giovedì 22 dicembre 2022

Jacques Prévert è un imbecille Estratto da "Interventi" di Michel Houellebecq

 


Jacques Prévert è un imbecille

Estratto da "Interventi" di Michel Houellebecq

[...] Jacques Prévert scrive, è perché ha qualcosa da dire; e ciò va tutto a suo onore. Purtroppo, però, quel che ha da dire è di una stupidità senza limiti, al punto da dare talvolta la nausea. Ci sono graziose ragazze nude, borghesi che sanguinano come maiali sgozzati. I bambini sono di una simpatica immoralità, i mascalzoni seducenti e virili, le graziose ragazze nude offrono il proprio corpo ai mascalzoni; i borghesi sono anziani, obesi, impotenti, insigniti della Legion d’onore e con mogli frigide; i parroci sono vecchi bruchi disgustosi che hanno inventato il peccato per impedirci di vivere. Conosciamo bene tutto questo. È preferibile Baudelaire. [...]

L’articolo è uscito nel numero 22 (luglio 1992) di “Les Lettres françaises”, ed è stato ripubblicato in Interventions (Flammarion, 1998) e Interventions 2 (Flammarion, 2009).

Jacques Prévert è uno di cui s’imparano le poesie a scuola. E s’impara che gli piacevano i fiori, gli uccelli, i quartieri della vecchia Parigi ecc. A lui l’amore sembrava sbocciare in un’atmosfera di libertà; più in generale, non nascondeva di preferire la libertà. Indossava un berretto e fumava Gauloises; a volte lo si confonde con Jean Gabin. Del resto è stato lui a scrivere la sceneggiatura di Il porto delle nebbie (Le Quai des brumes), Mentre Parigi dorme (Les Portes de la nuit) ecc. Ha scritto anche la sceneggiatura di Amanti perduti (Les Enfants du paradis), considerata il suo capolavoro. Il che costituisce un motivo più che sufficiente per detestare Jacques Prévert; soprattutto se si leggono le sceneggiature mai tradotte in immagini che Antonin Artaud scriveva negli stessi anni. È triste constatare che il ripugnante realismo poetico di cui Prévert fu il principale artefice continui a far danni, e che si pensi di fare un favore a Leos Carax collegandolo a Prévert (per cui Rohmer diventerebbe automaticamente un nuovo Guitry ecc.). Di fatto, il cinema francese non si è mai risollevato dall’avvento del sonoro; e finirà, ce lo auguriamo, per rimetterci la pelle.

Nel dopoguerra, più o meno ai tempi di Jean-Paul Sartre, Jacques Prévert ha riscosso un enorme successo, e molti, loro malgrado, sono stati conquistati dall’ottimismo di quella generazione. Oggi, il pensatore più influente è se mai Cioran. All’epoca invece imperversavano Vian, Brassens... Gli innamorati che si sbaciucchiano sulle panchine pubbliche,1 il baby boom, l’edilizia popolare a tutto spiano, giusto per dare una casa a quelle particolari categorie di persone. Tanto ottimismo, tanta fiducia nel futuro, e un po’ di ottusità. Evidentemente, oggi siamo diventati molto più intelligenti.

Con gli intellettuali, Prévert ha avuto meno fortuna. Le sue poesie traboccano di quegli stupidi giochi di parole che piacevano tanto a Bobby Lapointe; è pur vero che la canzone è un genere minore, e che anche l’intellettuale deve rilassarsi. Basta però avvicinarsi al testo scritto, suo vero mezzo di sussistenza, per coglierne la mancanza di interesse. In Prévert, il “lavoro del testo” rimane approssimativo: scrive sì con chiarezza e naturalezza, a tratti anche con emozione; ma non s’interessa né alla scrittura né all’impossibilità di scrivere: la sua grande fonte d’ispirazione è piuttosto la vita. Per cui, sostanzialmente, Prévert non sarebbe mai stato oggetto di alcuna tesi di dottorato. Eppure oggi Prévert entra nella “Pléiade”, il che rappresenta una seconda morte. La sua opera è lì, completa e fissata nel tempo. E offre un’ottima occasione per chiedersi: perché la poesia di Prévert è così mediocre, talmente mediocre che, leggendola, si prova talvolta una sorta di vergogna? La classica spiegazione (perché la sua scrittura “manca di rigore”) si rivela ingannevole; tramite i suoi giochi di parole, il suo ritmo leggero e limpido, Prévert, in realtà, esprime perfettamente la sua concezione del mondo. La forma è coerente con il contenuto, che è poi il massimo che si possa pretendere da una forma. D’altronde, quando un poeta s’immerge a tal punto nella vita, nella vera vita del suo tempo, il giudicarlo in base a criteri puramente stilistici sarebbe per lui come un affronto. Se Jacques Prévert scrive, è perché ha qualcosa da dire; e ciò va tutto a suo onore. Purtroppo, però, quel che ha da dire è di una stupidità senza limiti, al punto da dare talvolta la nausea. Ci sono graziose ragazze nude, borghesi che sanguinano come maiali sgozzati. I bambini sono di una simpatica immoralità, i mascalzoni seducenti e virili, le graziose ragazze nude offrono il proprio corpo ai mascalzoni; i borghesi sono anziani, obesi, impotenti, insigniti della Legion d’onore e con mogli frigide; i parroci sono vecchi bruchi disgustosi che hanno inventato il peccato per impedirci di vivere. Conosciamo bene tutto questo. È preferibile Baudelaire. O persino Karl Marx, il quale, almeno, non sbaglia bersaglio quando scrive che “il trionfo della borghesia ha affogato nelle acque gelide del calcolo egoistico i sacri fremiti dell’estasi religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco e del sentimentalismo da due soldi”.2 L’intelligenza non aiuta affatto a scrivere belle poesie, tuttavia può evitare di scriverne di pessime. Se Jacques Prévert è un cattivo poeta è perché, innanzitutto, la sua visione del mondo è piatta, superficiale e falsa. Falsa com’era già falsa all’epoca; oggi la sua nullità è addirittura abbagliante, tanto che l’intera opera di Jacques Prévert sembra lo sviluppo di un gigantesco cliché. Sul piano filosofico e politico, lui è in primo luogo un libertario: vale a dire, in buona sostanza, un imbecille.

Nelle “acque gelide del calcolo egoistico” noi sguazziamo fin dalla più tenera infanzia. Possiamo venirci a patti, cercare di sopravviverci; possiamo pure lasciar correre. Ma resta inimmaginabile che la liberazione delle pulsioni del desiderio sia di per sé sola in grado di riscaldarci. Leggenda vuole che sia stato Robespierre a insistere per aggiungere la parola “fraternità” al motto della Repubblica; noi, oggi, siamo nelle condizioni di apprezzare pienamente quella leggenda. Prévert si riteneva sicuramente un partigiano della “fraternità”; ma Robespierre non era per nulla al mondo un avversario della virtù.

Amoureux qui se bécotent sur les bancs publics, verso della canzone di Georges Brassens Les amoureux des bancs publics (1954). (N.d.T.)

Le lotte di classe in Francia. (N.d.A.)