venerdì 2 dicembre 2022

TEMPO DI UCCIDERE Ennio Flaiano





TEMPO DI UCCIDERE  

Ennio Flaiano

Recensione

Quello che mi sorpreso è stata la particolare capacità di Flaiano di narrare la vicenda attraverso il filtro dell’esperienza interiore di uno psicopatico. Con uno stile di scrittura che, anche se incalzante, sa ben sondare in profondità, quando necessario, Flaiano proietta il lettore nel mondo paranoico e onnipotente del militare protagonista della storia. 

La   incapacità del protagonista di tollerare il dolore, proprio e altrui,   è il  meccanismo psichico che genera un bisogno  di violenza nei confronti degli altri, assieme alla  tendenza a percepire la realtà che lo circonda come una entità con la quale non è possibile stabilire alcun contatto emotivo. È stato difficile e disturbante trovarmi immerso nella psicologia angosciata ed esaltata del protagonista. Ma mi ha anche catturato nella lettura. È stata una esperienza molto particolare.

 

Introduzione 

In un articolo in ricordo di Leo Longanesi uscito sul «Mondo» dell’8 ottobre 1957, Flaiano ha lasciato una preziosa testimonianza su come nacque in lui l’idea di scrivere un romanzo: «Dovevo rivederlo [Longanesi] a Milano, nel duro inverno del ’46. Passeggiavamo cortesemente, una sera di dicembre, quando si fermò e mi disse: “Mi scrive un romanzo per i primi di marzo?”. Io scoppiai a ridere, ma lui diceva sul serio. I suoi occhi vivi e lucidi, sempre pieni di simpatia e di indignazione, mi fissavano con sorpresa. Quando ebbi detto (per dire qualcosa) come vedevo un romanzo, una storia assolutamente fantastica, tanto fantastica che non la immaginavo in Italia, ma in Africa, nell’Africa di Erodoto e di Solino, Longanesi disse: “Se comincia subito le do un anticipo”. E così la parola di Longanesi, quel suo fare sbrigativo con cui sapeva mettere l’arte sul piano degli affari e viceversa, mi avevano ormai impegnato a un duro lavoro di esemplificazione delle mie idee, che probabilmente non sapevo fare. Ma pensare di deludere Longanesi mi era abbastanza insopportabile, perché la sua fiducia serviva a scoprire le nostre qualità e a metterle in moto, una fiducia che non bisognava deludere. Così cominciai a scrivere e i primi di marzo gli mandai un manoscritto che stampò». Nel maggio del 1947 Tempo di uccidere arriva in libreria accolto con favore sia dai lettori che dalla critica (anche se non manca qualche voce di dissenso: Giacomo Debenedetti ne salvava solo le prime sessanta pagine). In luglio vince la prima edizione del Premio Strega. Così Flaiano, qualche anno dopo, commenterà l’inaspettato successo: «La mortificazione del successo – e la certezza di non esservi tagliato – le provai durante la pubblica premiazione, in un albergo romano, del mio primo e unico romanzo: Tempo di uccidere. Era una notte d’estate del ’47, subito dopo la premiazione, gli amici e gli invitati (che erano anche i giudici) iniziarono le danze e io cercavo di capire che cosa mi angustiava tanto. Forse la sensazione che ogni successo, in fondo, è un malinteso. Ricevevo un premio ambito per un romanzo che ora trovavo tutto da riscrivere. Tornai a casa da solo. Ricordo che un cane randagio si intestò a seguirmi fin sulle scale e volle entrare. Come rifiutarsi? Gli preparai una zuppa di latte e lo feci dormire sullo scendiletto: la mattina dopo andò via. Ma neanche la sua compagnia era riuscita a confortarmi. Avevo in tasca un assegno (duecentomila lire) e la certezza che non mi appartenesse. Il guaio era che mi serviva assolutamente. Mi è rimasto da allora un sospetto sull’estrema utilità dei premi letterari, che non sono riuscito a dissipare. Quanto all’applauso dei giudici e della critica era certo un altro debito che mi ero assunto con molta leggerezza e che non ho ancora saldato». Colpisce questa presa di distanza dalla sua prima prova letteraria: ogni volta che si è trovato a parlare di Tempo di uccidere, Flaiano si è espresso in termini in qualche modo riduttivi, come se considerasse il romanzo una sorta di pegno da pagare per accedere all’universo letterario e insieme per liberarsi, attraverso la costruzione complessa di un evento narrato, di un proprio disagio esistenziale (legato agli anni del fascismo e della guerra, alla tragedia privata della malattia della figlia, Lelè, nata nel 1942 con una grave lesione cerebrale). Nella nota che accompagna la ristampa del romanzo nel 1968 per la collana del Premio Strega, nel ringraziare Maria Bellonci che ne firma l’introduzione, lo scrittore parlerà proprio della «necessità non vile che allora ebbi di scriverlo così in fretta, come una confessione e una speranza». Tempo di uccidere rimane in effetti un unicum nella produzione di Flaiano, che subito muterà il proprio progetto letterario preferendo la misura scorciata del racconto breve o brevissimo, dello schizzo, dell’appunto, dell’aforisma. L’estravaganza del romanzo non risulta solo sullo sfondo del macrotesto della sua produzione, ma anche dal confronto con la narrativa contemporanea: Tempo di uccidere colpisce per la sua originalità rispetto alla produzione coeva, per la sua «inattualità culturale» (S. Pautasso). Come ha sottolineato Maria Corti, nell’anno in cui uscirono numerosi testi di ispirazione neorealista quali Il compagno di Pavese, Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, Il cielo è rosso di Berto, L’oro di Napoli di Marotta, Cronaca familiare di Pratolini, Spaccanapoli di Rea, Flaiano spiazza i suoi lettori con un romanzo in cui c’è sì la guerra, quella della campagna di Etiopia del 1936 a cui prese parte col grado di sottotenente, ma non la cronaca di quella guerra, c’è la realtà storica della conquista colonizzatrice ma l’evento si fa subito simbolo, in una visione fantastica dai toni dichiaratamente surreali, in cui alla fedele riproposta di avvenimenti documentati si sostituisce la realtà di una vicenda psicologica segnata dall’errore e dalla fatalità. Lo stesso paesaggio in questo romanzo esibisce tratti fantastici e onirici; non abbiamo l’Africa, ma piuttosto la sua messinscena teatrale: si rilegga la descrizione della boscaglia contenuta nelle prime pagine, con gli alberi che assomigliano ad animali impagliati o sembrano di cartapesta, e con quel camaleonte che con una sigaretta in bocca se ne va per la sua strada vittima della propria pigrizia. Flaiano sceglie di raccontare, affidandosi alla voce di un io-narrante, un’avventura non eroica, che prende le mosse da un banale mal di denti, da una scorciatoia e da un proiettile deviato, si incaglia in una spirale di errori, e si conclude con il suono dell’unica Tromba del Giudizio che si addica al protagonista, quella suonata in maniera un po’ comica dal trombettiere del campo che in tutta fretta dà il segnale della sveglia, preludio dell’ormai prossima partenza per l’Italia e del silenzio che calerà sui crimini, quelli compiuti e quelli falliti, di cui l’ufficiale si è macchiato. Se la stesura del romanzo è stata, secondo la testimonianza citata, decisamente rapida, la progettazione ha visto numerosi ripensamenti. Le carte lasciate dallo scrittore testimoniano infatti di un iniziale progetto, di cui si conserva un sintetico riassunto, intitolato Il dente (titolo poi passato, nella stesura definitiva, a un capitolo), in cui vengono raccontate le imprese di F., un militare impegnato nella campagna di Etiopia che, colpito da un forte mal di denti, parte alla ricerca di un medico. Il suo viaggio è reso difficoltoso da una serie di contrattempi, ma alla fine l’uomo arriva al comando dove si accorge che il dolore è diventato sopportabile; per questo decide di sostituire alla ricerca del dentista quella di compagnia femminile: incontra donne indigene che ama per una notte, frequenta degli ufficiali con cui chiacchiera di letteratura e con cui, soprattutto, condivide una serie di svagate avventure erotiche. Decide finalmente di farsi strappare il dente per poi tornare al campo, pur temendo l’inevitabile punizione dato il protrarsi della licenza: inaspettatamente però, una volta rientrato, viene accolto dal comandante con l’ironica complicità di chi ha avuto notizia delle sue avventure galanti. Un secondo schema dal titolo La scorciatoia (anche questo titolo passerà poi a un capitolo del romanzo) vede un progressivo avvicinamento alla trama definitiva. Rispetto al primo progetto si registra una significativa differenza strutturale: il personaggio di F. si sdoppia infatti in due figure distinte, quella del protagonista che incontra e uccide un’indigena e quella di un ufficiale che, in permesso per farsi togliere un dente, conosce il militare-assassino. È dell’ufficiale la voce narrante che racconta le imprese dell’uomo e che assiste, nel finale, alla sua fucilazione. Flaiano continuerà a lavorare sulla trama fino ad arrivare alla prima stesura dattiloscritta, conservatasi in forma incompleta, dal titolo Il coccodrillo che riporta in epigrafe non la citazione biblica tratta dall’Ecclesiaste (da cui deriverà il titolo definitivo), ma due battute del Don Giovanni («Commendatore – Don Giovanni, m’invitasti, / ed a cena son venuto; Don Giovanni – Non l’avrei giammai creduto / ma farò quel che potrò»). Tale stesura subisce una successiva revisione che porterà al testo consegnato a Longanesi: fu quest’ultimo a chiedere a Flaiano di cambiare il titolo, poiché Il coccodrillo – così si legge in una lettera dell’editore del 27 febbraio del 1947 – non gli pareva adatto; la Bellonci, nell’introduzione alla riedizione del 1968, annota a questo proposito: «si diceva che il primo titolo Il coccodrillo non piacesse molto all’editore che aveva pubblicato recentemente un Elefante e un Camaleonte e temeva i troppi animali sulle sue copertine». Se Flaiano sembra aver dovuto attraversare il genere del romanzo per liberarsene, è anche vero che in questa prima prova è comunque possibile riconoscere alcuni tratti che diverranno poi ricorrenti nella sua opera. Colpiscono, innanzitutto, talune costanti tematiche: la noia, dei militari e degli indigeni, che conduce a una sorta di paralisi che sembra cancellare ogni responsabilità morale (quella delle donne che si concedono ai soldati, o dei militari violenti conquistatori); la malattia, punizione solo provvisoria della colpa, che dapprima spaventa e che poi forse permette al protagonista di rivelarsi a se stesso; il caso, che domina la vita degli uomini (qui rappresentato dal mal di denti o dalla scelta della scorciatoia, con tutte le sue imprevedibili conseguenze); il gioco degli equivoci (il protagonista fraintende i gesti e la volontà della donna incontrata, amata e uccisa nella boscaglia; confonde i segni del possibile contagio; non comprende il comportamento degli indigeni leggendo segni d’amicizia là dove c’è rabbia repressa, tracce di tradimento là dove c’è solidarietà); la mancanza di senso (i punti sono destinati – come recita il titolo dell’ultimo capitolo – a rimanere oscuri); e, su tutti, il tema dell’errore, della vita intesa come una catena ininterrotta di sbagli, casuali o forse inconsciamente voluti, di fatto inevitabili. Anche nelle scelte stilistiche sono già riconoscibili tratti tipici della scrittura di Flaiano: per esempio gli improvvisi cortocircuiti linguistici (e così leggiamo di «rottami di buoni propositi», del Mar Rosso definito «un mare uso ai miracoli», del destino che «pone difficoltà accademiche», dell’altopiano «osservatorio olfattivo delle iene»); l’ironia di certe immagini (come quella già citata del camaleonte con la sigaretta in bocca); la frequenza di battute (quella relativa al puzzo dei cadaveri dei muli che potrebbero indicare la strada al tenente, se gli animali non fossero venuti meno alla disciplina militare dimenticandosi di cadere con la regolarità delle pietre miliari, o alle iene che si rivelerebbero di grande aiuto per guarire l’insonnia, se solo parlassero di letteratura). Nella trama del tessuto narrativo è inoltre già presente la misura breve e incisiva dell’aforisma, il genere cui è soprattutto legato il nome del nostro autore (per citarne solo alcuni: «la realtà vince l’immaginazione e anzi questa si accorge di aver trascurato gli apporti della luce e dei suoni»; «non sapeva tacere, apprezzava il silenzio soltanto per il valore delle pause»; «l’Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza»; «si diventa lebbrosi come si diventa tiranni: ereditarietà o contagio», ma l’elenco potrebbe continuare). Rinvia ai successivi testi di Flaiano anche il fatto che il protagonista sia solito prendere appunti: lo faranno numerosi altri personaggi della sua opera ma, come è noto, è soprattutto un’abitudine propria dello scrittore, che è andato raccogliendo nel tempo preziosi foglietti, rimasti inediti (e confluiti dopo la sua morte in volumi di grande interesse: primo su tutti la raccolta di aforismi Diario degli errori), che gli servivano come una sorta di serbatoio da cui attingere per quanto andava scrivendo e pubblicando. E un quaderno di appunti rappresenta anche la fase avantestuale di Tempo di uccidere. Si tratta del diario dal titolo Aethiopia. Appunti per una canzonetta, qui pubblicato in Appendice: un diario steso da Flaiano tra il novembre del 1935 e il maggio del 1936 durante la campagna militare. Il lettore riconoscerà facilmente nei pensieri e nelle riflessioni annotati in questo taccuino alcuni nuclei tematici del romanzo, così come precise immagini e alcuni aforismi, ma ne coglierà anche immediatamente la sostanziale differenza di tono: quelle del taccuino sono infatti pagine in cui prevalgono gli accenti satirici e disincantati che richiamano piuttosto il Flaiano posteriore, mantenendosi lontane da quella nota di angoscia esistenziale che invece attraversa il romanzo. Una nota che ha spinto i primi recensori a riconoscere in Tempo di uccidere l’influenza di Camus, Conrad, Kafka o Giraudoux, ponendo da subito lo scrittore, fin dalla sua prima prova, sullo sfondo della cultura europea. In un’intervista uscita nel 1972, Flaiano propone questa definizione di sé per un’immaginaria enciclopedia del 2050: «Giornalista e sceneggiatore, autore anche di un romanzo, Tempo di morire (concediamo a questa ipotetica enciclopedia una citazione inesatta). Scrittore minore satirico dell’Italia del Benessere». C’è in questa battuta tutta l’amarezza di chi era consapevole di apparire troppo estravagante per essere davvero compreso: in effetti c’è voluto del tempo perché si riuscisse ad annoverare tra i classici del Novecento uno scrittore unico proprio per la sua eccentricità (di intellettuale prestato alle scritture “minori” del giornalismo e del cinema, di narratore eccessivamente disinvolto nel contaminare i generi letterari), un «irregolare» che ha saputo dare lucida testimonianza del suo e, profeticamente, del nostro tempo. ANNA LONGONI

CAPITOLO PRIMO

La scorciatoia


 


Ero meravigliato di essere vivo, ma stanco di aspettare soccorsi. Stanco soprattutto degli alberi che crescevano lungo il burrone, dovunque ci fosse posto per un seme che capitasse a finirvi i suoi giorni. Il caldo, quell’atmosfera morbida, che nemmeno la brezza del mattino riusciva a temperare, dava alle piante l’aspetto di animali impagliati.


Da quando il camion s’era rovesciato, proprio alla curva della prima discesa, il dente aveva ripreso a dolermi, e ora un impulso che sentivo irresistibile (forse l’impazienza della nevralgia) mi spingeva a lasciare quel luogo. “Io me ne vado” dissi alzandomi. Il soldato che fumava soddisfatto, ormai pronto a dividere con me gli imprevisti della nuova avventura, si rabbuiò. “E dove?” chiese.


“Giù al fiume.” Non vedevamo ancora il fiume ma era là sotto, nella sua valle scavata da secoli e guardata da qualche pigro coccodrillo a caccia di lavandaie. Pensavo di trovare un autocarro per risalire dall’altra parte. Dovevo esservi prima di sera o sciupavo uno dei quattro giorni che mi avevano concesso per trovare un dentista.


Sì, dovevo andarmene. Oltre la valle, nel cielo bianco, appariva il ciglio opposto dell’altopiano. Il fiume aveva scavato attorno alle montagne lasciandole asciutte come ossi. Tra i due cigli correvano chilometri, quanti non so, perché le distanze ingannano con questa luce che disegna le più lontane minuzie: forse cinque o sei. E, oltre il ciglio, la vita calma dei depositi. Ancora avanti, e la parola domenica avrebbe riacquistato valore. Avrei trovato il primo letto con le lenzuola, il primo giornalaio. E un dentista.


Il soldato non voleva cedere. “Aspetti,” disse “passerà qualcuno.” Guardai il camion che giaceva con le ruote contro la scarpata e scossi la testa: non passava nessuno. Era passato soltanto un colonnello, annoiato come un generale. E la petulanza del soldato cominciava a infastidirmi. Essersi salvati insieme non mi sembrava più una buona ragione per mostrarci fotografie, raccontarci i fatti propri, azzardare le solite previsioni sul nostro ritorno in Italia. Pure, mi dispiaceva abbandonarlo.


“E così, mi lascia solo?”


Cominciai a raccogliere la mia roba, lo zaino, il cinturone con la rivoltella. Per mitigare la mia fuga cercai un pretesto, ma era un cattivo pretesto: gli dissi che se avessi trovato un camion giù al fiume (spesso i conducenti si fermavano a fare il bagno), sarei tornato ad aiutarlo. Il soldato finse di crederci e questa sua improvvisa e ostile condiscendenza mi fece arrossire. Mi strinse la mano senza calore, veramente deluso. Dopo cinquanta passi, un gomito della strada me li nascose, lui e il suo autocarro, e d’allora non li ho più rivisti.


Era ancora molto lontano il ponte? Avrei potuto prendere una scorciatoia, ma non ho troppa fiducia delle scorciatoie africane. Pure ogni tanto la strada, dalla parte del fiume, si apriva a qualche sentiero che, dopo brevi giravolte, precipitava verso la boscaglia.


Trascurai, dunque, le scorciatoie e dopo due ore (il caldo era aumentato e gli alberi spaventosamente cresciuti, ma sempre più di cartapesta, sempre più vecchi e untuosi, come santi di una religione scaduta), vidi che la boscaglia infittiva e che la strada diventava calda e sabbiosa. Il fiume mi fu davanti all’improvviso. Stavano costruendo un altro ponte.


Tra i grossi alberi c’era ancora qualche croce e sotto la sabbia calda, nelle cassette della carne in scatola e delle gallette, c’era ancora qualche cadavere. Qualche soldato che s’era fermato dicendo: “Non ce la faccio” e aveva anche penato a convincere il sergente e poi il tenente e poi il capitano che lo lasciassero a riposare. E qualcosa di quella natura l’aveva avvertito (forse la sabbia grigia, o le gemme degli alberi), che il suo riposo cominciava davvero. Quelli che incassano le gallette e la carne, lassù a tante migliaia di chilometri, non sanno che quel legno è prezioso. Un legno veramente fragile! Una cassetta serve sempre, e chi ne possiede appena una si allieta la tenda di un mobile straordinario: nei periodi di calma fa in tempo a mettervi il ritratto della donna amata, tra un libro e la borsa del tabacco. E non è tanto difficile procurarsi una donna da amare, quanto procurarsi una cassetta.


Neanche un autocarro. Gli operai avevano smesso di lavorare per il caldo e mangiavano. Freschi arrivati, a giudicare dai grandi occhiali da sole che non avevano ancora buttati via. Stavano seduti davanti alle loro tende, chiacchierando col carabiniere del posto di blocco, ancora sorpresi di essere capitati laggiù, in quella terra così diversa dall’Africa che avevano immaginata.


Dunque, neanche un autocarro. Dissero che quello del cantiere era andato via da poco, e se ne sentiva infatti il motore, già lontano, sulle prime salite. “E ritorna?”


“Domattina” disse un operaio, veramente meravigliato che non conoscessi questo particolare. “Torna domattina coi viveri e la posta.”


I viveri e la posta. Toccai attraverso la stoffa della tasca l’ultima lettera di lei. Era arrivata il giorno prima. Una lunga lettera, fitta di una scrittura eguale, tonda ma esile, e i fogli pieni tutt’intorno al margine, senza uno spazio bianco: proprio una lettera da rileggere. Ma, se non capitava un autocarro, sarei dovuto restare. Cominciavo a perdere la calma. Il mio viaggio stava naufragando. Spiegai allora da dove venivo, l’importanza che aveva per me l’arrivare subito sull’altopiano e raccontai l’incidente. Mentre parlavo vidi che i loro volti restavano impassibili. Non mi aspettavo certo di suscitare molto interesse, ma quegli operai non fecero commenti, né proposero soluzioni. Di autocarri che ribaltano è piena l’Africa.


“A quest’ora è difficile che passi un camion” disse infine il carabiniere. Fece varie ipotesi, parlò di autocolonne che forse sarebbero passate e forse no; e intanto mi osservava, sdraiato a terra, il casco poggiato sulla fronte.


“Se vado su, dove trovo i primi autocarri?”


“C’è un comando a dodici chilometri, proprio sul ciglio” disse il carabiniere e sbadigliò lungamente. Dodici chilometri sarebbero state tre ore di marcia, se il caldo non le avesse portate a quattro. Ed era il momento peggiore per iniziare un’impresa di quel genere: ma dovevo decidermi. “Secondo voi, quanto ci metterò?”


Dalle prime risposte capii la inutilità della mia domanda, ma l’avevo posta perché mi ripugnava andarmene e stavo cercando pretesti. Gli operai si insultavano scherzosamente, in dialetto, cavando anche in questa occasione argomenti regionalistici. Si accusavano di scarso senso delle distanze (avevano trovato anche loro un pretesto, ma per divertirsi), e infine si accordarono: ci avrei messo quattro ore.


“Se cammina svelto, fa presto” disse una voce dietro le mie spalle. Guardai chi aveva parlato, era un giovane biondo. Piuttosto timido, quando lo guardai si impappinò a ripetermi la sua opinione, che non voleva essere affatto ironica. Lungo la discesa, le compresse contro il mal di denti m’avevano tolto ogni appetito. Il caldo laggiù era insopportabile. Affrontai la prima salita, ma non m’ero allontanato di cento passi che mi sentii chiamare: l’operaio biondo correva alla mia volta e, quando mi fu a poca distanza, disse: “Se prende la scorciatoia, risparmia metà tempo”. Restò fermo a guardarmi, aspettando che gli chiedessi dov’era la scorciatoia.


Dove l’avevo già visto quel giovane? Aveva una di quelle facce gentili da operaio, che si sono viste almeno una volta, forse affacciandosi dal finestrino di un treno. O prestavo alla sua singolare bellezza più credito di quanto non convenisse? Spesso ho ripensato a quel giovane (doveva avere un’anima da servizievole cameriere), ma vorrei dissipare ogni dubbio sull’importanza della sua presenza in questa storia. Era soltanto un operaio desideroso di essermi utile e di indicarmi una buona scorciatoia. Il Cielo mi guardi dall’insinuare il sospetto che egli sia più di una semplice comparsa, e che al suo intervento si debba quanto mi seguì.


Dopo due minuti arrivammo al bivio, dovevamo separarci. Gli offrii una sigaretta, ma l’accese male, soffiando come fa chi non sa fumare. Aveva accettato per timidezza e ora mi guardava con due occhi di inferiore premiato. “Non potrà sbagliare” disse quasi per sdebitarsi. E aggiunse un’osservazione scherzosa che aveva indubbiamente sentita da altri; si vergognava a riferirla, ma si decise: “Segua sempre il puzzo dei muli morti”.


“Lo so, grazie.” C’era stata una morìa tra i muli della Sussistenza e tutti i sentieri dell’Africa, puzzavano ormai di muli morti, di resti di muli divorati dagli animali notturni, di teschi che ridevano e brulicavano di vermi.


“Allora, buona fortuna, signor tenente” e l’operaio si allontanò correndo. Quest’augurio finì col precipitarmi nel malumore: voglio dire che mi parve esagerato invocare l’aiuto della fortuna in quell’occasione. Non andavo in battaglia, né avrei traversato le Alpi. Dovevo soltanto seguire una scorciatoia e arrivare in cima, sul ciglio dell’altopiano. Dovevo soltanto trovare un camion e la sera stessa avrei tagliato le pagine di un libro in un letto, il primo letto dopo diciotto mesi.


Pure, dopo che l’operaio m’ebbe gettato il suo augurio, come si getta una sfida, fui tentato di tornare indietro. Per scongiuro toccai il legno di una pianta; ma le piante di quella boscaglia erano di cartapesta, veri fondi di magazzino dell’Universo. “Soltanto un trovarobe senza scrupoli può averle messe in queste terre fuori mano” dissi. E a passo deciso imboccai la scorciatoia.


Camminavo forse da un’ora quando vidi il camaleonte. Brava bestiola. Stava attraversando il sentiero con la cautela di un ladro che cammina sul cornicione dell’albergo preferito. Calmo, onestamente spaventato da quell’Africa piena di insidie metteva una zampetta dietro l’altra con delicatezza. La vista delle mie scarpe non poteva turbarlo più di quanto già fosse e mettergli altri dubbi sulla necessità di proseguire. Dopo averle scrutate a lungo, incerto se montarvi sopra o no, volse le terga. Si affidava al mio senso d’onore. Non avrei osato colpirlo, non l’avrei distolto dalla sua accurata ricerca di cibo.


“Una sigaretta?” Gli infilai la sigaretta accesa in bocca. Se ne andò fumando, da buon diplomatico, sempre più spaventato di vivere, pronto a gettare la cicca per una mosca, pronto a tutto, ma talmente pigro anche lui!


Guardai l’orologio, che segnava le dieci. Camminavo, dunque da un’ora e venti minuti. Il sentiero era stretto, talvolta si sdoppiava per riunirsi subito dopo: abbastanza agevole, troppo agevole, con qualche breve salita e lunghi tratti in piano. Fu questo particolare che mi fece pensare d’aver sbagliato. E da mezz’ora non incontravo resti di muli marciti al sole. Ma ciò era spiegabile, i muli non muoiono sulle pietre miliari, non si distribuiscono equamente lungo un percorso, anche se avvezzi dalla disciplina militare. Ne trovate tre in una buca in misterioso colloquio e poi fate dieci chilometri senza incontrarne nessuno. Mi pareva, piuttosto, di non essermi elevato di molto sul livello del fiume. Forse un centinaio di metri. L’altopiano si ergeva ancora davanti a me, più nitido, benché spesso la boscaglia me ne impedisse la vista.


Proseguii: sapevo che le scorciatoie si accettano, non si discutono. Improvvisamente sarei sbucato sul ciglio dell’altipiano, vicino a qualche fumante cucina di reparto, forse tra un parcheggio di autocarri: così sono le scorciatoie.


Mi tolsi dunque di mente l’idea che avessi sbagliato e proseguii. Non ero stanco, anzi l’essermi tenuto digiuno mi rendeva le gambe sciolte e il corpo leggero; e lo zaino non conteneva molta roba. Mi infastidiva, invece, la grossa rivoltella sul fianco, e fui tentato di metterla nello zaino; ma ero solo e per di più in una boscaglia sconosciuta, tra insidie che non potevo e non volevo immaginare per non turbarmi quella passeggiata verso quattro giorni di libertà. E si aggiunga la noia di quel dente, che a tratti si faceva sentire, sordo, lontano, ma pronto a farmi urlare daccapo. Mi restavano tre compresse.


E se invece del camaleonte, una iena mattutina, stanca di cercar cadaveri e disposta a un compromesso coi suoi gusti? Più della iena vi fa orrore il suo sterco, che un indigeno vi addita sul sentiero, ridendo per lo schifo.


No, niente iene. Girano solo di notte ed è peccato che non vadano parlando di letteratura, come gli amici lasciati lassù, altrimenti saprei come occupare certe insonnie.


Sì, avevo sbagliato, avevo sbagliato in tutti i sensi. Primo: nel prendere una scorciatoia. Secondo: nel prendere quella. Infatti, non traversava mai la strada, come avevo ingenuamente supposto. Così non avrei potuto fermare qualche autocarro, quell’autocarro, per esempio, di cui adesso mi arrivava indistinto il rumore. Era almeno a tre chilometri e andava in salita.


Seguii il rumore, preso da un’inquietudine che non sapevo spiegarmi; ma, poiché il sentiero piegava verso il nord, cioè verso l’altopiano ripresi il cammino: avevo sbagliato, sì, ma non bisognava farne un dramma. In due ore sarei arrivato, poiché ora il sentiero puntava verso il nord e si faceva aspro.


Traversai un torrentaccio secco (c’erano poche pozze d’acqua quasi pulita e un ciuffo di alberi verdi, sempre gli stessi alberi abbastanza maledetti, anche se verdi), e ripresi il sentiero, che s’apriva tra una fitta boscaglia cosparsa di termitai. Qualche nero uccello si staccava al mio passaggio e andava a posarsi più avanti, gridando. Provavo la sensazione di essere seguito e osservato, ma forse era soltanto la stanchezza e il dente, quel tenace dente molare. Cominciai a fischiettare e pensieri piacevoli m’occuparono ben presto la mente: la vacanza, soprattutto. Poi, la lettera che mi bruciava in tasca e potevo rileggere anche subito, la cara lettera che avevo portato con me. Cercai di capire alcune parole poco chiare, scritte in fretta e alle quali attribuivo un valore eccessivo. Forse quelle poche parole avrebbero risposto a tutte le mie ansiose domande, e fu la solita delusione quando le decifrai: si trattava di parole senza particolare significato, di quelle parole che sono destinate ad essere scritte in fretta, anche da una donna molto calma. “Peccato” dissi.


Ora la boscaglia si complicava di alti cespugli che impedivano la vista; e questo fatto mi indusse ancora una volta a fermarmi e a considerare la situazione. Ero nella valle di un affluente del fiume: m’ero allontanato, dunque, sia dal ponte che dall’altopiano, perché il ciglio dell’altopiano rientrava ora sino a confondersi coi monti lontani. Rientrava scavato dall’affluente, che nasceva a nord. Vedevo il piccolo corso d’acqua sotto di me, quasi nascosto dalle piante.


Una pace antica, in quel luogo. Ogni cosa lasciata come il primo giorno, come il giorno della grande inaugurazione. Non doveva essere difficile arrivare giù al fiumicello, ma quali ragioni avrebbero mai potuto spingervi gli uomini? Non la necessità di un traghetto, non la pesca, che qui non si pratica, e nemmeno il bisogno di dissetarsi, poiché l’acqua abbonda anche sull’altopiano e nessuno vivrebbe in questa zona calda. Il piacere di una escursione? Gli indigeni sono piuttosto contrari alle comitive. Se fossi disceso sino a quelle rive avrei trovato tracce di animali e nient’altro. Non c’era forse nemmeno un sentiero e avrei dovuto inventarlo. Ma a che pro? Eppure m’era balenata l’idea di scendervi, tanto l’amore per le imprese inutili è radicato in me. Ch’io sia soltanto un perditempo? Comincio a sospettarlo.


Una leggera brezza increspava in un punto la superficie tranquilla del fiume. Guardando meglio decisi che si trattava di un tronco marcito. Ma il tronco ebbe un guizzo e scomparve: era dunque un coccodrillo, o forse solo un’iguana. Da quell’altezza non potevo giudicare le dimensioni. “Forse aspetta me” pensai, cercando di ridere. Ma era difficile che ormai potessi ridere, e quindi seguitai per la boscaglia.


Non c’era più sentiero.


Cominciai a esserne preoccupato, sicché in fretta rifeci un chilometro, o forse due, verso la direzione del ponte, cercando però di salire. Troppo tardi mi ricordai della precauzione che avrei dovuto prendere, di lasciare ogni tanto pezzi di carta sulle piante. Eppure, quante volte avevamo riso di un nostro ufficiale che si addentrava nelle boscaglie sempre col suo rotolo di carta, lasciandone un pezzo ogni cinquanta passi e numerandoli persino. Ora ritrovare la strada giusta significava perdere molto tempo. Avevo camminato in fretta e, se avessi raggiunto almeno il primo torrente, avrei dovuto camminare altre due ore, o poco meno, per ritrovarmi al ponte; e là essere guardato ironicamente dagli operai. E l’operaio biondo m’avrebbe chiesto: “Ha dimenticato qualcosa?”. Sì, non avrebbe detto altro.


Tornare indietro: era certo una buona risoluzione, se avessi trovato il torrente. Ma era chiaro che il torrente nasceva proprio nel punto in cui l’avevo attraversato. Se non ritrovavo quel punto, inutile parlare di torrente.


C’era un’altra soluzione: arrampicarsi in linea retta verso l’altopiano. L’altopiano non era un miraggio, ma stava là e, dopo quattro o cinquecento metri di dislivello, l’avrei raggiunto. Affrontai, dunque, la prima gibbosità e mi trovai su un altro spiazzo simile a quello che avevo lasciato, gli stessi alberi, la stessa piatta solitudine. Ecco, una terrazza alla volta e sarei arrivato, ero forse più vicino di quanto non osassi sperare. “Coraggio” dissi ad alta voce. E, benché fossi irritato di essermi messo in quel pasticcio da gitante, decisi di uscirne e di raggiungere il ciglio dell’altopiano, almeno prima che il sole fosse disceso dietro l’altro ciglio. Perciò mi rinfrancai e ripresi a salire: ma, giunto alla terza terrazza, mi vidi perduto.


Davanti a me s’ergeva una parete di basalto. A sinistra la terrazza strapiombava. Potevo seguire il sentiero di destra, ma perché aggiungere codicilli ad un’impresa già tanto sfortunata? Inutile allontanarsi di più dal ponte. A sinistra avrei potuto anche tentare, ma era altrettanto inutile, poiché il sentiero non aggirava la parete e si perdeva in una forra. Esplorare una via d’uscita su quel basalto bollente, a rischio di restare sotto il sole? “Via, deciditi, torna indietro” dissi.


Ora sentivo, ma non volevo illudermi, sentivo il fetore di una carogna, il fetore di un mulo. Forse ero salvo. Cercai con gli occhi e la mano andò rapida alla rivoltella, mentre il cuore mi dava un tuffo. Seduto a terra, un abissino mi guardava: s’era appoggiato ad un macigno, si sorreggeva la testa scarna con una mano e guardava proprio me, fisso, senza muoversi, un occhio aperto e uno socchiuso.


La parete rimandò il mio grido e l’abissino non si mosse. Solo un volo di corvi, un lugubre fuoco d’artificio, si levò alle sue spalle. Subito i corvi tornarono.


Mi allontanai in fretta e un altro cadavere apparve. Era disteso, la mano immobile indicava il cielo. Dietro di lui, un altro guerriero, steso bocconi, la testa poggiata sugli avambracci, in una calma suprema: forse ascoltava ancora le parole dell’altro che gli indicava il cielo. Giacevano con i resti del loro accampamento, latte da petrolio vuote, e la cenere di un fuoco tra due pietre. E, sopra le pietre, una pentola dove qualcosa aveva smesso di cuocere da molto tempo.


Stavolta lo scoiattolo che si fermò a guardarmi, e con simpatia, non mi fece ridere. Ripetevo a me stesso che se avessi perduto la calma, sarei rimasto là. Se avessi cominciato a correre (come ne avevo davvero voglia), se per vincere la paura mi fossi messo a urlare che avrei ottenuto? Dovevo pensarci con calma, riposare un poco all’ombra dell’albero meno sgradevole. Ma questi erano rottami di buoni propositi che già non riuscivo più a controllare. E l’orologio s’era fermato.


E questo rumore? Tendevo l’orecchio per sentire il confortante rumore di un camion, ma ormai ero troppo lontano, troppo lontano!


Spiegai la carta topografica, cercando il fiume e il villaggio sull’altopiano che sarebbe stata la mia prima tappa. Vari sentieri si dipartivano dal fiume, trovai il traghetto, ossia la località del ponte. Tutto era estremamente sommario, il fiumicello non figurava e i nomi dei sentieri dicevano quale romanticismo aveva ispirato il topografo. Incapace di licenziare una tavola con tanti vuoti, vi aveva aggiunto a capriccio brevi frasi: Residenza eventuale di pastori, oppure: Qui si incontrano molti struzzi. Soltanto allora mi accorsi che quella carta era vecchissima, stampata ormai da mezzo secolo.


Ripresi un po’ di coraggio, ridendo, e i nervi mi si distesero. Ma debbo aggiungere che il suono della mia voce, quasi estranea in quel luogo, troncò ben presto quella futile allegria, ripiombandomi nella più nera inquietudine. “Di qui non esco” pensavo. L’idea di trascorrere la notte accanto a quei cadaveri, e di rivedere all’alba la mano in atto di indicarmi il cielo, mi parve insopportabile. Ancora guardai la carta: c’era un sentiero, forse proprio quello che avevo abbandonato prima, o la scorciatoia che non avevo saputo seguire. Si chiamava Harghez.


Ripresi a camminare: rifeci le due terrazze, infilai daccapo la boscaglia. Dopo un’ora, sfinito, mi sedetti vicino a un termitaio.


Come mai non avevo mai visto prima quel folto d’alberi verdi? Se c’erano alberi così fronzuti c’era anche acqua, e dove c’è acqua non manca mai un sentiero. Trovare un sentiero, che fosse dei pastori, degli struzzi o dei coccodrilli, o un sentiero senza nome, con la sua brava carogna di mulo della Sussistenza, oppure con un soldato che sta leggendo un giornale del mese scorso! Ritrovando tutta la mia calma, davanti al suo disagio, direi: “Si va bene di qui?”.


Raccattai la mia roba e corsi verso gli alberi, rinfrancato di colpo, ma dopo pochi passi mi fermai. Era là per terra, la busta che avevo tratto di tasca qualche ora prima e che doveva essermi caduta rileggendo la lettera. Il mio nome spiccava vergato dalla sua mano e allora rammentai che quelle due parole mi distinguevano da tutti gli altri esseri umani e mi proclamavano vivo in quella sinistra boscaglia: era la lettera più gradita che potessi ricevere in quel momento. Mi diceva inoltre che stavo vicino al “mio” sentiero, anzi che il sentiero era proprio là, dopo gli alberi e le pozze d’acqua. Tra quei cari alberi ricominciava la vita e ogni cosa ripigliava la sua vera proporzione, anche la mia paura. E quegli abissini lassù erano soltanto tre morti. O forse la lettera voleva darmi un altro aiuto che io non seppi intendere.


Ripresi la corsa e lasciavo che le gambe si muovessero automaticamente, ma ancora dovetti fermarmi. Tra gli alberi c’era una donna che stava lavandosi.


La donna non si accorse della mia presenza. Era nuda e stava lavandosi a una delle pozze, accosciata come un buon animale domestico. Mentre la osservavo, pensai che mi avrebbe indicato la strada e così non sarei dovuto tornare al ponte. Una donna che si lava è spettacolo comunissimo quaggiù, e indica la vicinanza di un villaggio. “C’è di tutto in questa boscaglia” dissi. E continuai a guardar la donna. Anzi sedetti, mi accorgevo ora di essere veramente stanco dopo l’inutile marcia della mattinata.


La donna alzava le mani pigramente, portandosi l’acqua sul seno e lasciandovela cadere, sembrava presa in quel giuoco. Forse era là da molto tempo, decisa a lavarsi senza fretta, per il piacere di sentirsi scorrere l’acqua sulla pelle, lasciando che il tempo scorresse egualmente. Non si accorgeva della mia presenza e restai a guardarla. Era uno spettacolo comunissimo, ma. migliore degli altri che mi si erano offerti sinora. Poiché il giuoco non accennava a finire, accesi una sigaretta, e intanto mi sarei riposato.


Alzava le mani e lasciava cadere l’acqua, ripetendo il gesto con una melanconica monotonia. Era il suo modo di divertirsi e forse di volersi bene. Il suo modo di lavarsi era differente: si strofinava come una massaia, quasi che il corpo non fosse suo. Ma erano brevi parentesi in quella noia. Quando un corvo venne a bere a una pozza vicina, la donna gli tirò un sasso, urlando, e lo colse in pieno. Il corvo annaspò verticalmente e raggiunse l’albero, accoccolandosi tra i rami. La donna seguitò a urlare, poi tacque e riprese a lavarsi con estrema indolenza.


Perché disturbarla? Era di pelle molto chiara, ma non badai a questo particolare, sorprendente in quella boscaglia. Soltanto sulle montagne di Gondar avevo incontrato donne di pelle così chiara, dove, suppongo, la dominazione portoghese ha schiarito la pelle e i desideri delle donne che si incontrano. Ricordai quella donna che avevo incontrato su certi meravigliosi prati e che s’era accostata per dirmi una sola parola: “Fratello”. E aveva aggiunto il sorriso di una timidezza non ancora perduta, restando poi a guardarmi come se la faccenda non riguardasse anche lei. Mi lasciava intera una responsabilità quasi inevitabile.


Per lavarsi la donna aveva raccolto i capelli in una specie di turbante bianco. Ora che ci penso: quel turbante bianco affermava l’esistenza di lei, che altrimenti avrei considerato un aspetto del paesaggio, da guardare prima che il treno imbocchi la galleria. Quel fazzoletto di cotone definiva ogni cosa, e io non sapevo allora che avrebbe definito tutto. Non potevo saperlo e ammiravo l’istintiva grazia di quella donna che riusciva con un solo fazzoletto a restare vestita e a offrire un rapporto a me che l’osservavo.


Quando si levò in piedi e prese a lavarsi il ventre e le gambe, mi accorsi che era molto giovane, si muoveva però con una lentezza di una donna matura, che potevo attribuire soltanto alla noia di quella calda giornata. Poi mi accorsi che era bella, anzi mi parve troppo bella, o forse la solitudine mi imponeva questo giudizio senza scelta. No, era davvero una di quelle bellezze che si accettano con timore e riportano a tempi molto lontani, non del tutto sommersi nella memoria. O che ritroviamo nei sogni, e allora non sappiamo se appartengono al passato o al futuro: perché la prudenza ci consiglia di non escludere questa seconda possibilità. Niente sogni: ero sveglio e lei stava lavandosi a pochi passi, con un sapone dell’esercito. Vedevo la sua pelle chiara e splendida, animata di un sangue denso, “un sangue avvezzo alla malinconia di questa terra” pensai.


Forse lei non ne sapeva niente della sua bellezza. Il suo specchio era quella pozza, oppure uno specchio da poche lire, che le rimandava un’immagine sconnessa. E nessun uomo aveva ancora lottato per lei, questi uomini evitano la gelosia e danno alle cose il loro giusto valore. Costretti a vivere in una natura abbastanza drammatica, il loro desiderio non si eccita nel dramma. Forse aveva marito e persino figli. Ma no, era troppo giovane, e se avesse avuto figli non li avrebbe lasciati al villaggio, anche loro sarebbero lì a far chiasso, a chiedermi monete o roba da mangiare.


Quando mi scoprì tra le piante seguitò a lavarsi con calma, senza curarsi di me e forse non curandosene davvero. Ebbi quasi voglia di ridere e pensai che uno di noi poteva essere un miraggio, ma non io. E lei, non era troppo simile a quelle beltà che i soldati cercano per fotografare o per altri scopi?


Avevo finito la sigaretta e mi avvicinai, dovevo passare dì lì per raggiungere il sentiero. Lei si rimise nella pozza e riprese il suo monotono divertimento. Guardava l’acqua scendere sulla pelle e questo le bastava. I suoi pensieri, se ne aveva, si muovevano pigramente e non riguardavano la mia persona. La donna non supponeva che in quegli istanti la valle mi stava apparendo estremamente fittizia, creata da un desiderio che non avevo mai osato confessarmi. Non supponeva davvero che la desiderassi; oppure non si muoveva appunto perché rispettassi la sua calma. Una donna che fugge attira l’inseguitore, anzi lo crea. Istintivamente lei doveva pensare questo e perciò stava ferma, aspettando di vedermi proseguire. O pensava che potevo dirglielo chiaramente.


Ero un “signore”, potevo anche esprimere la mia volontà. Se anzi mi fossi preso il fastidio di seguirla sino alla sua capanna e avessi detto: “Voglio, sposarti per un mese o due”, lei mi avrebbe seguito senza chiedersi nulla. Il padre avrebbe raccolto le poche monete nella mano e la donna mi avrebbe seguito, all’avventura. Ma era un’idea assurda, perché non si torna al campo e non si entra nella tenda della mensa gridando: “Esposito, un altro coperto”. Dopo un paio di notti, stanco di doverla nascondere, avrei cominciato a studiare la maniera di disfarmene, cedendola a qualche disincantato ufficiale magazziniere. E l’avremmo vista con un ombrello e un paio di scarpe chiodate, misura un po’ larga, camminare tenendosi anche in equilibrio. No, la bellezza che si ritrova nei sogni è prudente lasciarla sul cuscino (o nelle boscaglie), e non portarsela in giro: si rischia di dover fornire troppe spiegazioni. O l’avrei rimandata al suo villaggio. E lei, per tutto il tempo pattuito, mi sarebbe rimasta fedele senza sforzo.


Mi avvicinai e dissi: “Sì va bene di qui?”.


Sorrise, ma era evidente che non capiva. Le indicai l’altopiano e lei fece cenno di sì. Ma era un “ sì” che non voleva dir nulla. Voleva dire soltanto che lei vedeva ciò che le stavo indicando. Non c’era verso di farle dire altro che: sì. Tutto era positivo per lei, che prendessi a destra o a sinistra, di qua o di là. E mi guardava con gli occhi socchiusi.


“Adi?” (Adi vuol dire paese; una delle poche parole che conoscevo).


“Adi?” ripeté con una voce bassa che la fece sembrare meno giovane, ma più desiderabile. Poi fece cenno di sì, sempre di sì. Non fu facile farle intendere che volevo che m’indicasse la direzione del paese. Si alzò, non curandosi del suo corpo nudo. mi venne vicino e tese il braccio oltre la mia spalla.


Non vidi altro che le montagne aguzze, oltre il fiume. Poi, guardando meglio, a circa un chilometro, vidi una collina alberata. Forse era là, il villaggio. Immagino, poche capanne, forse la residenza eventuale dei pastori. Tuttavia non era il caso di arrivarci, adesso che avevo ritrovato il mio sentiero e potevo tornare al ponte e trovare un camion. E il villaggio, se c’era, non stava sulla strada dell’altopiano, ma verso il fiume. Ed era strano che ci fossero capanne in quel luogo. Oppure erano capanne recenti, costruite dai profughi dell’altopiano, impauriti per l’avanzare della guerra.


Non vedevo il suo corpo nudo, ma sentivo quel seno noncurante vicino alla mia spalla. Lo toccai. Mi tolse la mano dal seno, quasi con terrore, e si rimise nella pozza. Forse la mia mano aveva tremato, comunque lei era nella pozza e se le avessi chiesto di indicarmi qualche altra località, per esempio Il fiume, non si sarebbe alzata. Non sorrideva più.


“Debbo andarmene,” pensai “nulla mi trattiene qui, non certo lo spettacolo comunissimo di una donna che si lava.” Ma benché cercassi così di negarlo, ora il sentiero giusto non stava più in cima ai miei pensieri. In quell’attimo il vento portò il rumore di un camion. Mi rimproverai aspramente di non aver atteso al ponte, a quest’ora sarei sull’altopiano. Era il secondo camion che sentivo salire e chissà quanti ne erano passati in quelle ore che avevo trascorse là, stancandomi. Guardai il palmo della mano ancora bagnato e decisi di lavarmi. C’era un’altra pozza di acqua pulita, mi tolsi la camicia e pensai: “Mi farà bene. Eviterò un colpo di sole”.


Si incuriosì alla vista di quel nuovo pezzo di sapone. Si agitava, adesso e non sapeva decidersi a chiedermelo. Glielo gettai (ne avevo un altro), e lei si insaponò daccapo, ridendo e annusando il sapone; e anche vergognandosi, perché aveva ceduto al fascino di qualcosa che mi apparteneva. Cominciava a riconoscermi dei diritti. Forse perché l’uomo, quaggiù, considera le nostre macchine come enti soprannaturali che funzionano per intervento divino e, siccome accetta la metafisica, non se ne meraviglia troppo, almeno finché non lasciano cadere bombe e non sparano. Ma il fiasco, il sapone, oh, queste cose sono fatte dagli uomini, Dio non c’entra, fatte dai “signori”, e segnano la loro superiorità.


La guardavo e la purezza del suo sguardo rimaneva intatta. Mi chiesi come si poteva simulare a tal punto l’innocenza e pensai daccapo che era un miraggio, un miraggio per fotografi. Eppure la mia mano custodiva quella forma e, sciaguratamente, la custodisce ancora.


Cominciai a rivestirmi, era davvero ora di andarsene. La realtà era diversa, la donna doveva già conoscere le frettolose esigenze dei soldati, o degli operai del ponte, e il loro esatto compenso. “Peccato” pensai. E, senza staccare lo sguardo dalla donna, pensai anche alla lettera che avevo in tasca.


Avrebbe riso. Ne avevamo sempre riso insieme di certe eventualità, ritenendole immaginarie. Si può impedire ad un uomo di soddisfare i suoi desideri, quando questi non lasciano traccia, futili come sono? Tornando, mi avrebbe chiesto: “E allora, sono veramente belle le donne di laggiù?” e non avrebbe atteso risposta, come argomento già discusso e di nessuna importanza. Non era nemmeno tradimento, ma un omaggio alla lunga noia dell’esilio.


Raccolsi la mia roba e le feci un bel saluto. Lei mi sorrise riconoscente, perché le lasciavo quell’incomparabile sapone. Non avevo mosso i primi passi che già la donna cominciava a vestirsi. L’operazione era molto semplice, doveva prima infilarsi una tunica, e poi avvolgersi in una larga toga di cotone. Vestita ancora come le donne romane arrivate laggiù, o alle soglie del Sudan, al seguito dei cacciatori di leoni e dei proconsoli. “Peccato,” dissi “vivere in epoche così diverse!” Lei forse conosceva tutti i segreti che io avevo rifiutato senza nemmeno approfondire, come una misera eredità, per verità noiose e conclamate. Io cercavo la sapienza nei libri e lei la possedeva negli occhi, che mi guardavano da duemila anni, come la luce delle stelle che tanto impiega per essere da noi percepita. Fu questo pensiero, credo, che mi trattenne. Né potevo diffidare di un’immagine.


La osservai. Si stava infilando la tunica e per un attimo la sua testa scomparve nel cotone e rimase quel corpo nudo, quel seno che stentava a passare alla cintola e doveva essere raccolto dalle mani. Tornai indietro, presi la toga che lei già si stava acconciando, la stesi per terra e costrinsi la donna a sedervisi.


Mi respinse, quando la toccai, e fece il gesto di levarsi. S’era rabbuiata. La rimisi a sedere bruscamente, la stessa febbre di prima m’aveva ripreso; e lei mi respingeva con fermezza, ma il mio desiderio, così male espresso, non l’offendeva: non ne faceva una questione di belle maniere e di opportunità. Respingeva le mie mani perché così Eva aveva respinto le mani di Adamo, in una boscaglia simile a quella. O forse per aumentare il valore dell’impresa, perché il respingere è una fase del gioco, o perché aveva paura. Ma paura di che? Non era certo la paura di essere violata, ma quella più profonda della schiava che cede al padrone. Doveva pagare la sua parte per la guerra che i suoi uomini stavano perdendo o forse sottilizzavo troppo? Quel sapone dell’esercito… Non era soltanto timore che non la compensassi?


Avevo in tasca due monete d’argento. Gliele misi sul palmo della mano. Non era questo. Sembrava molto tentata di prenderle, eppure me le restituì. C’era qualcosa che non capivo. L’odio per i “signori” che aveva distrutto la sua capanna, ucciso il suo uomo? Il timore di essere sorpresa là da qualche abitante del villaggio che mi aveva indicato? La feci alzare e la condussi nel più folto degli alberi. Mi seguì docilmente, ma appena ritentai di afferrarla, di nuovo cominciò la sua lenta e tenace resistenza. Si difendeva cortesemente, senza crederci e, oso dire, pensando ad altro.


Le chiesi se era sposata, questo sapevo chiederlo. Scosse violentemente la testa. Allora, quale ostacolo si opponeva ai miei desideri abbastanza giusti? “Su, sorella, coraggio, la scena biblica è durata anche troppo! “ dissi. Ma cominciavo a non capirci più, e la lasciai. Ebbe il torto di sorridere, e la ripresi; e daccapo si difese.


Forse, come tutti i soldati conquistatori di questo mondo, presumevo di conoscere la psicologia dei conquistati. Mi sentivo troppo diverso da loro, per ammettere che avessero altri pensieri oltre quelli suggeriti dalla più elementare natura. Forse reputavo quegli esseri troppo semplici. Ma dovevo insistere: gli occhi di lei mi guardavano da duemila anni, con il muto rimprovero per un’eredità trascurata. E mi accorgevo che nella sua indolente difesa c’era anche la speranza di soccombere.


Perché non capivo quella gente? Erano tristi animali, invecchiati in una terra senza uscita, erano grandi camminatori, grandi conoscitori di scorciatoie, forse saggi, ma antichi e incolti. Nessuno di loro si faceva la barba ascoltando le prime notizie, né le loro colazioni erano rese più eccitanti dai fogli ancora freschi di inchiostro. Potevano vivere conoscendo soltanto cento parole. Da una parte il Bello e il Buono, dall’altra il Brutto e il Cattivo. Avevano dimenticato tutto delle loro epoche splendide e soltanto una fede superstiziosa dava alle loro anime ormai elementari la forza di resistere in un mondo pieno di sorprese. Nei miei occhi c’erano duemila anni di più e lei lo sentiva.


Erano forse come animali preistorici capitati in un deposito di carri armati che s’accorgessero d’aver fatto il loro tempo e ne provassero perciò una inconsolabile malinconia…No, troppo semplice, non avrei mai capito.


La lotta continuò ancora, e avrebbe potuto continuare: anch’io pensavo ad altro. E invece, com’era cominciata così bruscamente finì: ma evitava di guardarmi


Qualcosa era nato in me che non sarebbe più morto. Guardando la boscaglia la vedevo tremare come in preda ad un innocuo terremoto. I corvi non avevano smesso i loro voli disordinati e venivano a turno alle pozze, poco distanti; anzi, incuriosito della nostra immobilità, uno di essi calò sopra di noi e stette fermo un attimo, battendo le ali. Poi, riprese il suo volo goffo.


Pensavo che qualcosa era nato in me, che non sarebbe più morto. Era nato al contatto di quella buia donna. Oppure avevo ritrovato qualcosa? Mi chiedevo perché giacesse senza aprire gli occhi e, quando li apriva, evitasse di guardarmi; e intanto le sue mani, poco prima estranee, ora cercavano la mia pelle e stringevano spaventate che avessi potuto andarmene, lasciarla come si fa in questi casi, dopo che si è tratti a considerare con fastidio il proprio errore.


Sentii lontano il rumore di un camion e allora decisi che me ne sarei andato, subito, ma non potevo muovermi, forse ero stanco, e la donna stava lì, muta e indolente. Quando seppi che poteva essere lei a trattenermi, mi imposi di andarmene, prima che fosse troppo tardi, prima che mi lasciassi guidare alla sua capanna e vi trascorressi i quattro giorni della mia licenza e forse anche di più, prima che accettassi quella incalcolabile sconfitta. Mi alzai e lei mi guardò appena tra le palpebre socchiuse e si portò gli avambracci sul viso. Dopo un attimo (mi dissi che ero troppo stanco e che dovevo riposare), ero ancora vicino a lei. Mi strinse con una dolcezza indolente. Faceva caldo e mi addormentai.


Dormii un vecchio sonno disordinato. Ne avevo paura, ma non volevo abbandonarlo e speravo che continuasse. Trovavo fiumi profondi, rive che non avevo mai visto e dalle quali mi sarebbe stato difficile tornare alla realtà. Esisteva un altopiano, un camion per andarci? Esisteva qualcosa di diverso? Scendevo alla riva dell’affluente e il coccodrillo aveva l’aria di darmi il benvenuto, e scompariva come un tronco d’albero, lasciandomi felice di quell’accoglienza che mi assolveva.


Non avevo dormito molto, venti minuti. La donna s’era intanto infilata la veste e sorvegliava il mio sonno. La guardai con fastidio e del resto lei sembrava immersa nei suoi pensieri, che non riguardavano, daccapo, la mia persona. Andai a lavarmi alla pozza e da un’altra pozza presi acqua per bere, era tiepida ma ne bevvi molta egualmente. Avevo anche fame, adesso, e dallo zaino trassi una galletta e una scatola di carne, ma la carne si era sciolta per il caldo e allora aprii una scatola di frutta. La donna mi guardava, seguendo i miei gesti come se assistesse a un giuoco di prestigio. Non volle accettare la carne, mangiò una pesca, ma era qualcosa di nuovo che la lasciava incerta. Forse avrebbe preferito uno di quegli spaventosi stufati abissini di carne seccata al sole.


Qui ripresi il dominio della situazione. La memoria ci univa ma la scatola rimetteva un muro alto e invalicabile tra noi. Ora desideravo andarmene, ero sazio. Un libro e quattro chiacchiere a una mensa di comando tappa, dove si incontra persino un amico che non vi chiede quando finirà questa storia e non vi infligge il racconto delle sue avventure!


Dovevo andarmene e raccattai lo zaino. La donna non disse nulla. Sapeva che la cosa non sarebbe durata e non era sorpresa per la mia improvvisa decisione, nemmeno la deplorava. Forse tutto le era indifferente, benché le sue mani avessero cercato con tanta furia la mia pelle. E non potevo immaginarmi il perché di quella furia. Ecco, la donna mi guardava come poco prima, quando le avevo chiesto se andavo bene di qua o di là. Tutto era finito. La sua delusione apparve soltanto quando la salutai e mi ricordò che per la seconda volta quel giorno lasciavo una persona cercando di superare un senso di colpa. Prima avevo abbandonato il soldato sul camion (e forse stava ancora ad aspettare soccorsi), adesso abbandonavo lei, duemila anni.


“Sì, duemila anni” pensai “ma trascorsi. Non valgono di più quattro giorni?” E risi, mentre la donna, poggiato il mento sulle ginocchia, che teneva raccolte tra le braccia, sembrava assorta nel suo pensiero. “È tardi” conclusi “e niente ora mi trattiene quaggiù.” La donna si era fatta misera ai miei occhi e il mio peccato insignificante. Anche la natura era quella di prima, ostile ma vecchia, decaduta, abbacinata da un sole che non ammetteva più equivoci. La donna era soltanto una donna, aveva un nome, un giaciglio e quelle pozze d’acqua erano il suo misero mare. Ogni cosa diventava irrisoria e, quando ricordai che a due ore di strada c’era un carabiniere, sorrisi persino.


Ripresi dalla tasca le due monete d’argento e le rimisi nel palmo della sua mano. Ancora le guardò, tentata di prenderle, e ancora me le restituì. Non voleva nulla e, purtroppo, ne fui fiero.


Allora mi sedetti accanto a lei (solo un minuto, il tempo di salutarla), e aprii lo zaino. C’era qualcosa che le piacesse in quello zaino? Tirai fuori tutto e ogni volta facevo cenno che poteva prendere l’oggetto che le mostravo. Voleva un paio di mutande? Una camicia? Un asciugamano, dono addirittura nuziale? Voleva questa piccola Bibbia stampata a Oxford? Manca soltanto un foglio bianco finito sciaguratamente in cartine per sigarette. Ma non si nota affatto. O questa maglia di lana? Allora il necessario per la toeletta? Forse il dentifricio, o giglio delle convalli? Ma no, il sorriso che rompe a tratti la gravità del tuo volto è come la luna tra le nuvole del temporale. Niente dentifricio. Allora… No, questo no, lasciamo stare questo pacchetto di lettere. Forse questo paio di pantaloni corti? Sì, volle i pantaloni corti.


“Troppo poco” pensai. Le feci vedere l’orologio. Era un pessimo orologio che si fermava sempre nei momenti critici: e l’avevo provato proprio quel giorno. Da molto tempo meditavo di comprarmene un altro e, stavolta, all’Asmara me lo sarei comprato. Quale migliore occasione per disfarsi di un orologio che ha un confuso concetto del Tempo? L’avrei lasciato in quella boscaglia, se lo meritava.


La donna guardò l’orologio, affascinata. Era troppo, l’offerta stava superando ogni onesta capacità di rifiuto e la sua deplorazione per la mia improvvisa partenza cadeva ora di fronte a questo impensato sacrificio. Era un orologio da quattro soldi, che si fermava puntualmente quando più ne avevo bisogno. Una notte che avessi dovuto stare in piedi e mi abbandonava. Quale migliore occasione per abbandonarlo?


Glielo affibbiai al polso e il petto le ansava in una gioia profonda, in una trepidazione vivissima. Ora, credo di essere arrivato a capire il perché di quella donna. Quel giorno, anzi in quelle ore, stava varcando la soglia della giovinezza, lasciandosi alle spalle l’adolescenza, e i suoi gesti prendevano dell’una e dell’altra età. A volte indolente, poi di colpo ancora vivace, piena di curiosità da soddisfare. E, dopo un istante, lontanissima, lontana i suoi duemila anni e stupefatta di trovarsi viva accanto ad un uomo vestito di tela marrone Mentre le affibbiavo l’orologio mi guardò a lungo negli occhi, inclinando la testa: ed ebbi la sgradevole sensazione di infilarle l’anello nuziale.


Non voleva altro? Ora potevo andarmene.


Invece sbagliavo. La donna nemmeno per un attimo aveva creduto alla possibilità ch’io la compensassi in quel modo. Aveva anzi creduto, troppo tardi me ne accorsi, che quegli oggetti fossero una caparra per rassicurarla che non me ne sarei andato. E quando vide che me ne andavo davvero, lanciò un grido che mi ferì le viscere. M’era corsa vicina e mi tratteneva per un braccio e si appoggiò con tutto il corpo contro il mio e ancora una volta sentii il suo seno, libero nella tunica, premere contro il mio braccio. Ora parlava, benché non afferrassi una parola del suo appassionato discorso. Per farla tacere, feci cenno di sì, sarei restato, ancora un poco, il sole era alto e dopotutto mi bastava arrivare al ponte prima del crepuscolo.


Ritornai verso gli alberi, lasciandomi condurre e la cosa ricominciò. Di nuovo lo sgomento di cadere in quel fiume secolare, di nuovo la gioia di caderci e la certezza che era inutile uscirne. Dopo, ancora mi addormentai. E ancora una volta, sopra la mia testa, il suo seno che vegliava.


Quando mi svegliai, la donna era andata via. Il mio primo moto fu meschino, frugai nello zaino per vedere se avesse tolto qualcosa, e c’era tutto.


Era mutata l’aria, non più il caldo di prima, ma quasi un distendersi della terra sotto il primo alito serale: il sole si avvicinava all’orizzonte e i rumori della valle si facevano più sordi. Ero sfinito, quel sonno invece di ristorarmi aveva scatenato tutta la mia stanchezza, sentivo le palpebre pesanti, la bocca amara, il corpo spezzato. Corsi a lavarmi e cambiai la camicia che era un impasto di sudore e di polvere. Avevo fretta di andarmene, ma ora la partenza della donna mi stava lasciando insoddisfatto, come se tutto ciò che era avvenuto fosse stato parto della fantasia da mettere in conto alla prolungata castità.


Ma dovevo andarmene, troppi corvi tra quei rami. Avrei ripreso il mio sonno al cantiere e già meditavo una scusa da offrire alla curiosità degli operai. Ecco: smarrito il portafogli, avevo rifatta la scorciatoia su e giù un paio di volte. All’alba il camion mi avrebbe portato sull’altopiano, di lì un altro camion ad Axum, ad Adua e poi nella vecchia colonia, dove si trova un letto, un ristorante, un libro. E una donna, forse? No, la mia licenza su questo capitolo s’era già conclusa, provavo anzi un certo rancore per me stesso e, sentendo nello zaino il caro pacchetto delle lettere, lo soppesai rassicurato: quel giorno sarebbe cancellato dalla memoria più presto di tanti altri, probabilmente. Eppure, se la donna fosse ricomparsa tra gli alberi e avesse detto: “Resta”, sarei restato? Era quest’incertezza che mi infastidiva. Non che la donna avesse assunto importanza ai miei occhi, ma cominciavo a temere che nascondesse un odioso disegno e mi sentivo incapace di confonderlo, anzi non volevo. Ma quale disegno? Non era il caso di chiederlo agli alberi e ai corvi, a quella natura, insomma, che parla sempre della tua antica vittoria, e che parteggia per i vinti.


La donna veniva in fretta verso il torrente. Così nobile nel manto romano, ma a piedi nudi. Veniva verso di me e portava qualcosa, non distinguevo bene che cosa. Quando mi fu vicino, sedette e aprì un cesto di paglia: c’erano uova e un pane azimo, di quello che gli indigeni cuociono mettendo una pietra rovente nella pasta di farina. Era ancora caldo.


Non dubitò nemmeno ch’io mi sedessi accanto a lei. Era tacitamente convenuto che avrei onorato la sua offerta e, mentre bevevo le uova (credo che non ci sia operazione più opprimente da farsi quando vi osservano), ella teneva le mani sul grembo: proprio come certe parenti guardano soddisfatte il piccolo che non rifiuta la merenda. Mi guardava sempre coi suoi occhi socchiusi e fu allora che mi accorsi che aveva le pupille molto chiare, verdi e grigie, comunque non di quel prepotente color nocciola comune a tutte le dame di quaggiù. Gli antenati portoghesi avevano lasciato un segno, a meno che non fosse stato il proconsole o il cacciatore di leoni. E sempre più mi meravigliavo che una simile principessa fosse scaduta a vivere in quel bassopiano, mentre nelle città qualche generale o qualche autista sarebbe stato assai lieto di proteggerla. Da sotto il turbante le spuntavano ciocche di capelli: non aveva dunque i capelli acconciati a treccine. “Fai vedere” dissi, e cercai di toglierle il turbante. Mi respinse la mano bruscamente, si tolse lei il turbante, appena il tempo di farmi constatare che i suoi capelli erano quasi lisci e non intrecciati. Poi si racconciò il turbante come se la testa non fosse sua, goffamente.


Il nostro forzato silenzio cominciava a mettermi a disagio. E allora feci ciò che ogni soldato fa in terra straniera: presi il mio taccuino e disegnai un cane. Mostrai il disegno alla donna e lei disse: “Chelbì”.


Benissimo, chelbì. Disegnai allora una gallina e lei disse: “Doro”. Magnifico, seguitiamo. Disegnai una donna nuda e le indicai i capelli, il naso, il collo, la bocca. Quando le indicai altre parti, rise nascondendo la bocca nella mano e non rispose. Disegnai un pesce, una luna. Disegnai un coccodrillo. “Harghez!” esclamò intimorita, quasi che il mio disegno avesse potuto animarsi e il coccodrillo cadere a terra, e prendere le sue vere proporzioni.


Cambiai pagina. Si divertiva a vedermi disegnare così rapidamente e appena accennavo un nuovo disegno lei interveniva a risparmiarmi la fatica di terminarlo dicendo il nome della cosa che voleva rappresentare. Riempii così qualche pagina. Ogni volta che tentavo di spingere il giuoco oltre i limiti della decenza, lei rideva nascondendo la bocca dietro la mano e non rispondeva. E, come il giuoco proseguiva, la sentivo accostarsi a me, sentivo il suo corpo tiepido e, pesante appoggiarsi per veder meglio le figure che tracciavo; ma non le interessava sapere come quelle cose si chiamassero nella mia lingua. Infine, mi tolse il lapis dalle mani e, disegnò lei qualcosa. Disegnò uno sgorbio che poteva anche essere una croce, una croce copta. Voleva farmi sapere che era cristiana. “Molto bene,” dissi “come si fa a non esserlo in tempo di guerra?” Ma lei non capì, ed era inutile che tentassi di farle capire le mie sciocchezze. Poi, ero già stanco.


Dal momento che lei era tornata (soddisfatta anche questa ultima ignobile vanità), potevo andarmene. Ma immaginate ora un gettone che stenti a entrare nella sua fessura e che dopo molti sforzi riusciate a farcelo precipitare: così in quell’istante il sole cadde all’orizzonte, stanco di sostenere a lungo la commedia del tramonto africano. Ben presto l’aria scurì, i rumori aumentarono e il primo grido dello sciacallo servizievole si udì lontano: da queste parti sostituisce il fischio dei treni nella notte e dà lo stesso desiderio di andarsene. E soltanto allora mi accorsi che la lampada tascabile si era rotta, forse nella caduta del camion.


Ero in trappola. Giammai avrei potuto raggiungere il ponte, a meno che la donna non avesse consentito ad accompagnarmi. Tracciai un disegno del ponte e glielo mostrai. Puntai il dito contro il mio petto e le feci capire che io e il ponte eravamo una cosa sola, dovevamo incontrarci, dovevo andarci. Chinò la testa più volte per dimostrarmi che aveva capito. Ma non accennava ad alzarsi, la cosa non la riguardava affatto.


Irritato, la presi per mano, le feci intendere a gesti che doveva accompagnarmi, almeno sino al punto in cui avevo perso la strada, ma probabilmente capì che volevo portarla al ponte per passare la notte con lei nella mia tenda e quest’ipotesi doveva apparirle assurda, perché si rifiutò di seguirmi. Rimase ferma come l’avevo già conosciuta prima, testarda, imprendibile.


Mi infuriai. La spinsi davanti a me, e per qualche passo andò bene. Dopo si fermò, guardandomi con le palpebre socchiuse, con quel suo sguardo insopportabile di animale diffidente. Non c’era niente da fare. Oramai era buio e sarebbe stata una notte senza luna. Mi sedetti a fumare una sigaretta, dopotutto ero stato io a volerlo e non dovevo incolpare quella donna. Vedendomi calmo, ella mi venne vicino e indicò di nuovo il villaggio, oltre gli alberi. Scossi la testa per dire di no, non ero tanto sciocco da ficcarmi in un’avventura così malsana: si fa presto a nascondere il cadavere di un ufficiale, basta portarlo in processione al coccodrillo. E nessuno avrebbe mai chiesto a quegli indigeni se mi avessero visto passare da quelle parti.


Che dunque la donna tendesse a portarmi proprio nella tana di qualche inappagato guerriero? Andai con la mano alla rivoltella e mi rassicurai, avevo sempre i miei sette colpi, più il caricatore di riserva: pallottole ben ingrassate, rivoltella pulita.


Riprese lontanissimo il baccano degli sciacalli. “È ancora presto” pensai. Ma ci sono notti in cui gli sciacalli hanno fretta di finire il loro lavoro.


Intanto la donna s’era alzata e mi faceva cenno di seguirla; e poiché non si dirigeva verso il villaggio, la accontentai.


Dopo un centinaio di passi ci trovammo tra alti macigni ancora caldi del sole assorbito. Uno di questi macigni era da un lato concavo e liscio e poteva ospitare due o tre persone sotto la sua cupola. La donna mi fece intendere che avrei dormito lì.


Era una proposta sciocca e mi ribellai: “Il ponte” ripetei più volte e ancora la spinsi, ma lei si liberò sorridendo e prese a raccattare fuscelli e tronchi secchi che ammucchiò a poca distanza dal macigno: voleva accendere un fuoco, forse per rassicurarmi, oppure perché le donne hanno il genio dell’intimità domestica. Le detti la scatola dei fiammiferi e la lasciai fare. La fiamma divampò e ne approfittai per prepararmi un caffè, bollendolo nel gavettino, gliene diedi una parte, che bevve. Ormai dovevo rassegnarmi e aggiungerò che questa rassegnazione cominciava a piacermi troppo: dai modi della donna capivo infatti che sarebbe restata a tenermi compagnia. Si allontanava a raccogliere rami secchi e, ogni volta che lasciava cadere a terra il suo carico, mi sorrideva.


Tuttavia non riuscivo a liberarmi da un’inquietudine sempre crescente, ma poiché tanti elementi in sé trascurabili vi concorrevano (la notte, il dente, i rumori sgradevoli della boscaglia e il disagio di quell’avventura che si prolungava oltre i limiti stabiliti), ben presto decisi di mettermi l’animo in pace. Dopotutto, dormire al cantiere o dormire all’aperto, non c’era grande differenza. Forse al fiume le zanzare mi avrebbero divorato. Invece, qui, il vantaggio di sentirsi in una terra non contaminata: idea che ha pure il suo fascino sugli uomini costretti nella loro terra a servirsi del tram quattro volte al giorno. Qui sei un uomo, ti accorgi cosa significa essere un uomo, un erede del vincitore del dinosauro. Pensi, ti muovi, uccidi, mangi l’animale che un’ora prima hai sorpreso vivo, fai un breve segno e sei obbedito. Passi inerme e la natura stessa ti teme. Tutto è chiaro, e non hai altri spettatori che te stesso. La vanità ne esce lusingata.


Ti approvi, ti guardi vivere e ti vedi immenso, tuo padrone: faresti di tutto pur di non deluderti. Gli altri annoiano, obbligano a dividere una gloria che vorresti indivisa, sei felice nella solitudine. E si finisce col restare.


Forse mi avrebbero accusato di eccessiva fantasia. Mi proponevo di raccontare l’avventura agli amici della mensa. E loro avrebbero riso. Il dottore del battaglione avrebbe riso più di tutti, rideva sempre più di tutti quando qualcuno raccontava storie che superassero la sua modesta immaginazione. Era un gran dormiglione e riceveva la visita medica in pigiama, maledicendo i soldati che lo rapivano ai suoi sogni casalinghi. E il tenente B. avrebbe tolto dal suo portafogli uno dei suoi biglietti, offrendomelo con un sorriso. Il biglietto (se n’era fatti stampare un centinaio a Napoli), diceva: “Benché il fatto da voi narrato sia enorme, pure si ritiene detto in buona fede e vi si rilascia dunque tale attestato, nella ferma persuasione di farvi piacere”.


Scoppiai a ridere e la donna mi guardò. Illuminata dalla fiamma la sua bellezza si accresceva. “Non puoi capire,” pensai “farai le spese di un’allegra serata.” E il ricordo degli amici lasciati lassù quasi mi commosse, bravi fratelli dei quali un giorno avrei dimenticato forse il nome, ma non la gaiezza e il disinteresse della loro amicizia, anzi l’assoluta gratuità di essa, che farebbe sembrare quel tempo, nella memoria, il prologo di un’altra vita ormai irraggiungibile.


Ma forse avrei taciuto: e l’indomani all’alba avrei ricominciato a vivere come se il giorno precedente non fosse mai esistito, perché le vacanze segrete sono le migliori e, in fin dei conti, m’ero liberato di una curiosità.


E anche se il desiderio di quella donna mi avesse ripreso (e sapevo che poteva essere inevitabile), niente di male. Non era lei la sola donna dell’altopiano e, forse, una valeva l’altra.


Avevo fame. Esitando, con un po’ di disgusto, presi il pane che ella m’aveva portato: ne mangiammo assieme. Non avevo più provviste e bevvi un altro uovo. Lei mangiava pudicamente, portando alla bocca briciole del suo pane con un gesto calmo, da contadina.


Dopo, mi sdraiai sotto l’enorme conchiglia, le feci cenno di raggiungermi e ben presto ci trovammo allacciati, ridendo. Poi alimentammo il fuoco e il sonno ci prese. Si addormentò prima lei e per guardarla dovevo volgere le spalle al fuoco. Il riverbero, riflesso dalla pietra, le illuminava il viso e il seno, che si sollevava seguendo il ritmo lento del suo respiro. Soltanto allora, guardandola dormire così calma e fiduciosa, mi ricordai che non le avevo chiesto il nome. “Meglio,” pensai “viviamo in incognito.” Ma non poteva chiamarsi che Mariam (tutte si chiamano Mariam quaggiù), almeno così la chiamo talvolta nell’insonnia. Infatti, era il suo nome.


Profonda bellezza di lei nel sonno. Soltanto nel sonno la sua bellezza si rivelava completamente, come se il sonno fosse il suo vero stato e la veglia una tortura qualsiasi. Dormiva, proprio come l’Africa, il sonno caldo e greve della decadenza, il sonno dei grandi imperi mancati che non sorgeranno finché il “signore” non sarà sfinito dalla sua stessa immaginazione e le cose che inventerà non si rivolgeranno contro di lui. Povero “signore”. Allora questa terra si ritroverà come sempre; e il sonno di costei apparirà la più logica delle risposte.


Teneva un braccio sul ventre e la pochissima luce della notte si concentrava sull’argento dell’orologio che le avevo affibbiato al polso. Che cosa avrebbe fatto di quell’arnese testardo e avariato, lei che non sapeva leggerci? Anche se avesse saputo leggerci, quale tristezza il giorno non lontano che il meraviglioso tic-tac si fosse fermato: forse le sarebbe parso di cattivo augurio. Certo, un orologio era la cosa più assurda ch’io potessi constatare sulla pelle di quel braccio rotondo che poco prima avevo avuto attorno alla nuca. Il tempo è indivisibile come un sentimento. Che significa un anno, un mese, un’ora, quando la vera misura è in me stesso? Io sono antichissimo e mi reputo immortale, non per vincere il timore della morte, ma perché ne vedo la prova in queste montagne e in questi alberi, negli occhi di questa donna che ritrovano i miei come dopo una lunga assenza.


La sua bocca era appena socchiusa per il respiro e gli occhi riposavano come due gatti discreti; e ora ne scoprivo la perfezione del taglio, il tremare improvviso delle palpebre e le grandi ciglia che, aperte, facevano sembrare gli occhi socchiusi.


Un altro sonno mi tornò alla memoria, e lo allontanai. Poi, un altro, e allontanai anche quello, soltanto il sonno di questa donna mi faceva smarrire: perché come tutte le cose estremamente semplici, non era possibile che non nascondesse un segreto. Conoscerlo, questo segreto, e anch’io avrei dormito così come si dorme la prima notte sotto la tomba, con la certezza che non poteva andare diversamente, infischiandosi delle insonnie altrui.


Mi ricordava la prima volta che avevo inforcato un cavallo e avevo sentito tra le ginocchia una forza che obbediva aspettando tempi migliori. O l’acqua marina lontano dalla riva, che vi spinge e vi custodisce ma è pronta a inghiottirvi se appena vi mostrate indiscreto e volete saperne troppo: mi ricordava tutte le cose per le quali avevo provato un’attrazione incontrollata. Be’, lasciamola dormire, povera principessa senza altri pensieri che non siano quelli di procurarsi un pessimo pane azimo e di lavarsi, ma non troppo, e soltanto per giocare.


Io, invece, non potevo dormire. La mia stanchezza aveva superato ogni limite e ora i nervi erano scoperti, sensibili a ogni fruscio, a ogni grido che la notte amplificava. Sempre più lontano, gli sciacalli abbaiavano per indicare alla iena che c’era bisogno del suo aiuto per dissotterrare una carogna. E la iena, la spaventosa nottambula, sarebbe arrivata facendo impazzire di gioia i suoi alleati, scavando, strappando, dissotterrando per tutti e servendosi lei per prima. E che scorpacciate con tanti morti lasciati, lì, da spreconi! Se gli uomini si mettono d’accordo è la fine. Ritorneremo ai magri pasti di prima, ai cani (questi traditori!), ai cammelli scuoiati: ma ci resteranno sempre i muli della cara, provvida Sussistenza.


Gli altri animali dormivano appollaiati qua e là, e non davano fastidio. Sazio di mosche, il camaleonte, stavolta in abito da sera, ripensava a quella puzzolente sigaretta che gli avevano data a intendere per buona. Lo scoiattolo, troppo nobile per questo mondo, riposava nell’incavo del suo albero. Così il gatto selvatico sperava di sorprenderlo all’alba.


Tutto, dunque, era in ordine e il sonno di lei faceva parte del quadro.


Vidi un’ombra a venti passi da me e toccai istintivamente la rivoltella. La sfilai cauto dalla fondina, col fiato sospeso, e tolsi la sicura. Ma l’ombra era già scomparsa. E come se questo avesse allontanato ogni pericolo, mi rassicurai. Ma ecco che ripensandoci la cosa mi parve più grave, appunto perché l’ombra era sparita, segno che non le erano sfuggiti i miei pur cautissimi movimenti e che mi sentiva sveglio. Questo almeno pensai. Ravvivare il fuoco, oppure spegnerlo del tutto? Se era un animale, il fuoco sarebbe bastato a tenerlo lontano, ma se era un uomo, il geloso custode della donna, oppure uno sbandato guerrigliero, non bisognava fargli luce per spararmi.


Ma poteva essere un animale, perché l’ombra che avevo vista era bassa e allungata. Non credo che un uomo possa andare carponi a quel modo e sparire di colpo, senza far troppo rumore, e senza sentire l’impulso di ergersi. Se era un uomo, peggio per lui. Ma un indigeno non avrebbe affrontato la boscaglia senza nemmeno un tizzone acceso che gli servisse da torcia. Poteva essere, ripeto, un nemico sbandato, ma questa ipotesi mi parve da scartare. La guerra era passata in quei posti da molte settimane. Eppure, quei cadaveri lassù, vicino alla parete di basalto… No, potevo rispondere anche a questo dubbio, i tre abissini erano morti mitragliati da un aereo e nel gesto di colui che indicava il cielo non bisognava leggere, dunque, nessuna speranza e nessuna certezza, oltre quella che gli aveva portato la morte. E se fossero stati del villaggio, li avrebbero sotterrati. Nessuno al villaggio sospettava che lassù ci fossero tre cadaveri.


Dunque, era un animale. Ma quale animale è tanto cauto da nascondersi se si sente guardato? Quale animale non è tentato di urlare se sente un odore sospetto, l’odore dell’uomo?


Ravvivai il fuoco. La donna seguitava il suo sonno, e non occorreva svegliarla. Forse avrebbe fraintese le mie intenzioni, e si sarebbe di nuovo offerta, prima ancora che riuscissi a spiegarle di che si trattava. E anche se fossi riuscito a spiegarle che là c’era un’ombra, avrebbe riso. “Che pauroso signore mi è capitato. Ci sono ombre dappertutto, ma le ombre non fanno male.”


In preda a una paura tanto più sottile perché la sentivo assurda, mi accucciai vicino alla donna. E aspettai. Sentivo il ticchettio dell’orologio.


L’ombra non riappariva né udivo rumori che potessi considerare indizi della sua presenza. C’era la possibilità che il grosso animale si fosse nascosto e che, più che aspettare il momento opportuno per assalirci, fosse atterrito da noi e da quel fuoco che divampava allegro. Se fossi rimasto desto, tutto si sarebbe risolto. L’alba non poteva tardare e sarebbe giunta improvvisa, come girare la chiavetta di un interruttore: allora i rumori sarebbero cessati, tutte le ombre scomparse e quella che adesso mi impensieriva si sarebbe rivelata un cespuglio mosso dalla brezza notturna. Bisogna avere la forza di aspettare e (simili avventure non capitano poi tutte le notti) la forza di rinunciare al sonno. Poiché confesso che ora avrei volentieri dormito, se quella preoccupazione non mi avesse spinto alla veglia.


La donna seguitava il suo sonno e, preso da una improvvisa tenerezza per quell’essere inesplicabile che si affidava a me con tanta semplice condiscendenza, le carezzai una mano. L’amore è fatto di troppe altre cose, anche di lettere scritte e ricevute. Io ero sceso a quella donna e più che un peccato sentivo di aver commesso un errore. Ella non dava all’esistenza il valore che le davo io, per lei tutto si sarebbe risolto nell’obbedirmi, sempre, senza chiedersi nulla. Qualcosa di più di un albero e qualcosa di meno di una donna. Ma queste erano sciocche fantasie che azzardavo per passare il tempo: altre mani si tendevano verso di me, da chiarissime lontananze, altri sorrisi mi invitavano al ritorno; e sarebbe stato prudente dimenticare quella notte.


L’ombra ripassò nel senso contrario. Era davvero passata, non era una mia allucinazione, né uno scherzo del mal di denti che aveva cominciato a farsi sentire, per l’umidità notturna.


Mi alzai in piedi, per fare qualcosa, o forse soltanto per darmi coraggio.


L’ombra era di nuovo scomparsa, non potevo vederla, aveva aggirato un macigno e là, acquattata, aspettava. Ebbi allora l’idea di sorprenderla, non potevo darle altri vantaggi: sei o sette metri ci separavano. Li avrebbe fatti in un salto ed è proprio quando uno è distratto che queste cose succedono, se devono succedere.


Potevo girare attorno al nostro macigno e, cautamente, prenderla alle spalle. C’era il pericolo della bestia ferita che diventa feroce, ma era un pericolo che dovevo affrontare e c’era anche la possibilità che la colpissi subito alla testa.


La donna sospirò e si volse, muovendo le braccia.


Lentamente, senza produrre il minimo scricchiolio, aggirai il macigno che ci serviva da rifugio. Lasciavo indifesa per un attimo la donna; era un rischio che dovevo correre, mi dicevo che frattanto nulla sarebbe successo. Sentivo il cuore battermi e spingere verso la gola, ma la mano adesso non tremava più. Feci pochi passi, finché ebbi aggirato tutto il macigno e spinsi lo sguardo verso l’altra roccia, dove l’ombra si nascondeva: ma non vidi nulla. Forse la bestia aveva notato la mia manovra ed era fuggita. Allora, a passo deciso, raggiunsi la roccia e la ispezionai. Niente. Tossii per rassicurarmi.


In quel momento feci un’ipotesi assurda. Colpa dei nervi già troppo scossi, lo so, colpa di quella notte interminabile e di quel buio senza soluzione: pensai che l’ombra fosse un coccodrillo. Lo spavento della donna, quando avevo disegnato quest’animale sul taccuino, il nome di Harghez segnato sulla carta per indicare quella località, furono i due elementi che agirono per alimentare la mia romantica fantasia, del tutto degna del topografo. Ma subito la scacciai: così distante dal fiume, giammai un coccodrillo si sarebbe azzardato.. E inoltre quelle bestie, quando camminano sulla terra ferma, hanno il passo tardo. Risi dunque della mia immaginazione. No, era una iena, fors’anche un leopardo, benché si vadano facendo rari persino nei bassopiani.


Ecco rapidissima l’ombra passarmi davanti. Strisciò sulla terra, per un attimo illuminata dal fuoco: fu un lampo. Sparai due volte. L’ombra mi urtò, sentii il fetore selvaggio della sua pelliccia, e io caddi mentre le scaricavo addosso l’arma per la terza volta. La bestia scomparve urlando e la sentii lontano, più tardi, agonizzare.


Ritornai verso la donna. Tutto quello che successe dopo, ancora stento a crederlo.


La donna s’era gettata bocconi e si premeva una mano sul ventre. Dopo un istante, ancora immersa in un sonno assurdo, gettò un primo lamento, lungo, straziante, un lamento che avevo già sentito in quella clinica, dietro la porta della sala operatoria. Era il lamento selvaggio, la protesta che teniamo in serbo per l’ultima ora, quando arriva troppo presto e ci sorprende. Era soprattutto il lamento di chi non vuol crederci.


Stavo vicino a lei e mi illudevo di non capire, ma avevo capito. Ero stato io. La mano che spara sa se colpisce, e la mia destra tremava. Quando la donna tolse la mano dal ventre, vidi che era lustra di sangue. L’avevo colpita, la pallottola era stata deviata, forse da qualche pietra, perché nego che anche nel disordine della caduta io possa aver perduto l’orientamento. Non avevo mancato i primi due colpi e il terzo avevo cercato di spararlo basso, appunto per non sbagliare, poiché il contraccolpo della rivoltella tende a far alzare il braccio. Avevo sparato basso e non c’è altra spiegazione: una pietra. Per quanto dura, la pelle di quella bestia, non avrebbe potuto deviare il colpo.


Una pietra, dunque, e non pensiamoci più, una di queste maledette pietre che, per bene che vada, nascondono uno scorpione.


Ma ora la donna era lì, bocconi, e gemeva. Quel corpo che prima avevo vegliato ora si contorceva per lo spasimo di una ferita tanto più atroce perché inspiegabile, ed era anche doloroso non poterle far capire che si trattava di una crudele disgrazia. Quando tentai di sollevarla e di metterle lo zaino sotto la testa, mi guardò come sempre aveva fatto, con gli occhi socchiusi, cercando di capire. Non ero stato io, questo pensava. Qualcuno aveva sparato ma non io, non era possibile che fossi stato io. Ero spaventato, le carezzai la fronte perché non mi sentisse ostile. Un sudore freddo le copriva il viso. La sua mano ornata dell’orologio ancora una volta tornò al ventre e se ne ritrasse piena di sangue caldo. La tunica se n’era già imbevuta e sulla sabbia si stava formando una macchia bruna.


Continuò a gemere, ma più piano, con pudore, per non spaventarmi maggiormente. A tratti apriva gli occhi e una volta mi sorrise persino; e, per qualche istante, agli angoli della bocca le rimasero le pieghe di quel sorriso che voleva rassicurarmi, il sorriso della moglie che affronta il parto e subito si spegne per qualche invisibile filo che tira giù dal ventre.


Ravvivai ancora il fuoco. Nel mio animo, allo spavento cominciava a subentrare la rabbia. Ero arrabbiato con me stesso, mi incolpavo senza riserve, di essere stato sciocco, di essermi fatto vincere dalla paura. Ora pensavo che se avessi soltanto tirato una pietra, la bestia sarebbe fuggita. E invece alla pietra era stata riserbata un’altra, parte in quella sciagurata commedia. Ero veramente arrabbiato.


In quel momento riprese lontano l’urlo della bestia che avevo ferita a morte. Urlava e gemeva, e seguitò per molto tempo, calmandosi a tratti, ripigliando con maggior forza dopo il silenzio, spaventata della notte, moribonda di paura anche lei. Ma ero molto lontano, né temevo che tornasse, a vendicarsi.


Ero veramente arrabbiato, ma già una domanda si insinuava a turbarmi: cosa avrei fatto? Era una domanda suggerita dall’ansia, che non volevo confessarmi, di uscire presto da quel pasticcio. Dovevo soccorrerla, non c’è dubbio. Ma come? Cosa si fa quando una donna muore e siete sperduto con lei nella più buia notte dell’anno, tra ombre ostili, in una terra che ha già logorato i vostri nervi, e che voi odiate con tutta l’anima? Pensai che dovevo andarmene, abbandonarla.


Quest’idea si formulò improvvisamente: ma era già andata maturandosi dal momento che ero corso vicino alla donna e m’ero accorto di averla ferita. Cercai di respingere l’idea e la sentivo ritornare con argomenti sempre più inoppugnabili. Sicché, per allontanarla, decisi di aiutare in qualche modo la donna, di fare qualcosa, di tamponare la ferita. Ma questa, sì, era un’idea assurda. Non sono medico, ma capivo egualmente che per quella ferita non c’era niente da fare. Dall’incapacità della donna a muoversi giudicai che la pallottola aveva leso profondamente.


Con infinita cautela la misi supina. Lasciava fare. Le sollevai la tunica sino a scoprire il ventre e ciò che vidi mi tolse ogni coraggio. Il sangue aveva già macchiato tutto il ventre e in un punto sgorgava lucido e denso. Presi un fazzoletto, lo bagnai d’acqua e prima pulii la ferita. Facevo piano, ma sentivo sotto le mie dita il piccolo foro e il flusso lento e implacabile del sangue che tutt’intorno si andava aggrumando. Presi un altro fazzoletto e lo tenni fermo sulla ferita finché non lo sentii umido. Allora riabbassai la tunica. Le sue gambe erano lucenti, ma fredde.


La donna aveva seguito senza gemere il mio intervento, forse una grande speranza la stava confortando. Forse aveva inteso dire di miracoli operati dai “signori”, di cuciture misteriose che essi sanno fare, di intrugli così potenti che nessun male resiste. Aveva sollevato la testa e mi guardava. Non ebbi la forza di sorriderle e questa non fu la minore delle mie vigliaccherie. Aveva capito. Riabbassò la testa e riprese a gemere, piano. Poi si volse e disse: “Mai”.


Mai? Soltanto dopo qualche secondo, poiché ebbe ripetuto la parola guardando la borraccia, capii che voleva bere. Le bagnai le labbra, ma lei voleva proprio bere, avidamente. Lasciai che bevesse. E quando chiuse gli occhi, sperai che fossimo alla fine. Invece la donna respirava, quasi tranquilla, mentre la sabbia aveva ormai assorbito la macchia brunastra.


Un chiarore oltre il fiume annunziava l’alba. Gli ultimi rumori si perdevano, gli alberi stavano riapparendo e, benché ancora indistinto, intuivo lassù il ciglio dell’altopiano, macchia fosca contro un cielo che scoloriva appena. Allora l’ansia di lasciare presto quel luogo si tramutò in vero orgasmo. Presi a passeggiare su e giù accanto al fuoco, cercando di riordinare le idee. Cosa dovevo fare?


Ecco (ricordo che pensai questo): c’erano molte cose da fare, ma tutte insidiose. Potevo correre al villaggio che la donna mi aveva indicato: ma c’era poi un villaggio o non soltanto la sua capanna? Capiteci qualcosa con gli indigeni. Tutta questa regione è piena di conventi abbandonati dove, a distanza di cento e più chilometri l’uno dall’altro, vivono monaci, o anche persone che vanno a cercare (che so?) forse la solitudine soltanto. Non avevo mai sentito dire di villaggi sul bassopiano e in quella valle, dove la vita è difficile. Forse la donna viveva sola, era una vedova in penitenza, e appunto quei capelli tagliati corti e nascosti dal turbante. E se avessi trovato il villaggio, cosa avrei ottenuto? Le avrebbero praticato una laparatomia, costoro che non sanno curarsi uno sgraffio, e trascinano piaghe larghe come fazzoletti?


Avrei potuto mandarne qualcuno al ponte, a chiedere aiuti, e dopo quattro ore sarebbe venuto l’infermiere con la sua cassetta, se il caso avesse voluto che al cantiere dimorasse un infermiere di straordinario coraggio. E poi, la sua cassetta! Sale inglese, chinino, aspirina, cognac (bottiglia vuota), garza, cotone, due dita d’alcool e la fotografia della fidanzata sullo sportello.


Non potevamo certo portar giù la donna, per vederla morire dissanguata lungo il percorso, ammesso sempre che avessi trovato il villaggio e i servizievoli indigeni. Una volta arrivati giù, l’attesa del dottore, che sarebbe arrivato alle otto, con la posta e i viveri, e avrebbe dato un’occhiata alla donna di quello sciocco che scherza con la rivoltella. E, dopo averne constatata la morte, scriverebbe il suo rapporto. E il cadavere ammorberebbe l’aria e dovremmo seppellirlo, per non richiamare più mosche del necessario.


La donna era agonizzante (non mi si venga a dire che poteva essere salvata, mi rifiuterò sempre di crederlo), tanto valeva aspettare un’ora o due che morisse, e poi andarsene. Inutile muovere la macchina dei burocrati, suscitare inchieste, nuove circolari del corpo d’armata e, forse, un processo. Anzi, sicuramente un processo. Il maggiore misurava le sue espressioni con garbo, staccandole dalla bocca come bolle di sapone: “Lasciate che vi esprima la mia sorpresa” e avrebbe camminato su e giù per la tenda e riletto il rapporto, concludendo: “Non so che farci. Lasciate che vi esprima, dunque, la mia sorpresa”. Mentre il capitano, più bonario, comprensivo, e i colleghi della mensa, la cui amicizia io stimavo un dono degli avvenimenti, così nobile e fine a se stessa, non avrebbero detto che sono i peggiori coloro che ostentano il ritratto della moglie sopra la cassetta? E la licenza di un mese, che sarebbe diventata congedo alla scadenza? Ecco, non potevo disconoscere che i miei argomenti erano meschini, ma erano quelli; e proprio la loro meschinità me li faceva apparire assai forti. Un processo, una licenza revocata, lo scandalo. Ma dovevo dunque temere lo scandalo?


Non avevo ancora pensato a Lei. Eppure lo scandalo l’avrebbe offesa, rividi anzi il suo volto dei momenti gravi, quando la bocca si faceva sottile, aspra, e tra le sopracciglia una piccola ruga si scavava a disarmare il mio sorriso.


Mentre camminavo su e giù, preso da un’impazienza che non sapevo dominare, urtai col piede contro qualcosa. Era la rivoltella, che prima avevo lasciato cadere per correre vicino alla donna. La raccolsi, la pulii contro la camicia e la misi nella tasca dei pantaloni.


La donna s’era placata, teneva sempre la mano sul ventre e aspettava, sorretta dalla fiducia che soltanto le anime semplici conoscono. Certo, non l’avrei abbandonata. E appena l’alba fosse giunta e la boscaglia avesse ripreso i suoi colori e le sue forme, adesso confuse, io l’avrei soccorsa, in un modo straordinario che a lei non era dato anticipare, ma altrettanto sicuro. Poiché la sera prima m’ero avviato verso il ponte, più d’una volta, ella sapeva che fra poco ci sarei andato per lei, conducendole uno di quei miracolosi “signori” che guariscono. Sono convinto che lei pensasse questo perché mi guardava serenamente.


Il suo volto non era più bello e attorno alle narici il colore, s’incupiva, mentre la bocca era arida e si rivelava aspra, tagliata verso il basso. E tra le sopracciglia, sulla fronte, due rughe profondissime cominciavano a turbare quel volto che prima, per un solo attimo, mentre lei dormiva, aveva offuscato gli “altri”. I suoi occhi soltanto restavano calmi, sempre socchiusi per effetto di quelle lunghe ciglia, leggermente annebbiati. Ma le pupille si muovevano, seguendomi. Non aveva più parlato da quando l’avevo fatta bere e, per evitarmi il suono della sua voce, le porsi ancora una volta la borraccia. Ma non c’era più acqua e dovetti andare a una delle pozze, facendo quasi a tentoni il breve percorso, e riempirla.


Ora che non la vedevo, il pensiero di abbandonarla si fortificò. Dovevo abbandonarla. Sarebbe morta tra un’ora, due ore al massimo, questo mi ripetevo. Oppure dovevo restare, accettare tutte le responsabilità, dare infinite spiegazioni, e lasciare negli animi il sospetto che avevo ucciso una donna per motivi poco chiari. La donna aveva resistito e io, per minacciarla, avevo tratto la rivoltella. E avevo sparato. O, peggio ancora, prima avevo abusato di lei e quindi l’avevo uccisa perché non si recasse a un comando a chiedere giustizia per il torto subito.


No, sarei rimasto. Vada al diavolo la rispettabilità, la legge e tutto il resto. Non potevo abbandonarla, anche se il mio gesto fosse rimasto incompreso. Dovevo correre al villaggio, trovare la strada del villaggio, farmi aiutare. Se, tornando, avessimo trovata lei morta, tra i corvi curiosi, dovevo accettare la colpa di averla uccisa. Sarebbe venuto il prete a benedire il cadavere, si sarebbe svolto il rito funebre e io (poiché avevo chiesto a quella donna di riportarmi a un tempo ripudiato ma tuttora presente) ora dovevo pagarne le conseguenze. Inutile aggiungere che questa risoluzione svanì mentre facevo bere la donna e la sua mano toccò la mia.


Che cosa avevo a che fare con quella donna? E la sua mano aspra perché indugiava sulla mia, come per significare un possesso più vasto di quello che ci eravamo futilmente concesso? Non era certo la mano che m’aveva stretto e accarezzato per incitarmi, era una mano che chiedeva altri sentimenti, mentre io potevo darle soltanto la pietà. Mi levai in piedi e pensai di finirla.


Dovevo ucciderla. Molte ragioni mi consigliavano di ucciderla, tutte egualmente forti. Dovevo finirla e nascondere il cadavere. E, soprattutto, non perdere tempo: l’alba era già spuntata. Anzi, svegliati da quel chiarore, gli uccelli stavano ripigliando la loro opera. Il solito nugolo di corvi gracchiava tra gli alberi del torrente, levandosi in voli improvvisi e simultanei. Venivano giù dalla valle, gli ultimi gridi delle bestie che si rintanavano offese dalla luce.


Mi allontanai dalla donna e scrutai attorno alla boscaglia, che digradava a nord in una forra, per poi risalire verso l’altopiano. Dopo cinquanta passi avevo trovato ciò che cercavo, un crepaccio abbastanza largo e lungo perché potesse entrarci una persona distesa.


Ritornai verso la donna e, sorridendole, le tolsi lo zaino da sotto il capo e finsi poi di cercarvi qualcosa, ma in verità volevo soltanto il mio zaino. Ero deciso a non lasciare la più piccola traccia del mio passaggio in quel luogo e non volevo portarmi dietro uno zaino insanguinato. Perché, lasciandolo, tra poco si sarebbe insanguinato. Ero pronto. Mi chinai verso di lei e le carezzai la fronte. Scacciai due mosche che s’erano posate agli angoli della bocca e, sempre sorridendole, presi il turbante che nel sonno le si era disciolto e glielo spiegai sul volto, facendole capire che così gli insetti non le avrebbero dato noia. Altre mosche si abbeveravano alla sua mano, ma ciò non le dava alcun fastidio. Quando le ebbi acconciato il fazzoletto, feci una corsa sino al sentiero e guardai. Non c’era nessuno e non si sentiva il minimo rumore. Laggiù, il villaggio (ma c’era poi un villaggio?) doveva essere ancora immerso nel sonno. L’altopiano si stava illuminando di rosa.


Tornai verso la donna e trassi di tasca la rivoltella. La pallottola era già a posto e non avrei dovuto fare nessun rumore sospetto. Non pensavo a nulla, ma soltanto a mirare giusto. Mi impensieriva il rumore del colpo, che forse dal villaggio avrebbero sentito, allora raccattai la veste di lei e l’avvolsi attorno alla mano che teneva la rivoltella, sperando che il rumore ne uscisse soffocato. Strinsi forte la stoffa. In quel momento ebbi un dubbio, che la donna, attraverso il turbante, potesse vedere ciò che stavo facendo. Ma no, forse s’era assopita.


E quel lungo lamento che le stava sfuggendo era soltanto uno dei primi gemiti della troppo lunga agonia che cominciava. Quando vidi che volgeva la testa sotto il turbante, sparai. Ora non dovevo perdere la calma: in fondo, non l’avevo uccisa, le avevo impedito di soffrire più a lungo. “Su, è la prima volta che vedi un cadavere? “ dissi, e la mia voce mi sorprese.


Il turbante s’era appena macchiato di sangue, ma non lo sollevai; del resto, era inutile sollevarlo. La donna era morta senza fare il minimo gesto e soltanto per un attimo tremai al sospetto di non averla colpita. Ma quando sul turbante apparve la piccola macchia di sangue e poi s’ingrandì, e quando la mano che teneva sul ventre scivolò a terra, capii che la cosa era avvenuta.


Ritornai verso il crepaccio, senza sapere perché, forse per sincerarmi che vi fosse ancora: era un crepaccio largo e profondo più di un metro e lungo quattro, c’erano dentro pochi cespugli.


Ritornai verso la donna. Il turbante era ormai tutto macchiato e modellava la forma del naso e della bocca. Bisognava portare quel corpo sino al crepaccio. Provai a sollevarlo, ma vi caddi quasi sopra, in ginocchio; ero talmente sfinito che dovetti riposarmi, disteso, per qualche interminabile secondo. E mi dicevo di far presto, sgomento al pensiero che non sarei stato capace di continuare.


Continuai. Stesi per terra la sua veste di cotone, era abbastanza larga, una candida toga romana. Presi la donna sotto le ascelle, facendo bene attenzione a non sporcarmi: giacché la cosa doveva farsi, meglio farla bene. Com’era pesante e come diverso dal corpo che avevo stretto! Quando l’ebbi messo sulla veste, provai a tirarne i capi. Sì, andava bene.


Il turbante aderiva al viso e non si mosse nemmeno quando il corpo dovette superare le asperità del terreno, e non si mosse nemmeno quando feci scivolare la donna nel crepaccio e vi cadde con un tonfo.


Adesso dovevo trovare pietre abbastanza per coprire il corpo, ma non era certo di pietre che difettava la boscaglia, lo sapevo già troppo bene. Prima di posare i sassi, che avevo cura di andare a prendere lontano, misi la veste sul corpo di lei, come sudario, e recitai una breve preghiera. Sulla veste misi due rami incrociati, pensando che non avrei potuto metterli sul tumulo. Mentre facevo ciò, urtai un lembo della veste e la mano di lei si mosse e spuntò fuori.


In fretta mi chinai e sfibbiai dal polso l’orologio, che misi in tasca. Camminava. Mi dispiacque toglierle quel dono che aveva accettato, ma sulla cassa c’era inciso il mio nome: non dovevo lasciar tracce.


Ah, con quanta cura scelsi le pietre e con quanta cura le misi, una alla volta, su quel corpo che le riceveva morbidamente. Lavorai molto tempo, forse un’ora a riempire la fossa e misi pietre sempre più grandi, per impedire che le iene potessero toglierle. Quando le pietre ebbero raggiunto il livello del terreno, presi manciate di terra e l’acconciai in modo che non si notasse nessuno stacco. Battei la terra con le mani e gettai sulla tomba alcuni cespugli.


Un suono di strumento a corda mi fece appiattire al suolo.


Voci gutturali e infantili s’udivano lungo il sentiero, dalla parte del villaggio e, poco dopo, sbucò, e io vidi tra i rami, un corteo di cinque persone. Avanti veniva un prete (sapevo che era un prete perché portava un alto copricapo bianco senza falde), accompagnato da un vecchio che si teneva alla sua sinistra, silenzioso e nemmeno preoccupato di ciò che il prete gli andava dicendo a bassa voce. Seguivano due adolescenti e un bimbo, ed erano essi che parlavano allegramente. Uno degli adolescenti suonava un lungo strumento di legno, una specie di rozzo violino capace di emettere soltanto note stridule e pigre. Il suonatore muoveva sbadatamente l’archetto su e giù come se la faccenda lo annoiasse, e l’altro accennava, ridendo, passi di una danza molto semplice, ma vivace, rubando sul tempo. Volteggiava qua e là, facendo ridere il bimbo coi suoi salti improvvisi e le smorfie di una finta paura.


Il prete andava avanti col vecchio, non curandosi di quella scapigliata compagnia; ma ogni tanto, quando i tre dimenticavano di proseguire, si volgeva, sollevando il lungo bastone e lanciava un breve grido che aveva subito il potere di scuotere quei gai fannulloni. Di corsa raggiungevano il dignitario e la danza ripigliava poco dopo, e sembrava che il bimbo non si stancasse di ammirarla. Li vidi che attraversavano il torrente, diretti verso il fiume, e ancora per qualche minuto mi giunsero il suono del violino e le risa dei ragazzi.


Quando anche quelle voci svanirono mi accorsi che faceva caldo e che la boscaglia stava evaporando la poca umidità della notte. L’orologio segnava le sei, ma non potevo prestargli fede perché il giorno prima l’avevo rimesso a caso, quando s’era fermato. Con ripugnanza me lo affibbiai al polso e il pensiero ancora un attimo tornò a quella donna che ormai giaceva a pochi passi da me.


Era tempo di andarsene, o non avrei trovato più autocarri. Dovevo anzi sbrigarmi, eppure c’erano tante cose da fare. La tomba era a posto, ma attorno al macigno, troppe tracce della nostra sosta. Vi tornai di corsa e per prima cosa mi preoccupai di ritrovare i bossoli delle quattro cartucce che avevo sparato. Ne ritrovai soltanto due.


La macchia brunastra era affollata di mosche, vi gettai pugni di terra, pestai, riuscii a farla confondere col terreno. Dispersi la cenere del fuoco e con alcuni rami spazzai ogni cosa. Dovevo ogni tanto riposarmi. Poi mi tolsi la camicia, era sporca di sangue e indossai quella che m’ero tolta il giorno prima. Sulle scarpe, poche tracce; e del resto la polvere del sentiero le avrebbe ben presto confuse. Cosa rimaneva da fare?


Restai qualche minuto inebetito a farmi questa domanda, cercando nella memoria e facendomi suggerire dalle cose che vedevo attorno a me. I fazzoletti? Nella fossa. Semmai, erano senza cifra e non potevano nuocermi. L’orologio era a posto. Ah, il cesto! Cercai il cesto, era dietro un sasso, nella nostra alcova. Lo portai lontano e gli diedi fuoco. Adesso, non c’era altro da fare.


Andai alla pozza e mi lavai le mani. Sulla destra m’ero fatto un taglio, forse con qualche pietra: insaponai anche il taglio e vi annodai un fazzoletto. Il sapone lo gettai tra le piante e un corvo andò subito a vedere di che si trattava. Non mi abbandonavano un istante quei cupi uccelli, affannandosi attorno a me e fuggendo soltanto se li scacciavo. Adesso, potevo andare. Eppure non sapevo decidermi, ossessionato, come quando si parte per un lungo viaggio e si teme di dimenticare qualcosa e si cerca nella stanza, soppesando gli oggetti, aprendo i mobili. Cosa dovevo fare? Non dovevo far nulla. Nemmeno un poliziotto avrebbe trovato tracce del mio passaggio in quel luogo. E non c’erano altre considerazioni da fare. Forse nessuno avrebbe cercato la donna, benché quella comitiva… Dunque, tutto era a posto. Che cosa mancava?


Rifeci la strada sino alla tomba e vi aggiunsi altri cespugli. E, poiché avevo con me lo zaino, senza tornare al macigno (là tutto era in ordine, persino i gusci delle uova avevo distrutto), ripresi la strada verso il ponte.


Un ultimo sguardo alla tomba, prima di perderla di vista per sempre, e addio! “Addio, donna” pensai. “Mi hai insegnato il valore di molte cose, in così breve tempo. Non potrò dimenticarle. Ed è forse perciò che cammino serenamente e mi sento diverso, più grande, di un peso più vivo, poiché tutte le esperienze arricchiscono. Guardo questa sordida boscaglia con altri occhi.”


Cambiai il caricatore alla rivoltella e la misi nella fondina. È lo stesso lavoro che cambiare una lampada fulminata, richiede poca attenzione. Consideravo la rivoltella un ornamento dell’uniforme, la pulivo regolarmente, ben certo che non sarebbe servita a nulla. Ero venuto in quella guerra sicuro che non l’avrei adoperata. A che serve? Tante armi ci sono più potenti per tenere a bada un nemico che non ne ha, e che trovi soltanto il giorno dopo, fracassato sotto un cespuglio. Chi è stato? Io no. Io sparavo da quella parte.


Addio, donna. La gola mi si chiuse, ma non stetti lì a lagrimare, c’era molta strada per arrivare all’altopiano, camminai in fretta. Dopo un’ora ritrovai il sentiero che portava al ponte: lo rifeci per un tratto, quando mi accorsi che potevo anche non tornare giù, avevo ritrovato la scorciatoia. Come mai il giorno prima non l’avevo vista? Semplicemente perché il bivio era nascosto da una carogna. Presi, dunque, la scorciatoia e dopo mezz’ora traversai la strada, a una curva. Stetti un po’ a riposarmi sul ciglio fumando una sigaretta, poi mi distesi a terra. Non pensavo a nulla.

Quando sentii il rumore del camion che saliva, feci forza a me stesso per alzarmi in piedi e accennare al soldato che fermasse. Il soldato rallentò soltanto, perché era in salita e in curva. Raggiunsi egualmente il camion e saltai sul predellino.

CAPITOLO SECONDO

Il dente


 


Quattro giorni dopo, riposavo in una tenda del comando di tappa di A.


Dovevo prepararmi al ritorno e non ne avevo nessuna voglia, anzi un torpore persino piacevole m’immobilizzava le membra; ma niente di strano che non avessi riacquistato le forze, il dente non dava tregua. Non c’era un dentista ad A. e la mia sosta era stata inutile. “Quattro giorni sciupati” pensavo. Dunque, per colpa del dente non ero stato capace di muovermi, avevo sentito il brusio di quella cittadina arrivare sino alla mia branda, e ora dovevo andarmene, tornare al campo o non avrei giustificato il mio ritardo. Forse proprio questo pensiero mi stava togliendo ogni forza.


Sdraiato sulla branda vicina un giovane fingeva di leggere, ma in realtà mi stava spiando di sopra gli occhiali. Era un giovane dalla faccia rotonda, con un paio di baffetti che mettevano un pretesto di ironia sulle sue labbra; indossava ancora la giubba, non s’era tolto il casco e nemmeno gli stivali. Fissava, sì, lo sguardo sulla pagina, ma i suoi occhi badavano a non perdere ogni mio lieve movimento. Fumava un sigaro. Quel sigaro, sul suo volto fanciullesco, rammentava gli sgorbi che i ragazzi fanno invariabilmente alle figure dei loro libri di scuola. Era stato appunto il fumo del sigaro a svegliarmi, nauseandomi. “Per favore,” dissi “il sigaro.”


Il giovane, era un sottotenente (e della mia divisione), buttò il sigaro fuori della tenda facendolo schizzare con le due dita che lo reggevano. Con quel gesto voleva mostrarmi il suo disappunto. Si rimise a leggere, senza più degnarmi di attenzione e io invece seguitai a osservarlo tra le ciglia socchiuse. Un attimo dopo aveva già tolto un altro sigaro dal taschino e l’aveva messo tra le labbra, senza però accenderlo, ma tormentandone la punta coi denti. Ora leggeva davvero e voltò pagina.


La nausea mi faceva groppo alla gola e il dente cominciava a dolermi. Erano fitte improvvise che incendiavano il cervello. Per qualche tempo l’immagine del silenzioso lettore sparì dietro un velo di lagrime. Avevo voglia di urlare. “Scusami” dissi, invece, dopo che la fitta si fu addolcita. Il sottotenente sorrise. La mia faccia sconvolta non lo indusse alle cerimonie, solite tra due ufficiali che si incontrano in una tenda di comando tappa. Riprese a leggere e, poco dopo, interpretando la mia interruzione come a lui meglio conveniva, accese il sigaro. Sembrava però soddisfatto di avermi svegliato, forse si annoiava. Accese il sigaro e guardò il mio orologio, che avevo messo sulla sedia, e non lo guardava certo sperando di leggere l’ora a quella distanza. Lo guardava fisso, poi ancora tornava a fissare il sigaro o il libro.


Presi l’orologio (l’orlo del cinturino era macchiato), e mi volsi dall’altra parte. Dovevo prepararmi al ritorno al campo, oppure proseguire sino al prossimo dentista. Ma dove avrei trovato un dentista? E il ritardo? Quando il sottotenente mise il libro sotto il cuscino e se ne andò, lo chiamai e gli chiesi se aveva una compressa contro il mal di denti. Non ne aveva, ma se fossi andato con lui mi avrebbe indicato dove avrei potuto trovarne: parlava cortesemente e la sgradevole impressione del primo momento dileguò. Uscendo dal comando tappa, ci avviammo verso un boschetto di eucalyptus. Là, sulla soglia di una baracca di legno, immerso in una sedia a sdraio, trovammo un ufficiale medico che mi ascoltò a malincuore, e andò a prendere un tubetto di compresse nella sua baracca. Pensai di profittarne per cambiarmi la fascia alla mano ferita. Allora, chiamò l’attendente e, volutamente ignorandoci, si rimise a sedere.


Era un uomo sui quarant’anni, leggeva vecchi giornali, indifferente al disordine che lo circondava. C’erano per terra due macchinette per caffè, giornali accartocciati, libri, stivali sporchi, e le varie parti di una motocicletta smontata: e l’attendente, invece di occuparsene, fischiettava. L’ufficiale sembrava immerso nelle sue letture e così lo lasciammo. Ma come trascorrere il pomeriggio, ora che il mal di denti si era placato, lasciandomi però una sorda memoria alla mascella?


Qualcuno mi chiamava. Era un maggiore. Quando mi avvicinai disse che avrei fatto bene a radermi. Levò appena un dito verso le sue guance lustre e ripeté la frase, seccamente. Mi guardava tenendo la testa eretta e poiché continuavo a fissarlo, aggiunse che potevo andarmene. Salutai, e il maggiore, con tono più dolce, disse un: “Va bene” e si allontanò. Era un uomo alto e grosso, vestiva con molta cura, camminava tenendo le mani dietro la schiena. Non immaginai, in quel momento, che l’avrei rivisto in tutt’altra occasione. Anche il dottore avrei rivisto. No, non potevo saperlo e seguitai col tenente verso la piazza.


Era una piazza informe, la vedevo per la prima volta e ne ebbi la struggente sensazione di un luogo che abbiamo immaginato e visitandolo non ci disillude, perché la realtà vince l’immaginazione e anzi questa si accorge di aver trascurato gli apporti della luce e dei suoni, l’ammorbidirsi dell’aria al crepuscolo, quando gli alberi si chiudono come ombrelli e le case respirano la stessa tristezza che ci fa rallentare il passo. C’erano anche là grandi eucalyptus e si camminava senza rumore sulle foglie cadute, per strade senza selciato e senza marciapiedi. Tra le case appariva la collina di granito e là sotto sfavillava la lampada a petrolio di un’osteria. Gli indigeni sedevano ai loro scanni, serviti da una grossa etiope vestita di rosa: era l’unica macchia rosa in quel grigio. Dalle strade venivano rumori d’artigiani, passavano donne dirette alla cisterna con latte da petrolio vuote, e sotto un albero immenso due uomini sedevano senza parlare, in attesa di qualche biblico viandante. Come le persone anche i luoghi raggiungono una loro felicità e quella piazza dimenticata e sconnessa esprimeva la pace dei tempi che non tornano. Quasi indovinando il mio pensiero, i due uomini che sedevano sotto l’albero si levarono in piedi e, prima di separarsi, si baciarono sulle guance.


L’uomo che veniva verso di noi era molto vecchio e camminava guardando a terra, come preso da un pensiero che gli impedisse di affrettarsi. Ci eravamo seduti, io e il sottotenente, sui gradini della baracca del telefono, attratti da quella baracca dove passavano le notizie: se fossero state buone notizie (per esempio, la notizia di un reparto che rientrava in patria), il centralinista ce le avrebbe passate con sottintesa speranza.


Ero nauseato, ma soltanto per il troppo languore, e sentivo appena le parole del sottotenente. Mi stava narrando qualcosa ch’era successo, un altro attacco di briganti a un cantiere, c’erano stati molti feriti, nessun morto per fortuna; ma la notizia non m’interessava e non feci domande. E allora, forse incoraggiato dal mio silenzio, mi chiese se conoscevo la storia dell’aeroplano-lattuga. Non risposi. Il vecchio si stava avvicinando e quando ci passò davanti, sempre col suo sguardo fisso a terra, lo riconobbi, era il vecchio che accompagnava il prete lungo il sentiero della boscaglia. Andava a piedi nudi, sempre più immerso in un pensiero forse insostenibile, che gli faceva a volte trattenere il passo e considerare le cose che lo circondavano. O forse era soltanto infastidito dai ciottoli nascosti tra le foglie cadute. Passando davanti alla baracca vidi che raccattava qualcosa (il mozzicone della sigaretta che avevo gettato poco prima?), poi scomparve dietro la palizzata del recinto. Riapparì ed era diretto verso le ultime case. Poco dopo, entrava in una di quelle, anzi sostava sulla soglia, con le spalle volte alla piazza.


Avrei volentieri lasciato quel ragazzo, ma il pensiero della sera che già incombeva mi trattenne e seccamente risposi che non conoscevo la sua storia e che la narrasse pure. Non sembrò affatto sensibile alla mia scortesia e disse che era la storia di un aeroplano addetto alla ricognizione. Veniva ogni mattina da un campo della vecchia colonia e, prima di iniziare la ricognizione di là del fiume, gettava sulla tenda del generale un pacco di lattuga. Era così puntuale quell’aeroplano nel portare la lattuga che gli armati indigeni di là del fiume, quando lo vedevano apparire regolavano l’orologio.


“Ammesso,” aggiunse il sottotenente “che possedessero un orologio.” E, dette queste parole, si distrasse un attimo prima di ricominciare.


Il vecchio parlava adesso con una giovane donna, sempre voltando le spalle alla piazza. Restava immobile, mentre la donna, fattasi sull’uscio, guardava attorno e accennava ora verso l’osteria ora verso il comando tappa, parlando in fretta. E infine rientrò, e poco dopo il riquadro della porta si illuminò vivamente; la donna aveva acceso una lampada. Il vecchio si allontanò verso l’osteria, ora piena di gente e sempre più illuminata per effetto della sera che assorbiva la piazza.


“Dunque,” riprese il sottotenente “l’osservatore dell’aereo non vedeva mai un armato, dall’altra parte del fiume. Nemmeno uno? Nemmeno uno. E allora il generale pensò che era tempo di mandare un reparto a dar prova di forza, prima dell’offensiva finale; e il reparto partì a malincuore, tutti sapevano che di armati ce n’erano anche troppi dall’altra parte. E l’ufficiale che comandava il reparto, un giovane silenzioso, sorridente, prima di andare mi disse: “Odio la lattuga”. Nient’altro. Doveva andare e non la fece lunga.”


(Il vecchio stava parlando con l’etiope vestita di rosa, che rispondeva con larghi gesti delle braccia e quindi lo invitò a sedere. Il vecchio sedette vicino alla porta e restò a guardare la piazza, ma senza vederla perché i suoi pensieri erano certamente altrove; e, quando l’etiope gli porse una coppa, la prese e chinò il capo, ma la tenne tra le mani, e non sì decideva a portarla alle labbra.)


“Bene,” chiesi “com’è finita?”


Il sottotenente si scosse: “La sera stessa,” rispose “vedemmo ritornare un soldato, un ascari, che si teneva le mani sul ventre. Traballava un po’, sembrava ubriaco. Nelle mani aveva le budella, ed era l’unico che si fosse salvato”.


Scoppiò a ridere. Pure, quella falsa risata ridiede anche a me un po’ d’allegria. “Non è il caso di prendersela,” dissi “la guerra è fatta anche di queste storie, di giovani che studiano belle lettere o musica e dopo un anno cadono per l’insalata del generale. Nessuno ha colpa.”


“Già, nessuno,” disse il sottotenente “non certo l’aeroplano.”


“E nemmeno il generale” dissi “ha colpa. Alla sua età bisogna nutrirsi saggiamente.”


“Sì,” disse pensieroso il sottotenente “nessuno. L’unico, forse, quel soldato che resiste ai colpi della sorte e sfida la logica. Suvvia, andarsene qua e là con le budella in mano. Non è leale. Non è leale guarire, in certi casi.”


Guardai il sottotenente. Perché aveva voluto raccontarmi quella storia? Forse… Ogni dubbio che egli avesse parlato con intenzione sparì quando l’ebbi osservato: il suo volto fanciullesco, quei baffi senza pretese, quegli occhiali con una stanghetta rabberciata, ispiravano fiducia. Ancor più ispirava fiducia quel sigaro inadeguato che tradiva tutte le sue ambizioni. Mi calmai. Era la prima volta che ridevo dopo tanti giorni e la piazza di quella cittadina sembrava ora promettermi molto di più di quanto avrebbe potuto darmi.


Ne facemmo il giro. Dalla piazza partivano varie strade, una delle quali portava alla chiesa, un edificio che vedevamo in fondo a un cortile, tra due baracche a veranda. Era una vecchia opera del periodo portoghese, nobilmente invecchiata, asimmetrica, in piedi per miracolo, e ci fermammo a osservarla. Quel rivedere dopo tanti mesi una parvenza di edificio costruito non per istinto ma per intelligenza mi dava una gioia profonda, che non sapevo a che legare. Quando lo seppi, ridivenni triste.


Inghiottii una pastiglia, perché il dente aveva ripreso a dolermi, e mi si sciolse in bocca, amarissima.


Dov’era il vecchio? Non vedevo più il vecchio sulla soglia dell’osteria.


Fissavo lo sguardo nelle ombre della piazza, quando lo vidi venire verso la chiesa. Camminava più svelto, il busto inclinato in avanti, e varcò il cancello prima di noi, dirigendosi verso la porta della chiesa. Sparì assorbito dall’ombra delle piante, nel cortile dove vagavano altre ombre silenziose.


“Entriamo?” disse il sottotenente. Gli risposi che era già tardi, non avremmo visto nulla con quel buio. Le strade si stavano spopolando e l’idea di tornare alla tenda del comando tappa e là aspettare l’ora di cena non ci piacque, meglio vagare in attesa della notte. Ci fermammo e il sottotenente propose di chiedere ospitalità a qualche ragazza, a quelle due che occhieggiavano verso di noi, ridendo, scambiandosi impressioni certo lusinghiere. Il mio compagno non aveva finito di comunicarmi la sua proposta che già questa era stata sulle soglie più prossime, suscitando risa trattenute, battere di porte e insomma un’agitazione che non potevamo ormai deludere. “Io non vengo” dissi, ma ormai sulla ci attendevano le due ragazze, che sorridevano.


Il sottotenente (doveva essere abbastanza pratico degli usi locali) gettò una moneta sul tavolo e si sdraiò sul letto che occupava tutto un lato della stanza. Una ragazza corse via a prendere due bottiglie di birra, io sedetti e l’altra ragazza si accostò dicendo alcune parole, ma non capivo: e allora si mise a caricare un fonografo con una prudenza piena di orgoglio, perché quello era un miracolo che si ripeteva ogni volta, a suo piacere. Non potevo staccarle gli occhi di dosso ed evitavo di rivelarmene la ragione. Quando ebbe finito, la ragazza mise una marcia militare; poi, a caso, un altro disco, ed era la canzone che Lei canticchiava talvolta nel bagno. “Forse farei bene a scriverle” pensavo.


La ragazza venne ancora a parlarmi e io le sorrisi, fingendo di capire, ma la vedevo appena e soltanto il brillare improvviso dei suoi denti mi diceva che quell’immagine sfocata viveva. Vedevo invece il canale di Suez al tramonto, con quel soldato arrampicato sulla coffa che cantava disperatamente al deserto e che tutti stavamo ascoltando, perché ci faceva ridere e ci commuoveva (avevo ancora nella cabina i fiori e qualcuno ne avrei conservato tra le pagine di un libro). La nave avanzava così piano che sembrava quasi spinta dalla voce del soldato.


Non era possibile andar via. Ora le due ragazze stavano bevendo, meravigliate che rifiutassimo, e già nella stanza cominciavano a entrare parenti e vicini coi loro bimbi, attratti dalla singolare munificenza del sottotenente che aveva mandato a prendere altra birra. E quella canzone così indulgente e sentimentale che altrove mi avrebbe fatto sorridere, bisognava accettarla per Lei e per quel soldato che s’era arrampicato lassù e stava urlando di malinconia al deserto. Passato Suez la festa si sarebbe conclusa, mesi di lontananza da segnare sulla cinghia col temperino. E, al ritorno, la donna amata che canta nuove canzoni e sorride dei sentimenti superati. “Resteremo qui molto?” chiesi al sottotenente.


Stava sempre sdraiato sul letto, quel curioso amico, senza far caso alla piccola folla deferente che ascoltava il fonografo, sorridendo e forse convinta di lusingarci. “Ti annoi?” rispose e cominciò a parlare con le donne che invadevano ormai la stanza. Erano donne anziane, pesanti e avvizzite, ma allegre, e ridevano a ogni parola del mio amico. Quanto alle due ragazze, non mostravano nessuna fretta di concludere il loro mercato e sembravano divertirsi più di tutti, felici che la loro dimora fosse teatro di una vera festa. Guardando, vidi che oltre quella c’era un’altra stanza. Ne intravedevo il letto e, in fondo, la porta che dava su un cortile. I bimbi cominciarono a giocare tra loro, rincorrendosi per la stanza e rovesciando gli sgabelli: nessuno li rimproverava.


Quale personaggio aveva lasciato alle due ragazze il fonografo? Tutta la loro fierezza era ormai concentrata in quel possesso, l’avevano messo sopra un trespolo e, per cambiare i dischi, dovevano salire su uno sgabello. Così, ero annaffiato da voci nostalgiche, che aggiungevano alla mia malinconia la noia dei ricordi inutili. Fu accesa la lampada a petrolio e dense ombre si formarono agli angoli della stanza, mentre le donne (quante erano? provavo a contarle ma sempre dovevo ricominciare daccapo, forse erano nove, forse dieci) sedevano chiacchierando in attesa che il caffè bollisse.


Come gli anni le rendevano cupe, più laide. Nei loro occhi non si poteva leggere nulla, se non la noia della decadenza. Il tempo le aveva definitivamente sconfitte. “Ancora due o tre giorni” pensai “e tornerò al campo. In tre giorni si fanno molte cose, non tutte quelle che avevo in mente prima della partenza, ma si ripiglia elasticità, ci si rade, si va a spasso, si prova a leggere quel libro che il sottotenente conserva tra i cuscini. Chissà che specie di letteratura (forse macabra, perché costui ha il gusto delle storie macabre e maschera la sua debolezza di cinismo), ma l’importante è non tornare al campo domani.”


Il maggiore passò con studiata lentezza davanti alla porta spalancata. Era forse tentato di entrare, ma proseguì facendo finta di non averci visto e pensai che sotto la sua paterna scorza covasse una mai soddisfatta libidine. Si era fermato poco distante e stette a lungo incerto se entrare o no, prima di andarsene. Quando si allontanò, venne una delle ragazze, quella che prima mi aveva sorriso (e quel sorriso ora mi sorprendevo a desiderarlo), a offrirmi il caffè.


Mi lasciò la tazza sul palmo della mano e stette ferma, in attesa di vedermi bere. Si chinò sorridendo verso di me e nella scollatura della tunica le vidi il seno. Poi disse qualcosa, venne a sedermisi accanto, infilando un braccio sotto il mio. “Non sarà tardi?” chiesi al sottotenente.


“No” rispose. Poi aggiunse: “Ormai non possiamo offenderle con una fuga. E ricordati, nel bere il caffè, che costoro adoperano sale invece di zucchero”.


Tenevo in equilibrio la tazza sul palmo della mano e ascoltavo le parole di lei, che non capivo, ma volevo ascoltare; e quando il suo seno mi toccò la spalla, tentai di scostarmi e rovesciai la tazza. Tutti risero, la tazza fu di nuovo riempita e di nuovo sentii il seno della ragazza, libero nella tunica, sopra il mio braccio. Stavo fermo come il fidanzato davanti alle parenti che non disapprovano: aspettavano forse un mio cenno e il suo seno urgeva sempre, ma con estrema pigrizia e se appena la guardavo, smarrito che osassi guardarla, le si apriva il volto a un sorriso di innocente complicità. Volevo andarmene, ma non sarei arrivato alla porta, forse la piccola folla delle comari me lo avrebbe impedito, o sarei caduto a terra, e poi il sottotenente s’era messo a parlare con uno dei bimbi e tutti seguivano quella conversazione, ridendo insieme alle risposte del bimbo. La grossa madre delle due ragazze (era la madre, perché si preoccupava delle loro acconciature e le rimirava con orgoglio) rideva più di tutte, contando i biglietti che il bimbo aveva guadagnato, non capivo come.


E poi, se avessi trovato la forza di scriverle! “Anzi, è deciso,” pensai “scriverò stasera stessa, inutile procrastinare.” Provai tale conforto a quella decisione che tutto mi sembrò piacevole in quella stanza e cominciai a ridere col bimbo, mentre la ragazza più mi si stringeva al fianco, ridendo anch’essa. Feci dire al bimbo tutto il suo italiano: e lui in fretta, a volte impuntandosi a guardare il soffitto, quasi a chiedergli aiuto, o corrugando il viso nello sforzo di ricordare, ma sempre facendomi cenno di non suggerirgli, elencò il repertorio. La maggior parte erano parole indecenti. “Sono le indispensabili,” disse il sottotenente “il resto è letteratura.”


Poiché il bimbo continuava, lieto di sostenere l’esame davanti ai suoi, che potevano così ammirarlo, fui preso da un accesso di riso e la ragazza fece appena in tempo a togliermi di mano la tazza ancora piena.


Mentre cavavo di tasca il fazzoletto per asciugarmi gli occhi, vidi il vecchio in fondo al cortile. O era qualcuno che gli somigliava molto. No, era lui, guardava attraverso la porta aperta, attirato da quelle risa, poi avanzò sulla soglia, stette a guardare, e infine attraversò la stanza, ch’era buia, e venne sulla soglia della stanza dove eravamo noi.


Nessuno sembrava essersi accorto della sua presenza. Il vecchio restava fermo sulla soglia e il suo sguardo si soffermava su tutti, uno alla volta, come chi cerca qualcuno e vuole accertarsi bene prima di desistere. Il suo volto esprimeva già la certezza dell’insuccesso, pure gli occhi scrutavano, sostando, e li vedevo apparire di sopra le teste delle donne che bevevano il caffè. Intanto la ragazza s’era levata in piedi e, salita sullo sgabello, aveva tolto il disco, senza metterne un altro.


Era questo il segnale che le altre donne aspettavano e, confusamente, cominciarono a lasciare la stanza, poiché la festa era finita. Venne la grossa madre a togliermi dinanzi il bimbo, e lo sculacciava ridendo, indicandogli la porta.


Infine rimasero le due ragazze e, senza fretta, rassettarono il tavolo, liberandolo delle tazze. Quella che avevo avuto accanto, volgeva a tratti il volto verso di me e sorrideva: poi prese a canterellare, a voce bassa, la canzone di prima. Ma così lentamente che stentavo a riconoscerla.


Tutti erano andati via e allora il vecchio entrò nella stanza e parlò alla ragazza che cantava. Parlava in fretta, nella sua lingua, con una voce sgradevole, gutturale. Dopo averlo ascoltato, la ragazza accennò negativamente col capo, si volse poi all’altra ragazza e ripeté quanto le aveva detto il vecchio, perché sentivo quasi le stesse parole, e un nome sempre ripetuto: Mariam (forse era il nome di una delle ragazze). Anche l’altra ragazza rispose qualcosa che non soddisfece il vecchio.


Non se ne andava. Stava fermo vicino alla tavola e mi volgeva le spalle, appariva stanco. Senza che nessuno lo invitasse, sedette e la ragazza (che aveva ripreso a cantare con una lentezza insostenibile e a tratti mi sorrideva) gli offrì una tazza del caffè ch’era rimasto, forse la stessa che io avevo rifiutato.


Il vecchio bevve, poi si volse al sottotenente e disse qualche parola. Il sottotenente rispose.


Il vecchio non mi aveva mai guardato e appena mi vide si fermò a considerarmi e accennò un breve saluto con la testa. Ero seduto in un angolo e coperto dall’ombra della lampada. Infine il vecchio si alzò e disse in italiano: “Buona sera” e uscì dalla porta di strada. Lo seguii con gli occhi, nel vano della porta. La sua figura impiccioliva e ben presto la macchia bianca della sua veste si confuse nell’ombra.


“Che voleva?” chiesi al sottotenente.


“Nulla” rispose. Non insistetti, perché già la mascella cominciava a dolermi e la fitta saliva verso l’occhio e la fronte, come una spada ben ferma in una mano crudele, che insiste e fruga cercando di arrivare al cervello.


“Andiamo via” dissi. Ma il sottotenente non si mosse, e neppure io fui capace di muovermi. Le due ragazze stavano chiudendo la porta e allora mi alzai in piedi, feci capire che avevo bisogno d’aria, di respirare. Lasciarono la porta socchiusa, e io sedetti sullo scalino. Attraverso lo spiraglio, ancora una volta vidi passare il vecchio, diretto verso altre case, in quella ricerca che sapevo inutile.


La mattina dopo, io e il sottotenente prendemmo un camion per Asmara, lui deciso a divertirsi, io a cavarmi il dente.


Non era un bel film, eppure l’avevo già visto parecchie volte. Ogni giorno, benché cominciassi a vergognarmi di questa debolezza, uscivo dall’albergo, deciso a far quattro passi: andavo sino ai giardini, guardavo la valle, entravo in un bar a bere un aperitivo e poi, insensibilmente, eccomi davanti alle fotografie di quel film che avevo visto già tante volte, anche in Italia. Temevo che la cassiera potesse riconoscermi, quel giorno, e meravigliarsi di una tanto ostinata ammirazione, ma non mi riconobbe e poco dopo ero nel sogno che mi dava la calma ottusa di uno stupefacente.


Sapevo perché quel film mi dava tanta calma. C’era qualcosa negli occhi di un’attrice secondaria (oh, niente di eccezionale), qualcosa che mi ricordava altri occhi. Una pace struggente mi confortava quando quegli occhi roteavano sicuri sullo schermo; mi rimettevo a essi e cercavo di vivere col ricordo di Lei, di rintracciare, nei più dimenticati ricordi, i momenti della nostra felicità. E me ne vergognavo.


Quando si riaccese la luce ero affranto, perché di nuovo ero solo. Ora, se un motivo poteva indurmi al ritorno al campo era soltanto la risposta di Lei alla mia lettera. Era là che mi aspettava, nella tenda del postino, e io invece indugiavo. Aspettavo da quella lettera una qualsiasi assoluzione, una frase abbastanza semplice, che mi sciogliesse la paura. Forse Lei aveva capito, benché nella mia lettera non avessi alluso a nulla, ma soltanto ripetuto che avevo bisogno di Lei, che mi mancava il respiro tranquillo delle lunghe serate accanto al fuoco, le sue risposte impensate. Eppure bisognava tornare al campo, affrontare la discesa del fiume, riprendere il cammino verso le terre che temevo.


Dopo otto giorni che ero in quella città, spaventato della mia inerzia, decisi di far qualcosa. Intanto dovevo farmi cavare il dente, che ora non mi doleva più. Ma se fossi tornato anche col dente, il mio viaggio sarebbe suonato addirittura un’offesa per gli amici rimasti al campo.


Quando il dentista mi mostrò quel maledetto molare sulla pinza, respirai. “Lei mangia troppi dolciumi” disse scherzosamente il dentista. “Sì,” pensai troppi dolciumi nei suoi pacchi. Le debbo scrivere che mandi più libri o altra roba, ma non dolciumi.” La giovane assistente prese il molare (prima lo volli guardare, quell’acerrimo nemico e scrutare il segreto della sua forza: dunque, a lui dovevo un mese di sofferenze), e lo avvolse in un batuffolo d’ovatta “Lo tenga,” disse sorridendo “allontana il male. “


 


“Davvero?” Ma subito dopo sorrisi. Tuttavia, prima di andarmene, poiché nel frattempo la giovane assistente s’era distratta, presi il batuffolo e lo misi nel portafogli. La mia lingua andava spessissimo alla gengiva e ogni volta mi ripigliava l’affanno della partenza ormai inevitabile.


La discesa del fiume, questo era il punto. Ma forse avrei anche trovato il tempo di farci un bagno, nel fiume, se vi fossi giunto nelle ore della canicola. Forse i defunti si divertono a perseguitarci quando siamo lontani dai loro luoghi ed è perciò necessario tornarvi, passeggiare a fronte alta tra le piante della boscaglia, guardare lo scoiattolo, offrire sigarette al camaleonte. Ma ora la vita della città mi stava ridando qualcosa che temevo di perdere una volta laggiù, temevo soprattutto di stancarmi, di non resistere. Avevo sì deciso che tutto era stato uno sbaglio, però uno sbaglio che non poteva essere “sbagliato” altrimenti. La realtà era questa realtà della vita cittadina, che calma e distrae; i negozi, il bar, la tovaglia bianca, l’attrice secondaria che si anima solo per me. La mia giornata aveva preso un ritmo lento, in cui i nervi s’erano quasi assopiti. Dalla finestra della stanza che occupavamo io e il sottotenente, si vedeva lo spettacolo di una folla civile, pigra, provinciale, soddisfatta, ma insostituibile. Se guardavamo oltre i giardini, nella valle dove il cielo si stendeva come un enorme sipario, subito moriva il discorso e ne sapevamo la ragione. “Il mare è da quella parte” disse una volta il sottotenente e sentii che il cuore gli si stringeva, come a me.


Che bisogno c’era di dirlo? Forse il mio giovane amico non sapeva tacere, apprezzava il silenzio soltanto per il valore delle pause. Piuttosto, quando l’avremmo rivisto quel mare sporco ma eguale per tutti? Sì, sarebbe stato prudente tornare subito al campo, brigare per la licenza, accampando un qualsiasi tenace malessere. Stando lì a perdere tempo potevo compromettere ogni cosa, se già tutto non era compromesso. Forse laggiù il mio nome, alla mensa, non veniva fatto nemmeno con rabbia, ma con sorpresa e curiosità. Altri ufficiali aspettavano il mio ritorno per chiedere a loro volta un permesso.


Il sottotenente s’era ancora una volta sdraiato sul letto e leggeva quel suo interminabile libro. “Io vado” gli dissi.


“Dove?”


“Al campo. Me ne ritorno. “ Si rimise a leggere e non alzò mai gli occhi, nemmeno quando vide che preparavo davvero lo zaino.


“Forse ci rivedremo” dissi, appena fui pronto.


“Perché no?” E finse di guardare la pagina, veramente arrabbiato. Sentiva che la mia fuga rendeva inutile anche la sua resistenza, anche lui avrebbe dovuto rifare lo zaino e andarsene. Ma, come nei giorni precedenti m’ero confortato all’idea di tornare insieme a lui, almeno sino alla cittadina in cui c’eravamo incontrati, così in quel momento sentivo che dovevo andarmene solo. Perché sapevo bene come finiscono certe imprese: si decide di partire, anzi si parte e alla prima tappa si torna indietro, sollevati da un peso, decisi a far pazzie e a ridere delle conseguenze.


Stavo per uscire dalla stanza, quando il sottotenente mi chiamò. “Lasci l’orologio” disse.


Arrivai sino al comodino e lo presi. Mentre lo affibbiavo al polso (adesso mi biasimavo di non averne comprato un altro, ma troppo tardi, i negozi erano chiusi quel giorno), il sottotenente aggiunse: “Quel cinturino è sporco. Cambialo e buona notte”.


“Lo cambierò” dissi e uscii senza aggiungere altro, pieno di rancore. Adesso ero lieto della mia risoluzione di andarmene.


Man mano che abbandonavo i segni della civiltà, scomparso il catrame dalle strade, scomparsi i bar, mi riafferrava la malinconia, e l’inquietudine per ciò che mi attendeva al campo, dove avrei dovuto giustificare la mia lunghissima assenza.


Il camion si fermò al comando tappa che già conoscevo e il carabiniere disse al conducente di far salire qualcuno Gridò verso la garitta e intanto ci sorrideva; e da dietro la garitta apparve il vecchio indigeno, e poi un bimbo, quello stesso che avevo visto così lieto nella boscaglia, mai stanco di ammirare la danza del suo giovane amico. Quando ripartì, vidi attraverso il finestrino della cabina che il vecchio s’era seduto e mi volgeva le spalle mentre il bimbo, in piedi, gridava di gioia per quella gita.


Il vecchio mi volgeva le spalle, che vedevo curve e scarne. Reggeva tra le lunghe mani il bastone e con un dito lisciava la canna distratto, senza ascoltare ciò che il bimbo gli urlava ogni tanto. Guardava fisso davanti a sé e la sua testa si muoveva disordinatamente per le scosse del veicolo. Dopo qualche chilometro, calando la sera, profittai di una sosta del camion per scendere. “Io non proseguo” dissi al soldato, e restai su quella collina da dove si dominava l’altopiano. In fondo vedevo stagliarsi le montagne della mia prigionia, ma infinitamente più piccole e magre: dunque, da quella parte era il fiume.


Ripartito il camion, rimasi solo; non sapevo cosa fare ma non ero pentito della mia improvvisa decisione. Pensavo di ritornare ad A. Quella cittadina, col suo comando tappa, con le ragazze del fonografo, con la piazza percorsa a quest’ora dal placido passeggio delle donne dirette alla cisterna, poteva placarmi. Dovevo tornare dalle ragazze del fonografo e non rimettermi mai più su quelle strade che odiavo e che mi apparivano funeste. Il giorno dopo sarei tornato all’Asmara. E al diavolo le conseguenze.


Passavano indigeni diretti verso la cittadina e mi salutavano fermandosi a molti passi, aspettando che mi accorgessi di loro e che li lasciassi proseguire. Se ne andavano tetri e fiduciosi, forse meravigliati di vedere un ufficiale solo da quelle parti. E perché, scendendo dal camion, avevo sentito il bisogno di regalare quella moneta al bimbo?


Dopo mezz’ora passò un camion che mi riportò ad A. Era scesa la sera e, invece di recarmi al comando tappa, presi a girare per le strade più quiete, quasi chiedendo alle mura di quegli orti chiusi la calma che avevo perduta. In una piazzetta vidi alcuni soldati che stavano cuocendo il loro pranzo su un fuoco improvvisato e mi accostai. Mi invitarono a cena. Anche loro dovevano andare verso il fiume e suppongo che anche loro fossero stati fermati dal calar della sera, incapaci di vincere la solitudine che li avrebbe attesi nella pianura ancora macabra, dove l’agguato non era più degli uomini, ma delle cose, delle piante, delle ombre.


Mangiammo in silenzio, poiché il pensiero di riprendere la strada, il giorno dopo, li amareggiava. Io ero lieto, vinta ormai ogni inquietudine. Era inevitabile che il discorso cadesse sulle previsioni del ritorno, mi ci appassionai e i soldati stavano a sentire i miei argomenti ottimisti senza entusiasmo e non contraddicevano. Non volevano e non potevano contraddirmi.


Qualcuno si era fermato alle nostre spalle.


“Tenente. “


Mi levai in piedi e vidi il maggiore, presso la soglia di una baracca illuminata. Sempre elegante, le mani dietro il dorso, gli stivali che brillavano ai riflessi del nostro fuoco. Quando lo raggiunsi mi invitò a entrare e per un attimo stemmo in silenzio, lui cercando le frasi della sciocca ramanzina, io le scuse. Infine si decise. Avrebbe dovuto farmi rapporto, ma sapeva bene che era inutile. Però si chiedeva che gusto ci provassi a incanaglirmi in quel modo. Barba lunga, frequentavo le case indigene, mangiavo seduto a terra come uno zingaro. Si chiedeva che concetto poteva farsi di me un indigeno.


Aveva parlato con voce molto calma, tutto era un pretesto perché s’annoiava. Comunque, gli feci notare che non avevo più la barba lunga; m’ero, seduto a terra con quei soldati perché m’avevano invitato alla loro cena e non c’era da rifiutarsi: del resto, avevo mangiato benissimo. Quanto alle case indigene, si trattava di un equivoco.


Mi guardò sorpreso, ripeté più volte interrogativamente la parola equivoco. “Ma se vi ho visto con i miei occhi” concluse. Risposi che c’eravamo andati per sentire un po’ di musica.


“Che genere di musica?” chiese, ridendo poi del suo stesso scherzo, e prese da uno scaffale una bottiglia di cognac. Era quella, dunque, la sua baracca. Viveva tra un cumulo di casse della Sussistenza, merce di ogni genere. La sua eleganza ne risaltava, ma accresceva anche il sospetto di un legame preciso tra il grosso anello che portava alla destra, ornato di un brillante, e il tanfo di droghe che si sprigionava dalle assi del pavimento, certo avvezze a sopportare il peso di un abile commercio. Bevemmo. Il cognac era vecchio e il caldo della notte aiutò a stordirci. Ridevamo, ormai amici, ognuno stimando dell’altro le qualità peggiori.


L’argomento che aveva sfiorato lo interessava troppo. Mi chiese se ero ammogliato e, quando gli ebbi risposto, parve soddisfatto: questo era un punto a suo vantaggio. Sul tavolo vicino alla branda c’era la fotografia di una donna estremamente spiacevole. Vide che la stavo osservando e disse che era sua moglie. Nel tono della voce scoprii il rimpianto di quel matrimonio fatto in fretta, per ragioni che forse aveva dimenticate, o almeno ripudiate. Tuttavia, la donna nel portaritratti sorrideva. Da quel sorriso si deduceva senza sforzo lo stile dei mobili dell’appartamento, le tendine, il mediocre ordine che le regnava attorno. E la noia.


Allora feci un elogio delle ragazze indigene: erano semplici come colombe, dolci, disinteressate, incluse nella natura. Non restava che coglierle.


“Lei s’illude” disse. Ora mi dava del lei.


“Nient’affatto” risposi. Aggiunsi che non sarebbe durato ancora molto, in pochi anni avrebbero acquistato il concetto del tempo, che adesso mancava loro totalmente. “Quando scopriranno il Tempo, “ dissi “diverranno come tutte le ragazze di questo mondo, ma di un genere inferiore, molto inferiore. Ora mi divertono,” aggiunsi “perché sanno perdere tempo, proprio come gli alberi e gli animali.”


Dunque, queste considerazioni mi spingevano a perder tempo con loro? E il maggiore rise. Bevemmo ancora. Ero stordito. “E questo” dissi “è il cognac delle cassette.” Non capì. Ripetei la frase e aggiunsi: “Nella cassetta dell’infermiere la bottiglia del cognac è sempre vuota”. (Ma forse, pensavo, l’infermiere non sarebbe venuto.)


Mi versò ancora da bere e disse seccamente: “Lei è un ragazzo”. E si levò. Credetti di averlo offeso, invece rideva e uscì un momento dalla baracca, barcollando. Allora, spinto da una curiosità davvero puerile, aprii il cassetto del suo tavolo. Sapevo che vi avrei trovato quella ragionata confusione, quelle scatole piene di mozziconi di matite, di temperini, di francobolli, e di lettere legate con spaghi. E anche rimasugli di ceralacca. Ero soddisfatto. L’eleganza del maggiore mi appariva la facciata di un sordido edificio che potevo visitare a occhi chiusi. Quando rientrò gli proposi di andare a svegliare le due ragazze (volevo soltanto rivedere quella che s’era seduta accanto a me, guardarla negli occhi e convincermi che le mie fantasie non meritavano molta attenzione). Il maggiore accettò, grato che fossi io a proporre la partita. Avrebbe studiato l’ambiente, avrebbe controllato se quanto dicevo era vero. E io ricordavo quel seno libero nella tunica, ma come si pensa a una prova che occorre distruggere. Le tempie mi battevano e già mi spaventava questa vendetta impensata di lei. Non sarei più tornato al campo.


“Portiamo una bottiglia?” disse il maggiore.


Le ragazze non volevano aprire, si decisero dopo lunghe confabulazioni: e una di esse era rimasta a letto, giaceva quasi scoperta, come un caldo blocco di granito. Poiché c’era pochissima luce, il maggiore prese a palpare la ragazza, cercando di dare ai suoi modi un carattere scherzoso. “Su, sveglia!” diceva. In realtà metteva le mani sotto la tunica, sostava ammaliato, mi si rivolgeva con esagerata sorpresa, invitandomi a constatare che era proprio una bella ragazza, molto ben fatta, davvero molto ben fatta. “ Senta qui, tenente.”


Sì, era proprio il tipo che avevo sospettato quel giorno che s’era messo a passeggiare su e giù davanti alla porta. Ora stimavo una vittoria, benché facile, esser riuscito a portarlo dove volevo.


L’altra ragazza fingeva di non riconoscermi, o non mi riconosceva davvero: non avevo più la barba lunga e non c’era motivo che lei fingesse. Stava in piedi sullo sgabello, caricava il fonografo, lenta, e quando l’afferrai, sorrise. I suoi piedi toccarono il pavimento e io la lasciai: in quel corpo c’era l’indolenza che temevo. Mi chiesi se per questo avevo lasciato il camion proseguire oltre la collina, per ritrovare questo qualcosa che avevo già seppellito assieme ad altri errori. “Ricominceresti daccapo?” pensai. Ero confuso, sicché mi sedetti sulla pietra del focolare e il maggiore, forse impacciato dal mio contegno improvvisamente serio, sturò la bottiglia, ridendo, chiedendomi una complicità che non ero più capace di dargli. Quando mi porse il liquore e disse: “ Su, beviamo” rifiutai. Era quello, dunque, il cognac della cassetta.


Bevve lui un lungo sorso, per infondersi un po’ di coraggio, per infonderne a me, altrimenti non avrebbe resistito e tanto valeva che andasse a dormire. Non avrebbe resistito alle ombre che la lampada creava negli angoli della stanza, e che avevo dimenticate.


Bisognava bere. Dopo un po’ mi sentii meglio e potei anche sorridere delle preoccupazioni che la mia mente si divertiva a propormi. Tutto era molto più elementare, io seguitavo a vivere ed era umano (anzi, giusto), che seguitassi a desiderare ciò che prima avevo desiderato. Se quella lunga solitudine mi consigliava di dare un estremo valore a un corpo indolente e a due occhi che conservavano ancora la supposta luce dei secoli scorsi, niente di male. Cercai la ragazza, era andata nella sua stanza e mi sorrideva. “Accettiamo la lezione di costei” dissi ridendo; e stavo per avviarmi, quando fui trattenuto dal chiasso dell’altra coppia.


Il maggiore tentava di far inghiottire un sorso alla ragazza, ma ella si difendeva cortesemente. E il maggiore ne approfittava per gettarlesi addosso, ormai convinto che non l’avrei giudicato. Ma la ragazza si difendeva, purtroppo senza crederci, e quella scena mi parve insopportabile.


L’altra ragazza era nel suo letto e aspettava.


Fuori c’era la buia notte della decadenza, senza ladri e senza nottambuli. Molti mesi prima, passando per Port Said avevo visto dal piroscafo l’ultima notte europea, i tabarin messi lungo il molo per dar tempo ai turisti di spendere la valuta rimasta in tasca. E una voce simile a quella che usciva ora dal fonografo, veniva dal molo. Potevo sentire da bordo, a quella distanza, i colpi dei tappi dello champagne, l’allegria un po’ spaventata dei turisti, che volevano divertirsi, ma non giungere agli eccessi che la notte e l’impazienza del ritorno consigliavano. Ed erano molto incerti se cedere all’arabo che proponeva una visita a quella tal casa. Andarci! Ma sì, l’Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, ci si va a sgranchirsi la coscienza.


M’accostai al maggiore e dissi: “La smetta”. Non ne fu sorpreso e allora aggiunsi: “L’Africa è lo sgabuzzino delle porcherie, eh?”. Scoppiò a ridere e le sue mani andarono rapide attorno alla vita della ragazza che gli sedeva accanto. Presi a ingiuriarlo, ma egli seguitò a ridere e la sua socievole allegria, invece di calmarmi, aumentò l’inquietudine che mi tormentava. Ero io quell’uomo acceso? Conservavo lettere, fotografie, mi stimavo diverso da tutti gli altri? Ecco, il volto del maggiore si offriva come un bersaglio lungamente atteso. Era certo il volto di una qualsiasi persona, ma in quell’istante le rughe che lo segnavano non erano parole di una vecchia lapide che chiedevano soltanto lo sforzo di una traduzione? “Se uccidessi quest’uomo,” pensai “seppellirei anche la parte peggiore di me stesso.” Ma poiché il maggiore si incuriosiva, dissi: “Si diverta pure, buonuomo”, e mi intenerii sinceramente quando daccapo abbracciò la ragazza. “Le sue mani vogliono soltanto rendere un omaggio alla lunga noia dell’esilio” conclusi.


L’altra ragazza era sul letto, ora guardava le pareti della stanza e non vedevo più il suo volto. Ma la sentivo assente, immersa nella sua cupa pazienza, e i suoi pensieri non dovevano essere dissimili dai pensieri che precedono il sonno.


Perché ero in quella casa? Che c’ero capitato a fare? Quando la lingua toccò l’incavo ancora sensibile della gengiva, rammentai tutto e conobbi la tristezza del prigioniero che vede giungere la sera e non è più capace di ridere. Il giorno è finito, domani si ricomincia, e l’unica speranza era forse quella lettera nella tenda del postino. Una lettera spiegazzata e, dentro, la sua scrittura fine e rotonda, con qualche parola vergata in fretta e la firma più timida che io conosca. Raggiungere quella lettera, anche subito! Ma i camion erano fermi e gli autisti dormivano col fucile al fianco. E poi… avrei ripreso la via del fiume e delle montagne? “No, “ dissi “all’alba verso l’Asmara e al diavolo ancora le conseguenze. “


La ragazza mi aspettava e io bevvi, sino a vedere girare la stanza e le ombre della stanza. Bevvi di proposito, perché detesto ubriacarmi e non speravo da quell’alcool nessun sollievo. Non gli avrei certo chiesto un sollievo che soltanto io ormai potevo darmi, raggiungendo la ragazza nel suo letto e convincendomi che una vale l’altra. “Non è restato fuori nulla, tutto è nella tomba” dissi. Bisognava però caricare il fonografo, bere, sculacciare la ragazza, incoraggiare il maggiore: poiché è deciso, non sarei tornato al fiume. Ricoverarsi in un ospedale? Vedremo.


Le ragazze ridevano vedendoci così allegri, segno che la festa riusciva. Peccato non poter chiamare le nove (o dieci?) vicine coi loro bimbi. Forse era quello il momento di mettere la marcia militare? Ma sì, mettiamola pure. Quando il maggiore sentì le note marziali, corse a togliere il disco e poi a sdraiarsi sul letto della ragazza. Non sopportavo la sua improvvisa disinvoltura. Entrai nell’altra stanza e stetti a guardare la donna, già coricata, che m’aspettava senza annoiarsi. Sedetti sul letto e la guardavo, anzi la consideravo. La sua pelle non era molto chiara, e il suo sorriso era quello di un buon animale domestico che aspetta. Restava immobile, non immaginando che la vedessi con tanta lucidità. “Era simile a questa” dissi. “Simile a questo animale che la solitudine aggravata dalla noia ti propone come un miraggio.” O non cercavo di ingannarmi? Non cercavo una scusa che mi confortasse? Fui lieto trovandola nell’odore della donna, un odore vegetale, da albero paziente, misto a un profumo così dolce da dare la nausea. Non osavo toccarla, se il letto si fosse messo a girare, come temevo, dovevo andarmene. E invece bisognava restare. Tentai di fissare la donna negli occhi, aveva le pupille color nocciola, come del resto tutte le dame di quaggiù. Scoppiai a ridere. “ Hai visto anche occhi verdi e grigi, che qui non esistono. Vuoi sapere di chi sono gli occhi verdi e grigi? Per favore, chi ha uno specchio?” Seguitai a ridere e la donna rise anche lei, pazientemente, senza capire.


“Maggiore,” dissi. Mi rispose con un grugnito. “Maggiore,” ripetei “s’è mai trovato in battaglia?”


Rispose di sì, a fatica, un po’ meravigliato. “È possibile,” chiesi “che un soldato metta fuori le budella e poi guarisca? “


Benché seccato, disse che tutto era possibile e che lo lasciassi in pace. La ragazza che giaceva accanto a me allungò un braccio e una tenda di cotone divise le due stanze.


Dovevo insistere? Non avrei saputo egualmente, chiedendo a un medico, il giorno dopo, a quel medico che legge i suoi giornali nel boschetto di eucalyptus? “Quando si è feriti al ventre, “ dissi “è un’altra cosa. “


“Un mio soldato se l’è cavata” rispose il maggiore e sentii che la ragazza rideva, forse per il solletico.


“L’hanno operato subito?” chiesi e riuscii a sedermi sul letto. “Dopo sei o sette ore.” Nella sua voce c’era l’impazienza per il dialogo al quale lo costringevo.


“Supponiamo,” dissi (e la donna mi guardava, paziente, sorridendo, senza chiedersi la ragione del mio indugio) “supponiamo che io spari un colpo al ventre a questa ragazza…” Già mi chiedevo cosa poteva capirne il maggiore. Non era inutile ormai porsi simili quesiti infantili, accanto a quella ragazza che continuava a sorridere?


“Se ha voglia di sciupare cartucce, faccia pure” rispose. Poi aggiunse: “Le racconterò un fatto”. E raccontò di una strage alla quale aveva assistito. “Erano briganti,” disse “e il colonnello li voleva ammazzare tutti, anche i feriti. Occhio per occhio, diceva. E dove trovava un ferito, sparava. Sparava alla pancia. E quelli restavano a guardarlo, coprendosi gli occhi con la mano, lo guardavano di tra le dita. Venne il dottore e disse: “Ma se lei non gli spara alla testa, non conclude nulla con questa gente”. Allora il colonnello cominciò a sparare alla testa del primo ferito che vide. Il cranio scoppiò e il colonnello si trovò imbrattato. Se l’avesse visto! Era su tutte le furie. Investì il dottore di insulti: “Bei consigli mi da, lei” urlava. Dovette andarsi a cambiare. “


La lampada a petrolio dava fastidio a tutti e io non sopportavo quella luce da caverna e le ombre che creava agli angoli della stanza. Si alzò il maggiore e la spense. Nel buio improvviso sentii che tornava a tentoni verso il suo letto, cercando di ridere, cercando di sentire soprattutto il suono del mio riso, che non veniva. La donna accanto a me voleva dirmi qualcosa all’orecchio, e rideva sommessamente.


“Capisco,” dissi “se si tratta di ferite leggere.” Ma il maggiore non desiderava seguitare quel discorso e gridò scherzosamente: “Buona notte”. Poi, dovetti sdraiarmi, la testa mi girava, colpa del liquore bevuto. Ora la notte era penetrata anche in quella casa e il letto ondeggiava sulle acque di un lago molto profondo e chiuso tra montagne ingrate più di quelle che aspettavano oltre il fiume. E perché la gengiva doleva ancora?


La donna mi stava accanto, silenziosa. Dovevo chiederle almeno il nome, sentivo il suo respiro tranquillo e il morbido corpo che riposava in un’attesa profonda e pigra, ma non potevo sopportare il suo odore, era un odore denso, da animale cristiano, c’era odore delle sacristie e dei cani randagi e anche l’odore delle tuberose in una stanza calda.


“Come ti chiami?” dissi, ma la ragazza non capì. Stavo per ripetere la domanda, quando un soldato (chi poteva essere se non un soldato ubriaco?) batté alla porta del cortile e una voce aspra gridò alcune parole. Mi levai a fatica. La ragazza, senza muoversi, rispose prontamente e anche l’altra intervenne e gridò a sua volta; voleva dire alla compagna di non fare entrare l’importuno, ma gridava come se già la stanza fosse invasa. L’uomo che stava fuori urlò, poi dette uno scossone alla porta e infine sentimmo che si allontanava.


La ragazza allora mi afferrò per un braccio e mi trasse a sé, facendomi cadere sul letto. Ma subito la respinsi e così la lasciai, sorpresa e già svestita, mentre raggiungevo la porta. Dissi al maggiore che uscivo un momento e corsi verso la piazza.


Mi fermai davanti alla chiesa, mi era parso di sentire dei lamenti. Avvicinandomi alle baracche messe ai lati dell’ingresso, nel buio intravidi un groviglio di cenci e di carni, erano parecchi indigeni là ammucchiati, si lamentavano, ma fiocamente, come se fossero stanchi anche loro di quelle grida che non trovavano eco. Vedendo che mi avvicinavo, qualcuno tacque, aspettando. Erano mendicanti, immagino. Gettai loro qualche moneta e ripresi la corsa verso il comando tappa. Là avrei atteso l’alba e il primo camion diretto al fiume.


Non avevo dato ancora uno sguardo alla valle del fiume, che sprofondava proprio in quel punto. L’altopiano si interrompeva rompeva e tra poco sarebbe cominciata la prima discesa. Quando il soldato salì sul predellino dell’autocarro, che s’era fermato al posto di blocco, lo riconobbi, era un soldato della mia compagnia. Poi vidi altri due soldati, poi tre, tutti della mia compagnia. “E cosa fate qui?” chiesi al soldato ch’era salito sul predellino e che salutava sorridendo. “Cosa fate qui?” ripetei.


Mi disse che il battaglione s’era trasferito in quel luogo da cinque giorni.


Il mio sguardo dovette tradire lo sgomento, ma il soldato vi lesse l’improvvisa felicità per quella notizia, che mi dava per primo, e che voleva significare un’altra tappa verso la costa, anche se la costa era ancora tanto lontana. Rise poi della mia sorpresa, mi tolse dalle mani lo zaino e si diffuse in particolari.


Ci avviammo per una stradetta e poco dopo comparivano le prime tende dell’accampamento. E il soldato continuava a parlare del ritorno, come tutti immagino, adesso che non c’era più niente da fare. Voleva le mie impressioni, poi mi chiese se avevo saputo del cantiere.


“Quale cantiere?” chiesi.


“Il cantiere giù al ponte” e subito fu lieto di raccontarmi ciò ch’era successo. C’era stato un assalto di briganti e avevano ferito otto operai. E, forse, proprio per quel motivo il battaglione era stato trasferito. Intanto gli zaptié avevano già rastrellato la zona e ora noi dovevamo restarci e controllare tutto il fiume. Certo, ogni giorno c’era servizio di pattuglia, ma il battaglione non s’era avvicinato alla costa? E quel posto non era bello? Mille volte migliore dell’ultimo, sulle montagne, dove i pidocchi entravano volando nelle tende, adesso che cominciava la stagione umida. “Sì, certo” dissi.


Sul ciglio che dominava la valle e la strada, sedevano i soldati, parlando del prossimo ritorno. Quello spostamento aveva riacceso le speranze dei più pessimisti e ora tutti si incoraggiavano con grida che rimbalzavano da tenda a tenda. Ogni soldato sapeva almeno i segreti di un altro ed era quella una magnifica occasione per accennarvi, facendo proprie le gioie altrui, partecipando in ispirito ai futuri fidanzamenti, alle future nozze. Si sarebbero rivisti tutti, una volta in Italia, e l’amicizia nata sotto la tenda avrebbe tinto di rosa i ricordi più foschi e fatto apparire a distanza di pochi anni tutto lieto e piacevole, anche le marce di dieci giorni, anche la sete e la stanchezza, anche il caldo e la paura. Ora bisognava affrontare gli ufficiali, superiori e amici. Decisi che li avrei affrontati tutti assieme, era un’astuzia elementare. Nella tenda del maggiore o del capitano il discorso sarebbe stato serio, nella tenda della mensa avrebbero giocato altri fattori, il piacere di trovarsi a tavola, le urla improvvise dei colleghi al mio apparire. Portavo un pacco di sigari e due bottiglie di liquore. E molti libri. M’avrebbero perdonato.


Quando apparii sulla soglia della grande tenda, tutti mi guardarono sorpresi, come i poliziotti potrebbero guardare l’inafferrabile che ha eluso per anni la cattura e ora viene a consegnarsi, ora che la sua pratica è stata messa in archivio. Forse non m’aspettavano più. Oppure il trasferimento aveva fatto sembrare breve la mia assenza. Oppure m’avevano già denunciato per diserzione. No, impossibile. Ma non capivo bene. Perché quella gente non rispondeva al mio saluto e restava col cucchiaio in aria? Perché tutti tacevano? Un lampo mi traversò la mente: l’hanno trovata. Ho lasciato un segno. Oppure sono stato visto. Ma da chi? Restavo sulla soglia, incapace di fare un passo.


“Bentornato” disse il maggiore seccamente, e allora capii che non sapeva nulla, che nessuno sapeva nulla. Era il tono di voce del superiore stizzito: nient’altro.


La mia allegria proruppe. Già mentre elencavo le prime giustificazioni cominciarono le risa degli amici. Per il troppo ridere il tenente B. ebbe un accesso di soffocazione (stava mangiando), e questo diversivo tornò a mio vantaggio. Fu poi il dottore ad aiutarmi, senza volerlo, urlando che qualche donna mi aveva trattenuto. Messa la cosa su quest’avvio, ben presto non si parlò più del mio ritardo, ma soltanto delle ragioni che l’avevano provocato. E ognuno azzardava supposizioni. E ognuno meditava un futuro ritardo, quando sarebbe stato il proprio turno. Il mio precedente infrangeva gloriosamente la regola.


Così non la pensava il maggiore, che era rimasto corrucciato, incapace di frenare l’allegria altrui e incapace di parteciparvi. In fine si decise. “Suppongo,” disse “che il vostro dente non vi dolga, ora.” Declamò con ironia, pesando le parole, sicuro di aver colpito giusto. Tirai fuori il portafogli: “È qui!” dissi, calmo.


Avevo vinto, quello scoppio di risa me lo diceva. Dovetti però sedermi, mangiare, raccontare, provocare altre risa. Fu inevitabile. Quando più tardi entrai nella mia tenda, sulla branda c’erano due lettere.

 Capitolo terzo