giovedì 15 dicembre 2022

XENAKIS Estratto da "UN INCONTRO" di Milan Kundera

 XENAKIS

Estratto da "UN INCONTRO" di Milan Kundera 

IANNIS XENAKIS
O IL RIFIUTO INTEGRALE DELL’EREDITÀ

(TESTO PUBBLICATO NEL 1980 CON DUE INTERLUDI DEL 2008)

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Accadeva due o tre anni dopo l’invasione russa in Cecoslovacchia. Mi sono innamorato della musica di Varèse e di Xenakis.

Mi domando perché. Per snobismo avanguardistico? Nella vita solitaria che conducevo allora lo snobismo non avrebbe avuto alcun senso. Per un interesse di esperto? Se potevo al massimo capire la struttura di una composizone di Bach, di fronte alla musica di Xenakis ero completamente disarmato, incolto, un principiante, un ascoltatore, insomma, del tutto ingenuo. Eppure le sue opere, che ascoltavo con avidità, mi davano un autentico piacere. Ne avevo bisogno: mi procuravano uno strano sollievo.

Sì, la parola è sciatta. Nella musica di Xenakis ho trovato sollievo. Ho imparato ad amarla nel periodo più oscuro della mia vita e del mio paese natale.

Ma perché cercavo sollievo in Xenakis e non nella musica patriottica di Smetana, che avrebbe potuto offrirmi l’illusione dell’immortalità di una nazione da poco condannata a morte?

Il disincanto provocato dalla catastrofe che colpì il mio paese (catastrofe le cui conseguenze saranno secolari) non era circoscritto agli eventi politici: questo disincanto coinvolgeva l’uomo in quanto tale, l’uomo con la sua crudeltà ma anche con l’alibi di cui si serve per dissimulare tale crudeltà, l’uomo sempre pronto a giustificare la sua barbarie con i sentimenti. Capivo che la concitazione sentimentale (nella vita privata come nella vita pubblica) non è in contraddizione con la brutalità, ma si confonde con essa, ne è parte...

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Aggiungo nel 2008: Leggendo nel mio testo di allora le frasi sulla «nazione da poco condannata a morte» e sulla «catastrofe che colpì il mio paese ... le cui conseguenze saranno secolari», istintivamente sono stato tentato di sopprimerle, poiché oggi non possono che apparire assurde. Poi mi sono controllato. Mi è sembrato persino un po’ spiacevole che la mia memoria abbia avuto la tentazione di censurarsi. Sono questi gli Splendori e le Miserie della memoria: è fiera di saper conservare fedelmente la sequenza logica degli avvenimenti passati. Ma quanto al modo in cui li abbiamo vissuti, non si sente affatto tenuta alla verità. Allorché era tentata di sopprimere quelle brevi citazioni, non si sentiva affatto menzognera. Se era stata tentata di mentire, non era forse nel nome della verità? Non è infatti evidente, oggi, che la Storia nel frattempo ha fatto dell’occupazione russa della Cecoslovacchia un semplice episodio che il mondo ha già dimenticato?

Certo. Eppure questo episodio, io e i miei amici l’abbiamo vissuto come una catastrofe senza speranza. E se si dimentica il nostro stato d’animo di allora, non si può capire nulla, né il senso di quell’epoca, né le sue conseguenze. La nostra disperazione non era legata al regime comunista. I regimi vanno e vengono. Ma le frontiere delle civiltà restano. Ci siamo visti fagocitati da un’altra civiltà. Molte altre nazioni, all’interno dell’impero russo, stavano per perdere finanche la loro lingua e la loro identità. E mi sono di colpo reso conto di un’ovvietà (di una sorprendente ovvietà): la nazione ceca non è immortale; può anche non essere. Senza questa idea ossessiva, il mio strano amore per Xenakis risulterebbe incomprensibile. La sua musica mi ha riconciliato con l’ineluttabilità della finitezza.

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Continua il testo del 1980: Ricordo, a proposito dei sentimenti che giustificano la crudeltà umana, una riflessione di Carl Gustav Jung. Nella sua analisi dell’Ulisse, definisce James Joyce «il profeta dell’insensibilità»: «Noi possediamo» scrive «alcuni dati per comprendere che l’inganno sentimentale ha raggiunto proporzioni veramente eccessive. Pensiamo al ruolo realmente catastrofico dei sentimenti popolari in tempo di guerra ... Il sentimentalismo è una superstruttura della brutalità. Sono convinto che siamo prigionieri del sentimentalismo e che, di conseguenza, dobbiamo trovare perfettamente ammissibile che nella nostra civiltà sopraggiunga un profeta dell’insensibilità compensatrice».

Benché «profeta dell’insensibilità», Joyce poteva restare un romanziere. Penso addirittura che avrebbe potuto trovare nella storia del romanzo i predecessori della sua «profezia». Il romanzo in quanto categoria estetica non è necessariamente legato alla concezione sentimentale dell’uomo. La musica, invece, non può sfuggire a tale concezione.

Per quanto uno Stravinskij rifiuti la musica come espressione dei sentimenti, il semplice ascoltatore non potrà comprenderla diversamente. È la maledizione della musica, il suo lato stupido. Basta che un violinista suoni le prime tre lunghe note di un largo perché un ascoltatore sensibile sospiri: «Ah, com’è bello!». In queste prime tre note che hanno provocato la sua emozione non c’è nulla, nessuna invenzione, nessuna creazione, niente di niente: il più ridicolo «inganno sentimentale». Ma nessuno è al riparo da questa percezione della musica, dallo sciocco sospiro che suscita.

La musica europea è fondata sul suono artificiale di una nota e di una scala; è quindi agli antipodi della sonorità oggettiva del mondo. Fin dalla sua nascita, è legata, in virtù di una convenzione imprescindibile, al bisogno di esprimere una soggettività. Si oppone alla sonorità bruta del mondo esterno come l’anima sensibile si oppone all’insensibilità dell’universo.

Ma può giungere il momento (nella vita di un uomo come in quella di una civiltà) in cui il sentimentalismo (sino allora considerato una forza capace di rendere l’uomo più umano e di mascherare la freddezza della sua ragione) si rivela di colpo la «superstruttura della brutalità», sempre presente nell’odio, nella vendetta, nell’entusiasmo per le vittorie cruente. È stato allora che la musica mi è apparsa come il rumore assordante delle emozioni, mentre il mondo dei rumori nelle composizioni di Xenakis è diventato bellezza; la bellezza depurata dal sudiciume affettivo, spogliata dalla barbarie sentimentale.

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Continua il testo del 1980: Benché «profeta dell’insensibilità», Joyce poteva restare un romanziere; Xenakis, invece, ha dovuto uscire dalla musica. La sua innovazione è diversa da quella di Debussy o di Schönberg. Costoro non hanno mai smarrito il legame con la storia della musica, potevano sempre «tornare indietro» (e vi tornavano spesso). Per Xenakis i ponti erano distrutti. Olivier Messiaen l’ha detto: la musica di Xenakis non è «radicalmente nuova ma radicalmente altra». Xenakis non si oppone a una fase precedente della musica. Rompe con tutta la musica europea, con tutta la sua eredità. Colloca il suo punto di partenza altrove: non nell’artificio di una nota che si è separata dalla natura per esprimere una soggettività umana, ma nel rumore del mondo, nella «massa sonora» che non scaturisce dal cuore ma ci giunge dall’esterno come il ticchettio della pioggia, il frastuono di una fabbrica o l’urlo della folla.

I suoi esperimenti su suoni e rumori che si trovano al di là delle note e delle scale potranno fondare una nuova fase della storia della musica? Resteranno a lungo impressi nella memoria dei melomani? Non è affatto detto. Ciò che resterà è il gesto di un immenso rifiuto: per la prima volta, qualcuno ha osato dire alla musica europea che è possibile abbandonarla. Dimenticarla. (È forse un caso se Xenakis ha avuto da giovane la possibilità di conoscere la natura umana come mai nessun altro compositore? Attraversare i massacri di una guerra civile, essere condannato a morte, vedere il suo bel volto sfregiato per sempre da una ferita...). E penso alla necessità, al senso profondo di questa necessità, che ha condotto Xenakis a schierarsi dalla parte della sonorità oggettiva del mondo contro quella della soggettività di un’anima.