venerdì 2 dicembre 2022

LEGGERE KANT? RISPOSTA ALLA DOMANDA: CHE COS'È L'ILLUMINISMO Immanuel Kant



 LEGGERE KANT? 

Un giorno Eckermann, il segretario di Goethe, chiese al poeta quali opere di Kant avrebbe dovuto leggere per avvicinarsi alla filosofia critica. La  risposta di Goethe fu: nessuna. Eckermann rimase confuso e meravigliato della risposta; ma Goethe spiegò che quanto gli serviva della filosofia kantiana lo conosceva già, anche senza rendersene conto, perché patrimonio comune della cultura tedesca.(*) Allora non serve leggere Kant? Credo invece che serva perché Kant è uno dei più citati, dei più criticati e dei più maltrattati, ma anche dei meno compresi. Sto leggendo Kant. E mi accorgo che troppo spesso le filosofie del passato vengono proposte come reperti  archelogici fossili senza vita, senza considerare che possono vivere ancora nel nostro presente, aiutandoci a porci domande e darci risposte. Un piccolo esempio?

 “La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo affrancati dall'eterodirezione (naturaliter maiorennes), tuttavia rimangono volentieri minorenni per l'intera vita e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. E' tanto comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero per me.” (**)

(*)Eckerman JP "Conversazioni con Goethe negli ultimi anni della sua vita". Einaudi (2008)

(**) “Risposta alla domanda: "Che cos'è l'illuminismo?" Immanuel Kant

RISPOSTA ALLA DOMANDA: CHE COS'È L'ILLUMINISMO?

Immanuel Kant 

L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità di cui egli stesso è colpevole. Minorità è l’incapacità di servirsi della propria intelligenza senza la guida di un altro. Colpevole è questa minorità, se la sua causa non dipende da un difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi di essa senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo dunque è il motto dell’illuminismo.

Pigrizia e viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo liberati dall’altrui guida (naturaliter maiorennes), rimangono tuttavia volentieri minorenni a vita; e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. È così comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che valuta la dieta per me, ecc., non ho certo bisogno di sforzarmi da me. Non ho bisogno di pensare, se sono in grado di pagare: altri si assumeranno questa fastidiosa occupazione al mio posto. A far sì che la stragrande maggioranza degli uomini (e fra questi tutto il gentil sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, si preoccupano già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro. Dopo averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste placide creature osassero muovere un passo fuori dal girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo descrivono ad esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole. Ora, tale pericolo non è poi così grande, poiché, a prezzo di qualche caduta, essi alla fine imparerebbero a camminare: ma un esempio di questo tipo provoca comunque spavento e, di solito, distoglie da ogni ulteriore tentativo.

È dunque difficile per il singolo uomo tirarsi fuori dalla minorità, che per lui è diventata come una seconda natura. È giunto perfino ad amarla, e di fatto è realmente incapace di servirsi della propria intelligenza, non essendogli mai stato consentito di metterla alla prova. Precetti e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale, o piuttosto di un abuso, delle sue disposizioni naturali, sono i ceppi di una permanente minorità. Se pure qualcuno riuscisse a liberarsi, non farebbe che un salto malsicuro anche sopra il fossato più stretto, non essendo allenato a camminare in libertà. Quindi solo pochi sono riusciti, lavorando sul proprio spirito a districarsi dalla minorità camminando, al contempo, con passo sicuro.

Che invece un pubblico si rischiari da se, è cosa più possibile; e anzi, se gli si lascia la libertà, è quasi inevitabile. Poiché, perfino fra i tutori ufficiali della grande massa, ci sarà sempre qualche libero pensatore che, liberatosi dal giogo della minorità, diffonderà lo spirito di una stima razionale del proprio valore e della vocazione di ogni essere umano a pensare da sé. E il particolare sta in ciò: che il pubblico, il quale in un primo tempo è stato posto da costoro sotto quel giogo, li obbliga poi esso stesso a rimanervi quando sia a ciò istigato da quei suoi tutori incapaci a loro volta di un compiuto rischiaramento; perciò, seminare pregiudizi è tanto nocivo: perché essi si ritorcono contro chi vi crede e chi vi ha creduto. Per questa ragione, un pubblico può giungere al rischiaramento solo lentamente. Forse attraverso una rivoluzione potrà determinarsi l’affrancamento da un dispotismo personale e da un’oppressione assetata di guadagno o di potere, ma non avverrà mai una vera riforma del modo di pensare. Al contrario: nuovi pregiudizi serviranno, al pari dei vecchi, da dande per la grande folla di coloro che non pensano.

A questo rischiaramento, invece, non occorre altro che la libertà; e precisamente la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma sento gridare da ogni lato: non ragionate! L’ufficiale dice: non ragionate, fate esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non ragionate, pagate! L’ecclesiastico: non ragionate, credete! (Un unico signore al mondo dice: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete, ma obbedite!) Qui c’è restrizione alla libertà dappertutto. Ma quale restrizione è d’ostacolo all’illuminismo, e quale invece non lo è, piuttosto lo favorisce? Io rispondo: il pubblico uso della propria ragione deve essere libero in ogni tempo, ed esso solo può realizzare il rischiaramento tra gli uomini; al contrario, l’uso privato della ragione può essere spesso limitato in modo stretto, senza che il progresso del rischiaramento venga da questo particolarmente ostacolato. Intendo per uso pubblico della propria ragione l’uso che uno ne fa, in quanto studioso, davanti all’intero pubblico dei lettori. Chiamo invece uso privato della ragione quello che ad un uomo è lecito esercitare in un certo ufficio o funzione civile a lui affidato. Ora, in alcune attività che riguardano l’interesse della cosa comune è necessario un meccanismo tale per cui alcuni membri di essa devono comportarsi in modo puramente passivo, così che il governo, tramite un’armonia artefatta, diriga costoro verso pubblici scopi, o almeno li induca a non contrastare tali scopi. Qui non è certamente consentito ragionare; al contrario, si deve obbedire. Ma nella misura in cui queste parti della macchina si considerano, allo stesso tempo, membri dell’intera cosa comune, e anzi persino della società cosmopolitica, e assolvono quindi la funzione dello studioso nel senso proprio della parola il quale, attraverso i suoi scritti, si rivolge a un pubblico, essi possono certamente ragionare, senza perciò danneggiare le attività che svolgono in quanto membri passivi. Così sarebbe assai dannoso che un ufficiale in servizio, il quale avesse ricevuto un ordine dal suo superiore, volesse ragionare in pubblico sulla opportunità di tale ordine, o sulla sua utilità: egli deve obbedire. Ma non si può di diritto impedirgli, in qualità di studioso, di fare le sue osservazioni sugli errori del servizio militare e di sottoporle al giudizio del suo pubblico. Il cittadino non può rifiutarsi di pagare le tasse che gli sono imposte; e, anzi, una critica inopportuna di tali imposizioni quando devono essere da lui assolte, può venir punita come uno scandalo (poiché potrebbe indurre a ribellioni generali). Tuttavia, egli non agisce contro il suo dovere di cittadino se, come studioso, manifesta pubblicamente il suo pensiero sull’inadeguatezza e persino sull’ingiustizia di simili imposizioni. Così, un ecclesiastico è tenuto a insegnare il catechismo agli allievi e alla sua comunità in modo conforme al simbolo della chiesa che egli serve, essendo stato assunto per questo: ma come studioso egli ha piena libertà e anzi il compito di condividere con il pubblico tutti i pensieri che un esame attento e proposto con buone intenzioni gli ha suggerito sui difetti di quel simbolo, incluse le sue proposte di riforma in cose di religione e di chiesa. Qui non c’è nulla sulla cui base incolpare la coscienza. Infatti, ciò che costui insegna nel suo lavoro, in qualità di funzionario della chiesa, egli lo presenta come qualcosa intorno a cui non ha libertà di insegnare secondo le sue proprie idee, ma secondo le disposizioni e nel nome di un altro. Egli dirà: «la nostra chiesa insegna questo e quest’altro, e queste sono le prove di cui essa si serve». Dunque, egli ricava tutta l’utilità pratica che alla sua comunità religiosa può derivare da affermazioni che egli stesso non sottoscriverebbe con piena convinzione, ma al cui insegnamento può comunque impegnarsi perché non è affatto impossibile che in essi non si celi qualche velata verità, e in ogni caso, almeno, non si riscontra in essi nulla che contraddica alla religione interiore. Se invece credesse di trovarvi qualcosa che vi contraddica, egli non potrebbe esercitare la sua funzione con coscienza; dovrebbe dimettersi. L’uso che un insegnante fa della propria ragione nel proprio lavoro, davanti alla sua comunità di fedeli è dunque solo un uso privato; e ciò perché quella comunità, per quanto grande sia, è sempre soltanto una assemblea domestica; e a questo riguardo egli, in qualità di sacerdote, non è libero e non può neppure esserlo, poiché esegue un incarico altrui. Invece, in qualità di studioso che parla attraverso scritti al pubblico propriamente detto, vale a dire al mondo, dunque in qualità di ecclesiastico nell’uso pubblico della propria ragione, egli gode di una libertà illimitata di valersi della propria ragione e di parlare in prima persona. Che i tutori del popolo (nelle cose religiose) debbano a loro volta rimanere minori a vita, è un’assurdità che tende a perpetuare nuove assurdità.

Ma una società di religiosi, ad esempio un’assemblea di chiesa o una “venerabile classe” (come viene definita dagli olandesi), avrebbe forse il diritto di obbligare se stessa tramite giuramento a un certo simbolo religioso immutabile, per esercitare in tal modo sopra ciascuno dei suoi membri, e attraverso questi sul popolo, una tutela continua, e addirittura per rendere questa tutela eterna? Io dico: ciò è affatto impossibile. Un tale contratto, che sarebbe stato concluso al fine di tenere l’umanità per sempre lontana da ogni ulteriore rischiaramento, è assolutamente nullo; e dovrebbe esserlo anche se a sancirlo fossero stati il potere sovrano, le Diete imperiali e i più solenni trattati di pace. Un’epoca non può impegnarsi e così adoperarsi nel porre la successiva in una condizione che la metta nell’impossibilità di estendere le sue conoscenze (soprattutto quelle tanto indispensabili), di emendarsi dagli errori e, in generale, di progredire nel rischiaramento. Questo sarebbe un crimine contro la natura umana, la cui originaria destinazione consiste proprio in questo progredire; e quindi le generazioni successive sono perfettamente legittimate a respingere tali deliberazioni come illecite e delittuose. La pietra di paragone di tutto ciò che può imporsi a un popolo come legge, sta in questa domanda: se un popolo potrebbe imporre a se stesso una tale legge. Ora, ciò sarebbe certo possibile, per così dire in attesa di una legge migliore e per un breve tempo determinato, al fine di introdurre un certo ordine; purché nel frattempo si lasci libero ogni cittadino, soprattutto l’uomo di chiesa, di fare, nella sua qualità di studioso, osservazioni pubbliche, cioè tramite scritti, sui difetti dell’istituzione vigente, mentre permanga l’ordine costituito, finché non si sia pubblicamente affermata e dimostrata valida una prospettiva in merito a tali cose che, con l’unione dei voti dei cittadini (anche se non di tutti), sia in grado di presentare al sovrano una proposta conforme alle loro idee che abbia trovate d’accordo quelle comunità in favore di un mutamento in meglio della costituzione religiosa, e senza pregiudizio per quelle comunità che invece scegliessero di restare fedeli alla tradizione. Ma riunirsi, fosse anche soltanto per la durata della vita di un uomo, sotto una costituzione religiosa immutabile che nessuno possa pubblicamente porre in dubbio, e con ciò annullare per così dire una fase cronologica del cammino dell’umanità verso il suo miglioramento e rendere questa fase sterile e per ciò stesso forse addirittura dannosa alla posterità, questo è assolutamente proibito. Certamente un uomo può rimandare il rischiaramento proprio, e anche in tal caso solo per un certo tempo, riguardo a ciò che è tenuto a sapere; ma rinunciarvi per sé e più ancora per i posteri, significa violare e calpestare i sacri diritti dell’umanità. Ora, quello che neppure un popolo può decidere circa se stesso, lo può ancora meno un monarca circa il popolo; infatti il suo prestigio legislativo si fonda precisamente sul fatto che riunisce nella sua la volontà generale del popolo. Purché egli badi che ogni vero o presunto miglioramento non contrasti con l’ordine civile, egli non può per il resto che lasciare liberi i suoi sudditi di fare quel che trovano necessario per la salvezza della loro anima. Ciò non lo riguarda affatto, mentre quel che lo riguarda è di impedire che l’uno ostacoli con la violenza l’altro nell’attività che costui, con tutti i mezzi che sono in suo potere, esercita in vista dei propri fini e per soddisfare le proprie esigenze. Il monarca reca detrimento alla sua stessa maestà se si immischia in queste cose ritenendo che gli scritti nei quali i suoi sudditi mettono in chiaro le loro idee siano passibili di controllo da parte del governo: sia ch’egli faccia ciò invocando il proprio intervento autocratico ed esponendosi al rimprovero: Caesar non est supra grammaticos; sia, e a maggior ragione, se egli abbassa il suo potere supremo tanto da sostenere il dispotismo spirituale di qualche tiranno del suo stato, contro tutti gli altri suoi sudditi.

Se dunque ora si domanda: «viviamo noi attualmente in un’età rischiarata?» Allora la risposta é: «no, bensì in un’età di rischiaramento». Che gli uomini presi assieme siano, per come stanno le cose, già in grado, o che possano anche solo essere posti in grado di valersi con sicurezza e bene della propria intelligenza in cose di religione, senza l’altrui guida, è una condizione da cui siamo ancora molto lontani. Ma che ad essi, adesso, sia comunque aperto il campo per lavorare ed emanciparsi verso tale stato, e che gli ostacoli alla diffusione del generale rischiaramento o all’uscita dalla minorità a loro stessi imputabile diminuiscano gradualmente, di ciò noi abbiamo invece segni evidenti. Riguardo a ciò, questa è l’età dell’illuminismo o il secolo di Federico.

Un principe che non trova indegno di sé dire che egli ritiene suo dovere non prescrivere niente agli uomini in cose di religione, bensì lasciare loro in ciò piena libertà, e che inoltre allontana da sé anche l’appellativo altezzoso della tolleranza, è illuminato egli stesso e si guadagna la gratitudine del mondo e dei posteri in quanto è lodato come colui che per primo emancipò il genere umano dalla minorità, perlomeno per quanto riguarda il governo, e ha lasciato ciascuno libero di servirsi della propria ragione, in tutto ciò che è affare di coscienza. Sotto di lui venerabili ecclesiastici, senza recar pregiudizio al loro dovere d’ufficio, propongono liberamente e pubblicamente all’esame del mondo, in qualità di studiosi, i loro giudizi e le loro vedute che qua o là si discostano dal simbolo tradizionale; e tanto più può farlo chiunque non è limitato da un dovere d’ufficio. Un tale spirito di libertà si espande anche verso l’esterno, perfino là dove esso deve scontrarsi contro barriere esteriori provocate da un governo che fraintende se stesso. Il governo infatti ha comunque davanti agli occhi un fulgido esempio che mostra che la pace pubblica e la concordia della cosa comune non hanno nulla da temere dalla libertà. Gli uomini lavorano da sé per uscire a poco a poco dalla rozzezza, se non ci si adopera intenzionalmente per trattenerveli.

Ho posto il punto fondamentale del rischiaramento, cioè dall’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso, specialmente nelle cose di religione: riguardo alle arti e alle scienze, infatti, i nostri signori non hanno alcun interesse a esercitare la tutela sopra i loro sudditi. Inoltre la minorità in cose di religione, fra tutte le forme di minorità, è la più dannosa ed anche la più umiliante. Ma il modo di pensare di un capo di stato che favorisca quel tipo di rischiaramento va ancora oltre, poiché egli comprende che perfino nei riguardi della legislazione da lui statuita non si corre pericolo a permettere ai sudditi da fare uso pubblico della loro ragione e di esporre pubblicamente al mondo le loro idee sopra un migliore assetto della legislazione stessa, perfino criticando apertamente quella esistente. Su questo abbiamo un fulgido esempio, e anche in ciò nessun monarca ha superato colui cui rendiamo onore.

Ma solo chi, illuminato egli stesso, non teme le ombre e dispone, al contempo, di un esercito numeroso e ben disciplinato a garanzia della pubblica pace, può affermare quello che invece una repubblica non può arrischiarsi a dire: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete; solamente obbedite! Così si mostra uno strano e inatteso andamento delle cose umane; come del resto anche in altri casi, a considerare questo andamento in grande, quasi tutto in esso sembra paradossale. Un maggiore grado di libertà civile sembra vantaggiosa per la libertà dello spirito del popolo, e tuttavia pone ad essa barriere invalicabili; un grado minore di libertà civile, al contrario, offre allo spirito lo spazio per svilupparsi secondo tutte le sue capacità. Quando dunque la natura abbia sviluppato sotto questo duro involucro il seme di cui essa si prende la più tenera cura, e cioè la tendenza e vocazione al libero pensiero: allora questo agisce a sua volta gradualmente sul modo di sentire del popolo (attraverso la qual cosa questo diventerà sempre più capace della libertà di agire), e alla fine addirittura sui princìpi del governo, il quale trova vantaggioso per sé trattare l’uomo, che ormai è più che una macchina, in modo conforme alla sua dignità.

Königsberg in Prussia, 30 settembre 1784




CHE COS'È L'ILLUMINISMO?

Michel Foucault


Ai nostri giorni, quando un giornale pone una domanda ai suoi lettori, lo fa per chiedere il loro parere su un tema su cui ognuno ha già la propria opinione: non c’è pericolo di imparare granché. Nel secolo XVIII si preferiva interrogare il pubblico su problemi su cui non si aveva ancora una risposta. Non so se fosse più efficace; era più divertente.

Fatto sta che, in virtù di questa abitudine, nel dicembre del 1784 un periodico tedesco, la “Berlinische Monatsschrift”, ha pubblicato una risposta alla domanda: Was ist Aufklärung? E questa risposta era di Kant.

Un testo minore, forse. Tuttavia, mi sembra che, con esso, entri discretamente nella storia del pensiero una questione a cui la filosofia moderna non è stata in grado di rispondere, ma di cui non è mai riuscita a disfarsi. E ora sono due secoli che la ripete, in forme diverse. Da Hegel a Horkheimer o a Habermas, passando per Nietzsche o Max Weber, non vi è una sola filosofia che non abbia dovuto confrontarsi, direttamente o indirettamente, con questa domanda: in che cosa consiste, dunque, questo evento che chiamiamo Aufklärung e che ha determinato, almeno in parte, ciò che siamo, ciò che pensiamo e ciò che facciamo oggi? Immaginiamo che la “Berlinische Monatsschrift” esista ancora e ponga ai suoi lettori la domanda: “Che cos’è la filosofia moderna?”; forse potremmo rispondere in coro: la filosofia moderna cerca di rispondere alla domanda lanciata, ormai due secoli fa, con tanta imprudenza: Was ist Aufklärung?

Soffermiamoci brevemente su questo testo di Kant. Merita la nostra attenzione per molte ragioni.

1) Due mesi prima, sullo stesso giornale, aveva risposto a questa domanda anche Moses Mendelssohn. Ma Kant non conosceva questo testo quando aveva scritto il suo. Certo, l’incontro del movimento filosofico tedesco con i nuovi sviluppi della cultura ebraica non risale a questa data. Mendelssohn si trovava a questo incrocio, in compagnia di Lessing, già da una trentina d’anni. Ma, fino ad allora, si era trattato di dare alla cultura ebraica diritto di cittadinanza nel pensiero tedesco – cosa che Lessing aveva tentato di fare in Die Juden[1]  o anche di cogliere dei problemi comuni al pensiero ebraico e alla filosofia tedesca: era quanto aveva fatto Mendelssohn nel Phädon.[2] Con i due testi apparsi sulla “Berlinische Monatsschrift”, la Aufklärung tedesca e l’Haskala ebraica riconoscono di appartenere alla medesima storia; esse cercano di determinare da quale processo comune dipendano. Ed era forse un modo di annunciare l’accettazione di un destino comune, che ben sappiamo a quale dramma doveva condurre.

2) Ma c’è dell’altro. In se stesso e all’interno della tradizione cristiana, questo testo pone un problema nuovo.

Sicuramente non è la prima volta che il pensiero filosofico cerca di riflettere sul suo presente. Ma, in modo schematico, si può dire che, fino ad allora, questa riflessione aveva assunto tre forme principali:

- si può rappresentare il presente come appartenente a una certa età del mondo, distinta dalle altre per alcune caratteristiche proprie, o separata dalle altre da qualche evento drammatico. Così, nel Politico di Platone, gli interlocutori riconoscono di appartenere a una di quelle rivoluzioni che fanno girare il mondo al contrario, con tutte le conseguenze negative che ciò può avere;

- si può anche interrogare il presente per cercare di decifrare in esso i segni che annunciano un evento prossimo. Abbiamo qui il principio di una sorta di ermeneutica storica di cui Agostino potrebbe offrire un esempio;

- si può anche analizzare il presente come un punto di transizione verso l’aurora di un mondo nuovo. È quello che descrive Vico nell’ultimo capitolo della Scienza nuova[3]; egli vede che “Oggi una compiuta umanità sembra essere sparsa per tutte le nazioni, poiché pochi grandi monarchi reggono questo mondo di popoli”; vede anche che “dappertutto l’Europa cristiana sfolgora di tanta umanità” e infine, “che vi si abbonda di tutti i beni che possano felicitare l’umana vita”.

Ora, Kant pone la questione della Aufklärung in un modo affatto diverso: né come un’età del mondo a cui si appartiene, né come un evento di cui si percepiscono i segni, né come l’aurora di un compimento. Kant definisce la Aufklärung in modo quasi interamente negativo, come una Ausgang, un’“uscita”, un “esito”. Negli altri suoi testi sulla storia, capita che Kant ponga delle questioni d’origine o che definisca la finalità interna di un processo storico. Nel testo sulla Aufklärung la questione riguarda la pura attualità. Egli non cerca di comprendere il presente a partire da una totalità o da un compimento futuro. Cerca una differenza: qual è la differenza che l’oggi introduce rispetto a ieri?

3) Non entrerò nei particolari del testo che, nonostante la sua brevità, non è sempre chiaro. Vorrei semplicemente precisare tre o quattro aspetti che mi sembrano importanti per comprendere il modo in cui Kant ha posto la questione filosofica del presente.

Kant indica subito che l’“uscita” che caratterizza la Aufklärung è un processo che ci emancipa dallo stato di “minorità”. E, con “minorità”, intende un certo stato della nostra volontà che ci fa accettare che l’autorità di un altro ci guidi in ambiti in cui conviene fare uso della ragione. Kant fornisce tre esempi: siamo in stato di minorità quando un libro ragiona per noi, quando un direttore spirituale ci fa da coscienza, quando un medico decide la nostra dieta al posto nostro (notiamo, di sfuggita, come si riconosca facilmente il registro delle tre Critiche, anche se il testo non lo dice esplicitamente). In ogni caso, la Aufklärung è definita dal modificarsi del rapporto preesistente tra la volontà, l’autorità e l’uso della ragione.

Bisogna altresì rilevare come questa uscita venga presentata da Kant in modo abbastanza ambiguo. La caratterizza come un fatto, un processo in via di svolgimento; ma la presenta anche come un compito e un obbligo. Fin dal primo paragrafo, fa notare come l’uomo sia egli stesso responsabile del suo stato di minorità. Bisogna dunque concepire che potrà uscirne solo grazie a un cambiamento che egli opererà su se stesso. In modo significativo, Kant dice che questa Aufklärung ha un “motto” (Wahlspruch): ora, il motto è un tratto distintivo con cui ci si fa riconoscere; è anche una consegna che si impartisce a se stessi e che si propone agli altri. E qual è questa consegna? Sapere aude, “abbi il coraggio, l’audacia di usare il tuo proprio intelletto”. Bisogna dunque considerare che la Aufklärung è un processo di cui gli uomini fanno parte collettivamente e, insieme, un atto di coraggio da compiere personalmente. Gli uomini sono, nello stesso tempo, elementi e agenti del medesimo processo. Possono esserne gli attori nella misura in cui ne fanno parte; e esso si produce nella misura in cui gli uomini decidono di esserne gli attori volontari.

A questo punto, nel testo di Kant emerge una terza difficoltà. Essa risiede nell’uso del termine Menschheit. Conosciamo l’importanza di questo termine nella concezione kantiana della storia. Si deve forse intendere che, nel processo della Aufklärung, è coinvolto l’insieme della specie umana? E, in questo caso, si deve immaginare che la Aufklärung sia un cambiamento storico che interessa l’esistenza politica e sociale di tutti gli uomini sulla faccia della terra? Oppure si deve intendere che si tratta di un cambiamento che riguarda ciò che costituisce l’umanità dell’essere umano? In questo caso, si pone la questione di sapere che cosa sia questo cambiamento. Ancora una volta, la risposta di Kant non è priva di una certa ambiguità. In ogni caso, dietro un’apparente semplicità, essa è abbastanza complessa.

Kant definisce due condizioni essenziali perché l’uomo esca dalla sua minorità. E queste due condizioni sono, al tempo stesso, spirituali e istituzionali, etiche e politiche.

La prima di queste condizioni sta nella netta distinzione tra ciò che appartiene all’ubbidienza e ciò che appartiene all’uso della ragione. Per caratterizzare brevemente lo stato di minorità, Kant cita l’espressione corrente: “Ubbidite, non ragionate”; secondo lui, questa è la forma in cui, di solito, si esercitano la disciplina militare, il potere politico e l’autorità religiosa. L’umanità diventerà maggiorenne non quando non dovrà più ubbidire, ma quando le si dirà: “Ragionate quanto volete, ma ubbidite”. Bisogna notare che il termine tedesco che viene utilizzato è räzonieren; questo termine, utilizzato anche nelle Critiche, non si riferisce a un uso qualsiasi della ragione, ma a quello in cui la ragione non ha altro fine che se stessa; räzonieren significa ragionare per ragionare. E Kant offre degli esempi, anche questi apparentemente banali: pagare le tasse, ma poter ragionare quanto si vuole sulla fiscalità, ecco quel che caratterizza lo stato di maggiorità; oppure, nel caso di un ecclesiastico, garantire il servizio di una parrocchia, conformemente ai princìpi della Chiesa alla quale si appartiene, ma ragionare come si vuole sul tema dei dogmi religiosi.

Si potrebbe pensare che non vi sia nulla di molto diverso da ciò che si intende, dal secolo XVI, con libertà di coscienza: il diritto di pensare come si vuole, a condizione che si ubbidisca come si deve. Ora, a questo punto Kant introduce un’altra distinzione e lo fa in modo abbastanza sorprendente. Si tratta della distinzione tra l’uso privato e l’uso pubblico della ragione. Ma egli aggiunge subito che la ragione deve essere libera nel suo uso pubblico e che deve essere sottomessa nel suo uso privato. Il che è, alla lettera, il contrario di quello che di solito chiamiamo libertà di coscienza.

Ma bisogna fare una piccola precisazione. Qual è, secondo Kant, questo uso privato della ragione? Qual è l’ambito in cui si esercita? L’uomo, dice Kant, fa un uso privato della sua ragione quando è “un pezzo di una macchina”; e cioè quando ha un ruolo da svolgere nella società e delle funzioni da esercitare: essere soldato, avere delle tasse da pagare, avere la responsabilità di una parrocchia, essere funzionario di un governo, tutto questo fa dell’essere umano un segmento particolare della società; in questo modo egli si trova in una posizione definita, in cui deve applicare delle regole e perseguire dei fini particolari. Kant non chiede che venga praticata un’ubbidienza cieca e stupida; ma che si adatti la propria ragione a quelle determinate circostanze; e la ragione deve quindi sottomettersi a quei fini particolari. In questo caso non può dunque esistere un uso libero della ragione.

Viceversa, quando ragioniamo per fare uso della ragione, quando ragioniamo in quanto esseri ragionevoli (e non in quanto pezzi di una macchina), quando ragioniamo come componenti dell’umanità ragionevole, allora l’uso della ragione deve essere libero e pubblico. Quindi, la Aufklärung non è soltanto il processo con cui gli individui vedrebbero garantita la loro personale libertà di pensiero. Vi è Aufklärung allorché vi è sovrapposizione fra l’uso universale, l’uso libero e l’uso pubblico della ragione.

Tutto ciò ci induce a porre, a questo testo di Kant, una quarta domanda. È chiaro che l’uso universale della ragione (al di fuori di ogni fine particolare) riguarda il soggetto stesso in quanto individuo; è altrettanto chiaro che la libertà di questo uso può essere garantita in modo puramente negativo dall’assenza di qualsiasi azione contro di esso; ma come si può garantire un uso pubblico di questa ragione? La Aufklärung, come si vede, non deve essere concepita semplicemente come un processo generale che riguarda tutta l’umanità; non deve neppure essere concepita soltanto come un obbligo prescritto agli individui: essa appare, a questo punto, come un problema politico. In ogni caso, si pone la questione di sapere come l’uso della ragione possa assumere la forma pubblica necessaria, come l’audacia del sapere possa esercitarsi alla luce del giorno, mentre gli individui ubbidiranno il più esattamente possibile. E, per concludere, Kant propone a Federico II, in termini appena velati, una specie di contratto: Potremmo chiamarlo il contratto tra il dispotismo razionale e la libera ragione: l’uso pubblico e libero della ragione autonoma sarà la migliore garanzia di ubbidienza, a condizione, però, che anche il principio politico a cui si deve ubbidire sia conforme alla ragione universale.

Lasciamo da parte questo testo. Non intendo assolutamente considerarlo come una descrizione adeguata della Aufklärung; e penso che nessuno storico potrebbe utilizzarlo in modo soddisfacente per un’analisi delle trasformazioni sociali, politiche e culturali che si sono prodotte alla fine del secolo XVIII.

Tuttavia, nonostante il suo carattere circoscritto, e senza voler attribuire a esso uno spazio esagerato nell’opera di Kant, credo che vada sottolineato il nesso che esiste tra questo breve articolo e le tre Critiche. La Aufklärung è, infatti, descritta come il momento in cui l’umanità farà uso della propria ragione, senza sottomettersi ad alcuna autorità; ora, è proprio a questo punto che la Critica diviene necessaria, poiché essa ha il compito di definire le condizioni in cui l’uso della ragione è legittimo per determinare ciò che si può conoscere, ciò che si deve fare e ciò che è permesso sperare. Un uso illegittimo della ragione fa nascere, insieme all’illusione, il dogmatismo e l’eteronomia; viceversa, quando l’uso legittimo della ragione è stato definito chiaramente nei suoi princìpi, la sua autonomia può essere garantita. La Critica è una sorta di libro di bordo della ragione divenuta maggiorenne nella Aufklärung; e, inversamente, la Aufklärung è l’età della Critica.

Credo che si debba anche sottolineare il rapporto tra questo testo di Kant e gli altri testi dedicati alla storia. Nella maggior parte dei casi, questi ultimi cercano di determinare la finalità interna del tempo e il punto verso cui s’incammina la storia dell’umanità. L’analisi della Aufklärung, definendo quest’ultima come il passaggio dell’umanità alla maggiore età, colloca l’attualità rispetto a questo movimento d’insieme e alle sue direzioni fondamentali. Ma, al tempo stesso, mostra come, in questo momento attuale, ognuno sia responsabile, in un certo modo, del processo d’insieme.

L’ipotesi che vorrei proporre è che questo breve testo si trova, in qualche modo, a cavallo fra la riflessione critica e la riflessione sulla storia. È una riflessione di Kant sull’attualità della sua impresa. Probabilmente, non è la prima volta che un filosofo spiega le ragioni che lo spingono a iniziare la sua opera in questo o quel momento. Ma mi sembra che sia la prima volta che un filosofo collega in modo così stretto, e dall’interno, il significato della sua opera in rapporto alla conoscenza con una riflessione sulla storia e un’analisi particolare del momento singolare in cui scrive e a causa del quale scrive. Mi sembra che la novità di questo testo consista nella riflessione sull’“oggi” come differenza nella storia e come motivo per un compito filosofico particolare.

E, da questo punto di vista, mi sembra che si possa riconoscere in esso un punto di partenza: l’abbozzo di ciò che potremmo chiamare l’atteggiamento moderno.

So che si parla spesso della modernità come di un’epoca o, comunque, come di un insieme di tratti caratteristici di un’epoca; la si situa in un calendario in cui sarebbe preceduta da una premodernità, più o meno ingenua o arcaica, e seguita da una enigmatica e inquietante “postmodernità”. E ci si interroga, allora, per sapere se la modernità costituisca il seguito della Aufklärung e il suo sviluppo, o se debba essere considerata come una frattura o una deviazione rispetto ai princìpi fondamentali del secolo XVII.

Pensando al testo di Kant, mi chiedo se non si possa considerare la modernità come un atteggiamento invece che come un periodo della storia. Con atteggiamento intendo un modo di relazione con l’attualità; una scelta deliberata compiuta da alcuni; infine, un modo di pensare e di sentire, anche un modo di agire e di comportarsi che sottolinea un’appartenenza e, al tempo stesso, si presenta come un compito. Probabilmente, un po’ come quello che i Greci chiamavano un εθος. Di conseguenza, invece di voler distinguere il “periodo moderno” dalle epoche “pre” o “post-moderne”, credo sia meglio indagare come, dal momento della sua formazione, l’atteggiamento moderno sia stato in conflitto con degli atteggiamenti “contro-moderni”.

Per caratterizzare brevemente questo atteggiamento moderno, farò un esempio quasi obbligatorio: si tratta di Baudelaire, poiché è in lui che, in generale, riconosciamo una delle coscienze più acute della modernità nel secolo XIX.

1) Si cerca spesso di caratterizzare la modernità con la coscienza della discontinuità del tempo: rottura della tradizione, sentimento della novità, vertigine di ciò che passa. Ed è proprio quello che sembra dire Baudelaire quando definisce la modernità con “il transitorio, il fuggitivo, il contingente”.[4] Ma, per lui, essere moderno non significa riconoscere e accettare questo movimento perpetuo; al contrario, significa assumere un certo atteggiamento rispetto a questo movimento; e questo atteggiamento deliberato e difficile consiste nel riafferrare qualcosa di eterno che non sta né al di là dell’istante presente, né alle sue spalle, ma in esso. La modernità si distingue dalla moda che non fa che seguire il corso del tempo; è l’atteggiamento che permette di afferrare ciò che vi è di “eroico” nel momento presente. La modernità non è un fatto di sensibilità al presente che fugge; è una volontà di “eroicizzare” il presente.

Mi accontenterò di citare quello che Baudelaire dice della pittura dei personaggi a lui contemporanei. Baudelaire prende in giro quei pittori che, trovando troppo brutto l’abbigliamento degli uomini del secolo XIX, volevano rappresentare soltanto dei costumi antichi. Ma, secondo lui, la modernità della pittura non consiste nell’introdurre gli abiti neri in un quadro. Il pittore moderno è colui che mostra la scura redingote come “l’abito necessario della nostra epoca”. È colui che sa far vedere, nella moda del momento, il rapporto essenziale, permanente e ossessivo che la nostra epoca intrattiene con la morte.

Notate che l’abito nero e la redingote hanno non solo la loro bellezza politica, che è l’espressione dell’uguaglianza universale, ma anche la loro bellezza poetica, che è l’espressione dell’anima pubblica; una immensa sfilata di becchini, becchini politici, becchini innamorati, becchini borghesi. Noi tutti celebriamo qualche seppellimento”.[5] Per designare questo atteggiamento moderno, Baudelaire usa talvolta una litote che è molto significativa, perché si presenta in forma di precetto: “Non avete il diritto di disprezzare il presente.

2) Naturalmente, questa eroicizzazione è ironica. Non si tratta affatto di sacralizzare, nell’atteggiamento moderno, il momento che passa per cercare di mantenerlo o di perpetuarlo. Soprattutto, non si tratta di assumerlo come una curiosità fuggevole e interessante: sarebbe ciò che Baudelaire chiama un atteggiamento di flânerie. La flânerie si accontenta di aprire gli occhi, di guardare attentamente e di collezionare nel ricordo. Al flâneur Baudelaire oppone l’uomo moderno:

Così egli va, corre, cerca. Che cosa cerca? Per certo, questo uomo, così come io l’ho dipinto, questo solitario dotato di una immaginazione attiva, sempre in moto attraverso il gran deserto d’uomini, ha una meta più elevata di quella di un semplice curioso, una meta più generale oltre il piacere fuggitivo della circostanza. Egli cerca qualche cosa che mi si consentirà di chiamare il piacere fuggitivo della circostanza. Egli cerca quel qualche cosa che mi si consentirà di chiamare la modernità, giacché non si trova una parola migliore per esprimere l’idea in questione. Si tratta, per lui, di liberare dalla moda ciò che essa può contenere di poetico nello storico, di cavare l’eterno dal transitorio.

E Baudelaire cita, come esempio di modernità, il disegnatore Constantin Guys. All’apparenza un flâneur, un collezionista di curiosità; egli si sofferma,

ultimo, ad andarsene dovunque possa risplendere la luce, echeggiare la poesia, brulicare la vita, vibrare la musica; dovunque una passione possa posare per il suo occhio, dovunque l’uomo naturale e l’uomo convenzionale si mostrino in una bellezza bizzarra, dovunque il sole rischiari le gioie fugaci dell’animale depravato.[6]

Ma non ci si deve ingannare. Constantin Guys non è un flâneur; ciò che ne fa, agli occhi di Baudelaire, il pittore moderno per eccellenza, è che nell’ora in cui il mondo intero s’immerge nel sonno, lui si mette al lavoro e lo trasfigura. Una trasfigurazione che non è annullamento del reale, ma gioco difficile tra la verità del reale e l’esercizio della libertà; le cose “naturali” vi diventano “più che naturali”, le cose “belle” vi diventano “più che belle” e le cose singolari appaiono “dotate di una vita entusiasta come l’anima dell’autore”.[7] Per l’atteggiamento moderno, il grande valore del presente è indissociabile dall’accanimento con cui lo si immagina, con cui lo si immagina diversamente da com’è e lo si trasforma, non per distruggerlo, ma per captarlo in quello che è. La modernità baudelairiana è un esercizio in cui l’estrema attenzione al reale è messa a confronto con la pratica di una libertà che rispetta quel reale e, al tempo stesso, lo violenta.

3) Tuttavia, per Baudelaire, la modernità non è semplicemente una forma di rapporto con il presente; è anche un tipo di rapporto che bisogna stabilire con se stessi. L’atteggiamento deliberatamente moderno è legato a un indispensabile ascetismo. Essere moderno non significa accettare se stessi per quel che si è nel flusso dei momenti che passano; significa assumere se stessi come oggetto di un’elaborazione complessa e ostica: quel che Baudelaire chiama, secondo il vocabolario dell’epoca, il “dandysmo”. Non ricorderò pagine troppo conosciute: quelle sulla natura “rozza, terrena, immonda”; quelle sull’inevitabile rivolta dell’uomo nei confronti di se stesso; quella sulla “dottrina dell’eleganza” che impone “ai suoi ambiziosi e umili adepti” una disciplina più dispotica di quella delle religioni più terribili; infine, le pagine sull’ascetismo del dandy, che fa del suo corpo, del suo comportamento, dei suoi sentimenti e delle sue passioni, della sua esistenza, un’opera d’arte. L’uomo moderno, per Baudelaire, non è colui che parte alla scoperta di se stesso, dei suoi segreti e della sua verità nascosta; è colui che cerca d’inventare se stesso. Questa modernità non libera l’uomo nel suo essere proprio; essa gli impone il compito di elaborarsi da sé.

4) Per concludere, aggiungo solo una parola. Baudelaire non concepisce che questa eroicizzazione ironica del presente, questo gioco della libertà con il reale per la sua trasfigurazione, questa elaborazione ascetica di sé, possano aver luogo nella società stessa o nel corpo politico. Possono prodursi soltanto in un luogo altro, che Baudelaire chiama l’arte.

Non pretendo di riassumere con questi pochi tratti né quell’evento storico complesso che è stato la Aufklärung alla fine del secolo XVIII, né l’atteggiamento moderno, nelle differenti forme che può aver assunto nel corso degli ultimi due secoli.

Da un lato, volevo sottolineare il radicamento nella Aufklärung di un tipo di interrogazione filosofica che pone il problema, al tempo stesso, del rapporto con il presente, del modo d’essere storico e della costituzione di se stessi come soggetto autonomo; dall’altro lato, volevo sottolineare come il filo che può ricollegarci in questo modo alla Aufklärung non sia la fedeltà a degli elementi di dottrina, ma sia piuttosto la riattivazione permanente di un atteggiamento; vale a dire di un εθος filosofico che potrebbe essere caratterizzato come critica permanente del nostro essere storico. Vorrei caratterizzare molto brevemente questo εθος.

A. Negativamente. 1) Questo εθος implica, per prima cosa, che si rifiuti quello che chiamerò volentieri il “ricatto” alla Aufklärung. Penso che la Aufklärung, come insieme di eventi politici, economici, sociali, istituzionali, culturali, dai quali dipendiamo ancora in gran parte, costituisca un ambito di analisi privilegiato. Penso anche che, come impresa che tende a legare, in un nesso di relazione diretta, il progresso della verità e la storia della libertà, essa abbia formulato una domanda filosofica che per noi resta aperta. Infine, penso – ho cercato di mostrarlo a proposito del testo di Kant – che essa abbia definito un certo modo di filosofare.

Ma questo non vuol dire che si debba essere pro o contro la Aufklärung. Vuol dire, anzi, che si deve rifiutare tutto ciò che assume la forma di un’alternativa semplicistica e autoritaria: o accettate la Aufklärung e restate nella tradizione del suo razionalismo (il che è considerato da alcuni come positivo e da altri, invece, come un rimprovero); o criticate la Aufklärung e allora cercate di sfuggire a questi princìpi di razionalità (il che, ancora una volta, può essere considerato un bene o un male). E non si esce da questo ricatto introducendo delle sfumature “dialettiche”, cercando di determinare ciò che può esservi stato di buono o di cattivo nella Aufklärung.

Bisogna cercare di fare l’analisi di noi stessi in quanto esseri storicamente determinati, in parte, dalla Aufklärung. Il che implica una serie di indagini storiche precise; e queste indagini non devono essere orientate retrospettivamente, verso il “nucleo essenziale di razionalità” che possiamo trovare nella Aufklärung e che andrebbe salvato in ogni caso; esse devono essere orientate verso “i limiti attuali del necessario”: cioè verso ciò che non è o non è più indispensabile per la costituzione di noi stessi come soggetti autonomi.

2) Questa critica permanente di noi stessi deve evitare le confusioni, sempre troppo facili, tra l’umanesimo e la Aufklärung. Non si deve mai dimenticare che la Aufklärung è un evento o un insieme di eventi e di processi storici complessi, situati in un certo momento dello sviluppo delle società europee. Questo insieme comporta degli elementi di trasformazioni sociali, dei tipi di istituzioni politiche, delle forme di sapere, dei progetti di razionalizzazione delle conoscenze e delle pratiche, delle trasformazioni tecnologiche che è molto difficile riassumere in una parola, anche se molti di questi fenomeni sono importanti ancora oggi. Quello che ho sottolineato, e che mi sembra che abbia fondato tutta una forma di riflessione filosofica, riguarda solo il rapporto di riflessione con il presente.

L’umanesimo è tutt’altra cosa: è un tema o, meglio, un insieme di temi che, nelle società europee, sono riapparsi a più riprese nel corso del tempo; ovviamente, questi temi, che sono sempre legati a dei giudizi di valore, sono molto diversi sia nel loro contenuto sia nei valori che hanno espresso. Inoltre, sono serviti come principio critico di differenziazione: vi è stato un umanesimo che si presentava come critica del Cristianesimo o della religione in generale; vi è stato un umanesimo cristiano in contrapposizione a un umanesimo ascetico e molto più teocentrico (questo nel secolo XVII). Nel secolo XIX vi è stato un umanesimo diffidente, ostile e critico nei confronti della scienza; e un altro che [al contrario] confidava proprio in quella scienza. Il marxismo è stato un umanesimo, lo sono stati, a loro volta, l’esistenzialismo e il personalismo; c’è stato un tempo in cui venivano sostenuti i valori umanistici rappresentati dal nazionalsocialismo e in cui anche gli stalinisti dicevano di essere umanisti.

Da ciò non bisogna trarre la conseguenza che tutto quello che ha potuto far appello all’umanesimo sia da respingere; ma che la tematica umanistica sia di per sé troppo flessibile, troppo mutevole e troppo inconsistente per servire da asse alla riflessione. Ed è un fatto che, almeno dal secolo XVII, ciò che chiamiamo umanesimo è sempre stato costretto ad appoggiarsi a certe concezioni dell’uomo mutuate dalla religione, dalla scienza e dalla politica. L’umanesimo serve a colorare e a giustificare quelle concezioni dell’uomo a cui è costretto a ricorrere.

Ora, credo che a questa tematica, così ricorrente e sempre dipendente dall’umanesimo, si possa contrapporre il principio di una critica e di una creazione permanente di noi stessi nella nostra autonomia: vale a dire un principio centrale della coscienza storica che la Aufklärung ha avuto di se stessa. Da questo punto di vista, tra la Aufklärung e l’umanesimo, vedrei una tensione, più che un’identità.

In ogni caso, confonderli mi pare pericoloso; e, peraltro, storicamente inesatto. Se la questione dell’uomo, della specie umana, dell’umanista, è stata importante durante tutto il secolo XVIII, credo che solo molto raramente la Aufklärung abbia considerato se stessa come un umanesimo. Vale anche la pena di notare che, nel corso del secolo XIX, la storiografia dell’umanesimo cinquecentesco, così importante in autori come Sainte-Beuve o Burckhardt, è sempre stata distinta e talvolta esplicitamente contrapposta all’Illuminismo e al secolo XVIII. Il secolo XIX ha avuto la tendenza a contrapporli, almeno quanto a confonderli.

Per questo motivo, credo che, così come bisogna sottrarsi al ricatto intellettuale e politico “essere pro o contro la Aufklärung”, bisogna anche sottrarsi al confusionismo storico e morale che mescola il tema dell’umanesimo e la questione della Aufklärung. Bisognerebbe fare un’analisi delle loro complesse relazioni nel corso degli ultimi due secoli, sarebbe un lavoro importante per sbrogliare un po’ la coscienza che abbiamo di noi stessi e del nostro passato.

B. Positivamente. Tenendo conto di queste precauzioni, bisogna evidentemente dare un contenuto più positivo a quello che può essere un εθος filosofico consistente in una critica di ciò che noi diciamo, pensiamo e facciamo, attraverso un’ontologia storica di noi stessi.

1) Questo εθος filosofico può essere caratterizzato come unatteggiamento limite. Non si tratta di un atteggiamento di rigetto. Dobbiamo sfuggire all’alternativa del fuori e del dentro; dobbiamo stare sulle frontiere. La critica è proprio l’analisi dei limiti e la riflessione su di essi. Ma, se la questione kantiana era di sapere quali siano i limiti che la conoscenza deve rinunciare a superare, mi sembra che, oggi, la questione critica debba essere ribaltata in positivo: qual è la parte di ciò che è singolare, contingente e dovuto a costrizioni arbitrarie in quello che ci è dato come universale, necessario e obbligato? Si tratta, insomma, di trasformare la critica esercitata nella forma della limitazione necessaria in una critica pratica nella forma del superamento possibile.

Il che, come si vede, implica che la critica venga esercitata non più nella ricerca delle strutture formali che hanno valore universale, ma come indagine storica attraverso gli eventi che ci hanno condotto a costituirci e a riconoscerci come soggetti di ciò che facciamo, pensiamo e diciamo. In questo senso, tale critica non è trascendentale e non si propone di rendere possibile una metafisica: è genealogica nella sua finalità e archeologica nel suo metodo. Archeologica – e non trascendentale – nel senso che non cercherà di cogliere le strutture universali di ogni conoscenza o di ogni azione morale possibile; ma cercherà di trattare i discorsi che articolano ciò che noi pensiamo, diciamo e facciamo come altrettanti eventi storici. E tale critica sarà genealogica nel senso che non dedurrà quello che ci è impossibile fare o conoscere dalla forma di ciò che noi siamo; ma coglierà, nella contingenza che ci ha fatto essere quello che siamo, la possibilità di non essere più, di non fare o di non pensare più quello che siamo, facciamo o pensiamo.

Essa non cerca di rendere possibile la metafisica divenuta, infine, scienza; cerca di rilanciare il più lontano e il più diffusamente possibile il lavoro indefinito della libertà.

2) Ma, perché non si tratti semplicemente dell’affermazione o del sogno vuoto della libertà, mi sembra che questo atteggiamento storico-critico debba essere anche un atteggiamento sperimentale. Intendo dire che questo lavoro ai limiti di noi stessi deve, da un lato, aprire un ambito d’indagini storiche e, dall’altro, mettersi alla prova della realtà e dell’attualità, per afferrare i punti in cui il cambiamento è possibile e auspicabile e, al tempo stesso, per determinare la forma precisa da dare a questo cambiamento. Vale a dire che questa ontologia storica di noi stessi deve distogliersi da tutti quei progetti che pretendono di essere globali e radicali. In realtà, sappiamo, per esperienza, che la pretesa di sottrarsi al sistema dell’attualità per formulare dei progetti d’insieme di un’altra società, di un altro modo di pensare, di un’altra cultura, di un’altra visione del mondo non hanno fatto altro che rinnovare delle tradizioni molto pericolose.

Preferisco le trasformazioni circoscritte che possono aver avuto luogo da vent’anni a questa parte in alcuni ambiti che concernono i nostri modi d’essere e di pensare, le relazioni d’autorità, i rapporti tra i sessi, il modo in cui percepiamo la follia o la malattia; preferisco queste trasformazioni, anche parziali, che sono state fatte correlando l’analisi storica e l’atteggiamento pratico, alle promesse dell’uomo nuovo ripetute dai peggiori sistemi politici nel corso del XX secolo.

Caratterizzerò dunque l’εθος filosofico proprio dell’ontologia critica di noi stessi come una prova storico-pratica dei limiti che possiamo superare, e quindi come un lavoro di noi stessi su noi stessi in quanto esseri liberi.

3) Ma, probabilmente, sarebbe assolutamente legittimo avanzare la seguente obiezione: limitandosi a questo genere di indagini o di prove sempre parziali e locali, non vi è il rischio di lasciarsi determinare da strutture più generali di cui rischiamo di non avere né la consapevolezza, né la padronanza?

Due risposte a questo quesito. È vero che si deve rinunciare alla speranza di poter pervenire a un punto di vista che potrebbe darci l’accesso alla conoscenza completa e definitiva di ciò che può costituire i nostri limiti storici. E, da questo punto di vista, anche l’esperienza teorica e pratica che facciamo dei nostri limiti e del loro superamento possibile è sempre limitata, determinata e, quindi, da ricominciare.

Ma questo non significa che il lavoro possa essere fatto solo nel disordine e nella contingenza. Questo lavoro ha una sua generalità, una sua sistematicità, una sua omogeneità e una sua posta in gioco.

La posta in gioco. È indicata da quello che potremmo chiamare “il paradosso (dei rapporti) della capacità e del potere”. Sappiamo che la grande promessa o la grande speranza del secolo XVIII, o di una parte del secolo XVIII, riguardava la crescita simultanea e proporzionale della capacità tecnica di agire sulle cose e della libertà degli individui gli uni rispetto agli altri. D’altronde, si può osservare che l’acquisizione delle capacità e la lotta per la libertà hanno costituito gli elementi permanenti di tutta la storia delle società occidentali (forse sta in questo la radice del loro singolare destino storico – così particolare, così diverso [dagli altri] nella sua traiettoria e così universalizzante, dominante rispetto agli altri). Ora, le relazioni tra la crescita delle capacità e la crescita dell’autonomia non sono così semplici come credeva il secolo XVIII. Abbiamo potuto constatare quali forme di relazioni di potere fossero veicolate attraverso delle tecnologie diverse (che si trattasse di produzioni a fini economici, di istituzioni finalizzate alla regolazione sociale, di tecniche di comunicazione): ne sono degli esempi le discipline collettive e, nello stesso tempo, individuali, le procedure di normalizzazione esercitate in nome del potere dello Stato, delle esigenze della società o di parti della popolazione. Dunque, la posta in gioco è: come disconnettere la crescita delle capacità e l’intensificarsi delle relazioni di potere?

L’omogeneità. Conduce allo studio di quelli che potrebbero essere chiamati gli “insiemi pratici”. Non bisogna prendere come ambito omogeneo di riferimento le rappresentazioni che gli uomini danno di se stessi e neppure le condizioni che li determinano a loro insaputa. Bensì quello che fanno e il modo in cui lo fanno. Vale a dire le forme di razionalità che organizzano i modi di fare (potremmo chiamarlo il loro aspetto tecnologico); e la libertà con cui essi agiscono in questi sistemi pratici, reagendo a quel che fanno gli altri e modificando, fino a un certo punto, le regole del gioco (potremmo chiamarlo il versante strategico di queste pratiche). L’omogeneità di queste analisi storico-critiche è dunque garantita da questo ambito di pratiche con il loro versante tecnologico e il loro versante strategico.

La sistematicità. Questi insiemi pratici dipendono da tre grandi ambiti: quello dei rapporti con cui si padroneggiano le cose, quello dei rapporti d’azione sugli altri, quello dei rapporti con se stessi. Questo non significa che i tre ambiti siano completamente estranei gli uni agli altri. Sappiamo bene che la padronanza delle cose passa attraverso il rapporto con gli altri; che quest’ultimo implica sempre delle relazioni con se stessi; e viceversa. Ma si tratta di tre assi di cui bisogna analizzare la specificità e l’intreccio: l’asse del sapere, l’asse del potere e l’asse dell’etica. In altri termini, l’ontologia storica di noi stessi deve rispondere a una serie aperta di domande, ha a che fare con un numero indefinito di indagini che possono essere moltiplicate e precisate quanto si vuole, ma che risponderanno tutte a questa sistematizzazione: come abbiamo costituito noi stessi come soggetti del nostro sapere; come abbiamo costituito noi stessi come soggetti che esercitano o subiscono delle relazioni di potere; come abbiamo costituito noi stessi come soggetti morali delle nostre azioni.

La generalità. Infine, queste indagini storico-critiche sono molto particolari, nel senso che riguardano sempre un materiale, un’epoca e un corpo di pratiche e di discorsi determinati. Ma, almeno per quanto concerne le società occidentali da cui discendiamo, esse hanno una loro generalità: nel senso che, fino ai nostri giorni, sono state ricorrenti; è il caso del problema dei rapporti tra ragione e follia, o tra malattia e salute, o tra crimine e legge; del problema del posto da attribuire ai rapporti sessuali ecc.

Ma, evocando questa generalità, non intendo dire che bisogna descriverla nella sua continuità metastorica attraverso il tempo, e nemmeno che bisogna seguire le sue variazioni. Bisogna cogliere in quale misura ciò che sappiamo di essa, le forme di potere che vengono esercitate e l’esperienza che facciamo di noi stessi al suo interno costituiscano soltanto delle figure storiche determinate da una certa forma di problematizzazione che definisce degli oggetti, delle regole d’azione e dei modi di rapporto con se stessi. Lo studio dei (modi di) problematizzazione (vale a dire di quello che non è né costante antropologica, né variante cronologica) è quindi il modo di analizzare, nella loro forma storicamente singolare, delle questioni di portata generale.

Qualche parola riassuntiva per terminare e tornare a Kant. Non so se raggiungeremo mai la maggiore età. Molte cose, nella nostra esperienza, creano in noi la convinzione che l’evento storico della Aufklärung non ci abbia reso maggiorenni; e che non lo siamo ancora. Mi sembra, tuttavia, che possiamo dare un senso all’interrogazione critica sul presente e su noi stessi che Kant ha formulato nella sua riflessione sulla Aufklärung. Mi sembra che sia proprio un modo di filosofare che, da due secoli a questa parte, non è stato senza importanza, né senza efficacia. Di certo, non bisogna considerare l’ontologia critica di noi stessi come una teoria o una dottrina, e nemmeno come un corpo permanente di sapere che si accumula; bisogna concepirla come un atteggiamento, un εθος, una vita filosofica in cui la critica di quello che siamo è, al tempo stesso, analisi storica dei limiti che ci vengono posti e prova del loro superamento possibile.

Tale atteggiamento filosofico deve tradursi in un lavoro d’indagini diverse; queste trovano la loro coerenza metodologica nello studio archeologico e genealogico di pratiche considerate, simultaneamente, come tipo tecnologico di razionalità e giochi strategici delle libertà; trovano la loro coerenza teorica nella definizione delle forme storicamente singolari in cui sono state problematizzate le generalità del nostro rapporto con le cose, con gli altri e con noi stessi. Trovano la loro coerenza pratica nell’attenzione che viene prestata a mettere la riflessione storico-critica alla prova delle pratiche concrete. Non so se oggi si debba dire che il lavoro critico implica ancora la fede nell’Illuminismo; credo che comporti sempre il lavoro sui nostri limiti, vale a dire un travaglio paziente che dà forma all’impazienza della libertà.

[1]G.E. Lessing, Die Juden, 1749, in Gesammelte Werke, C. Hanser Verlag, München 1959, pp. 273-309.

[2]M. Mendelssohn, Phädon oder über die Unsterblichkeit der Seele, Berlin 1767, 1768, 1769.

[3]G.B. Vico, Princìpi di una scienza nuova intorno alla natura delle nazioni per la quale si ritrovano i prìncipi di altro sistema del diritto naturale delle genti, libro V, cap. III, in Opere, a cura di A. Battistini, 2 voll., Mondadori, Milano 1990, vol. I, pp. 954-956.

[4]Ch. Baudelaire, Le Peintre de la vie moderne, in Œuvres complètes, Gallimard, coll. Bibliothèque de la Pléiade, Paris 1976, t. II, p. 695; tr. it. di E. Somarè, II pittore della vita moderna, in Ch. Baudelaire, Poesie e Prose, Mondadori, Milano 19814, p. 945.

[5]Ch. Baudelaire, De l’héroïsme de la vie moderne, in op. cit., p. 494; tr. it. Dell’eroismo della vita moderna, in Ch. Baudelaire, Poesie e Prose, cit., p. 772.

[6]Ch. Baudelaire, Le Peintre de la vie moderne, cit., pp. 693-694; tr. it. cit., pp. 942-943.

[7]Ibidem.