossibile qualsiasi intromissione, persino da parte mia. Guardandoli, cominciai a provare - nonostante la loro evidente angoscia - una strana sensazione d'invidia. Mi avvicinai ancora, finché mi parve di palpare la consistenza del loro abbraccio.
Finalmente Sophie aprì gli occhi e, mentre il bambino continuava a singhiozzarle contro il petto, mi guardò con volto impassibile.
- Mi dispiace, - dissi. - Mi dispiace moltissimo per tutto. Ho saputo di tuo padre solo un attimo fa. E naturalmente vi sono subito corso dietro...
Nella sua espressione c'era qualcosa che mi costrinse a fermarmi. Sophie mi fissò gelidamente ancora per qualche istante, poi disse con voce stanca:
- Lasciaci in pace. Ti sei sempre tenuto al di fuori del nostro amore. E guarda adesso. Sei al di fuori anche del nostro dolore. Lasciaci in pace. Vattene.
Boris si staccò da Sophie e si girò a guardarmi. Poi disse a sua madre: - No, no. Dobbiamo restare insieme.
Sophie scosse il capo. - No, lascialo perdere, Boris. Lascia che se ne vada per il mondo a dispensare la sua competenza e la sua saggezza. Ne ha bisogno. Lasciamoglielo fare.
Boris, smarrito, fissò prima me poi sua madre. Mi parve sul punto di dire qualcosa, ma in quel momento Sophie scattò in piedi.
- Muoviti, Boris. Dobbiamo scendere. Boris, muoviti.
Il tram rallentò, e parecchi passeggeri si alzarono. Un paio di persone mi passarono davanti spingendomi, poi anche Sophie e Boris s'infilarono nel corridoio. Ancora aggrappato al mio palo, vidi Boris allontanarsi verso l'uscita. A un certo punto il bambino si voltò a guardarmi e disse:
- Ma dobbiamo restare insieme. A tutti i costi.
Poi vidi dietro di lui la faccia di Sophie che mi fissava con strano distacco, e udii la sua voce dire:
- Non sarà mai uno di noi. Devi cercare di capirlo, Boris. Non ti amerà mai come un vero padre.
Altri passeggeri mi spinsero per passarmi davanti. Alzai una mano nell'aria.
- Boris! - chiamai.
Il bambino, opponendosi al flusso della gente, si girò ancora una volta verso di me.
- Boris! La gita in autobus, te la ricordi? La gita in autobus al lago artificiale. Ti ricordi com'è stato bello? Tutti erano gentili con noi. Ci facevano regalini, cantavano. Ti ricordi, Boris?
I passeggeri avevano cominciato a scendere. Boris mi lanciò un ultimo sguardo, poi sparì. Altre persone si fecero largo a spintoni, poi il tram ripartì.
Dopo un momento mi girai e tornai al mio posto. Mentre mi risedevo davanti a lui, l'elettricista mi sorrise allegramente. Poi lo vidi chinarsi in avanti e battermi su una spalla, e solo allora mi accorsi che stavo piangendo.
- Sa, - mi disse l'uomo, - sul momento ci si dispera. Ma poi passa, il diavolo non è mai brutto come lo si dipinge. Su con il morale -. L'elettricista continuò a blaterare per un po', mentre io singhiozzavo. Poi lo udii dire: - Senta, perché non fa colazione. Mangi qualcosa anche lei. Vedrà che si sentirà subito meglio. Su. Vada a servirsi.
Alzai gli occhi e vidi che in grembo aveva un piatto con un croissant mordicchiato e una piccola noce di burro. Le sue ginocchia erano coperte di briciole.
- Oh, - dissi, drizzando la schiena e ritrovando la mia compostezza. - Dove ha preso quella roba?
L'elettricista indicò un punto alle mie spalle. Girandomi, vidi un gruppo di passeggeri che faceva ressa proprio in fondo al tram, dove era stato allestito un buffet. Notai che la metà posteriore della carrozza si era molto affollata, e che intorno a me tutti i passeggeri mangiavano e bevevano. La colazione dell'elettricista era modesta in confronto a quella di altri. Vidi parecchie persone che si facevano largo nella calca con grandi piatti di uova, pancetta, pomodori e salsicce.
- Su, - ripeté l'elettricista. - Vada a prendersi anche lei qualcosa da mangiare. Poi parleremo dei suoi guai. O se preferisce, ci dimenticheremo di questa storia e parleremo di quello che le farà più piacere, purché la tenga allegro. Che so, di calcio, o di cinema. Quel che vuole. Ma prima deve fare colazione. Ha l'aria di uno che non mangia da un pezzo.
- Ha ragione, - dissi. - Ora che ci penso, non metto niente sotto i denti da un bel po'. Ma mi dica, per piacere. Dove va questo tram? Io devo tornare in albergo a fare le valigie. Sa, questa mattina ho un volo per Helsinki. Devo tornare subito in albergo.
- Oh, il tram la porterà più o meno dove vuole. Questo è il così detto circuito del mattino. Poi c'è anche il circuito serale. Due volte al giorno il tram fa il giro dell'intera città. Oh, sì, con questo tram può andare da per tutto. E lo stesso la sera, anche se la sera c'è un'atmosfera molto diversa. Oh, sì. Questo è un tram meraviglioso.
- Fantastico. Allora, mi scusi. Credo che seguirò il suo consiglio e andrò a fare colazione. Ha proprio ragione. Al solo pensiero mi sento meglio.
- Così mi piace, - disse l'elettricista, sollevando il croissant in segno di saluto.
Mi alzai e mi diressi verso il fondo della carrozza, dove fui accolto dagli effluvi del cibo. C'erano parecchie persone che si stavano servendo, ma sbirciando sopra le loro spalle vidi un grande tavolo semicircolare proprio contro il finestrino posteriore del tram. Il buffet offriva praticamente tutto quel che si poteva desiderare: uova strapazzate, uova fritte, carni fredde e affettati, patate saltate in padella, funghi, pomodori cotti. Vidi anche un largo vassoio di aringhe arrotolate e altri bocconcini di pesce, due grandi cestini di croissant e diversi tipi di pane, una ciotola di vetro piena di frutta fresca, numerose caraffe di caffè e succhi di frutta. Tutti sembravano ansiosi di servirsi, ma intorno al buffet l'atmosfera era cordialissima; la gente si passava le cose chiacchierando allegramente.
Mentre prendevo un piatto, alzai gli occhi. Attraverso il finestrino posteriore vidi le strade della città che si allontanavano, mi sentii risollevare lo spirito. Le cose, in fondo, non erano andate così male. Nonostante le delusioni riservatemi da questa città, non c'era dubbio che la mia presenza fosse stata grandemente apprezzata - come in tutti gli altri posti in cui ero stato fino a quel momento. E ora, mentre la mia visita era agli sgoccioli, eccomi davanti a un buffet veramente straordinario, che mi offriva tutto ciò che avrei potuto desiderare per colazione. I croissant, in particolare, sembravano invitanti. Anzi, dal modo in cui i passeggeri, un po' in tutta la vettura, li divoravano, si capiva che erano freschissimi e di ottima qualità. D'altronde, non c'era nulla di ciò che avevo sotto gli occhi che non fosse a dir poco allettante.
Cominciai a prendere un po' di tutto. E, mentre mi servivo, mi immaginai di nuovo seduto al mio posto, intento a chiacchierare piacevolmente con l'elettricista. Tra un boccone e l'altro avrei guardato fuori, rimirando le strade immerse nella luce del mattino. Per molti aspetti l'elettricista era un interlocutore ideale. Non c'era dubbio che fosse una persona di animo gentile, ma nello stesso tempo stava ben attento a non diventare invadente. Lo guardai. Stava ancora mangiando il suo croissant, ed evidentemente non aveva nessuna fretta di scendere dal tram. Anzi, sembrava intenzionato a restare seduto dov'era ancora per un bel po'. E sicuramente, se la conversazione fosse stata piacevole - visto che il tram compiva un percorso circolare - avrebbe rimandato il momento di scendere, aspettando di ripassare davanti alla sua fermata. Anche il buffet era chiaramente destinato a durare a lungo, e di tanto in tanto avremmo potuto interrompere la conversazione per riempire di nuovo i piatti. Immaginavo già che ci saremmo incitati a vicenda. «Su! Ancora una salsiccia! Mi dia il suo piatto, gliela prendo io». Saremmo rimasti seduti l'uno di fronte all'altro, mangiando e scambiandoci opinioni sul calcio e su tutto ciò che ci sarebbe passato per la testa, mentre fuori il sole sarebbe salito sempre più in alto in cielo, illuminando le strade e il nostro lato della carrozza. E solo alla fine, dopo avere riempito per bene la pancia ed esaurito gli argomenti di conversazione, l'elettricista avrebbe dato un'occhiata all'orologio e, con un sospiro, mi avrebbe fatto notare che presto saremmo passati di nuovo davanti alla fermata del mio albergo. Anch'io avrei sospirato, poi, un po' riluttante, mi sarei alzato in piedi e mi sarei scosso le briciole dal grembo. Ci saremmo stretti la mano e augurati una buona giornata - anche lui, così mi avrebbe detto, doveva scendere di lì a poco - poi mi sarei unito all'allegra brigata in attesa davanti all'uscita. Forse, mentre il tram si fermava, avrei fatto ancora un cenno di saluto all'elettricista; poi sarei sceso, sicuro di poter guardare agli impegni di Helsinki con orgoglio e ottimismo.
Riempii quasi fino all'orlo la tazza del caffè. Poi, tenendo la tazza in una mano e il piatto stracolmo nell'altra, mi girai per tornare al mio posto.
Fine