È LA DECONTESTUALIZZAZIONE IL MANGANELLO DELL’ERA TECNOLOGICA
Alfonso Lanzieri
30/12/2024
Da quando l’arresto della giornalista Cecilia Sala, da parte del regime iraniano, è diventato di dominio pubblico, nella mediasfera si è sollevata una prevedibile nube di discorsi. Tra analisi, interpretazioni e illazioni, la cosa peggiore che si è vista sono stati gli attacchi alla giornalista orditi attraverso il recupero e la riproposizione decontestualizzata di un vecchio post social della stessa. Lo scopo, del tutto capzioso, è di minarne la credibilità, sfruttando lo sciame social sempre pronto a pungere la vittima designata di giornata. Vista la situazione in cui tutto ciò avviene, l’operazione appare particolarmente abietta.
Ciò che mi preme esprimere, però, non è solo una doverosa vicinanza umana a Cecilia Sala e ai suoi affetti, ma qualcosa di più ampio che questa vicenda richiama. La dinamica prima esposta, infatti, è oggi particolarmente diffusa, resa facile dalla memoria del social network, che conservano per anni tutto ciò che postiamo. Una foto o una frase di un decennio fa, possono essere sempre ripresi e utilizzati oggi per metterci in imbarazzo, delegittimarci, infamarci.
Tutto ciò, del resto, è stato già ampiamente denunciato. Non ha molta importanza il contenuto del “ricordo”: basta la sua decontestualizzazione e riproposizione in una nuova cornice a renderlo un’arma. I casi sono tantissimi. Ciò su cui forse si è riflettuto di meno, è il fatto che tale problema non è solo questione di internet ma questione della tecnologia in sé. A questo punto, allora, la stretta attualità non basta più.
Infatti, a ben vedere, il meccanismo in base al quale si prendono dei ricordi salvati nella memoria del web e li si giustappone sull’unico piano del presente, a dispetto della loro eterogeneità temporale (ecco la perversione), è ciò che addirittura già Platone aveva stigmatizzato nel Fedro. La sua celebre condanna della scrittura, infatti, non si deve a una reazione senile contro le nuove tecnologie ma proprio a questo problema, portato in quel tempo dalla prima forma di intelligenza artificiale, la scrittura alfabetica, appunto.
Quando il dio Theuth, inventore della scrittura nel mito raccontato da Platone, presenta la propria ingegnosa creazione al faraone Thamus, quest’ultimo rifiuta il dono poiché “esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi nella memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente”.
Proprio la conservazione dei “ricordi” su un supporto esterno, rischia di rendere più difficile l’esercizio della memoria, che è assai più di un archivio ma una rammemorazione che interpreta e contestualizza. Potremmo disporre, ad esempio, di una tecnologia capace di farci vedere su un display, le immagini mentali che scorrono nella testa di certo Pietro: vediamo una spiaggia, una donna e un bambino in lacrime che le tira un sasso. Questo è un ricordo.
Solo la memoria di Pietro, però, sarà in grado di dirci che quella donna è sua madre adottiva, che era sulla stessa spiaggia in cui andava sempre col papà e la mamma naturali prima che morissero entrambi, e che questo lo aveva esposto a una crisi. Il web è un po’ come quel display che trasmette ininterrottamente ricordi senza memoria: è un cervello che ricorda senza qualcuno che abbia memoria, un’intelligenza senza soggetto. La tecnologia in sé è un deposito di ricordi (saperi, esperienze, movimenti, racchiusi nella macchina) che dev’essere utilizzato da soggetti capaci di aver memoria, vale a dire, di richiamare i ricordi contestualizzando e interpretando.
Proprio perché sempre meno persone appaiono capaci di farlo (forse è solo questione di tempo, impareremo, chissà), e potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, ecco che, come dice ancora Platone nel prosieguo del brano già citato, “con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti”. Solo apparentemente ci siamo allontanati dall’apertura di questo articolo. Il moralismo, infatti, non è altro che una morale senza contesto.
Non è un caso, lo faccio notare di passaggio, che il puritanesimo woke, imitando il meccanismo cibernetico, disponga i fatti storici simultaneamente, perdendo la sensibilità ermeneutica al punto tale da condannare coi criteri del presente esistenze di tre secoli fa, o disconoscere totalmente le differenze di piano tra azioni compiute dalla stessa persona in stagioni ed ambiti differenti della propria vita.
Ben si specchia, tale moralismo, nel suo vizio simmetrico, il cinismo, che altro non è se non contesto senza morale. I ricordi senza memoria del moralismo, e la memoria senza ricordi del cinismo, imitano l’automa in quella tipica forma di produttiva competenza senza reale sapere che è la stupidità. Per questo la macchina è amorale per definizione e noi, se la imitiamo, diventiamo immorali per vocazione: basta rammemorare le efferatezze commesse dagli stupidi nella storia.