giovedì 29 dicembre 2022

IL PESCATORE E LA SUA ANIMA Oscar Wilde


IL PESCATORE E LA SUA ANIMA
Oscar Wilde

La storia riprende  il racconto di "La Sirenetta" di H. C. Andersen, ma la capovolge. Non è più la giovane Sirena ad innamorarsi dell’umano, ma viceversa un uomo, un pescatore, a rimanere incantato alla vista di lei e per legarsi alla Sirena che ama, rinuncerà alla sua anima   Qui l’Anima non è il traguardo finale, ma viceversa, un peso di cui liberarsi per essere felice. 
L’impossibilità dell’amore è il tema che ricorre in tutte le storie di Sirene ed è anche quello che tormenta Wilde nella sua vita tormentata e perseguitata. 

IL PESCATORE E LA SUA ANIMA
Ogni sera il giovane Pescatore andava al largo, sul mare, e gettava le sue reti nell’acqua.
Quando il vento soffiava da terra egli non prendeva nulla, o ben poco nel migliore dei casi, poiché quello era un vento aspro e dalle nere ali, e le onde si agitavano per andargli incontro. Ma quando il vento soffiava verso la spiaggia, i pesci salivano dal profondo a nuotare dentro le maglie delle reti, ed egli li portava al mercato e li vendeva.
Ogni sera egli andava al largo, sul mare, e una sera la rete era così pesante che quasi non riusciva a tirarla sulla barca. E il Pescatore rise, e si disse: «Di certo avrò catturato tutti i pesci che nuotano o qualche mostro degli abissi che spaventerà gli uomini, o qualcosa di orribile che la Regina bramerà per sé», e tirò sulle ruvide funi con tutte le sue forze, finché, simili a righe di smalto turchese in un vaso di bronzo, le lunghe vene si gonfiarono sulle sue braccia. Tirò poi sulle corde sottili, e il cerchio di sugheri piatti si faceva sempre più vicino, e la rete alfine affiorò alla superficie dell’acqua.
Ma in essa non v’era alcun pesce, né alcun mostro o creatura orribile, soltanto una piccola Sirena immersa in un sonno profondo.
La sua chioma era come un vello d’oro bagnato, e ogni capello come un filo d’oro fino in una coppa di vetro. La sua persona era come avorio bianco, e la sua coda d’argento e di perla. Argento e perla era la sua coda, e le verdi alghe marine le si attorcigliavano intorno; e simili a conchiglie marine erano le sue orecchie, e le sue labbra a coralli marini. Le fredde ombre lambivano i suoi seni freddi, e sulle sue palpebre riluceva il sale.
Era talmente bella che al vederla il giovane Pescatore fu sopraffatto dalla meraviglia e protendendo una mano per trarre a sé la rete si sporse sul fianco della barca e prese la Sirena fra le braccia. E quando la toccò, ella emise il grido di un gabbiano spaurito, e si destò, e lo guardò coi suoi occhi d’ametista viola pieni di terrore, dibattendosi per liberarsi. Ma egli la stringeva forte a sé, e non l’avrebbe mai lasciata andare.
E quand’ella vide che non poteva in alcun modo sfuggirgli, si sciolse in pianto, e disse: «Lasciami andare, ti prego, sono l’ultima figlia di un Re, e mio padre è vecchio e solo».
Ma il giovane Pescatore rispose: «Non ti lascerò andare, a meno che tu non mi prometta che ogniqualvolta ti chiamerò verrai a cantare per me, poiché i pesci si deliziano ad ascoltare le Creature Marine, e così le mie reti si riempiranno».
«Davvero mi lascerai andare, se ti prometterò ciò che chiedi?», domandò lei.
«Ti lascerò andare», disse il giovane Pescatore.
Così ella promise ciò che egli desiderava, e giurò col giuramento delle Creature Marine. Ed egli allentò la stretta delle braccia, ed ella scivolò in acqua, tremante di una strana paura.
Ogni sera il giovane Pescatore andava al largo, sul mare, e chiamava la Sirena, ed ella appariva a fior d’acqua e cantava per lui. Intorno a lei nuotavano i delfini, e i gabbiani selvaggi danzavano sul suo capo.
Ed ella cantava un canto meraviglioso. Perché cantava delle Creature Marine che conducono le loro mandrie di grotta in grotta, e portano i vitellini sulle spalle; dei Tritoni con le lunghe barbe verdi e i petti villosi, che soffiano dentro ritorte conchiglie al passare del Re; del palazzo del Re, tutto d’ambra, con un tetto di limpido smeraldo e il pavimento di pietra lucente; e dei giardini del mare, dove i grandi ventagli di corallo fanno ondeggiare tutto il giorno le loro filigrane, e i pesci guizzano qua e là come uccelli d’argento, e le anemoni aderiscono tenaci agli scogli, e i garofani sbocciano nella rena gialla ondulata. Ella cantava delle enormi balene che vengono dai Mari del Nord e hanno ghiaccioli acuminati appesi alle pinne; delle Sirene, che narrano cose di una tale meraviglia che i mercanti devono otturarsi le orecchie con la cera per non udirle, altrimenti si getterebbero in acqua e annegherebbero; di vascelli affondati con tutte le loro alberature, coi marinai gelati aggrappati alle sartie e lo sgombro che nuota dentro e fuori dalle cannoniere aperte, delle minute ostriche da carena che viaggiano abbarbicate alle chiglie delle navi e girano tutto il mondo; delle seppie che dai fianchi delle rupi protendono le lunghe braccia nere e possono far venir notte quando vogliono. Ella cantava del nautilus con la sua barca scavata nell’opale e portata da una vela d’argento; delle felici Creature Marine che suonano l’arpa e sanno incantare il grosso Granchio fino a farlo addormentare; dei bimbi che agguantano i viscidi marsovini e cavalcano ridendo il loro dorso; delle Sirene adagiate nella bianca spuma che tendono le braccia ai naviganti; e dei leoni di mare dalle zanne ricurve, e dei cavalli marini dalle criniere fluttuanti.
E mentre ella cantava, tutti i tonni salivano dal profondo per ascoltarla, e il giovane Pescatore gettava le sue reti intorno a loro e li catturava, e altri ne prendeva con un arpione. E quando labarca era ben carica, la Sirena, sorridendogli, sprofondava giù nel mare.
Tuttavia, non gli si avvicinava mai tanto che egli potesse toccarla. Spesso egli la chiamava e la pregava, ma ella non voleva; e quando cercava di afferrarla, si tuffava in acqua come una foca, e per quel giorno non si faceva più vedere. E ogni giorno che passava il suono della sua voce si faceva più dolce. Tanto dolce era il canto di quella voce che egli dimenticava le sue reti e le sue insidie, e non si curava più della pesca. Tonni dalle pinne vermiglie, con occhi simili a borchie d’oro, passavano a frotte, ma egli non vi badava. Il suo arpione gli giaceva al fianco, inerte, e i panieri di vimini intrecciati erano vuoti. Le labbra socchiuse e gli occhioffuscati dalla meraviglia, egli se ne stava seduto languidamente nella barca e ascoltava, ascoltava finché le brume marine lo avvolgevano, e la luna errante tingeva d’argento le sue membra brune.
E una sera egli chiamò la Sirena e le disse: «Piccola Sirena, piccola Sirena, io ti amo. Accettami per tuo sposo, perché ti amo».
Ma la Sirena scosse il capo. «Tu hai un’anima umana», rispose. «Soltanto se ti separerai dalla tua anima, io potrò amarti».
E il giovane Pescatore si disse: «Che cosa me ne faccio della mia anima? Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco. Certo che me ne separerò, e ne trarrò molta gioia». E un grido di gioia proruppe dalle sue labbra, e levandosi in piedi nella barca dipinta, tese le braccia alla Sirena. «Manderò via la mia anima», esclamò, «tu sarai la mia sposa, e io sarò il tuo sposo, e dimoreremo per sempre in fondo al mare, e tutto quel che hai cantato me lo mostrerai, e tutto ciò che desidererai io farò, e nulla mai potrà dividere le nostre vite».
E la piccola Sirena rise di piacere, e si nascose il viso fra le mani.
«Ma come farò a separarmi dalla mia anima», chiese il giovane Pescatore, «dimmi come posso fare, e lo farò!».
«Ahimè, non so», disse la piccola Sirena. «Le Creature Marine non hanno anima». E scivolò giù nel profondo, guardandolo pensosa.
Ed ecco che la mattina del giorno dopo, prima che il sole fosse a una spanna sopra il colle, il giovane Pescatore si recò alla casa del Sacerdote e bussò tre volte alla porta.
Il novizio guardò attraverso il pertugio e quando vide chi era tirò a sé il saliscendi e gli disse: «Entra».
E il giovane Pescatore entrò, e s’inginocchiò sulla stuoia distesa sul pavimento, e chiamò il Sacerdote, che stava leggendo i sacri testi, e gli disse: «Padre, mi sono innamorato di una Creatura Marina, e la mia anima mi impedisce di realizzare il mio desiderio.Dimmi come posso fare per mandarla via da me, poiché invero non ne ho alcuna necessità. A che mi serve la mia anima? Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco».
E il Sacerdote, battendosi il petto, rispose: «Ahimè, ahimè, tu sei impazzito; o hai mangiato qualche erba velenosa; poiché l’anima è la parte piùnobile dell’uomo, e ci è stata data da Dio perché nobilmente ne facciamo uso. Non c’è cosa più preziosa di un’anima umana, né alcuna cosa terrestre può esserle paragonata. Essa vale più di tutto l’oro del mondo, ed è più preziosa dei rubini dei re. Dunque, figliolo mio, scaccia da te codesto pensiero, poiché è un peccato che non si può perdonare. Le Creature Marine sono esseri perduti, e così quelli che hanno rapporti con loro. Sono come le bestie selvagge che non distinguono il bene dal male, e il Signore non è morto per loro».
Gli occhi del giovane Pescatore, alle amare parole del Sacerdote, si riempirono di lacrime, ed egli si levò in piedi e disse: «Padre, i Fauni vivono nella foresta e sono felici; sugli scogli stanno i Tritoni, con le loro arpe d’oro porpora. Lascia che io sia come loro, ti supplico, perché i loro giorni sono come i giorni dei fiori. E quanto alla mia anima, a che mi serve, se mi allontana dall’essere che amo?»
«L’amore profano è vile», proclamò il Sacerdote accigliato, «e vili e perverse sono le creature pagane a cui Dio permette di vagare attraverso il Suo mondo. Maledetti i Fauni dei boschi e lecantatrici dei mari! Le ho udite, in certe notti, e cercavano di affascinarmi stornandomi dal mio rosario. Tamburellano con le dita alle finestre, e ridono. Mi sussurrano all’orecchio la storia delle loro insidiose gioie. Mi lusingano con le tentazioni, e quandovorrei pregare mi fanno smorfie odiose. Sono esseri perduti, ti dico. Perduti. Per loro non v’è Paradiso né Inferno, non loderanno il nome di Dio né nell’uno né nell’altro».
«Padre», gridò il giovane Pescatore, «tu non sai quel che dici. Una volta nella mia rete ho catturato la figlia di un Re. E più bella della stella del mattino, e più bianca della luna. Per il suo corpo io darei la mia anima, e per il suo amore rinuncerei al cielo. Concedimi quel che ti chiedo, e lasciami andare in pace».
«Via! Vattene!», gridò il Sacerdote. «La tua Sirena è perduta, e tu ti perderai con lei». E non gli diede benedizione alcuna, e lo cacciò fuori.
E il giovane Pescatore andò verso la piazza del mercato, e camminava lentamente, a capo chino, come un’anima in pena.
E quando i mercanti lo videro, cominciarono a mormorare fra loro, e uno gli si fece incontro, e chiamandolo per nome gli chiese:
«Che cos’hai da vendere?»
«Ho da vendere la mia anima», rispose lui. «Ti prego, compramela, non la sopporto più. A che mi serve la mia anima? Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco».
Ma i mercanti si fecero beffe di lui, e dissero: «Ah sì? E noi che ce ne faremmo di un’anima umana? Non vale nemmeno mezza piastra d’argento. Vendici piuttosto il tuo corpo come schiavo, e ti vestiremo di porpora marina, per farti diventare il protetto della Regina Madre. Ma non cianciare della tua anima, perché per noi non vale proprio nulla».
E il giovane Pescatore si disse: «Che strano! Il Sacerdote mi dice che l’anima vale più di tutto l’oro del mondo, e i mercanti dicono che non vale mezza piastra d’argento». E lasciò la piazza del mercato per scendere sulla riva del mare, e si pose a riflettere su come dovesse agire.
E a mezzogiorno gli venne in mente che un suo compagno, un raccoglitore di critamo, gli aveva parlato di una certa giovane Strega molto abile in arti magiche che viveva in una grotta sullabaia. Quivi diresse il passo, e andava di corsa, tant’era ansioso di sbarazzarsi della sua anima, e una nube di polvere lo seguiva mentre si affrettava sulla sabbia della costa. Dal prurito del palmo della sua mano la giovane Strega capì che stava arrivando, e rise e disciolse la rossa chioma. E con la rossa chioma sciolta sulle spalle si fece sulla soglia della grotta, e nella mano aveva un ramoscello di cicuta selvatica in fiore.
«Che vuoi da me? Che vuoi?», gridò, mentre egli giungeva ansante al sommo dell’erta, e si inchinava a lei. «Del pesce per la tua rete, quando il vento è contrario? Ho una piccola zampogna, e quando vi soffio dentro i muggini accorrono nuotando nella baia. Ma la zampogna costa, bel ragazzo, costa. Che vuoi da me? Che vuoi? Una tempesta che faccia naufragare le navi e getti sulla spiaggia le casse dei loro tesori? Ho ai miei ordini più tempeste diquante ne abbia il vento, perché io sono più forte del vento e con un setaccio e una brocca d’acqua posso far colare a picco grandi vascelli in fondo al mare. Ma questo costa, bel ragazzo, costa. Che vuoi da me? Che vuoi? C’è un fiore che sboccia nella valle, che nessuno conosce all’infuori di me. Ha petali purpurei, e una stella nel cuore, e il suo nettare è bianco come latte. Se con quel fiore tu toccassi le labbra crudeli della Regina, ella ti seguirebbe per tutto il mondo. Ma il fiore costa, bel ragazzo, costa. Che vuoi da me? che vuoi? Posso pestare un rospo in un mortaio, e farneun intruglio, e rimestarlo con la mano di un uomo morto. Posso spruzzarlo sul tuo nemico mentre dorme e tramutarlo in una vipera nera, che la sua stessa madre ucciderà. Con una ruota possotirar giù la Luna dal cielo, e mostrarti la Morte in uno specchio. Che vuoi da me? che vuoi? Dimmi il tuo desiderio, e io te lo esaudirò, se mi pagherai il prezzo, il prezzo che vale».
«Il mio desiderio non è che una piccola cosa», disse il giovane Pescatore, «eppure il Sacerdote si è adirato con me, e mi ha scacciato. Non è che una piccola cosa, eppure i mercanti si sono beffati di me, e me l’hanno negata. Perciò sono venuto da te, benché tutti ti dicano malvagia, e qualsiasi prezzo tu mi chieda io lo pagherò».
«Che cosa vorresti?», gli chiese la Strega, andandogli vicino.
«Vorrei separarmi dalla mia anima», rispose il giovane Pescatore.
La Strega si fece pallida, rabbrividì, e si nascose il volto nel manto azzurro. «Bel ragazzo, bel ragazzo», mormorò, «questa è una cosa terribile da farsi».
Egli scosse i riccioli bruni, ridendo. «La mia anima non è nulla, per me», rispose. «Non posso vederla. Non posso toccarla. Non la conosco».
«Che cosa mi darai se ti esaudirò?», chiese la Strega, guardandolo coi suoi occhi stupendi.
«Cinque piastre d’oro», egli disse, «e le mie reti, e la capanna di canne intrecciate dove vivo, e la barca dipinta su cui navigo. Dimmi solo come posso allontanare da me la mia anima, e ti darò tutto ciò che possiedo».
Ella rise beffarda, e lo colpì col ramoscello di cicuta. «Io posso trasformare le foglie d’autunno in oro», gli rispose, «e posso filare i pallidi raggi della Luna in fili d’argento, se lo voglio. Colui di cui sono ancella è il più ricco di tutti i re del mondo, ed è in possesso di tutti i loro domini».
«Che cosa posso darti», egli disse, «se non vuoi compenso, né oro né argento?».
La Strega gli accarezzò i capelli con la sottile mano bianca. «Devi danzare con me, bel ragazzo», mormorò con un sorriso.
«Nient’altro che questo?», chiese il giovane Pescatore, stupito, e si levò in piedi.
«Nient’ altro che questo», rispose lei, e gli sorrise di nuovo.
«Dunque al tramonto io e te danzeremo insieme in un luogo segreto», egli disse, «e dopo che avremo danzato tu mi dirai ciò che voglio sapere».
Ella scosse il capo. «Quando la Luna sarà piena, quando la Luna sarà piena», mormorò. Poi si guardò intorno, e rimase in ascolto.
Un uccellino azzurro si librò in volo dal nido stridendo, e descrisse un cerchio sopra le dune, e tre uccelli screziati emisero brevi gridi nell’erba rigida e grigia chiamandosi l’un l’altro. L’unico suono che si udiva era la risacca che lambiva, giù in basso, iciottoli levigati. La Strega protese la mano, e attirato il giovane a sé, gli accostò le labbra aride all’orecchio.
«Stanotte devi venire in vetta alla montagna», gli bisbigliò. «C’è un Sabba, e ci sarà anche Lui».
Il giovane Pescatore trasalì e la guardò, ed ella rise mostrandogli i bianchi denti. «Chi è colui di cui parli?», egli chiese.
«Non ha importanza», rispose lei. «Stasera aspettami sotto i rami del carpine. Se un cane nero corre verso di te, colpiscilo con una verga di salice, e se ne andrà. Se un gufo ti parla, non rispondergli. Quando la Luna sarà piena io verrò da te, e danzeremo insieme sull’erba».
«Ma mi giuri che mi dirai come posso liberarmi della mia anima?», egli chiese.
Ella uscì alla luce del sole, e attraverso la sua chioma rossa folleggiava il vento. «Sugli zoccoli della capra lo giuro», rispose.
«Tu sei la migliore delle streghe», gridò il giovane Pescatore, «e senz’altro danzerò con te stanotte in vetta alla montagna. Mi sarei aspettato che mi chiedessi oro e argento, ma il compenso che mi chiedi è davvero piccola cosa, e l’avrai». E agitò il berretto verso di lei in segno di saluto, e chinò il capo, e tornò di corsa in città, colmo di gioia.
E la Strega lo seguì con lo sguardo finché non fu scomparso, poi rientrò nella sua grotta e, tratto uno specchio da una scatola di legno di cedro scolpito, lo mise su di un sostegno, e bruciò della verbena sopra carboni ardenti davanti a esso, e scrutò attraverso le spire del fumo. E dopo pochi minuti si torse le mani in un impeto d’ira. «Doveva essere mio!», mormorò. «Io sono bella quanto lei!».
E quella sera, quando la luna si levò, il giovane Pescatore salì sulla vetta della montagna, e si fermò sotto i rami del carpine. Simile a una lastra di metallo lucente, si stendeva il vasto mare, e le ombre delle barche da pesca si muovevano nella piccola baia. Ungrosso gufo dai gialli occhi fosforescenti lo chiamò a nome, ma egli non rispose. Un cane nero corse verso di lui ringhiando. Lo colpì con una verga di salice, e quello se ne andò uggiolando.
A mezzanotte giunsero le streghe: a volo, per l’aria, come pipistrelli. «Uuuh!», gridarono toccando terra. «C’è qualcuno che non conosciamo!». E fiutarono all’intorno, e bisbigliarono fra loro, e si fecero dei segni. Per ultima arrivò la giovane Strega, con la sua chioma rossa fluttuante al vento. Indossava una veste di tessuto d’oro ricamato con occhi di pavone, e in capo aveva un piccolo berretto di velluto verde.
«Dov’è? Dov’è?», strillarono le streghe appena la videro; ma lei rise senza rispondere, e corse al carpine, e prendendo per mano il giovane Pescatore lo condusse con sé nel chiarore lunare e incominciò a danzare.
Come in un vortice roteavano, e la giovane Strega balzava così in alto che si potevano vedere i tacchi scarlatti delle sue scarpe. Poi, in direzione dei danzatori si udì il galoppo di un cavallo, ma nessun cavallo apparve, e il giovane Pescatore provò un oscurosgomento.
«Più veloce!», gridò la Strega, cingendogli il collo con le braccia e alitandogli in volto il suo respiro ardente. «Più veloce! Più veloce!», e la terra pareva girare sotto i loro piedi, e la mente di lui si ottenebrava, e un gran terrore lo dominò, come se qualcosa di orribile stesse guardandolo, e finalmente egli si avvide che all’ombra di una rupe c’era qualcuno, una figura d’uomo che indossava un vestito di velluto nero, di foggia spagnola. Il suo volto era stranamente pallido, ma le sue labbra erano simili a un superbo fiore vermiglio. Sembrava annoiato, e si appoggiava ali’indietro, giocherellando come noncurante col pomo della sua daga. Poco distanti da lui, sull’erba, giacevano un cappello piumato e un paio di guanti da cavaliere con manopole di merletto d’oro, ricamati da perle iridescenti che disegnavano uno stemma bizzarro. Dalla spalla gli pendeva una mantellina foderata di zibellino, e le sue delicate mani bianche sfavillavano di anelli. Grevi palpebrevelavano i suoi occhi.
Il giovane Pescatore lo fissava, come irretito da un sortilegio. Alla fine i loro occhi s’incontrarono, e ovunque la danza lo portasse gli sembrava che gli occhi di quell’uomo gli fossero addosso. Udì la Strega ridere, e le cinse la vita per roteare ancora e ancora con lei nel vortice folle.
D’un tratto -un cane latrò nel bosco, e i danzatori si fermarono, si accostarono all’uomo e, inginocchiatisi, gli baciarono le mani. Un breve sorriso sfiorò le sue labbra altere, come l’ala di un uccello sfiora l’acqua e la fa ridere. Ma in quel sorriso c’era del disprezzo. Egli seguitava a fissare il giovane Pescatore.
«Vieni! Adoriamo», gli sussurrò la Strega spingendolo innanzi a sé; e un ardente desiderio di sottomettersi al suo ordine lo afferrò, e la seguì. Ma quando fu vicino allo sconosciuto, senza sapere perché, si fece il segno della croce, e invocò il nome santo.
Immediatamente le Streghe stridettero come falchi e volarono via, e il volto pallido che lo aveva fissato fu contratto da uno spasimo di pena. L’uomo si avviò verso un piccolo bosco, ed emiseun fischio. Una puledra bardata d’argento corse incontro a lui. Nel balzare in sella egli si volse, e guardò con aria triste il giovane Pescatore.
E la Strega dalla chioma rossa cercò anch’ella di fuggire, ma il Pescatore la afferrò ai polsi tenendola stretta.
«Lasciami!», gridò lei. «Lasciami andare! Hai nominato ciò che non doveva essere nominato, e fatto il segno che non bisogna guardare».
«No», rispose lui, «non ti lascerò andare se non mi sveli il segreto».
«Quale segreto?», disse la Strega, graffiandolo come una gatta selvatica e mordendosi le labbra chiazzate di bava.
«Lo sai», rispose lui.
Gli occhi verdi come l’erba le si offuscarono di lacrime, mentre gridava: «Chiedimi tutto, tutto ma non questo!».
Egli rise e la strinse più forte.
E quand’ella vide che non poteva liberarsi, gli sussurrò: «Guardami: non sono bella come la figlia del mare, e come le creature che dimorano nelle acque azzurre?». E con languore insinuante avvicinò il suo volto a quello di lui.
Ma egli la respinse, accigliandosi, e le disse: «Se non mantieni la tua promessa, ti ucciderò come falsa strega».
Ella divenne grigia come un fiore dell’albero di Giuda, e rabbrividì. «E sia», mormorò. «E la tua anima, non la mia. Fanne quello che vuoi», e si tolse dalla cintura un piccolo coltello dal manico in pelle di vipera verde, e glielo diede.
«A che mi serve questo oggetto?», chiese lui, stupito.
Ella restò in silenzio per qualche minuto, e il suo volto fu come percorso dal terrore. Poi si gettò indietro i capelli, e con uno strano sorriso gli disse: «Ciò che gli uomini chiamano ombra del corpo non è l’ombra del corpo, ma è il corpo dell’anima. Sulla riva del mare, con le spalle alla luna, devi ritagliare intorno ai tuoi piedi la tua ombra, che è il corpo della tua anima, e pregare la tua anima di lasciarti, ed essa lo farà».
Il giovane Pescatore fu scosso da un tremito violento. «E vero?», mormorò.
«È vero, e vorrei non avertelo detto», gemette lei, e gli abbracciò le ginocchia sciogliendosi in lacrime.
Egli l’allontanò da sé e la lasciò sull’erba folta, e avviandosi verso il ciglio del monte si pose il coltello alla cintola, e scese giù per il declivio.
E la sua Anima, che era dentro di lui, lo chiamò e gli disse: «Ahimè! Sono stata con te per tutti questi anni, per tutti questi anni tua ancella fedele. Non mandarmi via, ora! Che male ti ho mai fatto?».
E il giovane Pescatore rise. «Non mi hai fatto alcun male, ma non ho bisogno di te», rispose. «Il mondo è vasto, e c’è anche il Paradiso, e l’Inferno, e quella opaca dimora crepuscolare fra l’uno e l’altro. Va’ dove ti pare, ma non disturbarmi, che il mio amore mi chiama».
E la sua Anima lo implorò pietosamente, ma egli non le badò, esaltando di balza in balza con piede sicuro come una capra selvatica, giunse infine alla pianura e alla spiaggia gialla del mare.
Con le sue membra bronzee e ben modellate, simile a una statua scolpita da un Greco, egli stava sulla sabbia, con le spalle rivolte alla luna, e fuori dalle spume si levarono candide braccia che si protesero verso di lui, e fuori dalle onde sorsero forme evanescenti che s’inchinarono in atto d’ossequio. Dinnanzi a lui si stendeva la sua ombra, che era il corpo della sua anima, e dietro di lui la luna stava sospesa nell’aria color miele.
E la sua Anima gli disse: «Se proprio devi scacciarmi da te, non mandarmi via senza un cuore. Il mondo è crudele, dammi il tuo cuore da portare con me».
Egli scosse la testa e sorrise. «Come potrò amare il mio amore se mi privo del cuore per darlo a te?»
«Ti prego, abbi pietà», implorò l’Anima, «dammi il tuo cuore, il mondo è troppo crudele, e io ho paura».
«Il mio cuore appartiene al mio amore», rispose lui, «perciò non insistere, e vattene».
«E non dovrei amare anch’io?», chiese l’Anima.
«Vattene, non ho nessun bisogno di te», gridò il giovane Pescatore, e afferrò il piccolo coltello dal manico di pelle di vipera verde, e tagliò via la sua ombra intorno ai piedi, e quella si levò erimase diritta dinnanzi a lui, e lo guardò, ed era identica a lui.
Egli arretrò, e ripose il coltello nella cintola, e un senso di sgomento s’impadronì di lui. «Vattene», mormorò, «e non farmi vedere mai più il tuo viso».
«No, noi ci incontreremo di nuovo, invece», disse l’Anima. La sua voce era bassa e flautata, le sue labbra si muovevano appena.
«Come ci incontreremo?», gridò il giovane Pescatore. «Non vorrai seguirmi nelle profondità del mare?»
«Una volta l’anno io verrò qui, e ti chiamerò», disse l’Anima. «Può darsi che tu abbia bisogno di me».
«Che bisogno di te potrei mai avere?», gridò il giovane Pescatore. «Ma se lo vuoi, sia pure», e si tuffò in acqua, e i Tritoni soffiarono nei loro corni, e la piccola Sirena gli nuotò incontro, e gli cinse il collo con le braccia e lo baciò sulla bocca.
E l’Anima rimase sulla spiaggia solitaria, a guardarli. E quando si immersero nel mare scomparendo alla vista, si allontanò piangendo attraverso le paludi.
E quando un anno fu trascorso, l’Anima scese sulla spiaggia e chiamò il giovane Pescatore, ed egli salì su dal profondo, e disse: «Perché mi chiami?».
E l’Anima gli disse: «Vieni più vicino, perché io possa parlare con te delle stupende cose che ho veduto».
Ed egli si fece più vicino, e si sdraiò nell’acqua bassa, e appoggiato il capo alla mano stette ad ascoltare.
E l’Anima gli disse: «Quando ti lasciai, volsi il viso verso Oriente e mi misi in viaggio. Dall’Oriente ha origine ogni saggezza. Sei giorni viaggiai, e al mattino del settimo giorno giunsi a una collina che domina il paese dei Tartari. Sedetti all’ombra di un tamerisco per ripararmi dal sole. La terra era arida, e il caldo torrido. Gli uomini andavano su e giù come mosche striscianti su un disco di rame rovente.
A mezzogiorno una nube di polvere rossastra si sollevò dall’orlo piatto della landa. Quando i Tartari la videro, incoccarono i loro archi dipinti e balzando in sella ai loro piccoli cavalli galopparono in quella direzione. Poi, fiutando l’aria, si slanciarono dall’altra parte.
Quando sorse la luna, vidi i fuochi di un accampamento ardere nella pianura, e di nuovo m’incamminai. Trovai un gruppo di mercanti seduti su tappeti. I cammelli erano legati a pali dietro a loro, e i servi negri stavano piantando nella rena tende di pelle lavorata ed ergendo una gran barriera di fico d’India.
Ero a pochi passi da loro, quando il capo dei mercanti si alzò e, sguainando la spada, mi chiese che cosa facessi lì.
Risposi che ero il Principe sul mio legittimo territorio, e che ero scampato ai Tartari, i quali volevano farmi loro schiavo. Il capo sorrise, e mi mostrò cinque teste infilzate su lunghe canne di bambù.
Poi mi chiese chi era il profeta di Dio, e io risposi che era Maometto.
Quando egli udì il nome del falso profeta, si inchinò e mi prese per mano, e mi fece sedere al suo fianco. Un negro mi portò del latte di cavalla in una ciotola di legno, e carne d’agnello arrostita.
Quando spuntò il giorno, ci mettemmo in viaggio. Io cavalcavo un cammello dal pelo rosso, a fianco del capo, e un araldo ci precedeva correndo e portando una lancia. Ai lati cavalcavano gli uomini di guerra, e le mule seguivano con le mercanzie. C’erano quaranta cammelli, nella carovana, e le mule erano due voltequaranta.
Dal paese dei Tartari ci recammo al paese di quelli che maledicono la Luna. Vedemmo i Grifoni a guardia dell’oro sulle bianche rupi, e i Draghi squamosi addormentati nelle loro caverne.Passando sui monti trattenemmo il respiro per timore che le nevi scendessero su noi, e ci proteggemmo gli occhi con veli di garza. Passando attraverso le valli, fummo bersagliati dalle frecce dei Pigmei nascosti nei cavi degli alberi, e a notte udimmo i selvaggipicchiare forte sui loro tamburi. Passando davanti alla Torre delle Scimmie deponemmo frutti dinnanzi a loro, ed esse non ci fecero alcun male. Passando davanti alla Torre dei Serpenti offrimmo loro latte caldo in tazze di stagno, ed essi ci lasciarono proseguire. Tre volte durante il nostro viaggio giungemmo sulle rive dell’Oxus. Lo attraversammo su zattere di legno con grandi vesciche di cuoio gonfiato. Gli ippopotami ci si avventarono addosso e volevano ucciderci. Al vederli, i cammelli tremarono.
I re di ogni città ci imponevano di pagare dei pedaggi, senza permetterci di oltrepassare le loro porte. Dalle mura, ci gettavano pane e focacce di mais cotte nel miele e dolci di farina bianca infarciti di datteri. Per ogni centinaio di panini davamo loro un chicco d’ambra.
Quando gli abitanti dei villaggi ci vedevano giungere, avvelenavano le fonti e fuggivano sugli altipiani. Combattemmo coi Magadi, che nascono vecchi e diventano ogni anno più giovani, e muoiono bambini; e coi Laktroi, che si dichiarano figli delle tigri, e son tutti dipinti di giallo e di nero; e con gli Auranti, che seppelliscono i loro morti in cima agli alberi, e vivono in grotte buie pertimore che il Sole, loro Dio, li uccida; e coi Krimmiani, che venerano un coccodrillo e gli donano orecchini di vetro verde e lo nutrono di burro e di teneri uccelli; e con gli Agazombi dalla faccia di cane; e coi Sibani dai piedi di cavallo, che corrono più veloci di qualsiasi destriero. Un terzo della nostra carovana morì in battaglia, e un terzo di stenti. I superstiti mormoravano contro di me, dicendo che ero stato io a portar loro sfortuna. Allora presi un aspide cornuto di sotto una pietra e mi feci mordere. Quando videro che il veleno non aveva su me nessun effetto, furono colti dallo sgomento.
Dopo quattro mesi giungemmo alla città di Illel. Era notte quando arrivammo al boschetto che si stende fuori delle mura, e l’aria era afosa, poiché la Luna andava verso lo Scorpione. Cogliemmo le melagrane mature dagli alberi, e le spaccammo per bere i loro dolci succhi. Poi ci stendemmo sui nostri tappeti e aspettammo l’alba.
E all’alba ci levammo e bussammo alle porte della città. Era fatta di rame rosso, e istoriata di draghi marini e draghi alati. Le guardie, dall’alto, ci chiesero cosa volessimo. L’interprete della carovana rispose che venivamo dall’isola di Siria per vendere molte mercanzie. Essi presero degli ostaggi, e dicendo che ci avrebbero aperto le porte a mezzogiorno, ci invitarono ad aspettare fino a quell’ora.
A mezzogiorno aprirono le porte, e quando entrammo la gente uscì a frotte dalle case per guardarci, e un banditore girava per la città gridando dentro una conchiglia. Sostammo nella piazza del mercato, e i negri slegarono le balle di stoffa dipinta e aprirono lecasse di sicomoro scolpite. Compiute queste operazioni, i mercanti sciorinarono le loro bizzarre mercanzie, le tele di lino incerato dell’Egitto e le tele di lino dipinto del paese degli Etiopi, le spugne purpuree di Tiro e i cortinaggi turchini di Sidone, le coppe d’ambra fredda e gli esili calici di vetro insieme a quelli d’argilla bruciata curiosamente intagliati. Alcune donne ci osservavano dal tetto di una casa. Una di loro portava una maschera di pelle dorata.
E il primo giorno vennero i sacerdoti e contrattarono con noi, e il secondo giorno vennero i nobili, e il terzo i negozianti e gli schiavi. È questa la loro usanza con tutti i mercanti finché dimorano nella città.
E noi vi dimorammo per una Luna, e quando la Luna stava calando, non sapendo che fare e annoiandomi, vagai per le vie della città e giunsi al giardino del suo Dio. I sacerdoti in vesti gialle simuovevano silenziosi fra i verdi alberi, e su un pavimento di marmo nero si ergeva la casa, rossa come una rosa, dove dimorava il Dio. Le soglie erano di lacca punteggiata, e tori e pavoni d’oro zecchino vi erano effigiati in rilievo. Il tetto a tegole era di porcellana verdemare e le gronde sporgenti avevano agli orli dei campanellini. Passando di lì in volo, le colombe bianche sfioravano con le ali i campanellini e li facevano tintinnare.
Di fronte al tempio c’era una conca d’acqua chiara pavimentata d’onice. Mi distesi accanto a essa, e con le mie dita pallide toccavo le ampie foglie. Uno dei sacerdoti mi si avvicinò e si fermòdietro di me. Aveva ai piedi dei sandali, uno in morbida pelle di serpente e l’altro in piume d’uccello. Sul suo capo una mitria di feltro nero era decorata di argentee lune crescenti. Sulla sua vesteerano intessuti sette soli gialli, e i suoi capelli crespi erano tinti d’antimonio. Dopo un po’ egli mi rivolse la parola e mi chiese quali fossero i miei desideri.
Gli risposi che il mio desiderio era di vedere il dio.
“Il dio è a caccia”, disse il sacerdote, con uno sguardo curioso ammiccante negli occhi piccoli e obliqui.
“Dimmi in quale foresta, e andrò a cacciare con lui”, replicai.
Egli allisciò con le unghie appuntite le molli frange della sua tunica.
“Il dio dorme”, mormorò.
“Dimmi in quale giaciglio, e io veglierà accanto a lui”, insistetti.
“Il dio è al banchetto”, gridò il sacerdote.
“Se il vino è dolce, lo berrò con lui, e se è amaro, ugualmente lo berrò con lui”, fu la mia risposta.
Egli chinò la testa, molto stupito, e prendendomi per mano mi sollevò e mi condusse al tempio.
E nella prima stanza vidi un idolo seduto su un trono di diaspro orlato di enormi perle orientali. Era scolpito in ebano, e la sua statura era quella di un uomo. Un rubino adornava la sua fronte, e olio denso stillava dai capelli sulle ginocchia. I piedi erano rossi del sangue di un fanciullo ucciso da poco, e i lombi serrati da una cintura di rame in cui erano incastonati sette berilli.
E io chiesi al sacerdote: “È questo il dio?”. Ed egli mi rispose: “Questo è il dio”.
“Mostrami il dio!”, gridai. “Altrimenti ti giuro che ti ucciderò!”. E gli toccai la mano, che subito avvizzì.
E il sacerdote mi supplicò: “Che il mio signore risani il suo servo, e io gli mostrerò il dio”.
Così alitai sulla sua mano, che subito si risanò, ed egli ancora tremante mi condusse nella seconda stanza, e io vidi un idolo seduto su un trono di giada tempestato di enormi smeraldi. Erascolpito in avorio e la sua statura era quella di un uomo. Un crisolito adornava la sua fronte, e mirra e cinnamomo cospargevano i suoi seni. In una mano teneva uno scettro ricurvo di giada e nell’altra un globo di cristallo. Portava coturni d’ottone, e il collo robusto era cinto da un cerchio di pietre lunari.
E io chiesi al sacerdote: “È questo il dio?”. Ed egli mi rispose: “Questo è il dio”.
“Mostrami il dio!”, gridai. “Altrimenti ti giuro che ti ucciderò!”. E gli toccai gli occhi, che subito divennero ciechi.
E il sacerdote mi supplicò: “Che il mio signore risani il suo servo, e io gli mostrerò il dio”.
Così alitai sui suoi occhi, che subito riacquistarono la vista, ed egli di nuovo tremante mi condusse nella terza stanza, e qui non v’era idolo di sorta, ma solo uno specchio rotondo di metallo sopra un altare di pietra.
E io chiesi al sacerdote: “Dov’è il dio?”. Ed egli mi rispose: “Non v’è altro dio se non lo specchio che vedi: esso è lo Specchio della Saggezza, poiché riflette tutte le cose del cielo e della terrafuorché il volto di chi vi si guarda. Questo non lo riflette, così che chi guarda possa essere sapiente. Esistono molti altri specchi, ma sono specchi dell’Opinione. Solo questo è lo Specchio della Saggezza. E chi possiede questo specchio sa tutto, e nulla può restargli nascosto. Perciò esso è il dio, e noi lo veneriamo”. E io guardai dentro lo specchio, ed era come egli diceva.
E feci una cosa strana, ma che cosa feci esattamente non importa, perché in una valle che è a solo un giorno di viaggio da qui ho nascosto lo Specchio della Saggezza. Basta che tu mi faccia rientrare in te e mi riaccolga come ancella, e diverrai più saggio di tutti i saggi, e la Saggezza ti apparterrà. Concedimi di rientrare in te, e nessuno sarà saggio al pari di te».
Ma il giovane Pescatore rise. «L’Amore è meglio della Saggezza», gridò, «e la piccola Sirena mi ama».
«No, non c’è nulla che sia meglio della Saggezza», disse l’Anima.
«L’Amore è meglio», rispose il giovane Pescatore, e si tuffò nel profondo, e l’Anima s’allontanò piangendo attraverso le paludi.
E quando il secondo anno fu trascorso, l’Anima scese sulla spiaggia, e chiamò il giovane Pescatore, ed egli salì su dal profondo, e disse: «Perché mi chiami?».
E l’Anima gli disse: «Vieni più vicino, perché io possa parlare con te delle stupende cose che ho veduto».
Ed egli si fece più vicino, e si sdraiò nell’acqua bassa, e appoggiato il capo alla mano stette ad ascoltare.
E l’Anima gli disse: «Quando ti lasciai, volsi il viso verso Sud e mi misi in viaggio. Dal Sud proviene ogni cosa preziosa. Sei giorni viaggiai lungo le strade maestre che conducono alla città di Ashter, lungo le polverose strade maestre tinte di rosso su cui vanno i pellegrini, viaggiai, e al mattino del settimo giorno sollevai gli occhi, ed ecco, la città si stendeva ai miei piedi, poiché giace in una valle.
Vi sono nove porte che racchiudono quella città, e davanti a ciascuna porta è ritto un cavallo di bronzo che nitrisce quando i Beduini scendono dalle montagne. Le mura sono rivestite di rame, e le torri di vedetta sono ricoperte al sommo di ottone. In ogni torre sta immobile un arciere con un arco nella mano. Al sorgere del sole scaglia una freccia su un gong, e al tramonto soffia in un corno d’osso.
Quando cercai di entrare, le guardie mi fermarono e mi chiesero chi fossi. Risposi che ero un Derviscio in viaggio verso la Mecca, dove si trovava un velo verde su cui gli angeli avevano ricamato in lettere d’argento il testo del Corano. Invase da reverente meraviglia, le guardie mi pregarono di entrare.
All’interno, era come trovarsi in un bazar. Davvero avresti dovuto essere con me. Attraverso le strade anguste le gaie lanterne di carta ondeggiano come grandi farfalle. Al soffio del vento suitetti si sollevano e ricadono come bolle colorate. Di fronte alle loro baracche, sopra tappeti di seta, stanno accoccolati i mercanti. Hanno barbe lisce, nere, e turbanti ricoperti di zecchini d’oro, efra le loro dita fresche si sgranano lunghe collane d’ambra e noccioli di pesca scolpiti. Alcuni di loro vendono gelbano e nardo, e strani aromi di isole del Mare Indiano, e l’olio denso delle rose rosse, e mirra e piccoli chiodi di garofano a forma d’unghia. Mentre si parla con loro, ogni tanto gettano un pizzico d’incenso su un braciere e profumano l’aria. Vidi un Siriano che teneva fra le mani una bacchettina sottile come uno stelo. Grigie spire difumo si levavano da essa e il suo aroma, mentre ardeva, era quello del mandorlo rosa a primavera. Altri vendono braccialetti d’argento tempestati di turchesi di un azzurro dorato, e anelli per le caviglie in filo d’ottone, frangiati di perline, e unghie di tigre incastonate d’oro, e le unghie di quel gatto scintillante, il leopardo,anch’esse incastonate d’oro, e orecchini di smeraldo forato, e anelli di giada intagliata. Dalle case da tè giunge il suono delle chitarre, e i fumatori d’oppio coi loro esangui volti sorridentiguardano fuori, ai passanti.
Davvero avresti dovuto essere con me.I venditori di vino si fanno strada a gomitate attraverso la folla, con grandi pelli nere sulle spalle. Per lo più vendono vino di Sciraz, dolce come ilmiele. Lo versano in minuscole coppe di metallo e vi spargono sopra foglie di rosa. Sulla piazza stanno i fruttivendoli, con ogni sorta di frutta: fichi maturi dalla polpa porporina, meloni odorosidi musco e gialli come topazi, cedri e mele rosate e grappoli d’uva bianca, tonde arance d’oro vermiglio, e limoni ovali d’oro verde. Una volta vidi passare un elefante. La sua proboscide era dipinta di curcuma e cinabro, e sulle orecchie aveva una rete dicordoncino di seta cremisi. Fermatosi dinnanzi a una delle baracche, cominciò a mangiare le arance, e l’uomo non fece altro che ridere. Non puoi immaginare che strana gente è quella. Quando sono di buon umore vanno dai venditori d’uccelli e comperano un uccello in gabbia, e lo lasciano libero perché la loro gioia siapiù grande, e quando sono tristi si flagellano con dei rovi perché il loro dolore non diminuisca.
Una volta incontrai alcuni negri che portavano una pesante lettiga attraverso il bazar. Era fatta di canne di bambù dorate, e le stanghe erano di lacca vermiglia punteggiata di pavoni d’ottone. Alle finestre pendevano tendine di mussola ricamate con ali discarabei e piccole perle, e dall’interno una Circassa pallida in volto guardò fuori e mi sorrise. Io seguii la portantina, e i negri affrettarono il passo lanciandomi sguardi torvi. Ma la curiosità che m’invadeva era tale che non me ne curai.
Alla fine si fermarono davanti a una casa bianca quadrata. Non c’erano finestre, solo una piccola porta simile alla porta di una tomba. I negri deposero a terra la lettiga e bussarono tre volte con un martello di rame. Un Armeno in cafetano di pelle verde sbirciò dallo spioncino, e quando li vide aprì, e stese al suolo un tappeto, su cui passò la donna. Prima di entrare, si volse e mi sorrise con dolcezza. Non avevo mai veduto un essere così pallido.
Quando sorse la luna, tornai in quel luogo e cercai la casa, ma non c’era più. Vedendo ciò, capii chi era la donna, e perché mi aveva sorriso.
Davvero avresti dovuto essere con me. Per la festa della Luna Nuova il giovane Imperatore uscì dal suo palazzo e si recò alla moschea per pregare. I suoi capelli e la sua barba erano tinti confoglie di rosa, e le guance incipriate con fine polvere d’oro. Le piante dei suoi piedi e le palme delle sue mani erano colorate di giallo zafferano.
Al sorgere del sole egli lasciò il palazzo in una veste d’argento, e al tramonto vi ritornò in una veste d’oro. Tutti si prostravano al suolo nascondendosi il viso, ma io non volli farlo. Io stavo ritto,in attesa, davanti alla bottega di un venditore di datteri. Quando l’Imperatore mi vide, aggrottò le sopracciglia dipinte e si fermò. Rimasi assolutamente immobile, senza rendergli omaggio di obbedienza. Tutti si stupirono della mia audacia, e mi consigliarono di fuggire dalla città. Non ascoltai quel consiglio, e andai a sedermi presso i venditori di strane divinità, che per il loro mestiere sono esecrati. Quando riferii ciò che avevo fatto, ognuno di loro mi regalò un dio, pregandomi di fuggire subito.
Quella stessa notte, mentre giacevo sui cuscini nella casa da tè della Strada dei Melograni, entrarono le guardie dell’Imperatore e mi condussero al palazzo. Qui chiusero tutte le porte alle mie spalle mettendo una catena a ogni serratura. Mi trovavo in un vasto cortile cinto tutt’intorno da un porticato. Imuri erano d’alabastro bianco, con piastrelle turchine e verdi. Le colonne erano di marmo verde, e l’impiantito di marmo fior di pesco. Non avevo mai veduto nulla di simile.
Mentre attraversavo il cortile, due donne velate, guardandomi da un balcone, mi maledissero. Le guardie affrettarono il passo, battendo con la punta delle lance sul pavimento lucente. Da una porta d’avorio scolpito entrai in un giardino ricco d’acque, consette terrazze traboccanti di tulipani e fiori di luna, e aloe color argento. Come un esile stelo di cristallo, una fontana zampillava nell’aria crepuscolare. Icipressi sembravano torce bruciate. Dauno di essi cantava un usignolo.
All’estremità del giardino sorgeva un piccolo padiglione. Due eunuchi ne uscirono per venirci incontro. I loro corpi flaccidi ballonzolavano nel camminare, e i loro occhi ci guardavano curiosamente di sotto le palpebre giallastre. Uno di loro scortò il capitano delle guardie, l’altro seguitò a masticare pasticche aromatiche, che prendeva con gesti affettati da una scatola ovale di smalto lilla.
Dopo pochi minuti il capitano delle guardie congedò i soldati. Essi ritornarono al palazzo, con gli eunuchi che li seguivano indolenti, fermandosi a cogliere le more dai cespugli. Il più vecchio si volse anche a guardarmi con un sorriso malvagio.
Poi il capitano delle guardie mi indicò l’entrata al padiglione. Senza tremare mi avviai e, scostando la pesante cortina, entrai.
Il giovane Imperatore era disteso su un divano coperto di pelli di leone dipinte, e un girifalco era appollaiato sul suo pugno. Dietro di lui era un Nubiano nudo fino alla cintola, con le orecchie perforate da pesanti orecchini. Su una tavola a lato del divano era posata una scimitarra d’acciaio.
Appena mi vide l’Imperatore si accigliò, e mi disse: “Come ti chiami? Non sai che io sono l’Imperatore di questa città?”. Ma io non gli diedi risposta.
Egli puntò il dito verso la scimitarra, e il Nubiano l’affenò, per slanciarsi contro di me, e mi colpì con grande violenza. La lama mi trapassò sibilando, ma non mi ferì. L’uomo stramazzò al suolo, e quando si rialzò batteva i denti per il tenore, e si nascose dietro il divano.
L’Imperatore, balzato in piedi, prese una lancia dall’armeria e la scagliò contro di me. L’affenai al volo e la spezzai in due tronconi. Mi tirò una freccia, ma io levai le mani e quella si fermò a mezz’aria. Allora egli trasse una daga da una cintura di pelle nera e tagliò la gola al Nubiano, perché lo schiavo non potesse riferire a nessuno il disonore di cui era stato testimone. L’uomo si contorse come una serpe calpestata, e una bava rossa gorgogliò fuori dalle sue labbra.
Appena egli fu morto, l’Imperatore si voltò verso di me, e asciugatosi il sudore stillante dalle tempie con una pezzuola di purpurea seta ricamata, mi disse: “Dimmi, sei tu un profeta, che non posso in alcun modo ferirti, o il figlio di un profeta, che non posso oltraggiarti? Ti prego, lascia la città questa stessa notte, perché finché tu sei qui io non posso esserne il signore”.
E io gli risposi-: “Me ne andrò per metà del tuo tesoro. Dammi metà del tuo tesoro, e me ne andrò via”.
Egli mi prese per mano e mi condusse in giardino. Quando il capitano delle guardie mi vide, restò stupefatto. Quando gli eunuchi mi videro, le loro ginocchia tremarono ed essi caddero a terra tramortiti.
C’è una camera, nel palazzo, che ha otto pareti di porfido rosso, e un soffitto di ottone scanalato cui stanno appese delle lampade. L’Imperatore toccò una delle pareti ed essa si aprì, e noi passammo attraverso un corridoio illuminato da numerose torce. In due nicchie laterali, erano grandi giare colme fino all’orlo di monete d’argento. Quando fummo al centro del corridoio l’Imperatore pronunciò la parola che non deve essere pronunciata, e una porta di granito si spalancò, mossa da un congegno segreto, ed egli si coprì con le mani gli occhi per timore che rimanessero abbacinati.
Non puoi immaginare che luogo stupendo era quello. C’erano enormi gusci di tartaruga pieni di perle, e pietre di luna scavate colme di rubini rossi. In cofani di pelle d’elefante era ammucchiato l’oro, e la polvere d’oro in anfore panciute. Entro coppe dicristallo e di giada scintillavano opali e zaffiri. Verdi smeraldi rotondi erano allineati su piatti d’avorio, e in un angolo turchesi e berilli riempivano grosse borse di seta. Dentro corni d’avorio erano ammassate ametiste violacee, e dentro corni d’ottone calcedonie e sarde. Alle colonne di cedro erano appese file di pietre chiamate occhio di lince. Entro scudi piatti e ovali c’erano carbonchi color vino e color erba. E non ti sto dicendo che una minima parte di ciò che vidi.
Toltesi le mani dal viso, l’Imperatore mi disse: “Questa è la mia stanza del tesoro, e metà di quello che vedi è tuo, come ti ho promesso. Ti darò inoltre cammelli e cammellieri, pronti ai tuoicenni, che porteranno la tua parte del tesoro in qualsiasi angolo della terra tu desideri andare. E questo deve accadere stanotte, perché non voglio che mio padre, il Sole, si accorga che nella mia città c’è un uomo che io non posso uccidere”.
Ma io risposi: “L’oro che giace in questa stanza è tuo, e così pure l’argento, e tutte le altre gemme preziose. Quanto a me, io non ne ho bisogno. Io non ti chiedo nient’altro che quel piccolo anello che porti al dito”.
E l’Imperatore trasalì. “E solo un piccolo anello di piombo”, esclamò. “Non ha nessun valore. Prenditi la metà del tesoro e vattene dalla mia città”.
“No”, replicai, “io non prenderò altro che quell’anello di piombo, perché so cosa reca scritto dentro, e a cosa serve”.
E l’Imperatore tremò, e mi supplicò: “Prendi tutto il tesoro e lascia la mia città. Anche la mia metà sarà tua”.
E feci una cosa strana, ma che cosa feci esattamente non importa, perché in una grotta che è a solo un giorno di viaggio da qui ho nascosto l’Anello della Ricchezza. Non è che a un giorno diviaggio da qui, e aspetta solo il tuo arrivo. Colui che possiede quell’anello è più ricco di tutti i re del mondo. Vieni dunque e prendilo, e tutte le ricchezze del mondo saranno tue».
Ma il giovane Pescatore rise. «L’Amoreè meglio della Ricchezza», gridò, «e la piccola Sirena mi ama».
«No, non c’è nulla che sia meglio della Ricchezza», disse l’Anima.
«L’Amore è meglio», rispose il giovane Pescatore, e si tuffò nel profondo, e l’Anima s’allontanò piangendo attraverso le paludi.
E quando il terzo anno fu trascorso, l’Anima scese sulla spiaggia, e chiamò il giovane Pescatore, ed egli salì su dal profondo, e disse: «Perché mi chiami?».
E l’Anima gli disse: «Vieni più vicino, perché io possa parlare con te delle stupende cose che ho veduto».
Ed egli si fece più vicino, e si sdraiò nell’acqua bassa, e appoggiato il capo alla mano stette ad ascoltare.
E l’Anima gli disse: «In una città che conosco c’è una locanda, proprio in riva a un fiume. Io me ne stavo là con dei marinai che bevevano vino di vario colore, e mangiavano pane d’orzo e piccoli pesci salati serviti entro foglie d’alloro con aceto. E mentre ce ne stavamo lì seduti in allegria, entrò un vecchio che portava un tappeto di pelle e un liuto con due corni d’ambra. E quand’egli ebbe disteso il tappeto sul pavimento, toccò con un plettro le corde metalliche del suo liuto, e una fanciulla dal volto velato entrò correndo e incominciò a danzare per noi. Un velo di garza velava il suo volto, ma i suoi piedi erano nudi. Nudi erano i suoi piedi, e si muovevano sul tappeto come minuscoli piccioni bianchi. Mai ho veduto qualcosa di così stupendo, e la città in cui ella danza è a solo un giorno di viaggio da qui».
Quando il giovane Pescatore udì queste ultime parole della sua Anima, si ricordò che la piccola Sirena non aveva piedi e non poteva danzare. E un grande desiderio lo invase, ed egli si disse: “E a solo un giorno di viaggio, e tornerò subito dal mio amore”, e rise, e si levò in piedi nell’acqua bassa, e s’incamminò verso la spiaggia.
E quando fu sulla spiaggia asciutta rise nuovamente, e tese le braccia alla sua Anima. E la sua Anima gettò un gran grido di gioia e gli corse incontro, ed entrò in lui, e il giovane Pescatore vide allungata dinnanzi a lui sopra la sabbia quell’ombra del corpo che è il corpo dell’Anima.
E la sua Anima gli disse: «Non indugiamo, ma andiamo subito là, perché gli Dei del mare sono gelosi, e hanno mostri al loro servizio».
Così si affrettarono, e per tutta la notte viaggiarono sotto la luna, e tutto il giorno viaggiarono sotto il sole, e a sera giunsero alle porte di una città.
E il giovane Pescatore chiese alla sua Anima: «È questa la città dove danza colei di cui mi hai parlato?».
E la sua Anima gli rispose: «Non è questa la città, è un’altra. Ma entriamo ugualmente».
Così entrarono, e passarono per molte strade, e quando passarono per la Strada dei Gioiellieri il giovane Pescatore vide una coppa d’argento esposta in una bottega. E l’Anima gli disse: «Prendi quella coppa d’argento e nascondila».
Ed egli prese la coppa e la nascose nelle pieghe della tunica, e uscirono in fretta dalla città.
E quando furono a una lega di distanza dalla città, il giovane Pescatore si adombrò e scagliò via la coppa, domandando all’Anima: «Perché mi hai detto di prendere quella coppa e di nasconderla? Non era una cattiva azione?».
Ma l’Anima gli rispose: «Non darti pena, sta’ in pace».
E la sera del secondo giorno giunsero a una città, e il giovane Pescatore chiese alla sua Anima: «È questa la città dove danza colei di cui mi hai parlato?».
E l’Anima gli rispose: «Non è questa la città, è un’altra. Ma entriamo ugualmente».
Così entrarono, e passarono per molte strade, e quando passarono per la Strada dei Venditori di Sandali, il giovane Pescatore vide un fanciullo ritto accanto a una giara d’acqua.
E l’Anima gli disse: «Colpisci quel fanciullo».
Ed egli colpì il fanciullo finché questi non si mise a piangere, e uscirono in fretta dalla città.
E quando furono a una lega di distanza dalla città, il giovane Pescatore si adirò, e chiese all’Anima: «Perché mi hai detto di colpire quel fanciullo? Non era una cattiva azione?».
Ma l’Anima gli rispose: «Non darti pena, sta’ in pace».
E la sera del terzo giorno, giunsero a una città, e il giovane Pescatore chiese alla sua Anima: «E questa la città dove danza colei di cui mi hai parlato?».
E l’Anima gli rispose: «Può darsi che sia questa, quindi entriamo».
Così entrarono, e passarono per molte strade, ma in nessun luogo il giovane Pescatore riuscì a trovare né il fiume né la locanda sulla sua riva. E la gente della città lo guardava incuriosita, edegli ebbe paura e disse alla sua Anima: «Andiamo via di qui, poiché non troviamo la danzatrice dai piedi d’argento».
Ma l’Anima gli rispose: «No, fermiamoci, perché la notte è buia, e sulla strada saranno appostati i banditi».
E lo fece sedere sulla piazza del mercato, e poco dopo passò di lì un mercante incappucciato che indossava un mantello di panno di Tartaria e un bastone nodoso con una lanterna di corno appesa in cima. E il mercante gli chiese: «Perché te ne stai lì seduto sulla piazza del mercato, se tutte le botteghe sono chiuse e le casse legate?».
E il giovane Pescatore gli rispose: «Non riesco a trovare una locanda, e non ho parenti che possano ospitarmi».
«Non siamo forse tutti parenti?», disse il mercante. «Non ci ha creati tutti un solo Dio? Vieni con me, dunque, perché ho una camera in cui ospitarti».
Così il giovane Pescatore si levò e seguì il mercante a casa sua. E quando ebbe attraversato un giardino di melograni e fu entrato in casa, il mercante gli versò in un piatto di rame dell’acqua di rosa perché potesse lavarsi le mani, e meloni maturi per dissetarsi, e gli pose davanti una ciotola di riso e una porzione di capretto arrostito.
E dopo che si fu rifocillato, il mercante lo condusse nella camera degli ospiti, e lo invitò a dormire e a riposarsi. E il giovane Pescatore lo ringraziò, e baciò l’anello che l’uomo portava al dito, e si sdraiò sui tappeti di pelo di capra dipinto. Infine, copertosi con una coltre di lana d’agnello nera, si addormentò.
E tre ore prima dell’alba, quando ancora era notte, l’Anima lo svegliò e gli disse: «Alzati e va’ nella camera del mercante, quella dove dorme, e uccidilo, e portagli via tutto il suo oro, perché ne abbiamo bisogno».
E il giovane Pescatore si alzò e sgusciò furtivo nella camera del mercante; ai piedi di lui che dormiva era posata una sciabola, e su un vassoio a fianco del letto nove borse piene d’oro. Ed egli allungò la mano verso la sciabola, ma l’aveva appena sfiorata che il mercante sussultò e si svegliò e, balzato in piedi, afferrò lui la sciabola e gridò al giovane Pescatore: «Ricambi tu dunque il bene con il male, e con lo spargimento di sangue la mia generosità?».
E l’Anima disse al giovane Pescatore: «Colpiscilo!».
Ed egli lo colpì fino a farlo venir meno, poi afferrò le nove borse d’oro e fuggì rapido attraverso il giardino dei melograni, e volse il viso verso la stella che chiamano la stella del mattino.
E quando furono a una lega di distanza dalla città, il giovane Pescatore si batté il petto, e disse all’Anima: «Perché mi hai detto di uccidere il mercante e rubargli l’oro? Di certo tu sei malvagia».
Ma l’Anima gli rispose: «Non darti pena, sta’ in pace».
«No», rispose il giovane Pescatore, «non posso stare in pace, perché odio tutto ciò che mi hai fatto fare. Odio anche te, e ti ordino di dirmi perché mi hai costretto ad agire in questo modo».
E l’Anima gli rispose: «Quando tu mi cacciasti via da te mi mandasti per il mondo senza darmi il cuore, e così ho imparato a fare tutte queste cose e ad amarle».
«Che vai dicendo?», mormorò il giovane Pescatore.
«Tu sai quel che dico», rispose l’Anima, «lo sai bene. Hai scordato che non mi desti il cuore? Penso di no. Quindi non darti pena né per te né per me, ma sta’ in pace, giacché non c’è pena che tu non arrecherai, né piacere che non riceverai».
E quando il giovane Pescatore udì queste ultime parole della sua Anima, tremò e le disse: «Ah, tu sei davvero malvagia, e mi hai fatto dimenticare il mio amore, e mi hai lusingato di tentazioni e hai diretto i miei passi sulla via del peccato».
E l’Anima gli rispose: «Hai scordato che quando mi mandasti per il mondo non mi desti il cuore. Vieni, andiamo in un’altra città, e divertiamoci, poiché abbiamo nove borse d’oro».
Ma il giovane Pescatore prese le nove borse d’oro e le scaraventò a terra, e le calpestò. «No!», gridò. «Io non voglio aver più nulla a che fare con te, e non voglio andare con te da nessuna parte, ma come ti ho mandata via una volta ti manderò via ora, perché con me sei stata crudele». E volta la schiena alla luna, col piccolo coltello dal manico in pelle di vipera verde si diede a tagliar via dai suoi piedi l’ombra del corpo che è il corpo dell’Anima.
Ma l’Anima non si scostò dal suo fianco, né si curò del suo comando, e gli disse: «Il sortilegio della Strega non può più giovarti, perché io non posso separarmi da te, e tu non puoi cacciarmi via. Una sola volta nella vita un uomo può mandar via la sua Anima, ma colui che l’accoglie di nuovo dovrà tenerla per sempre con sé, e questa è la sua punizione e la sua ricompensa».
Il giovane Pescatore impallidì e, torcendosi le mani, disse: «Falsa fu dunque la Strega, a non dirmi questo».
«No», rispose l’Anima, «fu fedele a Colui che adora, e che sempre servirà».
E quando il giovane Pescatore capì che non avrebbe potuto più liberarsi della sua Anima, e che era un’Anima malvagia e avrebbe dimorato per sempre con lui, si abbandonò al suolo in un pianto disperato.
E quando spuntò il giorno il giovane Pescatore si levò e disse alla sua Anima: «Mi legherò le mani per non fare ciò che vuoi farmi fare, e chiuderò strette le labbra per non pronunciare le tue parole, e tornerò al luogo dove vive colei che amo. Al mare tornerò, e alla piccola baia dove lei va a cantare, la chiamerò e le dirò sia il male che ho fatto io sia quello che mi hai arrecato tu».
E l’Anima lo tentò e gli disse: «Chi è mai il tuo amore, che tu debba tornare a lei? Al mondo ce ne sono di molto più belle. Ci sono le danzatrici di Samaria, che danzano al modo degli uccelli e delle bestie. Hanno i piedi dipinti dihenne, e nelle mani campanellini di rame. Mentre danzano ridono di un riso chiaro come la spuma dell’acqua. Vieni con me, e te le mostrerò. Che senso ha questa tua preoccupazione per ciò che si chiama peccato? Le cosegradevoli al palato non son fatte per chi mangia? C’è forse del veleno in ciò che è dolce da bere? Non darti pena, e vieni con me in un’altra città. C’è una piccola città qui vicino, con un giardino di tulipani meraviglioso, in cui si aggirano pavoni bianchi e pavoni dal petto turchino. Le loro code, quando le dispiegano al sole, sono simili a dischi d’avorio dorato. Colei che li nutre danza per il loro piacere, talvolta sulle mani e talvolta sui piedi. I suoi occhi sono tinti di nero antimonio, e le nari han la forma di ali di rondine. Da una di esse pende un fiore intagliato in una perla. La danzatrice ride mentre muove i suoi passi, e gli anelli d’argento intorno alle sue caviglie tintinnano come campanelli. Dunque non darti pena, e vieni con me in quella città».
Ma il giovane Pescatore non rispose alla sua Anima, si chiuse le labbra col suggello del silenzio e con una corda si legò le mani, e s’incamminò per tornare donde era venuto, là alla piccola baiadove la sua amata soleva cantare. E la sua Anima non cessò di tentarlo lungo la via, ma egli non le diede risposta, e si rifiutò di fare tutte le malvagità cui ella tentava di piegarlo, tanto grande era la forza dell’amore che egli aveva dentro di sé.
E quando giunse sulla spiaggia, sciolse la corda che gli legava i polsi e si tolse dalle labbra il suggello del silenzio, e chiamò la piccola Sirena. Ma ella non venne al suo richiamo, per quanto egli la chiamasse e la supplicasse per tutto il giorno.
E l’Anima lo schernì e gli disse: «Davvero è ben misera cosa la gioia che tu hai da questo amore. Sei come uno che in tempo di carestia versi dell’acqua in una brocca infranta. Hai dato via ciò che avevi, e nulla ti è stato dato in cambio. È molto più vantaggioso per te seguirmi, perché io so dove si stende la Valle del Piacere, e tutto ciò che vi accade».
Ma il giovane Pescatore non rispose alla sua Anima, e nel cavo di una rupe si fabbricò una capanna di giunchi, e vi abitò per un anno intero. Ogni mattina chiamava la Sirena, e ogni mezzogiorno di nuovo la chiamava, e a notte invocava il suo nome. Ma lei non affiorò mai dal mare per andargli incontro, ed egli non la trovò in alcun punto del mare, benché la cercasse nelle grotte e nell’acqua verde, nelle pozze lasciate dall’alta marea e nelle sorgenti in fondo agli abissi.
E sempre l’Anima lo tentava con la sua perfidia, e gli sussurrava terribili cose. Ma non riusciva a vincerlo, tanto grande era la forza dell’amore.
E quando l’anno fu trascorso, l’Anima pensò fra sé: “Ho tentato il mio signore con la perfidia, e il suo amore è più forte. Ora lo tenterò con la bontà, e può essere che venga con me”.
Così si rivolse al giovane Pescatore e disse: «Ti ho narrato dei piaceri del mondo, e sei rimasto sordo alle mie parole. Permetti che ti narri del dolore del mondo, e può essere che tu mi dia ascolto. Poiché in verità è solo il dolore il Signore di questo mondo, e non c’è proprio nessuno che possa sfuggire alla sua rete. Ad alcuni mancano le vesti, ad altri il pane. Ci sono vedove con vesti di porpora, e vedove con vesti a brandelli. Su e giù per le paludi errano i lebbrosi, pieni di malanimo. I mendicanti vannosu e giù per le strade maestre, con le bisacce vuote. Per le vie della città vaga la Fame, e la Peste siede sulle porte. Vieni, andiamo ad alleviare questi mali, a impedire che avvengano. Tu indugi a richiamare la tua amata, e lei non risponde al tuo richiamo, ma cos’è mai l’amore per essere anteposto a una così alta missione?».
Ma il giovane Pescatore non rispose nulla, tanto grande era la forza del suo amore. E ogni mattina chiamava la Sirena, e ogni mezzogiorno di nuovo la chiamava, e a notte invocava il suonome. Ma lei non affiorò mai dal mare per andargli incontro, ed egli non la trovò in alcun punto del mare, benché la cercasse nei fiumi del mare, e nelle valli sotto le onde, nel mare che la notte fa violaceo, e nel mare che l’alba lascia grigio.
E quando il secondo anno fu trascorso, l’Anima disse al giovane Pescatore, una notte che egli se ne stava come sempre solo nella sua capanna di giunchi: «Ahimè, ti ho tentato con la perfidia econ la bontà, e il tuo amore è più forte di me. Perciò ora non ti tenterò più, ma ti prego di farmi rientrare nel tuo cuore, che io possa essere una cosa sola con te, come prima».
«Certo che puoi rientrare», disse il giovane Pescatore, «perché nei giorni in cui vagavi senza cuore per il mondo devi aver molto sofferto».
«Ahimè!», gemette l’Anima. «Non riesco a entrare, tanto questo tuo cuore è recinto dalla morsa dell’amore».
«Eppure vorrei poterti aiutare», disse il giovane Pescatore.
A quel punto un alto grido di dolore si levò dal mare, il grido che gli uomini odono quando una delle Creature Marine incontra la morte. E il giovane Pescatore balzò in piedi e uscì dalla sua capanna di giunchi e corse alla spiaggia. E le onde tenebrose si precipitarono sul lido recando con sé un fardello più bianco dell’argento. Bianco come la spuma era, e come un fiore fluttuava sulle onde. E la risacca lo tolse alle onde, e la spuma alla risacca, e la spiaggia lo accolse, e il giovane Pescatore vide ai suoi piedi il corpo della piccola Sirena. Morto ai suoi piedi esso giaceva.
Piangendo come chi è distrutto dalla pena, egli si lasciò cadere accanto a lei, e baciò il freddo scarlatto della bocca, e accarezzò l’ambra bagnata della chioma. Si lasciò cadere accanto a lei sulla sabbia, piangendo come chi trema di gioia, e fra le braccia brune la strinse al petto. Fredde erano le sue labbra, eppure egli le baciava. Sale era il miele dei capelli, eppure egli lo gustava conamara gioia. Baciava le palpebre chiuse, e le gocce stillanti sulle loro coppe erano meno salate delle sue lacrime.
E alla morta creatura egli si confessò. Nelle conchiglie delle sue orecchie versò l’aspro vino della sua storia. Pose le fragili mani intorno al collo, e con le dita toccò lo stelo sottile della gola.Amara, amara era la sua gioia, e piena di strano godimento la sua pena.
Il mare color della tenebra si faceva più vicino, e la candida spuma gemeva come un lebbroso. Bianchi artigli di spuma il mare allungava sul lido. Dal palazzo del Re del Mare di nuovo risuonò il grido di dolore, e lontano, al largo, i grossi Tritoni soffiarono cupamente nei loro corni.
«Fuggi», incitò l’Anima, «perché sempre più vicino si fa il mare, e se tu resti ti ucciderà. Fuggi lontano, perché ho paura, vedendo il tuo cuore chiuso a me per la forza smisurata del tuoamore. Fuggi lontano, in un luogo sicuro. Non vorrai mandarmi senza cuore anche nell’altro mondo?».
Ma il giovane Pescatore non ascoltava la sua Anima, invocava la piccola Sirena e le diceva: «L’Amore è migliore della saggezza, e più prezioso della ricchezza, e più bello dei piedi delle figlie dell’uomo. Non possono distruggerlo i fuochi, né spegnerlo leacque. Ti ho chiamata all’alba, e non sei venuta al mio richiamo. La Luna udiva il tuo nome, eppure tu non mi davi risposta. Perché perfidamente ti avevo lasciata e a mio danno ero andato vagando lontanò. Eppure sempre il tuo amore è resistito in me, è sempre stato forte, e nulla l’ha mai potuto abbattere, sia che io mi volgessi al male sia che mi volgessi al bene. E ora che sei morta,voglio morire anch’io con te».
E l’Anima lo supplicò di fuggire di lì, ma egli non voleva, tanto grande era il suo amore. E il mare si faceva più vicino, e cercava di coprirlo con le sue onde, e quando egli capì che stava giungendo la fine baciò con folli baci le fredde labbra della Sirena, e il cuore che era in lui si spezzò. Ed ecco, nell’istante in cui il suo cuore per l’empito del suo amore si spezzava, l’Anima trovò un accesso ed entrò, e fu una cosa sola con lui come prima. E il mare coprì con le sue onde il corpo del giovane Pescatore.
E al mattino il Sacerdote uscì per benedire il mare, che era stato agitato. E lo seguivano monaci e musici, portatori di ceri e agitatori di turiboli, e molta altra gente.
E quando il Sacerdote giunse sulla spiaggia vide il giovane Pescatore che giaceva morto nella risacca stringendo fra le braccia il corpo della piccola Sirena. Ed egli si ritrasse turbato, e fattosi il segno della croce, gridò forte: «Non benedirò il mare né alcuna cosa che lo abiti. Maledette siano le Creature Marine, e maledetti tutti coloro che hanno rapporti con quella stirpe. E quanto a lui che per amore rinnegò Dio, e ora giace qui con la sua amata uccisa per decreto di Dio, prendete il suo corpo e quello della sua amata, e seppelliteli nell’angolo del Campo dei Pagani, e non mettetevi alcuna croce sopra, né alcun segno di sorta, che nessuno sappia il luogo della loro sepoltura. Poiché maledetti furono invita, e maledetti saranno pure in morte».
E i suoi uomini fecero come egli ordinava, e in un angolo del Campo dei Pagani dove non crescevano erbe odorose scavarono una fossa profonda, e vi deposero le morte creature.
E quando il terzo anno fu trascorso, in un giorno che era un giorno santo, il Sacerdote si recò alla cappella, per mostrare alla gente le piaghe del Signore e parlare dell’ira di Dio.
E quando ebbe indossato i paramenti sacri e fu entrato, inginocchiatosi davanti all’altare lo trovò ricoperto di strani fiori che non s’erano mai veduti prima d’allora. Strani erano a vedersi, e di una singolare bellezza, e la loro bellezza lo turbò e il loro profumo lostordì di dolcezza. Ed egli si sentì invadere da una gioia di cui non sapeva darsi ragione.
E dopo che ebbe aperto il tabernacolo e cosparso d’incenso l’ostensorio che vi era dentro e mostrata ai fedeli la bianca ostia, nascostala di nuovo dietro il velo dei veli, iniziò il suo sermone, con l’intento di parlare dell’ira di Dio. Ma la bellezza dei candidi fiori lo turbava, e il loro profumo lo stordiva di dolcezza, e altre parole vennero alle sue labbra, e non parlò dell’ira di Dio, ma del Dio il cui nome è Amore. E perché così parlasse non sapeva.
E quand’ebbe finito il suo sermone la gente piangeva, e il Sacerdote tornò alla sacrestia con gli occhi gonfi di lacrime. E i diaconi entrarono a togliergli i paramenti, e gli levarono il camice e la fascia, il manipolo e la stola. Ed egli era immobile e trasognato.
E quando gli ebbero tolti i paramenti, egli li guardò e disse: «Che fiori sono quelli che stanno sull’altare, e da dove vengono?».
Ed essi gli risposero: «Che fiori siano non sappiamo dirlo, ma vengono dall’angolo del Campo dei Pagani». E il Sacerdote tremò, e tornò a casa e s’inginocchiò in preghiera.
E al mattino, mentre albeggiava ancora, egli uscì seguito da monaci e musici, portatori di ceri e agitatori di turiboli, e con molta altra gente andò sulla spiaggia, e benedisse il mare e tutti gli esseri selvaggi che vi si trovano. Anche i Fauni benedisse, e le piccole creature che danzano nella foresta, e quelle dagli occhi luminosi che ammiccano tra le foglie. Tutte le cose del mondo di Dio benedisse, e la gente era colma di gioia e di meraviglia. Eppure mai più nell’angolo del Campo dei Pagani spuntarono fiori di sorta, e il campo rimase arido com’era sempre stato. Né vennero le Creature Marine nella baia, come in passato solevano, perché se ne andarono in un’altra parte del mare.

Illustrazione di M. C. Burd (1873-1933)