mercoledì 28 dicembre 2022

LO STADIO DI WIMBLEDON Daniele Del Giudice



LO STADIO DI WIMBLEDON

Daniele Del Giudice

Recensione 

Del Giudice ci parla della dialettica tra letteratura e vita. Lo fa attraverso questo libro fatto soprattutto di dialoghi. 

I dialoghi de Lo stadio di Wimbledon sono un capolavoro di scrittura. Non sono fatti solo di parole, ma di gesti, di minime descrizioni, di esitazioni, di sguardi, di ansie. 

Nel libro il narratore mai nominato è alla ricerca di qualcuno, qualcuno che non c’è più e che – dal punto di vista letterario – non c’è mai stato. Insegue una figura, realmente esistita, che ha influenzato le lettere e i letterati, che di libri si è sempre circondato, uno scrittore che non ha mai scritto. La figura su cui indaga è quella di Bobi Bazlen, uomo di rilievo della nostra letteratura senza aver mai pubblicato nulla in vita, a lui è dedicato anche il libro recente (che ho letto)  Bobi (Adelphi 2021) di Roberto Calasso.  Del Giudice ne racconta i contorni, il suo addio a Trieste, il suo non tornarci. E poi il suo agire sulla vita delle persone attraverso una letteratura non scritta. Il narratore intervista uomini e donne che hanno conosciuto e frequentato Bobi, con in testa una sola vera domanda, difficile da porre: perché non ha scritto? 

Ma la domanda che mi sono posto leggendo è stata anche e soprattutto un altra. [...] Il suo amico si presenta, dice: ‘Roberto Bazlen’. Lo ha detto con un inchino quasi da ridere. Ci siamo messi a parlare di letteratura. Di grande letteratura, dai libri più antichi ai più moderni». Ho chiesto quali libri. Guarda attorno in silenzio; poi si sporge, dice piano: «Bisogna tenere i libri distinti dai dolori. Capisce cosa voglio dire?»[...] Ecco perché leggerlo..  per capire questa frase: «Bisogna tenere i libri distinti dai dolori....»


LO STADIO DI WIMBLEDON

 

1.

 

Anche se è stato un sonno breve, come questo di mezz’ora, dopo bisogna ricominciare tutto da capo. Sono procedure normali della continuità, e seduto in treno posso farle con delicatezza. Ho cominciato solo ascoltando: siamo fermi, ma non in una stazione, c’è troppo silenzio; e d’altra parte sembra una sosta troppo rassegnata perché si tratti di un segnale chiuso.

Ho aperto gli occhi, e forse non ero pronto. Il militare di mezza età, al quale avevo prestato il giornale prima di addormentarmi, dice sorridendo: «Si è rotto il treno». Si alza, prende il berretto e l’impermeabile dalla retina e una sua cartella di cuoio; poi si affaccia al finestrino e fa un cenno definitivo: «E’ meglio andare a piedi».

Anch’io guardo fuori ma è difficile rendersi conto: siamo tra le rocce e il mare, in pieno paesaggio. Lui si gira sulla porta dello scompartimento, si aggiusta l’impermeabile tirando giù la divisa. Dice: «Manca solo un chilometro alla stazione, dopo la curva. Se aspettiamo che salgano da Trieste per il traino ci vorrà un’ora». Saluta, senza uscire. Sono appena all’inizio, e la disponibilità è ancora un’intenzione che non dovrei tradire subito. Così ho raccolto le mie cose e l’ho seguito.

Quando abbiamo superato il locomotore lui ha parlato con i macchinisti. Si sono detti cose tecniche, toccavano la motrice bloccata; guardavano in aria i fili e ridevano. La mattina è limpidissima, quasi primaverile; o forse è il mio stare qui, inspiegabile e leggero. Vorrei regolare il passo sulla cadenza delle traversine, ma ci manca sempre qualche centimetro e ogni tanto devo farne uno raddoppiato. Velocemente anche, perché l’ufficiale va abbastanza svelto.

Mi ha spiegato nei dettagli il guasto del treno. Presto parliamo di linea e di tensione, di raggi di curva, di percentuali di pendenza; o meglio, lui parla con proprietà e naturalezza, e io mi sforzo di limitare il mio linguaggio fatto di «su» e di «giù». Scendiamo: lui col corpo all’indietro, dondolando la cartella, io con le mani in tasca. Ha domandato: «Vede la prospettiva?» Vedevo la città per la prima volta, il golfo e le montagne, il faro, il castello, le case al di qua e al di là, e certo pensavo che doveva farmi un qualche effetto. Si è messo a ridere, lui parlava dei binari: qui sono paralleli, saldamente, poi a punta di freccia, sempre di più fino alla stazione. Dice: «Pensi che facciamo un mucchio di calcoli per la prospettiva, per riprodurre un difetto della vista». Ci ho pensato ma non sapevo cosa rispondere, e così siamo andati avanti in silenzio.

Adesso sento la mancanza del caffè, anzi della colazione vera e propria. Abbiamo visto la «marmotta» avvicinarsi, andava verso il treno, sempre più grande; l’abbiamo vista staccarsi dalla stazione, dopo si è sentito il rumore del diesel.

I segnali ferroviari sono visibili solo a distanza; da vicino si attenuano, da sotto sembrano spenti. Anche di questo l’ufficiale ha spiegato le ragioni. Dopo un po’ gli ho domandato se è vero che nei ponti si progetta anche un punto in cui minarli. Lui si è fermato; per la prima volta è teso. L’ho tranquillizzato, come togliendo una nuvola dal panorama. Riprende a camminare, dice: «Sono previste alcune camere di scoppio, dove l’appoggio è massimo». Però non è ancora convinto, e mi ha domandato perché volevo saperlo. Ho detto che mi sembrava una buona dimensione del lavoro, semplicemente: pensano una cosa e la realizzano in tutto, compreso il posto adatto per distruggerla col minimo sforzo. Lui dice: «E’ una buona pratica, ma di queste camere di scoppio non se ne fanno più tante. Adesso la guerra non prevede ritirate così modeste, con i ponti tagliati alle spalle».

Ormai siamo in piano, quasi in città. Nell’ultimo tratto ho evitato un paio di domande indirette sul perché vengo qui. Non vorrei parlarne e in fondo non sono nemmeno arrivato. Invece i ponti sembra che lo interessino, e anch’io non ho mai modo di discuterne. Ho raccontato che avevo visto montarne uno in cemento armato, sull’autostrada. Era un pianale prefabbricato, appoggiato sui piloni. Era più lungo degli incastri, sembrava che non ci stesse, era impensabile che avessero sbagliato le misure. Dai quattro angoli della piattaforma venivano fuori dei cavi di acciaio, li hanno serrati ai martinetti e poi hanno cominciato a tirare. Tiravano lentamente, con molte grida. Il cemento prima si è compresso poi si è dilatato, alla fine c’è stato uno schianto secco, un boato nella valle e il ponte è andato a posto. All’ufficiale non ho detto che era stato un momento di assoluta simultaneità, in cui tutto appariva compresente.

Anche questa volta lui si è fermato, ha infilato la cartella sotto il braccio, perimetrava con le mani molte parti di cielo, diceva spesso «vede…»; ha distinto vari tipi di cemento, di campate, di martinetti, di portata. Ha domandato se avevo capito. Ho detto «Sì», però nell’ultima parte mi sono distratto; guardavo lui fermo tra i binari, e gli ero grato.

Scavalchiamo gli ultimi scambi, scegliamo una pensilina centrale. Ho immaginato spesso queste visite e probabilmente ogni cosa sarà diversa; forse lo è già nell’essere arrivato a Trieste come se fossi il treno. Nell’atrio della stazione l’ufficiale si è fermato di nuovo. Si è tolto il cappello, lisciandosi i capelli. Ha detto: «C’è qualcos’altro che vuole sapere sui ponti?» Ho risposto di no, sorridendo. Però potrebbe indicarmi la libreria antiquaria.

Ci siamo salutati; lui è andato verso l’uscita, io verso il bar.

 

La libreria me l’aspettavo piccola, preziosità per pochi. E’ un monumento. Monumentale nella posizione e nell’ampiezza delle scaffalature, nelle rilegature in pelle, nell’atteggiamento di garbata e irremovibile custodia dell’uomo con gli occhiali, ben vestito. Il tono stesso con cui dice «Desidera?» impedisce di guardare. Bisogna chiedere, e quando chiedo la risposta è negativa: «No, i libri su Trieste o di triestini sono i primi a sparire». Sembra che anche le persone, in questo tempio, abbiano un’ospitalità molto breve. Vorrei prendere tempo, dico: «Esiste un catalogo?» Lui scuote la testa, fa un mezzo passo verso la porta. Dato che i titoli che cerco non ci sono, accenno genericamente all’argomento. Lui avanza ancora, dice: «No, niente. Provi in una libreria di cose correnti». Con quel «correnti» si deve immaginare la miseria di libri contemporanei, di librerie senza storia; un trovare facilmente, entrando, pagando, andando via.

Mano a mano che lui viene avanti io mi sposto di lato. Quando siamo quasi paralleli ripiego su un’informazione stradale. Questa sì mi viene offerta con entusiasmo, con una minuzia topografica di piantine e numeri civici. Seguendo l’uomo per guardare le pagine gialle, capisco perché è legittima l’immagine del tempio: dove eravamo, e più oltre non mi faceva andare, un vestibolo; poi un pronao da cui partono, lateralmente, due corridoi rivestiti di scaffalature. Più dentro ancora, proprio come in una celletta, la gigantografia di Umberto Saba, lassù: vecchissimo, minuto, vestito di nero, il passo deciso sospeso a metà, il bastone parallelo alla gamba slanciata in avanti. Lì sotto una donna con il grembiule azzurro agita un piumino.

Non è questo che tradisce la sacralità del luogo; piuttosto certe scalfitture nel legno o i vuoti negli ultimi ripiani. C’è un colore complessivo di carta da pacchi, e un odore equivalente. Mentre sto ancora guardando, l’uomo mi dà la mano; è una stretta alla quale manca la pressione di diverse dita.

Fuori, ho dato un’ultima occhiata ai pochi libri esposti con convinzione sullo sfondo di una tendina rossa plissettata, come nelle vetrine dei parrucchieri.

Proseguo per strade dritte, secondo una pianta favorevole che permette di contare bene le traverse. Ho individuato una libreria corrente, in pratica sono entrato e uscito. Ne ho ricavato però un’ulteriore indicazione, e ora la seguo scendendo verso il mare. E’ una giornata lucida, appena fredda; solo la presenza del mare è strana, forse perché questa città non posso pensarla che da sud, e mi disorienta la posizione del sole rispetto all’acqua e il tipo di luce e di colore. O forse perché sono abituato ai mari che scorrono in modo tangenziale, non che cominciano, come qui.

Adesso sono in un’altra libreria: un’impressione complessiva di remainder’s. Parecchi libri, senza alcun sussiego. Anche il libraio, con la sua complessione massiccia e un maglione a V sopra un altro a girocollo, sembra piuttosto un venditore di armi. Molte giacenze, sono queste il vero eroismo di un libraio, collane intere non antiche ma vecchie. Gli ho chiesto due titoli; lui si è arrampicato verso un piano superiore, al quale nonostante la familiarità dell’ambiente non posso essere ammesso. Dopo un po’ ridiscende col libro di una trentina di anni fa. Sulla copertina c’è una fotografia dell’autore, come colorata a mano: biondo, con i capelli lisci tirati all’indietro, gli occhiali e la cravatta, e sul collo una ruga circolare. Col libraio ci accordiamo su un prezzo convenzionale, comunque meno di un libro di oggi.

Mi sono avvicinato a un reparto con la targhetta «Trieste». Non c’è la rivista con l’articolo della scrittrice, ma un suo libro di saggi, e l’articolo è lì dentro. Il libraio si è messo a lavare il pavimento. Gli ho mostrato il libro dal suo verso, battendo l’indice sul nome. Dico: «E’ ancora viva?» Lui si è sollevato dallo spazzolone. Dà un’occhiata alla copertina poi dice: «Sì, credo di sì. E’ ai cronici, qualcuno va a trovarla».

Avrei voglia di guardare uno ad uno i libri, certe collane che mi mancano da sempre, certi titoli che provo a chiedere in ogni città, in ogni libreria. Ci provo anche qui. Lui storce la bocca, dice: «No, quelli no». E perché? Dice che in questa città, per le diverse lingue e i molti mestieri e le poche librerie bisogna tenere tutto, dal manuale tecnico alla letteratura. Ma anche il tutto, probabilmente, avrà il suo limite.

Uscendo dal negozio sono incerto. Dovrei continuare il mio percorso verso l’università, secondo i consigli pertinenti del libraio antiquario, per non parlare della biblioteca comunale. Ma è un momento in cui sento maggiormente la tentazione di perdermi, di vagare. Forse non c’è un percorso, ma solo un’intermittenza tra la probabilità e l’improbabilità. E’ come se ogni spostamento lo decidessi lì per lì, per vedere dove porta, e questa scoperta, poi, non fosse altro che l’inizio che cercavo. Vorrei mantenere una certa inerzia, con piccole spinte indispensabili e sufficienti.

E’ in questo modo che arrivo alla biblioteca comunale; passo in rassegna decine di schede; ogni tanto le faccio scorrere veloci col pollice sul bordo, e la calligrafia si mette in movimento. Poi comincio a tirare fuori i cassettini e a portarli al tavolo, tra due ragazze. Dalle schede ci si può fare un’idea della storia della città. Alcuni titoli settecenteschi mi incuriosiscono: “Il viaggio parallelo del libro e della vita”, oppure “Di come un luogo vecchio invecchi lo scrittore”. Ma quanto posso perdermi? E quanto posso deviare?

Ho finito col chiedere il massimo consentito, tre libri nei quali non ho trovato quasi nulla, e che ora lascio aperti sul tavolo. La biblioteca la stanno restaurando: nelle scale, dove vado a respirare, c’è uno spettacolo di disfatta, di precarietà bellica. Immagino un ospedale militare allestito qui in modo provvisorio. Mi sono portato il mio libro con lo scrittore biondo in copertina, e ho dovuto dimostrare al bibliotecario che era veramente mio. Nell’indice dei nomi c’è naturalmente anche quello della persona per cui sono venuto in questa città. Però adesso non leggo le pagine che lo riguardano. Cerco invece i riferimenti alla scrittrice. «Già al caffè Garibaldi uno dei soliti amici aveva condotto una sera con sé e presentataci una sua giovanissima nipote, che ci osservò in giro con occhi sfavillanti, ascoltò qualche nostra battuta di dialogo, disse infine una frase che ci sorprese, come a voler concludere una discussione, e si congedò. Ricordo che molti sguardi la seguirono e Svevo, vicino a me, si lasciò sfuggire un’esclamazione: ‘che splendidi occhi quella figliola!’».

Ritorno nella sala, rimetto tutto a posto; guardo le librerie e i busti nelle nicchie. La biblioteca è protettiva, potrei restare qui, dove si trasforma il molto in poco; un lavoro che cresce di giorno in giorno, bibliografie e scalette, il posto ad uno dei tavoli che diventa il «mio», il caffè a metà mattina con una di queste ragazze, con la quale prima o poi farei amicizia. Ma qui non ho nulla da fare.

Dopo la biblioteca la situazione è ancora più incerta. L’università? Potrebbe essere chiusa. E poi, quella vecchia o quella nuova? Vuole saperlo anche l’autista dell’autobus, quando gli chiedo se ci va. L’autobus è un altro, scendo di corsa. Ho già fatto più volte su e giù tra il ghetto e la piazza del municipio, una piazza perfettamente nordica, per tre lati come Salisburgo e sul quarto, dove dovrebbe esserci il teatro, il mare.

Arrivo alla fermata giusta senza essermi deciso. Aspetto. Andare in via Cecilia Rittmeyer? Escluso, questo non è un pellegrinaggio. Potrei andare al cronicario. Sono passate poche decine di minuti dall’esclamazione di Svevo, e il percorso dall’immagine di una giovane «dagli occhi sfavillanti» a quella che ora mi vado facendo, tutto il suo tempo, è durato quanto l’attesa di alcuni autobus. Quanti anni avrà? Cerco di capire quando può essersi svolta la scena del caffè. Anche tenendo fermi i punti fissi, il calcolo è troppo approssimativo. Spero semplicemente in un’età a me favorevole.

Andare subito al cronicario? Andare veramente all’università? Andare a pranzo? Sul marciapiede opposto passano due negri. Un vecchio triestino, con la moglie, commenta la loro negritudine. Io, tra me e me, commento la triestinità del triestino. Chissà come commenterà lui, appena avrà finito di guardarmi, e cosa penserà adesso, che col mio aspetto evidentemente forestiero, proprio adesso che sta arrivando l’autobus, mi giro e vado via.

Comincio a perdere quota lentamente, ripercorrendo le stesse strade che ho già fatto, riattraversando la grande piazza col suo lato incoerente, dalla parte dove non guardo. E’ una specie di decelerazione interna, naturale, in attesa che appaia un ristorante. Ne ho trovato uno nel cuore del ghetto, e fino alla frutta è andato tutto abbastanza bene; ho deciso di non pensare più a cosa faccio qui. E’ subentrata una pigrizia opaca del fantasticare: sulle foto dei pugili alle pareti o sul gestore napoletano. Ogni volta si alza, va in cucina, porta un piatto al mio tavolo e si risiede a mangiare con la famiglia a quello accanto. Parlano un dialetto incontaminato come una forma di resistenza.

Chiedo l’elenco telefonico; cerco di ragionare, anche come esercizio contro l’inebetimento, e alla fine i numeri possibili si riducono a tre. La casa della scrittrice, l’ospedale più in vista sull’elenco, e un altro ospedale di cui è indicato il reparto lungodegenti. Il primo non risponde, il secondo non sa, il terzo è quello giusto. Chiedo a che ora posso andare. All’altro capo c’è un momento di perplessità: «Sarebbe alle cinque». Ho immaginato altre due ore così, ho detto: «Non posso venire adesso?» La voce maschile risponde: «Ma sì, venga quando vuole». Sembrava piuttosto permissivo, quasi incoraggiante. Forse il problema non è l’affollamento delle visite.

Adesso cammino veloce. Ho preso un taxi, ho dato all’uomo l’indirizzo, usciamo dal centro. L’ospedale è su una collina, al limite della città. Non è un corpo unico, ma diverse villette in salita, con giardini e ortensie. Il tassista ha insistito per arrivare fino al padiglione. Ho calcolato per l’ultima volta l’età della donna, e del resto è l’ultima volta che posso immaginarla.

La palazzina è silenziosa. Una piccola rampa di scale; all’ammezzato mi richiudo alle spalle una porta a vetri. C’è un lungo corridoio verdolino, con una luce nordica e pomeridiana; qui sì qualcosa di austroungarico, e ancora una volta, non so perché, immagini di guerra. Nessun infermiere; soltanto, in fondo al corridoio, un vecchio in pigiama che struscia i piedi camminando accosto al muro. Per guardarmi si è voltato lentamente, con tutto il corpo, come se gli fosse impossibile una rotazione parziale e disarticolata. Ho imboccato la prima porta tra lui e me, una cucina. Dentro, una donna enorme ha indicato il piano superiore, una stanza esattamente sopra a questa.

Un altro giro di scale, un’altra porta a vetri, una pianta identica a quella precedente. Laggiù c’è l’ingresso della stanza; ora sono io a camminare rasente alla parete, mi fermo prima della soglia. Non vorrei presentarmi da solo; se la disposizione del piano è la stessa, troverò facilmente l’infermeria. Faccio per voltarmi; alle spalle arriva un infermiere, un ragazzo coi capelli lunghi e gli zatteroni bianchi. Dice che ho parlato con lui al telefono. Sto per rallegrarmi, ma mi spinge nella stanza. E’ grande, luminosa, un labirinto rado di paraventi. Il letto è il primo a sinistra, quasi a ridosso della porta. La donna è di un’esilità sorprendente.

Dico sottovoce al ragazzo: «Ma non si stancherà a parlare?» Lui risponde forte, come se lei non ci fosse: «Scherza? Le fa bene. Parli più che può». E’ arrivata un’infermiera di mezza età, e col ragazzo si danno da fare attorno al letto e alla donna; le ravviano i capelli, la sistemano più su, portano via una tazza. Dicono: «Ci sono visite». Lei risponde: «Ah, sì, sì».

Finalmente mi sono presentato, le ho detto da dove vengo, e di chi vorrei parlare. Questo nome l’ha sorpresa; lo ha ripetuto quasi gridando, ma non diretta a me, diretta agli infermieri. Loro hanno dondolato la testa di qua e di là e se ne sono andati.

Stira le pieghe del lenzuolo con mani trasparenti; mi guarda come se ci conoscessimo bene. Dice: «Posso offrirle qualcosa?»

Ho riflettuto, sembrava che alla domanda mancasse tutto il resto attorno; però ho detto che avrei preso un caffè. Lei ha fatto segno di avvicinarmi: «Tra poco passano con l’orzo. Lei vada in infermeria e si faccia dare il caffè vero».

Di là, insieme al giovane e alla donna c’è un’altra ragazza. Adesso è imbarazzante chiedere il caffè; stanno tutti e tre attorno a un classificatore da ufficio, guardano dentro una cartellina senza tirarla fuori del tutto. Leggono di sbieco e discutono. Quando mi hanno visto hanno richiuso la cartella e il cassetto. Il ragazzo dice: «Credevamo che morisse. Ora va meglio».

Ho indicato la macchina del caffè sul fornello acceso. L’infermiera più anziana è venuta avanti, ha detto: «Quello è per noi. Ma gliene daremo un po’». Tira fuori una tazzina dalla scatola, mostrandomela come se fosse nuova; la riempie. Si ferma con la tazzina in mano senza darmela, dice: «Adesso lei deve dirci se le poesie che la signora recita sono vere». Ho domandato che cosa voleva dire «vere». Lei ha risposto: «Se le ha scritte lei». A me non sembrava un dovere, ma ho raccontato quello che so. Mi hanno considerato a lungo tutti e tre, mentre bevevo; come se il fatto che fossi lì potesse risultare comunque una conferma. E’ strano, non ho molta voglia di restare qui, ma non ho nemmeno tanta voglia di tornare di là.

Rientrando nella stanza, penso che il tempo perduto nell’infermeria bisognerà motivarlo; ma la donna deve averlo speso con una nozione completamente diversa, personale, attorno alla frase che dice subito, con una voce sottile e decisa, appena mi siedo: «Io ero a un tavolino con un mio amico molto intelligente, un mostro di intelligenza. Tutto ad un tratto si alzano due ragazzi, da un altro tavolo, e vengono verso di noi. La ragazza dice: ‘Abbiamo sentito i vostri discorsi, ci interessano. Possiamo sederci qui? ‘ Il suo amico si presenta, dice: ‘Roberto Bazlen’. Lo ha detto con un inchino quasi da ridere. Ci siamo messi a parlare di letteratura. Di grande letteratura, dai libri più antichi ai più moderni».

Ho chiesto quali libri.

Guarda attorno in silenzio; poi si sporge, dice piano: «Bisogna tenere i libri distinti dai dolori. Capisce cosa voglio dire?»

Non sono sicuro, e non rispondo nulla. Taccio senza preoccuparmi delle pause, o del tempo.

Lei dice: «I due ragazzi si studiavano. Credo che cercassero un’intesa per non arrivare allo scontro. Parlando, ciascuno dei due si rivolgeva solo all’altro. Non guardavano mai me e l’altra ragazza. Ogni affermazione aveva un finale incerto, diventava una domanda; davano molte cose per scontate. L’unica preoccupazione che avevano era di apparire a posto».

Dico: «A posto come?»

Lei ci pensa un attimo, poi risponde: «Senza personaggio. Come se tra loro potessero farne a meno, o noi non ne valessimo la pena».

Si è aggrappata a una specie di briglia di garza che parte dai piedi del letto; si aggiusta nella nuova posizione. Io cerco di rendermi conto di cos’altro c’è nella stanza, ma si vedono solo paraventi a pieghe che chiudono spazi di intimità molto risicate, case intere circoscritte al letto. Lei mi ha toccato leggermente. Mi volto; dice: «Non sono abbastanza chiara?» Ho risposto: «No, anzi». Fa un gesto più complessivo: «Forse questo non le interessa. Cos’è che vuole sapere di lui?»

«Perché non ha scritto».

Ho scelto il tratto più netto, comunque vada. Lei ha aperto la bocca, senza dire nulla.

Soltanto adesso avverto un balbettio ebete, in chissà quale stanza del piano. E’ una sillaba ripetuta con ostinazione, in modo pacato. Prima la percepivo senza coscienza, come una parte dell’arredamento. Ora è evidente, esclusiva, e prende allo stomaco.

Lei dice: «La mia poesia ha fatto breccia qui in città». E un attimo dopo: «Le so a memoria».

Mi ha guardato; io ho distolto gli occhi. Lei si è girata in là, ma non del tutto, e ha cambiato tono abbastanza bruscamente: «Mi spazientisco se non mi portano il caffè».

Siamo rimasti in silenzio. Poi ha cominciato a dire qualcosa a bassa voce, come escludendomi; e poi salendo di tono. Sembrano versi molto semplici, corti, e forse in dialetto non può essere diversamente. Non riesco a decifrare tutto; inoltre mi sento passivo, e non so bene che cosa potrei dire alla fine. Lei recita la poesia guardando il soffitto, come se la leggesse lì. Ogni tanto riprende qualche verso, finché chiude senza intonazione e si volta dalla mia parte.

Dico: «Bella».

«Vorrei recitarne un’altra, quella del passetto».

Sorrido, accenno che sarebbe meglio se me la spiegasse.

Non lo ha fatto. Ascolto l’intera poesia, più lunga della prima. Poi lei si piega leggermente, dice: «Il passetto è un metro. Mio padre lo portava con sé per controllare le larghezze e le lunghezze. Il passetto in questa poesia significa un ordine morale di mio padre. Lui guardava l’acqua bollire col cronometro da polso; se l’acqua non bolliva nel tempo giusto, protestava con la società del gas. Era il solo a farlo, e non tutti lo capivano».

Adesso sono arrivati di nuovo i tre dell’infermeria, senza l’orzo. Tiro fuori il libro col nome della donna in copertina. Loro lo toccano, lo guardano, dicono: «Eccolo!» Mostro anche l’altro libro, quello dello scrittore biondo, in cui si parla di lei. Lo passo di traverso alla ragazza, aperto ad una pagina.

Vorrei ritrovare il filo, dire qualcosa alla donna che segue il passaggio dei libri sopra di lei come il volo degli uccelli. Sto quasi per farlo, ma la ragazza si mette a leggere a voce alta: «I sabati in cui ci radunavamo numerosi per i convegni in casa della poetessa, era aperta anche l’altra stanza più grande. Qui si trasportavano le seggioline quando Giotti faceva le sue letture, qui venivano di solito disposti sulle panche i disegni e i quadri dei pittori. Fra l’una e l’altra stanza si annodavano e si snodavano i crocchi, secondo l’argomento dei discorsi, e si formavano gruppi quando c’era da ascoltare musica. C’erano anche i programmi di quei sabati. Li batteva a macchina lei stessa e ce li faceva trovare sul tavolo. Quel giorno il programma comprendeva poeti di tutto il mondo. Cominciava dai greci: Omero, Saffo, Erinna, Archiloco, Anacreonte; veniva poi il poeta cinese Po-chu-i, e i poeti negri d’America; i francesi Villon, Baudelaire, Rimbaud, Cocteau, e infine il russo Esenin… Nelle pause Giotti si asciugava la fronte, si drizzava su questa il ciuffo di capelli bianchi scendenti a cirro, che era una delle sue civetterie…»

La ragazza si è seduta sul letto; legge con un passo inarrestabile, forse pensa di finire il libro. L’altra infermiera e il giovane le stanno appoggiati sulle spalle. La donna nel letto è stranita e guarda altrove.

Io vorrei non sentire più; vorrei andarmene, ma sono preoccupato dalle formalità. L’ideale sarebbe sparire qui e riapparire giù in centro, lontano dal balbettio di fondo che viene dal corridoio, e da questa lettura quasi sullo stesso tono. Ora, nella casa, dev’essere un altro sabato, e arrivano scultori portando a braccia le sculture, musicisti con gli strumenti, tutti parlano, ridono e bevono il tè; ascoltano prose inedite di triestini e poeti francesi in francese; Giotti recita, commenta e si asciuga la fronte, entrano persone che non conosco e mettono i loro quadri un po’ dappertutto; riappare Giotti che legge Saba, Ungaretti, Montale e Quasimodo, il cirro sulla sua testa è già una nube opaca, fibrosa, sarà piena di cristalli di ghiaccio come ogni cirro, come il gelo che sta scendendo in questa stanza, o almeno mi sembra.

Mi alzo di scatto; o meglio, mi rendo conto di esserci riuscito. Dico che vado via. La lettura cessa di colpo. L’infermiera più anziana ha indicato il libro: «Ce lo lasci. Ci piace». Ho risposto: «Purtroppo è impossibile», e con un movimento abbastanza esecutivo me lo sono ripreso.

La donna nel letto mi fissa vuota.

Dice: «Abbracciami».

Ho impiegato un po’ di tempo per percorrere la distanza improvvisamente così breve dal lei al tu.

 

Dall’ospedale alla stazione il cielo si è fatto grigio.

E l’Austria? Potrebbe essere anche il tram bianco e azzurro che parte ordinatamente dalla piazzetta con le aiuole, come in un plastico Märklin. O lo spigolo del marciapiede così risaltato, senza l’indefinita confusione di polvere che normalmente si accumula lì; o l’aiuola così risaltata sul marciapiede, senza terriccio o erba lungo il confine. Cammino tra questi margini inferiori accurati, che slanciano la piazza come scarpe lucide. Slanciano gli slavi pieni di borse; probabilmente slanciano anche me.

Sull’autobus ho armeggiato a lungo con una macchinetta che non prende le monete. La donna alle mie spalle ha detto: «Se lo faccia vendere da qualcuno il biglietto». Ho obbedito. Quando infilo il talloncino che mi mette in regola col generale senso civico, lei dice: «Quello chissà da quanto tempo non prende l’autobus». Mi sono girato a guardarla. Ho rabbrividito all’idea che la sua piccola voglia al centro della fronte potesse, nella confusione dell’autobus, essere urtata e compromessa.

Arrivo alla stazione che è quasi buio. Mi sono infilato nello stesso bar di stamattina, a un tavolo da cui posso controllare, attraverso i vetri, quando metteranno in partenza il treno.

Guardo la ragazza bionda, scheletrica, che ha cominciato a fare delle facce strane. Tira fuori il pettine, e ogni volta che arriva alle spalle riparte dall’attaccatura, ridendo con la bocca spalancata. Alla fine ha lasciato il pettine di sbieco sui capelli. Penso alla follia come a un disordine dei denti. Lei dice forte: «Finiamo insieme la mia birra». Io sono imbarazzato; anche per gli africani agli altri tavoli che evidentemente sanno tutto, e adesso osservano curiosi cosa potrà accadere. Non ho più alzato gli occhi finché il treno non è stato annunciato.

Mi sono seduto nella veranda del vecchio rapido, tra poltroncine lise e città tratteggiate a carboncino su pannelli ingialliti. L’aerodinamica, allora, doveva essere un principio bombato, non spigoloso come adesso. Ho schiacciato il naso contro il vetro, per evitare il riflesso delle luci dentro; il Settebello è l’unico treno da cui si vede la ferrovia come la vede il guidatore, nella cabina sopra. Guardo il buio, velocissimo.

Più tardi, nel libro dello scrittore biondo cerco le pagine per cui l’ho comperato: «… Ebbi la prima impressione del modo di coltivarsi di questo giovane un giorno che andai a trovarlo a casa, durante una sua breve malattia. Bazlen era a letto, adagiato sui guanciali; sul comodino, accanto, un’alta pila di libri; sul letto, ai fianchi, altre due pile di libri. Affondato nei libri. Mi confessò poi che anche quando non era malato leggeva volentieri a letto… A diciotto anni ne sapeva più di tutti noi, maturi e anziani… Aveva un fiuto speciale per scovare autori poco noti, che di là a non molto facevano scalpore… A Trieste fu lui uno dei primi, direi il primo a importarli… Si dirà ‘cultura disordinata’, ‘raffinato dilettantismo’, io penso piuttosto… In altre città uno come lui avrebbe creato attorno a sé un ambiente di cultura, la vita di una casa editrice… Ma a Trieste, anche adesso che la guerra è finita, le cose vanno diversamente»

Salto le righe, rileggo la stessa frase senza accorgermene. Non riesco a distinguere il ritmo delle parole dal ritmo del treno, dal ritmo del respiro, finché il corpo non resiste alla gravità e anche la bocca scende giù.

Mi sono addormentato.

 

***

 

2.

 

E’ già un po’ diverso dalla prima volta. Conosco un certo numero di strade, un ristorante, alcune librerie, un ospedale. Però mi fido ancora soltanto del lungomare, e al momento opportuno volto a sinistra per entrare nella città; volto ad angolo retto, come un plotone. Complessivamente posso pensare che c’è già stata un’altra volta, piegare i tempi al passato, aggiungere e paragonare. Questo non significa molto, ma nemmeno niente.

Sceso dal treno, ancora in stazione, avevo cercato un numero sulla guida del telefono senza trovarlo. Così ho deciso di andare dal libraio armaiolo, che è già stato un buon inizio. La fila per i taxi è lunghissima, meglio la fermata dei bus. La tabella indica sei numeri, qualcuno andrà pure al ghetto. Passa il tempo ma nessun autobus. Possibile? Alla stazione, quasi un capolinea, sei numeri, nemmeno una vettura nel giro di dieci minuti? Però gli autobus ci sono: vuoti e chiusi sul piazzale, dove mi accorgo anche di essere l’unico che aspetta.

Ho risalito la coda dei taxi come uno sciatore allo ski-lift, mi sono messo all’ultimo posto dietro alcune donne orientali, giovani, forse tailandesi, perfettamente vestite all’europea ma con sete leggere: che cosa faranno qui a Trieste? E come faranno con questo freddo? Lo sciopero degli autobus e la fila annullano la determinazione con cui mi ero preparato a scendere dal treno, dopo aver dormito una mezz’ora nell’ultima parte del viaggio. Ho dato un’occhiata alle persone prima di me, le ho moltiplicate per la frequenza dei taxi, ho lasciato perdere.

Scendo di nuovo lungo la coda; quando supero il primo ha quasi un fremito vedendomi un passo avanti a lui, in una direzione equivoca verso la macchina che sta arrivando e che gli spetta.

Ora è abbastanza rasserenante poter andare dal libraio, nonostante la distanza a piedi e il vento freddo. Sembra sempre che lui non sappia nulla, o che non abbia i libri; dice le cose a mezza bocca, come se le disponesse sul bancone pronto a rimetterle subito al loro posto. Ci sono altri clienti, oggi, ed è molto preso. Aspetto che gli altri siano usciti, senza guardare i libri. Poi scelgo la domanda più breve, «Chi è ancora vivo?», che l’altra volta non avevo avuto il coraggio di fargli; lui tira fuori un paio di nomi, alzando le spalle, aggiungendo «Bah». Gli chiedo se conosce l’indirizzo di uno di loro. Piega le labbra, sospira: «Può darsi che sia in casa di una parente. O forse possono sapere qualcosa alla comunità israelitica. Chissà…»

Ho attraversato la città zigzagando, ogni volta secondo indicazioni diverse. Fa veramente freddo. Al portone della comunità c’è un citofono di quelli ottici. Quando ho suonato si è accesa una luce; ho raccontato all’obbiettivo che cosa volevo. Mi è stato risposto di mettermi un po’ più a destra. Ho eseguito. Sono rimasto quasi un minuto così, senza che succedesse nulla. Poi la luce si è spenta, c’è stato uno scatto della serratura.

Sopra, ho trovato una porta aperta, un lungo corridoio con stanze tutte chiuse; soltanto l’anticamera ha la luce accesa, e una grande libreria con gli sportelli a grata. Su una delle due poltrone c’è un giovanotto abbastanza grasso, col basco in testa. Nel silenzio perfetto è strano sentirlo raschiarsi la gola con un tono affermativo senza che per questo parli o stacchi gli occhi dalle coste screpolate dei libri, oltre la rete metallica.

Quando la segretaria esce dall’ufficio e gli domanda chi è, lui si alza in piedi, dice: «Israel, Israel, signora», con una voce piena e come se fosse indimostrabile che qualcun altro abbia maggiore diritto di essere in questa stanza. La donna si è toccata la fronte, ha detto: «Ma certo! Ora ricordo». Di me, quando sarà il mio turno, non potrebbe certo ricordarsi. Dice: «Infatti, mi sembrava che non fosse di qui». Ho avuto l’indirizzo, completato da consigli e indicazioni.

Mi infilo nella prima cabina, chiamo il numero che mi è stato dato. Risponde una voce anziana, femminile, con un lieve difetto che ne aumenta il distacco e la prudenza. Dice: «Ma perché lo cerca?» Ecco un problema: riuscire a spiegare tutto, in una situazione come questa, col minor numero di parole. Bisogna eliminare «dovrei» o «sono qui»; sfrondare gli ausiliari, ridurre ai semplici nomi - o al nome - lasciando che sia l’altro a immaginarsi le correlazioni. Togliere, finché le cose stanno in piedi da sole per una loro tensione, o perché sorrette da qualcun altro; però non mi viene spontaneo.

La donna ha risposto: «Provi al caffè». Si è sforzata di darmi un riferimento, c’è stata una lunga serie di «Sa dov’è?» e di miei «No». Poi un’altra serie di prime a destra e in fondo a sinistra. Dice: «Se non lo trova li, ma vedrà che è lì perché oggi l’altro caffè è chiuso, richiami tra un’ora».

 

Sedute nel caffè ci sono almeno tre persone che per l’aspetto complessivo potrebbero essere quella che cerco. Una mi sembra la più probabile, perciò glielo chiedo, ma non è lui. Ci sono pochi tavoli, e il locale è insolitamente silenzioso. Gli altri due uomini leggono il giornale, e ogni giornale è fermato a una stecca di legno. Non me la sento di interromperli, oltretutto con una domanda intimidente: è lei? Il barman andrebbe benissimo, ma non sa nulla. Peccato, è certamente qui. Con questa convinzione, quando ho finito di bere mi stacco dal banco e vado via.

Più tardi ho ritelefonato allo stesso numero. Ha risposto lui, non ha voluto molte spiegazioni, mi ha dato appuntamento in un altro caffè tra un’ora. E’ già un passo avanti poter distinguere il tempo, pensare «un’ora morta». E’ come se dall’indeterminatezza in cui non c’erano anticipi o ritardi spuntasse finalmente una pausa, con quello che ne consegue.

Cammino piano, in una direzione che secondo me va all’appuntamento, senza scegliere le strade. Refoli di polvere, in un colore prevalentemente grigio. Un vecchio sale al posto del passeggero su una vecchia Taunus; si è seduto lasciando le gambe sul marciapiede, poi si è voltato di un quarto e le ha messe dentro. Il giovane ha richiuso lo sportello, ha girato attorno alla macchina e si è seduto al volante. Ho pensato alla ricchezza che poteva passare dall’uno all’altro, proprio all’eredità, che in fondo è l’unica cosa che testimonia materialmente la discendenza. E alle vecchie macchine: l’altra volta quell’incredibile Packard decappottabile, azzurro intenso, con la capote bianca di tela e un velo di polvere compatto, come si forma sulle macchine quando restano a lungo ferme. O quella Opel con la vernice spessa, e i rostri lucidissimi. La cura delle macchine, e la qualità delle stoffe che qui indossano i vecchi sono forme equivalenti di una medesima conservazione?

Quando ho individuato il caffè manca ancora qualche minuto. Proseguo fino a una via più sopra; giro l’angolo, mi appoggio con le spalle al muro. Cerco di prendere più sole che posso. Non ho alcun pensiero, a parte la curiosità per l’uomo che vedrò tra poco, e per il modo in cui indubbiamente sarà diverso da come lo immagino. Seguo con gli occhi le macchine che si avvicinano all’incrocio, lo stesso gruppo di operazioni ripetuto decine di volte. E’ strano: le distanze, gli spazi di manovra sono identici per tutti, anche i movimenti, ma ognuno passando qui davanti si comporta in un modo che a me sembra eccezionale, e va via.

Tra le persone sedute ai tavoli lo riconosco subito: nell’altro bar era l’ultimo a destra, e se avessi guardato in modo meno automatico, disponendo l’ordine delle probabilità nel senso inverso a quello in cui si legge, avrei potuto indovinarlo. Ora è in un angolo di questo caffè così ben conservato da sembrare ricostruito; sta appoggiato alla parete di fondo, sotto una specchiera.

Alzandosi in piedi sorride: «Qui per me è un po’ come un ufficio. Anzi, verrà anche una giovane signora, devo darle delle carte. Ma è questione di un momento. A lei non dispiacerà, vero?»

Ho detto: «No, certo». L’uomo somiglia abbastanza ad Henry Miller, solo che gli occhi sono tagliati in modo obliquo, verso l’alto.

Io gli raccontavo la situazione, lui rifletteva; qualche volta annuiva qualche altra restava sospeso. Le rughe, sotto la nuca rasata, apparivano e sparivano nello specchio, a seconda di come muoveva la testa. Alla fine l’ha piegata un po’ e ha guardato fuori, oltre i vetri. Ha detto: «Lui lottava, non era di quelli che rinunciano a priori, cercava di avere qualcosa dalla vita; poi però credo che finisse per essere deluso. Ma può darsi che questo che dico sia molto personale. Purtroppo io sono un uomo abbastanza depresso, e con poche speranze, e forse gli attribuisco qualcosa che è mio».

Ha fatto un cenno al cameriere; ha ordinato con una confidenza familiare, e per un attimo, l’attimo che ho impiegato a scegliere un succo d’uva, è stato chiaro che erano loro due, e io. Poi ha ripreso: «A me sembrava che in lui ci fosse un fondo di tristezza, quasi di disperazione, qualche volta. Altri però dicono che certo, era un uomo problematico, un uomo di nervi, e questo gli procurava difficoltà; però aveva un fondo abbastanza epicureo, in senso buono, e sapeva godere le cose».

Adesso mi vengono in mente alcune sue lettere, una frase che avevo trovato diverse volte, «mi diverto un mondo e mezzo». All’inizio mi aveva fatto un effetto strano, come se fosse troppo brillante e intenzionale, definitiva; o forse mi dispiaceva proprio l’averla trovata ripetuta a persone diverse, in anni diversi, come una di quelle frasi nella cui felicità si ha troppa fiducia. Poi mi ero sforzato di capirla, finché si era appianata, e non spuntava più fuori da tutto il resto. Comunque preferisco non parlarne. Guardo il cameriere che mette le cose sul tavolo con troppi sorrisi e troppa cura, ed è un po’ imbarazzante pensare che anche questo supplemento di cortesia verso di me è dovuto al mio ospite.

Lui dice: «Una volta sono andato a trovarlo a Roma. Era una decina d’anni che non lo vedevo. Aveva una faccia completamente cambiata. Mi pare di vederla, la vedo benissimo quella faccia. Mi ha fatto un’impressione forte, dolorosa, perché io gli volevo molto bene e non gliela conoscevo una faccia così».

Dico: «Forse era il fatto che si ritrovava di fronte un triestino». Lo dico sperando che le implicazioni abbiano un peso moderato.

Lui risponde come se non ne avessero affatto: «Certo, se n’era andato da qui con un taglio netto. E ufficialmente è tornato una sola volta per seppellire la madre. Però con me era molto amico, ci incontravamo anche a Milano, prima della guerra. Io me lo ricordavo vivace, molto; anche se parlando forzava un po’. Gli piaceva il paradosso, la boutade, come a ogni ebreo assimilato. Lui era abbastanza indifferente, sia all’ebraismo sia al luteranesimo, però qualcosa ce l’aveva, non dell’ebreo autentico, no: anche in me, o negli altri, è tutta un’altra cosa dall’ebraismo classico, è piuttosto un certo psicologismo, un modo di essere critici, o eclettici, un amore per la battuta, e questo lui un po’ ce l’aveva. Forse anche l’essere spaesato, o il cosmopolitismo».

Nel locale i rumori di giornali o di tazzine o di sedie coprono un silenzio molto più scrupoloso. Dev’esserci un osservarsi metodico qui, tra gli uomini anziani; un’attenzione al primo cedimento, al collo di una camicia improvvisamente più largo di un paio di dita, o ad una rasatura trascurata sempre nello stesso punto, finché la cosa, la terribile cosa, sarebbe negli sguardi di tutti, non più diretti verso l’interessato ma complessivi attorno a lui, come un’immagine sfocata al centro.

Aspetto che finisca di bere con la testa all’indietro; guardo lo sfondo uniforme color paglia, che dà rilievo al nero dei braccioli e delle gambe e degli altri legni ricurvi, elaborati, che ci sono qui. Lui dice: «Mi aveva scritto una lettera con un piccolo elenco di morti o crollati nella sua età critica, quarantadue anni. Parlava di Spinoza e di Van Gogh, ma non credo che abbia avuto una crisi in quel periodo. Forse uno sviluppo… Finché era ragazzo probabilmente pensava di poter cambiare, non era completamente conscio della situazione. Poi si sarà maturato, può darsi che ci sia stato un fatto traumatico, ma più che altro avrà dovuto abbandonare certe illusioni. Insomma lui viveva per il gusto di fare esperienze, già da giovane; non aveva mai impostato la sua vita proponendosi uno scopo ma come diceva lui stesso nel divertirsi a vivere. Divertirsi a vivere non è lo stesso che essere felici di vivere. E questo divertimento che prima era spontaneo a un certo punto potrebbe essere diventato un cliché… Queste mie sono impressioni del momento. Magari tra dieci minuti avrò un’impressione contraria».

Lo guardo. Non riesco a capire se questo modo di smussare, che esercita quasi come un diritto dell’età, sia una specie di prudenza o faccia parte del tono sconsolato, vivace e sobrio con cui parla delle cose. Dico: «Come prendeva il fatto di non scrivere? Voglio dire il fatto che scriveva solo in privato?»

Ha alzato le spalle, ha detto: «Faceva vedere che non gli interessava. Tante volte ripeteva: scrittori mediocri è meglio che non ce ne siano, e forse lui stesso sentiva che non sarebbe stato uno scrittore di primissima fila. Forse, come dicono, non ha pubblicato perché non gli interessava, può darsi che sia vero; forse lui scriveva per sé, poi aveva dei momenti in cui desiderava pubblicare, ma poi, magari, pensava che le sue cose in fondo non erano supreme, e ci passava sopra, ecco. Perché non abbia potuto fare di meglio, non saprei. Però ci aspettavamo tutti che da lui uscisse qualcosa di molto buono…»

Devo essermi distratto, perché ho percepito la sua domanda «E lei che idea ha?» come ripetuta. O meglio, non ero proprio distratto, però i segnali esterni di una persona o di una situazione prevalgono sull’ordine delle parole. In un primo momento sembra che le contengano, poi le superano, riducono l’ascolto a una generica sensazione di ascoltare. Ho detto: «Sì, ecco…», e avrei voluto rispondere qualcosa a proposito dello scrivere, e del naufragio narrato nel “Capitano di lungo corso”, dato che per me le due cose erano molto vicine. Però mi sembrava troppo vago. Alla fine mi sono messo a parlare di «difficoltà».

Lui mi ha interrotto: «Aveva difficoltà a mettere insieme, a organizzare. Io credo di non avergli mai chiesto: hai qualcosa da pubblicare? perché non pubblichi?, non sono domande che si fanno, è terribile sentirsi chiedere, soprattutto da chi non ha nulla da dirti, «cosa stai preparando?» Però sapevo che scriveva, e che questo suo scrivere era sempre frammentario. Io pensavo che doveva rivolgersi alle cose principali, più che a quelle originali o interessanti. Non che dovesse leggere più Omero e Dante, o meno Kafka e Döblin, no; pensavo che doveva cercare di più dentro di sé. Aveva le cose, ma le scartava. Per lui, se una cosa non era sufficientemente nuova o originale non aveva valore. E questo forse era un problema».

Ho riflettuto un attimo; ho risposto: «Sì, forse. Lui diceva che l’unico valore è la ‘primavoltità’. Diceva anche: ‘non si possono più scrivere libri, io scrivo solo note a piè di pagina’. Sono due frasi che non riesco a mettere insieme. Non so, per il passato sono perfettamente coerenti. Ma per l’epoca in cui lui è vissuto, per quello che si poteva fare “ancora”, dopo tutto… Insomma, è difficile che possa esserci una ‘prima volta’ se una cosa generalmente non è più possibile».

Lui mi ha guardato senza parlare. Ho sorriso, ho detto in un altro tono: «Temeva la banalità?»

Ha risposto: «Io sono dell’opinione che con la paura della banalità si rischia parecchio. E sì, un po’ di paura della banalità lui ce l’aveva, più da ragazzo che da adulto. Non snobismo; era una contrarietà ostinata per ogni strada comune. Questo però lo dico io, dal mio punto di vista di vecchio conservatore. Stava lì il nostro disaccordo, e io glielo dicevo».

Resta così, un po’ concentrato sul marmo del tavolino, dove le impronte dei bicchieri danno realmente un’idea di circoscritto.

«E poi, - ha ripreso, - leggere professionalmente per gli editori, come faceva lui… Guardi, nel mio piccolo, da quando qui ho una relativa notorietà ricevo molti libri che prima non ricevevo. Tutti questi libri mi scoraggiano a scrivere. Io ormai non scrivo niente, non faccio altro che amministrare quel poco che ho già scritto, e anche questo con fatica. Però li vedo, belli anche, ma soprattutto tanti, e mi dico: ma cosa ne aggiungo io ancora uno? Forse anche per lui è stato così, almeno in parte…»

Si alza finendo la frase, come se avesse sempre tenuto d’occhio la porta. Dice: «Ecco, arriva questa signora…»

Mi giro. Guardo la donna che viene avanti tra i tavoli già sorridendo. Non è giovane come lui ha detto; però è bella, o è bello il tailleur. Ha dei guanti chiusi con un bottoncino sul polso, che non toglie nemmeno al momento delle presentazioni. Loro si scambiano delle cartelline, parlano per accenni rapidi; io guardo da un’altra parte. Lui le ha chiesto di bere qualcosa «con noi», lei ha risposto: «E’ tardi». Salutandomi, dice con un’aria divertita: «Auguri». Non so bene a cosa possa riferirsi, o forse è la mia lentezza stamattina. Ho perso tempo perfino per rispondere come dovevo.

Quando ci sediamo di nuovo, lui riprende il filo senza commentare la donna, e senza cercare le parole: «Non deve credere che lui avesse un rigore eccessivo, o un’ansia di perfezionismo, che fosse scontento e riscrivesse sempre. Il rigore era nel non volersi abbandonare, nel giudicare il suo dolore senza umiltà; nella sua volontà di distacco e di giudizio. Impressione mia, naturalmente: ma se avesse più accettato e meno giudicato, se non si fosse sentito sminuito da certe difficoltà, avrebbe potuto esprimerle. Altri lo negano; dicono che si è realizzato come voleva realizzarsi, e se certe cose non le ha fatte è perché non lo interessavano».

Dico: «Non so. Una volta ho letto che ‘scrivere non gli interessava’, un’altra che era ‘oltre il libro’. Penso a tutto lo spazio che c’è tra queste due cose, a quanta fatica si fa ogni volta per spostare tutto “al di qua o al di là”. In mezzo potrebbe esserci uno scrittore senza libri. Lui non è l’unico, è pieno di scrittori senza libri, chissà quanti ce ne sono, anche adesso, in questo istante. Però lui ha scritto, in un modo sotterraneo, parallelo, quanto bastava per far capire che non avrebbe scritto. Per questo è lì, in quel centro. Ho letto anche che quel centro non esiste, è il vuoto. Certe volte mi sembra che non ci sia cosa più forte del vuoto, o del niente: taglia ogni questione, la rende perfetta, motivata. Come immagine per i sentimenti il vuoto è notevole, quanto il pieno o un tramonto o un fiume… Certe volte vorrei scoprire dov’è che il vuoto, la cura del vuoto, finisce per trovare la sua compensazione…»

Lui si è tirato indietro dal tavolino, si è appoggiato al muro, appena diffidente. Deve aver selezionato tra quello che avevo detto le parti utili. Poi ha risposto: «Guardi, io non so dire se esiste la possibilità di andare oltre il libro. Può darsi. Può darsi che lui stesso ci sia arrivato. Per esempio io ho scritto quel poco che ho scritto così, perché ho avuto delle occasioni, ma immagino che anche se non lo avessi fatto non avrei tanti rimpianti. Può succedere anche questo, ci può essere un punto in cui uno, non come la volpe e l’uva ma sinceramente dice: non ha scopo che io scriva libri, ho fatto di meglio, ho fatto delle cose di maggiore soddisfazione per me, e questi libri li pianto. Certo molti del mio ambiente, io meno degli altri magari, comunque avevamo una visione bibliocentrica. Scrivere era una grande aspirazione. Sa, tutti poeti qui, o filosofi. Perché scrivere?»

Dico: «E perché no?»

Risponde di scatto: «Ma nessuno, allora, avrebbe messo le cose in questi termini, nessuno avrebbe scritto o meno ‘perché no’…»

Poi riprende in un tono più tranquillo: «Ora, può darsi che lui questa visione bibliocentrica l’abbia avuta da giovane e poi l’abbia superata. Lei, da quello che immagino, vorrebbe sapere perché o forse per quale idea dello scrivere, e dello stare al mondo, uno come lui abbia pensato che non… o non l’abbia voluto o saputo fare… Ma guardi, non saprei, io più che tanto non so… E poi, ecco, devo essere puntuale a casa».

 

Fuori camminiamo lungo un viale abbastanza ampio, con alberi sul marciapiede e vetrine. Ogni tanto gli faccio qualche nome, seguito subito dalla domanda «E’ vivo?», «E’ viva?» Lui risponde sempre «Altroché», a parte un «Eh, non più». Ogni volta tira fuori due libricini; un’agenda e un quadernetto da appunti. Trascrive l’indirizzo da uno all’altro, strappa la pagina, me la dà. Al terzo nome ha cominciato a prendere i fogli corrispondenti a quelli già staccati, dall’ultima parte del quaderno.

Dico: «Era uno che alzava sempre il tiro? Uno che si toglieva la terra sotto i piedi, finché si è accorto di essere andato troppo in là?»

Lui ha allargato le braccia nelle tasche del cappotto, ha risposto guardando in giro: «Aveva uno spirito ludico, potrebbe essere ciò che lei chiama ‘alzare il tiro’. Non si adagiava sulle cose, e questo era anche molto bello: una forma di umanità, di umiltà, in senso positivo questa volta. Non si sarebbe vantato, neppure con se stesso, indubbiamente. Ma più per uno spirito ludico che per una volontà di superamento… Lei dirà: qualunque non fermarsi è un superamento. Invece è diverso. Lui non aveva il senso dialettico della gradualità, alla Goethe. Cambiava pelle spesso, e qui anche stava la sua incapacità di realizzare; dimenticava ciò che aveva fatto, non per un voler superare, ma per un lasciar cadere…»

Osserva discretamente le persone che incrociamo, tiene la testa alta. Siamo arrivati a un semaforo, lui ha indicato un portone sul marciapiede di fronte. Ha detto: «Ecco». Aspettiamo che diventi verde, lui dice: «Deve assolutamente parlare con Ljuba. Gli è stata più vicina di tutti, è una donna straordinaria. Vada a Londra, e parli con lei».

Ho chiesto: «Quanti anni ha, una settantina?»

«No, come una settantina? Ljuba era circa dell’età di lui, dunque è più vecchia di me. Io ne ho settantaquattro e lei deve essere poco lontana dagli ottanta».

Ora è di nuovo rosso e passano le macchine. Lui guarda il cielo, dice: «Trieste è come Nizza, solo che c’è il vento».

Quando il semaforo è cambiato mi ha salutato di colpo. Per un po’ l’ho guardato attraversare, poi sono andato via.

 

Sfoglio il giornale in una tavola calda, senza badare al tempo che sto in piedi o al fatto che il roast-beef è praticamente un gulasch. Forse in una città piccola, dove i «fatti» hanno una proporzione diversa, anche certi sentimenti, come la perplessità per il legno vecchio e un po’ unto di questo posto, o per l’aria metallica dei cibi nei contenitori caldi può assumere un altro, più modesto rilievo.

Uscendo dal locale ho di nuovo una leggera sensazione di improbabilità. Ero andato a mangiare sentendomi a posto, in pari; adesso sono nuovamente in debito, benché sia difficile spiegare verso cosa. Il tutto è peggiorato dalla tregua generale per l’ora del pranzo; quando la città è in funzione, risulta più tollerabile essere avulsi, e stranieri. Ogni tanto, poi, l’ossessione di quello che gli altri saprebbero vedere dove io, camminando e guardando, non vedo nulla.

Così sono arrivato al porto. Cammino lungo le banchine pulite, lucide come le bitte, e col divieto di sosta. Si vede che staccano anche le alghe dai moli, periodicamente, con l’acido; e il fatto che non ci sia nemmeno una nave accresce il valore della manutenzione. Nulla è in abbandono, nemmeno i solchi delle rotaie o i bracci delle gru ripiegati come uccelli. Sembrerebbe che la navigazione sia stata asportata dalla città con un colpo secco, e ne è rimasto l’incavo preciso, rifilato.

Mi rifugio in un bar di fronte alla stazione marittima, anche questa curata, con l’orologio in orario, e chiusa. Guardo il porto, o i numeri di telefono che ho sparpagliato sul tavolino; persone delle quali, adesso, non mi sento di immaginare l’età o altro.

Due donne un po’ abbondanti si alzano tra pannelli di plastica colorati, infilano una moneta nel juke-box; viene fuori una canzone americana sdolcinata, allusiva. Loro, appoggiate al juke-box, muovono appena le gambe in qua e in là, secondo la musica, e guardano con insistenza. Io mi sono fissato sul totalizzatore del flipper, sui numeri che salgono veloci come alle pompe di benzina. C’è stata una specie di gara a chi resisteva di più: loro a fissare me o io a fissare il punteggio. Dato che il flipperista sta giocando l’ultima pallina, penso che alla fine mi volterò lealmente, o con ostinazione, o non so. Non c’è stato tempo, tutto è accaduto insieme: il disco è finito, il flipperista ha dato un colpo alla macchina che aveva chiuso la partita, le due donne, uscendo, hanno fatto dei risolini sguaiati.

Anche il flipperista dopo un po’ va via. Resto solo, con la ragazza del bar; ogni tanto fa squillare il registratore di cassa e prende le monete per il juke-box. Preme a memoria le lettere e i numeri. La musica ha l’effetto di una colonna sonora, allontana ogni cosa in un’astrattezza parallela, e tutto diventa immagine: il bar, la ragazza di nuovo dietro al banco, i Tir che passano veloci oltre la vetrina, il mio stesso stare qui.

Cerco di concentrarmi sulle cose da fare. Invece me ne vengono in mente altre, che conosco già. Una volta era andato a sbattere contro una vetrata. Non l’ha vista, è finito in ospedale. Due settimane prima che morisse si è ripetuto lo stesso incidente; il proprietario di questa seconda vetrata se l’è tenuta rotta, un omaggio alla sua memoria. Ha dei periodi lunghissimi di inerzia e di letargo, usa volentieri la parola naufragio. Decide di cominciare infallibilmente a lavorare domani, decisione rimandata di giorno in giorno per settimane. Nelle lettere non mette mai la maiuscola dopo il punto. Scrive moltissime lettere. Usa pochissimo le relative. Ha trovato un suo modo per difendersi dal caldo in agosto, lo aveva descritto come un metodo: merenda più forte del normale al mattino, appena sveglio; a mezzogiorno niente, cioè un bagno di sole con doccia più un tè o un biscotto o un po’ di brodo; fino alla sera parecchi caffè e nient’altro. La sera, mangiare a volontà. Ha le camicie di seta per quando deve andare dai suoi amici aristocratici, i maglioni di lana quando fa il girovago, specialmente a piedi; ha i vestiti normali per quando sta in casa o frequenta gli amici che non sono aristocratici né girovaghi. Probabilmente tiene distinti i vari tipi di amici, e non soltanto in rapporto all’abbigliamento.

Non si sa bene che cosa fare con tutto ciò.

 

Esco dal bar. Faccio una serpentina di vialetti in salita: una volta ho di fronte una palazzina, un’altra volta la palazzina opposta. Ad ogni gomito la visuale si ribalta, come in piscina. C’è il tempo di arrivare a piedi fino in centro; ho attraversato i margini di una periferia che non immaginavo questa città avesse, con palazzoni ferroviari e panni stesi. Volto, mi fermo, riparto: forse il grigiore, o l’effetto del freddo, è anche questa percezione assottigliata al semplice movimento, ad un minimo vitale.

Sono arrivato alla stazione seguendo il percorso più lungo possibile.

Alla fine ho scelto uno dei numeri che avevo, ho telefonato. Nel taxi do l’indirizzo di una signora che non conosco. La macchina passa sul lungomare, poi sale attraverso quartieri nuovi con un’architettura mista, e qualche edificio basso di cemento, che fa pensare all’Est Europa. Ho cominciato a dividere la città così: tutto quello che è a destra della stazione è «verso la Jugoslavia», tutto quello che è a sinistra è «verso l’Italia». Qui siamo sulla destra.

Scendo davanti a una palazzina elegante, così elegante e moderna che la guardo di nuovo, poi vado alla bottoniera e controllo il nome. Cerco di far passare i minuti di anticipo accanto a un portone qualche metro più in là, in un sole appannato, fino all’istante esatto in cui l’uomo affacciato alla finestra sta per chiedermi che cosa voglio, e vado via.

Fa freddo e non vorrei aspettare oltre. Torno un po’ indietro; suono.

Si apre la porta a vetri, sono in un atrio di nichel e di cristallo, col marmo dei pavimenti tirato a piombo. Non ci sono porte, c’è una sagomatura di legno modulare fino in cima alle pareti. Le porte ci sono ma non si distinguono dalla sagomatura, bisogna fare attenzione al taglio sottile che ne indica il perimetro. Arrivo all’ultimo piano, la donna sulla soglia ha un’aria simpatica, avrà una cinquantina d’anni. Sorride: «Poteva prendere l’ascensore». Ho risposto che non si trovava. Poi ho domandato: «E’ in casa sua madre?» Lei ha detto: «No, perché?» Ho spiegato che avevo telefonato prima, e avevo preso appuntamento. Lei dice: «Sono io».

Anche gli interni hanno una luce di cristallo e divani bassissimi, e un lato del salone in cui siamo seduti è un’intera lastra di vetro, attraverso la quale, probabilmente per una curva del golfo di cui arrivando non mi sono accorto, si vede la città dal mare. Per la prima volta ho pensato che ha delle proporzioni, non è solo irta e disarmonica. O forse è il fatto che da qui appare senza particolari; o forse ancora è l’effetto del primo posto non pubblico in cui metto piede.

Ascolto le cose che lei dice. Ogni tanto, parlando, guardo i quadri alle pareti; dopo un po’ mi sono accorto che sono tutti dello stesso pittore, e dopo un altro po’ sono riuscito a leggere la firma di quello più vicino. Lei ha detto: «Quando uno è tranquillo fa domande sulla sua città. Lui invece veniva da noi in campagna, stava due o tre giorni, ma mai che chiedesse notizie di qui». Ha aggiunto con un sorriso aperto, incuriosito: «Molti episodi si sono svolti in quella casa».

Mi ha colpito che ne parlasse come di fatti oggettivi e leggendari. Anzi, ha detto proprio: L’OSTERIA SUL BRENTA, IL CRISTALLO ROTTO, come se io dovessi conoscerli, e in effetti li conoscevo, ma non immaginavo che potessero essere indicati con un titolo. Lei dice: «Usciva la mattina presto, sempre con molti libri. Cercava un’osteria lungo il fiume; era indispensabile che non avesse il neon. Ci raccontò che aveva trovato un’osteria straordinaria, la descrisse in ogni dettaglio. Noi non la trovammo mai. Mio marito pensò che doveva essersela inventata; lui lo conosceva da parecchio tempo, io lo conobbi relativamente tardi».

Si alza dal divano, dice: «Aspetti un momento», sale per la scala; di sopra devono esserci spazi altrettanto luminosi. Mi alzo anch’io; mi piace il silenzio della casa. Ho girato un po’ affacciandomi alla vetrata; poi mi sono fissato su una collezione di sestanti, in una rientranza della parete che non avevo visto. Leggo le stampigliature coi nomi delle città tedesche o inglesi dove furono fabbricati, seguo il profilo delle parti in ottone, non ossidate. Penso all’ultima volta che sono stati usati per fare il punto: l’uomo traguarda, poi toglie l’occhio e studia di lato lo strumento, controlla il gioco delle viti senza fine, non si fida più. Poi esce un modello più preciso e maneggevole. Poi c’è la lunga giacenza nella cassetta, sul cui fondo è scavata la forma al negativo; tutto il tempo veramente morto tra l’attività di un oggetto e la sua collezione.

Lei mi è arrivata alle spalle, senza che la sentissi. Mi sono voltato per complimentarmi dei sestanti. Non me l’aspettavo: ho la cornice d’argento quasi contro la giacca, girata dal mio verso, e con dentro la fotografia. E’ impossibile non prenderla. Allontano la fotografia distendendo il braccio e spingo la testa all’indietro, come fanno i presbiti. Spero che tutto questo possa apparire in qualche modo naturale. Lei dice: «Eccolo, Bobi». Io guardo un punto astratto, fuori della cornice. «Vede come sta, tra gli scogli?» Ho risposto: «Eh, sì». Lei ha accennato la posizione che doveva essere dell’uomo nella foto: «Anche da noi spesso si metteva in poltrona, spalancava le braccia e rovesciava il capo all’insù, così».

Le ho restituito la fotografia, abbiamo parlato ancora. A me sembra di potermi spiegare con tranquillità; o forse è una di quelle situazioni in cui c’è un’aderenza naturale, pacata, all’ordine delle cose. A un certo punto lei ha detto: «Ljuba Blumenthal è una donna straordinaria. Vedrà, per lei sarà un’esperienza indimenticabile conoscerla; la voce di quella donna le resterà negli orecchi. Una volta, in macchina con lui e con un loro giovane amico ebbero un incidente. Lei aveva una grande criniera di capelli bianchi che attutì il colpo. Dopo però le si staccò la retina. E’ quasi cieca. Insegna ai ciechi a leggere con l’alfabeto Braille. Forse lo fa ancora».

Di nuovo la lentezza si sta trasformando in immobilità. Resterei qui anche soltanto per vedere come la luce fuori, sul mare e sulla città, diventa più grigia e più azzurra, finché la vetrata, nera, rifletterebbe i lumi e i movimenti nella casa. Ma il treno che ho tra poco è il più conveniente. Lei ha detto: «Vuole che l’accompagni in macchina?» Ho fatto i complimenti che dovevo, però non mi è dispiaciuto che al telefono non si trovasse un taxi. Scendiamo in garage; ho tirato su la porta metallica, ho guardato una vecchia Borgward decappottabile, in fondo. Lei ha detto: «Era di mio marito. Nessuno la usa più».

Attraversiamo strade che in parte conosco, ma che viste così fanno un effetto diverso da qualche ora fa. Quando sono sceso lei ha detto: «La prossima volta venga a pranzo».

 

C’era un posto accanto al finestrino, di fronte a una ragazza. Ha la faccia triste, sembra quasi che stia per piangere. Magari non è vero, magari è la sua espressione normale. Però, dopo, si alza a guardare il tramonto sul golfo, all’uscita dalla città, con un languore tale che non si sa come mettere le gambe.

Di fronte alla malinconia bisogna darsi da fare; quando lei si risiede apro una cartellina e metto a posto le mie cose. In realtà giro tre o quattro fogli perfettamente bianchi, ma l’importante è tenere la testa bassa. Penso al silenzio come a una risorsa straordinaria. E’ molto semplice, mandi segnali che non vuoi parlare e nessuno può costringerti. Però adesso poter non parlare mi sembra un punto di resistenza assoluto. Ho chiuso la cartella, ho sollevato la testa. Lei ha detto: «Tu che cosa studi?» Ho sorriso senza rispondere, quasi non capissi la lingua. Lei ha insistito.

Si tratta soprattutto di ascoltare, e basta che ogni tanto io sorrida, e dica «Sì», «No». Ha parlato di questa città e di come ne è fuggita, di come è «meravigliosa e invivibile», di posti, di vedute che dovrei aver visto, o vedrò. Non so in che modo, è arrivata al cinema americano, e c’è stato un generale ripasso. Guardo il bicchiere di carta che ha in mano, nel quale quando è passato l’uomo delle bibite si è fatta mettere tre caffè. Beve, dice: «Dall’Isonzo in qua siamo tutti slavi, ma non puoi dirlo a quelli in città, si credono tedeschi». Ho pensato: «Forse è possibile fingere di scendere alla prossima stazione». L’ho pensato lentamente, muovendo un dito per ogni sillaba, cercando di dividerle in modo corretto. Lei è passata ai libri, ha raccontato due o tre romanzi di Victor Hugo. Alla fine ha detto: «C’è molta sofferenza, no? E molta fede, anche». Lei conosce quasi tutti i libri che leggerà. Dice: «Non credi che bisogna leggere Nietzsche?» Io ho detto: «Ah, non c’è dubbio».

Avverto la pura energia in tensione dietro le sue parole, e reagisco come sempre: dilatando gli intervalli, opponendo lentezza. Ho approfittato di un suo attimo di pausa, imprevedibile. Ho chiuso gli occhi; ho finto di dormire.

Sto così. Mi dispiace un po’ e penso che è solo un trucco momentaneo, ho assoluto bisogno di qualche minuto di silenzio, anche interno. Dopo ho pensato: «Adesso va meglio, adesso posso riaprirli». Ma è stata l’ultima cosa che ho pensato.

 

***

 

3.

 

Sono sotto la murata della “Ile d’Oléron”, una nave da guerra francese.

Era impossibile fissare appuntamenti per la mattinata, e dalla stazione sono arrivato al porto. Ho visto la sagoma grigia tra i colori accesi del panorama, perpendicolare al grande albergo. Mano a mano che mi avvicino, la sigla sulla fiancata che sembrava AGIO diventa A610.

Qualche marinaio affacciato guarda giù con un senso di rilievo e di proprietà. Non so se si può salire a bordo; cammino lungo il molo, finché trovo un posto per sedermi. Da qui si vede bene: alta e vicina, in una strana intimità. Dopo un po’ sono arrivati un ragazzo e una ragazza con gli zaini, hanno imboccato la passerella come il seguito naturale della loro strada; hanno gridato all’ufficiale sulla battagliola: «Siamo francesi! E’ meraviglioso trovare una nostra nave qui». Ci sono stati molti sorrisi, poi in fila indiana sono scomparsi tutti e tre in un boccaporto.

Adesso cammineranno nei passaggi stretti tra le paratie; davanti a ogni locale, prima di entrare, la loro guida illustrerà il significato della sala. Avrà già spiegato che la “Ile d’Oléron” è una nave ausiliaria, come sembra dall’armamento ridotto e dalla struttura mercantile. Certi locali, come il casotto dell’ufficiale di rotta o la cabina dei cronometri appariranno incredibilmente piccoli ai due visitatori, e talvolta lo sono davvero. Ci si muove soltanto per la proporzione degli arredi. Il guardiamarina ha aperto l’armadio dei cronometri: sono messi in piano, in sospensione nelle controcasse. Ha detto: «Vanno caricati ogni giorno alla stessa ora, sono delicatissimi. Quando ci sono tiri di artiglieria bisogna spostarli; li mettiamo in una cabina al centro della nave, sul materasso del letto».

Soprattutto si preoccupa che i due ragazzi abbiano sempre chiara la loro posizione rispetto all’ordine dei ponti, e addirittura glielo chiede in modo esplicito: «Dove siamo?» Loro faranno riferimento alla sala macchine, che li avrà colpiti più di tutto, anche se dentro avranno visto le turbine, e non più la danza pari e dispari dei bilanceri; è da lì che calcolano la distanza, parlando di «piani», «scale», «corridoi».

La plancia sarà una delusione, non si aspettavano così pochi strumenti e tanto spazio vuoto; il loro accompagnatore spiega che la nave è l’unico mezzo di trasporto con la stazione di governo separata dal controllo dei motori. Mostrerà la lavagnetta alle spalle del timoniere, dove vanno scritte le indicazioni della rotta vera, della girobussola, del numero di giri delle eliche. Ad una loro domanda aprirà il cassetto e tirerà fuori le tavole di comparazione tra i giri delle eliche e la velocità in nodi della nave. Dirà subito: «Però sono tabelle ottimali. In realtà bisogna tenere conto del pescaggio della nave, delle incrostazioni di vegetazione sulla carena, della emersione delle eliche sulle onde alte, della profondità del fondale, di quanto il timoniere fa oscillare la prora rispetto all’asse della rotta». Vorrebbe anche indicare come incide ciascuna di queste cose, ma i due si saranno già distratti, guarderanno attorno, penseranno che in una plancia tanto moderna da avere accanto alla cassetta delle bandiere il pannello della stabilizzazione elettronica, sia quasi un vezzo la ruota del timone in legno con le caviglie, come sempre. Il guardiamarina descrive la duttilità del legno sotto le mani per ore in confronto alla rigidità del ferro.

Ogni tanto, da dove sono seduto li vedo riemergere sui ponti e sparire di nuovo. Prima, quando hanno finito di visitare l’opera viva, la parte più bassa ed elastica della nave, il guardiamarina ha detto: «Questa parte parla. A macchine spente se ne può sentire la voce». Avrà omesso però di dire che quel rumore lugubre di fondo e di metallo, quel sospiro notturno della materia, è raccapricciante.

Chiesuola della bussola, madiere, alidada: a questi nomi il guardiamarina non rinuncerebbe per nessun motivo. Determinate parole fanno prendere un determinato portamento. E poi queste parole gli piacciono perché non hanno sinonimi, e possono congiungere la precisione tecnica a una certa quantità di evocazione, eliminando tutto quello che sta in mezzo. Però con i due ragazzi si sforzerà di paragonare sempre le cose e i movimenti nel mare alle cose e ai movimenti sulla terra. Dice spesso «come» e «così». Ha spiegato lo scandaglio a ultrasuoni, ha detto: «Scandagliamo molto»; poi ha aggiunto: «Così camminiamo nel mare, come coi piedi sul fondo».

Che cosa penserà il guardiamarina del naufragio?

 

Non scendono più. E’ già la seconda volta che arrivano tutti e tre all’attacco della passerella, parlano e poi ripartono verso la prua, come se lui si fosse dimenticato di mostrargli qualcos’altro.

Penso a che cosa potrei invidiare al guardiamarina. Il modo come si concentra sull’angolo e sull’altezza, e l’abitudine a considerarsi in riferimento a qualche cosa. Oppure il modo di vedere: molto spesso traguarda, è abituato a vedere per collimazione. Potrei invidiargli la declinazione dell’astro, dato che anche l’astro si declina come un sostantivo. O il campo illimitato, la perdita d’occhio all’alba e al tramonto, gli unici istanti in cui la stella e lo strumento coincidono.

Più di tutto credo che gli invidierei l’arte conforme della carta.

Però mi piacerebbero anche i turni di guardia, l’ordinamento interno, le voci alla radio durante la notte - la radio di notte è tutt’altra cosa che la radio di giorno. Potrebbero esserci anche i libri interrotti: uno ci pensa mentre lavora, sa che stanno lì, aspetta di riprenderli alla fine del turno. Il navigare mi sembra una buona compresenza di astrattezza e comportamento; come alle origini, quando per calcolare la velocità mettevano qualcosa in acqua e prendevano coi battiti del polso il tempo che impiegava a passare da prua a poppa.

Tra le figure, una volta avrei preferito il secondo ufficiale. Il comandante è il comandante; ma il suo secondo dispone le cose affinché si eserciti il comando. Controlla e media con l’equipaggio. Non è un vice; anzi, dal punto di vista del grado è un pari grado, e un tempo era addirittura di più, era il responsabile vero della nave e rappresentava direttamente la proprietà nei commerci. A me sembrava che il secondo garantisse la continuità del tutto. Poi, poco alla volta, ho cominciato a capire il valore del principale, e ad apprezzarlo.

Della marina mi sarebbe piaciuto il rispetto circostanziato e leggero di una norma di funzionamento; o il fatto che tutta quella compostezza metafisica del calcolo e dello stare in piedi ha come scopo solo il trasporto, una cosa importante, molto importante, ma non troppo.

L’acqua si riapre e si richiude continuamente, solo chi è a bordo sa di essere passato davvero. E’ un’arte complessa quella del semplice passaggio. E il naufragio - penso adesso, mentre i due ragazzi stanno salutando il guardiamarina - è già tutto qui, compreso nella leggerezza ironica della probabilità. Perché cercarlo fuori, come quel capitano di lungo corso? Perché buttare via, come lui aveva fatto, tutto ciò che esiste tra la metafora dell’Occidente e i calzini, tutto il resto, “con cui si scrive”?

Forse è anche il fatto che gran parte delle nostre metafore finiscono in mare, come i rifiuti. E poi quel capitano aveva il problema di come stare sulla terra.

 

Dovrei organizzare la giornata, ma sono deconcentrato. Quasi senza accorgermene ho seguito i due ragazzi francesi fuori del porto. E piano piano sto andando dal solito libraio.

Lui ha detto: «Ah, è di nuovo qui». Gli ho domandato se aveva il catalogo delle navi. Ha risposto: «No. Impossibile». Dopo un po’ è tornato col libro. Ho cercato nella sezione francese, tra le navi ausiliare. Eccola qui: “Ile d’Oléron”, con una piccola fotografia di poppa e uno spaccato. Prima si chiamava “Mur”, e prima ancora “München”. E’ un ex trasporto tedesco, catturato dagli americani e poi ceduto ai francesi. Mi viene in mente la lamiera della fiancata che ho fissato per mezz’ora, talmente ribattuta da sembrare ondulata; o la prua dritta, quasi perpendicolare al mare.

Per il resto, credo che ad Oléron siano stati scritti in francese antico i primi testi di diritto marittimo; i primi, anche, che raccontano la vita terribile a bordo, sulle navi del Ponente.

 

Una strada in salita, abbastanza vicina al libraio, è l’unica indicazione che ho per la persona che cerco. Entro in un negozio di casalinghi, dietro il bancone c’è una donna anziana con un golf nero, le braccia conserte, in una specie di nicchia scavata tra gli oggetti. Ha detto molte cose in dialetto e non ho capito granché; mi ha mandato in un palazzo di fronte. Salgo le scale di un androne lugubre, malandato. Al mezzanino, il cavallo e il drago affrescati sulla parete sono quasi un colpo. Suono ad un paio di campanelli. Nel buio, quando da dietro le porte chiedono chi è, non è facile dare affidamento.

Qui non sanno nulla. Torno dalla donna del negozio. Adesso lei vuole più informazioni, dice: «Non sarà uno di quei matti che hanno rimesso fuori, vero?» Ho risposto: «Penso di no». Lei ha fatto una lunga tirata sui manicomi; ha descritto una ragazza che gira per il quartiere togliendosi dalle scarpe del terriccio che non c’è. Poi ha parlato dei saponi e dei solventi, io non riesco a rispondere, né a fermarla. Ha gli occhi enormi, come dipinti sul retro degli occhiali, e pulisce col mignolo il bancone. A me non sembra sporco. Poi si sporge e abbassa la voce: «Provi alla trattoria nello slargo, ma non dica che la mando io. Gira brutta gente, lì».

Do un’occhiata alla trattoria, ma non ho voglia di entrare. Invece vorrei andare al bar, in cima alla salita. Ho fatto tutta una U attorno al palazzo per non ripassare davanti al negozio della signora.

Sull’elenco telefonico c’è un numero ma l’altra volta, quando ho chiamato, non rispondeva nessuno. Ho pensato che non avesse più casa. Ora risponde una donna: «Guardi, di un signore con questo nome mi è arrivata la posta per un po’ di tempo, lui veniva a prenderla e così ci siamo conosciuti». Ho detto: «Bene». Lei ha risposto: «Forse c’è un buffet dove può trovarlo». Chiamo il buffet, parlo con due o tre persone diverse, l’ultima dice: «Sì, è stato qui anche ieri». Mi ha dato il nome della strada dove abita; poi la società dei telefoni mi ha dato il resto. Chiamo, finalmente. Dall’altra parte c’è una voce traballante. Dice: «Al telefono». Quando rispondono così, non so mai se devo aspettare all’apparecchio o se la persona è quella, e posso parlare. Ad ogni modo è lui; gli spiego che cosa voglio, dice: «Ma bravo». Posso andare anche subito.

 

Ha aperto la porta, ha sorriso. Ha detto: «Ehe… Come mai?» E’ rimasto un attimo così, guardando con un’aria soddisfatta, ma come se non fossi completamente vero. Poi, nell’ingresso, ha indicato una mensola: «Vede quel candelabro e quel boccale? Vengono da casa Bazlen». Li ho visti, e per un istante ho temuto che non sarebbero rimasti al loro posto. «Sa, dopo che è andato via mi scriveva… ‘Mandami quella cassa’… Oppure: ‘Quel tale dovrebbe avere ancora un mio quadro, puoi recuperarlo? ‘… Io gli ho spedito parecchie cose, tante altre non si sono più trovate».

Siamo in una stanza luminosa, piccola, dove tutto sembra poco toccato: come per non scombinare l’ordine fatto dalla donna a ore. Lui ha un modo soffice di cambiare argomento quando vuole: sorride, fuma in silenzio col mento alto, poi dice una cosa nuova, e la dice citando: «… ‘Scrivimi i morti, quando saranno tutti morti tornerò a Trieste’». Così non si può dire proprio che parliamo, ma c’è lo stesso una certa rispondenza, anche se appartiene a chissà quali discussioni, avvenute chissà quando. Dopo un po’ ha detto: «Tornavo a casa, mia madre: ‘C’è Bobi che ti aspetta in camera tua, sul letto’. Infatti: era sul letto, aspettava e leggeva… ‘Adesso io e te andiamo a cena insieme’. Si alzava, andavamo a cena insieme… In piazza la gente diceva: ‘Quel giovane curvo, un po’ matto, con molti libri sotto il braccio’…»

Ho detto: «Ma era già curvo?»

Lui mi ha guardato, ha fumato ancora, poi ha risposto: «…Sì, molto incurvato… Poi fece la psicanalisi con uno di qui, ma non so a cosa gli sia servito…»

Sta appoggiato al tavolo con le braccia conserte; mette in evidenza ogni cosa facendola emergere dal silenzio e riaffondandola nel silenzio. «… ‘Ti servono soldi? ‘… Era molto generoso… Aveva ricevuto un’eredità dallo zio, allora si parlava di ottantamila lire… Apriva il portafogli: ‘Eccoti cento lire’… Era un capitale».

Nei lunghi intervalli mi guarda come se parlasse, e non sempre è facile pensare a una risposta. Le parole appaiono come un cucù: «Quarant’anni fa ho fatto una battuta, in un bar, e lui: ‘Ah, che bella!… Me la dai che voglio metterla nel mio romanzo?’».

Lascio passare una giusta quantità di tempo, adeguandomi al ritmo. Poi dico: «E che battuta era?»

Solito silenzio, solito fissarci sorridendo. Alla fine, di colpo: «Lui aveva detto: ‘Tu, ti conosci?’ Io ho risposto ‘Sì, di vista’… E lui: ‘Che bello! Me la dai?’… Dopo ho guardato nella roba che ha scritto, però la battuta non l’ho trovata».

Adesso, quando sarebbe il momento, invece di parlare si alza, e va di là. E’ un ometto quasi rotondo. Torna con un grosso libro d’arte, lo apre sul tavolo, lo fa scivolare dal mio verso. Resta in piedi qui accanto. Io guardo la pagina senza dire nulla. Dopo un po’ lui mette il dito su una figurina, dice: «Io sono immortalato qui». Guardo meglio: si vede un ragazzo biondo con gli occhi azzurri; appare di notte sul margine del quadro, affacciandosi ai vetri di una camera da letto.

Mi dà un’occhiata sorridendo, dice lentamente: «L’angelo».

Si è seduto di nuovo. Stiamo zitti, ogni tanto ci guardiamo. Rifletto sulla faccenda della battuta. Alla fine dico: «Allora quando era qui pensava a un suo romanzo?»

Dopo parecchio: «… Eh, si, pensava, pensava… Poi la sua opera è stata la sua vita…»

Adesso occupo il tempo a mia disposizione per ricordarmi dov’è che ho già sentito questa frase. Anche in un suo libro c’era qualcosa di esplicito, come: fino a Goethe la biografia assorbita dall’opera, da Rilke in poi la biografia contro l’opera. Ma non è questo. Niente, non mi viene. Tocca di nuovo a me, dico tanto per dire: «Certo però che andare via da questa città in un modo così duro…»

«Mah… C’era il sodalizio coi Saba… Ma qui mi sperdo…»

Non perdo tempo, chiedo subito: «Perché, che sodalizio?»

Lui fuma, sorride, fuma. Passano veramente dei minuti. Finalmente dice: «Senta, gradisce qualche ricordo?» Mi irrigidisco; lui si alza, apre un cassetto, tira fuori due cartoline. Le volta di colpo: sono soltanto due portoni, uno con un mascherone e l’altro con un bassorilievo. Ha detto: «Le ho fatte fare io. Qui sta scomparendo tutto». Mi sono rilassato; ho raccontato degli androni affrescati in cui mi capita di entrare.

E’ un po’ che stiamo in silenzio. Le cartoline, a forza di fissarle, le ho stampate in mente.

Lui dice: «Eh, eh… Bobi». Ho domandato se era un diminutivo frequente qui. Non ha risposto subito; poi, come lasciando cadere una piuma, ha detto: «Bobi Solo». E dopo un po’: «Il cantante, sa».

Ho detto: «Sì, certo».

La sua faccia si è ingrandita, con un sorriso più vago: «…Lei avrebbe dovuto vedere la mamma di Bobi Solo… talmente bella che faceva fermare gli orologi».

 

Manca poco all’una, e riscendo verso il centro in una pioggia fine, quasi soltanto umidità palpabile. Ho qualche timore per il resto della giornata, o per gli intervalli, o gli spostamenti che non avrebbero alcuna relazione col passare del tempo, a differenza delle persone che diventano sempre più rade sui marciapiedi, e si avviano veloci verso casa. Mi viene in mente l’invito della signora dei sestanti. Provo a telefonare. Lei dice: «Venga subito, l’aspetto». Resto ancora un attimo nella cabina, col rumore della pioggia, ora più sonoro e forte sulla lamiera del tetto. C’è una certa tranquillità, forse per il fatto che è caduta la prospettiva di lunghe permanenze nei ristoranti o nei bar; questi ultimi, in special modo, li collego sempre a un’idea di “drague”, una cosa che non saprei mai fare.

Ho cercato un barbiere; ho cercato anche di bagnarmi il meno possibile, ma quando sono entrato ero fradicio. Il barbiere, un meridionale scuro, dopo un po’ che lavorava ha detto: «Lei ha una barba del terzo tipo». Ho chiesto qual era la differenza, e lui ha smesso di radermi, parlando nello specchio: «Il terzo tipo è quello delle barbe secche e dure. Il secondo tipo è quello delle barbe compatte, da faccione, da pelle grassa. Al primo tipo appartengono le barbe morbide e rade». Gli ho domandato se era lui a dividerle così o se la cosa aveva un carattere scientifico, però non ho badato alla risposta; pensavo piuttosto alla sua forza d’animo nel ripetere questa storia a ogni cliente che non conosce, e col quale non ha argomenti; pensavo al parlare per compiacere, al parlare per professione. Lui ha aggiunto: «Ognuno ha la sua barba». Solo per il mio tipo però sembra che sia «veramente indicato» il rasoio a lama piena, quello che adesso lascia sulla carta igienica con cui lui lo pulisce una scia di sapone e trucioletti neri.

Poi, in quel momento della rasatura in cui si sta perfettamente zitti e si fa attenzione anche al deglutire, ho ripensato all’Angelo e finalmente mi sono ricordato chi è che dice «la sua vita è la sua opera». Lo dice Katharine Hepburn a Montgomery Clift, in “Improvvisamente l’estate scorsa”. Lo ripete come uno scioglilingua, in un giardino mostruoso: la vita è l’opera del poeta, l’opera del poeta è la sua vita. Ma Sebastian nel suo quaderno non aveva scritto nemmeno una poesia.

Il barbiere ha detto: «Bisogna che lei stia fermo».

 

Nel taxi faccio attenzione alla strada, per capire come è possibile che nella casa dove sto andando si veda la città dal mare; e appena entrato mi avvicino alla vetrata, per ricontrollare il percorso da qui. Lei sorride: «Ho fatto preparare delle cose molto veloci». Ci sono stati un po’ di complimenti, ho detto che andava benissimo comunque.

Durante il pranzo le ho raccontato della mattinata, o di altri incontri, o di certe facce, o frasi, che mi avevano colpito. Parlo senza chiedere spiegazioni o conferme; ma di ogni persona lei dà un particolare accurato, trasversale. Ogni tanto mi guarda attraverso gli occhiali di tartaruga quadrati, con le stanghette a sbalzo. Ha detto: «Non ha pensato di parlare con Gerti?» Ho risposto che ci avevo pensato, ma non sapevo come trovarla. «Abita molto vicino. Se vuole le telefono io». Con un’occhiata curiosa ha aggiunto: «Lei sa chi è Gerti, vero?… Quella della poesia di Montale». Ho detto che conoscevo il “Carnevale di Gerti”. Lei ha sorriso: «Vedrà che tipo».

Più tardi una cameriera anziana così connessa alla casa da valutare gli ospiti anche soltanto per come assumono la forma dei divani, appoggia senza rumore le cose del caffè su un tavolino di cristallo, basso, in un lato del salone.

Lei dice: «Aspetti, provo a telefonare». Uscendo si volta: «Eventualmente è disposto a vedere Gerti anche oggi?» Dico: «Sì, certo». In realtà non so se vorrei. Forse sono gli spazi dilatati dalla luce, o il silenzio; è come se ci fosse, da qualche parte della casa, un nucleo di lentezza, di imperturbabilità, che si diffonde via via, come un alone.

Torna con un passo smagliante: «Gerti l’aspetta tra venti minuti. E’ contento?» Ho risposto: «Sì». Lei ha spiegato la strada, le scalette, il portone, il citofono, il piano; in effetti è molto vicino. Abbiamo parlato ancora, scegliendo tacitamente argomenti brevi, separati, che potevano essere interrotti in qualsiasi punto, al momento in cui sarei dovuto andare via. Solo una volta lei ha detto soprapensiero: «Doveva essere molto faticoso cambiare sempre, come faceva lui; voglio dire ricominciare tutto da capo. Non trova?» Ho risposto: «Sì, credo di sì». Per un attimo ho pensato invece alla tolleranza del passato, all’ammettere che si è stati anche in un modo diverso; alla cura della continuità: di sé, delle cose, dei rapporti - modificanti, modificati, ma in maniera impercettibile e progressiva. Ho pensato a come quel capitano faceva ordine nella sua cabina, buttando fuori gli oggetti. Ho pensato: «Non è facile con gli oggetti, la loro presenza è indelebile. Però è facile disfarsene, sono terribili e indifesi».

Quasi non mi accorgo che lei è già in piedi. Dice: «E’ tardi. Le persone anziane sono ansiose, non bisogna farle aspettare».

Sorrido: «Sì, certo». Mentalmente ho già cominciato a correre.

 

Corro in discesa, sotto la pioggia; salto di qua e di là per evitare le pozzanghere più grosse. Premo una mano contro l’impermeabile perché non cada nulla dalle tasche. Giro a destra, ancora a destra, ecco il cancello, queste sono le scalette, leggo i nomi sul citofono, con un respiro disordinato. Suono dove c’è scritto «Gerti T.». Quando fanno scattare la serratura senza rispondere ci si sente sempre un po’ liquidati.

E’ sulla porta. E’ molto piccola. Ha dei lunghissimi capelli biondi. Dice: «Lei è molto bagnato. Venga». Ho appeso l’impermeabile, e vedendo le gocce che cominciavano a scendere sul pavimento mi è dispiaciuto. La seguo in un corridoio con due grandi armadi a saracinesca, dipinti di bianco. Passiamo davanti a una vetrinetta illuminata, fino a un salone in penombra, troppo buio perché si possa distinguere, entrando, quello che c’è attorno alle pareti.

Ci siamo seduti su due poltroncine al centro della stanza, paralleli come al cinema; guardiamo una portafinestra con una nicchia di lato, dove normalmente si mettono gli oggetti perché siano attraversati dalla luce esterna, e che ora è vuota.

Così solo in certi momenti riesco a vederla non proprio di profilo. Gli occhi sono truccati con un verde leggero, il rossetto sulle labbra è più acceso. L’arco delle sopracciglia è ripassato a matita, due semicirconferenze quasi perfette, da clown calmo, anche se lei non sorride affatto, ma è semplicemente cortese, incuriosita. Ha detto: «Grande… Bazlen». Lo ha detto quasi in due tempi. E dopo, più lentamente: «Era un malefico».

Sollevo le mani, come di fronte a una cosa eccessiva; lei fa un gesto più contenuto, accenna che posso pensare quello che voglio. Poi dice: «Lui complicava il vissuto degli altri». Vorrei prendere tempo. Chiedo: «Cosa vuol dire ‘complicava’?» Ha sospirato, appena percettibilmente: «Unire o dividere le persone. Questa era la sua grande occupazione quando stava qui… Lui amava molto platonicamente una ragazza, fin dai tempi della scuola. Poi si innamorò di un’altra. E quella di prima volle darla a mio marito… Infine cercò di sistemare anche me, convincendomi che dovevo innamorarmi di uno di Genova. Ecco il ‘complicava’».

Sono rimasto in silenzio, pensando alla capacità di suggestione che è necessaria per cose di questo genere; al fascino, o alla disponibilità a lasciarsi affascinare. Gliel’ho detto. Lei ha risposto: «Fascino? Aveva solo intelligenza, e fluido, forse… Però io ero immune. Proprio lui mi aveva fatto capire che non avevo solo delle gambe, ma che ero anche intelligente. Parlavamo per notti intere. Poi, al mattino, io raccordavo, sintetizzavo… Lui era un burattinaio, uno che può realizzare le cose solo attraverso gli altri, perché era un inibito». Si è voltata, e mi ha guardato con una certa attenzione. Ha detto: «Lei arriva a capire fin qui?»

«Sì, penso di sì», ho risposto. In realtà sono abbastanza stupito, non saprei dire se per la durezza delle affermazioni o per il fatto che sono pronunciate con un distacco assoluto, pacato, quasi ironico. Lei se ne accorge, insiste: «E’ sicuro di arrivarci?» Di nuovo dico: «Sì, sì». Allora ha piegato un po’ la testa, indicando che poteva proseguire: «Lui mi aveva dipinto in un modo tale questo di Genova che alla fine mi piaceva molto più di mio marito».

«Ah, allora l’altro le piaceva di più?» L’ho detto senza pensarci; mi è venuto da ridere, e ho cercato di correggere con una cosa che avesse più senso: «Volevo dire che nemmeno lei era ‘immune’». Lei ha avuto un piccolo scatto: «Ma no, che c’entra, io ero civettuola e quello di Genova era davvero uno fascinoso. Mi piaceva, e poi aveva tutta un’aureola di altre cose attorno… Insomma, lui mi ha convinto, e ha convinto anche mio marito. Io mi sono arrangiata per andare a iniziare questa tresca, e mio marito mi ha accompagnata in macchina fino a Genova. Poi all’ultimo momento sono scappata via».

Adesso comincio a mettere a fuoco le cose nella stanza. C’è un pianoforte a coda, di lato, quasi in angolo. Sulle altre pareti ci sono delle librerie basse, scure, con qualche ceramica sopra. Credo che girino anche alle nostre spalle. Dai vetri filtra un colore grigio, soporoso. Dico: «E se accendessimo la luce?» Lei si alza lentamente, dice: «Potrei provare». Così si vede il resto, in ordine e opaco, invecchiato come invecchiano i colori, dal di dentro.

Si siede di nuovo. Ho domandato se lo aveva più rivisto dopo la faccenda del matrimonio. «Sì, dopo la guerra… Parlando si ripeteva… Sa come uno che ha l’artrite?»

Faccio cenno di no. Lei si è presa una mano e l’ha piegata leggermente all’indietro: «L’ossatura un po’ si storce e un po’ si fissa. Così erano le sue parole. Cioè non era più spontaneo, era già molto prefabbricato, e quindi meno intelligente».

«Forse era solo cambiato, - ho detto. - O era successo qualcosa?»

Lei non risponde subito; riflette, poi dice: «Può darsi che si sia accorto di essere fallito». E dopo una pausa breve: «Però era un fallito da sempre».

Avrei bisogno di un tempo laterale, parallelo, che mi permettesse di continuare a parlare e contemporaneamente di appartarmi con ciascuna delle cose che ascolto, e che lei dice con una precisione e una tenerezza raggelanti. O forse potrei vedere se ci sono altre possibilità, più smussate, più controverse, della stessa frase. Dico: «Forse prima, fino a un certo punto della sua vita, si aspettava qualcosa che poi non…»

Lei mi interrompe, calma: «No, lui non aspettava. Prima viveva, era vivo dentro. Poi… Vede, questo capita a tutti, a un dato momento, solo che lui è invecchiato precocemente. Oggi molte cose a me sembrano inutili, mentre una volta era diverso. Anche cose piccole: una fodera nuova per la poltrona su cui lei è seduto ci vorrebbe. Merita ancora che io la compri?… Per lui tutto questo doveva essere accaduto molto prima, perché è invecchiato prima, e perché era molto intelligente. Lui ha capito di sé… che tutto è niente, ha capito che alla fine non avrebbe lasciato nemmeno una traccia. Niente. Scrivere non ha scritto niente. Oh sì, io ho quei tre libretti. Non servono a nulla. Se fossero stati pubblicati mentre era vivo, non si sarebbe più fatto vedere in giro, non sarebbe più uscito di casa. L’unica cosa che resta di lui sono gli amici che gli hanno voluto bene, e nei quali lui esiste ancora, come in me».

C’è un silenzio abbastanza lungo. Poi lei dice esattamente nello stesso tono di prima: «Non le ho ancora domandato se vuole il caffè». Si alza senza aspettare la risposta. Io la seguo in cucina.

Apre l’armadio in alto, tira fuori un bricchetto di ottone, col manico lungo; ci mette dentro un cucchiaio di polvere e uno di zucchero, e poi dell’acqua. Esegue ogni movimento, più che farlo; e anche quando appoggia il bricco sul fornello è precisa e lenta, come per l’incontro improbabile di due corpi nello spazio. Qui è più luminoso, e la parte finale della cucina è una specie di balconcino chiuso su tutti i lati da una vetrata. Lei cerca i fiammiferi; si ferma come se qualcosa non andasse, mi guarda: «Io le dico cose diverse da quelle che le avranno detto altri. Lei non deve dimenticare che io ero dentro a tutto ciò. Altri erano fuori, spettatori, piuttosto». Piego la bocca, senza rispondere nulla.

Accende il gas di una vecchia macchina coi rubinetti sul corrimano. La fiamma avvolge il bricco, in un modo che a me sembra eccessivo. Lei dice: «Oggi, mentre aspettavo che lei arrivasse, ho fatto una cosa che non dovevo fare. Ho bevuto un bicchiere di cognac. Una volta ero una grande appassionata del cognac, poi ho smesso… E adesso prendo delle medicine che non vanno col cognac».

Dico: «E’ preoccupata per questo?»

Lei risponde: «Oh, no».

Il bricchetto si è messo di sbieco; poi si rovescia. Escono fuori delle bolle marroni, dense. Lei lo solleva per il manico ma stacca subito le dita; il bricchetto ritorna reclinato sul fornello, come una nave in fiamme. Tolgo una presina dal muro e lo raddrizzo.

Lei va di nuovo all’armadio, prende un vassoio e due tazzine, li mette nel lavello, li sciacqua. Io sto appoggiato al frigorifero, con le mani in tasca. Guardo la cucina, e una specie di mobiletto aperto, quattro o cinque cestini sovrapposti tenuti insieme da una struttura di metallo e di plastica, come nei negozi di frutteria. Ogni cestino è addobbato con dei nastri di carta colorata, e coccarde tipo uova di pasqua. Li tocco; chiedo: «E questi fiocchi?» Lei si gira, sorride, abbassa gli occhi: «Oh, è il mio lato frivolo». Sul ripiano più in alto, tra pelati e piselli, c’è un barattolo di mangime per il gatto. Lei dice: «Sono malata di autocritica. E’ una malattia paralizzante».

Poi asciuga il vassoio, ci mette sopra il bricco e le due tazzine. Ho detto: «Lasci, lo porto io». Ripassiamo nel corridoio, dentro la vetrinetta il neon illumina qualche vaso in pasta di vetro. Ci sediamo come prima; aspettiamo in silenzio che il caffè si depositi. Oltre la portafinestra si vedono soltanto nubi nere.

Lei sospira leggermente: «Le ho detto che era un malefico, ma non lo era volutamente… E’ difficile che lei possa capire. In lui era cresciuta la forza di disporre degli altri, ma non ne era consapevole. E quando divenne consapevole non ebbe più quella forza».

Mi sono alzato, ho fatto qualche passo seguendo automaticamente i disegni del tappeto. Lei ha cominciato a versare il caffè nelle tazzine, tenendo il bricco in modo tale che né la schiuma sopra, né i fondi sotto, venissero fuori.

«Senta, - ho domandato, - cosa vuol dire ‘disporre degli altri’?»

Lei non risponde finché le tazzine non sono piene. Poi appoggia il bricco sul vassoio, si gira piano e dice: «Lei è di quelle persone che hanno bisogno di esempi». Lo ha detto come se gli esempi fossero un peso sopportabile.

«Lui poteva parlare, e dirigere, anche se dirigere non è proprio la parola giusta. Poteva farlo con Svevo, con Giotti, o con Bolaffio. Forse Svevo non lo avrebbe capito, perché non ci arrivava; era soprattutto un buon borghese. Lui però gli dava spina dorsale, lo esortava, gli spiegava che quello che scriveva aveva un senso. Però nello stesso modo riuscì a terrorizzare mia madre. Lui andava spesso dai miei genitori a Graz. Provò a convincere mia madre che poteva camminare nel buio, e mia madre non entrò mai più in una stanza con la luce spenta. Come convinse la ragazza che poi diede a mio marito a laurearsi, e le scrisse perfino la tesi. Vede, lui scrisse la tesi per lei, ma non ha mai scritto la sua. Lui viveva gli altri».

Dico: «Forse era il suo modo di essere felice».

«Felice? No… Lui… Esercitava».

Guardiamo punti diversi della stanza, o il grigio delle nubi, così compatto che è impossibile immaginarvi una qualunque forma. Beviamo il caffè. Ha un sapore di liquirizia, e lo bevo con le labbra strette e i denti chiusi, filtrando i grani che arrivano in bocca come sabbia.

«Questo è curioso, - dice lei, - quella generazione non era molto maschile. Avevano tutti dei problemi, e se ne parlava molto. C’era la psicanalisi e tutti erano attentissimi a se stessi, si studiavano e studiavano gli altri, spiegavano molto. Forse parlavamo troppo di tutte queste cose, in fondo è perfettamente inutile. Sì, la nostra generazione “ha parlato” troppo di tutto».

«Parlavate anche dello scrivere», ho detto.

«Del suo non poter scrivere? Lui la buttava più in burla, come una cosa che non vale la pena».

Me ne sto zitto, abbastanza vuoto, o distratto dalla regolarità della pioggia oltre i vetri. Lei dice: «Forse le ho descritto quello che lei non voleva. Ma deve capirlo da sé che può esistere uno così». Ho fatto un gesto, come per dire che non volevo nulla in particolare, o che non era quello il punto. Lei ha aggiunto: «Poteva essere cresciuto soltanto qua. Era un fiore di questa città, e di quella particolare epoca di questa città».

Taccio ancora. Mi sembra che «in quella particolare epoca» tutto doveva essere molto importante, e cruciale. Cioè molto sentimentale. E’ come se ci fosse una grande distanza. Ho pensato: «Ora è diverso; più solido e sobrio, con una complicatezza più leggera. Tutto è leggermente più verso i margini».

Lei si alza dalla poltrona, va alla libreria, si china lentamente. Prende una decina di libretti tenendoli in pressione tra le mani, come mattoni; li appoggia di fianco su un tavolino. Torna di nuovo alla libreria, dove nel buco lasciato dai libretti si vede un secondo gruppo di coste, più rientrate. Lei sfila lentamente un volume lungo, stretto; lo porta in qua con una certa cura. Sedendosi, lo appoggia in modo che metà possa stare sulle mie ginocchia e metà sulle sue. Mi ha guardato. Poi senza dire nulla ha aperto l’album di fotografie.

Questa volta ho avuto il tempo di prepararmi; anzi, ho messo a punto un mio sistema. E’ impossibile non guardare le fotografie ma ogni volta che lei gira pagina io sfoco l’immagine, piegando gli occhi verso l’interno, verso il naso o la bocca. Aspetto così che lei dica qualcosa. Dice sempre qualcosa a proposito delle foto che abbiamo davanti, anche se ognuna ha una sua piccola didascalia scritta a china bianca. Per esempio adesso lei dice: «Eamon Faramondi». Io Faramondi non lo conosco, e posso mettere a fuoco. Guardo l’uomo alto, ben piazzato, elegante, forse un po’ troppo convinto di essere fotografato. Le altre due foto, dato che ogni foglio di cartoncino marrone ne ha tre, sono «la casa di Faramondi, a Firenze». Lei gira pagina; io aspetto, come prima. Dice: «Montale, accanto al grammofono di Faramondi». Si vede un giovane con le guance paffute e i baffetti. In fondo al vestito scuro, con i baveri larghi e la cravatta, spuntano le pantofole. Lui le guarda con una certa perplessità.

Pagina nuova, solito procedimento. Solo che questa volta è un po’ più lungo, perché lei ha aspettato prima di dire: «… Mio marito». L’uomo, in divisa, in una fotografia è da solo e nelle altre con dei soldati. Fa figurare l’uniforme sabauda, e tiene ben teso il giro della mantella attorno alle spalle. Gli altri sono un po’ ripiegati dentro flanelle gonfie, stazzonate, montanare. Dico: «Un bell’uomo». Lei dice: «Sì. Bello di fuori». Aspetto, senza vedere. Ogni tanto sono preoccupato e dispiaciuto all’idea che lei possa accorgersene. Poi penso che non è possibile, siamo troppo di profilo.

Lei dice: «Eccolo». E’ inequivocabile, e io ho sfocato al massimo. Il foglio diventa una specie di guazzo scuro, moltiplicato e indistinto; in certi momenti, per lo sforzo, sento una vibrazione opaca nelle orecchie. Lei ha detto piano: «Aveva degli occhi neri grandi, bellissimi. Come quelli di Kafka. Solo che a me piacciono gli occhi celesti. Se non sono celesti per me non sono occhi». E ha girato pagina.

Forse, se riuscissi a capire quale è il criterio nella successione delle fotografie, potrei essere più disteso. Sono passati dei carri allegorici e grandi maschere di cartapesta, un carnevale sul lungomare. Poi un tavolino con sopra dei pacchi infiocchettati, e lei ha detto: «I miei regali di Natale». E’ passato un lume razionalista, con bracci perpendicolari e cubi, appeso ad un soffitto: «Questo l’ho disegnato io».

Uomini abbastanza fatali e sorridenti vengono annunciati non con il loro nome ma con «Questo mi piaceva molto» oppure «Questo era uno molto poetico». Così mi sto facendo un’idea del suo tipo: col volto duro, un po’ intenso, un po’ tenebroso. Naturalmente è passato anche lui, più volte; ma non vedevo, e non potrei dire che cosa abbia giustificato, a un certo punto, l’accenno alle sue «labbra leggermente perverse».

Se lei non parla preferisco non rischiare; e se l’annuncio è generico come adesso - ha detto semplicemente: «In viaggio» - opero con molta lentezza. Nella prima foto c’è un’automobile, una guida interna. Nella seconda l’uomo che ho già visto in divisa è in borghese, col piede sul predellino e un libretto in mano; lei dice: «Mio marito studia le istruzioni». Nell’ultima fotografia la macchina è sullo sfondo di una statale di montagna, e lei, in primo piano, è appoggiata a un albero. Ha detto: «Andavamo a Genova».

Ogni volta che lei dice: «Il poeta», metto a fuoco senza problemi, dev’essere Montale. Lui è quasi sempre girato, o con gli occhi bassi, o alti; guarda come se da un’altra parte fosse appena successo un piccolo, riparabile disastro. Lei rimette un lato della fotografia nel triangolino da cui è scivolato fuori. Dice: «Non era molto intelligente, o almeno non lo sembrava. Stava quasi sempre zitto. E quando parlava insisteva sulle stesse cose. Non era un conferenziere e nemmeno un buongustaio. Era soltanto un poeta».

Lei da sola o con qualche uomo sullo sfondo di città nordiche; il panorama è privilegiato sulle figure molto piccole, appena sufficienti per indicare «siamo stati qui». Io non riesco a capire se lei era bella. E’ la cosa che più mi incuriosisce, e mi inquieta, adesso.

Mi sono concentrato sulla caviglia che affiora da un vestito lungo, sottile e perfettamente rotonda. Ma è appena visibile. Più avanti, nelle foto al mare, lei ha i capelli lunghi bagnati e un costume molto scollato, aderente. Ho indicato una seconda figurina femminile, accanto a lei e al marito. Ha detto: «L’altra». E dopo un attimo: «Mi somiglia, no?» Le somiglia, ma è appena più alta e solida; sono sedute di fianco, quasi nella stessa posizione. Lei ha voltato pagina di colpo, ha ripreso il tono: «Qui ho fatto il corso di perfezionamento di danza». Si vede un castello tra gli alberi fitti. «Lei allora…» ho cominciato a dire. «Sì. Io ballavo, anche», ha concluso abbastanza seccamente.

Sento dire: «Gambe per una poesia». Non so se guardare. Guardo. C’è una sola fotografia al centro del cartoncino. Lo sfondo è indefinito, l’inquadratura dalla vita in giù. Dalla gonna plissettata escono due gambe in calze bianche, e finiscono in un paio di scarpe egualmente bianche, a mezzo tacco. E’ un’immagine quasi perfettamente astratta. Le gambe sono lunghe e molto belle, come ricalcate dalle calze. Leggo sotto la foto. C’è scritto «Dora Markus».

Nella pagina dopo, seduta e incappottata in un caffè, c’è una donna tutta intera, col viso segnato, vecchio. Lei dice: «Tutti facevano attenzione solo alla metà più bella».

Gira l’ultimo foglio, vuoto. Chiude la copertina, tenendo ferme due o tre fotografie staccate che restano lì in mezzo. Mi guardo le mani sporche di polvere. Lei dice: «Ah, la polvere. Non le fa male». Ho anche un po’ di mal di testa, forse per aver sforzato gli occhi in quel modo.

Lei si alza, va alla libreria, rimette l’album in fila con gli altri. Prende i libretti dal tavolino e richiude l’apertura. Ho domandato se era lei che faceva le foto. Ha risposto: «Sì, ho vinto anche dei concorsi». E’ tornata verso il tavolino e da un cassetto ha tirato fuori una fotografia stampata molto grande. Si è voltata, sollevandola davanti a sé: si vede la cornice di una porta aperta su una veranda, con palmizi oltre la ringhiera. Ci sono due poltrone di vimini in un riflesso mediterraneo, su una è appoggiato un accappatoio. Lei dice: «Secondo premio nazionale».

Adesso è di nuovo piegata sul cassetto, guarda le fotografie senza tirarle fuori, riconoscendole da qualche dettaglio ai bordi. Poi si gira verso di me, tenendo le mani nel cassetto, e sorride: «Vuole vedere uno spogliarello?»

Sorrido anch’io, dico di sì. Mi alzo, vado al tavolino. Lei mi passa la foto rovesciata. La giro. C’è una ragazza coi capelli lunghi, sciolti, e indosso solo una tunichetta cortissima. Si vedono le gambe ben disegnate, i piedi nudi, le braccia e le spalle magre, tese. Avrà più o meno una ventina d’anni. E’ appoggiata di schiena a una parete a fiori, nella luce laterale di una finestra, riflessa dal bianco del letto. Il viso è ripiegato verso i seni, piccoli e alti; gli occhi sono socchiusi, guardano giù, con un pudore ironico. Lo stesso modo in cui lei li tiene adesso, mentre le restituisco la foto lentamente, senza dire nulla.

Ha rimesso a posto la fotografia.

Io ho guardato l’ora e mi sono reso conto che è tardissimo. Ho detto: «Devo andare». Ho chiamato un taxi, chiedendo a lei l’indirizzo esatto, coprendo la cornetta con la mano.

Uscendo dico ancora: «Mi dispiace». Lei guarda all’altezza dei baveri dell’impermeabile. Dice: «Solo una falda deve stare fuori?» Ho guardato anch’io, ho riabbottonato giusto.

 

Non piove più, fuori tutto è lucido e contrastato, con nubi veloci e rosse in alto. In taxi chiedo all’autista di fare presto; lui borbotta qualcosa, però la macchina scende rapidamente dalla collina. Sul lungomare la “Ile d’Oléron” è staccata dal molo, sta partendo; un grosso pesce messo di tre quarti.

Corro nell’atrio della stazione, corro rumorosamente sulla pavimentazione di gomma, guardando di sfuggita le tabelle, senza fermarmi. Il treno ha gli sportelli già chiusi, e sul fondo c’è una luce verde. Mi aggrappo a una maniglia mentre il treno comincia a muoversi, e il capostazione che sta tornando indietro grida: «Ma cosa fa?»

Sono rimasto non so quanto appoggiato a una porta di intercomunicazione, nella piattaforma. Ho pensato: «Questo modo di correre riempie tutto. Toglie spazio all’immaginazione». Dopo un po’ ho cercato un posto tra le file di una carrozza quasi vuota.

Guardo fuori dal finestrino, con una generica sensazione che qualcosa stia cambiando. Ho pensato: «Sono venuto qua per capire perché uno scrittore non ha scritto. Ora ogni cosa si dilata».

Di fronte alle cose che si dilatano divento teso. Quando sono teso cerco di dormire.

 

***

 

4.

 

Alcuni di noi furono dei suoi personaggi. Lui se ne liberò lasciando questa città; però li perse, e fu una delle sue innumerevoli perdite. Lei sa che ci si libera dei personaggi solo attraverso il racconto, e forse neanche. Con noi aveva fatto una cosa diversa, e invecchiando potemmo riconoscerci: non descritti in una pagina, come sarebbe stato normale, ma messi in movimento da lui. Trovava sempre il punto da cui dare progressione alle situazioni, o alle persone. Forse per questo non è mai più tornato, o è tornato di nascosto, e comunque non l’abbiamo più visto. La gente che scriveva, qui, lo ascoltava parecchio, ma lui si interessava soprattutto a noi, perché alla fine si è sempre annoiato delle persone che scrivevano, come se da loro si aspettasse di più, su un altro piano. Forse era deluso che ad un poeta non corrispondesse un brav’uomo. Lui diceva: «Un tizio vive e fa bei versi. Ma se un tizio non vive per fare bei versi, come sono brutti i versi del tizio che non vive per fare bei versi». Forse per questo spariva. E’ sempre sparito. Con le donne si comportava da amico non da amante. L’amico si mette fuori della competizione e conserva senza mai sciuparle tutte le possibilità, anzi le deposita all’inizio come garanzia, e la sua seduzione è lenta e salda. Un amico come lui, poi! Le parlo di come si comportava con le donne perché è la cosa che più somiglia a come si comportava con lo scrivere. Tutto si svolgeva attorno e a fianco, anche se credo che per lui tutto fosse dolorosamente centrale. Forse lei preferirebbe che si fosse trattato di un singolare ipogeo nella parabola dello scrivere, o vorrebbe trovare immagini del cerchio, del centro, della circonferenza, o dei pieni e dei vuoti. Ma per lui tutto doveva servire a saper vivere: troppo essenzialmente, troppo autenticamente e troppo direttamente perché potesse “anche” scrivere. Aveva imparato a scrivere a macchina battendo ogni giorno parecchi fogli. Credo che cercasse un lavoro. Poi conservò le pagine e le chiamò «La lotta con la macchina da scrivere». Cercava di scrivere veloce, di scrivere e basta; scriveva tutto quello che gli veniva in mente, l’importante era riempire i fogli: era ironico, e molto sentimentale. Scrisse anche «mi diverto un mondo e mezzo» o «la mia celebre mania di interessarmi delle cose degli altri per mancanza di mia vita». Avrà avuto una ventina d’anni o poco più, ma si vede già che sarebbe stato un amico dello scrivere, e non uno che scrive. Essere amici dello scrivere è complementare allo scrivere solo per gli amici. Quante lettere! Lo scrittore di lettere non si mette a repentaglio nella forma, dato che la forma della lettera non è in quello che c’è scritto, ma in una relazione di vita. E’ l’unico scrittore che si è già guadagnato il suo lettore, probabilmente con non meno fatica, anche se su un altro piano. Scriveva poesie come regali per le sue amiche; era come se prendesse la forma per gioco, dato che è indubbio che la conoscesse. E’ strano, uno che poi avrebbe scritto un libro incompiuto sul grande viaggio, uno ironico come lui, era talmente austero da non prendere sul serio, o con una leggerezza diversa, la peripezia della forma. Forse si può decidere di scrivere soltanto note in fondo, ma il rischio è sempre sulla pagina. Alcuni di noi erano dei suoi personaggi, e lui ci ha cambiati, sebbene qualcuno può pensare che nel proprio caso non fosse del tutto necessario. Magari anche lui sarà cambiato, col tempo. Ci ha lasciati come una cosa vecchia e insopportabile. Credo che sia il disagio di chi si rinnova continuamente, per strappi; il passato gli appare come una pelle secca, vuota di sé, inammissibile. In questo senso è stato un errante, anche se non saprei dirle se fosse qui l’errore che quel capitano si chiedeva sempre dove fosse.

 

Sono nel mare, in pieno sole, disteso sulla tavola del windsurf che non ho saputo utilizzare meglio. Ogni tanto immergo le braccia per darmi una leggera direzione, e anche i pensieri vanno avanti con spinte grosso modo uguali. Mi sembra di venire a Trieste un po’ per dovere, e ho già qualche abitudine: delle strade soltanto alcune, così dei caffè e degli autobus, quasi sempre gli stessi indirizzi e gli stessi numeri di telefono. Giornate come questa iniziano con la determinazione paziente del ricalco. Anche stamattina, appena arrivato, ho fatto le solite chiamate dalla stazione. Le conversazioni diventano più lunghe e vaghe, segno che finalmente non hanno più argomento.

Non riuscivo a immaginare questa città con l’estate, o forse avrei bisogno ancora della operatività dei mesi freddi; però mi dispiaceva anche di essere così fuori tono rispetto alla gente che incontravo per strada. Ho comperato un costume da bagno e un asciugamano, prendendoli nelle ceste di vimini di un grande magazzino, ho fatto il lungomare verso il castello e mi sono sdraiato nella piccola striscia di sassi, finalmente contemporaneo come gli altri.

Prima guardavo soltanto i windsurf sul mare, poi ho cercato di capire da dove partissero; alla fine ne ho affittato uno. Mi hanno aiutato a metterlo in acqua e hanno retto la vela finché sono salito; mi hanno dato una spinta sufficiente. Ho staccato una mano per fare cenno che tutto andava bene: ero già sbilanciato all’indietro e ho terminato l’arco naturale. Dopo ho provato ancora a rimettere in equilibrio tutte le parti, l’asse, la vela, e me stesso; anche quando ci sono riuscito è stato per pochi metri, e in cerchio. Ogni volta sono tornato in acqua come una lancetta ritorna a zero. Ho appoggiato la testa sul windsurf, sfinito; sono andato a riva e ho chiesto se potevano tenersi la vela.

Adesso sono steso di schiena sulla tavola, abbastanza al largo, con la luce arancione e calda che passa attraverso le palpebre socchiuse. Guardo gli aeroplani minuscoli nel cielo, quasi senza rumore. Sono tranquillo, e superficiale su chissà quanti metri di profondità… E’ proprio questo il punto: quanti metri? e con che cosa sotto? C’è sempre un momento quando sono al largo in cui succede; non so quanto è profondo qui, potrebbe esserci una secca o un basamento sottomarino, e magari adesso nuotando col piede potrei toccare un metallo arrugginito, un’ombra visibile e mossa, la punta di un’ala fracassata. Avvertirei sotto la pelle tenerissima dei piedi lo spessore gelido di una lamiera piena di buio, di una carlinga triste, piegata; scivolerei sul fianco di un relitto disperso, mai localizzato, dunque ancora con tutti i resti o con quello che può restare dopo un’immersione così prolungata…

Sulla tavola mi sento al sicuro, ma vado piano. Ho tirato su il petto e la testa, mi sono messo ad agitare le braccia nell’acqua, mandando molti spruzzi; remo con gli occhi chiusi, più forte che posso, concentrandomi nello sforzo fisico per non pensare ad altro. Sento le voci sempre più vicine, l’acqua diventa più calda; adesso scalcio anche con i piedi, finché c’è un attrito dolce e la tavola si ferma.

Sono a riva, seduto a cavalcioni della tavola. Mi guardo i piedi contento nell’acqua bassa e trasparente.

 

Ho riattraversato la grande piazza del municipio tenendomi sempre sul lungomare. Entro nel caffè della riva dove ho appuntamento con l’Angelo. Ora la situazione rispetto alla stagione è capovolta: loro hanno abiti interi e cravatta, leggono il giornale nella penombra di un mese qualsiasi; io ho ancora i capelli bagnati e l’asciugamano sotto il braccio. Mi sono scusato per questo, sedendomi al suo tavolo. Lui alza appena le spalle, dice: «… Tutti defunti. Qui è pieno di defunti. Disperati…» Faccio un gesto per attenuare; ma il suo sorriso è lampante, soave, e include naturalmente anche se stesso.

Effettivamente c’è qualcosa di strano nella lunga tavolata là in fondo, con i vecchi seduti con o senza tazzine davanti, ma soprattutto spostati rispetto all’asse di ogni possibile conversazione tra loro. Lui dice: «… Molti caffè una volta. Ora ne sono rimasti pochi… Ce n’è qualcuno in cui fanno riunioni culturali. Sa, in questa città ci sono ogni pomeriggio un paio di conferenze…» Apre il giornale, guarda che cosa c’è oggi. Ho domandato: «E lei ci va?» Lui alza gli occhi oltre la pagina, con un sorriso largo: «Noo…»

Ripiega il giornale diverse volte, con cura; lo mette in tasca. Indica i fogli che ci sono sui tavoli accanto, fermati alle stecche. Dice: «… Come si fa a leggere il giornale degli altri?… Devo pensare che il giornale è per me. Non posso vederlo già sfogliato…»

Ha voluto sapere le persone con cui avevo parlato e ha fatto qualche commento, non più di una parola o due per ciascuno. Dopo un po’ sorride: «…E com’è, com’è lo stato della memoria?…» Penso ai significati che può avere la domanda, senza trovare quello giusto per tempo; ho fatto un cenno vago. Mi sembra anche che gli intervalli che lui si prende siano meno lunghi rispetto al nostro incontro precedente. Dice: «…Sa che una volta non ero capace di ripetere una cosa che avessi già detto?… Parlavo con una persona nuova, che non poteva saperlo, ma mi sentivo lo stesso a disagio… Poi ho imparato a ripetermi. E’ bello. E’ come prendersi l’onesto interesse su quello che si ha… Però una cosa ripetuta la dico come se non fosse più mia…»

Credo che non si aspettasse una risposta e sono rimasto in silenzio. Ogni tanto guardo il vestito grigio cangiante, o le cifre sulla camicia quando prende le sigarette dalla giacca. Ha domandato: «…E lei dove pranza oggi?» Dico: «Non so, non ho programmi». Ha messo l’indice piegato davanti alla bocca, ha detto con cautela: «…Potremmo mangiare un pescetto assieme…» Ho risposto che andava bene.

Usciamo dal caffè, camminiamo sul lungomare fino alla fermata di un autobus. Si siede di lato al finestrino, io resto in piedi; ogni tanto mi chino per vedere lo stile dei palazzi, attraverso il quale lui indica il passaggio dal quartiere teresiano a quello giuseppino. Stiamo andando in quella parte della città che io penso come «verso la Jugoslavia». Lui guarda fuori, le strade poco trafficate e il sole; ha la fronte appena bagnata di sudore.

Facciamo ancora un buon tratto a piedi senza parlare; entriamo in un ristorante con una terrazza a palafitte, senza gente sulla riva. Scostando la tendina di lamelle lui dice: «Questo posto non mi ha mai dato dispiaceri».

Ha spinato il suo pesce con molta proprietà; aspetta senza commenti che io finisca di spinare il mio. Quando ho cominciato a mangiarlo ha domandato: «… Onesto?» Ho detto che era buono, l’ho detto anche al ristoratore che è venuto a controllare. Parlano tra loro, ridendo e alzando le spalle. Io guardo la donna con la cuffia in testa che batte gli scampi col coltello, di piatto, su un ceppo da macelleria.

Lui ha ripreso con me il discorso sulle malattie che aveva appena concluso col ristoratore. Dice: «…Mi sono sposato tardi, mia moglie è morta qualche anno fa… Vado avanti lo stesso, come una nave con un siluro nella pancia…» Ha fatto una grande risata e ha bevuto. «…Stamattina mi telefona una mia amica: ‘Vado in Cina, con un viaggio organizzato’… Io potrei andare in Cina secondo lei?» Ho detto: «Beh, sì». Dopo un po’ lui ha aggiunto: «…Ma vorrei andare in una vera casa cinese. Mangiare con dei cinesi. Andare al cinema con i cinesi… I musei mi fanno fatica, c’è troppo da vedere come d’estate sulla spiaggia, ed è difficile scegliere… Inoltre non sono sicuro che mentre io guardo i quadri loro non guardino me… Bisogna avere qualcosa da fare quando si va all’estero, bisogna andarci con un lavoro, non per diporto. Allora è sensato…» Mi ha guardato: «… Lei crede che io abbia qualcosa da fare in Cina?» Ho risposto: «Non so, è un paese molto vasto».

Lui fuma con le braccia conserte, segue il movimento delle onde basse attorno ai pali della terrazza. Io sto zitto. Nonostante una leggera sproporzione credo che ci sia quello che deve esserci tra due persone che pranzano insieme. Lui dice: «…Se metto una mano nell’acqua… Lei si immagina? Qualcosa che comincia qui e finisce al Cairo, o a Tripoli, o a Tangeri, dove potrebbe esserci qualcun altro sulla riva, anche lui con le mani in acqua… Sì, credo che sia questo il mio modo di viaggiare…»

Ho avuto la sensazione che avrei dovuto dire qualcosa di me, sinceramente; o almeno qualcosa di sincero sul viaggiare. Poi ho sperato come sempre che attraverso i gesti e il tono fosse passato più di quanto sembrava. Quando lui ha insistito per pagare il conto ho pensato a come avrebbe giudicato, nell’economia della sua giornata, il denaro e il tempo spesi in questa occasione.

Tornando a piedi sul lungomare ho parlato molto. Lui mi ha interrotto solo quando abbiamo raggiunto due ragazze. Camminiamo dietro a loro, a una certa distanza; lui descrive, a bassa voce, le differenze tra le donne slave e quelle italiane. Ha un sorriso quasi infantile.

Con l’autobus arriviamo in centro; aspettiamo, alla stessa fermata, che passi quello con cui lui deve andare a casa.

E’ salito aggrappandosi con tutte e due le mani, piccolo e pesante. Prima che l’autista richiudesse la porta si è girato, ha fatto un sorriso e un sospiro. Dopo ha salutato ancora attraverso il vetro, sempre più lontano.

 

Arriva il momento in cui non sento più la curiosità di vedere qui. La città è in parte familiare e in parte estranea, cioè agevole e indescrivibile come ogni altra.

Più avanti smetterò di venire, senza averlo deciso; rimandando di settimana in settimana, la mattina stabilita mi sveglierò troppo tardi per prendere il treno, e nei giorni successivi sarò quasi convinto di esserci stato. Anche la leggera ansia per tutto quello che non ho capito si sarà appianata. Mi sembra di seguire il percorso che va dalla carta all’esperienza, sebbene non so che tipo di percorso sia. Probabilmente sarò partito da nomi che risuonavano nelle pagine, in piano, ormai puri nomi, astratti e potenti; poi sarò andato verso la voluminosità rotonda e ambigua da cui furono distaccati al momento del ricalco. E di nuovo avrò cercato il dovere della carta, reinventando gli angoli di rappresentazione. Deve essere vero che non esiste più il viaggio o il pellegrinaggio, ma solo la pendolarità; come queste mie giornate che durano dalla mattina alla sera, circondate e protette dal sonno. Forse avrei potuto dirlo all’Angelo, quando lui ha parlato dei modi di viaggiare.

Così adesso è ancora per fedeltà alla carta che osservo la donna che va su e giù nella piazza del municipio, e che in un primo momento avevo creduto fosse un’allucinazione. E’ giovane, ma è come ottant’anni fa: con una camicetta leggera di pizzo fermata al collo da una spilla, e una gonna lunga a balze, ogni balza bordata da un nastro colorato. L’andatura è determinata dall’abbigliamento e dal cappello; ruota di qua e di là un ombrellino, si muove per essere guardata e tutti la guardiamo. Però è un sollievo pensare che una nostalgia così coerente con questa città non mi appartiene affatto.

 

Telefono alla signora dei sestanti per salutarla. Lei dice: «Ha tempo di bere un tè?» Più tardi, nella sua casa, dice ancora: «Mi tiene compagnia di là mentre lo preparo?» Entro in una cucina grande, con i ripiani sgombri illuminati ciascuno da una propria luce, circoscritta, e sportelli scuri che rendono invisibile ogni accessorio. Mentre lei prepara dico: «Mi piacerebbe cucinare qui». Lei dice: «E’ un cuoco?» Ho risposto di no, ridendo. «Però mi piacerebbe comprare le verdure, guardare sui diversi banchi la consistenza delle foglie, poi tornare indietro dove ci sono quelle più convincenti, controllarle una a una e fare storie sul prezzo». Lei dice: «E perché?» Dico: «Nella città in cui abito fare storie, su tutto, è una specie di dovere e molti lo indicano come la prova che ‘c’è ancora un rapporto umano’. Io sarei più per una spesa senza notizie di carattere personale, solo che lì è un’arte comperare delle cose mediocri come se fossero straordinarie, e come se ti fossero date non perché le paghi ma ‘proprio perché sei tu’».

Lei mette la teiera sul tavolo, con le tazze e i biscotti. Si siede, dice: «E poi con le verdure che cosa ci farebbe?» Ho detto che le avrei curate e pulite, e lasciate a bagno per tutto il pomeriggio; poi avrei aspettato che si cuocessero, davanti a un piccolo televisore.

Lei dice: «Ma è vegetariano?» Io non pensavo che questa storia delle verdure sarebbe andata così in là, e adesso mi trovo imprigionato in un paragone contorto tra la cottura della carne e quella delle foglie, sospeso nel vuoto, senza idee. Alla fine dico: «C’è tutto un equilibrio tra le fibre e l’acqua». Lei si mette a ridere, poi dice più seria: «E sarebbe contento?» Ho alzato le spalle, ho detto: «Mah, la giornata avrebbe il ciclo della cottura».

Lei ha scosso la testa: «No, intendevo dire… per esempio, come apparecchierebbe per lei solo?» «Con un certo riguardo», ho risposto. Lei ha insistito: «Come se ci fossero altri? Con la tovaglia e il pane già tagliato nel cestino?» Ho riflettuto, ho fatto un gesto riassuntivo: «Credo che bisogna essere molto formali nel mangiare da soli». Lei dice: «Quindi preparerebbe prima, in tavola; non si alzerebbe ogni volta per prendere dal frigorifero quello che serve, mangiandolo così com’è?» Ho detto: «Ma come, se ho appena passato un pomeriggio a preparare le verdure?» Poi ho aggiunto che dipendeva dalle circostanze, non sapevo, non so. «E guarderebbe la televisione mangiando?» Dico: «Sì, tengo sempre la televisione accesa, ma senza la voce. Mi serve come una volta mi serviva la musica, solo che adesso preferisco immagini di fondo».

Beviamo il tè in silenzio. Poi lei spiega con molta calma: «Non ero abituata a stare a tavola da sola, e nemmeno a guardare la televisione mangiando… Non riesco a distrarmi dal rumore delle posate. Mi sembra di vedermi mangiare, e allora mi sembra anche che il tempo non passi mai… Se non ci fosse la donna che prepara tutto, credo che mangerei qualcosa in piedi e basta». E’ rimasta un po’ soprapensiero, poi ha aggiunto: «Anche entrare in una stanza e vedere che nessuno ha toccato nulla… Però vado via spesso, in altre città…»

Sento che il discorso sta deviando, e forse preferirei che rimanesse circoscritto alla cucina. Poi, parlando delle città, lei diventa più conviviale e distesa, o forse è il benessere dell’oggettività, o l’illusione delle cose che ci sono comunque, per tutti, e con tutti.

Poi sarei rimasto a parlare, ma è arrivata l’ora del treno.

 

E nel treno tre fatti, probabilmente dello stesso tipo, anche se in un modo che non riesco a decifrare. Prima di tutto il bambino che muove su e giù contro il vetro un suo trenino di plastica, e forse ottiene così l’infantile pienezza di essere dentro qualcosa e continuare a possederla dal di fuori. Gioca abbastanza concentrato, però il modellino potrebbe compensare la perdita di una forma esterna, non più visibile. Lui lo usa spontaneamente e nel modo più perfetto, com’è il caso di un trenino nel treno.

Poi il fatto che il bambino e la madre, e io, siamo in quella parte del vecchio rapido che fu pensata come un salottino, con tre o quattro poltrone e un bancone di legno chiaro che dev’essere stato un bar e che ora è perfettamente vuoto. I treni più belli sono quelli che hanno qualche carrozza con la forma della casa; il mobilio è davvero mobile, come l’immobile stesso, e dunque tutto si muove e viaggia, ma la posizione del corpo non segue le file, non è da viaggio, è rilassata e con l’angolatura discontinua, da casa.

Infine, quando passiamo nel pezzo stretto tra le rocce e il mare, all’uscita dalla città, una sciabolata di luce abbaglia il finestrino, e per un istante disegna a terra i contorni delle cose. Ho guardato fuori il faro, bianco e monumentale: si poteva immaginare la traiettoria di quel lampo fino agli occhi in mare, e come lì sarebbe stato riconosciuto dalla periodicità, dal tipo e dal colore della luce. Il navigante segue il faro calcolando continuamente la distanza; è un buon modo, credo quello di avvicinarsi alle cose misurando sempre quanto se ne è lontani.

Stupefatto, il bambino ha guardato anche lui il faro e io gli ho visto gli occhi di profilo, la pallina trasparente con l’iride piatta, una specie di cartoncino colorato alla base di una bolla di vetro. Mette sempre un leggero brivido vedere che anche dentro gli occhi non c’è assolutamente niente. Per questo ho chiuso i miei e mi sono addormentato.

 

***

 

5.

 

Le scritte luminose si sono spente adesso, la voce automatica della hostess ha ricordato dove e come si può fumare; slaccio la cintura e spingo leggermente indietro lo schienale, tra mani che si sollevano per regolare le bocchettine dell’aria fredda e innaturale o accendono sigarette «finalmente» o cercano nella tasca del sedile davanti qualunque cosa da leggere, anche i depliant interni con le silhouettes e i salvagente. Quando l’aereo è così grande, con scompartimenti protetti da tende, motori appena percettibili e i finestrini piccolissimi e lontani dalla fila centrale in cui sto, potrebbe essere in fondo qualsiasi altra cosa.

Molto più avanti, nel colore celeste e grigio della cabina, un comandante di cui ci è stato detto il nome starà guardando sulla consolle la pallina dell’orizzonte artificiale che torna lentamente in piano, solidale con la sagoma disegnata dell’aereo, e con l’aereo stesso, tutti in un volo uniforme e rettilineo dopo una lunga salita (quando la hostess è passata per il corridoio con una camminata da montagna). Lui, o il suo secondo, avranno preso la radiale 292, un’uscita standard sul mare da Roma Fiumicino; dopo quaranta miglia avranno virato a destra, sul punto Alpha, per circa 23 gradi, quanti ne occorrevano per imboccare quella linea ideale, spostata di 315 gradi rispetto al Nord magnetico, che un segnale in altissima frequenza e dunque imperturbabile dal cattivo tempo traccia tra la stazione Vor dell’Elba e la prua dell’aereo. Avranno fatto attenzione a come si consumava via via realmente quella retta ideale, a 800 chilometri l’ora, a 31000 piedi di quota; avranno seguito i numeri decrescenti sul Dme, il misuratore di distanza dal Vor, fino allo zero apparso esattamente sopra l’Elba. Poi con una virata a sinistra di soli sette gradi, così futile che nessuno di noi se ne sarebbe accorto, avranno preso la nuova radiale 322 che va dalla loro cloche al Vor di Torino. Del resto tutti gli aerei vanno nel cielo lungo queste corde tra stazioni, distanziati e intervallati come carrelli di una funivia.

Passano sui punti intermedi; il comandante, o più probabilmente il secondo, avrà aperto la carta e controllato le distanze parziali: 25 miglia tra Mauro e Corner, 55 tra Corner e Yankee, un triangolino immaginario poco più a sud di Genova. La carta sarà stata una sezione, il foglio dell’Europa Centrale della più generale e mondiale carta di navigazione aerea. Questa è basata sulla più antica Carta di Mercatore, la carta con cui si costruiscono quasi tutte le altre, dato che si può immaginare come la proiezione della terra su un cilindro tangente alla sfera dell’equatore, sul quale il mondo tagliato con le forbici venisse arrotolato e poi srotolato e messo in piano. I meridiani restano equidistanti; i paralleli si piegano convessi verso i poli, bocche sempre più sorridenti al Nord e sempre più tristi al Sud. Ma la Carta di Mercatore non è una proiezione geometrica, è inventata con un calcolo preciso, e con una matematica quasi perfetta. Il suo secondo nome è Rappresentazione.

Loro, ripiegata la carta, si saranno congedati dal controllo di Roma e annunciati a quello di Milano, seppure per un passaggio così distante. Avranno salutato con la sigla che è dipinta sull’ala, I-DOFN; e siccome detta così poteva risultare incomprensibile e c’è un accordo sul modo di sillabarla, si saranno presentati come India Delta Oscar Foxtrot November, e dall’altra parte qualcuno avrà apprezzato la correttezza della formula.

Poi avranno selezionato la radiale del Vor di St-Prex, una stazione al di là del Monte Bianco, e anche quella sarà stata una virata leggerissima, appena nove gradi a destra; è un viaggio quasi rettilineo, anche se non si segue più una rotta perfettamente meridiana, come una volta. Sopra ogni Vor regoleranno di nuovo gli strumenti, con la soddisfazione che danno movimenti misurati attorno ad interruttori di precisione; al centro, sotto l’anemometro, l’orizzonte artificiale e l’altimetro, avranno regolato lo strumento molteplice che trasforma i segnali radio in una rappresentazione pittorica della situazione. Lì la radiale sarà diventata ogni volta visibile come un indice verticale, una barretta arancione sulla destra; lì in particolare avranno guardato i loro occhi, controllando che la sagomina dell’aereo fosse sempre parallela a quella barra, e dunque che tutto fosse in rotta.

Certamente potrebbe accadere anche adesso, anche qui; sebbene come somma di circostanze, cioè come sempre accade. L’avaria di alcuni strumenti da cui ricavare indicazioni indirette, e loro non se ne accorgerebbero; la richiesta del controllo di Ginevra di scendere di quota per mantenere la separazione verticale con un altro aereo; il temporale tra le nubi del Monte Bianco, sulle quali loro si stanno abbassando; nel temporale un improvviso calo di pressione, e l’atmosfera improvvisamente rarefatta come in alta quota; l’altimetro ne risentirebbe, dato che funziona in base alla pressione esterna e non all’altezza, e indicherebbe cifre immaginarie e irreali. Loro volerebbero tra nubi e pioggia ben al di sotto dei 18500 piedi che la carta indica qui come tassativi per scavalcare la vetta con un buon margine. Forerebbero le nubi di colpo; a 800 chilometri l’ora relativi al suolo il tempo non è frazionabile in alcun movimento; forse intuirebbero oltre il parabrezza e i tergicristalli velocissimi una massa bruna e bianca, e quell’immagine ipertesa dall’adrenalina resterebbe nei loro occhi, se è vero che la retina trattiene l’ultima visione.

Per noi sarebbe solo un fragore forte, molto forte, troppo forte perché anche questa volta i danni siano riparabili. Vedremmo… No, non vedremmo nulla, nemmeno il bagliore della materia; tutto di noi, compresi gli occhiali, andrebbe avanti a 490 miglia orarie, mentre il resto fuori e attorno è immobile, abitualmente. Occorrerebbe un altro punto di vista, successivo e tecnico, dal quale il nostro urto contro l’oggetto più vicino verrebbe definito semplicemente un G 20, o un G 22, cioè ventidue volte la nostra corporale gravità; a quella pressione gli spazi tra le cellule si sarebbero modificati notevolmente, aumentando o comprimendo gli intervalli in un generale mutamento della coesione, in una disposizione inedita, e alla fine si sarà trattato soltanto di una piccola rivoluzione della mia forma complessiva, in un mare di camicie, pigiami e samsonite divelte.

Invece il Monte Bianco è lontanissimo; loro, in cabina, hanno raggiunto e superato i Vor di Rolampont, Châtillon, e Boulogne e adesso sulla Manica compensano accuratamente lo sbandamento dovuto al vento; sono già sotto controllo finale di Londra Heathrow. Prenderanno la radiale 289, un ingresso standard per chi viene dalla loro parte; poi regoleranno lo strumento sullo zero reading, cioè sulla lettura zero, quando la barretta delle ascisse è perfettamente ortogonale a quella delle coordinate. Guarderanno le spie, ascolteranno il bip bip continuo e sapranno di essere perfettamente nel sentiero di discesa, sempre più giù, piano; sempre più allineati, fino all’imboccatura della pista da dove il segnale parte, e cessa ora che vi passano sopra.

E poi siamo atterrati come sempre: con un sobbalzo e un sospiro.

 

Seguo gli altri lungo il tubo di uscita dall’aereo, nella comune perplessità di essere in un luogo diverso da quello di partenza. Attraversiamo in silenzio i condotti gialli e lucidi, non orizzontabili rispetto ad alcunché: all’aeroporto, alla città o alla luce. Aspettiamo allo slargo dei bagagli, guardiamo tutti la valigia che gira dimenticata; qualche attimo dopo diventa invisibile nel nuovo flusso di bagagli.

Passo i controlli, seguo le indicazioni; ad ogni svolta il nostro gruppo si dirama formando un’istantanea genealogia. Dopo le scale mobili resto fermo sul tapis roulant; scendo ancora, fino alla metropolitana. Sul pannello con la pianta delle linee scelgo il mio percorso, lungo i lati più a sinistra e più a sud del rettangolo. C’è un’ultima galleria poi la metropolitana corre all’aperto nella luce contrastatissima di un tramonto, nell’alternanza verde e marrone di periferia con case. Cambio a Earl’s Court: nel nuovo convoglio, con la gente che torna dal lavoro, una coppia di ragazzi punk, e un negro che si guarda la pelle della faccia in un suo specchietto, è perfettamente chiaro che non conta più da dove vengo, o meglio che non conta affatto che io venga da un qualsiasi posto.

A Wimbledon Park mi alzo e scendo. Resto un attimo sul marciapiede della stazione all’aperto, bassa tra due colline di alberi. Salgo una rampa di scale, emergo in una strada quieta con ville e qualche negozio. E’ la strada dove abita lei. Chiedo se c’è un albergo; il ragazzo si guarda attorno come se dovesse vederlo, poi dice: «No. Deve andare a Wimbledon». Riaffondo nella stazioncina, con un po’ di stupore per quei pochi attimi, i primi da parecchie ore, in cui ho preso aria e la luce che rimane.

Wimbledon è la stazione dopo, la metropolitana finisce lì, proprio con i respingenti. All’autista del taxi ho chiesto un albergo; lui imbocca una strada con villette, senza negozi ma perfettamente uguale a quella di Wimbledon Park, probabilmente uguale a qualsiasi strada di un sobborgo londinese urbanizzato in epoca vittoriana. Una delle villette è l’albergo. Suono; dico: «Vorrei…» eccetera. Seguo la ragazza lungo le scale, passando davanti a un living con le luci basse e la televisione accesa. Siamo arrivati al sottotetto; lei apre, mi lascia in una camera grandissima e accogliente, che adesso non ho il tempo di guardare. Invece tiro fuori un po’ di cose, esco dalla stanza, mi infilo nel bagno; c’è una grande vasca tra pareti verniciate a smalto, la riempio fino all’orlo, penso: «un grande bagno».

Resto disteso, evaporato; guardo sul soffitto i disegni della condensa. Vedo la cordicella della luce, sollevo il braccio, la tiro. Buio. Luce. La tiro di nuovo. Mi piace il click elastico, ancora più elastico per la lunghezza della cordicella; mi piace il tepore uniforme nell’oscurità…

Quando mi sveglio l’acqua è fredda, e un riflesso al neon viene chissà da dove. Cerco nel vuoto la cordicella della luce, cerco l’orologio a terra: è terribile. Mi asciugo rapidissimo, torno in camera, mi infilo una camicia e dei pantaloni puliti. Giù al piano terra c’è ancora la voce della televisione. Trovo la cucina, con la ragazza dentro. Non è proprio una ragazza, ma una donna giovane di quelle che sembrano sempre ragazze: con la curva della schiena magra e disegnata, e due linee ai lati della bocca. Dico: «Posso avere un po’ di latte?» Lei sorride, si asciuga le mani, prende il latte dal frigorifero e lo versa in un bicchiere grande; io faccio un gesto che va bene così. Forse dovrei dire qualcos’altro, ma sono abbastanza stanco; inoltre non è sicuro che non si siano accorti della mia defaillance nella vasca. Così mi aggiro davanti alla porta della cucina, come se volessi guardare fuori; invece scivolo via col bicchiere, piano, fino alla stanza della televisione.

Col ragazzo seduto sulla poltrona ci facciamo un cenno; poi guardiamo in silenzio le corse dei cavalli e la vittoria di Go Go Dance, nome che negli ultimi metri il telecronista (in un riquadro col suo cappelletto) ripete ossessivamente, sopratono: «g-g-dan, g-g-dan», rendendo in effetti l’idea del galoppo.

Anche il ragazzo non è proprio un ragazzo, nonostante i biondi capelli lunghi e l’aria sorniona. Dopo un po’ si alza, fa un saluto pacato ed esce. Rientra subito, appoggiandosi al battente; dice: «Sai spegnere la televisione?» Dico di sì, anche se penso che potrei farlo fare a lui, adesso, e andare via. Invece seguo disciplinatamente le corse a Leicester, Kensington, Finchley, Saint James, incapace di appassionarmi o di alzarmi. Sono rimasto fino alla fine dei programmi; poi ho spento la televisione e tutte le luci che ho incontrato via via salendo, includendole di mia iniziativa nella richiesta che mi è stata fatta. In camera scelgo tra i due letti quello non matrimoniale, cerco nell’armadio un plaid di riserva e lo lascio arrotolato sulla coperta, ai piedi.

Più tardi apro un romanzo pieno di puntini di sospensione tra una parola e l’altra; ogni tanto quei puntini sono un vuoto allo stomaco, come superando una cunetta in macchina. Ad uno di quei dossi non torno più giù, e per la prima volta in questo libro mi addormento anche in un letto.

 

Il risveglio è in una luce calda, nella trasparenza delle tende; e con la sensazione di aver fatto sogni che non appartengono a me ma sono della stanza, lasciati qua da centinaia di sognatori precedenti. Me ne sto disteso, fisso il lucernaio proprio sopra il letto, che ieri sera non avevo visto. Poi mi alzo in piedi, mi allungo tutto per scostare la tendina del finestrino e aprirlo; metto fuori la testa, con gli occhi a filo delle tegole: fuori ci sono un po’ di giardini e un po’ di case, poi il centro di Wimbledon e più in là il gomito del grande fiume, e dopo ancora le forme vaporose e lontane della città.

Scendo giù; stacco la teiera dal filo elettrico e la sciacquo nel lavandino, abbastanza preoccupato per le lamelle di calcio che vengono via. La appoggio sul tavolino e le riattacco la sua spina tripolare, grande, di cui mi piace la consistenza.

E poi l’essermi lavato e rasato, l’aver atteso lo scatto della teiera, l’aver messo un filtro nel bicchiere e l’aver aspettato che l’acqua si colorasse, e nel frattempo, dato che sono sempre preoccupato dal frattempo, l’essermi vestito: in realtà tutti questi gesti che avrei dovuto fare con meno attenzione, nonostante la mia passione per le traiettorie della mano, erano lenti non soltanto per la naturale lentezza del mattino, ma per distrarmi da un pensiero fisso, che è «oggi la conoscerò». Il pensiero sono due pensieri, opposti rispetto al tempo: uno è «come farò ad aspettare fino alle quattro» e l’altro «avrò abbastanza tempo fino alle quattro per prepararmi all’incontro?» In un senso o nell’altro il risultato è una leggera ansia.

Giù il piano terra sembra deserto, come il resto della casa. Nessuno nel living, nessuno nelle altre stanze. Vado in cucina, la portafinestra sul giardino è aperta, loro sono lì: la ragazza-donna, il ragazzo-uomo, e un bambino veramente bambino, che scalcia contro il cielo. La ragazza viene verso la portafinestra, dice: «Di là nella sala da pranzo può fare colazione». Dico che non ho voglia di mangiare. Lei dice «Sicuro?», io dico «Eh, sì». Lei apre un cassetto della cucina, prende una chiave lunga attaccata ad uno spago. Dice: «E’ la chiave del portone, così non ha bisogno di suonare». Metto la chiave in tasca. Lei mi sembra perplessa; sorrido, dico che tutto va assolutamente bene. Vado via. Non so bene che cosa fare, ma visto che ho la chiave dovrò uscire, ed esco.

Fuori, nella strada che va verso la stazione e il centro, guardo soprattutto le macchine. Certe Hillman o certe Humber, o le Wolseley e le Daimler, o certe Aston Martin che si vedono solo qui: rotonde e solide. Cammino piano, seguo una direzione a zig zag da un marciapiede all’altro, scegliendo quelle che mi interessano di più. Sono vecchie e pulite, ben gommate, indifferenti ai ritocchi con un grigio più grigio o un verde più verde. Vengono dagli anni cinquanta, sessanta, sono l’automobile nella piena maturità: dopo l’eleganza spigolosa dei parafanghi esterni e dei radiatori verticali, e prima dell’indifferenza affettiva alle forme, della pura e semplice funzionalità. Dentro, la selleria è quasi sempre riparata col nastro adesivo, anche se è il sedile di una Jaguar come quella che adesso mi sono fermato a guardare. E’ la più bella perché fu una berlina media nelle dimensioni, veloce, possibile. Guidandola resta probabilmente la sinusoide morbida del cofano e dei parafanghi come un fondo fisso nella percezione grigia e filante della strada.

Cammino ancora sui marciapiedi bassi, in una rarefazione abbastanza piacevole, comoda. Solo più avanti, nella via principale, gli smalti acquistano la loro vera densità: il bianco delle finestre, il nero dei taxi, il giallo delle insegne, il rosso speciale degli autobus. Ho preso uno di quegli autobus per tornare a casa; in effetti ho pensato proprio «casa» e non «albergo», e ormai credo anche, qualunque cosa sia, di essere l’unico ospite.

Salgo in camera senza incontrare nessuno, mi sdraio sul letto che è stato già rifatto. Sfoglio una cartella di appunti, come se si trattasse di ripassare la materia. Naturalmente non viene fuori nulla; anche perché mi sono distratto immaginando piuttosto la casa della signora Blumenthal e lei stessa. Cerco di ricavare il più possibile dal «molto bene…» con cui lei ha chiuso la telefonata: era un «molto bene» lento, con un fondo ironico e tollerante, o così mi è parso.

Sto sdraiato a lungo, guardo il celeste compatto oltre il lucernaio. Prima ho pensato una lettera per ogni riquadro del finestrino; poi ho provato e riprovato finché si sono formate quattro parole a croce che potevo leggere in orizzontale e in verticale. C’è voluto un po’, perché era difficile tenere a memoria quelle che andavano bene senza buttarle con le altre. Alla fine mi sono spaventato; ogni parola aveva un significato netto per la situazione qui. L’ho preso come un segno: segno che non mi avrebbe fatto bene aspettare oltre in quella stanza.

 

Per quanto abbia allungato i tempi, pranzato con la lentezza di un nababbo e fatto di tutto per perdere almeno un treno della metropolitana, quando scendo alla stazione di Wimbledon Park resta una mezz’ora, irriducibile.

Restituisco il biglietto al negro, salgo le scale ed esco sulla strada, nel sole forte del pomeriggio. In pochi passi è chiara la direzione dei numeri: il suo dev’essere lassù dove ci sono solo ville, dopo la curva con cui la salita si impenna e scompare tra gli alberi.

Guardo le vetrine dei negozi, e con una moneta straniera mi sembra che tutto debba essere comprato. Non è che le cifre diventino astratte, è che improvvisamente vedo la necessità degli oggetti, in un modo diverso da come abitualmente considero se sono opportuni o no.

Mi fermo davanti alle polaroid di un’agenzia immobiliare, con villette del tutto uguali a quelle sulla strada. Immagino interni scuri, caminetti chiusi per legge, infissi duri ad alzarsi e un complessivo odore di polvere e di umidità, secondo la tradizione del legno e delle moquettes invece del marmo. Anche la stazioncina, nella sua parte emersa, è una villetta con comignoli e la scritta 1889. Chissà, forse è proprio la metropolitana che fa una metropoli, e l’averla fatta al momento giusto.

Lascio i negozi e comincio la salita tra giardini e “bow Windows”, in una perfetta quiete. Arrivo alla curva e ormai non può essere distante. Mi siedo su una panchina messa lì per volontà di Alderman S. Black, benefattore di Wimbledon, come dice la targa di ottone. Appoggio i gomiti sulle ginocchia e la faccia sulle mani; aspetto in una sospensione strana, quasi senza vedere la casa di fronte così osservabile e la barca a vela che spunta dalla rimessa aperta. Non sono certo che questo modo di arrivare in anticipo agli appuntamenti sia una forma di intensità, come se anche il «prima» appartenesse all’incontro.

Poi ho fatto gli ultimi metri pensando che dopo un po’ sarei stato alla porta e dopo un altro po’ avrei suonato. Ma avevo già suonato.

 

C’è stato un momento - non molto lungo: sono entrato in casa, abbiamo detto le prime cose prendendo nota in silenzio dei particolari, per farci subito un’idea dell’altro - in cui tutto quello che avevo immaginato fino a un secondo prima si è semplicemente adeguato alla realtà, con l’abituale opportunismo della percezione.

Forse è stato questo adattamento istantaneo, o la sensazione di essere arrivato fin qui, o magari soltanto la luce grigio perla della stanza, a determinare un leggero benessere. Ho parlato di tutto senza seguire un filo logico o una storia, ma in un modo in cui le cose emergevano da sole, o almeno mi sembrava. Lei diceva ogni tanto «Sì…», e quando ho finito ha detto con molta calma: «Sono stata a Trieste con lui, e nessuno doveva saperlo. Era poco prima che morisse… ‘Qui non posso passare perché c’era la sarta di mia madre’ o ‘ qui no, c’era la scuola’; c’era sempre qualcosa e lui aveva paura di ricordare. Poi ha voluto pranzare in una trattoria vicino ad un ruscello. Si trattava di un pollo allo spiedo, ma io non ho molto a che fare col cibo. La padrona del locale mi ha chiesto: ‘con quale legno vuole che cuociamo il pollo?’ Lui sapeva tutto dei legni, io invece non distinguo un legno dall’altro; ho detto ‘mahagoni’ e non è andato bene».

Ha i capelli quasi azzurri fermati con due pettini ai lati, un filo di perle sopra i baveri flosci del golf, una spilla alata. Di fronte e di profilo sembrano due facce diverse: una armoniosa, l’altra scavata, prudentissima. Forse perché la parte del naso e della bocca è triangolare, o forse per via degli occhiali all’insù, tipo anni cinquanta, con le lenti come due bolle colorate. E’ una faccia imprendibile, o almeno non riesco a farmene un’idea subito; così mi fisso sulla voce, che in effetti è bassa, profonda.

Siamo seduti ad angolo, lei sul divano io sulla poltrona. Posso vedere bene la stanza, e oltre la portafinestra un fuori silenzioso, bosco e cielo soltanto. Dico: «Ma perché quel viaggio era tanto segreto?» Lei fa un gesto generico: «Non so, lui era fuggito da quella città, c’erano state tante chiacchiere». Mi guarda, chiede in un tono più sottile: «Parlano ancora dei matrimoni?»

Ho detto: «Sì, sono rimasti abbastanza impressionati».

Sorride: «E’ così strano… La gente sarà andata da lui, avrà detto ‘sono talmente infelice’, e lui avrà risposto che se una cosa non può continuare è meglio interromperla».

Resto in silenzio. Sembra tutto semplice e di buon senso; non me la sento di dire che forse le cose sono più complicate. E poi non è molto importante, almeno per me.

«Negli ultimi anni lui voleva assolutamente sposarmi; io gli dicevo: ‘non me lo perdoneresti mai’… Forse sentiva la fine. Era rimasto così colpito che l’agopuntore gli avesse trovato la pressione alta. Da quel momento si è sentito solo».

Cerco le parole più adatte, dico: «Tutti i nostri esperimenti per restare in equilibrio senza appoggi hanno come limite la malattia o la casa».

Lei annuisce: «Oh sì, noi donne siamo abituate ai mutamenti del corpo, ci spaventiamo meno di voi. Lui per esempio, quando cominciò a perdere un po’ di sangue dal naso era terrorizzato. E poi doveva lasciare l’appartamento… Sa che gliel’avevo trovata io quella casa?»

Ho detto che non lo sapevo.

«Ci avevo abitato prima di venire a Londra per le leggi razziali. Qui poi ho fatto la cameriera, e credo che nessuno abbia mai avuto una cameriera come me. Lavoravo nello studio di uno psicanalista completamente matto; un giorno mi ha proibito di aprire la porta ai clienti perché avevano cominciato a vedermi nei loro sogni, e questo era un fatto così grave che ho perso il posto… Comunque prima di partire ho pensato che le due sorelle, una cieca e l’altra sarta, che affittavano quell’appartamento erano perfette per lui, e infatti è stato sempre lì. E quando ha dovuto andarsene è stato terribile. Bisognava cercargli un’altra casa; abbiamo trovato una stanza bellissima, con un giardino che sarebbe stato tutto suo. Lui ha portato lì le sue valige piene di carte, i libri, e non ci ha dormito nemmeno una notte…»

Vorrei accelerare un po’ le cose, dico: «Sì, questo lo so».

Lei si ferma, mi guarda; poi riprende con uno spostamento minimo: «Dopo che è morto sono venuti due giovanotti per aiutarmi a portare via le valige. Pioveva, era notte, e io ci vedo pochissimo; da una delle valige, in mezzo alla strada e alla pioggia, spunta fuori un pezzettino di carta. Io l’ho preso e l’ho messo in tasca; l’ho guardato soltanto quando sono tornata in albergo, ed era il suo testamento… E’ una cosa che non dimenticherò mai…»

Ascolto; però da un lato seguo la storia e dall’altro cerco di capire qual è il tempo interno con cui lei parla. Vorrei trovare una misura discreta tra il controllo della situazione e un certo abbandono.

Lei dice: «Io non riesco a dimenticare niente, non ho una memoria selettiva. E così debbo conservare tutto».

C’è una pausa brevissima, mi studia un po’ per vedere se ho capito. Poi chiede: «Le piace la fantascienza?»

Sorrido, dico che mi piace.

Lei sembra più tranquilla, come se si aprisse un altro spazio, neutro. «Io amo soprattutto Bradbury. Però sulla memoria c’è un racconto bellissimo, non so più di chi… Un giovane è invitato a cena da una coppia di amici. La cena è finita e loro gli dicono: allora, sei pronto? E lui dice sì. Hai la macchina fotografica? Sì. Hai il tape-recorder? Sì. Qualcosa per scrivere? Sì. Allora vai. Lui dice: va bene, ma il caffè? Non ho bevuto il caffè. Quelli dicono: e lo bevi quando torni. Si vede un flash, un lampo, un attimo e lui torna di nuovo. Ed era stato migliaia di anni nel futuro. Quelli dicono: allora, che cosa accadrà? Lui dice: non so niente. Ma non ti ricordi di niente? No. Guardano i fogli: non ha scritto niente. Niente sul tape-recorder, niente sulla pellicola. Dicono: beh, ma cerca di ricordarti qualcosa. Dopo un po’ lui dice: sì, adesso mi ricordo che mi è stata data una scelta: se volevo ricordare o no…»

Controlla l’effetto della storia con un’occhiata di traverso, appena sorridente. Sorrido anch’io, però mi chiedo se saprò resistere al racconto. Il fatto è che lei investe anche i silenzi di una particolare necessità; mi sembra difficile passarvi attraverso. Credo che il punto sarà questo. Non per via del racconto di fantascienza; potrei raccontarne uno anch’io, e mentre ascoltavo ho ceduto e mi sono messo a cercarne uno tra quelli che conosco. No, è proprio l’intenzione stessa di chi racconta: diventa un tono, una forza del respiro e della posizione, adagia l’altro in una ricettività morbida, come me su questa poltrona.

E anche più avanti, quando prendiamo il tè e il dolce e lei dice: «Ma non mi ha ancora detto nulla di lei», mi accorgo di non sapermi raccontare in un attimo, o rendendo un’idea direttamente. Ho l’impressione che dovrò mantenere questa differenza, e decidermi a fare le domande che ho rimandato finora, così piatte e complessive, però in fondo così «personalmente» mie.

Guardo il coltello che affonda nella torta; lei taglia pianissimo, seguendo il rilievo; solleva le fette solo dopo averle sfilate, in modo che siano intere fino alla punta. Mi sembra un buon momento, e anche se non ho imparato a ripetermi con tolleranza, dico che non mi interessa il guru, o l’eminenza grigia, o il lettore di libri strani. Dico: «Non è che tutto questo non ci sia, ma è un’immagine, e dunque non so». Prendo fiato, spiego che non mi interessa nemmeno l’autore di gesti esemplari, che poi sono finiti in aneddoti pieni di evidenze, dove la morale e il comportamento passano così, per illuminazioni porta a porta. Dico: «Quello che a me interessa è un punto, in cui forse si intersecano il saper essere e il saper scrivere. Chiunque scrive se l’immagina in un certo modo. Con lui invece in quel punto c’è stata un’esclusione, una rinuncia, un silenzio. Io vorrei capire perché».

Mi fermo un po’ teso, con un’energia non esaurita nelle parole.

Lei tiene la fetta in equilibrio sul coltello, finisce di trasportarla verso il suo piatto. Poi, con un movimento lentissimo, rimette il coperchio sul dolce. Poi ancora allinea le briciole col dito. Infine appoggia le mani sul tavolino.

Soltanto quando tutto le sembra in ordine mi guarda, dice: «Vediamo prima il saper vivere… Ha ereditato una fortuna e l’ha sperperata subito. Era a cena con qualche donna, diceva: ‘E’ il più bel giorno della mia vita, sto spendendo l’ultimo soldo dell’eredità’. Andava avanti non so come, nessuno lo saprà mai. Forse non si rendeva conto di qual è il modo giusto di stare al mondo, voglio dire che non ci arrivava attraverso un ragionamento; viveva ogni momento della sua vita con gioia, con depressioni, con terribili arrabbiature. Aveva i suoi amici giovani, si preoccupava moltissimo di loro. La sua vita erano le altre persone, quello che lui poteva capire di loro, o fargli capire. Alla fine credo che sia riuscito a vivere nel modo giusto; ma non è morto nel modo giusto… Gli ultimi mesi era… uno che ha perso la strada. Non amava più nessuno, non gli importava più di niente…»

Adesso parla senza guardarmi, però la faccia di profilo, quella minuziosa e prudente, o la coda dell’occhio nella quale senza dubbio rientro, non perderebbero la minima reazione. Io cerco di stare perfettamente immobile, anche dentro. Aspetto che il racconto passi, come quelli che si seppelliscono nei boschi in fiamme, lasciandosi superare dalla linea del fuoco.

Lei prosegue lenta: «Aveva le sue ossessioni: una volta era la cucina giapponese, e io gli dicevo ‘c’è una puzza terribile di aglio e mandorle’ e lui diceva ‘ma questa è la cucina dei samurai’; un’altra volta era l’agopuntura, e non voleva nessun altro tipo di medicina… Un paio di giorni prima di morire mi ha telefonato: ‘non vado più dal dottore, sono guarito’. Io ho detto ‘oh, va bene. Ci sentiamo dopo’. Poi l’ho richiamato e ho detto ‘questa è una bugia’. E lui ha detto: ‘non spendo chissà quanto di telefono per dirti delle bugie’».

Più il racconto va avanti e più lei è incurvata, col petto in dentro, le braccia rilassate. Si volta piano dalla mia parte, dice: «Lei sa cosa significa ‘sentire’ dove sta una persona in un determinato momento?»

Dico: «Non so, può darsi». In realtà non so se lo so; o meglio non so che cosa lei intenda esattamente.

Sorride, ha capito benissimo la mia incertezza; fa un gesto come per dire che ora mi sarà mostrato. «Dunque, qui sotto c’è un lago, e quel pomeriggio ero andata lì. Ho preso una scorciatoia tra gli alberi per tornare indietro. Era una giornata bellissima, non pensavo a niente. All’improvviso ho sentito una cosa strana sulle spalle, non un dolore ma una pressione terribile; e ogni volta che qualcuno dice ‘non si sa con esattezza a che ora sia morto’ io lo so benissimo. Quando andavamo in macchina io mi sedevo davanti e lui dietro. Mi teneva le mani sulle spalle, e ogni tanto io gli dicevo ‘così è troppo forte’. Quel pomeriggio ho sentito la stessa cosa…»

Nessuno di noi due parla. Lei arrotola un fazzoletto di carta attorno al dito; lo preme bene ad ogni giro, perché non ci sia nemmeno una piega. Quando lo srotola il dito è tutto violetto. Lei lo guarda. Il fazzoletto sparisce nella manica del golf. Io mi sento abbastanza vuoto, liquido, tra immagini disordinate, mandorle, o valige lasciate qua e là, imbarazzanti come un’intimità indifesa. Avrei bisogno di qualcosa di contemporaneo, anche soltanto gli oggetti della stanza: guardo il pianoforte verticale, le lampade a stelo, i libri, e una cosa che sembra un grosso registratore, ma ancora più grosso.

Alla fine dico: «Senta, perché mi racconta tutto questo?»

Non risponde subito. Prende fiato per parlare, poi scuote la testa, lascia scendere il respiro. Io aspetto in silenzio.

Lei dice: «Perché credo che soltanto attraverso le storie lei potrà capire».

Sorrido, dico: «No, perché?, ci sono tantissimi altri modi».

Scuote ancora la testa, più leggermente; elimina via via le parole che non pronuncia. Poi dice in un tono basso, definitivo: «Le racconto queste storie perché non posso scriverle… Ho provato mille volte, ma strappo subito il foglio… Io mi lucido anche le scarpe prima di mettermi a scrivere, o faccio la cucina, che è una cosa che odio. Però mi sembra sempre che lui stia dietro alle mie spalle, e se uno sa che cosa pensava lui di quello che si scrive, ha subito paura che ciò che scrive non valga niente».

Mi tendo un po’, valuto le opportunità; alla fine chiedo senza decidere: «E’ per questo che lui non ha scritto?»

Lei alza le spalle: «Non so… Lei cosa pensa?»

Dico: «Non so, non posso pensare nulla… Però l’opinione più alta dello scrivere ce l’ha quasi sempre chi ha deciso di non farlo. E’ molto esigente».

«Forse… Però è vero, come pensava lui, che ci sono troppi libri, e che è inutile aggiungerne altri. Se non ci fossero più libri la gente dovrebbe pensare con la propria testa».

Cerco il minor numero di parole; spiego perché non sono d’accordo. Parlo di gesti, di movimenti, soprattutto di andature. Lei si ritrae, sorride: «Io dico così, ma poi sono sempre a caccia di libri. Leggo qualsiasi cosa. Leggo senza occhiali, quando nessuno mi vede, perché devo stare con la faccia incollata al libro… Ho anche paura di ferirmi il naso. Oppure metto un libro parlato nel registratore, ma la cosa più “high-brow” che producono è “Tre uomini in barca”. E’ sempre divertente…»

C’è di nuovo un silenzio di quelli in cui uno guarda la moquette, o si guarda le scarpe, come se da lì dovesse venire chissà quale evidenza. Lei dice: «Aspetti…»; si alza lentamente, va nell’ingresso. Sotto la giacca di lana ha dei pantaloni chiari, fermati al piede da una fettuccia di elastico, come gli sciatori. Dopo un po’ ritorna. Mette sul tavolino, accanto al dolce, un mucchietto di fotografie, dice: «Le avevo preparate per lei…»

Non dico nulla, ho un senso di resa totale.

Lei prende la prima fotografia, la guarda da vicino, con gli occhiali sulla fronte: «… Ah sì, è il castello di Mary de Rachewiltz… Ci andavamo spesso, però non abbiamo mai visto Pound. Stava in manicomio giù a Merano, riceveva soltanto una sua nipotina che andava a leggergli Pinocchio…»

Piano piano la fotografia arriva dalla mia parte. Non so, non vorrei fingere, e poi non me la sento di sottopormi alla tortura dell’altra volta a Trieste. Capovolgo la foto sul tavolino, piano; dico: «Senta, non posso vedere le fotografie. E’ così, mi dispiace». L’ho detto più serenamente che potevo, però c’è stato lo stesso un momento di imbarazzo. Lei piega la testa, attenta: «Sì, posso capirlo…»

Per un attimo ho avuto l’impressione che fosse davvero possibile.

Le passo la fotografia; lei la mette nel verso giusto a metà del mucchietto, lo spinge il più lontano possibile su un altro tavolino, dove le foto si sparpagliano come carte innocue. Fa un gesto paziente: «… Ad ogni modo, in quel castello c’era una gallina che ogni pomeriggio faceva l’uovo, e cantava. Lui la prendeva in giro: diceva: ‘ecco, annuncia a tutti un altro uovo originale del castello Pound…’».

Sorrido, per la storia e più in generale; anche lei sorride, abbastanza rilassata. Dice: «Quando lui è morto ho detto al suo migliore amico ‘vorrei dimenticare molte cose’, e il suo amico ha risposto ‘non devi, perché la sua vita, così com’era, è stata il suo capolavoro…’».

E’ inevitabile, ormai io associo subito quest’idea a Katharine Hepburn. Però ho detto soltanto: «Vede, non è questo…» Forse l’ho detto troppo piano, o solo per me, perché lei ha continuato soprapensiero: «Parecchio tempo prima avevamo parlato di come uno vorrebbe morire, e lui disse che gli sarebbe piaciuto all’aperto, magari dove nessuno potesse trovarlo… Anche in questo voleva passare inosservato…»

Mi sono incantato; non so bene a che cosa penso, forse al piacere di essere nel tempo e non contro il tempo, di farcela rischiando tra le immagini, rischiando anche la propria, lasciando che diventi una proprietà comune, modificata, viva… Torno indietro, dico: «Sì, tutto era nel segno dell’anonimato. Forse c’era del timore, anche…»

Lei dice piano: «Ne sono certa».

Ho chiesto perché. Riflette, poi dice: «Lui sapeva quanta suggestione esercitava sugli altri, e quanti dipendevano da lui. Se avesse scritto qualcosa che magari non era davvero di grande valore, sarebbe stato terribile per loro… Il suo timore era… come si dice “disappoint”?»

«Si dice ‘deludere’; pensa che fosse così?»

«Sì, quello che leggiamo di lui, e quello che sappiamo di lui, non corrispondono… Vede, lui capiva le persone in un modo diverso da ciò che normalmente intendiamo per «capire». Lui non cercava di immaginarsi come fosse una persona, lui “lo era”. E quando ha scoperto che questo era il suo posto nella vita, non ha potuto più scrivere. Aveva capito dove stava la sua forza, e stava nelle persone…»

Adesso nessun rumore fa pensare a un esterno oltre la finestra; ho un leggero brivido. Lei chiede: «Ha freddo?» Dico di no. Lo stesso, si alza per chiudere i vetri. Dice: «Questa notte ho messo la coperta elettrica. Quando la tocco non è calda, però tiene caldissimo». Guarda il piattino con la torta, dice: «Non ha mangiato niente…» Sorrido senza rispondere. Penso a «timore» o a «deludere», così scomponibili in decine di altre traiettorie, disparate come le linee di una scissione nucleare.

Lei si è seduta di nuovo. Sorride: «… C’è una storia di Bradbury bellissima, si chiama “L’estate di Picasso”. L’ha letta?»

Dico: «No, non l’ho letta». Lo dico quasi ridendo.

Anche lei ride… «Un uomo e una donna, marito e moglie, naturalmente americani, vanno in vacanza in un posto sul mare, tra la Francia e la Spagna. E’ lui che ha insistito per andare là, perché sa che là vive Picasso e che qualche volta scende giù alla spiaggia. Non ha nessuna speranza di vederlo, però vuole almeno respirare l’aria che respira Picasso. Dopo pranzo la moglie dice: vado a riposare, vieni? Lui dice no, faccio due passi. Va sulla spiaggia, cammina lungo la riva. Si accorge che c’è un altro uomo che cammina davanti a lui. Lo vede di schiena: è un vecchio molto abbronzato, quasi nudo, completamente calvo. Ha in mano un bastone, e ogni tanto si china sulla sabbia e disegna qualcosa. Lui gli va dietro, segue i disegni: raffigurano i pesci e le piante del mare. Poi Picasso si allontana, sempre più piccolo, sparisce. L’uomo si siede accanto ai disegni, aspetta. Aspetta finché la marea ha cancellato tutto, e la sabbia è di nuovo liscia».

Lei ha la faccia armoniosa con cui dopo ogni storia aspetta che qualcosa accada. Io ho un senso di leggerezza, di ilarità quasi. Rido, dico che è bella.

Poi ho fatto tutte le cose che vanno fatte, tipo guardare l’orologio o la luce fuori per indicare che andavo via.

Sulla porta dico: «Potrei tornare domani». Lei dice: «Oh, certo». Guardo il bastone bianco appoggiato al mobiletto. Lei sorride: «Essere ciechi è tutt’altro che essere sordi. I sordi sono diffidenti, credono che si sparli sempre di loro. I ciechi invece sono pieni di fiducia, e fanno un sacco di scherzi».

 

Scendo la collina. A parte il sollievo dell’aria e dei colori, penso soprattutto alla possibilità di prendermi un intervallo fino a stasera, o a domani, o non so. Adesso mi sembra di avere una ragione per stare qui, e dunque di dover usufruire delle pause, e di una certa motivazione negli spostamenti. Posso prendere la metropolitana con l’idea di un «ritorno», come tutti; posso aspettare abbastanza fisso e vuoto nel silenzio della stazione; posso leggere nel treno un giornale pieno di “manchettes” rosse, di piccole pubblicità di giardinaggio e far da sé.

A Wimbledon, dopo il centro già movimentato dalla gente attorno ai pub, preferisco andare a piedi verso casa. Cammino tra villette a sinistra e a destra, dentro le quali tutto ciò che mi sforzo di considerare per me necessario e normale si svolge probabilmente in un modo necessario e normale. Cammino così, senza peso.

Alle mie spalle c’è stato prima uno scampanellio elettrico, poi un grosso motore fuori giri; infine il camion dei pompieri schizza in avanti e imbocca una traversa laggiù, tutto piegato. Cerco una macchia di fumo oltre la cima degli alberi, mi metto a correre.

All’angolo ho ripreso un passo appena affrettato. Nella traversa stanno accadendo cose diverse contemporaneamente, ma senza parole, tutte a gesti tra gli uomini coi pantaloni gialli e la giubba nera. Due scavalcano un’aiuola correndo con un grosso tubo verso sinistra. Un altro sfoglia un libro di piantine stradali finché mette una pagina in linea col marciapiede, indicando la posizione dell’idrante. Quello chinato a terra apre il tombino, guarda dentro, aggancia il bocchettone. Qualcuno vicino al camion schiaccia il duplicato esterno dell’acceleratore. Finalmente da un capo estremo di questo sistema di rapporti muti parte un arcobaleno d’acqua verso lassù, verso la finestra spalancata e buia del secondo piano.

La voce attraverso il megafono è nebulizzata; ordina di evacuare il palazzetto, una costruzione in cemento bassa e lunga. Un attimo dopo ci sono già due schieramenti: quello degli inquilini nello spiazzo davanti alla casa e quello dei vicini sul marciapiede di fronte, divisi dall’autopompa, cuore dell’azione. Senza farmi vedere passo dal gruppo dei vicini a quello degli inquilini.

C’è un silenzio assoluto; ascoltiamo il rumore del fuoco, annusiamo l’odore dolciastro di plastica, guardiamo la finestra nera e i filacci incandescenti e le cascate d’acqua che vengono giù. Dalle radio delle macchine si sentono comunicazioni di nuovi indirizzi, di altre emergenze, e se non fossimo qui potremmo parteciparvi. In fondo siamo tutti dalla parte dell’acqua. Nel gruppo dei vicini un ragazzo si sporge con la macchina fotografica; scatta a lunghi intervalli, scegliendo le inquadrature. Anche gli inquilini hanno un loro centro: la donna anziana, un po’ annerita, alla quale è stata data una sedia. Le stanno non proprio attorno, ma accanto e dietro, come se fossero invitati a qualche cosa che appartiene prima di tutto a lei. Un uomo con le braccia conserte mi dice piano: «Non è stata colpa sua». Non rispondo nulla, lui insiste: «Davvero, questa volta non c’entra». Dico: «Beh, meno male».

Poi un pompiere è apparso alla finestra, ha fatto un cenno definitivo e tutto è tornato al minimo: il motore del camion, la tensione dei tubi e delle persone. Ogni cosa veniva ripiegata, ed anche il gruppo degli inquilini si è dissolto. Resto senza alcun diaframma di fronte alla donna seduta. Lei guarda un punto intermedio tra me e la finestra, dice: «Adesso dovrò mettere tutto a posto un’altra volta, capisci?»

Più tardi, in albergo, la presenza di un altro paio di clienti permette l’accensione di tutte le luci in sala da pranzo, compresi i lumi bassi sui tavolini vuoti. Mangio senza attenzione; vado e vengo dalle immagini e dai pensieri di qualche ora fa. Del pomeriggio resta soprattutto un sentimento di appartenenza a ciò che è accaduto, o può accadere; è impossibile dargli una forma, e forse per questo mi sento separato dal resto, qui, come una figura sul paesaggio.

Poi, con gli altri davanti alla televisione, divento inquieto come sempre quando non ho il controllo dei canali; non posso cambiare e prendermi le scene di inseguimento lasciando gli interni e le motivazioni, e vedere parecchi film insieme, in una specie di racconto complessivo, badando soltanto all’alternanza di movimento e stasi.

Vado di sopra, in camera.

Invece di crollare nel letto come vorrei, faccio tutti i preparativi per la notte. E’ una disciplina che si impara dalle donne: anche se sono stanchissime si struccano, si curano, prendono il bicchiere dell’acqua, si scelgono un libro. Dopo, nel letto, certe volte parlano con la luce spenta, ed è difficile dormire.

 

Chissà quando, sono un fantasma e bisogna che terrorizzi i visitatori. Ci vorrebbe un grido orribile, lacerante. Mi concentro, prendo fiato; sono sveglio, grido. Prima sono contento di esserci riuscito, poi mi rassegno al suono rauco, bestiale al quale appartengo.

 

***

 

6.

 

Mi sono svegliato con le braccia incrociate sul petto, in una posizione che il corpo ora assume da solo, e prima o poi qualcun altro dovrà dargli. Questa idea ha accelerato tutto; dopo una ventina di minuti sono in giardino, col libro appoggiato sulla tela della sdraio che non riesco a regolare in un punto intermedio tra il tutto steso e il seduto rigido.

In cucina c’era il ragazzo dell’albergo che preparava la colazione, ballando sulla musica della radio; quando si è accorto che lo guardavo ha fatto un passo più clownesco. Ha preparato un tè per tutti e due, e mentre lo bevevamo è venuto fuori inevitabilmente un mezzo discorso sui paesi. Lui ha detto: «Nessun paese ha più un senso. Solo che qui tutto è fatto perché ci si possa vivere in parecchi milioni, nella stessa città». Non ho detto nulla: guardavo la quantità spropositata di padelle sui fornelli. Gli ho domandato se aspettava clienti nuovi. Ha detto: «No. Ho messo su anche il pranzo, così poi sono libero».

Il cielo è piacevole, senza importanza. L’importante è leggere all’aperto, alzando ogni tanto gli occhi sul profilo degli alberi, sulle tavole bianche della casa, sulla strada. Il colore della luce sulle pagine, o le immagini dell’ambiente, entrano nella memoria insieme al racconto, e servono per ancorarsi durante la lettura. O almeno vorrei che fosse così adesso, leggendo questo romanzo di subito dopo la guerra, in cui c’è lui come personaggio; così realisticamente lui, sebbene venga chiamato Ans, che parla perfino del «segno di Caino in mezzo alla fronte», come faceva lo stesso capitano.

Seguo la storia del giovane Sebastiano e di Ans a Roma, con l’occupazione tedesca; ci sono parecchi intrecci sentimentali, e amori al di qua e al di là delle linee. Ans viene descritto come un «quarantenne ragazzo», più saggio e più solo di tutti, e molto attento alle loro faccende; Sebastiano racconta giorno per giorno ciò che succede nella realtà. Ci sono discussioni esistenziali che a me non piacciono, però è struggente pensare che erano vere, probabilmente importanti.

Forse si deve avere cura delle storie che non ci appartengono. Che i tedeschi esistessero al di fuori dei film l’ho avuto chiaro solo quando mi sono fermato davanti a un cimitero di guerra. Era una spianata deserta. Sono entrato, non c’era nemmeno il guardiano. Camminavo, leggevo i nomi; mi sembrava straordinario che per gli Hauptman e gli Oberkorporal sepolti là sotto le cose stessero davvero in qualche modo, e loro le avessero viste così fino all’ultimo istante: con una vera paura, con una vera idea di essere lì; morti sul serio.

Anche Sebastiano scrive quello che veramente accade, poi va dai personaggi, verso la fine del libro, e glielo legge. Quando legge ad Ans i pezzi in cui c’è Ans, lui si mette a ridere. Ride sempre di più, però è teso. A un certo punto ride così tanto che Sebastiano gli chiede: «Che c’è?» Ans dice: «Niente, mi diverto». Quando la lettura finisce… «Ans rimase in silenzio, poi rise ancora a voce spiegata. Disse come avevo fatto a scrivere quelle cose, era un ritratto terribile, e poi erano cose false». Ans insiste che è assurdo, e spiega perché: «Almeno per due motivi. Uno è che io sapevo che Maura è innamorata di te».

Guardo il ragazzo che esce dalla cucina. Si siede su una sdraio; con la mano si appiattisce tutti i capelli sulla fronte, poi cerca di rimandarli in su soffiando. Dopo un po’ arriva anche la ragazza, col bambino che non so bene che fine faccia durante la giornata. Giocano tutti e tre, piano. Mettono una cassetta pulita nel registratore, fanno in modo che il bambino parli; quando gli fanno riascoltare i suoi mugolii lui si ingelosisce.

Ormai leggo soltanto i dialoghi. La discussione a proposito di Maura va avanti. Ans dice: «Ma caro ragazzo, io sono un uomo di quarant’anni; ho pasticciato molto in vita mia, te lo puoi immaginare. Ma ho troppo buon gusto per mettermi a pasticciare in una cosa come questa». Un po’ litigano, un po’ ridono; Ans si intristisce: «E’ quasi offensivo. Io, lì, sono un vecchio geloso, sospettoso. Non sono mai stato così, te lo giuro». Prega Sebastiano di rileggergli, Sebastiano rilegge, lui protesta ancora: «Mi toccherà scrivere un contromemoriale». Sebastiano propone di aggiungere un capitolo, «un errata corrige». Ans dice: «Devi correggere Sebastiano. Io non sono così». Sebastiano si schermisce: «Nessuno è così, forse»…

… «Oh, - disse Ans. - Non credo che si faccia molta fatica a capire che sono io».

«Ma caro Ans, - dissi ammiccando, - la mia delinquenza non arriva a tanto. E’ evidente che cambierò i nomi».

Smetto di leggere. Guardo le cose qui, i tre dell’albergo e l’albergo alle loro spalle, le macchine sulla strada, gli alberi e il giardino con tutto quanto, e la striscia bianca di un aereo che va scomparendo. Chiudendo il libro do un’occhiata a un’ultima frase, dove Ans dice ridendo: «Povero Sebastiano», e Sebastiano, prima di addormentarsi con la faccia contro il muro risponde nel buio: «Poveri tutti».

 

Poi in camera, per prepararmi all’appuntamento, scrivo ogni tanto una parola e le faccio un cerchio attorno. Alla fine il foglio con quegli ovali risulta incomprensibile, come sempre quando si tratta di parole sole e non posso inseguire la probabilità di qualcosa attraverso la costruzione di una frase.

Poco alla volta anche i movimenti sembrano privi di un seguito: mi sdraio sul letto e mi rialzo; vado alla finestra e non vedo l’esterno; metto ordine sul tavolino e poi mi perdo in qualche altro punto della stanza. Nemmeno i mobili hanno la loro imperturbabile evidenza.

Mi sposto continuamente, senza poter staccare un pensiero dal suo sfondo. Al tavolo cerco di nuovo una posizione da lavoro. Forse è proprio questo: per la prima volta tutto quanto mi ha portato fin qui mi sembra una «cosa da fare», quasi un impaccio alla naturalezza con cui potrei stare in questa camera, nell’albergo, nel sobborgo - o descriverli. Resto così non so quanto, appoggiato allo schienale, sforzandomi di aderire al paesaggio oltre la finestra.

Più tardi, senza averlo deciso, sono accanto al telefono giù nell’ingresso; cerco il numero dell’aeroporto e chiedo un volo in serata. Aspetto sospirando ogni tanto per far capire che ci sono. Poi la voce femminile ha detto: «Confermato».

L’idea di avere un termine ha rimesso tutto in movimento. Riempio la mia sacca; isolo ogni parte della stanza finché è di nuovo impersonale e disponibile, senza più nulla di mio. Il ragazzo e la ragazza hanno voluto che lasciassi l’indirizzo. In cambio hanno tirato fuori un cartoncino molto formale, col nome dell’albergo e uno stemma. Leggiamo i biglietti sapendo che finiranno chissà dove. Lui ripone il mio nella tasca della camicia, poi mi guarda ancora. Io dico: «Bene…» Lui sorride: «Debbo uscire, ti porto fino alla metropolitana».

Seduto a sinistra senza il volante e i pedali non so dove tenermi, e la strada arriva in modo insolito, come se fossi sporto fuori. Lo dico al ragazzo, ridendo. Lui risponde: «Mettiti la cintura, oltretutto è obbligatoria». Davanti alla stazione mi passa la sacca; fa un cenno per domandare qualcosa. Lo guardo, aspetto. Lui ci ripensa, sorride e va via.

 

Lungo la salita a Wimbledon Park tutti i riferimenti di ieri - la panchina, la curva, la villa con la barca a vela - sono in una luce diversa, neutri. Mi ero lasciato un po’ di tempo per pensare, invece vado avanti annusando l’odore degli alberi, o immaginando la vita nelle case. Supero la sua quasi senza accorgermene.

Dopo la curva la strada scende verso una vallata ampia, con un grande parco di erba rasa e alberi, e un lago artificiale. Ci sono grattacieli sullo sfondo, villette isolate, campi scoperti; e al centro, improvviso e pacato come una visione, lo stadio del tennis, lo stadio di Wimbledon. Soltanto adesso mi rendo conto di dove sono. Guardo laggiù l’edificio basso con la grande tettoia arrotondata: è un impluvio morbido in cui si raccoglie l’attenzione del paesaggio, e dove finisco anch’io.

L’unico ingresso aperto è il padiglione del museo. Così mi fermo a guardare il modellino di un campo da gioco africano, tagliato in due dalla rete ma anche dall’equatore, in modo che la palla viaggia da un emisfero all’altro. O lo spogliatoio d’epoca, dove un colletto duro e una giacca fanno finta che dalla porta sullo sfondo arrivi qualcuno e li indossi. Anche la racchetta incompleta nel falso laboratorio fa pensare a un falegname.

Tutti gli oggetti sono isolati dalle passioni, in una loro perplessità, come le foto. Qualche tennista, col braccio e il mento tesi all’insù e la mano aperta senza più la palla, sembra avere un suo speciale rapporto con il cielo. Poi si è messo in moto il disco di una radiocronaca piena di fruscii; è difficile capire i nomi, cerco l’uscita. Nei passaggi e nelle scale bianche c’è già la sensazione di un colore diverso sopra; dopo un’ultima rampa sguscio nello stadio deserto, mi siedo all’inizio di una panca.

Non so se è il campo d’erba, o il verde opaco uniforme con cui tutto è dipinto, a rendere lo spazio così raccolto. Forse è la tettoia: in alto segna un margine netto, verde a filo dell’azzurro, in basso scende come un cappello e inghiotte gli spettatori nel buio da cui guardano. Quelli che lascia scoperti, cioè le panche laggiù, debbono sentirsi attorno al campo come a tavola.

Quasi non mi accorgo dei tre ragazzi che si sono seduti qui accanto, subito al di là dei gradini. Fisso come loro il campo vuoto, dove la palla avrà tracciato un otto orizzontale tra un giocatore e l’altro, come il segno dell’infinito. Si tratta di tramare contro quel movimento perpetuo con lo stesso colpo con cui bisogna ricucirlo.

Adesso, con lo sguardo più abituato, distinguo i profili che soli indicano una differenza tra le cose: il tabellone dei numeri o gli ordini delle tribune o quello che per la sua posizione appena rilevata non può che essere il palco reale; i ragazzi si sono seduti lì, provano probabilmente un punto di vista. Poi camminano ancora ai bordi del campo, fino a una scaletta in discesa. Spariscono dal margine dell’occhio.

Nemmeno la densità del luogo è un aiuto, anzi. In fondo tra poco avrò l’ultima occasione, e dovrei trovare qualcosa che mi portasse di colpo al perché lui non ha scritto; ma ho solo pensieri confusi, e un senso di lontananza da quella domanda come da un vortice di acume, o di rigore, o di ironia per compensare, o di angoscia paralizzante, o non so. Non mi vengono idee, ma solo frasi, come: «Dovevo cominciare da lì, da quel punto. Ora però è diverso». Oppure: «Forse la risposta è il fatto stesso che ho viaggiato, che ho incontrato qualcuno, o che sto qui. E che alla fine ho…» Oppure: «Scrivere non è importante, però non si può fare altro».

Qualunque frase è contro il panorama. Vorrei solo vedere, e sentire; e per la prima volta è spiacevole, proprio adesso, non poter fotografare una visione di insieme, o un particolare che conta solo per me. Prendo un quaderno dalla borsa, per disegnare; nel movimento ho l’impressione di una piccola forma nera sulla destra. Lo sguardo torna indietro da sé: sulla panca al di là dei gradini c’è un cinturino che pende a terra, e un astuccio con un naso pronunciato, e dentro può esserci solo una cosa al mondo: una macchina fotografica.

Devo essere diventato rosso, non so se per l’incredulità, per l’emozione o che. Ho sentito il sangue risucchiato in un punto eccentrico del corpo, e poi defluire prudente mano a mano che la “cosa”, l’unico colore autonomo qui, appariva aderente al resto, reale.

In giro, nello stadio, non si vede nessuno.

La prima idea è prendere la macchina, scattare le foto che mi piacciono e portarla via. Poi diventa: scattare le foto, finire il rullo, metterlo in tasca e consegnare la macchina al bigliettaio del museo. Finisce per essere ancora più sobria: forse al “book-shop” del museo, oltre ai ricordini e alle magliette, vendono delle pellicole; potrei usare una di quelle, lasciando poi al bigliettaio la macchina e il suo rullo originale. Penso così, però guardo la macchina di sbieco, come se temessi un riverbero.

Inoltre, andando al museo potrei essere sorpreso dal proprietario con la macchina in mano, in una direzione neutra che avrebbe potuto portare ovunque, anche fuori. E lasciando la macchina dov’è, mentre vado a comprare la pellicola, potrebbe arrivare un altro visitatore e applicare l’idea più spontanea, e barbara. Non faccio nulla; aspetto che le cose accadano, come sempre. Occupo il tempo scegliendo già qualche immagine.

Da dietro c’è un rumore leggerissimo. Non mi volto, anzi tolgo anche la coda dell’occhio dall’astuccio; sento un passo sospeso sul gradino, come se un piede rimanesse sul bordo di quello sopra, e poi sommessamente si mettesse in pari. Qualcuno sta guardando lo stadio, o il profilo immobile delle mie spalle, o forse le panche, o il verde e il celeste sullo sfondo. Muove soltanto gli occhi. Dopo un po’, di nuovo l’abrasione leggera della suola sul cemento. Ora tutto è di lato, esattamente alla mia altezza, e cerco di includere il più possibile, anche i risvolti di velluto sulle scarpe gialle, prima ferme, poi in movimento lentissimo tra le panche, da “quella” parte, poi di nuovo ferme a lungo, infine accavallate, con dolcezza, al di là della macchina.

E’ parecchio che osserviamo il campo come una cosa fondamentale, e pensiamo a quale relazione ciascuno di noi può avere con l’astuccio. La mia, con i gradini in mezzo e un disinteresse inspiegabile, non è consistente. Anche la sua però - non ha nemmeno sfiorato la macchina - è indefinita. Nessuno di noi, sebbene abbia presentissimo l’altro, staccherebbe lo sguardo dai bordi a sinistra o a destra, dalla sedia dell’arbitro o dal rullo per spianare, improvvisamente importanti.

C’è stato un intervallo lungo, così intenso, così senza tempo che mi sono distratto. Torno qui nell’attimo in cui l’astuccio scivola via pianissimo, tirato per il cinturino, definitivamente lontano da me. Lui non lo guarda; appoggia i pollici sulla gobba, schiaccia il cuoio, per controllare la resistenza dentro. Poi è rimasto con la macchina in grembo, aspettando non so cosa.

Si allontana tranquillo, senza prendere le scalette da questa parte. Gira quasi metà dello stadio, guarda gli arredi; si ferma un attimo vicino alla cabina dei telecronisti. Quando attraversa il campo e lo vedo in pieno sole, con la giacca di renna e gli occhiali scuri, sono sicuro che non è uno dei ragazzi di prima.

 

Risalendo la collina ho tagliato per il parco. Ogni tanto mi volto verso la valle e lo stadio; pacati, inoffensivi. All’inizio le buche nell’erba sembravano la tana di un animale piccolo e accurato, poi ho capito che servono per il golf. Le ho seguite senza badare ad altro, fino a uno spiazzo senza più alberi e senza più niente, quasi di fronte alla staccionata scura della casa. Mi sono reso conto che non so assolutamente cosa dire. Arrivo al portoncino con una leggera, ingiudicabile euforia.

 

Lei ha detto: «E come va?» Ho sorriso: «Bene». Abbiamo parlato degli inglesi o dei giardini, sfruttando il più a lungo possibile la svagatezza dei preliminari. Non so se è l’eleganza del suo vestito di lana, o la teiera e il dolce già pronti sul tavolino a rendere tutto abbastanza facile, e senza importanza. Finché lei piega la testa in modo assorto, e dice: «Questa notte ho dormito poco. Ho pensato a quello che lei ed io abbiamo detto ieri. E sono giunta a una conclusione». Io rispondo: «Bene»; in realtà sono già più teso, e in colpa per aver dormito con tranquillità e non aver pensato nulla.

«La conclusione è questa. Quando io l’ho conosciuto non ho pensato che era uno che scriveva. Ho pensato che aveva due vocazioni: una era di far conoscere quello che a lui sembrava importante. E l’altra… C’è un punto della vita in cui va presa una decisione fondamentale. In quel punto le cose cambiano, o debbono cambiare, e non si può più andare avanti per aggiustamenti progressivi, automatici. Ecco: molte persone, arrivate a quel punto, hanno incontrato lui. E lui le ha aiutate a cambiare, o a decidere. Io credo che questa era la sua passione, e il suo capolavoro. Nient’altro».

Non rispondo nulla. Ancora ieri avrei cercato di forzare un’immagine così netta, definita. Sarei stato in silenzio in un modo diverso, aspettando un attimo di fragilità per spostare il discorso, o ricavando anche dalla sola indicazione di come lui camminava o rideva una mia idea di ciò che pensava dello scrivere. Adesso ascolto senza prendere tempo, senza pensieri paralleli. Come se potessi fare a meno di ogni riferimento.

Lei dice: «La cosa più curiosa è che poi le persone erano convinte di avercela fatta da sole. Una volta ho letto da qualche parte: ‘E’ impossibile dire che cosa lui pensava’. Come è impossibile? Ognuno dovrebbe dire: ‘Questo era il mio problema, ed è con questo problema che sono andato da lui, ed è così che l’ho risolto, con lui’… Forse quando un problema è vero, ed è risolto, può sembrare che non ci sia mai stato. O forse questo era l’ultimo particolare che rendeva perfetto il suo aiuto. Lei pensa che una cosa così si poteva fare scrivendo?»

Mi appoggio sui braccioli, sorrido: «Non so, tutto questo ormai non è più importante». Lei alza le sopracciglia prudente, appena ironica. Dice piano: «Vede!…» La guardo, sorrido di nuovo, come spaesato.

Dico: «No, una cosa così è opposta allo scrivere. Forse è questione di distanza, non so. Nei libri ci sono gesti, modi di muoversi, relazioni con gli oggetti, immagini di comportamento, e si aggiungono alle migliaia di comportamenti o di ragionamenti che uno ha già, e che poi inconsapevolmente riutilizza nella vita, come tutto. Forse non sono nemmeno questi che contano. Il vero comportamento che c’è nei libri è il comportamento di fronte alla forma. Il comportamento stesso di qualcuno “che scrive”. Può darsi che anche questo aiuti a cambiare, o a decidere, o aiuti ad essere; ma in un modo diverso da ‘una cosa così’. Adesso è questo che a me sembra importante».

Lei sorride, di nuovo dice: «Vede!…» ma con un finale più pacato, vago.

Resta sospesa in una leggera disattenzione, poi riprende piano: «Un giorno abbiamo avuto una discussione sull’impossibilità di cominciare a scrivere. Lui scriveva sempre lettere o appunti, ma se doveva scrivere davvero una pagina aveva delle difficoltà tremende. Disse: ‘Scriveremo un romanzo a due mani, una frase tu e una frase io, in modo che la storia possa andare da una parte e dall’altra’… Molti anni fa ho dovuto scrivere dei racconti per un giornale tedesco. Al venerdì vedevo annunciato sul giornale il racconto per il lunedì. Così ero costretta a farlo. Mi ci mettevo, e quando ero a metà della storia cominciavo a tremare, non so perché; mi eccitava moltissimo. Ma prima e dopo era terribile».

Ha respirato profondamente, ha aggiunto: «E adesso, come le ho già detto, quando provo a scrivere c’è Bobi, e naturalmente guarda ogni storia con gli occhi di Bobi…»

Non sono mai stato così vicino alla risposta, e così indifferente alla domanda. All’inizio pensavo che in uno di questi incontri ci sarebbe stato un momento di evidenza; l’argomento, le persone, la stanza si sarebbero tese in una perfetta simultaneità, e quella tensione avrebbe prodotto chissà quale scatto anche per me. Adesso non so se è più lo stupore per averlo pensato, o la circospezione con cui me ne allontano. Cerco di dirlo a lei; uso altre parole, senza mai toccare un punto di sincerità.

Lei piega la testa; dice: «Lo so». Poi sorride in un modo strano: «La mia vita con lui era fatta di persone che volevano vederlo senza la mia presenza. Dicevano: ‘Ti dispiace se ci parlo da solo?’ Io uscivo a passeggiare, e quando tornavo c’era qualcuno che andava via guardando da un’altra parte. Però una volta ero presente quando lui ha cambiato la vita di una persona in mezzo alla strada. Pranzavamo in un ristorante all’aperto, con un giovane che aveva voluto incontrarlo per scrivere un saggio su uno scrittore tedesco. A un certo punto questo ragazzo si è messo a parlare di sé. Non diceva nulla di particolare; però il modo in cui diceva le cose le rendeva inspiegabili. Ascoltavamo. Bobi alla fine ha detto: ‘Ma perché lei vuole scrivere saggi? Racconti queste cose come lei immagina che le siano accadute, o come le ha raccontate a noi adesso’. E in effetti poi così è stato».

Mette in ordine la tazza, il coltello, il tovagliolo di carta muovendoli appena, come se ognuno dovesse coincidere con una propria sagoma invisibile disegnata sul tavolino. Poi chiede: «Dove ha mangiato oggi?»

Le ho descritto un pub all’inizio della salita, con le luci inutilmente equivoche, come una taverna di notte. Ha risposto: «Sì, lo conosco. Non ci vado più. Adesso ho adottato una specie di “basic food”: molta frutta, formaggio, caffè, yogurth…» Fa un gesto delicato: «Certe volte ho un desiderio folle di mozzarella».

Restiamo in silenzio, con traiettorie diverse finché si volta, quasi illuminata: «Lei ieri ha detto che aveva freddo». Cerco di ricollegare questa frase a una situazione, o al modo sereno in cui lei si allontana, adesso, verso un’altra stanza. Mi dispiace di non riuscire a distrarmi dai rumori di cassetti che vengono da lì. Ritorna con una busta opaca. Dice: «Ho un omaggio per lei, da parte di Bobi».

Guardo la busta. Guardo lei. Sento un’aderenza profonda alla poltrona. Con un rumore di cellophane scivola fuori dalla busta un insieme morbido; mano a mano che lei lo distende, tenendolo aperto per le spalle, appare un pullover di lana corta, pettinata, in un grigio chiarissimo e con il collo a V.

Lei sorride: «Chissà se le va bene».

Alzandomi, mi è sembrato che il corpo perdesse ogni intenzione. Lei mi ha appoggiato il pullover sulla giacca, allineando le spalle e una manica. Considera ogni punto con occhiate che escludono la mia faccia. «E’ corto, e largo. Ma la riparerà». Ha lasciato il pullover così. Nell’attimo in cui stava per cadere l’ho trattenuto premendo una mano sullo stomaco. Ho percepito l’odore di canfora e la consistenza della lana. Ho detto come un automa: «Grazie».

Dopo, bevendo il tè, controllo ogni tanto il pullover sulla sedia dove è finito. Vorrei che nessuno di noi ci badasse. Ma nei momenti di minore concentrazione lo sguardo gira attorno al pianoforte, o alla finestra, e poi inevitabilmente finisce lì.

Lei dice: «Ogni sera, appena ho preparato tutto davanti alla televisione, telefona qualcuno. A quell’ora il telefono costa di meno, tutti chiamano proprio quando sto per premere il bottone. L’ultima volta che sono stata al cinema era per “La dolce vita”, ma alla televisione guardo sempre i film… Molte cose sono cambiate, non ho nemmeno più i gatti di cui parla Montale nella poesia…»

Mi ha dato un’occhiata di sfuggita, per capire se conosco “A Ljuba che parte”; ho fatto cenno di sì. Per un istante immagino Gerti, e lei, Ljuba, di nuovo come puri nomi. Penso alla vitalità di quell’astrattezza, alla forza delle erre e delle u. A come Montale ha usato i nomi e le donne per la poesia. Al modo esattamente opposto in cui “lui” ha usato la poesia: come un gioco affettuoso nel rapporto con queste donne, scrivendo anche lui una poesia a Gerti per il suo compleanno, e a Ljuba perché non avesse paura dei ladri. Non so, è come se il silenzio non permettesse la falsità, o almeno la probabilità, cioè la vita. Forse occorre qualcosa di più limitato, limitato dal nome. Ho pensato che il silenzio costringe a lunghi viaggi per vedere. Ho pensato a tutto questo con l’idea che era l’ultima volta che ci avrei pensato.

Sorrido, dico: «I gatti è bellissimo destabilizzarli».

Lei chiede: «Destabilizzarli come?»

Ho riso di nuovo: «Piegando una sedia sul pavimento, o un tavolino. Loro si avvicinano con prudenza e stupore, come se ci fosse stata una tragedia del mobilio».

Scuote la testa: «I gatti sono come gli ebrei. Difficilmente sono stupidi, ma quando sono stupidi lo sono in un modo totale… Comunque adesso non li ho più». Le sue mani, o la bocca, indicano ciascuna per proprio conto come si sono adeguate nel tempo a complessivi mutamenti.

Io ho sempre in mente il pullover.

Lei dice: «Anche in città non vado più tanto. Ci sono stata la scorsa settimana, per comprare un calcolatore tascabile che desideravo da parecchio. Appena sono tornata a casa si è guastato; credo che ne farò a meno. E un’altra cosa che non posso più fare è comperarmi i vestiti. Nel negozio ce ne sono a decine, ma io non so dove stanno, non li vedo, e quando li vedo non mi piacciono. Forse c’è un altro motivo, anche… Era una giornata bellissima, e io non avevo niente, nemmeno un mal di testa. Ho scelto da Marks & Spencer un abito lungo, colorato ma non troppo. Mi sono chinata per firmare l’assegno e tutto è finito in un buio assurdo…»

Non dico nulla, abbasso gli occhi verso un punto neutro.

Lei riprende: «Vedere non è importante. E poi esiste il contrario: essere invisibili, quando si è in un particolare stato d’animo, opachi, da un’altra parte. Le è mai capitato?»

Ho sorriso in un modo che poteva sembrare «non so», «non mi ricordo» oppure «mi illudo sempre di essere visibile». Lei si è tirata in avanti, controllando il silenzio che precede il racconto. Poi ha detto: «Dopo il funerale, a Milano, sono andata all’aeroporto. Avevo bisogno di un’aranciata, e di un’aspirina. Ma di notte era tutto chiuso, così non ho bevuto, non ho preso niente. Mi sono ritrovata nell’aereo non so come; quasi vuoto, con le luci per leggere. Io ero seduta al centro, ma “non c’ero”. Di colpo, nello stesso istante, ho visto la macchia luminosa dell’Inghilterra, ho sentito un odore di cibo, e lo steward si è chinato su di me. Ha detto: ‘Lei non ha avuto da mangiare. Ecco perché c’era un vassoio in più’. Ho risposto: ‘Non ha importanza, basterebbe un caffè’. Lui ha detto: ‘Certamente’. Subito dopo io mi sono dimenticata del caffè e dell’aereo. E lo steward non è più venuto. Dopo erano quasi fotografie: una sala d’aspetto, un posteggio di taxi, la mia valigia piccola sbucata fuori da non so dove. Nessuno mi ha chiesto il passaporto, o controllato il bagaglio. Dall’aeroporto a Wimbledon non sono stati più di dieci secondi. Davanti a casa l’autista del taxi ha detto: ‘Signora, non si sente bene? Se vuole vengo su e le faccio una tazza di tè’. In cucina apriva gli armadi e sciacquava la teiera senza parlare. Ha messo una sola tazza sul tavolo, si è versato il tè bollente e ha cominciato a bere. Quando ha finito ha detto: ‘Mi sembra che ora vada meglio’. Io l’ho pagato, e lui è andato via».

C’è un risucchio delle parole, nel quale seguo immagini ad una velocità diversa dalla mia, fino a che l’aria si richiude e rallento di nuovo. Penserò di aver visto tutto questo, e lo ricorderò in un modo diverso. E anche quando tra poco dirò: «Bene…», e chiederò quanto ci vuole da qui all’aeroporto, mi alzerò e lei si alzerà, e passerò tra le poltrone tutto spostato a sinistra per dimenticare qui ciò che vorrei, sarà diverso da come lo sto immaginando e da come lo ricorderò. L’idea che ci sarà stato un attimo, tra l’invenzione e la memoria, in cui tutto questo sarà accaduto, non lo renderà più concreto.

Sulla porta ho sorriso. Ci siamo abbracciati.

Quando sto per uscire lei dice: «E il pullover?»

Io dico: «Sì, il pullover».

Lei torna col pullover ma senza la busta; io mi chino ad aprire la borsa.

Lei dice: «Lo metta. E’ umido fuori».

In una sospensione strana, muta, ho considerato diverse possibilità, compresa quella di restare così, chinato e immobile; come se un’astrazione clamorosa dal tempo potesse esentarmi da scuse più mediocri o difficili da motivare.

Adesso la sua attenzione è così tesa che la percepisco come un rumore. Resto sulla borsa aperta, fino al limite estremo in cui l’immobilità andrebbe spiegata. Poi, lentamente, mi alzo. Senza guardare, senza sentire, e sperando che tutto sarà impermeabile, infilo il pullover.

Lei dice: «Oh, ma le sta benissimo sotto questa giacca».

Io dico: «Sì».

Ci siamo salutati ancora. Ho preso la mia borsa e sono uscito. Mi sembrava che se non avessi respirato ci sarebbe stata minore aderenza.

 

Lungo la discesa penso ogni tanto allo spessore della camicia. Mi chiedo anche se ci sarà una proporzione tra la durata dell’esposizione al pullover e un qualsiasi effetto. Cammino con un passo rigido, affrettato, come dentro un’armatura. Chissà quante parole occorrerebbero per spiegare la situazione alle persone sedute in questi giardini, quiete davanti alle loro case, nel tardo pomeriggio.

Spuntano i comignoli della stazioncina; scendo le scalette, compro dal negro un biglietto per Heathrow. Vado avanti sulla pensilina vuota, fino a un’ultima casetta quasi affacciata sulla campagna, e con la scritta «Gentlemen». Lì dentro, in un rumore di acqua corrente, cerco un appiglio sulle pareti smaltate di bianco e di rosso; alla fine appendo la giacca allo spigolo di una porta. Mi sfilo il maglione, lo appoggio sulla borsa. Mi rimetto la giacca, passo una mano tra i capelli in modo che abbiano un senso anche senza lo specchio. Fuori c’è un suono rotondo, uno stridio.

Sono fermo davanti al treno di alluminio, con alle spalle un sole basso, di taglio. Non sono mai stato così all’inizio, determinato e incerto.

Aspettando che le porte si aprissero ho cercato nella tasca il margine del biglietto. Ho sollevato la borsa.

Nell’altra mano tenevo il pullover, con la delicatezza con cui si tiene un bambino.