martedì 13 dicembre 2022

MARTE Il cavaliere, la morte e il diavolo

 


MARTE
Il cavaliere, la morte e il diavolo
Fritz Zorn

INTRODUZIONE 

Italo Alighiero Chiusano 

I casi letterari sono spesso luttuosi: Tomasi di Lampedusa, il cui "Gattopardo" viene pubblicato postumo, Guido Morselli che si vede respingere tutti i manoscritti finché muore suicida per essere poi festeggiato come un grande scrittore. Oppure sono storie opprimenti: Stefano D'Arrigo che tesse, lentissimamente, quasi in un'aura ospedaliera, il suo enorme sorprendente "Horcynus Orca"; o Kafka, malnoto o ignorato o frainteso in vita, che poi diventa il profeta letterario del ventesimo secolo.

Fritz Zorn, un caso letterario tra i più vistosi di questi ultimi anni, ribadisce la regola. E fa parte del primo filone, quello delle rivelazioni totalmente postume. Il suo unico libro (questo, che Mondadori ha lanciato con vasta eco nel 1978) è libro postumo per natura: il libro di un moribondo che non solo sa di esserlo, ma gioca tutte le sue carte esistenziali e letterarie sul lancio di un messaggio "post mortem".

Di chi si tratta? Già il nome rivela molte cose. Fritz Zorn non si chiamava così. Per riguardo a talune persone nominate e duramente bistrattate nel libro, non volendo egli rinunciare alle sue invettive, accettò l'idea di avvalersi di uno pseudonimo. Nella scelta non procedette a caso, ma segnalò i suoi intenti e la sua «filosofia». Il suo vero cognome era Angst (che significa angoscia, paura). Come si vedrà, un cognome talmente adatto a lui che non si oserebbe attribuirlo a un personaggio di romanzo o di dramma per evitare la taccia di simbolismo da quattro soldi, come nei nomi di certe macchiette da farsa o di certi indigesti personaggi allegorici.

L'autore scelse, come nome-maschera, Zorn (che significa collera, ira). Ripeto: tutt'altro che una scelta casuale. Si potrebbe anzi dire che il succo di tutto questo libro sia la trasformazione della "Angst" in altrettanto Zorn, cioè il rifiuto del terrore puramente passivo e vittimistico e la scelta di quella tremenda arma attiva che è la rabbia lucida e ragionata.

Chi, prima di morire (il 2 novembre 1976, a Comano, nel Canton Ticino), imboccò questa strada era uno svizzero trentaduenne. Nato, cresciuto, vissuto a Zurigo, in ambiente borghese molto facoltoso, su quella riva del lago che si chiama, per l'eleganza delle sue ville, «la costa d'oro». Aveva condotto studi regolari, e con buon esito.

All'università aveva studiato prima germanistica, poi romanistica, specializzandosi in letteratura spagnola e portoghese. Poi aveva insegnato, fin quasi alla morte, in un liceo della sua città.

A un certo punto, un nodulo fastidioso nel collo, trascurato o voluto ignorare come tante altre cose che davano fastidio. Più tardi, peggiorata la situazione, arrivò la diagnosi: cancro. Più tardi ancora una diagnosi più specifica, anche se sostanzialmente non diversa: linfoma maligno. La scoperta scatenante, quella che induce colui che continueremo a chiamare Zorn a mettere in carta le sue idee, i suoi ricordi i suoi furori, le sue accuse, i suoi lamenti.

Chiuso il manoscritto il 17 luglio 1976, già a Comano, l'autore lo fa pervenire a un illustre critico letterario, che è anche un buon romanziere e drammaturgo: Adolf Muschg. Il quale si sente profondamente colpito da quel fascio di fogli e, al di là di ogni considerazione puramente letteraria e stilistica, decide di adoperarsi perché quel discorso sul crinale della morte arrivi al pubblico. Ne parla a un editore, trova un'accoglienza incerta. Insiste. Finalmente ha il sì della casa editrice Kindler di Monaco di Baviera. Fa per comunicarlo telefonicamente a Zorn, ma viene a sapere che l'autore è deceduto proprio quella mattina, nella ricorrenza dei defunti. Per fortuna risulta che il medico curante di Zorn, venuto a conoscenza dell'accettazione editoriale, ne aveva dato notizia all'interessato già la sera prima, quand'egli era ancora in grado di capire e di rallegrarsene. Nel 1977 il libro usciva presso l'editore Kindler e cominciava a far molto discutere.

E non solo perché era patetica la vicenda di un morto di trentadue anni, stroncato da un cancro, che parlava di sé e del suo male da oltre la tomba, né perché un nome noto come quello di Muschg avallasse la sua proposta e la corredasse di una postfazione avvincente. Il libro, anche a prescindere da queste due circostanze è un «prodotto letterario» di sicura validità e, più ancora, un documento umano di bruciante, addirittura irritante interesse. Perché parla di cancro, di morte precoce, di addio al mondo? Anche per questo, ma non solo per questo, anzi direi che tale aspetto passa in seconda linea. Ciò che prevale, ciò che dà a queste pagine un'originalità che le fa emergere tra moltissime altre di tematica affine è il modo con cui Zorn imposta il discorso e i bersagli contro cui si avventa.

"Il cavaliere, la morte e il diavolo" è infatti un lungo atto di accusa contro i colpevoli della sua malattia e della sua prossima morte. Colpevoli? Di un linfoma maligno? Quasi fosse una ferita di arma da fuoco o una rapina a mano armata? Precisamente: come se fosse una ferita o una rapina. E' dunque pazzo l'autore? No di certo.

Ammette lui stesso di essere nevrotico e psicotico, ma ha il pieno possesso delle sue facoltà mentali, è in grado di ragionare e di valutare, dimostra anzi una chiara intelligenza, anche se molto nutrita di passionalità e portata al vittimismo. Ma dunque questi colpevoli chi sono?

Sono, innanzi tutto, i genitori. I quali - Zorn lo ribadisce più volte, come ribadisce più volte quasi tutto ciò che lo opprime e lo agita, essendo uno scrittore a ondate successive, come tutti gli ossessi - non sono affatto cattivi, anzi si potrebbero definire brava gente. (A parte la ricchezza di cui dispongono e perciò gli agi, il riparo da ogni preoccupazione economica che hanno potuto offrire al loro figlio.) Ma sono, con e senza virgolette, borghesi e «borghesi».

Per di più, borghesi svizzeri: qualità che uno straniero può anche trovare degna di invidia, specie se vive in qualche terzomondo che può cominciare subito a sud di Chiasso, ma che agli scrittori elvetici più svegli di questi ultimi decenni (Frisch, Dürrenmatt, Späth, Bichsel, eccetera) appare una vera e propria maledizione. Infatti, borghesi svizzeri di Zurigo. Il culmine, per Zorn, del perbenismo ipocrita, pavido e immobilista.

Di questa «borghesia» Zorn precisa che non la ravvisa solo nell'occidente capitalistico e che, pur giudicandola così pestilenziale, non per questo la ritiene peggiore del regime comunista sovietico o dell'Uganda governato (allora) da Amin Dada. Egli ne dà questa definizione, facendone una categoria tipologica universale: «Essere "borghese" vuol dire essere tranquillo a qualunque costo, perché altrimenti si potrebbe disturbare la quiete di qualcun altro».

E' solo un aspetto della borghesia, ma è fondamentale, in senso negativo, per un uomo come Zorn, che dichiara quanto gli sia «caro e gradito il concetto di disturbo».

Più o meno sembra di aver compreso, e non perché queste poche parole di Zorn siano esaurienti, ma perché fanno scattare in noi il ricordo di infiniti altri attacchi contro la borghesia succedutisi a tutti i livelli e da tutte le direzioni fin dalla metà del Settecento. Resta da vedere di quali colpe borghesi si siano macchiati, in particolare, i genitori di Zorn. Ed è la prima parte del libro, una parte molto godibile per la concretezza significativa di alcune annotazioni che definiscono o riesumano un mondo sempre carico d'interesse.

Zorn, che pure è molto attento alla psicanalisi, salta a piè pari la primissima infanzia: e me ne dolgo, così come giustamente Muschg si duole che l'autore non ci abbia rivelato la causa dell'unico litigio tra padre e madre di cui egli abbia memoria. Ma accontentiamoci di ciò che nel libro si trova. Ad esempio, i genitori di Zorn volevano che tutto fosse armonioso, senza attriti né stridori, senza polemiche né contestazioni. Avevano fastidio per ogni giudizio personale, un modo per loro intollerabile di accostarsi troppo agli altri, quasi un contatto fisico. Imponevano soavemente un vero culto per tutto ciò che era «elevato», ad esempio la musica classica, insinuando inorridito disprezzo per tutto ciò che appariva loro basso e volgare (ad esempio il jazz o la musica leggera). Bollavano con la parola «difficile» tutte le cose veramente importanti, quelle che in un modo o nell'altro scottano, che impongono una presa di posizione, che ti fanno esultare o arrabbiare, che ti spingono a essere ineducato, aggressivo, passionale, shocking. Parlo dei rapporti umani, della politica, della religione, del sesso.

In particolare, per loro la politica - oltre che di parlarne il meno possibile - impone un anticomunismo acritico e malsicuro («Ma vattene a Mosca!» è il grido segreto che lanciano in cuor loro a chiunque muova critiche allo "swiss way of life"), e una palese simpatia per la destra, magari non fascista (almeno in casa propria; nella Spagna di Franco invece sì) ma certo molto reazionaria, più che conservatrice.

Zorn, anni dopo, pur non diventando un vero uomo di sinistra, sentirà disgusto di quell'atteggiamento e perciò dichiarerà che quando stigmatizza l'elemento borghese lo intende «anche in senso politico», sebbene «non soltanto in senso politico».

Quanto alla religione, si direbbe quasi che i genitori di Zorn buttino via il bambino per conservare l'acqua sporca del bagno. Infatti onorano la Chiesa e le sue istituzioni, perché altamente «rispettabili»; mentre sentono un terribile fastidio di Dio e di tutto ciò che concerne la religiosità vera e propria. Così come non vanno in chiesa ad attingere lume e conforto, ma non mancano mai a un funerale.

Infine, il sesso. Per gente che rifiuta anche solo la parola «spontaneità», che non desidera «mai precipitare le cose», che vuole a tutti i costi mantenere le distanze, non c'è da stupire che il sesso sia argomento tabù, proprio per quelle qualità di totale coinvolgimento, di abbattimento di ogni barriera interpersonale, di irriguardoso calore, di accelerazione precipitosa che farà dire un giorno al loro figlio: «In quella parte del mio io che considero "me stesso" la sessualità è il massimo dei valori».

Zorn ha avuto una grave disgrazia: di non trovare, fuori di casa sua, un amico, un maestro, una donna che lo abbiano sottratto all'asfissiante influsso dei genitori; o, in se medesimo, una sufficiente carica di genialità, di ribellione, di follia per farlo uscire violentemente da quell'orbita. Anche di questo egli addossa la colpa ai genitori stessi, ma si sono visti innumerevoli casi in cui, vittima di questo stesso tipo di educazione, qualcuno ne è emerso vittorioso e affrancato.

Per Fritz non fu così. E i risultati furono deprimenti. Scuola frequentata con buon profitto esterno, ma senza un minimo di amore, meno che mai di passione, per le materie studiate. Poi università, frequentata con vantaggio, ma più grazie alla diligenza dello sgobbone che all'estro del futuro luminare. Con gli amici e i compagni rapporti normali, non drammatici, ma del tutto incolori. Fritz si fa persino la fama di ragazzo simpatico, allegro, mentre in realtà - ossia di dentro - è del tutto anemico, devitalizzato, inappetente. Né la laurea né il nuovo incarico di insegnante né la vita finalmente autonoma condotta fuori della casa paterna cambiano nulla da questo punto di vista. Così come un deserto, senza un'oasi né un pozzo d'acqua fresca né un alberello, sarà la vita sessuale e sentimentale di lui. Mai una donna, mai un'amica. Che sia omosessuale? Fritz teme anche questo, ma è un falso allarme. No, egli non ama nessuno. Il nulla, lungo tutto il giro dell'orizzonte.

C'è chi vive così, e invecchia, e sopporta: anche se è tutt'altro che invidiabile. Zorn ha una sorte diversa. Dapprima si fa viva la psiche, opprimendolo per anni sotto quel grigio macigno che si chiama depressione. E' una sofferenza atroce, ma come ovattata, senza zampilli di sangue (magari ci fossero!). Più tardi si fa vivo anche il corpo: o, meglio, la psiche manda il suo disperato segnale d'allarme attraverso il "soma". Ed è il cancro, la brutta bestia che porta Zorn alla disperazione, alla sofferenza. Ma che, paradossalmente, lo fa sentire più vivo, più intensamente e dolorosamente vivo di prima, quando all'apparenza «stava bene». Tant'è vero che a poco a poco la depressione svanisce, per far posto a quello che abbiamo detto all'inizio: lo "Zorn", la collera, la rabbia, il furore.

Man mano riscaldatosi svelando le colpe e le magagne di coloro che lo hanno ridotto così - i genitori, l'ambiente borghese, l'educazione puritana, la società svizzera - Zorn scopre in sé, con un isterismo ispirato anche se di lucide movenze, una vera e propria vocazione. E la sbandiera con frasi e ragionamenti di una certa megalomania. Questo «nevrotico malato di cancro», come si definisce egli stesso, pensa di essere l'elemento più debole di un paio di Cose infinitamente più grandi di lui, ma che lui potrebbe far crollare (o contribuire a far crollare) proprio perché la resistenza di un organismo si allinea sulla resistenza della propria componente più fiacca. E' questo che gli fa proclamare: «Io sono la decadenza dell'occidente». E poi: «Io sono il carcinoma di Dio».

Ecco il gran piano, la vendetta postuma, di questo «rivoluzionario passivo». Farà da detonatore a questo enorme mammuth pestifero e opprimente che è la borghesia (in senso lato) ancora dominante su tutto il pianeta. Che mi sembra un modo davvero sopra il rigo di valutare l'importanza e le malefatte di una classe sociale e di una mentalità che non può ambire a un ruolo così gigantesco. Ma Zorn la sente così, e ha il dono di farla sentire così anche al lettore: per lo meno durante una prima lettura a caldo. Dopo, se mai, il quadro si riassetta.

Ancor più interessante, con punte di delirio, il discorso su Dio. Che procede a zig-zag. Non come un ragionamento filosofico o teologico ma come gli alti e bassi sentimentali di un uomo che parli, poniamo di una donna che ha amato, che lo ha deluso, ch'egli ama ancora ma che nel contempo vorrebbe uccidere. Dio, sostiene Zorn, non esiste, o è probabile che non esista. O forse no: esiste, sì, anzi certamente, ma non come un tutto, come un assoluto. Esiste come un'entità parziale locale, relativa. Comunque, se non esistesse bisognerebbe inventarlo per poterlo prendere a ceffoni. In mancanza di meglio, si continua a crocifiggere in noi quello che di Dio si proclama il figlio, quel «guastafeste di Gesù». Però esiste certamente il diavolo, di cui nella Bibbia si parla così poco perché è come una scintilla in una polveriera. Il diavolo è la nostra unica speranza di liberazione, il ribelle al gran Capo che ha inventato il cancro e il coccodrillo. E' lui che un giorno distruggerà Dio, aiutato da ribelli come Zorn. Ma poi attenti a liberarsene subito, se no Belzebù vorrà diventare un assoluto, il nuovo dio che prende il posto di Dio...

Onde schiumanti contro una roccia: la Borghesia che diventa il Male incarnato, Dio che quasi prende il volto del Superborghese, il Diavolo che sembra invitare ai riti di un nuovo satanismo. Sono cose a cui la cultura europea ci ha abituati da tempo, e basti rileggere il sempre verde libro di Mario Praz, "La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica". Ma Zorn è uomo dei nostri tempi, anzi, dei nostri giorni: l'uomo delle banche svizzere (che vorrebbe far saltare in aria) e delle cure al cobalto, dell'elettronica e dei viaggi sulla Luna. E la sua "rabies" non è più quella di Nietzsche (anche se ne è una filiazione diretta) e meno che mai quella del marchese de Sade.

Del resto, basta guardare ai maestri che cita più volte: Freud, Reich, Sartre. Sì, è davvero l'angoscia, la frustrazione, la ribellione del nostro tempo. Come del nostro tempo è la macabra tematica cancerogena del suo libro. La stessa che ispira "Divisione Cancro" di Solzenicyn, o il recente libro di un altro svizzero, anzi zurighese come Zorn, Peter Noll, "Sul morire e la morte": libro anche questo postumo, anche questo scritto da un osservatore di se stesso che aveva perfettamente coscienza della propria condanna e voleva lasciare un messaggio al mondo (ma stavolta con più matura e ironica saggezza), anche questo «sponsorizzato» da un illustre padrino elvetico, Max Frisch. Del resto l'esperienza del tumore maligno ha fatto scrivere molte penne, in questi ultimi anni, tanto che si vorrebbe quasi parlare - ma con un certo disagio - di un nuovo genere letterario: e ricorderò soltanto, tra i racconti-confessione di questo genere usciti ultimamente in Italia, "La vita a metà" di Mimi Zorzi e "L'ospite inatteso" di Antonio Tronci.

Tuttavia, se devo pensare a uno scrittore contemporaneo di lingua tedesca, il nome che mi s'impone per primo è quello di Thomas Bernhard, il fascino opaco di un mugugno imbronciato e ripetitivo, tutto infarcito di accuse e di recriminazioni, di furioso disprezzo e di sarcasmo. L'uno e l'altro autore vedono, sì, le proprie debolezze e carenze, e anzi le ingigantiscono con una sorta di compiacenza masochistica. Però i veri colpevoli sono gli altri, sempre o soprattutto gli altri. Un vittimismo formato gigante, che gli toglie ogni residuo di grettezza ma anche ogni possibilità di rendere veramente giustizia al prossimo. E una fissazione maniacale sulla propria esperienza negativa, che fa assolutizzare la condanna nei termini del proprio scacco personale, disinteressandosi del tutto a ciò che può avere, di altrettanto negativo, una situazione diversa o inversa. In questo caso, ad esempio, quali guasti possa causare o abbia già causato un certo tipo di nuova educazione anarchicopermissiva che sembra stare all'estremo opposto di quella borgheserepressiva stigmatizzata da Zorn. Gli attuali drogati (e i loro figli) ne sono già le vittime e ben presto potranno presentarci le loro "doléances" in libri che sarà una tortura dover leggere.

Mette un certo imbarazzo parlare di questo "Mars" («Marte», tale il titolo originale, di cui si troverà a un certo punto l'interpretazione astrologica, piuttosto pittoresca per la verità) in termini puramente letterari. E' come voler valutare la purezza della voce, la nitidezza della nota emessa da un uomo sotto tortura. Ma è un discorso che, col dovuto rispetto e non dimenticando l'importanza primaria di questo libro come documento di vita, si può legittimamente fare. Ed è qui che l'identificazione con Thomas Bernhard finisce. Bernhard è essenzialmente uno scrittore, un creativo, e di grande formato. Zorn resta "in primis et ante omnia" l'autore di uno sfogo sconvolgente e, per più versi, illuminante. Tuttavia non si può negare che sia anche uno scrittore. Zorn sa usare la parola non solo con efficacia ma anche con bravura, in qualche momento con una sorta di sobrio virtuosismo.

Non è molto interessato ai fatti concreti, ed è un peccato perché avrebbe la vena per renderli con gusto. Preferisce ragionarci sopra, dibattere il suo appassionante problema, litigare coi propri ricordi, con se stesso, con Dio. Ed è proprio questa la sua nota più personale e, direi, felice: l'empito avvocatizio di forte sapore, il «parlato» che si fa monologo perfino teatrale e ci costringe tutti ad ascoltarlo. Intimiditi, sì, e commossi, come si conviene a un uditorio che ascolta un morituro gridare le sue ultime ragioni sullo sfondo bianco della morte. Ma anche irritati, e più di una volta perfino incantati, sedotti, oso dire divertiti. Non è da tutti, in verità.

MARTE

Il cavaliere, la morte e il diavolo

Prima parte


 


L'IO IN ESILIO


 


 


 


 


1.


Sono giovane, ricco e colto; e sono infelice, nevrotico e solo.


Provengo da una delle migliori famiglie della riva destra del lago di Zurigo, chiamata anche la costa d'oro. Ho avuto una educazione borghese e mi sono portato bene per tutta la vita. La mia famiglia è alquanto bacata e anch'io porto probabilmente tare ereditarie e conseguenze di danni ambientali. Naturalmente ho anche il cancro, il che, per la verità, dopo quanto ho detto, mi pare una conseguenza abbastanza naturale. La faccenda del cancro ha però un duplice aspetto: da un lato si tratta di una malattia organica di cui con molta probabilità morirò quanto prima, ma alla quale potrei però anche sopravvivere; dall'altro è una malattia psichica, e posso considerare una fortuna che sia finalmente esplosa. Intendo dire che fra tutte le cose sgradevoli che mi sono portato appresso nella mia esistenza, avere un cancro è stata di gran lunga la cosa più intelligente ch'io abbia fatto. Con questo non voglio naturalmente affermare che il cancro sia una malattia che fa molto piacere. Ma poiché la mia vita non si è mai distinta per le gioie e i piaceri, dopo un attento esame e facendo i debiti confronti devo concludere che da quando sono malato sto molto meglio di prima di ammalarmi. Ovviamente ciò non significa che io consideri la mia situazione particolarmente fortunata. Dico soltanto che fra una situazione molto infelice e una soltanto infelice, la seconda è da preferire alla prima.


Ora mi sono deciso a mettere sulla carta i miei ricordi. Non si tratterà però di memorie, nella comune accezione del termine, ma piuttosto della storia di una nevrosi, o per lo meno di alcuni dei suoi aspetti. Quella che ora tento di scrivere non sarà quindi la mia autobiografia, ma soltanto la storia e l'evoluzione di un solo aspetto della mia vita, quello finora dominante, vale a dire la mia malattia.


Cercherò dunque di ricordare quanto più mi è possibile tutto ciò che, fin dalla mia infanzia, mi appare di essa caratteristico e significativo.


 


 


Se ripenso alla mia infanzia, per prima cosa devo dire che sono cresciuto nel migliore dei mondi. Da questa affermazione il lettore attento capirà subito che la cosa doveva necessariamente finire male.


A quanto ho sentito raccontare dei miei primi anni, devo esser stato un bambino molto carino, vivace, allegro, un raggio di sole addirittura; si può quindi dedurne che la mia è stata un'infanzia felice. A questo proposito mi torna alla mente un articoletto che ho trovato nella rubrica psicologica di una rivista, in cui un giovanotto lamentava di non riuscire a venire a capo della propria vita e di sentirsi totalmente incapace di darsi un indirizzo per il futuro, cosa tanto più sorprendente in quanto aveva avuto un'infanzia molto felice.


Il commento dello psicologo era molto semplice: se il giovanotto si trovava ora in questa situazione, non potevano esserci dubbi che anche la sua infanzia doveva esser stata infelice. Ma se penso a come io sono, o meglio non sono affatto, venuto a capo della mia esistenza, almeno fino a oggi, devo supporre che anche la mia infanzia non sia stata così felice come immagino.


Naturalmente non sono ora in grado di ricordare momenti particolarmente dolorosi della mia età infantile; ciò che mi è rimasto degli anni dell'infanzia mi appare, al contrario, per lo più molto bello e mi parrebbe ora esagerato mettere in evidenza singoli momenti di infelicità infantile, dando loro un rilievo che non meritano. No, tutto andò sempre bene, anzi molto bene. Credo che il guaio sia stato proprio questo: che tutto andava troppo bene. Nella mia giovinezza sono sempre stato al riparo da quasi tutte le piccole infelicità e soprattutto da qualsiasi problema. Devo essere più chiaro: non ho mai avuto problemi, non sapevo che cosa fossero i problemi. Ciò che mi è stato risparmiato nella mia giovinezza non fu il dolore o l'infelicità, ma piuttosto i problemi, e quindi anche la capacità di affrontarli. Si potrebbe paradossalmente dire che proprio il fatto di nascere nel migliore dei mondi sia stata la mia rovina; il fatto appunto che in questo migliore dei mondi tutto fosse sempre boriosa soddisfazione, armonia e felicità, questo fu il disastro. Un mondo sempre e soltanto felice e armonioso non esiste; il fatto che il mondo della mia giovinezza sia stato sempre e soltanto armonico e felice dimostra che non poteva che essere falso, basato su presupposti sbagliati e sulla finzione. Si potrebbe spiegare la cosa così: non sono cresciuto in un mondo infelice, ma in un mondo falso. E quando una cosa è veramente falsa, non occorre aspettare molto per veder comparire l'infelicità; arriva da sola.


A proposito dei miei ricordi infantili vorrei dire ancora una cosa: temo che nel mio racconto mancherà quasi completamente una ricostruzione cronologica dei fatti. Non cercherò cioè tanto di raccontare singoli eventi (che sarebbe assai facile annotare in ordine cronologico), quanto piuttosto di chiarire a me stesso i diversi stadi della mia presa di coscienza; nella maggior parte dei casi non riesco a ricordare quando si è trattato di semplici intuizioni o di un'evoluzione più o meno nebulosa o quando invece di una vera certezza. Per di più, negli anni della mia gioventù non sarei affatto stato capace di formulare le mie impressioni e rendermi veramente conto delle mie reazioni. Molte cose quindi oggi le colloco nel tempo molto diversamente da quanto avrei fatto quando le vivevo nella realtà e perciò vi sono molti particolari di cui oggi non so più dire in che anno della mia vita sono realmente accaduti.


L'elemento più importante del mio mondo giovanile, il "leitmotiv", è indubbiamente quell'armonia di cui ho già detto. Degli anni dell'infanzia vera e propria - gli anni in cui si è soltanto bambini preferisco non parlare, per non correre il rischio di proiettare nella mia infanzia qualcosa che oggi mi appare plausibile e assai probabile, più di quanto possa in realtà concretamente ricordare. Passo quindi subito al mondo in cui ho vissuto quando ero un ragazzino. Un mondo armonioso al di là di ogni possibile immaginazione. E' difficile dare qui un'idea sufficientemente globale di questa armonia. L'armonia del mondo nel quale sono cresciuto era così perfetta da far fuggire inorridito anche l'essere più armonico della terra. L'atmosfera della mia casa paterna era armoniosa in maniera addirittura proibitiva.


Voglio dire che a casa nostra tutto doveva essere perfettamente armonico, non poteva essere altro che armonico, per meglio dire non esisteva il concetto o anche soltanto la possibilità di qualcosa di disarmonico. Mi si potrà obiettare che l'armonia totale non esiste, che vi può essere luce solo là dove ci sono ombre e che in una luce che non sopporta né vuole saperne di ombre ci deve per forza essere qualcosa che non va. Su questo sono perfettamente d'accordo.


Il dubbio amletico che gravava su casa mia era: armonia o non essere?


Tutto doveva essere armonioso; situazioni problematiche non ne dovevano esistere, perché in tal caso il mondo si sarebbe inabissato.


Tutto doveva essere senza problemi, o se non lo era, si doveva fare in modo che lo diventasse. Su ogni argomento ci doveva essere sempre una sola opinione, una discordanza di vedute sarebbe stata la fine di tutto. Oggi capisco anche perché una divergenza di opinioni a casa nostra sarebbe equivalsa a una piccola fine del mondo: non avevamo la possibilità di litigare. Voglio dire che non sapevamo come si fa a litigare, esattamente come uno può non sapere come si suona la tromba o si fa la maionese. Non conoscevamo la tecnica del litigio e perciò ci astenevamo, come chi non sa suonare la tromba si astiene dal dare concerti di tromba. Eravamo quindi costretti a non metterci mai in situazioni che portassero al litigio. Le conseguenze erano catastrofiche: tutti eravamo sempre della stessa opinione. Così, se si dava qualche volta il caso che le cose potessero apparire diverse, era ovvio che per noi non poteva logicamente trattarsi che di un malinteso. Era semplicemente sembrato che ci fosse una divergenza; le opinioni erano state solo apparentemente divise, e una volta eliminato il malinteso, si faceva evidente che tutte le nostre opinioni in realtà erano perfettamente identiche.


Oggi so che nella mia giovinezza non ho mai imparato ad avere una mia opinione personale; ho imparato soltanto a non averne affatto. In effetti da ragazzo e anche da giovanotto non ho mai avuto delle opinioni.


Dubito di aver imparato dai miei genitori la parola "no" (è invece probabile ch'essa sia entrata nel mio vocabolario per caso, negli anni della scuola), perché in casa nostra non veniva usata, essendo perfettamente superflua. Il fatto di dir sempre di sì a tutto non era però sentito come una necessità sgradevole, peggio, una costrizione; era un bisogno diventato istintivo, la cosa più naturale del mondo.


Era l'espressione dell'armonia totale. In fondo però il nostro continuo dire di sì era effettivamente una necessità (anche se non consapevolmente avvertita): perché che cosa sarebbe mai accaduto se qualcuno avesse detto di no? Il nostro armonico universo si sarebbe trovato di fronte un orizzonte al quale non era preparato e che bisognava tener "fuori", a qualunque prezzo. Così dicevamo di sì.


Suppongo che non si possa venire al mondo con il sì obbligato, così non posso neppure definirmi un "nato a dire di sì"; vorrei però sottolineare che sono stato educato in modo perfetto a dire di sì.


Oggi mi riesce difficile dire fino a qual punto noi - o forse anche soltanto: fino a qual punto io - abbiamo vissuto quel "no" eternamente taciuto come lo scheletro dell'armadio. Qualche volta e in qualche modo quello scheletro deve pur essersi mosso, ma non me ne posso ricordare. Certo deve essersi mosso con estrema cautela. I miei genitori comunque non pensavano volentieri agli scheletri e non potevano certo sentire ciò che non pensavano. Io avevo il gusto del macabro molto più di loro; forse da ragazzino l'avrò anche sentito, senza peraltro rendermene conto.


A questo proposito va anche detto che non soltanto dir di no era assolutamente impensabile: spesso diventava terribilmente difficile anche solo fare una enunciazione. Chi diceva una cosa era pur sempre almeno in parte consapevole che gli altri avrebbero dovuto o voluto rispondere di sì alle sue affermazioni, così per delicatezza evitava di dire qualsiasi cosa che avrebbe potuto eventualmente rendere difficile il naturale consenso da parte degli altri. Quando si trattava di dare un giudizio dicendo quanto era piaciuta una cosa, poniamo un libro, bisognava prima, come quando si gioca alle carte, valutare quali sarebbero state le eventuali reazioni degli altri, per non correre il rischio di esprimere un giudizio senza la certezza del generale consenso. Oppure si tirava per le lunghe, fino a quando si poteva sperare che un altro osasse farsi avanti per primo a dire la sua opinione, alla quale poi ci saremmo tutti logicamente uniti.


Insomma, aspettavamo sempre che fosse un altro a tirar fuori la castagna dal fuoco, facendo la sua brava affermazione, dicendo di una cosa, ad esempio, che era "bella", o magari addirittura "magnifica" o persino "straordinaria". Che se poi colui che aveva parlato per primo avesse detto invece che era "brutta", tutti ci saremmo sentiti in dovere di unirci a quel "brutta" o magari anche "orribile".


Così mi abituai a non dare mai un mio giudizio personale, ma ad unirmi sempre al giudizio degli altri. Mi abituai a non valutare io stesso le cose, ma ad apprezzare sempre e soltanto le cose che gli altri dicevano "giuste": ciò che gli altri trovavano giusto piaceva anche a me, e ciò che gli altri non trovavano giusto non incontrava mai il mio gradimento. Leggevo "buoni libri" e mi piacevano perché sapevo che erano "buoni"; ascoltavo "buona musica" e mi piaceva per lo stesso motivo. Ma che cosa fosse "buono" erano sempre gli altri a deciderlo, mai io. Persi così ogni capacità di reazioni spontanee, di simpatie o preferenze. Avevo imparato che la musica classica era "buona", ma che le canzonette e il jazz erano "cattivi". Perciò ascoltavo musica classica, come facevano i miei genitori e la trovavo "buona", e detestavo il jazz, di cui sapevo che era "cattivo", sebbene non avessi mai ascoltato del jazz e non avessi la più pallida idea di che cosa fosse in realtà. Avevo soltanto sentito dire che era "cattivo", e ciò mi bastava.


A questo proposito mi viene in mente un'altra mia assai dubbia propensione giovanile: quella per tutto ciò che era "elevato" e di questo avrò qui ancora largamente occasione di parlare. Sapevo - tanto per restare nell'esempio - che il jazz era cattivo, ma notavo che tutti i miei compagni di classe e in generale tutti i ragazzi della mia età ascoltavano volentieri musica jazz e anche canzonette e ogni sorta di "cattiva" musica, e allora arrivai alla seguente conclusione: io avevo capito ciò che era "giusto" ed ero arrivato alle cose più "elevate"; avevo già imparato a distinguere ciò che era buono da ciò che era cattivo. I miei compagni di scuola, un po' ritardati, erano rimasti ancora allo stadio della "cattiva" musica, mentre io ero già assurto alle altezze della "buona" musica. Del fatto di non possedere alcun termine di paragone e non aver quindi maturato una scelta fra l'una e l'altra musica, ma di essermi ciecamente affidato al pregiudizio della "buona" musica classica e della "cattiva" musica moderna, non mi ero assolutamente reso conto. Non avevo fatto un solo passo avanti oltre l'assioma che in arte tutto ciò che è vecchio è per principio "buono" mentre tutto ciò che è moderno è per principio "cattivo"; Goethe e Michelangelo erano "buoni" perché erano morti; ma Brecht e Picasso erano "cattivi" perché erano moderni. Ero convinto di aver saltato un ostacolo e di essermi elevato ad amatore della musica classica, quando in realtà non mi ero mai sognato di azzardarmi a affrontare un ostacolo, al contrario, lo avevo aggirato. In questo modo avevo appaltato per mio uso un po' di quanto era "elevato" e da quell'altezza potevo guardare in basso, verso gli altri, senza rendermi assolutamente conto di quanto fosse vuota in realtà questa mia apparente superiorità.


Il primo disco che comperai con il mio denaro fu quindi qualcosa di assolutamente classico e "giusto" - probabilmente qualche noioso pezzo di Mozart o di Beethoven - ed ero molto fiero del mio "giusto" acquisto. Il primo disco che mio fratello, di tre anni minore di me, si comperò con i suoi soldi poco tempo dopo, fu l'allora popolarissimo "Criminaltango". Io sorrisi con sufficienza della scelta del mio fratellino, perché sapevo che il "Criminaltango" era un orribile "kitsch"; ci vollero molti anni prima che riuscissi a capire che mio fratello aveva però scelto in base al suo gusto personale, senza sottostare alla censura di un esangue e puramente teorico "buon gusto", e che quindi la sua scelta, essendo la più spontanea, era anche la più "giusta" nel vero senso del termine.


A quel tempo non avevo alcuna capacità di giudizio, nessuna personale predilezione, nessun gusto individuale, ma seguivo supinamente l'opinione degli altri, l'unica che poteva esser giusta, l'opinione di un consesso di persone che consideravo capaci di giudicare, che rappresentavano l'opinione pubblica e sapevano ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. E ogni volta che pensavo di aver raggiunto anch'io il livello di questo immaginario ordine giudicante, ne ero felice e mi sentivo orgoglioso. Come avevo appreso nella mia famiglia, ciò che contava nella vita non era l'opinione del singolo, ma l'opinione dei più, e soltanto colui che era in grado di condividere, in maniera il più possibile illimitata, l'opinione dei più, solo quello era al giusto posto nella vita. Naturalmente questo costante, perpetuo inseguire l'opinione giusta, l'unica veramente valida, mi portò molto presto a una grande vigliaccheria in tutte le questioni di giudizio, così che il mio ormai smisurato orrore per ogni forma di coraggio mi rendeva totalmente impossibile ogni presa di posizione spontanea. Alla maggior parte delle domande che mi venivano fatte usavo rispondere che non sapevo, non ero in grado di valutare, oppure che la cosa mi era indifferente; a dare una risposta ci arrivavo soltanto quando sapevo in anticipo che sarebbe stata quella che ci si aspettava, conforme cioè ai canoni previsti. Credo di essere stato allora davvero un piccolo, spaventatissimo Kant, che riteneva sempre e soltanto di poter agire in modo rispondente alla legge generale.


Da tutto ciò nacque per me un mondo singolare di cui oggi potrei anche ridere, se non sapessi quanto è stato in seguito rovinoso per me.


Leggevo dunque "buoni" libri, vale a dire non ne possedevo altri; non avevo la minima idea di come fossero i "cattivi" libri. Sapevo soltanto che erano "robaccia", ma non sapevo in che cosa consistesse questa robaccia. Fui assolutamente sbalordito quando mi resi conto che esisteva anche la possibilità che un "buon" libro in determinati casi potesse anche non piacere. Avevo letto l'"Ekkehard" di Scheffel, e naturalmente lo avevo trovato "buono". Una ragazza della mia età, che vide il volume nello scaffale della mia libreria, mi domandò un giorno se il libro mi era piaciuto. Dentro di me pensai: "Che domanda stupida - si sa che è un 'buon' libro", una cosa tanto ovvia che non la si chiedeva neppure. Naturalmente risposi di sì. Quando poi in risposta mi disse che a lei non era piaciuto affatto, non riuscivo a riavermi dallo stupore, perché l'idea che un "buon" libro potesse non piacere, era qualcosa che andava troppo al di là del mio orizzonte. In seguito tornai a riflettere sulla cosa e arrivai alla conclusione che, dal momento che a quella ragazza non era piaciuto, quel libro doveva essere considerato "cattivo".


Piccoli ricordi infantili come questi possono naturalmente apparire insignificanti e ridicoli e non ho difficoltà ad ammettere che in sé non dicono ancora molto. Sono convinto però che questi piccoli esempi di carattere aneddotico contengano già tutta la rovina che doveva poi abbattersi su di me. Voglio dire la coercizione della mia piccola, o per meglio dire, già fin d'allora atrofizzata personalità, in cui non ci doveva essere nulla di personale, proprio perché tutto doveva adeguarsi al giusto e al genericamente valido, perché altrimenti l'"armonia" avrebbe corso il rischio di essere intaccata e questo, lo sapevo, non poteva, non doveva accadere. La fine dell'armonia sarebbe stata la fine di tutto. Devo però qui ancora una volta ripetere che quel periodo giovanile per me non fu affatto infelice; era semplicemente "armonico" e questo era molto, molto peggio.


Da un lato la convinzione di fare e dire sempre la cosa giusta mi dava una certa sensazione di sicurezza; dall'altro però mi si apriva davanti un campo denso di pericoli, non appena mi ritrovavo a non sapere esattamente che cos'era il giusto e mi vedevo nella situazione di dover fare affidamento sul mio personale giudizio, l'unico che mi preoccupavo con tutte le mie forze di soffocare. Ricordo una conversazione con un compagno di scuola che mi chiedeva che cosa mi interessasse in particolare. Non sapevo che cosa rispondergli e lui allora cominciò a interrogarmi su questo o su quell'altro argomento che avrebbe potuto eventualmente interessarmi. Era chiaro che dovevo comunque dire di no, anche se mi era terribilmente sgradevole, dal momento che non ci ero abituato e non mi piaceva dire di no e oltre a tutto intuivo che l'altro si interessava proprio alle cose per le quali io dicevo di non aver alcun interesse. Vedevo già farsi avanti, a proposito dell'interesse per tutte quelle cose, lo spettro di una divergenza di opinioni, cosa che ero da sempre abituato ad evitare ad ogni costo. Finalmente mi domandò se anch'io amavo gli animali.


Sebbene io di tutti gli animali avessi invece una tremenda paura, non ebbi il coraggio di deluderlo, mentii e dissi di sì, anche se intimamente ero convinto che quel sì avrebbe avuto conseguenze disastrose e che lui avrebbe potuto invitarmi a giocare con i suoi animali. Forse perché il mio sì non era suonato molto convincente, volle ancora sapere se per caso mi piacevano le automobili. Ma questa volta ero io che mi facevo un punto d'onore di essere della sua stessa opinione, così mentii e affermai che le automobili mi piacevano molto.


Lui allora replicò che, personalmente, delle automobili non sapeva che farsene. Così avevo sbagliato due volte: la prima volta avevo mentito per cortesia e non mi aveva creduto; la seconda avevo ancora mentito per cortesia e avevo completamente fallito lo scopo, che era quello di essere della sua stessa opinione; l'unica cosa che non potevo fare era essere sincero. Ma da quell'esperienza non imparai nulla. Anzi, credo di essermi guastato in questo modo molte amicizie, e per molti anni, solo perché avevo paura di poter un giorno trovarmi ad essere di parere diverso o che qualcosa potesse non essere "giusto". Se volevo continuare a ballare sulle uova in quel modo non potevo permettermi di essere sincero.


Il fatto che io non sia mai riuscito ad avere una mia personale opinione può anche apparire un po' esagerato; sembra impossibile che per me non siano mai sorte situazioni di conflitto più profonde, tali da costringermi a prender partito. Ma devo dire che nell'arte di sfuggire ero davvero preparatissimo e davanti alle domande sgradevoli, quando non rifiutavo di dire la mia, avevo sempre a disposizione una quantità di tecniche di aggiramento.


Uno degli ausili favoriti per cavarsi d'impaccio quando si trattava di avere un po' di coraggio, era nella mia famiglia la parola "difficile". "Difficile" era la parola magica, la parola chiave per mettere in disparte tutti i problemi che si potevano presentare, e in tal modo tener fuori dal nostro intangibile mondo tutto ciò che poteva costituire un elemento di disturbo o di disarmonia. Quando a casa nostra, ad esempio in una conversazione a tavola, minacciava di introdursi una questione delicata, subito si diceva che la cosa era, appunto, "difficile". Questo serviva a chiarire subito che il problema in questione era tanto complesso e ricco di implicazioni assolutamente inconcepibili, che si escludeva automaticamente la possibilità di discuterne, quasi che il problema andasse al di là della capacità di comprensione, del vocabolario e dello spirito umano. La parola "difficile" portava in sé qualcosa di assoluto. Come non è facile parlare dell'assoluto perché l'uomo, in quanto essere finito, non ha sufficienti capacità di fantasia per questo, così anche le cose "difficili" parevano muoversi nella sfera di ciò che resta inaccessibile all'uomo. Bastava arrivare a capire che una cosa era "difficile" e già era diventata tabù. A questo punto si diceva: ah, questo è davvero difficile, quindi non ne parliamo e lasciamo perdere.


Allora si poteva non parlarne più; forse era persino lecito non farvi più cenno, perché "non è bene per la gente parlare di cose difficili".


Vorrei quasi dire che la parola "difficile" aveva un valore magico; quando di una cosa si diceva che era "difficile", era come pronunciare una formula magica, la cosa era sparita.


Fra le cose "difficili" c'erano però quasi tutti i rapporti umani, la politica, la religione, il denaro e, naturalmente, il sesso. Oggi credo che tutto ciò che è interessante fosse a casa nostra "difficile" e di conseguenza non se ne parlava. Se però cerco di ricordare di che cosa si parlava, devo dire che non mi viene in mente granché. Il cibo, probabilmente, quasi certamente il tempo, la scuola, naturalmente e, ovvio, la cultura (anche se soltanto quella classica e riguardante persone trapassate).


Per contro, mi ricordo ancora di quando per la prima volta nella mia giovane vita venni a sapere che si poteva anche parlare di cose interessanti e addirittura eccitanti. Fu in occasione di una gita scolastica, durante la quale passammo la notte in un rifugio in montagna. Di questo, per la verità, avevo avuto un po' paura, perché mi ero immaginato che i miei compagni si sarebbero accorti della mia paura e mi avrebbero tormentato con i loro stupidi scherzi.


Contrariamente alle mie previsioni dovetti constatare che gli altri ragazzi, una volta spente le luci, continuavano a chiacchierare fra di loro delle cose più interessanti del mondo e mi avvidi di venire ben presto coinvolto anch'io nella conversazione. Si trattava di problemi religiosi e dei pregi e valori di una particolare setta religiosa, alquanto bizzarra, alla quale apparteneva un mio compagno. Per me era un avvenimento straordinario trovarmi d'un tratto a parlare di cose così interessanti; era un'esperienza che in vita mia non avevo mai fatto.


Sebbene oggi debba pensare che quella conversazione notturna nel rifugio di montagna non può essere stato l'unico discorso appassionante della mia vita giovanile e certo deve essermi capitato una quantità di altre volte di trovarmi in circostanze analoghe, tuttavia devo dire che negli anni della mia adolescenza non mi accadde mai di avvertire la totale mancanza di discussione, la povertà del discorso come una carenza vera e propria. Conoscevo cioè altri luoghi dove le cose erano più interessanti che a casa mia, ma non sentii mai l'atmosfera della mia casa paterna come insulsa. Al contrario.


Consideravo merito particolare dei miei genitori quello di trovare tutto "difficile", perché ciò mi appariva come una chiara dimostrazione di superiorità: nella mia limitatezza io vedevo tutte le cose ancora tanto semplici da poterle senz'altro tradurre in parole. I miei genitori invece, tanto più esperti e saggi, avevano già raggiunto un livello più alto, dal quale vedevano chiaramente che le cose "non erano così semplici", ma al contrario, appunto "difficili", tanto difficili, persino, da non poterne neppure parlare. Nel mio infelice bisogno di tendere a quella superiorità, tentavo di raggiungere anch'io un livello di più profonda consapevolezza fino a vedere anch'io che le cose erano davvero "difficili". Così mi abituai anche, come avevo imparato dai miei genitori, a non riflettere più su niente e a crogiolarmi alla luce delle scoperte difficoltà. A quel tempo naturalmente non mi passava neppure per la testa che prima di raggiungere quello stato di elevazione spirituale, di tipo buddista, in cui non è più necessario lambiccarsi il cervello sulle cose, bisognava aver fatto un lungo tirocinio di pensiero. (E a questo proposito bisognerebbe aggiungere che un simile Budda sarebbe portato a vedere tutto come "semplice" piuttosto che come "difficile".) Ma questa elevatezza che io postulavo per il mio comportamento era per me oltretutto estremamente comoda, come lo era per tutti noi: non avevamo bisogno di impegnarci, né di esporci; l'unica cosa che dovevamo fare era di trovare tutto " difficile" .


Se nel mio ricordo il "difficile" era soprattutto prerogativa della mia povera mamma, mio padre era invece maestro dell'arte del "senza confronto". Nella maggior parte dei casi mia madre si contentava di trovare le cose "difficili", mio padre invece faceva volentieri un passo più in là e dava alle cose il colpo di grazia, strappandole dal loro naturale contesto e dichiarandole "senza confronto". Non si sentiva mai in grado di mettere cose diverse in rapporto fra loro e usava dire che "non era possibile fare un confronto", abbandonandole così a mezz'aria, nel vuoto più assoluto. Questa sua arte si esercitava peraltro spesso su cose molto simili, che avrebbero stimolato chiunque al confronto. Ma in questo modo era tanto più facile evitare ogni discussione sul valore o sul non valore delle cose poiché una cosa acquista un vero valore solo se confrontata con altre, così come la luce può essere chiara solo se confrontata con il buio.


Se questa caratteristica di mio padre nel campo estetico restava una innocua bizzarria, trasferita su altri piani, specialmente sul terreno politico, assumeva forme grottesche. Così ad esempio, quando la Svizzera fu chiamata a votare l'introduzione nel Paese del diritto di voto alle donne, mio padre era perfettamente d'accordo che tutti i Paesi del mondo all'infuori della Svizzera avessero dato il voto alle donne, ma ciò era per lui ben lungi dal significare che la Svizzera era arretrata rispetto agli altri Paesi perché non lo aveva ancora introdotto, in quanto il diritto di voto alle donne negli altri Paesi non lo si poteva naturalmente confrontare con quello della Svizzera, cosicché non si poteva affatto dedurne che il voto alle donne fosse un bene per la Svizzera. Anche mia madre, poverina, fece immediatamente suo questo insegnamento e diventò nemica giurata del voto alle donne.


Persino quando tale diritto venne realmente introdotto nel Paese, mia madre continuò a restare della sua opinione, ripetendo senza posa quanto le ripugnava quel diritto indesiderato e quanto continuasse ad esservi contraria.


In casa nostra appariva evidente che era assolutamente disdicevole fare dei confronti fra la giustizia russa e quella spagnola, dal momento che i russi erano comunisti, e perciò era delittuoso che uccidessero la propria gente per ragioni politiche: il governo spagnolo invece era contro il comunismo e perciò non era affatto male che perseguitasse i suoi cittadini. Inoltre il regime di terrore per gli spagnoli era in realtà una vera "fortuna", perché così avevano "ordine e tranquillità . (Il sottile confronto con l'Unione Sovietica, che è senza dubbio lo Stato in cui maggiormente regna "l'ordine e la tranquillità", nessuno pensava di farlo.) Ma anche un confronto fra i campi di concentramento spagnoli e quelli tedeschi del periodo nazista non era possibile; il fatto che il fascismo di Hitler fosse cattivo, non autorizzava minimamente a dedurre che anche il fascismo di Franco fosse cattivo, perché le due cose non erano, per l'appunto, paragonabili.


Pareva proprio che le cose in questo mondo non fossero in sé e per sé paragonabili. Ma le cose non paragonabili sono sempre per loro natura prive di valore e se ne stanno isolate e incomprese in un gelido spazio irreale. Non stimolano alla critica né al consenso; non impegnano, non hanno alcuna risonanza; sono, appunto, al di là di ogni confronto.


Questa era l'immagine che anch'io avevo del mondo. I conflitti non esistevano, e non sarebbero neppure potuti esistere, perché le cose del mondo scivolavano via senza scontrarsi, in un sistema di assoluta assenza di rapporti. Ovviamente questa totale assenza di attrito era una cosa positiva: dove non c'è attrito c'è armonia, e dove c'è armonia tutto è nell'ordine più perfetto. Naturalmente io non sapevo di non stare al di sopra di questo mondo pieno di attriti, ma di essere io stesso un oggetto in un gelido spazio irreale. Al contrario, anche questa Incapacità a mettere le cose in rapporto fra loro, a confrontarle, mi pareva, esattamente come la valutazione del "difficile", soltanto l'espressione di un più alto livello intellettuale. Capivo che non fare confronti era segno di intelligenza. Chiaramente a quel tempo le mie nozioni di etimologia erano ancora troppo scarse e non sapevo che la parola "intelligente" viene da "intelligere" e significa quindi esattamente il contrario di ciò che cominciava a configurarsi in me come la quintessenza di ogni capacità intellettiva.


Tutto ciò che non era "difficile" o "non confrontabile" e quindi non sopprimibile in questo modo, veniva a casa nostra semplicemente rimandato all'indomani, il "domani", questa data prediletta di tutti i deboli, ai quali promette consolazione e conforto, dal momento che "domani" di solito significa "mai". Ma quanti modi, quante formule c'erano per dire di no sotto la copertura del "domani"!


Questo è davvero un problema interessante; me ne occuperò volentieri nei prossimi giorni.


La sua offerta ci invoglia molto; la studieremo con piacere domani o dopodomani.


In casa dei miei genitori il motto era: mai precipitare le cose!


Questo non precipitare però consisteva di norma nel non affrontarle mai.


Innumerevoli volte mi sono trovato testimone, ogni volta sbalordito, di una scena che si ripeteva sempre secondo schemi precisi: i miei genitori ricevevano una proposta o un'offerta che, lo sapevo con sicurezza, non li interessava minimamente; ma per cortesia non si arrischiavano mai a dire chiaramente di no e, proprio per questo, si sprecavano in grandi gentilezze e ringraziamenti, con la promessa che ci avrebbero pensato "con molto piacere". E a fondo, naturalmente.


Perché ogni decisione doveva essere valutata molto "a fondo", quanto più a fondo tanto più a lungo, così che questo "a lungo" diventava facilmente un "troppo a lungo" e finiva in un "mai". Ma anche di questo avevo imparato a nutrire un grande rispetto; anche qui ammiravo il dignitoso scetticismo dei miei genitori, la loro eterna paura che si potesse alla fine non fare la scelta "giusta", vi vedevo una sorta di superiorità che significava assai più della primitiva capacità di fare anche per una volta le cose "non a fondo", e dire semplicemente di sì o di no. La parola "spontaneità" non faceva parte del nostro vocabolario.


Mi rendo conto che qui sfioro un tema filosofico che ovviamente travalica il limitato spazio dei miei personali ricordi. Per il filosofo è infatti possibile che il vero intellettuale sia colui che riflette su una cosa valutandone tutti i possibili aspetti e come conseguenza di ciò finisce per non decidersi e non agire mai. Ciò può essere perfettamente comprensibile sul piano filosofico. Ma altrettanto vero mi sembra che colui che nella vita passa il suo tempo a riflettere e per troppa intelligenza non si decide mai ad agire, in realtà è un fallito. Chi passa la vita a "riflettere a fondo" ed evita accuratamente di prendere una decisione, deve concludere che, alla fine, tutte le riflessioni non hanno alcun valore e da ultimo crollano come un castello di carte. Ma come avrei potuto da ragazzino rendermi conto che vivevo in un castello di carte?


Qui naturalmente mi si potrà obiettare che non è praticamente possibile che in casa dei miei genitori vi sia stata sempre una così totale assenza di opinioni come io ho ora descritto; qualcuno deve pur aver dato una certa direttiva alla vita della famiglia. Certo, qualcuno lo faceva, ed era naturalmente mio padre. Che fosse il padre a stabilire quale doveva essere l'opinione della famiglia era "giusto", appunto. Di solito era mio padre che diceva come stavano le cose e noi tutti assentivamo, perché lui naturalmente doveva saperlo meglio di noi. Mia madre seguiva con assoluta fedeltà questa linea.


Evitava ogni enunciazione diretta, per non correre il rischio che non coincidesse magari completamente con ciò che affermava mio padre; una volta che lui aveva detto la sua, lei sapeva di poter dire di sì con tutta tranquillità, senza pericoli. Il giorno che questo sistema del perfetto accordo avesse dovuto per disgrazia non funzionare come d'abitudine, la mia povera mamma era pronta a intervenire con le necessarie correzioni.


Tanto per fare un esempio, se vogliamo immaginare che ci fosse da fissare una data per fare una determinata cosa, poteva accadere che mia madre, per imprudenza, proponesse, diciamo, il martedì. Se però mio padre trovava che la giornata più adatta era invece il venerdì (che a mia madre però, senza che lui lo sapesse, non tornava comodo), per mia madre era la cosa più semplice del mondo farsi improvvisamente venire in mente che il venerdì andava senz'altro molto, molto meglio, le era infinitamente più comodo del martedì, anzi, ripensandoci, il martedì non era proprio la giornata giusta, il venerdì era preferibile sotto tutti i punti di vista. La cosa veramente ridicola in tutto ciò è che nella maggioranza dei casi per entrambi un altro giorno della settimana, per esempio il mercoledì, sarebbe stato di gran lunga più comodo, in modo che la scelta del mercoledì avrebbe rappresentato un ragionevole compromesso senza sacrifici da parte di nessuno. Quindi la negazione delle loro reali preferenze e la rinuncia di mia madre non avevano avuto alcun significato. Ma lei aveva voluto salvare l'armonia, e per far questo aveva dovuto ricorrere a una inutile e stupida bugia. In questo caso i miei genitori non erano stati effettivamente "d'accordo"; avevano semplicemente evitato con cura di discutere. Se oggi ripenso agli innumerevoli sacrifici inutili di questo genere che sono stati fatti nella mia famiglia in nome della perfetta armonia, posso solo concludere che non si trattava affatto di generosità, ma di vigliaccheria.


Per quanto io possa ricordare, i miei genitori, il cui matrimonio è durato trent'anni, hanno litigato fra loro una sola volta.


L'inconsueta situazione di dissenso fra i genitori fu, ricordo, dolorosissima per tutta la casa, ma per quanto riguarda lo scontro alla fine non se ne fece nulla: i miei genitori non sapevano litigare e così, dopo aver passato un'intera giornata senza parlarsi, conclusero l'esperimento senza averne fatto nulla. L'esperimento peraltro non fu più ripetuto, perché i miei genitori si erano accorti di mancare delle necessarie capacità per portarlo a termine.


A questo proposito mi viene in mente una stranissima scena, che voglio raccontare come rappresentativa di centinaia e centinaia di altre simili. Una zia molto colta fu un giorno invitata a casa nostra per il tè e si mise a raccontare di una mostra di quadri del pittore Hans Erni, che aveva appena visitato. Quel pittore era per i miei genitori un personaggio sospetto, perché temevano che fosse comunista; non foss'altro che per questo i suoi quadri non potevano essere belli. La zia però affermò che la mostra era "stupenda". Mia madre, in quel momento occupatissima a versare il tè, non sentì bene e invece di "stupenda" capì "orrenda", cosa che del resto si era effettivamente aspettata, visto che questo Erni era in odor di comunismo. Così si affrettò a dichiararsi d'accordo con la zia e a sostenere con ardore quanto anche lei trovasse Erni orrendo. Naturalmente la zia a questo punto insisté più che mai nella sua opinione, ripetendo accanitamente il suo "stupendo", così che mia madre, che finalmente aveva capito, si affrettò a ribaltare la sua affermazione e trovò anche lei che quell'Erni era davvero "stupendo".


In generale mia madre aveva una straordinaria predilezione per il vocabolo "oppure". Faceva un'affermazione e poi proseguiva: oppure è un'altra cosa. Usava dire: il prossimo venerdì vado a Zurigo, oppure resto a casa. Questa sera per cena avremo spaghetti, oppure insalata di pesce.


Bisogna chiedersi: dov'è la realtà? Io vado via oppure resto a casa.


Sono qui oppure sono altrove. La terra è rotonda oppure triangolare.


Con troppi "oppure" ogni parola perde peso e significato; la lingua si dissolve, si decompone in una massa amorfa di particelle prive di senso; nulla più è concreto, tutto diventa irreale.


Oggi non mi è possibile ordinare cronologicamente le mie reazioni di allora all'ambiente nel quale vivevo. Da bambino e da ragazzo devo essere stato sicuramente dalla parte dei miei genitori e specialmente di mia madre, e devo aver sperato con lei che fosse possibile sistemare nella maniera più dolce e senza ombra di conflitti qualsiasi divergenza d'opinione che potesse mai minacciarci; col tempo però la menzogna di questa eterna armonia familiare cominciò a disturbarmi.


Non potrei dire quando sia stato; i primi segni devono risalire ancora alla mia infanzia, ma della globalità della patologia del mio mondo mi resi conto tardi, molto, molto tardi. Da un lato mi urtavano le espressioni false di mia madre, dall'altro però ero io stesso ancora pervaso dal bisogno di armonia e troppo vile per osare io stesso mettermi in una situazione di conflitto e preoccuparmi seriamente di capire perché queste cose mi urtavano. Così consideravo il modo di fare di mia madre come una debolezza un po' ridicola, quasi una amabile bizzarria, di cui val meglio sorridere che arrabbiarsi. Il concetto della "amabile bizzarria" lo avevo letto in un libro e me ne ero subito appropriato. Trovavo che mi andava benissimo, o avrei potuto usare molto bene per "stuccare" nella mia visuale del mondo tutte quelle fessure che potevano eventualmente esserci. Cominciai persino a intuire di avere dei difetti e che il mio mondo era sbagliato e dannoso, ma rifuggivo dalla parola "difetto", che mi pareva compromettente e preferivo tenermi stretto alle "amabili bizzarrie", naturalmente perché nella parola "difetto c'era già, inespresso, l'invito a un riconoscimento della realtà, a una presa di posizione e alla necessità di riparare, mentre la bizzarria, e specialmente una "amabile bizzarria", era invece qualcosa che si poteva mantenere in vita, anzi coltivare, magari ci si poteva un po' sorridere, ma in ogni caso la si poteva tranquillamente conservare.


 


 


 


 


2.


Considerando ciò che ho scritto sin qui, si potrebbe facilmente trarne l'impressione che l'unica cosa che mi sta a cuore sia elencare malignamente le debolezze dei miei genitori per metterli in cattiva luce, indicarli come i cattivi che mi hanno rovinato e ai quali è di conseguenza da ascriversi tutta la mia infelicità. Io credo piuttosto che il mio racconto vada ben al di là del dare semplicemente ai miei genitori la colpa di ciò che io stesso avrei dovuto sapere e fare ben diversamente. Oggi riesco a vedere i miei genitori assai meno come "colpevoli" che come vittime coinvolte in una medesima situazione sbagliata. Non sono stati loro a inventare quell'errato modo di vivere; piuttosto sono stati anche loro - come lo sono stato io ingannati da un sistema di vita errato, accettato acriticamente. A questo punto dei miei ricordi si potrebbe immaginare si presenti il grande momento in cui io mi risveglio alla realtà dalla illusoria fallacia della mia vita familiare e dico: alt! Così non si può andare avanti.


Questo momento invece non venne. Questa è stata la tragedia, che il momento non sia venuto e che in effetti non potesse venire. La cosa grave non furono le piccole o le grandi debolezze o manchevolezze dei miei genitori; dal momento che nessuno è perfetto, nessuna educazione può condurre a risultati perfetti, questo è ovvio e naturale, come è ovvio e naturale che tutti i genitori nel loro ruolo di educatori si trovino una volta o l'altra a fare qualcosa di negativo per i loro figli, qualcosa di cui i figli avranno in seguito a soffrire; d'altro canto anche questi figli non sono degli esseri perfetti. Tutto ciò fa parte dell'accettato principio che il mondo, appunto, non è perfetto.


Il male non furono i miei genitori, perché i miei genitori non erano cattivi; oggi pensando a loro non posso provare altro che compassione.


La cosa grave fu che il mondo nel quale sono cresciuto non poteva permettersi di essere imperfetto, e che la sua armonia e la sua perfezione erano dei dati obbligatori. Io non dovevo accorgermi che il mondo non era perfetto; lo scopo principale della mia educazione era da ricercare proprio nel rendere impossibile l'attuarsi del momento in cui avrei potuto dire: alt!, perché ero stato educato a NON accorgermene. In questo senso la mia educazione era perfettamente riuscita. La si può ritenere senz'altro un successo, dal momento che per ben trent'anni non mi sono accorto di nulla. Sono stato educato a dire sempre di sì e "ho fatto uso di ciò che ho imparato", tanto che ho continuato sempre e dovunque a dire di sì. L'esperimento della mia educazione era perfettamente riuscito. Purtroppo.


Dove questo racconto va al di là del fatto puramente individuale è che il mio caso - anzi, per meglio dire, il nostro caso - non è, appunto, un caso singolo e non può essere considerato totalmente isolato dagli altri. Fino a qual punto i miei genitori abbiano avuto colpa o fino a qual punto siano stati essi soltanto le vittime di una colpa più grande, lo posso soltanto immaginare. Da quanto so dei miei genitori, mi pare che anche loro non abbiamo avuto dei buoni rapporti con i loro genitori, non comunque un rapporto "armonico". Forse è stata appunto la mancata armonia della loro infanzia a spingerli a voler realizzare, per compensazione, un modo di vivere a tutti costi armonico. Forse volevano così cancellare tutto ciò che di disarmonico pensavano di avere sofferto. Può darsi che il loro atteggiamento sia da vedere come una reazione consapevole all'atteggiamento dei loro genitori; un atteggiamento che fa nascere in me, a mia volta, un atteggiamento di reazione aggressiva. Naturalmente si può anche vedere tutta questa storia generazionale come un ripetersi ininterrotto della medesima situazione, in cui i genitori vogliono sempre "far bene" con i loro figli e li educano nella maniera più sbagliata, così che i figli reagiscono poi cadendo nell'estremo opposto; a loro volta vogliono riparare i guasti dell'educazione ricevuta e educano i figli diversamente, creando così un circolo vizioso che può andare avanti all'infinito. O in altre parole: comunque si faccia, si sbaglia.


Seguendo questa logica si arriverebbe ben presto a rendersi conto che i problemi educativi sono appunto "difficili" e con ciò si dovrebbe ritenere l'intera faccenda insolubile e metterla da parte, "ad acta".


Ma per non cadere in questo errore e vedere solo l'aspetto comunque "difficile" di tutto il problema, sarei portato ad affermare che la mia educazione fu guastata da una reale patologia; gli errori dei miei genitori non erano semplicemente una reazione agli errori dei miei nonni. Non credo cioè che in casa nostra si vivesse semplicemente in una banale casa di vetro, del tutto irreale, destinata a cadere al primo colpo di vento; penso piuttosto che ciò che ho fin qui raccontato della mia casa paterna sia emblematico per moltissime altre famiglie dove le cose non devono essere poi andate molto diversamente.


Può darsi che il nostro caso fosse forse più accentuato di altri, più estremo, ma in linea di principio la mia non era poi tanto diversa da tante altre famiglie borghesi. Si potrebbe obiettare che è stato invero molto triste per quanto mi riguarda personalmente, ma in realtà ciò che mi ha danneggiato è stato un eccesso di errori educativi rivelatosi troppo gravoso per il mio caso individuale, ma che quasi tutti i miei contemporanei hanno avuto una educazione infelice quanto la mia, senza per questo averne il danno che ne ho avuto io. O, per dirla più semplicemente: ogni educazione è sbagliata, ma questo non significa molto, perché la maggior parte dei figli riesce ugualmente a venirne fuori bene. Se, in via eccezionale, uno finisce male, vuol dire soltanto che ha avuto sfortuna e va considerato come caso limite o, appunto, come quella tale eccezione che serve a confermare la regola.


Il fatto è però che io non credo a questa eccezione. Gli effetti estremi scaturiti per me da questo danno possono forse anche rappresentare una eccezione, perché dopotutto non tutti quelli che hanno ricevuto un'educazione sbagliata finiscono con un cancro. Direi che i danni causati da questa educazione possono diventare così gravi che nelle forme più estreme (come pare sia ora il mio caso) possono anche manifestarsi come malattie organiche condizionate da uno stato nevrotico, ad esempio il cancro. Oggi non posso dire se sopravviverò a questa malattia. Se ne dovessi morire, di me si potrà dire che sono stato educato alla morte.


D'altro canto si può anche pensare che io in un certo senso almeno ho avuto fortuna: essendo stato educato al cancro, ora ho anche una possibilità di reagire al male, e sono quindi in una condizione molto migliore di migliaia di altri, per i quali le cose non hanno assunto proporzioni così enormi e che però oggi, senza cancro, possono continuare a languire nell'infelicità della tradizionale frustrazione nevrotica; che quindi stanno solo un pochino meno male di me, ma appunto a causa di questo "pochino meno" hanno anche molto meno chances di affrontare il male. Dopotutto ogni zurighese ricco ha la sua brava ulcera duodenale o il suo infarto; solo che questo non gli fa venire in mente niente di intelligente. Del fatto che c'è del marcio in Danimarca (e anche negli altri Stati europei) ci si accorge evidentemente soltanto quando la malattia è ancora più grave.


Dove però credo di vedere più chiaro ed evidente l'errore nella mia educazione è nella costruzione falsa e dogmatica di un mondo sano e perfetto; in questo senso il mondo della mia giovinezza è uguale a quello di tutti coloro che sono nati e cresciuti non solo sulla riva destra ma anche sulla riva "giusta" del lago di Zurigo, sulla cosiddetta costa d'oro, nella società borghese di Zurigo, della Svizzera, d'Europa o, se si vuole, del cosiddetto mondo-libero. Non voglio con ciò fare della mia storia una dissertazione politica, non ne ho nessuna voglia e neppure la necessaria preparazione, ma voglio soltanto limitarmi ai miei personali ricordi, anche se mi rendo conto che questo mio caso personale non è unico, ma probabilmente rappresentativo per molti. E quindi, in questo senso, diventa forse anche un fatto politico.


Espressa dunque la convinzione che la mia famiglia non rappresentava un caso eccezionale, ma essendomi finora limitato a descrizioni della mia vita familiare nell'ambito del quotidiano ad esempio nei discorsi che si fanno intorno a una tavola apparecchiata, voglio ora tentare di inserire nel discorso anche il mondo esterno.


Se oggi cerco di ricordare come erano le altre persone all'infuori della mia famiglia, vorrei dire: ridicole e rispettabili. Raramente raggiungevano l'estremo del ridicolo totale, più facilmente quello della totale rispettabilità; il più delle volte però possedevano le due qualità insieme, qualità che solo apparentemente si escludono a vicenda.


Rispettabili erano naturalmente tutti coloro che avevano un ruolo degno di rispetto come insegnanti, medici, sacerdoti, direttori, dottori, professori, militari e in generale tutte le persone ricche.


Credo che anche per noi valesse la frase: chi è ricco è anche perbene.


Naturalmente non si diceva "perbene", ma "giusto", l'espressione tanto in uso nel nostro Paese. La gente "giusta" era la gente ricca. Anche "ricco" naturalmente non lo si diceva mai. Si diceva: "ha mezzi". La gente non era mai "avara" ma "agiata". I poveri non erano "poveri" ma " modesti". Le cose - ma soprattutto i loro possessori - non erano "costose" ma piuttosto "non a buon mercato". Perché dopotutto del denaro non si parla; lo si ha e basta.


C'è un'importante categoria di persone di rispetto che merita qui una particolare attenzione: i politici. Per principio erano anche loro rispettabili, ma veniva fatta una distinzione: dovevano essere di destra. Quanto più a destra, tanto più rispettabili; quanto più si spostavano a sinistra, tanto più perdevano rispettabilità. L'unità di misura per le valutazioni politiche erano quei cattivi dei comunisti: quanto più nasceva il sospetto che qualcuno avesse a che fare con il comunismo, tanto più era infido. In casa nostra il quadro politico mondiale era quindi molto chiaro: c'erano i buoni e i cattivi e la linea di demarcazione fra i due estremi era chiara e inequivocabile.


La Svizzera, questo lo sapevo, era "buona" perché qui non c'erano comunisti, o per lo meno erano molto pochi. E anche quei pochi erano lontanissimi da noi, e cioè nel Cantone più lontano dalla mia casa paterna, e precisamente a Ginevra, che si poteva probabilmente immaginare come una Babele del peccato politico.


Da bambino naturalmente tutti i rapporti di natura politica erano per me assolutamente oscuri; ma ricordo ancora quanto dispiacque ai miei genitori una mia prima, timidissima presa di coscienza politica quando ero studente. Una volta, a tavola, si lamentava la sorte di un conoscente che i cattivi di sinistra ostacolavano nella carriera a causa del suo passato nazista (che in Svizzera naturalmente non si chiamava passato nazista, ma "passato di guerra"). Quando io in proposito citai come esempio il caso di un insegnante di scuola media che, essendo socialista, non poteva avere il posto in una scuola di stampo conservatore, raccolsi indignazione e malcontento, perché queste due cose "non si potevano assolutamente paragonare". E' chiaro che tali audacie politiche per me non erano la regola, ma che in generale anche quando ero già studente in politica sono stato un onesto figlio dei miei genitori e, da bravo ragazzo, trovavo "buono" tutto ciò che era di destra e "cattivo" tutto ciò che era di sinistra.


Ero quel che si dice un ragazzo di "buon senso".


In questo senso venni educato quindi a vedere in tutti gli estranei delle persone di rispetto. Dico estranei perché già da bambino sentivo che si trattava di persone che non appartenevano alla nostra specie, non erano del nostro mondo. Bisognava trattarle con riguardo e rispetto, non era da escludersi una certa cortesia, ma la cosa più importante era mantenere una certa distanza. Cortesia sì, naturalmente, cordialità assolutamente no - questa era la regola. Gli "altri" erano sempre assai più potenziali nemici che potenziali amici.


Se veniva a casa nostra il signor dottore o il signor direttore, non era possibile esser contenti della visita; si doveva piuttosto aspettarsi un elemento di disturbo della pace familiare, una sgradita intrusione che subito si cercava di neutralizzare e di rendere il meno sgradevole possibile sommergendo la persona di cortesie e di premure, usando tutto il tatto possibile. A sottolineare quanto particolare e dolorosa era la circostanza, tutto in casa doveva essere un po' diverso dal solito: le stanze dovevano essere riordinate ancor più accuratamente, proprio solo quel tantino in più che non ci piaceva, perché questo disagio sottolineava appunto il carattere del cerimoniale. I miei genitori si muovevano con gesti diversi dal solito, parlavano in un altro modo, dicevano cose e sostenevano opinioni del tutto diverse da quelle abituali e soprattutto in presenza della persona di rispetto parlavano con me e mio fratello in maniera del tutto diversa da come facevano abitualmente. Persino il tono di voce fra genitori e figli di fronte a queste persone di riguardo doveva essere diverso, più forzato e innaturale. Ciascuno doveva recitare una parte e perché anch'io e mio fratello recitassimo la nostra, i genitori parlavano con noi come se fossimo dei figli diversi.


Da bambino trovavo questo cerimoniale soltanto sgradevole ed ero contento quando la recita era finita e l'elemento di disturbo se ne era andato. Oggi mi accorgo che proprio questo disagio aveva il suo particolare significato: evidentemente serviva a dare tanto al visitatore di riguardo quanto a tutta la famiglia l'impressione che l'intruso disturbava, che era un estraneo e che con noi non aveva nulla a che vedere. E poiché l'impressione non poteva essere trasmessa con villania, con maniere scortesi, la manovra di scoraggiamento si effettuava con l'eccesso di cortesia. L'estraneo era appunto la persona sgradita; non appena se ne era andato, il nostro mondo tornava a essere a posto e noi eravamo di nuovo fra noi. Io questa impressione la sentivo molto intensamente: sapevo che i due concetti "visita" e "sgradito" erano in realtà sinonimi e sapevo anche: "una visita è il momento in cui si deve fingere".


Accanto a queste persone di riguardo che già per professione o posizione, per ricchezza o altre prerogative infondevano rispetto, ce n'era una quantità di altre, con le quali la situazione era esattamente all'opposto. Si trattava di persone in un modo o in un altro sottoposte, operai o impiegati o chiunque avesse a dare una qualsiasi prestazione. A casa nostra tutti venivano trattati con eccessivo e ostentato rispetto. Anche in questo caso era evidentemente impossibile affrontare l'estraneo con naturalezza; anche questi erano estranei, che bisognava tener lontano con l'affettazione. L'aspetto falso in questa specie di gentilezza era l'esagerazione. Mia madre esprimeva la sua lode e gratitudine per il più modesto servigio in toni così eccessivi che sia la lode che la gratitudine non potevano essere prese sul serio e si dissolvevano nell'irreale. La mia povera mamma usava dire al postino che era splendido, "straordinario", "meraviglioso" che lui portasse la posta e non voleva accettare l'idea che quello di consegnare la posta, dopotutto, era il suo mestiere; lo si poteva ringraziare, ma la cosa non era meravigliosa.


Spesso inoltre mia madre parlava con i sottoposti come se fossero dei perfetti idioti. Si esprimeva con eccessiva chiarezza e parlava più lentamente del solito, perché quegli infelici potessero anche loro comprendere il senso delle sue parole, e non capiva che questi "infelici" non erano affatto tali e soprattutto non così lenti di comprendonio al punto di non poter seguire un discorso fatto in modo normale. Una involontaria situazione comica si verificava ogni volta che queste cosiddette "persone modeste" si dimostravano più sveglie di mia madre e, mentre lei parlava con loro sforzandosi di tradurre il suo linguaggio in una sorta di linguaggio seminfantile, a loro volta le raccontavano cose che lei non sapeva e di cui non capiva nulla. Gli inferiori, i sottoposti, le cosiddette "persone modeste" erano appunto anche loro degli estranei, appartenevano a un mondo diverso dal nostro, ma non erano soltanto diversi, erano anche da meno, meno intelligenti. E anche se non venivano mai trattati in tono sprezzante, ma al contrario con l'estremo opposto, cioè con riguardo eccessivo e quindi falso, per me proprio in questa vuota e affettata forma di riguardo il disprezzo era ancora più chiaramente avvertibile che se fosse stato deliberatamente espresso.


Detto così può sembrare che la nostra casa fosse perennemente assediata da gente "diversa", ostile o malintenzionata che si riusciva a tener lontano solo con la più cortese e gelida diplomazia.


Naturalmente i miei poveri genitori non avevano soltanto nemici immaginari, ma anche degli amici, e posso soltanto sperare che non fossero anch'essi così immaginari. Voglio sperare, soprattutto per i miei genitori, ch'essi non abbiano agli inizi guastato i rapporti con i loro amici, come spesso mi parve di notare negli anni seguenti. Da bambino naturalmente non avevo una chiara idea degli amici dei miei genitori. Quando avevano visite, io e mio fratello non c'eravamo.


Prima di andare a letto dovevamo però fare la nostra brava comparsa davanti agli ospiti, dare la mano, salutare con garbo, dire quanti anni avevamo e che classe frequentavamo e affermare che ci piaceva andare a scuola. A ricompensa di queste informazioni, loro ci assicuravano che ora, a dieci anni, eravamo davvero molto cresciuti da quando ci avevano visto l'ultima volta e ne avevamo nove. Naturalmente era una cosa che detestavo. Una certa idea della cerchia di amicizie dei miei genitori però me la feci soltanto quando fui più grande e mi fu concesso di essere presente quando i genitori ricevevano.


Devo ovviamente tener conto del fatto che questa cerchia di amici io la vivevo quasi sempre nella stessa situazione - certo la più sfavorevole - vale a dire nei ricevimenti. Purtroppo nei ricevimenti, devo dire, perché in questo singolare modo di trovarsi insieme ci sono sempre due ruoli, quello dell'ospite e quello dell'invitato, due ruoli fissi, nei quali i miei genitori sapevano identificarsi fino a essere irriconoscibili. In effetti erano entrambi ottimi ospiti, ma come invitati erano un vero disastro. Come ospiti erano discreti e si davano da fare senza parere, preoccupati di mettere a loro agio gli invitati; così preoccupati che non avevano bisogno di dire niente che andasse al di là del rituale dell'ospite e del formalismo della cortesia ufficiale. La perfetta cortesia in un ospite è indubbiamente un'ottima cosa, e se gli invitati si trovavano bene e si divertivano non c'era ragione di notare che la cortesia dei miei genitori si esauriva e trovava il suo scopo nelle formule anonime dell'ospite perfetto e che su quella scena loro in fondo in fondo se ne stavano in disparte e recitavano solo la loro parte.


Ma il gioco cessava di funzionare quando toccava a loro far la parte degli invitati. Come invitati si trovavano a muoversi in un ruolo molto meno rituale di quello dell'ospite, erano quindi molto più esposti a partecipare al piacere della serata, o per lo meno avrebbero dovuto esserlo. Perciò erano costretti a identificarsi sempre più nell'altro ruolo, quello dell'invitato incessantemente grato di tutto, ringraziando sempre in maniera eccessiva e lodando esageratamente tutto ciò che gli veniva offerto. Deve essere quindi capitato spesso che, esteriormente raggianti, trovassero tutto "splendido", "straordinario", mentre dentro di sé si sentivano maledettamente a disagio e avrebbero tanto voluto tornare a casa. Il non potersi lasciare andare a essere tranquillamente se stessi era legato al bisogno che sentivano di fare in questo modo onore all'ospite. Starei per dire che onoravano i penati del loro ospite comportandosi, anche da invitati, secondo il loro cerimoniale della cortesia, evitando di dare sgradevolmente nell'occhio. Così finivano per non dare nell'occhio in alcun modo e se ne stavano seduti educatamente in disparte, sentendosi a disagio e non partecipando alla generale conversazione. Fra di loro peraltro non facevano affatto mistero di non amare gli inviti; ogni volta accettavano per dovere e andavano con malcontento. Un malcontento di cui naturalmente all'esterno non c'erano tracce.


Un trucco particolare, quando proprio non potevano fare a meno di accettare un invito, era quello di accoglierlo con un eccesso di entusiasmo e subito trasformarlo in un controinvito proponendo che fossero gli altri a venire da loro, sempre facendo uso di quell'infausto "oppure". "Ma certo, veniamo con molto, molto piacere, oppure... perché non venite voi da noi?" Così capitava che spesso per pura vigliaccheria, e perché la cosa non gli andava, i miei genitori invece di andare in casa d'altri non mollassero la presa fino a quando non erano riusciti a trasformare un invito ricevuto in un invito da parte loro. Gli altri per lo più interpretavano questo atteggiamento come disponibilità, generosità; ma io sapevo che era soltanto comodità, egoismo. Un altro aspetto di questo tipo di cortesia consiste indubbiamente - in generale, non soltanto nella mia famiglia - nel fatto che con ciò si evita di dover poi essere grati a qualcuno.


Se non si accetta mai nulla non ci si trova neppure mai nell'occasione di dir grazie e si evita la situazione di gratitudine, il disagio di sentirsi in debito di qualcosa. Questa forma di cortesia non è altro che egoismo. Sono sempre stato d'avviso che - per lo meno nella nostra ipernutrita società, dove non si conosce il bisogno materiale - il dare è molto, ma molto più facile del ricevere. Perché chiunque sia milionario può dare (e sulla costa d'oro ci sono soltanto milionari), ma accettare qualcosa con gratitudine senza dover subito il giorno dopo ricambiare con un regalo dello stesso valore, questo su tutta la costa, da Zurigo a Rapperswil, sono ben pochi a saperlo fare. Una cosa che non parla a favore della nostra società. Affatto. Ma per fortuna non c'è soltanto la costa d'oro, ci sono anche i negri e i cinesi e quelli, grazie a Dio, sono numericamente la maggioranza.


Che negli inviti dei miei genitori si esercitasse la solita tecnica del rovesciamento dei valori, è più che comprensibile. Tutto ciò che essi offrivano come ospiti doveva essere prima debitamente svalutato; soprattutto bisognava dire che era troppo poco, troppo modesto, insignificante, cattivo. Per contro, tutto ciò che si riceveva in casa altrui era automaticamente straordinario, meraviglioso, al di sopra di ogni confronto e comunque meglio di ciò che facevano loro. Ovviamente il valore reale della cosa non aveva alcuna importanza; era il ruolo di ospite o di invitato a stabilire che cosa fosse assolutamente degno di lode o assolutamente al di sotto di ogni critica. Come sempre le cose non avevano un valore effettivo, dovevano servire soltanto a soddisfare le formule della cortesia impersonale. Qui devo portare ad esempio un penoso particolare.


Quando la mia povera mamma era invitata, molto spesso, non so se per preferenza o per falsa modestia, rifiutata il whisky o il cognac che le veniva offerto, e chiedeva invece un semplice bicchier d'acqua. Ma poiché quest'acqua le veniva dall'ospite, si sentiva in dovere di assicurare che era "straordinaria". Il fatto che l'acqua minerale per la verità ha sempre lo stesso sapore, sia che venga dal proprio o dall'altrui frigorifero, non aveva per lei alcuna importanza. Non si trattava della cosa in sé, ma del fatto che lei doveva trovare eccezionale tutto ciò che le veniva dall'ospite. Probabilmente l'ospite avrebbe potuto anche scotennare viva la mia povera mamma e lei si sarebbe sentita in dovere di trovare che si trattava di una cosa "straordinaria", soltanto perché aveva luogo in casa dell'ospite.


L'entità della parola era inesistente, la verità di nessun conto, solo la formula di cortesia contava.


Molti anni dopo, quando già non abitavo più con i miei genitori, la loro avversione ad andare in casa altrui aveva ormai assunto forme piuttosto macabre: andavano soltanto ai funerali. Forse s'era anche parlato di andare a trovare questo o quel conoscente, o magari anche un carissimo amico, ma alla fine, per pigrizia o indecisione, la questione della visita era stata tirata talmente per le lunghe che la persona che avrebbero dovuto andare a trovare era morta. Una volta morta però, i miei genitori ci andavano subito, perché quella era una questione di buone maniere. Andare ai funerali era una cosa che da persone educate si doveva fare, era una cosa "giusta"; del fatto che la persona che si sentivano in dovere di onorare in quel modo ora non avesse più a godere della loro visita, quando invece le si sarebbe fatto tanto piacere andandola a trovare in vita, di questo non si dispiacevano, era un aspetto del tutto secondario della questione.


Ma dopo tutte queste persone rispettabili, sia che fossero funzionari o invitati, oppure le cosiddette "persone modeste", voglio ora parlare di un altro gruppo, ancora più importante, quello dei ridicoli, di tutte quelle persone che erano un po' diverse da noi e perciò un po' ridicole. Devo premettere che uso l'espressione " ridicolo" solo ora, a posteriori. In casa nostra nessuno avrebbe mai osato usare un simile vocabolo neppure nei suoi più reconditi pensieri riferendosi ad altre persone. Quando si trovava qualcuno ridicolo, si trattava sempre di un processo inconscio. In altre parole: facevamo finta di non saperlo. Ho scritto più sopra che le persone erano ridicole perché erano diverse da noi. Vale a dire, non erano "giuste" come noi. Ma ovviamente non si poteva pretendere da chiunque che fosse "giusto" come noi, sarebbe stato pretendere troppo. Era bene che fosse così, che non tutti fossero proprio completamente "giusti", era nella natura delle cose che soltanto un paio di aristocratici potessero raggiungere il "giusto" delle cose e gli altri restassero molto al di sotto. Questi ultimi non si potevano certo chiamare cattivi; erano brava gente che si sforzava di fare il meglio che poteva nell'ambito del proprio ristretto orizzonte; non meritavano quindi in alcun caso di essere biasimati - soltanto non erano fra quelli "giusti".


Cominciai a capire che l'imperfezione altrui era più simpatica che repulsiva, era divertente, era, appunto ridicola. Notai che gli altri facevano ininterrottamente tutto ciò che noi cercavamo sempre di evitare: scoprivano le proprie debolezze, e queste debolezze ci divertivano. Gli altri facevano sempre cose che erano un po' ridicole e si comportavano in generale in modo un po' ridicolo. Era tutta gente che non aveva ancora capito che tutto era "difficile"; con tutta la loro maldestrezza parlavano goffamente e apertamente di cose che non toccava loro dire, appunto perché si trattava di cose "difficili"; gente che su tutto e su tutti aveva - che cosa primitiva - una propria personale opinione e la esprimeva liberamente; che non sapeva confrontare le cose fra di loro e non sapeva quindi che non si potevano fare confronti. Io avvertivo che era divertente sentire gli altri dare per buona la propria opinione, un'opinione che, chissà, forse poteva anche essere pazzesca, probabilmente lo era, mentre io sapevo di essere troppo distinto e intellettualmente troppo raffinato per avere un'opinione mia personale. C'erano dunque persone che correvano il rischio di esporsi, di mostrarsi per quello che erano e ciò era ridicolo. Il mondo dei non "giusti" era così il nostro teatro, noi eravamo gli spettatori; infatti non facevamo nulla, stavamo semplicemente a guardare.


Coloro che io qui chiamo gli "altri" erano, a voler ben guardare, tutti e ciascuno. Ciascuno era diverso, nessuno era come noi; o, per essere più esatti: era soltanto la nostra inconfessata inattaccabile spocchia che ci faceva vedere l'umanità come gli "altri"; in realtà gli "altri" eravamo noi, e per questo restavamo sempre in disparte.


Devo dire che non si può immaginare fino a qual punto fosse sottile e impercettibile questa perenne dicotomia fra noi in veste di spettatori e gli altri intesi come attori. Non credo che i miei genitori fossero consapevoli di tale dicotomia; comunque mai sarebbero riusciti a tradurla in parole, nemmeno nel caso ne avessero vagamente intuito l'esistenza. Delle cose veramente importanti erano infatti completamente ignari, per esempio del fatto di trovare gli altri ridicoli. Ridicolo sarebbe stata l'ultima parola con cui avrebbero potuto caratterizzare il loro atteggiamento verso il mondo circostante, i loro rapporti umani erano improntati a un rispetto gerarchico, totalmente privo di umorismo e a un gelido e cortese rifiuto del prossimo. I miei genitori si sarebbero entrambi ribellati con sdegno al rimprovero di sorridere del loro prossimo. Eppure era ciò che facevano. Che cosa era l'elemento veramente ridicolo in questo rapporto fra i miei genitori e gli altri?


Voglio tentare di spiegare questo "ridicolo" come il distacco fra il perfetto e l'imperfetto; o, detto cinicamente, fra il negativo e il positivo: il nulla è sempre perfetto, il qualcosa ha sempre dei difetti. Il meccanismo del mondo appare ridicolo alla serenità del Budda, perché lui non ci ha più nulla a che fare. Il cinico trova ridicoli i sentimenti degli altri, perché lui di sentimenti non ne ha più. Così, colui che non ama il calcio vede come assolutamente ridicolo che un tizio possa faticare per ore e ore dietro una palla; non si domanda se questo gioco può essere invece per qualcun altro terribilmente divertente, ma ne vede soltanto l'aspetto ridicolo, vede cioè degli adulti che si mettono a giocare come se fossero dei bambini. Probabilmente quello che fa qualcosa si rende sempre ridicolo agli occhi di chi non fa nulla. Chi agisce si espone sempre al rischio di mettersi a nudo; chi non fa nulla non accetta neppure di correre questo rischio. Nello stesso modo si potrebbe affermare che ciò che vive è sempre ridicolo, dal momento che soltanto la morte è assolutamente al di là del ridicolo.


Oggi credo che anche per noi fosse così: non facevamo nulla, non dicevamo nulla, non sostenevamo nulla e non avevamo opinioni e passavamo il nostro tempo a sorridere della gente che - ridicolo! faceva o diceva o addirittura credeva in qualcosa. Questi clowns nel nostro salotto erano del resto persino molto necessari alla nostra esistenza; dal momento che noi non ci rendevamo mai ridicoli, dipendevamo ovviamente dagli altri che lo facevano e in questo modo ci permettevano di divertirci. Per questo li trovavamo così simpatici, perché ci facevano ridere, cosa che noi da soli non sapevamo fare. Che di ridicolo non ci fosse penuria, è facilmente immaginabile; quanto più è in una bottega di porcellane, tanto più sicuramente ogni estraneo ha la probabilità di apparire come un elefante. Quindi tutto quello che trovavamo ridicolo lo era specificamente PER NOI - per chiunque altro era perfettamente normale. Penso a questo proposito a un nostro vicino di casa che possedeva sempre molte fantastiche automobili e le usava con immenso piacere. Questo era un po' ridicolo, faceva un po' nuovo ricco, perché mio padre, molto più ricco del suddetto vicino, non possedeva neppure un'automobile e non sapeva nemmeno guidare; questo era molto distinto. Lo stesso vicino si dilettava anche di modelli di aeroplani, ch'era in grado di far volare sopra metà della Svizzera; anche questo ovviamente era un po' ridicolo, un tipo di hobby abbastanza infantile. Mio padre non aveva hobby, nelle sue ore libere faceva al massimo un solitario (per la verità ne conosceva uno solo e nemmeno dei più interessanti); questo naturalmente era molto distinto.


Intendo dire che le predilezioni del nostro vicino di casa non avevano in sé nulla di ridicolo; lo avevano soltanto per noi, che di predilezioni non ne avevamo e ci gloriavamo di essere "al di sopra" di queste cose. Quanto meno fai, tanto meno ti rendi ridicolo. Questa verità era un motto di casa nostra e ha contribuito a fare di me un essere distinto e infelice. Tale generale passività si vede bene in un esempio: i miei poveri genitori erano membri passivi di tutte le associazioni a cui si poteva essere iscritti; non esserci "avrebbe fatto cattiva impressione fra la gente del paese" dove abitavamo. Ma essere membri attivi, fare della ginnastica nell'associazione di ginnastica o cantare in quella di canto corale o giocare ai birilli al club dell'arte dei birilli no, questo non lo avrebbero mai fatto. La mia povera mamma, per pura abitudine, era persino membro dell'associazione femminile, sebbene detestasse tale istituzione, non foss'altro per l'impegno con cui si batteva per il voto alle donne.


Eravamo ben disposti verso la vita, molto ben disposti, si può dire; stavamo di fronte alla vita con la stessa benevolenza con cui allo zoo si può star di fronte a un ippopotamo o a una giraffa. Basta del resto dire che stavamo di fronte alla vita. Solo starci dentro nella vita, questo no, questo non lo volevamo. La vita peraltro ci piaceva, ma non la prendevamo come il nostro mestiere, piuttosto come uno spettacolo al quale si assisteva. Tutto ci piaceva, la gente, le strade, la fiera, ma sempre da spettatori. Per questo nessuno avrebbe mai potuto rimproverarci di essere ostili al nostro prossimo; in realtà andavamo verso il nostro prossimo, ma con lo stesso spirito con cui si va al cinema. La strada, per esempio, era una cosa che ai miei genitori piaceva molto, specialmente nel sud, in Italia o in Spagna. Ma ecco il punto: la vita passava davanti agli occhi. Io stesso per anni e anni non ho capito quanto sia interessante la strada; sapevo soltanto che era pittoresca e che ci si potevano vedere i tipi più strani. Non mi sfiorò mai la mente che per la strada anch'io ero un tipo come gli altri. Spesso sono stato a osservare la scena della strada con la gente tutta indaffarata, ciascuno intento ad andare per i casi suoi.


Una volta a una sagra paesana, degli amici mi domandarono che cosa mi fosse piaciuto di più e io, con tutta naturalezza, risposi che ciò che mi piaceva era osservare la gente. Dovetti fare un certo sforzo per lasciarmi guidare di buon grado da un divertimento all'altro, perché l'idea che i divertimenti potessero essere lì anche per me e non solo per gli altri mi era completamente nuova.


Per la strada incontravo tipi interessanti; ma non erano tipi con cui avrei volentieri preso contatto. Era come un film che mi si dipanava sotto gli occhi con le sue immagini scintillanti e cessava nel momento in cui mi alzavo dal mio posto di spettatore e me ne andavo. Per la strada vedevo belle donne, molto eleganti, o molto belle, ma che mi passassero davanti e fossero molto belle e eleganti anche per me, a quello non arrivavo a pensare. Questa è certo la quintessenza del mondo nel quale sono nato e che doveva diventare anche il mio: la vita è una cosa molto bella, ma noi non siamo la vita, la vita sono gli altri.


La concezione che avevo allora della strada come mio spettacolo privato ebbe per me una terribile conseguenza. Poiché io la gente la osservavo soltanto, più con aria critica e dall'alto in basso che con simpatia, ero automaticamente convinto che anche gli altri facessero lo stesso con me. Ogni volta che qualcuno si voltava a guardarmi, per me era naturalissimo pensare che mi guardava con biasimo o con critica e che aveva qualcosa da ridire. Interpretando in tal modo ogni sguardo, cominciai a temere che effettivamente ci fosse in me una quantità di cose da biasimare. Temevo di non essere in ordine, di avere gli abiti sporchi, insomma di portare in giro, senza accorgermene, qualcosa di fastidioso per il pubblico. Da ragazzino definivo questo particolare stato d'animo dicendo che mi sentivo come "con una cornacchia morta appesa al collo". Come se tutti quelli che passavano mi vedessero ballonzolare davanti al collo quella cornacchia morta e io soltanto non mi rendessi conto di questa scandalosa realtà.


La cosa peggiore era quando a guardarmi era una ragazza; poiché non mi era mai venuto in mente di voltarmi a guardare con ammirazione una ragazza, e anche delle donne ciò che ero pronto a vedere era l'aspetto ridicolo, non mi sfiorava neppure lontanamente la mente che potessero guardarmi con approvazione. Non ero un ragazzo particolarmente bello né particolarmente brutto, non si poteva quindi escludere a priori che una ragazza mi rivolgesse uno sguardo di simpatia; ma anche gli sguardi più benevoli erano per me solo espressione di critica e di disapprovazione. Ogni sorriso mi pareva ironico e di compatimento; è chiaro e abbastanza naturale che a quel sorriso non rispondessi con un sorriso.


Quando ho più sopra confrontato la nostra vita con il cinema, dicendo che guardavamo la vita come un film, devo anche aggiungere che al cinema non ci lasciavamo mai "toccare" direttamente. I miei genitori ci andavano volentieri di tanto in tanto; ma per principio suddividevano tutti i film in due categorie: c'erano i film "fastidiosi" e quelli "assurdi". Il senso era questo: un film era "fastidioso" quando mostrava gli aspetti tristi, tragici, pessimistici, "disarmonici" della vita; Ai miei genitori questi film non piacevano; pensavano che film di questo genere non si sarebbero dovuti fare, perché "la vita non è così". Partivano dal preconcetto che la vita non poteva essere nera come appariva in certi film "fastidiosi" e che quindi il film in questione era irreale e inutilmente pessimistico. Non era certo un merito per l'autore far vedere cose brutte, cattive, tristi.


Gli altri film erano "assurdi, stravaganti, vale a dire che erano comici, ma in maniera irrealistica, esattamente come i film "fastidiosi" lo erano in forma tragica. Anche qui "la vita non è così". Entrambe le forme di cinema si caratterizzavano quindi per essere totalmente irreali e rappresentare cose del tutto impossibili, nelle quali non ci si poteva in alcun modo identificare. Una sottospecie dei film "fastidiosi" erano quelli "russi". Anche questi non erano realistici, perché vi si discutevano continuamente problemi interiori e "meno che mai la vita è così". Non essendo i miei genitori abituati a parlare di conflitti interiori, ogni rappresentazione di individui che non facevano altro che questo, non poteva che apparire loro assurda, addirittura inverosimile. I "russi", questo popolo esotico e totalmente inimmaginabile sul nostro parallelo, parlavano magari anche dell'anima, ma nel nostro mondo un tema simile era assolutamente impensabile.


Solo molto più tardi doveva colpirmi quanto poco irreali erano i film che i miei genitori trovavano "fastidiosi" o "assurdi" o "russi".


Tutti rappresentavano, naturalmente con diverso stile e impegno, sempre gli stessi fondamentali problemi dell'uomo, quelli che si raccolgono sotto il nome comune di vita. Le vicende dei personaggi erano magari accentuate in senso teatrale, ma tutto ciò che in essi vi era di comico o di tragico o di "russo" appunto, non era affatto assurdo; erano tutte cose che potevano capitare a chiunque. Solo che a noi non sarebbero mai potute capitare: solo per noi tutto ciò doveva restare solo cinema. Amore, odio, passione, violenza, follia, vizio, delitto, ma anche ridicolo, situazioni assurde o penose, imbrogli, la presa in giro di uno stupido, vergogna, seduzione, fascino, debolezze, errori, bohème, peccato, tutto ciò per noi era solo cinema; nella vita non esisteva. Forse poteva anche darsi che i russi fossero così, ma noi no. Non faceva differenza se vedevamo queste cose in un film o nelle persone che ci stavano intorno. L'effetto era lo stesso. Ciò che vedevamo non era mai, in nessun caso, un riflesso del nostro io.


Guardavamo la vita come se fosse un film; ma nemmeno al cinema volevamo pensare che il film parlasse della vita.


 


 


 


 


3.


Dopo aver tentato di inquadrare qualche elemento determinante del mondo della mia infanzia e della mia adolescenza, vorrei ora occuparmi per un momento dei miei anni di scuola. Tralascio le scuole elementari, che frequentai a K. e che rimasero completamente nell'ombra dell'ambiente familiare e passo subito a parlare degli anni della scuola superiore. Questo portò un elemento nuovo nella mia vita, dal momento che dovevo andare in città, a Zurigo, e ciò già allargava un po' il mio orizzonte, anche soltanto dal punto di vista geografico.


Che dovessi andare al liceo era un punto fermo, già stabilito con anticipo. Prima di essere preparato all'esame di ammissione mi avevano detto che ero intelligente e che la mia strada era il liceo. Come al solito non avevo trovato nulla da obiettare.


All'inizio dell'anno scolastico, alla festa di benvenuto agli alunni che entravano al liceo, il rettore, dopo averci spiegato a grandi linee gli intenti di quello studio, ci disse che l'aspetto più bello della scuola superiore era che lì ci saremmo fatti gli amici più cari e avremmo potuto mettere le basi di amicizie destinate a durare tutta la vita. Mentre il rettore diceva queste cose, non avevo la più pallida idea di quanto già fossi avviato a far sì che quelle profezie NON si avverassero. Alla domanda se i miei anni di scuola sono stati un periodo felice, devo ancora una volta rispondere che non mi resi comunque mai conto che fosse un periodo infelice, o piuttosto, che anche su questo periodo si era già posata la terribile patina di una falsa e traditrice contentezza.


Non sono quindi stato il tipico scolaro infelice. Non ero neppure un cattivo scolaro. Ero soprattutto ammodo e diligente e devo essere stato maledettamente noioso. Se oggi penso ai miei scolari e cerco di fare un confronto fra loro e me allora, posso solo immaginare di essere stato di una noia ai limiti della criminalità. E neppure si può dire che avessi particolare interesse per ciò che facevo. In quasi tutte le materie apprendevo con diligenza, ma non perché quel che studiavo mi interessava, semplicemente perché ero uno scolaro ammodo.


Portavo a casa dei bei voti e che in condotta avessi sempre i voti migliori non può meravigliare nessuno. Siccome non facevo mai scherzi stupidi, non c'era ovviamente ragione per castigarmi. E' quindi molto probabile che, senza volerlo e solo per pura stupidità, sia stato uno scolaro modello. Potevo quindi in tutta tranquillità lasciarmi rafforzare nella convinzione di essere intelligente, poiché erroneamente si usa presupporre che bravo scolaro e persona intelligente siano la stessa cosa.


Avvenne che io a scuola non mi trovai mai ad avere quelle difficoltà che si verificano nella vita della maggior parte dei ragazzi. Non ebbi mai contrarietà o divergenze con gli insegnanti; li stimavo, qualche volta li temevo anche un po' e spesso li trovavo un tantino ridicoli; ma a un confronto aperto non si arrivò mai. Certo anche loro dovevano essere contenti di me. Ero un ragazzo tranquillo, gentile, senza problemi e per di più un buon allievo - non avevano quindi alcuna ragione per non apprezzarmi .


C'era soltanto una materia in cui non riuscivo assolutamente a farmi onore: la ginnastica, naturalmente. Perché la ginnastica era qualcosa di molto diverso dalle materie scientifiche; ci voleva forza, coraggio fisico, volontà, tutte cose che io non conoscevo. Il mio stesso corpo mi era già del tutto estraneo, non sapevo che farne. Ero molto versato nel mondo ambiguo della "elevatezza", ma avevo paura di ciò che di brutale e primitivo appena vagamente intuivo del mondo fisico. Non mi piaceva muovermi, mi trovavo brutto e mi vergognavo del mio corpo. Il corpo c'era, era semplicemente lì, senza vie d'uscita, senza possibilità di fuga nel mondo del "difficile" e della negazione della vita. Questa estraneità del mio corpo che non sentivo legato alla terra mi disturbava e si manifestava in un eccesso di timidezza.


Evitavo non solo ogni contatto fisico, evitavo persino le parole che si riferivano al corpo e a quella che mi pareva la vergogna ad esso connessa. Non riuscivo a pronunciare non solo le espressioni davvero triviali, ma anche le vicende più quotidiane del corpo mi apparivano come qualcosa di disgustoso e vergognoso. Parole come "seno" o "nudo" o "genitali" non riuscivo quasi a pronunciarle. Nella vittoriana "pruderie" assimilata in famiglia, evitavo persino di parlare di "gambe" e di "calzoni". La stessa parola "corpo" era tabù; la parola in cui si concentrava tutto ciò che mi faceva orrore non doveva nemmeno essere pronunciata. La vergogna più grande, però, la provavo davanti alla mia nudità. Questa era una delle ragioni per cui odiavo tanto la ginnastica; perché con la ginnastica, arte nuda, la nudità del corpo appariva nella sua espressione più concreta, quella che bisognava a ogni costo ignorare. Per fare ginnastica dovevo spogliarmi, nel senso più letterale del termine, e mettere in mostra il mio corpo che trovavo tanto brutto. Naturalmente dopo la ginnastica non osavo andare a fare la doccia con i miei compagni, perché mi vergognavo troppo della mia nudità. Nel corso di quegli anni di scuola a questa vergogna se ne aggiunse una seconda: mi resi conto che i miei compagni non si vergognavano e avevano con il loro corpo un rapporto molto più naturale di me e capii che in questo senso erano più avanti di me, capii di essere rimasto indietro e di non valere come loro.


Come tutte le persone complessate, mi vergognavo anche terribilmente di arrossire continuamente, rendendo in tal modo visibili a tutti le mie reazioni più intime. La paura di arrossire provocava ancor più il rossore e, ogni volta che in un discorso o durante una lezione avvertivo farsi avanti un tema che mi avrebbe fatto arrossire, cominciavo una lotta disperata con il fazzoletto per asciugare un immaginario sudore o per simulare fantomatici starnuti. Una volta ipersensibilizzato a questo punto, gli incidenti tormentosi si verificavano sempre più frequenti e cominciai ad arrossire anche in casi in cui neppure per me ci sarebbe stata ragione. Naturalmente cercavo di stare il più possibile alla larga da ogni tema scabroso, così che si era allargato sempre più il campo degli argomenti di cui non amavo parlare, cose per me davvero "difficili". Ho già accennato al mio ripulitissimo vocabolario, che doveva poi per molti anni procurarmi grandi fastidi, anche quando, ad esempio, dovevo comperare dei calzoni o, peggio ancora, delle mutande, ed entravo in un negozio e non riuscivo a pronunciare quella terribile parola. Bestemmiare era ovviamente una cosa che non sapevo assolutamente fare e per la verità l'ho imparato solo in questi ultimi anni.


Ma il corpo nascondeva anche altri terrori oltre la vergogna. Avevo paura del dolore. Per molto tempo naturalmente la personificazione del dolore era stata il medico, che disponeva di un tremendo arsenale di strumenti acuminati e dolorosissimi con i quali avrebbe potuto tagliarmi o pungermi o in qualche modo ferirmi. Il pericolo più frequente erano le iniezioni, la cosa che temevo di più. L'ago del medico non doveva pungermi la pelle, non doveva penetrare dentro di me. Come mi riparavo in tutti i modi dal mondo esterno e dalla vita, non potevo certo permettere che venisse toccata la pelle, che serviva anch'essa a difendermi dal mondo esterno. Come si sa, l'epidermide è il simbolo fisico della protezione di tutto ciò che vi è in noi di vulnerabile. Perciò non potevo sopportare che qualcosa toccasse la mia preziosissima pelle.


Ancor più che del dolore avevo paura del sangue. Non lo potevo vedere, non potevo neppure sentirne parlare, non lo potevo assolutamente sopportare. Ogni volta che mi capitava, mi sentivo male. Madido di sudore, ero colto dal panico, mi sentivo svenire e un velo nero mi si calava davanti agli occhi. Dovevo subito andar via, correr fuori all'aria fresca, lontano da dove c'era il sangue o si parlava di sangue, lontano anche dal pensiero del sangue. Il sangue, sostanza stessa della vita, dell'esistenza fisica, era troppo per me, non ero in grado di affrontarlo. Rappresentava tutto quello che non volevo sapere, che cercavo con ogni mezzo di evitare, tutto ciò che avevo rimosso dal mio mondo senza problemi, così artificiosamente armonico.


Non potevo guardare il sangue da spettatore; era dentro di me, terribile e pauroso; viveva in me e io vivevo di lui, il sangue ero io. Il sangue era la verità e davanti alla verità io sprofondavo nel nulla. Tanto ero vulnerabile e tanta paura avevo della mia vulnerabilità, perché non vi ero preparato, perché ero invece preparato soltanto a essere intatto, puro, intoccabile.


Tutte queste debolezze avrebbero potuto molto facilmente suscitare l'ironia dei miei compagni di scuola; ma per la maggior parte essi vi reagivano con molta bonarietà. Se qualche volta mi capitava di esser preso in giro, ciò accadeva senza cattiveria e senza disprezzo. Posso dire che nella classe ero stato accettato bene, anche se in generale mi consideravano un "outsider", un debole, un compagno con cui non si poteva combinarne molte, ma che però non era particolarmente sgradito.


Le cose erano molto chiare: non ero un guastafeste per le loro imprese, ma era scontato che non vi prendessi parte. Non che venissi escluso con intenzione, semplicemente non c'ero. Andavo d'accordo con tutti e non avevo nemici, ma neppure amici. Ero piuttosto una figura incolore, che non suscitava né speciali antipatie né particolari simpatie. Godevo di un certo rispetto perché ero abbastanza bravo; e che in ginnastica le mie prestazioni fossero così disastrose era considerato da tutti piuttosto come un fatto curioso, una stranezza.


Non mi prendevano in giro perché non sapevo né volevo giocare al pallone: era semplicemente così, io non c'ero.


Sotto un certo aspetto questo mio star fuori dalle cose mi arrecava anche dei vantaggi. Era chiaro che mi muovevo in una sfera "elevata".


Questa elevatezza, naturalmente, si manifestava per il momento soltanto nel fatto che ero più noioso degli altri; d'altro canto deve avermi anche dato una certa aria di distinzione. Il fatto, per esempio, che non imprecassi mai, che mi tenessi lontano da ogni volgarità, che in tutte le situazioni disponessi sempre di un eccesso di buone maniere, veniva visto dai miei compagni non solo come ridicolo, ma anche come originale. Se anche non mi potevano apprezzare per singole qualità, apprezzavano però la singolare combinazione di tutte le mie qualità, quella combinazione che mi rendeva diverso dagli altri e faceva di me qualcosa, appunto, di speciale. Uno speciale forse non particolarmente simpatico, ma misterioso, che nessuno riusciva a capire. Ero diverso, strano, imperscrutabile, era come se venissi da un mondo differente, ma tutte queste stranezze mi facevano apparire agli occhi dei compagni non tanto un tipo disprezzabile ma piuttosto una sorta di bestia rara, un mostro di cui non era facile capire qual era la testa e quali i piedi, ma di cui si sapeva però con certezza che era mansueto, assolutamente incapace di mordere.


Oggi non mi è più possibile stabilire esattamente quando mi resi conto per la prima volta della singolarità e ambiguità della mia situazione, ma indubbiamente era un'ambiguità che esisteva già da molto tempo, dapprima del tutto inconscia, poi piano piano facendosi strada fino alla coscienza. Da un lato avevo preso in appalto le alte sfere, dall'altro ero ancora prigioniero del mondo degli inferiori. Come ho già detto, leggevo soltanto "buoni" libri, ascoltavo soltanto "buona" musica e "buono", allora, significava per me naturalmente soltanto classico. Mi interessavo di letteratura, mi muovevo a mio agio nello stesso spazio culturale degli adulti e potevo quindi guardare un po' dall'alto in basso i miei compagni di scuola che si interessavano "soltanto" di sport, di pasticciare intorno ad apparecchi radio, di stelle del cinema, di canzonette, di jazz. Ovviamente allora credevo che tutta la musica non classica fosse jazz o canzonette, ed entrambi erano "cattivi". Non avevo assolutamente idea di che cosa fosse il jazz, ma che fosse disprezzabile lo sapevo con sicurezza; e quando gli adulti me lo chiedevano ero molto fiero di poter affermare che non mi piaceva il jazz.


Ho avuto modo di constatare che la gente di solito è molto più fiera delle cose che non sa e che neppure vorrebbe sapere, che delle cose che sa; non ne voglio neppure sentir parlare; non voglio averci nulla a che fare, in casa nostra non usa - questa è la tipica reazione del borghesuccio. Per la maggior parte della gente è più importante non avere vizi che possedere determinate, concrete virtù.


Da scolaro ero orgoglioso di non provare interesse per tante cose interessanti e di essere quindi già come un adulto. Ero fiero di non giocare al flipper, di non divertirmi con il calcio da tavola, di non andare al "Café Maroc", tanto popolare fra i miei compagni, a spendere il mio denaro in modeste bisbocce; di non voler sapere chi era Elvis Presley e di non vivere con un minimo di partecipazione i famosi dorati anni Sessanta. Che Elvis Presley dovesse poi magari per il nostro tempo diventare cento volte più significativo del solito Goethe, i cui prodotti letterari leggevo e trovavo debitamente classici, allora non lo sapeva ancora nessuno. L'importante per me era semplicemente che io in tutte quelle cose non c'ero, i miei compagni sì. In questo modo realizzavo quindi ciò che avevo imparato dai miei genitori: escludersi da ogni cosa ed esserne anche orgogliosi.


Da parecchio tempo però questa illusoria superiorità era minata dalla consapevolezza sempre crescente di non essere soltanto al di sopra delle cose, ma anche al di sotto; in confronto ai miei compagni, cominciavo a restare indietro, a perder colpi, anzi ero già rimasto indietro. Per molto tempo avevo potuto spiegare la mia eccessiva timidezza, la mia paura dicendomi che, se non il più piccolo, ero però il più giovane e inesperto della classe, e che nel giro di pochi anni avrei ricuperato ciò che mi mancava. Sapevo di essere ancora molto giovane e ignorante e cercavo di immaginarmi come sarebbe stato una volta che "mi fossi tirato fuori" e avessi acquistato la stessa libertà di movimento degli altri. La sensazione di dovermi "tirar fuori" presuppone già l'impressione di essere prigioniero di qualche cosa di cui ci si deve liberare e quindi la consapevolezza, più o meno chiara, di non essere libero. Da principio questa liberazione l'aspettavo semplicemente dal tempo, che mi avrebbe automaticamente liberato, non appena fossi uscito da quello stadio della prima giovinezza. Ma piano piano mi resi conto che a tenermi indietro non erano soltanto i miei pochi anni, anche molte altre cose mi mancavano.


I miei compagni sapevano una quantità di cose che io non sapevo. Erano in grado di discutere con i professori, mentre io dagli insegnanti non sapevo far altro che apprendere. Erano in grado di esprimere spontaneamente simpatie e antipatie per insegnanti, compagni o altre persone, mentre io non riuscivo a tirar fuori che il mio eterno "non saprei". Un paio di volte era accaduto che io definissi qualche singolo insegnante "simpatico", semplicemente perché era una persona di rispetto, suscitando così violente reazioni di rifiuto da parte dei compagni. Loro trovavano l'insegnante in questione niente affatto simpatico, al contrario era odioso, falso, cattivo, cretino, vigliacco. Anche se tentavo, alla mia maniera, di difendere l'insegnante dicendo che non era poi "così male", mi restava però dentro una spina: la consapevolezza di non esser stato in grado di accorgermi da solo che quei benedetti insegnanti erano odiosi o stupidi o falsi o cretini. Cominciai a intuire che mi mancavano le capacità necessarie per trovare qualcuno stupido o cattivo; o, in altre parole: lentamente cominciavo a capire che tutti sapevano il valore di buono e cattivo, ma che io, a differenza degli altri, non lo sapevo, non distinguevo il buono e il cattivo, sapevo solo che tutto era "difficile".


Del denaro per esempio non avevo la minima nozione. Intuivo che mio padre doveva essere ricco, sebbene i miei genitori non ne parlassero volentieri e usassero tenersi anche a una certa distanza dall'altra gente ricca. Molti ricchi conoscenti della mia famiglia ci tenevano a far sfoggio della loro ricchezza, ma questi erano degli "sciocchi spacconi". Noi naturalmente eravamo sì ricchi, ma in tutt'altra maniera, la nostra era una ricchezza pudibonda. A casa nostra nelle questioni finanziarie vigeva l'"understatement" tipicamente svizzero: si possiede ma non si mostra; si hanno solide basi economiche ma non si vive lussuosamente; tutto ha l'aria estremamente modesta, ma costa una montagna di soldi; non si mangia caviale in piatti d'oro, ma una comune minestra in piatti che hanno l'aria di essere comperati ai grandi magazzini, mentre poi si viene a sapere che valgono mille franchi l'uno. Tutto ciò che possedevo per me non aveva prezzo. Sapevo che quando si tratta di un regalo non si deve mai sapere quanto è costato; e poiché tutto ciò che possedevo consisteva in regali, non riuscivo neppure ad avere un'idea di quanto valesse ciò che possedevo.


Di tutte le mie cose i miei compagni volevano sempre sapere quanto costavano, ma io non lo sapevo mai dire. Finivo per rispondere sempre che erano regali, appunto, perciò non potevo sapere che cosa valessero. E anche quel non sapere mai il prezzo delle cose mi appariva come un segno della mia "elevatezza"; per contro, mi rendevo conto che i miei compagni erano informatissimi di cose di cui io non sapevo assolutamente nulla e ciò mi costringeva a dirmi che, appunto, non ero al passo con gli altri. Sempre di più dovevo difendermi dalla spiacevole constatazione che loro sapevano le cose e io no.


In una cosa questa lotta mi diventò particolarmente difficile. Molti dei miei compagni avevano delle amiche; io naturalmente non ne avevo.


Che il non averne fosse per me naturale si spiegava con il fatto, appunto, che io anche in questo ero più indietro degli altri. Pensavo che con il tempo ne avrei avuta una anch'io. A questo punto ebbe inizio per me un lunghissimo processo in cui due posizioni si confrontavano, ostili. Cioè se semplicemente non avevo ANCORA un'amica o se VERAMENTE non avevo un'amica. Fin dove mi era possibile cercavo di tenermi stretto alla mia prima ipotesi, cioè che non ero ANCORA arrivato al momento di avere un'amica. Ma era un punto di vista che mi diventava di giorno in giorno più difficile sostenere. Dovetti constatare che non solo i miei coetanei e compagni di classe avevano un'amica, ma che l'avevano anche ragazzini delle classi inferiori alla nostra, e che a ogni anno che passava erano sempre più numerosi i ragazzi minori di me che in questo campo avevano successo; che il tempo passava in fretta e che io non me ne accorgevo e restavo indietro. Era cioè già ampiamente venuto il tempo in cui anch'io avrei dovuto avere un'amica; d'improvviso la cosa non si chiamò più "non ancora" ma "già da un pezzo". Compresi che l'evento non era più da considerare come qualcosa che si sarebbe verificato nel futuro, ma come qualcosa che avrebbe già dovuto avvenire da molto tempo. Non esisteva quindi per me un nebuloso futuro in cui le cose dovevano avvenire, ma avevo già alle spalle un passato nel quale avevo fallito.


Per la prima volta in vita mia mi resi conto che si trattava di una mia colpa, la colpa di aver mancato di fare qualcosa che avrei dovuto fare. Solo molto lentamente arrivai a capire che anche in questo ero diverso; non era che non avessi "ancora" un'amica, non ne avevo affatto e basta. L'abisso fra me e gli altri si faceva sempre più grande.


Un punto dolente, una prova di questa evoluzione fu la scuola di ballo. Come tutti sapevano, i ragazzi che andavano alla scuola di ballo si facevano subito un'amica. Evidentemente il corso di ballo era proprio il luogo dove si avevano queste occasioni. Fin che non frequentai il corso avevo quindi una buona scusa, una comoda spiegazione: non ero ancora stato nel posto adatto per trovare un'amica; perciò io della cosa non avevo assolutamente colpa; mi era semplicemente mancata l'occasione. Ma anche questo latente piacere dell'alibi non doveva durare in eterno, perché alla fine arrivai anch'io alla scuola di ballo. Lì constatai molto in fretta che c'erano dei ragazzi che sapevano come comportarsi con le ragazze e che io invece non lo sapevo affatto e me ne stavo sulla mia seggiola, imbarazzato e pieno di inibizioni. Una volta di più gli altri erano quelli che sapevano e io quello che non sapeva. Portai al corso di ballo perfette buone maniere, ma nessuna sensibilità per il ritmo e nessuno slancio nei movimenti e si vide subito che come ballerino ero un completo fallimento. Ero distinto ma assolutamente incolore. Non trovavo nulla da dire alle ragazze con cui ballavo, non sapevo come comportarmi con loro e divenni il muto testimone del processo che si svolgeva intorno a me: dalle anonime ragazze appena conosciute piano piano venivano fuori le amiche dei miei compagni. Così anche il corso di ballo, che fino allora aveva fatto parte delle visioni del futuro, era diventato ora realtà. Ero arrivato al punto, il corso c'era, adesso avrei dovuto giocare le mie carte; ma io non ero maturo, io non c'ero, non giocai nessuna carta. La realtà era lì, ma io fallivo.


Oscuramente devo averlo avvertito fin d'allora: non era il corso che non funzionava, ero IO che non funzionavo, in tutto e per tutto. Ma allora ero ancora capace di mettere a tacere la realtà e di lì a poco andai in un altro corso di ballo, nell'illusoria speranza che QUESTO sarebbe stato molto meglio e mi avrebbe portato ciò che volevo. Non avevo il coraggio di confessare a me stesso che dipendeva da me se fallivo; che la colpa non era del corso di ballo o di una qualsiasi altra istituzione, se io non ne imbroccavo una; ma che la colpa era da ricercare solo in me. Forse avvertii la verità, ma mi mancò la capacità di portarla a livello di coscienza.


Col tempo finii anche per abituarmici un poco: così come gli altri sapevano una quantità di cose di cui io non avevo la più pallida idea, così avevano anche le amiche, un'altra realtà di cui non avevo idea.


Allora non lo sapevo ancora, ma ero, già a quel tempo, arrivato alla soglia della terribile cosa che doveva cadere su di me.


 


 


 


 


4.


Queste ultime considerazioni mi riconducono a un tema che non ho ancora trattato nel suo complesso. Ho già detto che in casa dei miei genitori tutti i temi di conversazione che avrebbero potuto avere qualcosa di interessante erano in effetti tabù. Che questi argomenti siano tabù nella vita di un bambino non è ovviamente una cosa straordinaria; anzi, posso ben immaginare che sia piuttosto normale.


Niente affatto normale è, però, la grande sofferenza che ne può venire per l'interessato; al contrario, essa è ogni volta una cosa tremenda.


Tanto per fare un esempio: attualmente in Cile si torturano a morte migliaia di persone. Il fatto però che siano migliaia è ben lungi dal rendere la cosa anche lontanamente normale. Anche l'educazione sessuale - o per meglio dire l'educazione antisessuale - che mi è stata impartita non è niente di speciale; migliaia di altri individui non sono stati più fortunati di me; immagino perciò che anche queste altre migliaia di individui non siano meno infelici di me; soltanto non hanno scritto le loro memorie. Non tutti quelli che non scrivono memorie sono persone felici.


Come ho detto, di tutti i temi di una certa importanza in casa nostra non si parlava. L'educazione religiosa che ho ricevuto, non penso possa trovare confronto. I miei genitori erano profondamente areligiosi. Ma si sarebbero fatti tagliare la lingua piuttosto che ammetterlo. Personalmente non tenevano affatto alla religione cristiana, ma in casa nostra la religione cristiana era considerata una cosa senz'altro buona. Voglio dire che tutti sapevamo benissimo che nessuno di noi aveva sentimenti cristiani, ma anche che non era possibile tollerare alcun dubbio sulla Chiesa cristiana e sulle sue istituzioni. O meglio, per tradurre la stessa cosa in una sorta di assai dubbio imperativo categorico: si doveva essere contrari, ma bisognava ugualmente trovarla buona. A casa mia non avevo fatto la conoscenza di Dio e del suo singolarissimo figlio (per la precisione figliastro) Gesù; entrambe queste ambigue figure mi vennero presentate per la prima volta a scuola. E ben presto mi resi conto di una cosa strana: non dovevo parlare di Dio di fronte ai miei genitori, perché era una cosa che non potevano soffrire. Di più: soprattutto mio padre non voleva assolutamente sentirne parlare, si infuriava addirittura, la situazione diventava insostenibile, si levava nell'aria vento di sciagura e qualsiasi ulteriore accenno all'argomento si vietava da sé.


Io intuivo che Dio doveva essere qualcosa di molto discordante, che si sarebbe anche potuto valutare positivamente - era abituale parlare del buon Dio - che peraltro i miei genitori non sopportavano neppure di sentir criticare o mettere in ridicolo, e che solo a nominarlo mio padre andava su tutte le furie; insomma, a casa nostra non era ben visto. Forse a quel tempo mi ero anche messo nella mia testolina infantile che fosse anche lui uno dei nostri clowns, che recitava per noi una sua specialissima commedia, della quale eravamo spettatori.


Per tutti gli altri, a quanto pare, Dio era invece una bellissima cosa; probabilmente era solo per cortesia e per finezza nei confronti degli stupidi che non si doveva parlarne male. Oggi mi riesce più facile capire qual era il credo dei miei genitori e penso che lo si potrebbe definire così: Dio è male perché è una cosa di cui ci si deve occupare; ma la Chiesa è bene perché è una cosa rispettabile.


I miei genitori generalmente non andavano in chiesa, anche se in linea di principio andare in chiesa era una buona cosa. Probabilmente era una buona cosa per gli altri. Forse andare in chiesa era persino un po' ridicolo, però non lo si doveva ammettere. I miei genitori non mi permisero mai di scherzare su questi argomenti, anche se immagino che in segreto loro lo facessero. La cosa si poteva forse porre in questi termini: se un singolo individuo andava in chiesa, la faccenda era ridicola, perché questa singola persona era comunque sempre il nostro clown; ma che in linea di principio si andasse in chiesa era una buona cosa, perché la chiesa era in sé qualcosa di buono. I miei genitori quindi erano del parere che in linea di principio si andasse in chiesa; loro però non volevano rendersi ridicoli andandoci come singoli individui.


Naturalmente però in chiesa poi ci andavano, e come. C'erano pur sempre i tanti amici e conoscenti che morivano, e in occasione delle esequie bisognava andare in chiesa. Ma quando per una volta i miei genitori andavano in chiesa, allora no, allora era una questione di buone maniere; andarci era "comme il faut" e ci andavano davvero come in pellegrinaggio, che Dio abbia pietà di loro. E, una volta in chiesa, non c'era più niente che non gli andasse abbastanza bene: lodavano la chiesa, la sua architettura, le decorazioni floreali, il parroco, la predica, l'organo, il coro, l'atmosfera e quanto altro si può ancora lodare quando ci si sprofonda in lodi in nome di Dio. La chiesa gli piaceva, perché era perbene. Una cosa sola pareva non piacere a mio padre: quando doveva alzarsi con gli altri al momento della preghiera, la testa gli si faceva paonazza dall'ira di vedersi lì in piedi in mezzo agli altri a far finta di pregare. Ma poi, finita la funzione, era subito di nuovo di buon umore e pieno di lode: il parroco aveva fatto una bellissima predica, si era espresso in forma veramente eletta, con una perfetta pronuncia da scuola di dizione. Mi colpiva soltanto che mio padre lodasse sempre lo stile della predica; se fosse o meno d'accordo anche con il contenuto, di questo non si parlava. Mi ricordo che in occasione di uno di questi riti funebri, io avevo pensato fra me che il parroco avesse detto un sacco di stupidaggini. Il commento del mio povero papà era invece stato che il parroco aveva parlato molto bene. (E qui si potrebbe persino arrivare a un sottile compromesso, perché è senz'altro possibile che il parroco avesse parlato molto elegantemente dicendo un sacco di stupidaggini.)


Oggi me lo posso spiegare dicendo che mio padre era in linea di massima d'accordo solo con le forme esteriori della chiesa, non con la sua sostanza. Essere per la forma esteriore della chiesa faceva parte del "bon ton": essere per i suoi contenuti, era ridicolo.


Ho già scritto che i miei genitori andavano sempre a tutti i funerali di qualsiasi lontanissimo e oscuro parente o conoscente, persone che in vita non erano mai andati a trovare, perché questa era, appunto, una cosa che si doveva fare. Le occasioni di festa erano per loro per principio una cosa odiosa, ma contro le cerimonie funebri non avevano nulla da obiettare. Anche se i miei poveri genitori facevano tutto il possibile per evitare qualsiasi occasione mondana che li portasse a contatto con i vivi, nessun sacrificio era troppo grande per rendere l'ultimo omaggio, come si suol dire, al povero defunto. Era un atteggiamento assai tipico del nostro mondo familiare: quanto più morti, tanto meglio.


Di un altro aspetto del bizzarro rapporto di mio padre con tutto ciò che riguardava la chiesa mi resi conto solo più tardi. Mio padre era architetto, non esercitava però la professione, ma lavorava nell'azienda di suo suocero. Case non ne aveva costruite mai, ma si era invece sempre occupato della manutenzione di monumenti e soprattutto di chiese. Così conosceva molto bene quasi tutte le chiese della Svizzera per le quali aveva anche notevole interesse. Per me l'elemento contraddittorio in questo suo interesse era che le chiese avevano tutte a che fare con Dio, che mio padre invece non poteva soffrire. Quando una volta egli mi mostrò la struttura delle navate di una chiesa, quella longitudinale e quella trasversale, mi accorsi che le chiese hanno una navata longitudinale e una trasversale a indicare la forma della croce. La croce era però un simbolo che mio padre detestava. Cominciai a chiedermi come mio padre avesse potuto resistere con tutte quelle chiese che chiaramente si basavano su qualcosa che lui odiava. Penso che come architetto l'unica cosa che apprezzava di una chiesa fosse la forma, senza farsi interrogativi sul significato di questa forma.


Il suo interesse per le chiese mi appariva vagamente sospetto, come il suo compiacimento per le belle prediche. Come trovava che i preti facevano sempre prediche "bellissime", persino "grandiose", facendo però totalmente astrazione dal senso di ciò che dicevano, così anche le chiese erano "bellissime" e "grandiose" ma come costruite nel vuoto. Ma il fatto che le chiese esistessero aveva pur il suo significato; esse assolvevano un compito preciso: erano cioè testimonianza di Dio, di quel Dio di cui mio padre non voleva neppure sentir parlare. Ma di questo significato religioso delle chiese lui pareva non occuparsi affatto; m questo senso per lui era come se non ci fossero. Lui si trovava bene in quegli enormi spazi vuoti, ostili, defraudati di ogni significato interiore, che per lui non irradiavano che un solo messaggio, quello di essere, appunto, "grandiose", in una maniera astratta e disumana.


Anche quelle chiese mi appaiono oggi come un simbolo di tutto ciò che è morto, senza vita; anch'esse erano morte, come quasi tutto m casa nostra.


Io dunque non posso dire di aver avuto un'educazione cristiana nel vero senso della parola - ma altrettanto poco ne ho avuta una anticristiana o per lo meno di atteggiamento critico nei confronti della religione. O meglio, per rendere attuale un noto passaggio biblico: chi non si schiera apertamente CONTRO Cristo, nel fondo del cuore è pur sempre PER lui. Su questo argomento l'astensione non vale.


Chi non dice NULLA, non ha ancora superato il cristianesimo, è ancora e sempre un cristiano. I miei genitori speravano che anch'io diventassi non cristiano, ma non avevano il coraggio di esprimere ad alta voce questo desiderio. Sotto certi aspetti sono stato educato in un modo che, anche se non consciamente cristiano, pure per sua intima natura si può ancora chiamare cristiano. Intendo qui le più comuni virtù cosiddette cristiane come l'astinenza, la rinuncia, la mortificazione, la mitezza d'animo, la sopportazione e soprattutto l'inequivocabile "no" a quasi tutti gli aspetti della vita. O, in altre parole: la vita non va goduta, ma sopportata senza lamentarsi; non essere in peccato, ma eternamente frustrati. Questo conduce direttamente al secondo grande tema taciuto e impronunciabile della mia infanzia e giovinezza, la sessualità. E su questo punto devo dire che la mia educazione può essere considerata davvero come autenticamente cristiana, perché che la sessualità fosse il fango, il pozzo di tutti i mali, su questo in casa nostra non c'erano dubbi, naturalmente. So benissimo di non essere il solo ad avere avuto una educazione ambigua e assai dubbia sotto questo aspetto e di non dire quindi nulla di nuovo. Ma a maggior ragione devo parlare di questo argomento, proprio perché ha l'aria di essere una di quelle cose di cui non si parla abbastanza. Ancor oggi tutte le famiglie di una certa borghesia hanno un atteggiamento ostile alla sessualità, ma anche qui non si può dedurre che la cosa non sia importante solo perché è frequente. L'atteggiamento dei miei genitori nei confronti della sessualità era naturalmente il concentrato e il coronamento di tutto il loro atteggiamento generale nei confronti della vita: no. O se proprio non era possibile far diversamente - sì, ma solo per gli altri; non per noi.


Se poi ci si comincia a chiedere perché debba essere tanto ovvio che negli ambienti cristiani e borghesi il concetto di sessualità sia considerato la quintessenza di ogni male, non è facile dare una risposta. Non tocca del resto a me dare qui risposta a una domanda vecchia di duemila anni. Un paio di punti che potrebbero condurre a una risposta mi appaiono però chiari se solo mi ripresento alla mente l'atmosfera generale della mia casa paterna. Un aspetto borghese del problema è certamente la consapevolezza della tradizione. Ciò che si è sempre considerato valido continua a esserlo, sia nel bene che nel male; o, espresso in termini borghesi: se è stato valido per tanto tempo, vuol dire che non può essere male, e perciò è certo bene. (In questo contesto mi permetto di riferirmi al nostro esercito svizzero.)


Se già i bisnonni e i nonni dei bisnonni hanno trovato giusto considerare la sessualità come una cosa sconveniente, anche le nuove generazioni, fedeli alla tradizione, non devono pensare diversamente, anche se con ciò evidentemente rinunciano a pensare, poiché quando un pronipote commette gli stessi errori del suo antenato, è chiaro ch'egli considera questo errore già quasi come una virtù, non foss'altro che per la sua veneranda età.


Penso che anche nel caso del miei genitori si sia trattato in parte di questo: non si sentivano chiamati a fare i rivoluzionari, quelli che all'improvviso scoprono una concezione del tutto nuova della sessualità, diversa da quella delle generazioni che li hanno preceduti. L'altro aspetto di principio, essenzialmente cristiano, è anch'esso estremamente illuminante: se, secondo il concetto cristiano, si cerca la salvezza in ciò che è "elevato" e spirituale, si ha anche bisogno di un contrappeso che simbolizzi il basso, l'inferiore, il corporeo, nel qual caso, naturalmente, la prima cosa in cui si concretizza questo fattore inferiore e corporeo è certamente la sessualità e l'amore fisico. (La capacità di capire la sessualità come un fatto tanto spirituale che fisico, di vedere che corpo e spirito non possono essere intesi come elementi di contraddizione, ma come una sola entità è, temo, mancata alla dottrina cristiana; il concetto è rimasto incompreso alla sua ottusa caparbietà.) Chi vuole ovunque e a tutti i costi l'elevatezza, alla fine trova certamente qualcosa da poter considerare basso e per lodare qualcosa in cielo bisogna anche poter maledire qualcosa sulla terra.


Ora, l'"elevatezza" a casa nostra era sempre ospite gradita. Ed era anche un'ospite comoda, perché con il concetto di elevato si può condire senza fatica tutto quello che si vuole. Si può anche starsene a casa propria in pantofole, sdraiati sul sofà e sentirsi "elevati": non richiede nessuno sforzo. E' sempre molto più faticoso trascinarsi nelle paludi della cosiddetta vita, o addirittura occuparsi del peccato. O per lo meno far qualcosa in questo senso. Del resto credo che la cosiddetta virtù valga qualche cosa soltanto quando è conquistata con le lacrime; fintanto che consiste nella resistenza passiva, è virtù del demonio. E così, anche la tanto proclamata "elevatezza" può essere una forma di resistenza passiva. In campo sessuale ciò significa: il matrimonio borghese e la fedeltà possono anche molto bene rappresentare semplicemente la soluzione più comoda; le storie scandalose sono infinitamente più scomode e faticose. Così si può certo definire la sessualità come qualcosa da principio molto scomodo, perché crea problemi e mette alla prova. Ma quando uno preferisce star comodo piuttosto che scomodo, di fronte a tutte le problematiche si mette in posizione di rifiuto. Qui ci ritroviamo alla favola della volpe e dell'uva: quando qualcuno trova che gli costa troppa fatica ottenere qualcosa, spesso e volentieri dice che, tutto sommato, la cosa non gli interessa poi granché. Rinunciare a qualcosa, nella maggior parte dei casi, è molto semplice; volere qualcosa, spesso è invece molto faticoso. O, come ha detto uno dei miei amici: naturale che il sesso sia e sia sempre stato peccato, perché per ciò che è proibito non occorre faticare.


Un altro aspetto del problema è, però, che la sessualità rappresenta sempre la parte più sostanziale e vitale, quella più carica di energie nella natura dell'individuo; mira sempre al tutto. Ma queste cose a casa nostra non ci stavano bene. Il sostanziale era una cosa odiatissima; noi non volevamo mai arrivare al nocciolo delle cose, ma piuttosto trovare invece che tutto era "difficile". Non volevamo mai essere noi a fare qualcosa; preferivamo sorridere di quello che facevano gli altri. Non volevamo misurare le nostre forze, ma volevamo l'armonia e perciò dovevamo neutralizzare tutte le divergenze, dissolvendole in una sorta di roseo nulla che ritenevamo parente della felicità. Ma soprattutto ciò che non volevamo erano le cose per intero. Il "tutto" erano sempre gli altri; noi eravamo extra. Ma c'era di più a disturbarci: il sesso è sempre legato alla vergogna del corpo, quel corpo che gli altri, quelli non elevati come noi, trovavano tutt'altro che vergognoso, anzi, desiderabile; noi no, naturalmente. Non si può fare a meno di riconoscere che la sessualità è in effetti qualcosa che necessariamente mette a nudo, in tutti i sensi. E questo non lo volevamo proprio, a nessun costo. Il nostro motto era: tutto, ma non scoprirci!


Sarei quasi tentato di confrontarci con dei paguri, detti anche "eremiti". Il paguro davanti è ben protetto dalla sua robusta corazza, è solido e forte, ma dietro è nudo. Per questo deve nascondere questa sua vulnerabile parte posteriore in vuoti gusci di lumaca, dai quali sbuca fuori soltanto la solida parte anteriore. Ma quando cresce, la dimora che si è così fatta, gli si fa stretta, e deve per forza uscire fuori a cercarsene un'altra più grande. Quali tormenti deve provare un povero paguro quando è costretto a esporsi in tutta la sua nudità posteriore ai suoi nemici, mentre si butta fuori alla ricerca di un nuovo guscio! Quanto deve essere angoscioso per lui quel lasso di tempo dopo l'abbandono della vecchia dimora protettrice ch'esso lascia per sempre senza sapere dove potrà trovare un nuovo rifugio adeguato alle sue nuove proporzioni! Penso che anche noi eravamo dei paguri.


Davanti eravamo ben protetti dalla tradizione, ma dietro la nudità ci minacciava. Solo che noi, come paguri, non eravamo molto coraggiosi e preferivamo starcene a soffrire al ristretto, nel guscio troppo piccolo. La parte superiore del corpo non era fonte di problemi, la parte inferiore però doveva piuttosto atrofizzarsi nelle malsane angustie di un guscio troppo piccolo, che cercare salvezza esponendo la propria nudità al pericolo degli sguardi altrui. Si capisce bene perché il paguro è chiamato anche "eremita": non spogliarsi è asociale.


Oppure, tanto per dirla con le parole che qualunque bambino educato in modo borghese conosce: del sesso non si parla. Nella matematica della frustrazione il quesito si pone in questi termini: "della sessualità non si parla, ergo non esiste" è uguale a: "la sessualità non esiste, quindi non se ne parla". In casa nostra quindi era come in tutte le altre famiglie della stessa categoria: della sessualità non si parlava, il termine era stato cancellato dal nostro vocabolario.


Con ciò posso passare subito a un altro bell'argomento, l'ahimè di ogni educazione, la cui definizione è già da sola un orrore: l'educazione sessuale. Come mai sia possibile spiegare ai bambini il mondo intero senza che il loro animo ne riceva danno, mentre quando si deve parlar loro del concepimento e della nascita ci vuole tutta una "educazione" che costa enormi sforzi e lascia una tremenda paura che le povere creature restino seriamente ferite nello spirito, è per me un mistero che non sono ancora stato in grado di spiegare. Da bambino sapevo che i comunisti sono cattivi, e che gli anticomunisti sono buoni, ero versato in cavilli teologici come ad esempio che la religione e la sua chiesa erano buone, ma che Dio invece non lo era.


Ma che cosa fossero un uomo e una donna, questo non lo sapevo, appunto perché non ero stato "educato". Nella scoperta del mondo del sesso, fui abbandonato a me stesso e maturai infatti dei bellissimi risultati. Sapevo che i bambini venivano al mondo perché un uomo e una donna erano "stati insieme", e sapevo che i bambini nascono "dalla mamma". Mi immaginavo che l'uomo e la donna avessero una traspirazione rispettivamente maschile e femminile, e che quando un uomo tocca una donna, il suo sudore filtra nella pelle della donna e di qui nel corpo, dove poi nasce il bambino. Ma siccome poi questo bambino deve anche "venir fuori", e siccome avevo sentito dire che "l'ombelico è il centro del mondo", mi pareva logico che i neonati uscissero dal corpo della madre appunto dall'apertura dell'ombelico. Più tardi seppi anche che esistevano i bambini "illegittimi", dei quali si diceva che "era successo". Ciò, ovviamente, significava soltanto che l'uomo sbadatamente aveva toccato una donna probabilmente proprio mentre era molto sudato così che, malgrado tutti "i riguardi", un po' del sudore dell'uomo doveva essere filtrato nel corpo della donna - magari dal polso - così che poi "era successo".


Queste convinzioni rimasero però il mio segreto, perché sapevo che non era bello parlare di queste cose. Una volta, nel corso di una lettura, avevo incontrato la parola "casto" e non ero riuscito a spiegarmene il significato. Quando lo chiesi a mia madre, la poveretta si trovò in un tremendo imbarazzo. Io non capivo bene se era perché non lo sapeva o perché non lo voleva dire. Mi era chiaro soltanto che le era estremamente sgradito trovarsi coinvolta nella situazione che io avevo creato con quella domanda, cioè dovermi spiegare che cosa voleva dire "casto". Era una cosa molto, molto cattiva, che sarebbe stato assai meglio non nominare, uno di quegli argomenti che non si dovrebbero mai affrontare e che poi tutti tirano un gran sospiro di sollievo quando si lasciano cadere. Purtroppo fui io a salvare la penosa situazione con la mia innocenza, avanzando io stesso una proposta di spiegazione.


Nel contesto nel quale avevo trovato la parola incriminata, essa doveva avere qualcosa a che vedere con "onesto", "perbene", e confidai a mia madre questa mia supposizione. In quel medesimo istante l'espressione di opprimente disagio sparì dal suo volto e, sollevata, mi disse, sì, sì, è proprio questo, e così l'elemento di disturbo fu eliminato. Più tardi, quando seppi che cosa significava "casto", mi fu anche chiaro che non era un argomento di conversazione. Faceva parte delle cose "difficili".


Evidentemente la sessualità non era armonica, ma apparteneva alla categoria delle cose di cui non si parla, che quindi dovevano essere escluse dal piccolo orizzonte della nostra familiare armonia. Così imparai a vedere tutto ciò che era sessuale come qualcosa di ostile, una cosa cattiva di cui, ovviamente, finii con l'avere anche paura.


Naturalmente arrossivo in maniera vistosa quando un discorso si avviava su argomenti sessuali e anche di questo avevo paura, perché mi vergognavo da morire del mio rossore. Quando poi scoprii realmente il mistero del concepimento e le mie fumose fantasie del polso madido si dissolsero, trovai l'atto del concepimento una cosa veramente terribile e ripugnante ed ebbi l'impressione che non sarei mai stato veramente capace di una cosa tanto orribile. Anche quando ebbi superato le iniziali paure, mi restò sempre un senso sproporzionato di vergogna e persino negli ultimi anni del liceo continuai a soffrire le pene dell'inferno per il mio involontario rossore, quando, ad esempio, mi trovavo a essere l'unico, durante la lezione, che arrossiva per dire cose di cui tutti i miei compagni parlavano con la massima disinvoltura.


La scuola era anche la sede in cui, se pure con grave ritardo, doveva svolgersi quella sporca faccenda dell'educazione sessuale (come i miei - e non soltanto i miei - genitori avevano tanto ardentemente sperato, per non doversi trovare loro nella sgradevole necessità di farlo). Si trattò in particolare di una lezione di carattere medico che aveva per scopo di spaventare, e di conseguenza tener lontani, i ragazzi ormai adolescenti dai pericoli del rapporto sessuale. Il medico scolastico aveva proiettato sul muro una quantità di schemi e di disegni degli organi genitali e poi, da ultimo, a coronamento del tutto, una enorme riproduzione a colori (con una coloritura orrenda) degli organi genitali femminili e con voce concitata ci disse: "Sicuro, ragazzi, tanto orribile è in realtà la femmina; certamente nessuno di voi ci vorrebbe entrare, nevvero?". A questo seguirono fotografie di sifilitici nei diversi stadi di degenerazione. Questo dunque doveva essere il risultato dell'amore. Come conclusione il medico venne poi ancora a parlare di un particolare. In America, così rivelavano certe statistiche, pareva ci fosse un notevole numero di ragazzi che si soddisfacevano con l'autoerotismo; la cosa era da considerare come una semplice curiosità, dato che, sempre stando alle statistiche, la percentuale dei ragazzi che si masturbavano pareva assolutamente minima, per cui non si poteva in realtà parlare di un problema significativo (e dopotutto accadeva sempre solo in America). E con ciò noi eravamo "educati".


La lezione non aveva mutato di molto la mia visuale del mondo, bensì solo confermato la vecchia convinzione che la sessualità non era cosa buona, ma cattiva. Naturalmente in questo contesto di solito non vengono usate le espressioni "buono" e "cattivo". Oggi nessuno osa più presentare la sessualità come la quintessenza del male, come facevano i monaci del medioevo. Al contrario, ci si tiene a fare gli "illuminati" e si concede volentieri che la sessualità è "persino molto importante", gioca un "ruolo enorme", che senza di essa le cose non vanno, che è persino "di vitale necessità per la conservazione della specie"; insomma, per farla breve, si ammette che "anche questo aspetto della vita esiste", che ci si è quindi allontanati dall'antiquata concezione che la sessualità sia il demonio in persona.


Nessuno però dichiarerebbe pubblicamente che è la cosa migliore che ci sia al mondo.


Lo slogan degli hippies "Make love, not war" suona ancor oggi osceno alle orecchie dei buoni inglesi. Nessuno, cioè, nega che la guerra sia un male anche se - purtroppo - necessario. Perché poi così assolutamente necessario, questo di solito non lo si sa spiegare.


Altrettanto poco si ama dire apertamente che l'amore è una cosa cattiva. Ma arrivare a dire francamente che l'amore non solo è una bella cosa, ma è persino meglio della guerra no, questa è una verità che la nostra società borghese non è ancora in grado di affrontare; continua tuttora a suonare quasi oscena. Dopotutto non si fa l'amante, si fa il soldato! E tanto più quando si è svizzeri! Come esempio tipico di questo atteggiamento si può citare il cinema: i film di sesso vengono ancor oggi vietati o sottoposti a tagli e a censure; ma un film di guerra, di assassinii e di violenze non ha da temere alcuna censura.


Va da sé che i miei genitori, anche in questo campo, non erano certo dei rivoluzionari e anche qui facevano propria l'opinione corrente.


Sicuramente l'educazione sessuale che ho ricevuto - o meglio non ricevuto - dai miei genitori non rappresenta affatto una eccezione negli ambienti borghesi. Che i miei genitori dovessero essere assolutamente d'accordo con i generali tabù sessuali appare chiaro, perché un tabù è appunto una cosa di cui non si parla e proprio il non parlare delle cose era ciò che loro amavano fare. Qui però vorrei suddividere l'atteggiamento che i miei genitori assunsero nei confronti miei e di mio fratello sul problema della sessualità in due tempi diversi: nel primo il sesso non esisteva, nel secondo era una cosa ridicola. Cioè: fino a che eravamo stati bambini essi si erano sottratti all'idea di parlarcene e così il tema non era mai stato neppure lontanamente sfiorato; ma non appena fummo nell'età in cui potevano sperare che qualcuno si fosse assunto l'ingrato compito che loro avevano rifiutato, subito la questione fu catalogata fra quelle cose che "gli altri" facevano, quegli altri di cui noi sorridevamo leggermente divertiti e trovavamo sempre un po' ridicoli. Non posso affermare che la soluzione fosse molto felice, per me, in ogni caso, fu decisamente infelice. Dapprima ero stato un bambino che della sessualità non doveva assolutamente saper nulla; e non appena si poté supporre che ne sapessi qualcosa, immediatamente avrei dovuto essere "al di là" della faccenda, fare praticamente la parte di un vecchio che ormai da un pezzo di queste cose non ne vuol più sapere.


D'improvviso, la sessualità non era più tanto male, ma invece ridicola, appunto, e noiosa. Mio padre si stupiva spesso che la gente potesse provare tanto interesse per film o riviste erotiche, dal momento che la sessualità era una cosa tanto noiosa. Non gli sarebbe mai venuto in mente di vietare quella letteratura o quei film, visto che non riusciva a capire che qualcuno se ne potesse veramente interessare. Cioè, le persone che si interessavano di queste cose c'erano, certo; ma erano gli altri, appunto. Gli altri facevano comunque ogni sorta di sciocchezze, non c'era quindi da stupirsi che, oltre a tutto il resto, fossero anche sessuali.


Continuo a scrivere noi, noi facevamo, noi non facevamo. Il plurale significa che io seguivo i miei genitori e il loro esempio in tutto e per tutto, esattamente come mi era stato insegnato di fare. In linea di massima, mi pareva, avevano ragione. Su singole cose poteva capitarmi di essere, qualche rara volta, di opinione diversa, ma mettere realmente in dubbio il loro pensiero, il loro modo di agire, questo non lo avrei fatto mai. Nell'atmosfera della mia casa paterna mi sentivo protetto e in linea di principio ero d'accordo con le idee dei miei genitori, perché ero come loro. Con loro non avevo quindi problemi, al contrario un legame armonico. D'altro canto, il fatto di comportarmi da ragazzo modello, cercando di non offendere in nulla la volontà dei miei genitori, era soltanto l'espressione della generale correttezza che regnava in casa nostra. Il comportamento più corretto possibile in tutte le situazioni della vita, anche quando la correttezza diventava eccessiva, ci appariva come la massima protezione. Ma protezione contro che cosa? - si potrebbe domandare.


Non lo avremmo certo saputo esprimere a parole, ma oggi credo che ciò che ci occorreva era una protezione contro il mondo intero. Non un'ombra doveva gravare su di noi; in ogni cosa dovevamo essere puri e senza macchia. L'impeccabilità ci appariva come la via migliore, o forse la via d'uscita, per passare il più possibile indenni attraverso i meccanismi tutt'altro che impeccabili di questo mondo. Il proverbio dice: chi va al mulino si infarina; di noi si sarebbe potuto dire che per non infarinarci evitavamo persino di metter fuori il naso. Così, anch'io ero sempre estremamente corretto e puro in tutti i sensi. In me ciò si rivelava anche in un particolare: avevo una passione assolutamente esagerata per la pulizia. Come tenevo a essere supercorretto, anche esteriormente ero sempre lindo e perfettamente in ordine. Non avrei potuto sopportare un granello di polvere addosso, o un capello fuori posto.


Così rimasi puro, non mi sporcai mai, non toccai nulla e non ebbi mai contatto con nulla e nessuno. Non avevo amici e non avevo vicende amorose. Non sarei mai stato capace di avere contatti con una ragazza; ma, allo stesso modo, ero incapace anche di parlare delle mie difficoltà di contatto. A ciò si aggiungeva un ulteriore problema. Da una certa età in poi si ritiene naturale che un giovanotto abbia un'amica, così, spesso gli altri mi chiedevano, con la massima benevolenza, se anch'io avevo un'amica. Sapendo che la domanda esigeva una risposta affermativa, altrimenti ci si rendeva ridicoli, su questo argomento mentivo sempre con grande ostinazione; per mettermi al riparo da eventuali domande trabocchetto, in queste occasioni pensavo sempre a qualche ragazza con cui ero stato un paio di volte a teatro (ma che naturalmente non era la mia amica), per avere a portata di mano dei dati precisi in caso di ulteriori domande su questa amica immaginaria, onde evitare eventuali incertezze o tentennamenti che potessero smascherare le mie bugie. In tal modo, a mio modo, mi comportavo correttamente, in quanto davo a chi mi interrogava esattamente il tipo di risposta che voleva avere.


La mia timidezza di fronte alle ragazze era però solo l'aspetto più macroscopico della mia generale timidezza di fronte alla gente.


C'erano altre persone alle quali non ero capace di rivolgere la parola, e riuscivo a vincermi soltanto quando era assolutamente indispensabile. A qualcuno che non conoscevo, o conoscevo solo superficialmente, preferivo non dire nulla; spesso, anche se bruciavo dalla voglia di rivolgere la parola a una persona (anche soltanto per dire la cosa più insignificante del mondo), la timidezza me lo impediva e preferivo tacere.


Questa timidezza affiorava già quando si trattava soltanto di salutare. La famiglia di mia madre viveva a K. da non so quante generazioni, così che tutti in paese conoscevano la mia famiglia e ovviamente anche me. Per la strada tutta questa gente mi salutava, perché sapeva chi ero. Per me invece erano degli sconosciuti, di cui soltanto sapevo che avrei dovuto sapere il nome. Come è naturale, i miei genitori mi avevano severamente ammonito a salutare tutte queste persone chiamandole per nome, come vuole la buona educazione, e io sostenevo una continua lotta con questi nomi che regolarmente dimenticavo o scambiavo, così che non sapevo mai esattamente quale di questi innumerevoli signori che dovevo assolutamente salutare era il signor Müller o il signor Maier. La coscienza dell'obbligo di sapere quei nomi, non solo, ma di sapere anche chi era in effetti il signore in questione (dal momento che lui sapeva chi ero io), non faceva che rafforzare il mio disagio di fronte al supposto signor Maier di cui, per colmo di vergogna, neppure ricordavo se era quel "simpaticissimo signore della casa all'angolo" o quel "carissimo mastro falegname della strada in riva al lago". Spesso la mia confusione era tale che anche quando ero sicuro che un tizio si chiamava veramente Müller, cominciavo a dubitare che potesse eventualmente chiamarsi in altro modo, e alla fine riuscivo sì a salutarlo con il nome giusto, ma passando le pene dell'inferno al pensiero di poter pronunciare un nome sbagliato. Spesso poi inghiottivo i nomi e li pasticciavo in un informe ammasso di suoni senza senso, e qualche volta lo tralasciavo del tutto, per paura di un possibile errore, anche quando in realtà lo sapevo.


Mi dicevo sempre che la gente doveva pensare chissà quanto male di me, se non ero neppure in grado di ricordarne il nome mentre loro invece sapevano sempre benissimo il mio. Quanto immotivate fossero le mie paure mi fu chiaro solo molti anni più tardi, quando fui insegnante.


E' ovvio che tutti i venti scolari di una classe fin dalla prima ora di lezione conoscono perfettamente il nome del loro insegnante, e che l'insegnante non può fin dalla prima ora di lezione sapere a memoria i nomi di tutti i suoi venti alunni. Altrettanto chiaro mi appare oggi che chiunque in paese da innumerevoli anni conosceva mia nonna e mia madre dovesse ovviamente sapere chi era il figlio o il nipote di queste signore, mentre per me era infinitamente più difficile sapere il nome di tutte le persone che conoscevano la mia famiglia. Allora, però, non ero ancora arrivato a capire questo semplice fatto, e così mi ero abituato a salutare tutte le persone che incontravo, specialmente le più anziane, con artificiosa cordialità, sempre temendo che fossero magari amici di mia nonna e che si sarebbero offesi a morte se fossi passato senza salutarli. Come si vede, in questo rito dei saluti non si trattava mai di un reale contatto umano, ma soltanto della correttezza delle maniere. Una volta che il nemico era stato debitamente salutato, il pericolo era scongiurato e l'altro non poteva più pensare di me nulla di male. Il mio contatto con la cittadinanza di K. si limitava quindi a una tormentosa costrizione al saluto; di aver poi qualche volta anche parlato con qualcuno, non riesco a ricordarmi.


E' evidente che l'amica immaginaria doveva rimanere un puro ideale; nella mia situazione come avrei potuto arrivare a rivolgere la parola a una ragazza o addirittura chiederle se voleva essere mia amica?


Dell'amica, naturalmente, non sentivo la mancanza, perché mi consideravo ancora fra gli scolari "più piccoli". Del resto non era il casuale incontro con una compagna del corso di ballo, di cui ho già parlato, che mi mancava, ma molto di più. Dietro l'immagine di quell'amica immaginaria si nascondeva, anche se non me ne rendevo ancora chiaramente conto, l'immagine della donna, della sessualità, dell'amore, della vita, insomma. (Non voglio qui abbandonarmi alla disquisizione se si debba dire amore o sessualità; come già si espresse Freud, quando disse che se qualcuno era urtato dal sentirgli usare sempre il termine "sessualità", lui in tal caso avrebbe usato il termine "amore", voglio usare i due concetti in modo che si equivalgano e la differenza fra i due vocaboli rimanga puramente linguistica.) Ma la sessualità non faceva parte del mio mondo, perché la sessualità è `espressione della vita; io invece ero cresciuto in una casa dove la vita non era ben vista e a casa nostra si preferiva essere più corretti che vivi. Tutta la vita invece è sessualità, si manifesta in amore, desiderio, in incontro e scontro con l'altro.


L'intero processo della vita si può paragonare all'atto sessuale: tutto nella vita preme ininterrottamente per l'unione, tende a congiungersi, a permearsi, e ogni separazione, ogni allontanamento, ogni distacco è sempre la morte. Chi si unisce vive, chi si stacca o si tiene lontano muore. Ma questo era appunto il motto che regnava sulla mia casa paterna: "tieni lontano e muori!". La logica di questa enunciazione, di questo comandamento deve per forza convincere, perché nulla può dar meno nell'occhio per scorrettezza quanto qualcosa di morto.


Si potrebbe anche dire così: io ero troppo corretto, per essere capace di amore; io non ero neppure veramente io, ero solo corretto; infatti, in quel mondo delle formule e della cortesia, ovunque il mio vero io avesse voluto farsi sentire, subito si sarebbe distinto come elemento di disturbo. La mia unica funzione era di mantenermi in armonico accordo con quello che credevo essere il mondo. Non esistevo come individuo chiaramente delimitato rispetto al mondo circostante. Di questo mondo circostante ero solo una particella educata alla conformità. Non ero neppure un membro utile della società umana, ma semplicemente un manichino di belle maniere.


Le mie romantiche fantasie dell'amore si limitavano alle scene di amore a prima vista che si vedono, per esempio, al cinema. Immaginavo che anch'io (quando un giorno, in un imprecisato momento della vita, fossi stato abbastanza "grande") avrei conosciuto una ragazza, al primo sguardo avrei saputo che era l'unica giusta (e naturalmente anche lei avrebbe provato nello stesso istante l'identica sensazione).


In tal modo ogni fastidioso sforzo per cercare questa donna ideale veniva automaticamente a cadere; con lei e per lei non ci sarebbero stati problemi e fin dal primo istante mi sarei trovato con lei in perfetta armonia. Non avrei dovuto salutarla o rivolgerle la parola o arrossire o fare uno sforzo per vincermi e domandarle se voleva essere la mia amica; fin dal principio tutto sarebbe stato perfettamente chiaro, armonico e senza problemi. Anche lei sarebbe stata una creatura devitalizzata e noiosa come me e esattamente come me avrebbe dato qualunque cosa perché nessuno di noi due venisse ferito dall'altro, anzi, neppure sfiorato. Povera donna.


Certamente non ero l'unico a nutrire fantasie del genere, ma che proprio io nutrissi di preferenza fantasie di questo genere è naturale, data l'immagine del mondo ideale che disgraziatamente era la mia. La donna che mi figuravo non era altro che un ulteriore accessorio del mio mondo infantile. Personalità non ne aveva, e neppure avrei potuto desiderarlo, dal momento che io stesso non ne avevo. Così mi figuravo l'amore e mi figuravo che fosse "qualcosa di bello"; ma inconsciamente, nel mio intimo, temevo e odiavo l'amore, perché era fatto di tutto ciò che necessariamente non mi poteva piacere, che mi era ostile.


Tutte queste riflessioni non si intonavano male al generale tenore della mia vita di studente liceale. Andavo, è vero, a scuola a Zurigo, trascorrevo quindi gran parte della mia giornata fuori di casa, ma nel mio intimo, a scuola non avevo ancora imparato niente. Ero soprattutto sul piano interiore - sempre e ancora completamente a casa. Frequentavo le lezioni e poi prendevo il treno e tornavo a K., alla mia casa paterna, dove mi sentivo a mio agio, dove sapevo di avere le mie radici. Era quello il mondo al quale appartenevo.


Imparavo, è vero, il latino e la matematica e le lingue straniere, ma questi studi non allargavano il mio orizzonte; erano semplicemente dei doveri da assolvere, perché evidentemente era così che si doveva fare.


Era corretto sottoporsi a questi doveri, perciò lo facevo. Inoltre mio padre voleva che lo facessi, sapevo che su questo punto non avrebbe tollerato alcuna ribellione. Del resto mi riusciva facile accettare la volontà di mio padre, dal momento che non ne avevo una mia. Il liceo spesso mi pesava, ma non feci mai nulla per sfuggirvi, perché non riuscivo a immaginare che cosa avrei fatto se non fossi più andato al liceo.


Ero quindi uno scolaro piuttosto bravo ma anche abbastanza privo di interessi, avevo maniere perfette e a scuola non diedi mai motivo di biasimo o di malumori, soltanto a ginnastica ero un disastro quasi inimmaginabile. I miei compagni non mi detestavano e non mi tormentavano, ma non avevo amici. Frequentai parecchi corsi di ballo per imparare a comportarmi con le donne, ma non riuscii mai a imparare a ballare e tanto meno a comportarmi con le donne. Ero intelligente, ma non sapevo niente. Esteriormente ero di una quasi ripugnante normalità, ma ero tutto meno che un adolescente sano e normale.


Pubblicamente ero stato etichettato come uno che viveva nella "elevatezza", ma intimamente intuivo di essere rimasto indietro, molto indietro e sapevo che in realtà avrei dovuto considerarmi un ragazzino delle classi inferiori. Non avevo assolutamente problemi e intuivo che era meglio così, perché se ne a vessi avuti non avrei comunque saputo affrontarli. In breve, rispondevo già a tutte le premesse per diventare un individuo molto infelice.


Detto, fatto. Mi ammalai. Allora non sapevo ancora che si trattava di una malattia e non ne conoscevo ancora il nome. E' una delle malattie più popolari del nostro tempo: si chiama depressione. Oggi, a occhio e croce, direi che deve essere cominciata quando avevo diciassette o diciotto anni. Da allora non mi ha più abbandonato. Oggi ho trentadue anni, e se voglio darmi la briga di calcolare la durata del mio male, arrivo a una somma di quindici anni. Non voglio dire che per tutti questi quindici anni la sofferenza sia stata sempre della stessa intensità. Talvolta si intensificava, talvolta invece pareva allentarsi. Ci furono momenti in cui la sofferenza si ritirò tanto sullo sfondo, che potei quasi muovermi come una persona normale; una o due volte il male si era allontanato tanto che cominciai a sperare di riuscire a superarlo. Ma a parte questi alti e bassi, devo constatare che in tutti questi anni la depressione mi ha accompagnato ininterrottamente. Non voglio dare qui una nuova descrizione del fenomeno, perché è stato tante volte ampiamente e sufficientemente descritto e tutti sanno che cos'è la depressione. Tutto è grigio e freddo e vuoto. Niente riesce a rendere felici e tutto ciò che è sofferenza viene vissuto con un eccesso di sofferenza. Non si ha più alcuna speranza e non si vede più al di là del momento presente, dell'infelicità, dell'assurdità del presente. Tutte le cosiddette cose liete non allietano per nulla; in compagnia si è più soli che altrove; le cose allegre lasciano indifferenti, le vacanze non portano alcun mutamento, ma, al contrario, sono ancora più difficili da sopportare dei periodi di lavoro; tutti i progetti che si fanno per cercare di uscire dalla depressione si lasciano poi nuovamente cadere "perché tanto non serve a niente". Le due qualità precipue della depressione sono la totale mancanza di speranza e la solitudine.


La depressione si impossessò di me circa un anno prima della conclusione del liceo. Le due prime punte massime le conobbi durante le ultime vacanze scolastiche, che trascorsi in Inghilterra, e all'epoca della maturità. Durante le vacanze avrei dovuto divertirmi e non ci riuscivo e per la prima volta avvertii il dolore di sentirmi liberato, una volta tanto, da tutte le seccature della vita quotidiana (nel mio caso della scuola), e disponibile a godere del tempo libero con tutto ciò che in esso mi aspettava, e di ritrovarmi ancor più triste e tormentato di quando ero a scuola. Il secondo momento in cui vidi il fondo fu all'esame di maturità, quando tutti festeggiavano la conclusione dei miei studi e si ritenevano in dovere di considerarmi ormai un adulto, mentre io mi dovevo dire che a scuola, all'infuori dei vocaboli e delle formule, non avevo imparato nulla di nulla e mi sentivo altrettanto infantile quanto sette anni prima, quando ero entrato in quella scuola per la prima volta.


 


 


 


 


5.


Il mondo mi stava davanti grigio e ostile e ora dovevo anche affrontare l'allegra vita goliardica. Che sarei andato all'università era stabilito da sempre e non fu mai messo in discussione. Iniziare una facoltà era, del resto, anche la cosa che preferivo perché non avevo idea del genere di professione che avrei potuto scegliere; andando all'università potevo almeno rimandare di qualche anno il fastidioso interrogativo sulla scelta professionale. Essendo piuttosto dotato per le lingue era naturale che mi dedicassi a studi linguistici. Nell'ambito della facoltà di lingue avrei poi fatto la mia scelta; in realtà la scelta non la feci io. Dal momento che gli unici due miei compagni di liceo che si erano pure decisi per le lingue avevano scelto germanistica, in mancanza di un'idea migliore seguii il loro esempio e optai anch'io per la germanistica. In questo modo, poiché non avevo alternative valide e non mi venne in mente niente di più originale che seguire l'esempio dei miei compagni, divenni studente della facoltà di lingue.


Ero uno studente molto elegante. Portavo sempre calzoni neri, camicia bianca, una giacca blu scuro e cravatta nera. L'insieme era molto distinto e faceva l'effetto di un'elegante uniforme. Ma io sapevo che questo modo di vestire, che era un pugno in un occhio addosso a un ragazzo della mia età, non era altro che l'espressione esteriore della mia depressione, che mi spingeva a mostrare anche all'esterno i colori del mio lutto.


Naturalmente non ero neppure uno studente rivoluzionario. Ero in grado di ridere di cuore della "cattiva" sinistra e delle sue tesi stravaganti, perché l'idea che avrei potuto avere anch'io la libertà di fare una scelta politica e, dopo aver analizzato il problema, avrei potuto magari anche unirmi alla sinistra, non mi venne mai.


Naturalmente non avevo fatto alcuna scelta politica in generale, ma mi ero automaticamente allineato con i "buoni", che in questo caso erano, appunto, la destra. Naturalmente non avevo esaminato e rifiutato gli argomenti della sinistra, ma, al contrario, sapevo già in anticipo che quelli di sinistra erano individui ridicoli, che si sbagliavano comunque nelle loro vedute. Per me, che le sinistre non potessero aver ragione era un punto fermo, e quindi, se volevo essere dalla parte del giusto, dovevo mettermi dalla parte delle destre. Questa presupposta decisione, che in realtà non era altro che la mancanza di una decisione, fece molto contenti i miei genitori che, una volta di più, poterono constatare che il loro figliolo era "ragionevole", aveva "buon senso" e aveva scelto la giusta via.


C'era in questo un evidente parallelo con i miei rapporti con le donne nel periodo dell'università: nella mia vita studentesca non c'erano scandali, amorazzi, relazioni peccaminose o figli illegittimi. Anche questo naturalmente era lodevole. Non avevo problemi con le donne, anche in questo ero un bravo studente che non dava pensieri e risparmiavo ai miei genitori ansie e preoccupazioni; non avevo vicende amorose che non sarebbero state adatte al nostro armonico mondo. In altre parole: ancora una volta tutto andava per il meglio.

Naturalmente non andava affatto per il meglio. Ero depresso e mi trovavo in un sempre crescente conflitto fra la mia vita interiore e il mondo esterno. Sembrava che non avessi assolutamente problemi e trovavo invece sempre più difficile inserire in maniera convincente nel mio mondo questa apparente assenza di problemi. Volevo presentarmi anche a me stesso come il tipo senza problemi e facevo uso di tutte le possibili manovre d'inganno per apparire anche a me stesso come questa figura ideale. Uno dei miei principali punti d'appoggio, tuttavia, mi era, ahimè, venuto a mancare. Durante gli anni del liceo ero sempre riuscito a coltivare la mia IMMAGINE mettendomi nel ruolo dell'originale con interessi intellettuali; tutti gli altri giocavano al calcio, solo io leggevo i classici. Quella era stata un'originalità chiaramente legata alla "elevatezza". Ma all'università anche gli altri si occupavano tutti di letteratura, e al calcio gli studenti universitari giocavano soltanto nelle ore libere. Questo aspetto apparentemente positivo veniva dunque a mancare e io ero, molto più che negli ultimi anni di liceo, semplicemente uno fra tanti ragazzi tutti uguali, senza un motivo al mondo perché gli mancasse ciò che avrebbe dovuto trovare forma concreta nella persona di un'amica. Il concetto "amica", naturalmente, all'università aveva acquistato anche tutt'altra dimensione. Gli studenti, alla cui schiera d'improvviso anch'io appartenevo, con le loro amiche non andavano più soltanto al cinema, e queste amiche adesso si chiamavano amanti. Ora io l'età l'avevo, frequentavo l'ambiente giusto, non mi mancava la possibilità di avere anch'io una donna. Non c'era più nulla che me lo impedisseall'infuori di me stesso naturalmente. Succedeva ora la stessa cosa che già si era verificata un'altra volta. Come i miei genitori si erano aspettati da me per lungo tempo che restassi un bambino all'oscuro di tutto, totalmente asessuato e poi, una volta venuto a conoscenza delle cosiddette "cose della vita", dovessi essere immediatamente un uomo informato e "ragionevole", vale a dire ancora asessuato; come prima non dovevo avere ANCORA problemi sessuali, perché non conoscevo l'esistenza della sessualità, e immediatamente dopo non dovevo PIU' avere problemi sessuali, perché avevo già "superato" la sessualità; come la sessualità doveva essere qualcosa che, per principio, non comporta problemi, così all'università, una volta di più, dei tre stadi evolutivi della giovinezza saltai a piè pari quello centrale, il più importante. Al liceo mi ero automaticamente annoverato fra quelli ancora troppo "piccoli" per avere questi problemi, all'università avvenne il contrario. Qui però non c'erano soltanto giovani donne attraenti e focosi giovanotti, ma anche una quantità di zitelle e di scapoli incalliti, gente rinsecchita, strana e senza età che si occupava di qualche stranissima scienza e andava in giro conciata da far pietà, avvolta in trasandatissimi abiti grigi. Anche quelli non avevano un'amante. Se dunque mi volevo inserire in uno schema di vita che avesse una certa validità, dovevo accodarmi appunto a questa schiera di professorali spaventapasseri, tutti certamente infecondi e ricchi solo di cultura accademica. Prima ero stato troppo giovane per essere me stesso; ora ero troppo vecchio. L'unica cosa che non potevo fare era di essere quello che ero, avere l'età che avevo. Una volta di più potevo raccontarmi di essere perfettamente normale, o per lo meno di rientrare nell'ambito di una certa norma, perché all'università c'erano altri studenti come me. Un modo di pensare che si può definire armonico, o per lo meno una ricerca di armonia. Non volevo essere l'unico che falliva, a differenza di tutti gli altri; volevo immaginare che anche altri non fossero diversi da me. In tal caso non ero un fallito, ma un membro rispettabilissimo di un gruppo in cui, appunto, tutti erano come me.

Negli anni di università questo divenne il mio problema fondamentale.

Nel mio intimo sapevo benissimo di essere un uomo mancato, ma non lo volevo ammettere neppure con me stesso. In fondo sapevo anche benissimo che ero mancato perché non avevo una donna, perché la "donna" era appunto il simbolo e il punto dolente di tutto il mio fallimento, ma lo nascondevo anche a me stesso e trovavo un quantità di altre ragioni per essere sempre così depresso.

Esteriormente mi mostravo allegro e disinvolto, ero al di sopra delle cose, non avevo problemi. Stavo benone e non me la prendevo per nulla.

Niente riusciva a farmi arrabbiare e niente ad abbattermi; avevo sempre un sorriso sulle labbra, perché dovevo essere l'immagine dell'individuo che non sa che cos'è la frustrazione. Quanto più in fondo al cuore mi sentivo depresso, tanto più sorridevo all'esterno.

Quanto più nero dentro, tanto più bianco fuori. Il mio io diviso si squarciava sempre di più in due; l'abisso si allargava. La mia eterna commedia diventava sempre più un'abitudine e l'abitudine mi rendeva la maschera tanto familiare, che sempre di più tendevo a confonderla con me stesso. Sì, volevo essere come la mia maschera e perciò amavo credere di essere effettivamente il ruolo che mi ero imposto. Altri compagni di corso - poveretti - provati dalla sofferenza, mi dicevano talvolta quanto ero fortunato a saper conservare sempre il mio buon umore; io me lo sentivo dire con piacere e ci credevo anche. La maschera, cioè, era convincente. La gente credeva che io fossi realmente così, e ci credevo anch'io. Il gioco mi veniva confermato dall'esterno e così potevo permettermi di essere tanto falso che, quando mi capitava di cominciare a dubitare della mia ipocrita serenità, ero capace di dirmi: ho solo l'impressione di essere depresso, tutti dicono di no. Non è possibile che si sbaglino tutti quanti. In questo modo gli altri divennero i miei complici. Quando la maschera minacciava di incrinarsi, di andare in pezzi, potevo sempre richiamarmi agli altri, che ne venivano continuamente ingannati. Credo di aver consumato gran parte delle mie energie a tenere insieme il franante edificio di questo mio io esteriore. Sapevo sempre trovare scappatoie per dimostrare a me stesso che le mie depressioni "non erano altro" che banalità qualsiasi. Quando pioveva e qualcuno diceva: come è deprimente la pioggia, subito io potevo affermare con slancio: naturalmente! E' la pioggia che deprime tanto anche me. Talvolta ero raffreddato, qualche volta avevo dormito troppo o troppo poco, un'altra volta mi ero alzato di cattivo umore e un'altra ancora la colpa era della lezione poco interessante che avevo appena seguito, oppure, avevo mangiato male o mangiato troppo e per questo ero stanco e svogliato. Per farla breve: trovavo sempre una spiegazione per dimostrare a me stesso che, in fondo, "non era niente". Oggi so che il cibo pesante non mi disturba affatto lo stomaco; mi piace mangiare bene, ma se il cibo non è particolarmente buono, la cosa non mi turba granché. Allo stesso modo, non sono affatto meteorosensibile.

Naturalmente preferisco il bel tempo, e per conto mio potrebbe anche non piovere mai; ma anche intere settimane di cattivo tempo non influiscono sul mio stato d'animo. Anzi, in questo senso credo di possedere una natura fortunata. Molta gente si lascia facilmente deprimere dal cattivo tempo; io no. Tutte le mie scuse, tutte le storie "è colpa del tempo" erano bugie, falsi pretesti. La mia depressione era a un livello molto, molto più profondo e tutto il cattivo tempo del mondo non bastava a modificare questa realtà.

Ero effettivamente un mentitore e un ipocrita, ma avevo buone maniere, maniere come in questo emisfero non se ne trovano facilmente; soltanto che queste mie splendide maniere erano anche l'unica arte che avessi imparato. L'educazione dei miei genitori aveva avuto successo.

Se è giusta la definizione che un nevrotico è un individuo che non vive mai nel presente, ma sempre soltanto proiettato nel futuro o ripiegato nel passato, in tal caso, fin dai miei primi anni da studente avevo posto tutte le premesse per diventarlo: da un lato mi guardavo come il "ragazzino" che era appunto restato un po' indietro e non era ancora in grado di giungere alle cose della vita; dall'altro continuavo sempre a sperare in un lontano, indefinito avvenire che mi avrebbe portato tutto ciò che questo presente non era in grado di darmi. Pensavo che qui, a Zurigo, dove pioveva sempre, "non riuscivo ad avere il giusto entusiasmo", ma che in estate, quando fossi stato in Spagna, dove c'è sempre il sole, avrei cominciato a vivere.

All'università ero continuamente in compagnia femminile, e intanto pensavo che, sempre in quelle nebulose, meravigliose vacanze spagnole, avrei sicuramente incontrato la donna ideale. Non ero capace di ammettere che non erano le circostanze la causa del mio fallimento, ma che io ero il fallito.

Ero psichicamente malato e non volevo accettare questa realtà. Perciò continuavo a cercare possibili modelli, convinto che non appena mi fossi riconosciuto in un caso tipico, avrei avuto la certezza di essere anch'io come gli altri e quindi normale. Il ragionamento era sbagliato, naturalmente, perché il tipico è tutt'altro che normale; ci sono anche tipici sintomi patologici. I pazienti di un sanatorio non si trovano in uno stato di salute normale, solo perché hanno tutti la stessa malattia; sono piuttosto malati tutti insieme. Ma io ero alla ricerca di casi simili al mio, che potessero giustificarmi e li trovai anche, e precisamente nella letteratura. Nei libri mi imbattevo sempre in personaggi nei quali potevo identificarmi. Quello che era capitato a una figura letteraria (e con tutta probabilità anche al suo autore) poteva capitare anche a me; così si trovava una regola, si costituiva una norma.

Di tutte le figure, sia personaggi letterari o letterati stessi ai quali capitava di desiderare una donna e non averla, di desiderare di vivere e restare invece in realtà sempre ai margini della vita, quello che mi aveva sempre colpito di più era Tonio Kröger. Già, si può dire che il protagonista di quella cupa novella di Thomas Mann mi avesse accompagnato senza interruzione fin dagli anni del liceo. Anche lui non era solidamente ancorato alla vita ed era sempre depresso; anche lui era sempre occupato nel mondo della "elevatezza" e doveva per questo rinunciare alle "voluttà dell'abituale". Tonio Kröger era appunto un artista, e, come tale, il suo compito non era di vivere la vita, ma di descriverla. Come poeta aveva uno sguardo d'assieme, era al di sopra delle cose; se fosse stato nel cuore della vita, in mezzo a tutti gli altri come un comune mortale, avrebbe dovuto necessariamente perdere quella elevata visione e sarebbe stato defraudato della capacità di descriverla. Fin qui, tutto bene. Molto presto, però, avevo trovato nell'esistenza di questo Tonio Kröger una quantità di cose che mi avevano disturbato. Da un lato, Tonio Kröger doveva essere diverso dai comuni mortali - perché questo era il suo mestiere - d'altro canto però non POTEVA essere come gli altri - e questa era la sua debolezza, la sua carenza esistenziale. Da un lato si poteva dire che era appunto chiamato a essere un artista, ciò che naturalmente lo isolava dalla cerchia dei comuni mortali; dall'altro però non si poteva far tacere il sospetto che fosse in primo luogo incapace di comportarsi come gli altri mortali, così che non gli era rimasta altra scelta che, "nolens volens", diventare un artista, perché più in là non arrivava. Da un lato il signor Mann faceva dire al suo Tonio che l'essere diverso dagli altri lo faceva soffrire, ma che, bene o male, lo doveva accettare come aspetto secondario della sua situazione, dal momento che era nato con un compito più alto; d'altra parte io ero convinto che Tonio Kröger era appunto soltanto un artista e che la sua arte non era qualcosa di meglio, ma qualcosa di meno, di cui il povero Tonio Kröger si doveva contentare. Il fatto principale era appunto il-non-poter-essere-come-gli-altri, l'essere artista veniva poi da sé, come manifestazione secondaria.

Cominciai così ad avere una prima intuizione che forse l'arte poteva essere vista come il sintomo di una carenza di vitalità e cominciai a sospettare (senza che di Sigmund Freud avessi sentito molto più del nome) che per la poesia non ci può essere altra spiegazione: quando si è sufficientemente frustrati, automaticamente si comincia a scrivere versi. La cosa non mi andava affatto bene, perché anch'io intuivo che la mia vitalità lasciava molto a desiderare e anch'io scrivevo. Cioè, non scrivevo versi, ma fin dalla prima infanzia avevo scritto commedie per il teatro delle marionette e anche da studente avevo tentato di scrivere delle novelle. Tutti assicuravano che avevo del talento; anzi, scherzosamente mi avevano già appioppato l'etichetta dell'artista, e in fondo, l'"image" dell'artista mi era sempre piaciuta. In breve, era possibilissimo che io fossi davvero un artista, appunto. Per la prima volta durante i miei anni di università cominciai a vedere lo "status" dell'artista da un punto di vista del tutto diverso: forse l'artista era sempre il "soltanto" artista, il respinto, il reietto, che a dimostrazione della sua inferiorità sciorinava in pubblico persino la sua produzione, in modo che tutti potessero dire: "ahimè, quello dalla vita ci ha cavato troppo poco e così è diventato un artista".

La mia produzione letteraria cominciò per la prima volta a colmarmi di orrore. Non aveva alcuna importanza che le singole cose mi piacessero o no. Indipendentemente dal valore che potevano avere, pareva mi dicessero: io tutto questo l'ho scritto solo perché sono un uomo mancato, un frustrato. Molti di questi lavori, soprattutto alcuni lavori teatrali, per la verità mi piacevano e accettavo che potessero anche avere una giustificazione artistica, letteraria. Ma tutto ciò impallidiva ora davanti all'intuizione che la mia produzione letteraria da ultimo non era che il prodotto della mia frustrazione e la confessione della mia sconfitta. Volevo propormi di non scrivere più nulla piuttosto, e nascondere nel silenzio la mia vergogna.

Ripetutamente presi la decisione di non scrivere più una riga, soffocando tutte le mie fantasie letterarie; ogni volta volevo fare piazza pulita e il più delle volte accompagnavo quella decisione con la distruzione di tutte le mie opere, che di preferenza bruciavo affinché il fuoco purificatore mi ripulisse dall'onta dell'arte. Ma i miei ripetuti tentativi, i numerosi "autodafé" non approdarono mai a nulla, perché la voglia di scrivere non la si poteva bruciare, e il più delle volte subito dopo uno di questi "autodafé" mi veniva l'ispirazione per qualcosa di nuovo che mi sarebbe tanto piaciuto mettere sulla carta. Ben presto cominciai nuovamente a scrivere, e mi misi il cuore in pace, dicendomi che ero spinto a farlo, perché "doveva essere così"; fino a quando il medesimo processo si ripeteva e distruggeva ciò che avevo scritto perché non potevo sopportarne la presenza e tutto finiva nelle fiamme, perché "non poteva essere".

Quanto più i miei lavori mi piacevano, tanto più mi era doloroso distruggerli; ma ad ogni nuovo "autodafé" aveva il sopravvento la certezza che non era la qualità del lavoro che contava, ma il fatto che era un male, era l'espressione e la confessione e il simbolo della mia inferiorità di "soltanto" artista.

Va da sé che d'altro canto la mia "image" di artista mi lusingava e facevo il possibile per rafforzarla; ma l'"image" naturalmente restava sempre la superficie. Come esteriormente ero sempre sereno e contento, così cominciai a darmi anche un po' il tono dell'artista, ben sapendo, peraltro, fin dove potevo andare. Sapevo cioè che c'erano tipi di artisti che affrontavano anche la vita come un'arte e che da bohémiens cercavano e spesso riuscivano a gustarla con molto slancio. Di non essere un artista di questo tipo ero più che dolorosamente sicuro. Per me l'arte non poteva che essere fatta di malinconia, depressione e frustrazione; non poteva essere che lutto e vergogna. L'"air d'artiste" scanzonato che tentavo di darmi faceva parte anch'esso della mia maschera.

In tutta questa problematica dell'artista ci sono soprattutto due punti importanti. In primo luogo nella "elevatezza" che dovrebbe contraddistinguere l'arte potevo continuare a coltivare quella "elevatezza" che era già stata legge nella mia casa paterna: gli altri sono comuni mortali, gli "elevati" sono appunto i preziosissimi singoli esseri che stanno fuori dalla vita. In altre parole: chi è normale è una persona qualunque; un nevrotico è qualcosa di speciale.

Inoltre la mia fatalistica versione dell'arte mi permetteva di restare legato alla posizione che in realtà avrei voluto abbandonare. Così diventava una sorta di destino: tutti gli artisti sono dei nevrotici.

Oggi sono effettivamente convinto che molti artisti sono davvero nevrotici; ma anche i panettieri o i giardinieri molto spesso lo sono e un impiegato di banca o un uomo d'affari raramente sono tipi divertenti. Invece di fare lo sforzo di vedere che un artista può, è vero, essere nevrotico, ma non deve necessariamente esserlo, preferivo lasciarmi travolgere dalla certezza che tutti gli artisti devono fatalmente essere dei nevrotici. Anche questa convinzione era per me la strada del minimo sforzo. Là dove tutto è segnato dal destino e quindi non modificabile, non c'è più neppure bisogno di darsi tanto da fare. La mia concezione dell'artista corrispondeva perfettamente alle altre idee ereditate dalla mia famiglia: il mondo è fatto in un certo modo e non può essere diverso. In un mondo che, appunto, è "fatto in un certo modo" non c'è possibilità di rivolta; la rivoluzione esiste solo là dove il mondo potrebbe anche essere diverso.

Ora voglio però presentare l'ulteriore evoluzione della mia malattia molto schematicamente, più schematicamente di quanto è avvenuto in realtà. Intendo cioè rinunciare alla descrizione dei molti piccoli alti e bassi che si verificarono ripetutamente nel corso di più di dieci anni, per dare invece un quadro dell'evoluzione generale; le molte piccole ricadute nel generale miglioramento, e le molte apparenti guarigioni all'interno del generale disfacimento passeranno quindi sotto silenzio. Allo stesso modo non intendo parlare delle prime due volte in cui, per periodi relativamente lunghi, sono stato in psicoterapia, dal momento che entrambi i tentativi non furono in realtà che semplici punti di partenza per il terzo e ultimo trattamento psicoterapeutico.

A questo proposito voglio soltanto dire che la prima volta furono proprio i miei genitori a mandarmi da uno psichiatra, perché erano preoccupati per il mio stato depressivo e volevano aiutarmi.

Naturalmente anche l'educazione che mi avevano dato era stata tutta intesa solo ad aiutarmi, a darmi il meglio di ogni cosa. Che invece mi avessero trasmesso solo il peggio, loro non lo potevano sapere.

Suppongo, anzi sono sicuro, che prima di prendere contatto con lo psicoterapeuta, si devono essere posti la tradizionale domanda: "ma che cosa abbiamo fatto di sbagliato?". Ovviamente non potevano immaginare che la cosa sbagliata era proprio ciò che a loro appariva come il massimo valore della vita. Dubito molto che siano stati in grado di giungere a supporre che il loro figlio potesse non essere normale. Deve essergli apparso assolutamente inconcepibile che il figlio di genitori così normali potesse non essere normale. Per riconoscere che il figlio di genitori così perfetti non poteva che diventare un anormale, ci sarebbe voluto una grossa dose di senso umoristico, di un senso umoristico quasi cosmico, e un simile cosmico umorismo loro non lo avevano davvero. Oggi penso che mi credessero afflitto da "complessi di inferiorità" e ritenessero che lo psichiatra me ne avrebbe guarito. L'idea che io sotto certi aspetti fossi realmente inferiore, no, questa non la potevano avere, sarebbe stato pretendere troppo. Ciò che i miei genitori intendevano per "complessi", per fantasie morbose o idee fisse, non era la mia negazione del mio valore, ma la mia consapevolezza, più o meno soffocata, di come stavano le cose in realtà. Il dentista non cura la reazione al mal di denti ma il dente malato, dopo di che, automaticamente, il dolore cessa; così lo psichiatra non deve curare i complessi di inferiorità, ma l'inferiorità stessa, perché i complessi cadano automaticamente. La mia depressione corrispondeva al mal di denti, e la funzione di entrambe queste manifestazioni morbose è di indicare la malattia attraverso il sintomo. Ma i miei genitori non avrebbero mai potuto accettare l'idea che il loro amato, intelligente, dotato figliolo fosse malato e, per essere esatti, psichicamente malato. L'idea di avere un figlio anormale non rientrava nella loro immagine del mondo. Anch'io, per la verità, non riuscivo ad accettare l'idea e cercavo di far credere, anche a me stesso, di essere perfettamente normale.

Restai fedele a questa convinzione, tanto che i miei due primi tentativi di psicoterapia non riuscirono ad aiutarmi e oggi guardo a quei tentativi come a episodi perduti fra gli infiniti alti e bassi della storia della mia sofferenza, che non mutarono nulla di essenziale nella mia situazione interiore.

L'essenziale della mia evoluzione di allora la potrei però esprimere così: da un lato stavo meglio, e dall'altro sempre peggio; e quanto più stavo meglio, tanto più il male veniva rimosso nel mio inconscio, così che la depressione si faceva sempre più inspiegabile e immotivata. L'una delle due evoluzioni, cioè lo star meglio, rinvigoriva la mia maschera, le dava sempre nuovi impulsi, così che mi riusciva anche più facile mantenere intatta la mia facciata; l'altra evoluzione, quella verso il male, che correva parallela alla prima, faceva sì che l'abisso fra i due aspetti del mio io diviso, quello vero e quello recitato, diventasse sempre più invalicabile, così che la difficoltà, per me già enorme, a lasciar vedere qualcosa del mio vero io cresceva fino a diventare incommensurabile.

 

 

 

 

6.

I primi anni d'università avevano portato solo un peggioramento. Al liceo avevo ancora potuto, con ogni sorta di pretesti, tenermi lontano dalla vita, e avevo ancora vissuto sotto la diretta protezione della casa paterna. Continuare a vivere in famiglia era stata una mia scelta; a casa non succedeva mai nulla, lì quindi non mi poteva accadere nulla. Ma all'università molte costrizioni caddero. Non dovevo più ubbidire agli insegnanti; in generale trascorrevo le mie giornate a Zurigo, all'università e mangiavo alla mensa. La casa dei miei genitori a K. divenne sempre più il luogo dove dormivo soltanto; la mia vera vita si svolgeva in città. Questa libertà, in sé così piacevole, mi costrinse però anche a constatazioni molto dolorose: di questa libertà non sapevo che farmene. Anche la cosiddetta allegra vita goliardica aveva le sue ombre: in primo luogo mi fece prendere coscienza di quanto poco allegra fosse la vita a casa nostra, e i sabati e le domeniche, che normalmente trascorrevo a K., cominciarono a diventare le giornate più spiacevoli della settimana; in secondo luogo mi resi conto che per il fine-settimana non avevo altra scelta che stare a casa, perché non mi veniva in mente nulla che potesse rappresentare un'alternativa; in terzo luogo dovetti confessare a me stesso che anche la parte più lieta della settimana non era affatto sempre così lieta, e che anche all'università molto spesso mi annoiavo tremendamente e mi sentivo molto solo. In questo senso le ore peggiori della giornata erano sempre quelle del tardo pomeriggio. Quando non ero per caso in compagnia e non sapevo che cosa fare, mi mettevo nell'atrio coperto dell'università, aspettando di incontrare qualcuno e mi trovavo a dover fare una spiacevole scelta: o rompere senza indugi quell'attesa, chiudere la giornata e andarmene a casa, cupo e rattristato, oppure tener duro, sperando che alla fine arrivasse qualcuno a liberarmi dalla solitudine. Molto spesso accadeva che dopo aver aspettato ore intere, arrivava veramente qualcuno - ma soltanto per salutare e andarsene. Questo qualcuno diceva qualche parola: come mai anch'io ero ancora lì, e poi si accomiatava dicendo che doveva andare, perché aveva ancora da fare. A questo punto sono subito evidenti due cose: quello che io aspettavo era sempre "qualcuno", mai una determinata persona. Nel caso di una determinata persona si sarebbe potuto trattare di un appuntamento e non avrei aspettato così a vuoto; oppure avrei dovuto comunque sapere che la persona in questione a quell'ora non sarebbe più passata di lì perché in quel giorno della settimana non aveva lezioni o non era già più all'università e alla sera comunque non aveva mai tempo. Questo immaginario qualcuno, invece, era sempre perfettamente libero e senza impegni come me: anche lui si annoiava proprio alla stessa ora e sarebbe quindi stato contento di trovare alle sette di sera un compagno di sventura nell'università deserta. Il più delle volte questo qualcuno però non si faceva vedere; l'atrio diventava sempre più deserto e silenzioso, fino a che restavo completamente solo e il mio qualcuno era diventato un nessuno. Allora ero proprio solo e dovevo raccogliere tutte le mie forze e arrendermi all'idea che, per quel giorno, non c'era più niente da sperare e avviarmi per ritornare a casa.

Il secondo punto che salta all'occhio in queste sterili attese è che tutti i compagni che passando mi salutavano e se ne andavano, avevano sempre ancora qualcosa da fare. Non si fermavano con me non perché non lo volessero, sebbene anche loro si annoiassero, ma non potevano fermarsi perché, appunto, avevano qualche altra cosa che li aspettava.

Io non avevo alcun programma. Niente mi aspettava. Il mio unico proposito era ritardare il più possibile il ritorno a casa, restando il più a lungo possibile all'università. Mi sentivo avvilito al pensiero che gli altri avessero sempre qualcosa in programma, perché non appena uscivano per seguire i loro programmi, abbandonavano l'ateneo e mi lasciavano solo. La giornata più triste era sempre il venerdì. Molti studenti stavano in città solo per frequentare i corsi, ma vivevano altrove e il fine-settimana tornavano a casa; di solito partivano il venerdì pomeriggio, appena finita l'ultima lezione, così che al venerdì l'università si spopolava in maniera ancora più drastica che negli altri giorni. E io mi sentivo ancora più solo e abbandonato del solito e mi vedevo venire incontro il fine-settimana che non avrebbe avuto nulla da offrirmi. Ho già detto quanto mi deprimeva che gli altri fossero sempre tanto occupati, troppo occupati per passare il tempo in mia compagnia: ma c'era di più. Dovevo ammettere che questi studenti, con tante attività a cui dedicarsi, erano molto più interessanti di me e sapevano tanto di più. Al liceo ero stato "l'ozioso misterioso"; ora, d'improvviso, ero il "povero abbandonato", perché tutti mi salutavano e se ne andavano per le loro occupazioni. In un solo punto il passaggio dal liceo all'università non aveva cambiato nulla: conoscevo moltissima gente, avevo una quantità di compagni, ma nessuno era più di questo. Al liceo, con i miei compagni di classe ero sempre andato d'accordo, ma non mi ero fatto degli amici. All'università, avevo ora molti compagni di corso e moltissimi conoscenti; ma più che conoscenti non erano. Avevamo tutti scelto la stessa facoltà; seguivamo le stesse lezioni e avevamo quindi anche gli stessi problemi di studio, di libri, di esami; io avevo molti contatti con i miei compagni di corso, ma veri amici no. In compenso, c'erano i gruppi. Questi gruppi erano formati di solito da studenti che, per una qualsiasi ragione, avevano l'abitudine di trovarsi fra loro e ai quali automaticamente mi accompagnavo perché facevo parte dello stesso gruppo. Ma in un gruppo non ci dovevano necessariamente essere degli amici. Poteva accadere che i membri dello stesso gruppo diventassero amici, ma non doveva necessariamente essere così. Era piuttosto un collettivo, in cui il singolo poteva muoversi senza peraltro legarsi in modo particolare. E' chiaro che io ero uno di quelli che si muovevano bene nel gruppo senza intrattenere rapporti personali. Il mio legame era con il collettivo, cioè con il gruppo dei romanisti. I romanisti stavano sempre insieme; ed erano appunto loro i qualcuno che usavo aspettare nell'atrio. Ma non erano amici. I romanisti mi piacevano, mi erano simpatici, ma come collettivo. Se oggi penso chi erano allora i romanisti, devo constatare che erano la somma di molti qualcuno, di cui non uno significava per me qualcosa di personale. Quelli che avevo l'abitudine di aspettare erano appunto i qualcuno di un gruppo più vasto. Ciascuno di questi potenziali qualcuno era un "romanista", cioè un semplice rappresentante del collettivo; per me, in definitiva, non aveva alcuna importanza chi era quello che alla fine mi faceva compagnia, perché mi erano tutti simpatici. O meglio: nessuno mi era tanto caro da poter dire di preferirlo a un altro.

Molto più tardi mi colpì che, una volta lasciata l'università, molti dei compagni di corso di allora, ragazzi che durante quegli anni avevo frequentato in pratica quasi quotidianamente, d'improvviso fossero scomparsi dal mio orizzonte; non li vidi più e neppure sentii più il bisogno di vederli. Allora era diventata un'abitudine vederli ogni giorno nel gruppo, stare con loro, chiacchierare, ma nel momento in cui il contatto quotidiano era cessato, non ne avevo sentito la mancanza. Oggi devo confessare che una quantità di persone che potrei definire i miei più stretti compagni di lavoro all'università, mi sono sempre state del tutto indifferenti; erano appunto soltanto dei "romanisti", niente di più. Per contro, molti dei miei attuali veri amici sono realmente stati un tempo miei compagni di studi, solo che in quegli anni ci vedevamo appena, sia perché per ragioni personali essi allora non prendevano parte alla cosiddetta vita goliardica, sia perché appartenevano a un altro gruppo di lavoro e ciò rendeva impossibile più frequenti contatti.

Dopo un paio di semestri di studio avevo abbandonato la germanistica per la filologia romanza. Coi romanisti mi trovavo bene, mi sentivo a casa mia. In un certo senso avevo trovato una nuova famiglia, l'università era ora la mia famiglia. Sotto molti aspetti peraltro una famiglia che non si distingueva molto da quella dei miei genitori; nella mia nuova casa avevo portato quasi tutto di quella precedente.

Sì, all'università mi sentivo a casa mia, ma anche lì non vivevo diversamente da come avevo fatto prima. Era diventata la mia nuova casa, il mio nuovo guscio protettivo, che lasciavo altrettanto malvolentieri di quanto ero stato solito lasciare il guscio protettivo dell'intimità familiare a casa dei miei genitori. Il più delle volte non lasciavo l'università anche materialmente, nel senso più letterale del termine: vi seguivo i miei corsi, leggevo o scrivevo nelle sale del seminario di filologia romanza adibite a questo scopo, e il resto del mio tempo lo trascorrevo più o meno oziosamente nell'atrio di cui ho già parlato, bevendo caffè. Nel mio tempo libero quasi mai uscivo dall'università per andare in città; non sentivo il bisogno di uscire, una volta tanto, da quelle mura, sempre le stesse, al contrario, ci restavo, lavorando o non facendo nulla, il più delle volte senza far nulla. In questi casi l'università non si distingueva in nulla dalla mia casa paterna, dove ora non mi piaceva più restare: mi ci annoiavo, non sapevo che fare, ma mi spaventava l'idea di lasciare quel luogo noioso e di andare fuori, perché "fuori" tutto sarebbe stato ancora molto peggio. Così si può dire che io all'università mi trovassi a casa mia quasi per necessità; in luogo della casa paterna era diventata il mio guscio, un guscio nel quale mi ritiravo per paura e anche per bisogno di protezione, e dove dovevo quindi ritirarmi anche quando nulla più di interessante o di piacevole mi aspettava.

E molto spesso in effetti all'università non c'era davvero nulla che mi aspettasse. Al liceo ero stato per lo meno uno scolaro diligente, perché questo comportamento si era presentato come quello del minimo sforzo; all'università nessuno più si occupava di sapere se studiavo o no, e così diventai molto pigro. A quel tempo udivo spesso ripetere la saggia massima secondo la quale la scuola superiore insegna a lavorare bene, perché poi si possa godere con intelligenza della libertà accademica. Per conto mio, al liceo credo di aver conosciuto solo la costrizione e non il senso dello studio, così ora della tanto decantata libertà accademica in primo luogo non sapevo che fare, la usavo male ed ero semplicemente soddisfatto che nessuno mi spronasse più a studiare. Per il mio far nulla trovai ben presto valide giustificazioni. Si sapeva bene che l'aspetto particolare della vita studentesca era assai meno la regolarità dello studio, quanto piuttosto l'allegro bighellonare, e che era senz'altro un punto a favore poter dire di usare il più possibile di questa opportunità.

Feci quindi del mio vizio una virtù (come del resto fanno tutti, perché, in definitiva, quasi tutte le virtù sono vizi inconfessati o elaborati fino all'eleganza), badando a non perdere nulla della mia allegria fannullona e guardando con disprezzo quegli sciocchi che passavano il loro tempo solo a studiare. Quanto alla presunta testardaggine degli sgobboni, il mio criterio di giudizio era estremamente presuntuoso, tanto che ogni po' di attenzione allo studio che riuscivo a scoprire negli altri mi pareva già un segno di secchioneria. Il più delle volte ero io che proponevo agli altri di interrompere lo studio per andare a bere un caffè; quando l'idea partiva da un altro, non dicevo mai di no ed ero sempre pronto a piantare il lavoro e andare con gli altri a fare una pausa. In questo modo la mia giornata aveva più pause che ore di studio; da un lato, io stesso interrompevo continuamente il ritmo del lavoro, e quando, una volta tanto, avevo un'ora buona in cui nulla giustificava una pausa, per mia fortuna, o sfortuna, c'era sempre un altro che la proponeva, e io non avevo la forza di rifiutare e restarmene a lavorare. Così la mia vita consisteva prevalentemente di pause: delle mie e di quelle degli altri.

Naturalmente queste pause non mi facevano contento. Si sarebbe potuto considerarmi uno studente scandalosamente pigro e indolente, ma io sapevo anche troppo bene che non era affatto così. Ero piuttosto uno studente modello, persino esemplare, nel non prendere sul serio la vita studentesca, secondo la miglior tradizione. Non avevo il coraggio di essere un vero studente scapestrato. Non passavo le giornate nelle bettole, non mi ubriacavo, non frequentavo sale da gioco e bordelli, e non passavo il mio tempo a sedurre giovani studentesse (che sarebbe stata in effetti una possibilità e non certo delle peggiori), perché per principio ero un "bravo ragazzo". Cioè saltavo spesso le lezioni, non però per fare in quelle ore qualche cosa di più divertente, ma per ciondolare nell'atrio dell'università e bere il mio centesimo caffè.

(Ovviamente al buffet dell'università di Zurigo alcool non ce n'era, non per nulla Zurigo è chiamata la città di Zwingli.)

Oggi quel centesimo caffè mi appare come il simbolo della mia pseudospensieratezza goliardica: infatti non ero uno studente dedito allo studio, ma dalla mia pigrizia non sapevo trarre maggior profitto che bere caffè (che per di più era anche pessimo). E dopo l'ultima tazza lasciavo la mia dimora diurna e tornavo a K. nella casa paterna, dove ero ancora più profondamente e più perniciosamente a casa mia.

Così facevo parte del gruppo dei romanisti, mi sentivo uno di loro. Mi trovavo all'interno di un nucleo protettivo e quasi sempre anche all'interno del protettivo edificio dell'università, ma il mio impegno lì dentro era guidato più dal bisogno di assoggettarmi alla mia nuova casa che di trovarvi un ruolo nuovo e personale. Si ripeteva il tipo di rapporto cameratesco che avevo già avuto al liceo: conoscevo una quantità di gente, godevo persino una certa fama di tipo disinvolto e buontempone, perché tutti sapevano che ero quello che si incontrava continuamente quando si andava a bere il caffè; non fui mai particolarmente detestato per questo, ma c'è da dubitare che qualcuno mi apprezzasse in modo speciale solo perché bevevo continuamente caffè. La caratteristica di queste molte ore passate a bere caffè era che si faceva un gran chiacchierare, ma non si combinava niente. I miei compagni, come ho già avuto occasione di dire, avevano sempre "qualcosa da fare". O che partissero per il weekend, o che andassero a sciare, o che fossero invitati dall'amica, o che facessero dello sport o suonassero il pianoforte, era comunque sempre qualcosa decisamente più interessante che bere cattivo caffè all'università. Gli studenti che all'infuori dello studio avevano programmi interessanti, cercavano naturalmente di sfruttare il più intensamente possibile le ore di lavoro all'università per poi avere più tempo libero per il resto. Non c'era da stupirsi, quindi, che non amassero in particolare le pause del caffè nell'atrio. Ma io non avevo niente fuori dell'università; essa era il meglio che io avessi e l'oretta al caffè doveva colmare uno spazio che avrebbe dovuto esser colmato da ben altre cose. Dopo la pausa del caffè non mi aspettava altro che la noia. Ma soprattutto i miei compagni combinavano sempre qualcosa con i loro amici; andavano insieme a sciare o a giocare a tennis o a vedere una mostra a Basilea; io, che ero solo, non avevo motivo di imitare in triste solitudine i loro programmi. Così non andavo a sciare, non giocavo a tennis e non andavo a Basilea a vedere delle mostre; andavo invece a casa, dai miei genitori. La maggior parte delle cose divertenti della vita (a parte il solitario, in cui mio padre era un campione, anche se, come ho già detto, sapeva fare solo quello dell'arpa) si fanno in compagnia; solo in compagnia si può essere allegri e divertirsi e, poiché io ero sempre solo, non avevo nulla di tutto questo.

La cosa aveva inoltre un altro aspetto. Non tutti gli studenti passavano il loro tempo libero a divertirsi continuamente (come io, pieno di invidia, immaginavo che facessero); ce n'erano molti che lavoravano per guadagnare e mantenersi agli studi. Questo era un aspetto della vita che ignoravo totalmente. Non avevo mai dovuto lavorare per guadagnare; non capivo assolutamente niente di denaro e al rapporto fra denaro e lavoro non avevo mai dedicato molti pensieri.

Io non avevo bisogno di guadagnare denaro perché ne avevo già.

Naturalmente era il denaro che mi davano i miei genitori. Per mia fortuna - o disgrazia - mio padre su questo punto era molto generoso.

Mi riforniva sempre abbondantemente di denaro e inoltre pagava tutte le mie spese più importanti, per esempio vacanze o viaggi all'estero.

Dato che a casa nostra non si usava parlare di denaro, perché il denaro era già parte delle cose sconvenienti, non avevo una vera idea del suo valore. Ne avevo sempre abbastanza e potevo sempre spendere per tutto ciò che mi faceva piacere, perché a mantenermi ci pensavano, appunto, i miei genitori: abitavo in casa loro, mangiavo a casa tutte le volte che volevo. Se non mangiavo a casa era solo perché all'università mi annoiavo di meno. Ma se quando tornavo avevo ancora appetito, potevo sempre aprire il frigorifero e servirmi un piccolo pranzo. Per le vacanze non avevo bisogno di risparmiare perché quelle me le pagava comunque mio padre.

I miei buoni genitori mi concedevano vacanze e viaggi e li pagavano.

Questa dipendenza economica però non mi creava problemi, perché dipendevo talmente in tutti i sensi dalla mia famiglia che l'aspetto economico era soltanto un piccolo esempio di un rapporto di dipendenza ben più vasto e profondo. Condividevo lo stile di vita dei miei genitori, condividevo le loro opinioni e convinzioni, il loro atteggiamento negativo nei confronti della vita - perché non avrei dovuto condividere anche il loro denaro? Il conflitto di molti studenti che per motivi economici dipendevano dai loro genitori, ma nutrivano idee del tutto diverse dalle loro e ne soffrivano, perché non potevano realizzare i loro ideali fintanto che si facevano mantenere da un padre che aveva ideali opposti, questo conflitto non mi toccava. Io vedevo le cose esattamente come mio padre, quindi potevo accettare il suo denaro senza conflitti. Che io non fossi abbastanza attivo per arrivare da solo a pensare che avrei anche potuto desiderare di guadagnarmi del denaro, mi pare a questo punto abbastanza comprensibile.

Anche in questo senso ero quindi totalmente passivo; come non studiavo per guadagnare, così non studiavo neppure per puro amore dello studio.

Io bevevo solo caffè e chiacchieravo. Oggi devo chiedermi di che cosa mai allora abbia tanto chiacchierato tutto il giorno. Infatti per me le cose della vita erano tutte " difficili" e quelle che non erano difficili mi ero abituato a considerarle "ridicole". In questo modo mi era facile non affrontare affatto la maggior parte degli argomenti, oppure affrontarli con un sorrisetto ironico, e quando, malgrado tutto, si dava il caso di dover sostenere un'opinione, era sempre l'opinione che avevo appreso a casa, vale a dire l'opinione di mio padre. Devo quindi supporre che se mai allora mi è capitato qualche volta di parlare sul serio, in quella tanto rara serietà c'era il punto di vista di un vecchio. Quando invece, cosa che mi era assai più congeniale, non parlavo seriamente, non cioè come mio padre, allora non potevo essere altro che superficiale, ironico, non serio.

Ecco, credo che questa sia l'espressione che meglio caratterizza i miei anni di università: non ero serio. Non prendevo sul serio il mio lavoro scientifico e, quando si beveva il caffè, occupazione che aveva preso il posto del lavoro, neppure i discorsi che si facevano lì li prendevo sul serio. Solo che la mancanza di serietà che caratterizzava la mia vita universitaria non era allegra e spensierata, ma maledettamente triste: mancanza di serietà e malinconia andavano di pari passo.

Mi sentivo sempre più solo e non potevo sopportare la solitudine; mi rifugiavo nella compagnia degli altri, ma questi altri non erano mai veri amici, solo semplicemente "gli altri" e poiché ero incapace di rapporti umani come ero incapace di star solo, quando avevo compagnia di solito mi sentivo ancora più solo di quando non ne avevo. Cosi mi sentivo sballottato fra due sensazioni opposte: quando ero solo pensavo di non poter sopportare la solitudine e dovevo assolutamente cercare compagnia - oppure, molto spesso, magari inutilmente aspettare che arrivasse qualcuno a farmi compagnia; ma quando mi trovavo in compagnia mi accorgevo di quanto ero lontano, di quanto era invalicabile la lontananza che mi separava dagli altri. Allora più che mai mi sentivo un isolato, un "outsider" e avevo l'impulso di abbandonare la compagnia per sfuggire almeno a quella sensazione di sentirmi escluso.

Questo stato d'animo cominciò a pesare anche sul mio lavoro di studente. Molto spesso andavo alle lezioni solo per non restare solo; spesso avevo ancora una lezione la sera e l'aspettavo per delle ore.

Quando poi finalmente la lezione cominciava, non riusciva più a interessarmi, non tanto perché fosse noiosa, ma perché non riuscivo a concentrarvi la mente. Molto spesso ero incapace di concentrazione anche quando l'argomento mi interessava veramente. Tentavo di seguire il discorso del professore, ma i miei pensieri involontariamente si allontanavano da ciò ch'egli stava dicendo e si dissolvevano nell'impressione che la lezione non fosse poi tanto importante, che avrei avuto qualcosa di ben più importante da risolvere. Naturalmente quest'impressione era perfettamente esatta, perché inconsciamente mi ero ormai da molto tempo reso conto di essere caduto in una situazione assolutamente insostenibile e che indubbiamente la cosa più importante per me sarebbe stata cercare immediatamente di chiarire questa mia situazione di depressione e di sconforto. Ma non potevo andare veramente a fondo della mia situazione e non volevo farlo, soprattutto non osavo. Così restavo sempre con l'opprimente sensazione di qualcosa di irrisolto, di incompiuto, che sarebbe stato tanto più importante di tutta la letteratura e la linguistica e che sottraeva il mio interesse a tutti i temi della filologia senza però che questa cosa tanto più importante venisse affrontata e risolta.

Così, anche in una simile, semplicissima situazione spesso finivo per non trovarmi mai al posto giusto. Neppure la lezione che avevo magari aspettato per tre ore la seguivo poi con vero interesse. Dapprima avevo consumato la giornata nell'attesa di quella lezione, e alla fine anch'essa si rivelava solo una meta fittizia. Se dopo questa frustrante fatica ne avevo ancora l'energia, andavo un po' giù nell'atrio, per trovare almeno lì un po' di compagnia, nel peggiore dei casi per aspettare una ipotetica compagnia, nella disperata speranza che quel giorno potesse portarmi ancora qualcosa di buono.

Come la mia giornata di lavoro era fatta solo di pause, anche il corso della mia vita era fatto solo di attesa. Come già da tempo mi ero abituato a fare, speravo sempre in immaginari "tempi migliori" che mi avrebbero liberato dalle mie sofferenze. Tuttavia mi comportavo in maniera assolutamente passiva e mi contentavo di sperare che il futuro mi avrebbe "portato" qualcosa. Non mi veniva neppure in mente che avrei potuto fare qualcosa anche nel presente. Devo realmente aver avuto una mostruosa capacità di speranza. La speranza è sì, una chance nella vita, ma talvolta, davanti a determinate situazioni la disperazione sarebbe una reazione molto più sana. "Dall''aspetta e spera si riconosce il matto" dice un vecchio proverbio. Ma proprio perché non mi disperavo, ma continuavo soltanto a consumarmi inconsciamente nella mia angoscia senza volerla guardare in faccia, proprio solo per questo riuscivo a tenere ancora in piedi la finzione, l'illusione che in fondo tutto andava benissimo e che i miei piccoli fastidi non superavano il limite del normale. Fintanto che potevo dirmi che ero normale, non credevo di dovermi seriamente preoccupare della mia situazione. Sotto il termine normalità però non potevo immaginarmi altro che la normalità borghese, e all'interno di questa antiquata e familiare norma, ero davvero passabilmente normale.

Così non mi lamentavo della mia sofferenza interiore, che volentieri confondevo con una mancanza di sofferenza. Meno che mai osavo parlare dei miei tormenti di natura sessuale, perché questo mi sarebbe costato uno sforzo ancora cento volte maggiore. In compenso, nella mia disperazione prendevo di tanto in tanto l'atteggiamento della maggioranza dei frustrati, che protestano perché nella vita tutto è "soltanto sesso" e ogni tanto sostenevo anche che la sessualità "è sì importante", ma accanto a questo ci sono anche tante altre cose belle, e simili sciocchezze. E' vero infatti che ci sono anche tante altre cose belle, ma è altrettanto vero che dove la sessualità non funziona anche tutto il resto non funziona, comprese tutte le succitate altre bellissime cose. Ma ammetterlo avrebbe significato ammettere che in me non c'era nulla che funzionava e io volevo a tutti i costi che tutto fosse perfettamente a posto e "normale".

C'è un'altra cosa di quel tempo che voglio ancora dire: naturalmente ero contrario agli psichiatri. Come tutti i nevrotici incalliti, che vorrebbero tanto essere o almeno fingersi normali, avevo una spiccata antipatia per i rappresentanti di questa strana specie, il cui compito sarebbe stato quello di farmi sapere, appunto, che tutto era meno che normale. Mi riferivo spesso e volentieri al famoso detto secondo cui andare dallo psichiatra vuol dire ammalarsi sul serio. In molti casi può anche darsi, anzi, è sicuramente vero: chi fa di tutto per fingere di essere normale, quando lo psichiatra gli mette sotto il naso che la sua apparente normalità era solo inventata, sul principio esce completamente di senno, si capisce. Sono convinto che molte persone inconsciamente intuiscono che lo psichiatra appunto sa la verità su di loro e proprio per questo si sentono sempre in dovere di parlar male degli psichiatri. (Che ci siano anche cattivi psichiatri è naturale.

Ci sono anche cattivi macellai, ma non per questo nessuno ha mai pensato di mettersi per principio contro i macellai. Anche i cartolai sono tutti tipi piuttosto ottusi, eppure nemmeno contro di loro esiste un preciso pregiudizio.) Io credo di essere stato appunto un caso fra tanti. Ma ero contro gli psichiatri anche perché il mondo dal quale provenivo era, in generale, contro gli psichiatri: genitori borghesi educano volentieri i loro figli nella convinzione che sia meglio non andare dallo psichiatra; perché una volta andati dallo psichiatra i figli poi non sono più neppure così borghesi.

A questo proposito mi comportavo come uno che ha mal di denti e ha paura del dentista: per non dover andare dal dentista, preferisce tenersi il mal di denti. I veri grandi maestri di quest'arte riescono persino a fare veramente come se non avessero mal di denti e quando, masticando il pane, toccano il dente guasto e non possono gridare per non tradire il mal di denti storcono la faccia dicendo che hanno urtato con uno stinco contro la gamba del tavolo.

In quest'arte ero diventato anch'io un maestro. Siccome volevo a tutti i costi essere normale e a nessun costo volevo mostrarmi infelice, mi ingoiavo tutta la mia angoscia e negavo di avere dei problemi, perché intuivo vagamente che se permettevo loro di esistere, i problemi mi sarebbero franati addosso con una spaventosa violenza che andava oltre la mia capacità di immaginazione. Se si pensa che questa mia situazione psichica continuava a peggiorare, appare evidente che all'università, come ho appunto detto sopra, le cose dovessero andare sempre peggio. Ma a questo punto, parallela a questa evoluzione negativa, se ne verificò un'altra, in direzione opposta, di cui oggi non so dire se per me è stata un bene o un male: cioè all'università le cose stranamente cominciarono per me ad andare sempre meglio.

Cercherò di spiegarlo con qualche esempio.

Su un punto nero che dal liceo mi ero portato all'università cominciò con il tempo a verificarsi un miglioramento. Non so più quando, per la prima volta, arrivai a quell'idea rivoluzionaria, ma l'idea si concretizzò e cominciai a fare ginnastica. Da principio solo a casa mia, nel segreto della mia cameretta, ma dopo un po' di tempo arrivai a vincermi al punto da andare spontaneamente in quella ch'era stata la palestra dei miei anni di liceo e lì, come studente universitario, diventai membro attivo della sezione di atletica leggera. E non solo ci riuscivo bene, ma mi ci divertivo. Mi colpì che mentre io facevo volentieri gli esercizi, molti altri studenti evidentemente non ci trovavano affatto gusto, ma ci venivano soltanto per dovere, considerando le ore di ginnastica come una noiosissima costrizione.

Costoro non provavano il minimo piacere nei movimenti che eseguivano solo per il bene della loro salute, senza alcun divertimento. Parevano non avere alcuna coscienza del proprio corpo, ma considerarlo, al contrario, una fastidiosa macchina alla cui manutenzione bisognava pure in qualche modo provvedere. Constatai che ora, all'improvviso, ero io a essere molto più sciolto e disinibito e più vicino al mio corpo degli altri. Circa nello stesso periodo, d'un tratto scoprii di saper ballare, cosa che per tanti anni non ero assolutamente riuscito a fare.

Questo progresso però non mi portò soltanto il vanitoso piacere di riuscire, ma acuì ancora di più il mio annoso conflitto. Ora non potevo più vedermi come il povero, piccolo anatroccolo di cui si può solo dire "poverino, che misera creatura!"; d'un tratto mi trovavo a essere un elegante e attraente giovanotto dall'aspetto molto, ma molto meno inibito e goffo e assai più normale di quanto fossi stato fino a poco tempo prima. Tanto più doveva quindi riempirmi di stupore il pensiero di non poter trovare un'amica. Quanto più avevo potuto nascondermi dietro la mia immaginaria bruttezza, la mia supposta inettitudine, tanto più ero sicuro di avere una giustificazione per la mia incapacità di stabilire contatti. Ma ora, quanto più si faceva evidente che ero nei miei anni migliori e avevo raggiunto il culmine dello sviluppo fisico, tanto più incomprensibile e inescusabile doveva apparirmi il fatto di non riuscire a stabilire rapporti con le donne.

Mi diventava sempre più difficile difendere la mia salute psichica davanti alla mia stessa critica, ora che esteriormente ero diventato il perfetto ritratto della forza fisica e della salute.

Sembra un paradosso ma non lo è: quanto più stavo meglio, tanto più mi sentivo peggio. Quanto più si allontanava da me il peso opprimente dei problemi concreti e comprensibili, tanto più incomprensibile e sinistra diventava la mia segreta convinzione che la mia situazione era, tutto sommato, disperata. Quanto più mi avvicinavo esteriormente all'immagine che ci si fa del giovanotto normale, tanto più sentivo la mancanza di tutto ciò che costituisce appunto questa normalità. Lo scompenso nasceva sempre meno da questa o quella carenza, ma le cose erano "semplicemente così", senza motivo, una fatalità messami addosso da un ingrato destino.

Sotto molti altri aspetti il mio miglioramento esteriore non era neppure più discutibile. Con l'andar del tempo, dall'anonimato del "romanista", che per lo più non studiava ma passava il tempo a bere caffè, uscì una figura dai contorni sempre più precisi, che all'università aveva un certo spicco. Da principio la constatazione non poteva che meravigliarmi, perché non avrei saputo quale motivazione dare alla mia popolarità; ma col tempo mi ci abituai e potei accettare come un preciso dato di fatto che i miei compagni mi apprezzavano e mi volevano bene. Accadeva ora sempre più di rado che dovessi aspettare ore e ore un qualsiasi "qualcuno" per avere un po' di compagnia; conoscevo una quantità di gente, molti studenti erano contenti di frequentarmi o di fare la mia conoscenza e i momenti in cui ero veramente solo divennero sempre meno frequenti. Non credo che la nuova situazione che si andava lentamente creando abbia fondamentalmente mutato qualcosa nella mia generale solitudine interiore, ma da quando non avevo più tanto a soffrire della reale solitudine fisica, mi riusciva anche più facile nascondere e mimetizzare quella psichica. Di un autentico rapporto personale con un'altra persona non ero ancora capace, e in definitiva dei romanisti che adesso erano "tutti" miei amici, nessuno lo era veramente.

Devo anche confessare che la qualità della mia popolarità non mi era particolarmente simpatica. Uno dei miei reali o presunti pregi era la mia originalità. Già il concetto di originalità mi è sempre apparso molto ambiguo. Da un lato possedevo indubbiamente una certa dose di originalità, alla quale contribuiva anche l'"air d'artiste" del mio aspetto esteriore, che io, volente o nolente, continuavo a coltivare.

D'altro canto, questa originalità, tanto simpatica ai miei compagni, aveva per me tratti estremamente sgradevoli. La mia originalità era appunto l'espressione del mio essere diverso dagli altri, e questo "esser diverso" lo avevo già da molto avvertito non certo come un essere meglio, ma un essere peggio. Diverso ero in tutte le cose in cui ero rimasto indietro e dovevo dirmi di non essere "ancora maturo" (e probabilmente non lo sarei neppure mai più stato); diverso ero sempre quando mi sentivo solo e escluso, diverso ero quando si faceva strada dentro di me l'intuizione che tutta la mia esistenza era sbagliata e correva su un falso binario. In tal modo anche l'originalità prendeva un aspetto che confinava con il patologico, il doloroso, l'abnorme.

Ma anche per il conflitto che nasceva per me dall'originalità trovai una via d'uscita. Più per caso che per mia precisa volontà, si venne a sapere che scrivevo commedie per il teatro delle marionette (cosa che non meravigliò nessuno, dato che io avevo comunque qualcosa di "artistico"), e così mi incaricarono di scrivere qualcosa per una serata organizzata dai romanisti. La commedia piacque, la rappresentazione fu un grande successo. Che in seguito, un paio d'anni dopo, compenetrato una volta di più dalla inanità e dalla patologicità del mio talento artistico, distruggessi quel testo insieme a tutto il resto della mia produzione letteraria, non doveva servirmi più a nulla: ero e restavo l'autore e l'interprete di un lavoro teatrale che quasi tutti i romanisti avevano visto e che aveva ottenuto un grande successo di pubblico.

Da quel momento era evidente che sarei stato io a dare il tono alle serate dei romanisti. Scrissi nuove commedie, preparai nuove regie, divenni presidente dei romanisti e organizzai tutte le manifestazioni artistiche della facoltà. I miei lavori teatrali non andarono mai oltre l'ambito del pubblico studentesco dei romanisti e venivano recitati per lo più una volta sola per un pubblico molto ristretto; ma per me erano sempre dei successi. Questa modesta eppure brillante carriera divenne ben presto il fatto essenziale della mia vita di studio, senza peraltro che gli studi avessero a soffrirne veramente.

Delle diverse dissertazioni letterarie che avevo dovuto preparare, alcune erano riuscite molto bene ed erano dei successi di cui potevo andar fiero - oppure no, appunto. In breve, come studente riuscivo bene - oppure no, appunto. Fino a qual punto questi ultimi anni di studio siano stati per me un bene o un male, oggi non lo posso valutare. Certamente, visti obiettivamente, non furono anni cattivi, perché scrivevo dei buoni lavori, alla fine preparai senza agitazione una tesi di laurea accettabile sotto tutti i punti di vista, andai a discuterla tranquillo e sicuro e infine feci gli ultimi esami di dottorato con ottimi risultati. Mi laureai con tutti gli onori.

Altrettanto sicuro è che non fu male che scrivessi commedie che piacevano a tutti e divertivano il pubblico. Ma tutte queste piccole gioie non riuscivano che a tenermi, di volta in volta, sempre a un paio di passi dall'abisso che mi si apriva davanti, nel fondo del quale ribollivano tutte le mie angosce, i tormenti e le disperazioni.

Ogni volta che avevo fatto qualcosa di buono, qualcosa di cui potevo essere orgoglioso, potevo dirmi che adesso le cose cominciavano ad andar meglio, che avevo di nuovo fatto un piccolo progresso e che "presto" avrei raggiunto quell'immaginario "stato" che andavo inutilmente rincorrendo da tutta la mia giovinezza.

La depressione non si era allontanata, mi ero semplicemente abituato meglio a conviverci, ad accettarla quando era diventata cronica. I molti successi mi rendevano più facile valutare gli aspetti positivi e misurarli con quelli negativi e mi permettevano di dirmi che, dopotutto, i due piatti della bilancia erano abbastanza bene equilibrati. In altre parole: da quando tante cose piacevoli erano venute a coprire il fondo della mia disperazione, mi era diventato sempre più impossibile convincermi della falsità della mia ben recitata serenità.

Se pensiamo che un tale afflitto dal mal di denti cerca di consolarsi osservando come crescono bene i fiori nel suo giardino, si vede subito che le due cose non hanno nulla a che vedere l'una con l'altra. Che i fiori crescano bene o no, non influisce minimamente sul mal di denti.

I fiori non sono un risarcimento per il mal di denti, perché il dente farebbe male anche se i fiori cadessero distrutti da una grandinata.

Altrettanto poco la guarigione del dente servirebbe alla fioritura; in questo caso, semplicemente, l'individuo avrebbe le due gioie insieme, i fiori e il dente guarito. No, per l'amico dei fiori con il dente cariato c'è una sola soluzione: il dentista.

Questo era il mio caso. Mi dicevo che ero sì solo, ma in compenso intelligente, ero sì infelice, ma in compenso avevo una quantità di conoscenti e magari anche degli amici, ero sì frustrato, ma in compenso laureato, cosa che dopotutto non tutti possono dire. In breve ero disperato, ma non potevo farlo sapere a me stesso. Quanto fosse assurdo considerare la depressione come prezzo dell'intelligenza, o i miei lavori teatrali come indennizzo per la mia solitudine (come se uno stupido non potesse anche essere depresso e un intelligente anche essere contento; come se un autore teatrale dovesse necessariamente non avere una donna o un amante fortunato dovesse essere necessariamente privo di talento per il teatro) - no, tutto questo non lo volevo vedere e con ciò non facevo che aumentare la mia sofferenza.

Un altro aspetto della mia patologia erano gli incessanti confronti che facevo con tutte le possibili spaventose situazioni esistenziali dei miei compagni. Come sempre, ero incapace di ricordarmi chi e che cosa ero, ma volevo sempre e soltanto sentirmi considerato come una parte che non si discostava tanto da un normalissimo tutto. Notavo che moltissimi studenti avevano una quantità di problemi concreti che io non avevo. Molti vivevano in disaccordo con la famiglia e si lamentavano di non trovarsi bene a casa loro. Molti non avevano denaro, dovevano andare a lavorare per mantenersi, appunto, agli studi. Molti all'università non conoscevano nessuno, erano antipatici o impopolari e soli e consumavano le loro serate in orribili camere ammobiliate presso delle orrende affittacamere cattive. Altri, invece, avevano reali difficoltà di studio, non afferravano bene la materia o dovevano sgobbare duramente per superare gli esami; in confronto a loro io riuscivo a fare gli esami con la massima disinvoltura e non avevo mai dovuto lottare con notti insonni passate sui testi o con momenti di panico, non avevo mai dovuto ricorrere alle pillole per essere lucido di mente o per calmare il batticuore.

Non capivo che ci sono problemi di natura molto diversa. Molti dei miei compagni erano cioè depressi perché erano stati bocciati a un esame; io invece ero depresso sebbene avessi superato brillantemente quello stesso esame. Volevo vedere solo ciò che avevamo in comune, vale a dire che entrambi eravamo depressi, ma non la differenza, cioè che la tristezza dell'altro era motivata, la mia invece assurda, patologica. Esser tristi quando è andato male un esame, per il quale si è magari lavorato duramente per dei mesi, è normale. Ma non essere contenti quando un esame è andato benissimo e ritrovarsi quella sera altrettanto depresso quanto l'altro che è stato rimandato, questo no, non è normale. Non avere denaro è molto triste, ma più che comperarsi delle cose, col denaro non si può fare. Io, in effetti, potevo comperarmi tutto quello che volevo, ma tutti i miei acquisti non riuscivano a rendermi felice. Non ero triste perché mi mancava qualche determinata cosa, ma ero triste sebbene non mi mancasse nulla - o pareva che non mi mancasse nulla. A differenza di tante altre persone tristi, non avevo una ragione per essere triste, e questa era appunto la "diversità" della mia situazione, l'anormalità del mio dolore.

Durante le vacanze viaggiavo molto e visitai diversi Paesi stranieri.

Che naturalmente sotto molti aspetti erano ben diversi dalla Svizzera, e da turista coscienzioso mi preoccupavo anche di constatare in che cosa erano diversi. Ma in una cosa tutte le mie mete turistiche si somigliavano; nel fatto che non c'era paese o città straniera che riuscisse a mettermi addosso un po' di allegria. In Spagna il sole è più caldo che in Svizzera ma il gelo della depressione in me non era in Spagna meno angoscioso che in Svizzera.

Molto spesso le cosiddette giornate tetre di maltempo erano per me le meno insopportabili, erano quelle in cui c'erano uno scoperto e generale motivo che permetteva di essere tristi e di lamentarsi liberamente e con il consenso generale. Mi riusciva più difficile fingere una lieta partecipazione quando qualcuno mi diceva che era una splendida giornata d'estate; e mi costava assai meno sforzo consentire quando qualcuno, di cattivo umore, faceva notare che la tetraggine di quel tempo orrendo dava terribilmente sui nervi. Quando tutti non facevano che lamentarsi della pioggia, del freddo e dell'inverno, mi pareva almeno di essere meno solo nella mia infelicità. Naturalmente il più delle volte era un'illusione, che si dileguava non appena tornava la primavera e subito rincuorava l'esercito di coloro che si rattristano per l'inverno, il freddo e la pioggia, mentre in primavera io restavo ancora più sconsolatamente solo con la mia malinconia.

A questo proposito devo ricordare un breve periodo in cui riuscii davvero, in questa ambigua maniera, a riprendermi un po'. Fu quando ebbi l'itterizia. L'itterizia l'avevo presa a Lisbona. Però già da parecchie settimane prima che scoppiasse la malattia non mi ero sentito bene; ero stanco, mi sentivo male, non avevo più energie e mi spaventava ogni piccolo sforzo; tutto mi dava fastidio e avevo una tremenda malinconia. Nel mio caso, tale sgradevole sensazione era ancora ben lungi dal far pensare a una incipiente malattia, perché per me non era niente di nuovo. Solo quando la malattia esplose veramente, mi ricordai all'improvviso come già da molto tempo mi fossi sentito stanco e infelice.

Non fu un'itterizia particolarmente grave, quella che mi costrinse in ospedale a Lisbona. Ci rimasi per dieci giorni e, secondo le regole della medicina tradizionale, mi furono prescritte parecchie altre settimane di dieta e di cure. Lasciai Lisbona in aereo e tornai in Svizzera per fare la convalescenza. Da un conoscente venni a sapere che tutti i disturbi epatici hanno il potere di rendere malinconici e io stesso, del resto, sapevo della classica regola secondo la quale la malinconia ha sede nel fegato. Da principio ciò non significò per me altro che il potermi prendere altre dieci settimane di vacanza dalla mia faticosa normalità. Ora sapevo che tutte le mie infelicità venivano dal fegato e che per tre mesi buoni avrebbero continuato a venire di lì. Naturalmente in questo periodo non stavo né meglio né peggio del solito; ma questa fase si distinse gradevolmente dalle altre per il fatto che avevo una spiegazione per la mia depressione e mi potevo raccontare che "veniva dal fegato". Era solo una questione di fegato. Così ebbi un alibi per un lungo periodo di tempo, durante il quale nessuno avrebbe potuto sospettarmi di depressione, perché a motivo della mia malattia avevo una sorta di salvacondotto e il dichiarato diritto di essere fisicamente condizionato ed essere quindi malinconico quanto mi pareva.

Naturalmente in questo alibi c'era molta ipocrisia, un'ipocrisia che non volevo confessare a me stesso. Avrei dovuto saperlo, e in una parte segreta del mio io, quella che non voleva sapere, sapevo anche benissimo che l'estate dell'itterizia non si distingueva in nulla da tutte le mie altre estati, e che il mio stato d'animo prima della malattia non era né meglio né peggio di quello dovuto all'itterizia.

Quando nei giorni di cattivo tempo affermavo che la pioggia aveva il potere di deprimermi, si trattava soltanto di un monumentale ingrandimento della mia generale bugia. Non occorre perciò neppure che racconti come, dopo il termine prescritto dal medico, quando cioè dopo la conclusione ufficiale della malattia nota come causa di malinconia, fui nuovamente gettato nel mondo durissimo dei sani, non mi ritrovi meno malinconico di prima nemmeno un po'.

Ciò che mi restò dell'itterizia fu una certa istintiva tendenza a specializzarmi di preferenza in cose tristi, perché intuivo che le cose tristi servivano bene alle mie "manovre". Nello stesso modo cercavo di non permettere alle cose liete di avvicinarsi troppo. Che i famosi grandi balli studenteschi, antica tradizione della nostra università, non fossero cosa per me, questo lo sapevo e quindi me ne tenevo volentieri lontano, con discrezione.

Eppure non ero affatto il tipo di persona nota per essere ostile a queste manifestazioni. Al contrario, mi ero persino fatto una certa fama come organizzatore di feste. Anche a questo ero arrivato del tutto per caso. Ero stato invitato a una festa che poi, per particolari ragioni, non poté aver luogo e allora avevo arrischiato una proposta: che si trasferisse tutta la faccenda a casa mia, vale a dire in casa dei miei genitori. Con mia grande sorpresa la mia proposta aveva incontrato un generale consenso. Sorpreso lo ero stato già soltanto per il fatto che non riuscivo a immaginare cosa significhi veramente partecipare a una festa. Ai tempi del liceo era stata una cosa naturalissima, perché le feste allora non erano una cosa alla quale io dovessi necessariamente partecipare. E ora, grazie a un puro caso, che non sapevo se fortunato o increscioso, mi ero cacciato da solo nel ruolo dell'ospite che dà una festa e mi chiedevo se sarei stato in grado di sostenere con generale soddisfazione questo difficile esame. Superai la prova, la festa a casa dei miei genitori fu considerata da tutti un successo e grazie alle ripetute richieste, l'esperimento fu ripetuto. Accadeva così di tanto in tanto che invitassi gente a casa mia, vale a dire a casa dei miei genitori, e così ebbi l'occasione di perfezionarmi nel ruolo dell'ospite.

Naturalmente solo da ospite. In questa mia nuova funzione mi preoccupavo che i miei invitati si trovassero bene, a loro agio, mettevo ogni cura nel badare che avessero da bere e da mangiare e non riuscivo a immaginare il mio ruolo che così. Seguendo un'antica tradizione familiare ero dunque un ospite perfetto, il che, in pratica, equivaleva a dire che ero il perfetto servitore dei miei invitati più che un loro compagno di divertimenti e che, da perfetto ospite, mi tenevo sempre un pochino in disparte da quello che realmente accadeva.

 

 

 

 

7.

Pian piano si avvicinava il momento in cui avrei dovuto abbandonare la mia nuova dimora, l'università a cui mi univano così contraddittori legami, per dedicarmi a una professione, darmi cioè all'insegnamento.

Il distacco non fu doloroso come avevo temuto dovesse essere l'abbandono dell'Alma Mater che mi aveva custodito e protetto in tutti quegli anni. Negli ultimi semestri prima della laurea e del congedo definitivo dalla vita universitaria, feci persino un piccolo, modesto tentativo di emancipazione dalla tradizione: cominciai a dare qualche lezione di spagnolo nella scuola cantonale di una cittadina vicina e per la prima volta mi trovai a disporre di denaro che io stesso avevo guadagnato. Avevo lasciato la casa dei miei genitori a K. e durante la settimana abitavo a Zurigo, in una vecchia, bruttissima casa che accoglieva una dozzina circa di studenti. Questa bruttissima casa, dove mi mancavano tutti i comfort ai quali ero abituato, mi piaceva però in maniera straordinaria. Era cadente, sporca, in stato di totale abbandono, fredda in inverno e un forno d'estate, e per di più, in un quartiere rumorosissimo; i ragazzi che vi abitavano erano quasi tutti scorbutici tipi di barboni, soggetti asociali che non avevano nulla da dirsi e che inoltre, appena potevano, non ci pensavano due volte a derubarsi a vicenda. Un ambiente niente affatto raccomandabile, per la verità, ma non mi dispiaceva; e ripenso sempre volentieri all'anno che vissi laggiù. Non è stato certo il peggiore della mia vita.

In senso generale, il distacco dall'università portò per me un certo miglioramento. La conclusione degli studi aveva trasformato lo studente in un dottore, e già questo serviva a trasferirmi, anche soltanto esteriormente, in una sfera del tutto nuova. Il mutamento dalla vita studentesca all'attività professionale mi rese economicamente indipendente dai miei genitori; ora il mio denaro me lo guadagnavo io e potevo farne tutto quel che mi saltava in mente, senza chiedermi se per caso lo usavo per scopi che potevano non incontrare la loro approvazione. Così misi finalmente termine anche alla mia esistenza di eterno pendolare del weekend e mi presi un appartamento a Zurigo, nella parte vecchia della città e lo arredai molto bene. In questa occasione dovetti constatare che il mio gusto differiva in tutto e per tutto da quello dei miei genitori e d'improvviso mi trovai a vivere per la prima volta in una casa che rispondeva perfettamente al mio gusto personale.

Ora avevo tutto quello che volevo; avevo concluso con successo gli studi, avevo un lavoro e una bella casa. Il caso aveva voluto che il mio appartamento (senza che io mi fossi dato particolarmente da fare per ottenere questo privilegio) si trovasse nel quartiere più ambito della città e possedesse tutti i possibili requisiti positivi: una posizione romantica nella città vecchia, una splendida vista di sopra il groviglio dei vecchi tetti, assoluta tranquillità e una quantità ancora di gradevolissimi pregi. Qui ora potevo davvero stare magnificamente e godermi la vita e, in un certo senso, lo feci anche e vissi con molta soddisfazione in questo nuovo ambiente.

I primi anni in questa mia nuova casa portarono veramente al suo totale compimento quella situazione che in me si andava evolvendo da anni su due binari paralleli: da un lato stavo sempre meglio, dall'altro sempre peggio. Dello star meglio era perfetta dimostrazione il mio nuovo stile di vita; in quanto allo star peggio da parte mia feci, più e meno inconsciamente, tutto il possibile perché non dovesse o potesse venire apertamente alla luce del giorno.

Potevano essere forse piccoli particolari, più che veri, chiari sintomi; ma tutti puntavano nella stessa direzione. Naturalmente da principio era molto "simpatico" che mi cucinassi da solo tutti i pasti ed era anche ovvio che preferissi mangiare nel mio delizioso appartamento piuttosto che in un "impersonale" ristorante. Ma non erano soltanto i pasti veri e propri che consumavo solo fra le mie quattro mura; anche ogni caffè, ogni birra, ogni bicchiere di vino, li bevevo in casa. In altre parole non andavo mai fuori. Non mi veniva neppure in mente di andare in un locale pubblico, in un caffè o in un bar a bere un caffè o una birra, oppure di pranzare al ristorante in compagnia, dal momento che, appunto, a casa mia "era molto più bello".

Anche questa casa era quindi diventata un guscio, quel guscio protettivo che lasciavo sempre soltanto a malincuore.

Talvolta sedevo per ore e ore a tavola, davanti ai miei pasti (ottimi per la verità e anche molto costosi), soprattutto la sera e stavo a guardare il tramonto. Quest'abitudine me l'ero portata appresso fin dalla mia precedente abitazione in quella catapecchia. Stavo a osservare i raggi del sole morente che cadevano su un quadro sulla parete di fronte, fino a che la luce si spostava lentamente e poi il quadro cadeva in ombra e il sole era tramontato. Durante quel rito mi sentivo ogni volta sopraffare da una grande tristezza e avevo il cuore gonfio di malinconia. Naturalmente si può dire che il tramonto ha per se stesso qualcosa di malinconico e che non c'è nulla di strano che si provi una certa mestizia vedendo una giornata avviarsi alla fine e farsi incontro il buio della notte. Che questa spiegazione di tipo generico non si attagli al mio caso, va da sé. Il tramonto era piuttosto un'occasione del tutto superficiale per attivare in me un dolore ben più profondo di quello che si prova per la fine di una giornata. Infatti, spesso si dava il caso che involontariamente traducessi in parole o in versi questo stato d'animo e precisamente quasi sempre negli stessi versi. Erano versi tratti dal lamento funebre di Jorge Manrique, per la verità quasi sempre le stesse parole:  

 

"¿Qué se hizo el rey don Juan?

Los infantes de Aragon, que se hicieron?" [Che ne fu di re Juan? / Gli infanti di Aragona, / Che ne è stato di loro?]

 

 

Il trasloco nel nuovo appartamento e i frequenti spostamenti di mobili che vi apportavo fecero sì che in questo mio rituale i raggi del sole morente andassero a cadere ogni sei mesi su un quadro diverso. I diversi quadri però erano tutti soggetti sereni e piacevoli. Ma quando vi cadevano sopra gli ultimi raggi del sole, ogni quadro mi dava la stessa sensazione di tristezza; così, tanto la fotografia di un bosco quanto, stranamente, un manifesto teatrale con l'immagine di un clown avevano il potere di rendermi ugualmente infelice, anche se il soggetto non avrebbe dato motivo alcuno di turbamento. La tristezza mi coglieva senza ragione ma con forza, con regolarità, con tenacia.

Questi stati d'animo col tempo non rimasero limitati all'iniziale rituale del gioco di luce sui quadri, ma divennero sempre più frequenti e immotivati. Piano piano il lamento funebre lasciò sempre più spesso il posto al lamento della solitudine e - anche qui istintivamente e come se venisse da sé - cominciai a recitare i versi del cantore portoghese Martim Codax:  

 

"Ai; Deus, se sabe ora meu amigo, Como eu senheira estou em Vigo?" [Ah, Dio, se solo il mio amico sapesse, / Come mi sento solo a Vigo.]

 

 

Recitare questi versi non restava una semplice declamazione; sempre più essi esprimevano tristezza, tormento, solitudine. Non potrei dire che queste declamazioni fossero un fatto intenzionale; venivano da sé.

Credo che fosse la tristezza a parlare attraverso di me; io non dovevo metterci nulla di mio, ero diventato uno strumento passivo della tristezza stessa, il mezzo con cui essa si esprimeva. Per questo non c'era bisogno da parte mia di alcuna intenzione; mi succedeva semplicemente che le parole della tristezza mi salissero alle labbra.

Si sarebbe potuto riassumere questo mio atteggiamento nelle terribili parole della fatalità: "E' semplicemente così". Era davvero soltanto così; succedeva di continuo che mi trovassi seduto alla mia scrivania o sul letto a pronunciare le parole del lamento:  

 

"Ai; Deus, se sabe ora meu amigo, Como eu senheira estou em Vigo?"  

 

Parecchie altre cose dello stesso genere erano anch'esse "semplicemente così". Succedeva semplicemente che la notte anche quando ero molto stanco, non riuscissi a dormire. Succedeva che tutti i sonniferi non servissero a nulla e che minacciassi di finire con una intossicazione da alcool per gli innumerevoli bicchierini che bevevo per conciliare il sonno prima di addormentarmi. Il problema non era da risolvere sul piano medico; era piuttosto una cosa "nervosa", appunto "era semplicemente così".

Con l'andare del tempo avevo anche ricominciato a vestirmi a lutto.

Non perché fossi particolarmente triste, ma perché, d'un tratto, il nero di nuovo "mi piaceva di più". Tutti gli altri colori non mi piacevano più e così sceglievo automaticamente di indossare abiti neri: calzoni neri, camicie nere, pullover neri, giacche nere, tutto nero. Il rapporto del nero con il lutto è universalmente noto; solo a me pareva invece di non sceglierlo per il suo simbolismo, ma per la sua eleganza. Anche qui divenni un oggetto passivo: poiché non sapevo decidermi consciamente per il colore del lutto, avvenne che tutti gli altri colori all'infuori del nero cominciarono a non piacermi più, così che, per questa via traversa, venivo di nuovo riportato a quello che evidentemente doveva essere il mio colore: il nero.

Anche il fatto di non andare più in vacanza era "semplicemente così".

Come insegnante godevo di moltissime vacanze; come persona sola non avevo obblighi economici di alcun genere; per di più avevo ereditato da mio padre, morto un paio di anni prima, un piccolo patrimonio che mi avrebbe permesso di fare qualsiasi viaggio, sia in America che in Cina. Ma non viaggiavo mai. Sapevo che in vacanza tutto era "ancora molto peggio" che a casa. Per me non c'era assolutamente alcuna ragione di rifare la vecchia esperienza, quando durante i viaggi nei luoghi che secondo l'opinione generale erano tanto "più belli", mi accorgevo di essere ancora più depresso, più infelice e solo che a casa.

Neppure per altre ragioni toccai il capitale lasciatomi da mio padre.

Non potevo soddisfare alcun desiderio, perché non avevo desideri. Ero infelice ma senza desideri. Per me il denaro non aveva alcun senso, perché nulla di ciò che avrei potuto comperare mi avrebbe dato un po' di gioia. Non ero quindi un buon consumatore, perché sapevo che per me non c'era nulla da comperare. Avevo perciò molto denaro ma non sapevo come avrei potuto spenderlo. Anche questo "era semplicemente così".

Particolare significativo: non mi ero abbonato a nessun giornale. Non sentivo affatto il bisogno di sapere che cosa succedeva nel mondo.

Usavo ripetermi che di solito i giornali scrivono solo un mucchio di sciocchezze (una verità di per sé sacrosanta, assolutamente inconfutabile), ma non occorre certo che spieghi meglio che il vero motivo della mia astinenza non era sicuramente la profonda consapevolezza della natura della nostra stampa.

Da quanto ho detto più sopra si capisce chiaramente che anche in quello che era sempre stato il terreno della mia massima infelicità, questi anni non avevano portato nulla di nuovo. Ero, come sempre, solo. La maggior parte dei miei amici nel frattempo si erano sposati, naturalmente. Ce n'erano anche di quelli che non si erano decisi per il matrimonio, ma passavano continuamente da un'amica all'altra ed erano appunto i classici scapoli, cosa altrettanto naturale. Molti avevano già dei bambini; altri non avevano bambini e non erano soddisfatti del matrimonio, oppure erano già divorziati e risposati.

Soltanto io - naturalmente - non avevo un'amica. Anche questo "era semplicemente così". Naturalmente la maggior parte dei miei amici erano sposati, e altrettanto naturalmente io non avevo ancora avuto rapporti con una donna. Non avevo mai provato sentimenti particolari per una donna, non parliamo poi di amore, e a incontri di carattere puramente sessuale ci ero arrivato ancora meno - naturalmente.

All'università, quando mi ero accorto che con le donne non riuscivo assolutamente a stabilire dei rapporti, spesso mi ero messo in mente di essere omosessuale, o piuttosto ero colto dalla paura di poter essere un omosessuale. Non mi era però mai venuto in mente che, se anche fosse stato così, non sarei mai riuscito a stabilire un rapporto con un uomo più di quanto sapessi fare con una donna. La presupposta o temuta omosessualità come spiegazione per la mia infelice situazione valeva altrettanto poco quanto, a suo tempo, la scuola di ballo "sbagliata" o l'eventuale cattivo tempo o l'itterizia.

Però non mi lamentavo mai. Stavo sempre "bene". Stavo sempre così ininterrottamente bene che molta gente mi confessava stupita di non riuscire a capire come mai tutto potesse andarmi sempre così bene.

Doveva senz'altro dipendere dal fatto che io possedevo quello che si suole chiamare una felice natura. Oggi, direi piuttosto che avevo una natura non lamentosa. Non mi lamentavo mai di nulla. Solo quando ero a casa mia, dove tutto era così bello, esplodeva nuovamente il lamento:  

 

"Ai, Deus, se sabe ora meu amigo, Como eu senheira estou em Vigo?"  

 

E con il colore che da tanto tempo ormai mi piaceva così straordinariamente, la tristezza esplodeva e annunciava il dolore.

Sapevo di andare in rovina per mancanza di amore, sapevo che la frustrazione e la depressione colmavano a tal punto la mia esistenza che quasi non mi restava più spazio per nient'altro che l'angoscia sempre presente; lo sapevo, ma non ci credevo. O meglio, non ci volevo credere (che forse è la stessa cosa). Non volevo credere che la mia vita interiore era colpita da una spaventosa desolazione, che ero un uomo psichicamente gravemente malato, ormai quasi incapace di normali emozioni umane, che si annientava soltanto chiuso nell'involucro della propria incapacità a uscire da una situazione di angoscia totale; non volevo credere di non avere soltanto quel piccolo "ramicello di follia" che hanno quasi tutti, ma un male assai più grave, e che quel mio continuare a cercar di convincermi che le cose "non andavano poi così male" mi distruggeva. Forse si può vedere il mio comportamento come una reazione umana abbastanza comprensibile, in quanto nessuno riesce a abituarsi all'idea di trovarsi proprio davanti all'abisso.

Nessuno si sente dire volentieri: la situazione è disastrosa. Allora non conoscevo ancora la saggia massima secondo cui "solo colui che lo ha già davvero superato, è in grado di credere che si possa superare anche il peggio".

Credo che esista una bella parola per lo stato in cui mi trovavo allora: rassegnazione. Mi ero così abituato a stare sempre male e mi ci ero così rassegnato, che qualche volta neppure più me ne accorgevo.

Bisognava supporre che anche un pazzo non si renda veramente conto di essere pazzo. Quello che crede di essere Napoleone, non si crede un matto con il complesso di Napoleone, ma Napoleone in persona. Così cominciai anche a perdere il controllo della misura della mia tristezza. Di notte non riuscivo a dormire, al tramonto me ne stavo a guardare i miei quadri illuminati dal sole morente e recitavo versi di tristezza e spesso scrivevo per ore e ore la parola "tristeza" o "soledad" per dritto e per traverso su un foglio a quadretti finché la pagina ne era tutta coperta e andavo in giro sempre vestito di nero ma di essere triste non l'avrei mai detto. Ero solo e morivo dal bisogno di calore e di amore e soffrivo dei miei perenni complessi di inferiorità sessuale - ma di esser infelice o disperato, di questo non avrei mai parlato. La superficie rimaneva sempre ugualmente immota e serena, mentre dentro ero sempre più povero e vuoto. Tutta l'energia vitale che si esprimeva ora nella sofferenza, nell'angoscia, infuriava in profondità, ma a livello di coscienza la scindevo, così che non poteva più neppure essere realmente vissuta.

Una manifestazione quanto mai singolare che illustrava la mia situazione psichica si presentò in forma di visioni che mi perseguitarono per anni interi e che fecero la loro prima comparsa poco dopo la morte di mio padre. Non si trattava di singole immagini, ma sempre di intere vicende, avvenimenti che si svolgevano senza posa, spesso in forma di storie familiari o sequenze di drammi dinastici, in cui, alla morte di una prima generazione, altre subentravano proseguendo le vecchie storie e spesso variandole e ripetendole. Non intendo qui presentare tutte le vicende o le figure più o meno romanzesche o psicologicamente interessanti di queste vicende, per dare un'eventuale interpretazione di ogni episodio o di ogni storia.

Voglio annotare di queste figure soltanto un paio di tratti che si ripetevano con più insistenza. La maggior parte erano tristi. Cioè, non erano tristi a priori, ma lo diventavano; la sofferenza sopraggiungeva e le sopraffaceva. Regolarmente una di queste figure veniva colta dalla malinconia. Spesso a causare la tristezza non erano neppure destini avversi che la figura doveva affrontare; la tristezza saliva piuttosto come una nebbia dal suolo e le avviluppava completamente. C'era in queste visioni una serie di figure maschili e femminili che all'inizio della loro vicenda erano di buon animo, senza motivo alcuno di dolore ma poi, nel corso della vita, cadevano in preda a una talvolta motivata o appena velata o anche del tutto incomprensibile malinconia, dalla quale non riuscivano più a liberarsi. Soprattutto alcune figure femminili raggiungevano in questo senso una straordinaria grandezza allegorica e mi apparivano sempre più, nella chiarezza della visione, il simbolo della pietrificazione della malinconia, figure di un impenetrabile dolore. Queste figure femminili raggiungevano nella loro immaginaria esistenza una tardissima età, non riuscivano quasi a morire e dovevano continuare a vivere come l'immagine del dolore e dell'infelicità.

Non si deve però pensare che io abbia consapevolmente creato queste visioni. Nascevano da sole e soprattutto le singole figure erano semplicemente lì, senza che io potessi farci qualcosa. Quando venivano coinvolte in drammatici conflitti talvolta riuscivo con la mia volontà a condizionare un poco il corso degli eventi e persino a decidere la sorte delle figure secondarie, se farle morire o lasciarle sopravvivere. Ma, nella maggior parte dei casi, questi eventi si evolvevano da soli e senza una mia consapevole partecipazione: un bel giorno, una di queste figure moriva - ed era finita per sempre. Non avvenne mai (come succede a tanti romanzieri che dopo aver fatto morire un personaggio, se ne pentono e lo fanno rivivere) che una figura tornasse in vita perché io ero addolorato della sua morte. Il più delle volte non morivano affatto perché io lo volevo, morivano senza alcun intervento da parte mia ed erano morte per sempre. Mi era più facile lamentare la morte di una di loro, che riuscire a farla rivivere. Allo stesso modo, non avevo il potere di ucciderle; continuavano semplicemente a vivere, che mi piacesse o no. Ma anche se mi capitava di riuscire a togliere brutalmente di mezzo una di queste figure, cioè di ucciderla veramente, non mi serviva a nulla, perché nello stesso istante ne sorgeva un'altra che portava avanti l'eredità della precedente e mi opprimeva con la stessa intensità di dolore.

In tutte queste visioni capeggiava soprattutto la figura della donna impietrita dal dolore. Il personaggio, che significativamente raggiungeva sempre una tarda età, sopravviveva sempre a tutti i suoi contemporanei e moriva per ultimo della sua epoca. Quando poi sorgeva una nuova epoca e una nuova generazione, immediatamente la figura della Grande Dolente si ripresentava. Talvolta, al principio di una nuova storia non sapevo ancora che la figura della Grande Dolente era di nuovo lì oppure non avrei saputo dire quale sarebbe stata fra le donne della nuova generazione. In ogni caso, dopo qualche tempo una delle figure ancora non ben precisate prendeva spicco sulle altre e allora sapevo: è lei. A poco a poco questa figura acquistava lo stesso alone di malinconia della precedente, anche se nel carattere era completamente diversa dall'altra. Anzi, era appunto una regola che tutte queste figure femminili fossero diverse l'una dall'altra; una sola cosa avevano tutte in comune: che alla fine diventavano sempre la personificazione stessa del dolore, per così dire la divinità del dolore.

Mentre dunque esteriormente stavo sempre "bene" e me lo sentivo ininterrottamente confermare da tutti ed ero io stesso ad affermarlo, dentro di me saliva continuamente dal profondo l'immagine del dolore nella figura sempre diversa e pur sempre uguale della donna infelice e dolente. Oggi credo che questa figura allegorica fosse l'immagine della mia stessa anima che mi si presentava in quella forma visibile per farmi capire la realtà della mia situazione o per domandarmi se non mi ero ancora accorto che si trovava in grandi ambasce e in grandissimo pericolo. Oggi mi è difficile dire quanto siano durate queste visioni, poiché questi avvenimenti interiori non si possono mettere in rapporto con il mondo esterno e con la misura del tempo, e non posso quindi dire che al momento in cui si verificava un certo evento, io avevo appunto conosciuto quella fase della visione. Credo però che questo mio stato sia durato due o tre anni, fino a quando anche l'ultimo frammento di quel mondo fu definitivamente scomparso.

Dico definitivamente perché, sebbene verso la fine di quel periodo una quantità di cosmiche apocalissi minacciassero quel piccolo universo, esso riusciva sempre a risuscitare, non voleva né poteva scomparire.

Come nella maggior parte dei casi mi era impossibile far morire una figura principale senza che subito ne sorgesse una simile a sostituirla, così questo intero mondo di visioni non accettava di lasciarsi distruggere e si rinnovava continuamente, tanto che non potei poi spiegarmene la definitiva scomparsa se non pensando che di propria iniziativa aveva voluto scomparire, sempre senza mia partecipazione o intervento; e realmente scomparve e le visioni cessarono.

Le storie di queste visioni non le ho mai scritte, e nemmeno erano intese per essere scritte. Probabilmente, se tentassi di trasporre sulla carta la sorte delle singole figure in forma di romanzo, ne verrebbe fuori la storia più noiosa del mondo perché della suggestione di cui queste visioni mi colmavano, nella forma letteraria non resterebbe più nulla. Come pittore o musicista avrei forse potuto realizzarle, in un dipinto o in una sinfonia, ma come figure da romanzo non me le posso immaginare. Mi sono accontentato di fissare in pochi appunti i tratti essenziali della sorte dei personaggi principali, per non dimenticarli.

Tutto questo mondo quindi scomparve nuovamente. Se la figura della Grande Dolente era realmente la mia anima che chiedeva aiuto, devo dire che il suo grido è rimasto inascoltato ed è alla fine ammutolito.

L'anima, per rimanere in questa immagine, era tornata in quel luogo di paura dove io respingevo tutte le mie angosce e per un certo tempo riuscii nell'impresa di mantenere in vita l'illusione della mia serenità, prima di precipitare definitivamente nell'abisso.

 

 

 

 

8.

Improvvisamente fu finita con l'eterno star bene. Due fatti singolari diedero l'avvio al mio sfacelo. Dapprima, la morte di un mio vicino di casa; il giorno precedente stava ancora benissimo e avevo chiacchierato con lui, la mattina seguente fu trovato morto nella sua poltrona. Subito seppi con certezza: la morte è in casa. La casa era stata completamente rinnovata e restaurata prima che io e i miei vicini ci venissimo ad abitare un paio di anni prima. Nella sua nuova veste, quindi, la casa non aveva ancora conosciuto la morte; prima (la casa è vecchia di secoli) tutto era stato molto diverso, così che non si poteva neppure parlare delle stesse stanze. Ma ora essa era lì, e io ebbi la sensazione che la morte, che negli anni dopo i restauri non aveva ancora potuto prendere possesso della casa, intendesse rifarsi e l'avesse ora in pugno, come aveva tutte le altre. Il giorno seguente vidi un film giallo. Il protagonista era anche l'assassino, che finge di amare appassionatamente la giovane moglie, ma invece l'ha sposata solo per il suo denaro e poco dopo le nozze l'uccide. L'uomo si mostra così sconsolatamente disperato della sua perdita, che a nessuno viene il sospetto che possa essere lui l'assassino. Dopo il delitto, l'uomo vuol sposare la donna che lo ha aiutato in quell'impresa, ma poi si rende conto che, dopotutto, sì, un po' la sua prima moglie l'aveva pur amata. Nella lite che ne consegue con l'altra donna, in un impeto d'ira contro di lei e contro se stesso, l'uomo finisce per ammazzare anche lei e poi viene accusato di omicidio. Dopo il film mi fu chiaro che l'assassino, sebbene avesse due morti sulla coscienza, fosse finito intanto in manicomio e fosse, molto probabilmente, destinato a essere giustiziato, era stato comunque un uomo infinitamente migliore e più felice di me, per la sola ragione che, dopotutto, alla prima moglie un po' di bene l'aveva voluto. Io non avevo mai voluto bene a nessuno. Mi fu subito chiaro che due assassinii non contavano niente di fronte al fatto che aveva pur voluto un po' di bene alla prima moglie (anche se poi l'aveva regolarmente ammazzata come progettato); e che nel mio caso era del tutto indifferente che io per pura combinazione non fossi un assassino, ciò che contava era solo il mio delitto, il mio non esser mai stato capace di voler bene a qualcuno.

L'assassino dello schermo era assolto, io ero condannato.

Mi accorsi che la mia vita era assai peggio di quella dell'assassino e sapevo che ora avevamo la morte in casa. Da quel momento tutto prese a precipitare.

D'un tratto non stavo più "bene". La depressione ora non era più sotterranea e rimossa, ma veniva chiaramente alla luce e ricopriva tutto ciò che fino a quel momento avevo ancora potuto illudermi mi facesse piacere. Mi accorsi che non c'era assolutamente più niente che riuscisse a farmi contento e capii anche quanto mi opprimessero molte cose di cui fino a quel momento non avevo voluto prendere coscienza, e quanto in realtà mi avessero sempre oppresso. All'improvviso, la mia immagine dell'uomo sempre sereno e soddisfatto veniva messa in dubbio; anzi, non veniva più nemmeno messa in dubbio, era già precipitata e mi giaceva davanti in frantumi. In un brevissimo spazio di tempo notai che all'improvviso tutto era di nuovo esattamente "come prima". Come prima significava però d'un tratto assai più di qualcosa di cronologico, significava piuttosto "come sempre". Mi resi conto che non era che "prima" fossi stato male e che poi le mie condizioni fossero andate lentamente migliorando nel corso degli anni, così che col tempo ero persino stato "bene"; mi accorsi che ero sempre stato male, ma che per troppo tempo non avevo voluto accettare questa realtà.

Ora accadeva sempre più spesso che quando ero a casa d'un tratto mi mettessi a sedere sul letto e recitassi i versi:  

 

"Ai, Deus, se sabe ora meu amigo, Como eu senheira estou em Vigo?"  

 

Altrettanto spesso poteva accadere che mi trovassi alla mia scrivania e senza alcuna ragione mi mettessi a riempire con le parole "tristeza" e "soledad" un foglio di carta a quadretti, senza fermarmi. Mi accadeva anche spesso di "non poterne più", come si dice tanto giustamente. La strada era troppo lunga, la scala troppo alta, la borsa della spesa troppo pesante, e tutte le cose nascondevano in sé la possibilità di rivelarsi per me un insostenibile strapazzo. Ero stanco. Esiste una teoria secondo la quale il corpo non è e neppure può mai essere stanco, ma che è soltanto lo spirito che si stanca, e che solo la stanchezza dello spirito causa la cosiddetta stanchezza fisica. Può darsi che si tratti dello stesso meccanismo per il quale si dice che colui che si lamenta perché il cattivo tempo lo deprime è quello comunque già depresso. Probabilmente il posto dove dovevo andare era davvero troppo lontano perché non volevo affatto andarci, e una cosa mi appariva troppo faticosa perché in realtà non la volevo fare. Ma la ragione per cui non la volevo fare era che nulla più mi faceva piacere.

Quasi contemporaneamente a queste manifestazioni mi si cominciò a formare nel collo un ingrossamento che per la verità non mi dava alcun fastidio perché non era dolente e quindi non supponevo avesse nulla di maligno. Non pensai neanche per un momento che potesse essere un cancro, e quando vidi che non voleva andarsene, e anzi diventava sempre più grosso, lo feci esaminare dai medici, senza lontanamente immaginare che potesse trattarsi di qualcosa di grave. Di come stessero le cose in realtà non avevo ancora idea. Da un lato non capivo assolutamente nulla di medicina, e dall'altro, per mia vecchia abitudine, non volevo vedere che la cosa potesse anche essere davvero grave. Sebbene non sapessi ancora di avere un cancro, per intuizione avevo già fatto la diagnosi giusta, perché subito intesi il tumore come "lacrime non piante". Era come se tutte le lacrime che non avevo voluto, che non ero stato capace di piangere, mi si fossero raccolte nel collo e avessero formato questo tumore, solo perché non avevano potuto assolvere il loro compito, che era quello di essere piante. Dal punto di vista puramente medico questa diagnosi così poetica non ha naturalmente alcuna validità; ma riferita a tutta la persona esprime la verità: tutta la sofferenza che avevo accumulato dentro, il dolore che avevo ingoiato in tanti anni, d'un tratto non si lasciava più comprimere nel mio intimo; per la troppa pressione esplodeva e con la sua esplosione distruggeva il corpo.

Questa spiegazione del cancro appare già chiara e lampante perché praticamente non ne esiste un'altra. In effetti i medici sanno una quantità di cose sul cancro, ma che cosa sia in realtà, non lo sanno.

Io credo che il cancro sia una malattia psichica dovuta al fatto che l'individuo che ingoia tutta la sua sofferenza, dopo un certo tempo viene a sua volta ingoiato dal dolore che è dentro di lui. E poiché questo individuo in sostanza si autodistrugge, anche i trattamenti terapeutici nella maggior parte dei casi non servono a nulla. Come uno si stanca eccessivamente per fare una strada che in realtà non vuol fare, e come una borsa della spesa appare sproporzionatamente pesante perché non la si vuol portare, così il corpo distrugge esso stesso la vita umana quando questa vita non la vuol più vivere.

Quando l'inverno fu passato, senza che i medici avessero capito di che natura era il mio tumore, fu deciso di operare, asportare il tumore ed esaminarne la natura. Prima dell'imminente operazione non pensavo a nulla di grave, ma ero fermamente convinto che l'operazione fosse per me qualcosa di molto necessario, e vi collegavo indistinte speranze.

Era la mia prima operazione e la mia prima narcosi e vi vedevo un simbolo di morte e di rinascita. In maniera molto indefinita speravo che nella narcosi avrei sofferto una morte simbolica dalla quale sarei potuto risuscitare a una vita migliore, più felice. Anche se non me la sono cavata così a buon mercato, e quella semplice operazione non poté portarmi né la morte né una rinascita, tuttavia la mia speranza era giusta, in un certo senso, in quanto dentro di me sentivo di avere un infinito bisogno di questa morte e di questa rinascita. Intuivo di essere maturo per la morte e che la mia migliore speranza poteva solo essere quella di trovare forse, attraverso una morte simbolica, la strada per una vita nuova e migliore.

L'intervento si svolse senza fatica e senza dolore. Dopo gli ulteriori esami necessari e i primi abituali tentativi dei medici di occultare la natura del male, scoprii ben presto da solo, da autodidatta, di avere un cancro.

Giacché in tutte le mie riflessioni fino a quel momento la parola "cancro" non era ancora comparsa, il nome stesso della malattia e il fatto di essere io ad averla mi procurarono un piccolo choc. Non ne fui sconvolto, costernato e nemmeno terribilmente sorpreso o, come si dice volentieri in questi casi "come colpito dalla folgore", ma le mie prime parole di fronte a questa nuova realtà furono: naturalmente. Mi apparve subito chiarissimo che avevo un cancro, lo trovai subito logico e giusto; dovevo ammettere che era così, che doveva accadere, e che in fondo lo avevo anche aspettato. Cioè, non avevo espressamente aspettato proprio un cancro. Ma quando il cancro fu definitivamente esploso, compresi che esso corrispondeva esattamente alla forma e alla natura di ciò che avevo aspettato. Sapevo che non mi ero ammalato di cancro per caso proprio in quell'inverno, ma che ero già malato da molti, moltissimi anni e che il cancro era solo l'ultimo anello di una lunga catena, o, se si preferisce: la punta emergente dell'iceberg.

La cosa terribile che mi aveva tormentato per tutta la vita senza avere un nome, ora ne aveva finalmente uno; e nessuno vorrà negare che una cosa terribile che si conosce è meglio di una cosa terribile che non si conosce. Nella antiche formule magiche il demonio viene spesso esorcizzato chiamandolo per nome.

Nel caso del cancro le cose non stanno molto diversamente, nessuno osa pronunciarne il nome: non c'è da stupirsi che finora non lo si sia potuto vincere. Non ho ancora trovato un medico che abbia pronunciato la parola "cancro". E poiché i medici non osano chiamare il diavolo con il suo nome, naturalmente non riescono neppure a esorcizzarlo. I pazienti vengono continuamente operati, irradiati, rimpinzati di medicine, ma manca la parte più importante della terapia. E' noto che anche l'ultimo sciroppo per la tosse e la più insignificante pastiglia possono servire soltanto quando il paziente crede nella loro efficacia; quando il paziente ci crede, allora gli si può somministrare anche una pastiglia di amido e guarisce. Ma in tutte le terapie contro il cancro il mondo medico si rinchiude nel silenzio, il paziente perde ogni fiducia nell'efficacia del trattamento e di conseguenza non può guarire. Ma non solo i medici non parlano del cancro, nessuno lo fa. La parola è tabù. I miei poveri genitori avrebbero detto che è una cosa "difficile". In questo modo il malato di cancro è condannato a disperare completamente e a morire della sua stessa disperazione.

Per questo sono convinto che il cancro sia prima di tutto una malattia psichica e che le diverse manifestazioni tumorali siano da considerare solo aspetti somatici secondari del male, perché il cancro in realtà ha veramente tutte le caratteristiche di una malattia psichica. Di avere un raffreddore o l'influenza si può parlare, ma di essere depresso è meglio non parlare. (Io credo che la gente prenda il raffreddore anche perché così almeno può finalmente lamentarsi senza contravvenire alle regole della buona educazione.)

Anche qui, una volta di più, credo di essermi comportato in modo molto conforme alle regole e conforme al cancro. Sono stato infelice tutta la vita e per tutta la vita non ho mai detto una parola, per la convinzione che mi veniva dalla buona educazione, che parlare di una cosa simile "non stava bene". Nel mondo in cui ho vissuto sapevo, per tradizione, che per niente al mondo era lecito disturbare o dare nell'occhio. Sapevo di dover essere corretto, conforme alle buone regole e soprattutto normale. Da come io però la intendevo la normalità consisteva nel non dire la verità, ma essere gentili. Per tutta la vita sono stato gentile e sono stato buono e per questo mi è anche venuto il cancro. Ed è giusto che sia così. Trovo che qualcuno che per tutta la vita è sempre stato buono e gentile non merita altro che di avere un cancro. Non è che la giusta punizione.

Anche adesso avrei avuto ancora la possibilità di essere buono e gentile e andare in rovina in silenzio, senza scalpore. Questa sorte mi è stata però in un certo senso risparmiata quando nella mia malattia, il famoso e tuttavia mai menzionato cancro, diabolico appunto, di cui di norma dopo non molto tempo si muore, ho intravisto una forma di morte e di resurrezione, in cui però naturalmente la morte non è più soltanto simbolica, ma è da intendersi come del tutto concreta. La minaccia della morte mi ha fatto venire in mente che forse, nel caso mi fosse stato dato di sfuggire alla morte, avrei finalmente avuto una chance per una autentica resurrezione, e cioè la resurrezione a una vita davvero nuova, che forse non sarebbe stata più così tormentata come la precedente. Ho scritto più sopra che trovarmi confrontato con il cancro è stato per me solo un piccolo choc, dal momento che in tutta la mia esistenza non avevo conosciuto altro che il cancro dello spirito; ma evidentemente lo choc era stato sufficientemente grande per strapparmi alla mia rassegnazione e per lo meno per portare alla coscienza che la mia vita era insopportabile. Se è possibile definire il cancro un'idea, allora vorrei affermare che la migliore idea che io abbia mai avuto è stata quella di farmi venire un cancro; credo sia stato l'unico mezzo ancora possibile per liberarmi dalla disgrazia della mia rassegnazione. E' chiaro che con questo non voglio ora dire che il cancro in se stesso sia una cosa bella. E' certamente una disgrazia e porta con sé molta sofferenza. Ma nel mio caso devo constatare che questa disgrazia è meno pesante da sopportare della disgrazia che mi hanno portato i primi trent'anni della mia esistenza. Probabilmente nessuno è molto felice di avere un cancro, e neppure io lo sono; ma sono soltanto un po' meno infelice di quando ufficialmente non avevo ancora il cancro - all'infuori del cancro dello spirito che mi è stato trasmesso per tradizione familiare.

 

 

 

 

9.

Così in fretta però il mio esser-meno-infelice non si doveva verificare, perché prima di patire la morte concreta dovevo ancora conoscere quella simbolica. Quando, cioè, con le mie riflessioni fui arrivato al punto di intendere l'esplosione acuta del male come il primo passo di un possibile processo di morte e di rinascita, andai dallo psicoterapeuta che già avevo conosciuto negli anni precedenti, per discutere con lui la validità o meno di questa idea. Sebbene in quei primi colloqui non avessi pensato alla eventualità di una psicoterapia vera e propria, dopo alcune consultazioni nacque un rapporto psicoanalitico e l'idea di morte e rinascita si tradusse in azione.

Ora dovrebbe naturalmente seguire la parte più interessante di questo racconto, cioè la narrazione della mia psicoterapia. Ma è proprio ciò che non voglio scrivere. Non solo perché la terapia non è ancora conclusa - o forse non è neppure riuscita; ma perché non posso aspettare a fissare i miei ricordi fino a che la terapia sia davvero conclusa; in questo momento non posso ancora sapere se la terapia avrà tempo di concludersi prima che io muoia di cancro. Poiché però queste pagine le voglio scrivere comunque, devo farlo fintanto che sono ancora in vita; e quindi, essendo per il momento ancora in vita, questo resoconto lo devo scrivere ora, anche se la terapia non è finita e l'analista non mi ha ancora licenziato come "guarito".

L'impedimento più grande, però, è un altro; mi pare cioè troppo difficile tradurre questo rapporto terapeutico in parola scritta. Sono infatti perfettamente in grado di descrivere i miei ricordi di tempi lontani per quanto mi è dato riviverli nel presente e posso dire: è stato così e così, e oggi in proposito penso questo e quest'altro.

Posso anche mettere sulla carta i miei pensieri e le mie considerazioni di oggi, ma mi appare assolutamente impossibile descrivere i vissuti di una trasformazione interiore - soprattutto dato che si tratta di vissuti miei, dai quali non ho ovviamente il necessario distacco - così che non posso dire: ecco, ora si compie in me questa o quest'altra trasformazione, adesso sono in questa o in quest'altra fase. E' possibile, e mi sembra persino assai probabile, che nel corso della psicoterapia io abbia compiuto fin qui ogni sorta di trasformazioni e sia passato attraverso tutte le diverse fasi (anche ora sicuramente mi trovo in una fase; presumibilmente si è sempre in qualche fase e forse non si riesce a venirne fuori senza tutte queste fasi); ma non mi è possibile affermare che ieri ho superato la fase tale, oggi la fase talaltra (se non voglio cadere nell'errore di quella studentessa di portoghese che disse che in Brasile il romanticismo aveva avuto inizio un 17 luglio).

Voglio quindi evitare la descrizione della mia psicoterapia. Da principio, del resto, essa mi portò solo momenti difficili e cose sgradevoli, perché tutti i ricordi che qui ho potuto scrivere con tanta disinvoltura, dovettero prima essere riportati alla luce nel corso della terapia stessa; dovette quindi venire alla luce la consapevolezza di come stavano le cose in realtà: in effetti io nella mia giovinezza non avevo affatto avuto, come chiunque altro, dei "problemi" o delle "difficoltà scolastiche", non avevo all'inizio degli studi sofferto di "problemi di adattamento" o di "difficoltà di contatto" o di altre cose sempre nell'ordine della norma. Non avevo avuto "difficoltà di contatto" ma avevo vissuto tutta la mia esistenza in una totale assenza di rapporti. All'università non avevo avuto "difficoltà iniziali", diminuite poi quando avevo conosciuto molti altri studenti, ma anzi, avevo sempre avuto le stesse difficoltà, dal primo all'ultimo giorno. Non ero stato "talvolta anche solo", ma anzi, per quanto posso ricordare, avevo sempre e ininterrottamente sofferto di solitudine. Non avevo avuto "difficoltà con le donne" o magari "problemi sessuali"; non avevo assolutamente mai avuto alcun rapporto con le donne e tutta la mia vita era un unico, irrisolto problema sessuale. Non avevo avuto un "amore infelice" che poi era "finito male" perché la donna s'era messa con un altro, ma anzi, non ero assolutamente mai stato innamorato e non avevo la più pallida idea di che cosa fosse l'amore; era un sentimento che non conoscevo, come non conoscevo quasi nessun altro sentimento. Il mio problema era tutt'altro che "difficoltà con le donne", era piuttosto la totale impotenza psichica. Non ero stato in gioventù "spesso infelice" o "talvolta infelice", ma da almeno quindici anni, e forse anche più, avevo senza interruzione sofferto di depressione. Si scoprì così che la mia cosiddetta "infanzia felice" era stata un'invenzione da parte mia, alla quale però in buona parte avevo io stesso creduto. Si scoprì che anche la mia ultima carta vincente era stata un fiasco: non ero "normale" come avevo continuato a ripetermi quando la somma delle discordanze della mia vita minacciava di soffocarmi. Le mie sofferenze non erano le solite pietre di cui è disseminato il cammino di ogni giovane, ma erano, appunto, anormali, quale che sia il significato che si può dare al termine "anormale".

In altre parole: venne fuori che non solo stavo da cani, ma che ero sempre stato da cani e che portavo in me tutti i requisiti per continuare a stare da cani anche in futuro. Mi vedevo quindi posto di fronte al dato di realtà di non essere "normale" anche se quando si dice "normale" subito ci si pone la domanda, che cosa sia "normale" e, soprattutto, che cosa sia "anormale". Nel mio caso significava prima di tutto che la mia vita già molto presto, probabilmente nella primissima infanzia, aveva preso una direzione che appunto non era normale. Il risultato di questo errore di impostazione, di questa stortura iniziale era stato che io non avevo avuto quell'evoluzione che da bambini prima e poi da ragazzi, bisogna avere, non avevo percorso il cammino che percorre ogni giovane, o lo avevo fatto solo in maniera molto imperfetta rimanendo in un certo senso atrofizzato.

Questa atrofia e queste deformazioni iniziali costituivano appunto la mia anormalità.

Non si poteva però neanche affermare che fossi "matto", così come di solito ci si immagina un matto, uno che ha delle allucinazioni o compie gesti insensati. La mia intelligenza evidentemente era stata risparmiata e non si era così distorta; non sono particolarmente intelligente, ma neppure particolarmente stupido; si può quindi dire che la mia intelligenza sia "normale". Il fatto che io abbia studiato all'università naturalmente non dice niente sulla mia intelligenza.

Per sostenere un esame di maturità, come si sa, non occorre essere particolarmente intelligenti, nella maggior parte dei casi basta avere un padre ricco. Per lo studio alla facoltà di lettere e filosofia poi, meno che mai ci vuole vera intelligenza; al contrario, essa è piuttosto di danno. In realtà filosofia è la facoltà che scelgono solo coloro che non sanno che altro potrebbero fare di intelligente (il che di per sé non è certo una prova di intelligenza).

Anche la capacità pratica di muovermi nella vita non mi è realmente mancata. Dopotutto ho insegnato per parecchi anni in un pubblico liceo, senza che la mia presenza di "anormale" fra gli insegnanti si rivelasse insostenibile. Resta da vedere fino a qual punto questa attività di insegnante debba essere valutata soddisfacente o insoddisfacente; sicuramente però non va oltre i limiti della norma.

Malato di mente nel senso classico dunque non ero; non ero uno schizofrenico ed ero perfettamente in grado di distinguere le cose reali da quelle irreali. Per quanto riguarda le visioni che ho avuto un paio di anni fa, mi sono sempre reso perfettamente conto di quanto di esse fosse frutto della mia fantasia e quanto invece andasse oltre.

Il male ovviamente era a un livello del tutto diverso, era nel campo che si potrebbe definire dell'"umano", o più semplicemente nel campo emotivo. L'intelligenza era intatta e non aveva subìto danni, ma tutto il mio mondo emotivo era distorto e malato. Non ero in grado di provare sentimenti, soprattutto verso altre persone, non ero capace di amare nessuno. Soffrivo moltissimo della mia solitudine, ma non avevo la capacità di vincerla, perché non potevo propormi e tanto meno impormi di amare qualcuno. Non potevo formulare il buon proposito: da domani vorrò bene al tale o al talaltro. Non ci si può proporre di voler bene a qualcuno, come non ci si può proporre di essere intelligenti. Capita, piuttosto, capita semplicemente di voler bene a qualcuno. A me però non poteva capitare perché mi mancava addirittura la capacità di avvertire una reazione affettiva. A un idiota non si può comandare di capire che due più due fa quattro. Nel caso la carenza intellettiva sia tale da impedirgli la comprensione di questo elementare dato di fatto, non gli può capitare per puro caso di capire che due più due fa davvero quattro, così che non gli può accadere di esclamare d'un tratto: "Oh, guarda, adesso l'ho capito!".

Nel mio caso si doveva evidentemente parlare di una forma di idiozia emotiva. Una carenza che mi impediva di pensare: aha, voglio bene a questa o a quella persona. Non volevo bene a nessuno semplicemente perché non ne ero capace. Non mi era quindi possibile entrare in contatto emotivo con il mondo esterno. Potevo muovermici da cittadino ben educato, senza sollevare scalpore come fa un "matto", ma potevo continuare a muovermici solo come un corpo estraneo, del tutto privo di contatti.

Stando al vocabolario, soffrivo perciò non di quella malattia psichica che, in senso ristretto, va sotto il nome di psicosi, ma piuttosto di una nevrosi, che si definisce più come disturbo psichico che come malattia mentale. Ero dunque solo un nevrotico e non uno psicotico e dopotutto questo era già da considerarsi come un vantaggio. Nella nevrosi si distingue fra forme gravi e forme lievi, e la mia era senza dubbio una forma grave. La cosa a questo punto è perfettamente chiara, perché è nella natura della nevrosi causare anche ogni sorta di disturbi organici; e dato che la mia nevrosi aveva causato un disturbo organico tanto grave come il cancro, doveva per forza essere una forma molto grave.

Ora capisco molte cose. Certo, non ero matto al punto che la mia vita psichica ne fosse danneggiata nella sua globalità, e per questo nel corso della mia esistenza mi era anche stato possibile dimostrare di essere, in molte cose, appunto normale. In molti campi avevo senz'altro potuto sostenere il confronto con altre persone: per esempio non ero confuso e perciò, in questo senso, ero certo più normale di certi tipi balordi con cui mi ero trovato a confrontarmi; non ero neppure isterico e perciò, in confronto a un isterico, mi ero sempre comportato in modo normale. In altre parole: nella mia mania di confrontarmi continuamente con altre persone, mi ero sempre confrontato con loro nel campo nel quale sapevo di cavarmela meglio e di non essere in svantaggio. Ora naturalmente capivo quanto questo mio comportamento fosse assurdo. In moltissime occasioni avevo potuto constatare che c'erano persone più stupide, più scombinate, più inette, più confuse di me e di qui avevo tratto la conclusione che in tal caso non potevo assolutamente pensare di essere anormale. Sulla stesura della mia tesi di laurea, per esempio, non aveva minimamente influito il fatto che la mia vita emotiva fosse più o meno distrutta, il fatto che nel periodo in cui la preparavo io avessi vissuto psicologicamente in un vero deserto non aveva nulla a che vedere con la validità scientifica della mia dissertazione, e il professore non aveva dovuto decidere se il laureando aveva una vita psichica sana o malata, ma soltanto se la dissertazione era ben fatta o no. Anche più tardi, da insegnante, il mio compito non era di dimostrare ai miei allievi di essere psichicamente equilibrato, ma di insegnare loro le regole del congiuntivo spagnolo e le regole del congiuntivo spagnolo le potevano apprendere benissimo sia da un insegnante nevrotico che da uno emotivamente normale.

Ma ora, d'un tratto, non ero più quel disperato "normale" che ero stato per trent'anni e che aveva continuato a chiedersi angosciato: ma perché, perché per me dev'essere tutto tanto terribile, se sono normale? La domanda tormentosa e senza risposta ora era d'improvviso scomparsa: ora sapevo perché niente aveva mai funzionato e perché la mia vita era sempre stata un tale tormento. A questo punto naturalmente si può anche obiettare che la parola "nevrosi" è pur sempre soltanto una parola e in sé non dice molto, dopotutto. A questa obiezione posso rispondere che invece dice molto, moltissimo: avevo perduto l'illusione di essere "normale", ma avevo anche compreso che in molti aspetti della vita potevo effettivamente essere normale, senza lasciarmi dominare dal terrore di essere anormale anche in quello.

Ciò che ho detto per il cancro vale anche per la nevrosi. Anche la nevrosi non è una bella cosa e porta con sé molta sofferenza; ma anche se non si tratta di un male fisico, bensì di una malattia psichica, sapere di che cosa si soffre è per il paziente un conforto piuttosto che un ulteriore aggravio della sofferenza.

Questo fu dunque il primo risultato della mia psicoterapia: ero nevrotico, e più precisamente non lo ero da poco tempo, ma da molti anni, forse da tutta la vita. Questa consapevolezza portava con sé una conseguenza molto triste: la mia vita era stata tutta sbagliata. Fin dalla mia primissima giovinezza tutte le mie azioni e le mie decisioni non erano state dettate in primo luogo da un normale, sano buon senso, ma appunto da una psiche altamente disturbata.

La cosa di cui dovevo convincermi era questa: per tutta la mia giovinezza era stato " matto", nel senso che ho detto sopra. Quindi per una vita normale o forse persino felice la mia giovinezza era ormai irrimediabilmente perduta. Adesso non ero ancora un vecchio, ma non ero più neppure un ragazzo e dovevo accettare l'idea che nei primi trent'anni della mia esistenza non avevo vissuto quella che comunemente si chiama la "giovinezza", ma avevo al contrario patito una sofferenza psichica che mi aveva reso impossibile essere giovane.

Inoltre dovevo rendermi conto che questa sofferenza psichica aveva talmente indebolito il mio organismo, che ora avevo un cancro e che di questo cancro, con tutta probabilità, avrei dovuto morire in breve tempo; dovevo quindi prepararmi all'idea che avrei potuto anche morire prima di essere guarito della mia malattia psichica. In altre parole: si dava per me la possibilità che fosse ormai troppo tardi e che avrei potuto morire della mia malattia psichica e delle sue conseguenze organiche senza aver mai conosciuto che cos'è la vita per un individuo NON psichicamente malato.

Nello stesso tempo dovevo accettare l'idea che la mia vita era stata fino a quel momento un fallimento nel senso più ampio del termine: non ero più il bambino felice che veniva da una famiglia felice, da una buona situazione e da un ambiente sano. Anche se da bambino e da ragazzo potevo non essermene reso conto, l'ambiente nel quale avevo vissuto era tutt'altro che buono e sano. Non è ora neppure il caso di discutere se io, da quello stesso bambino che ero, con altri genitori sarei potuto essere felice, o se con un altro carattere e con i miei stessi genitori sarei stato diverso o migliore, oppure se io come figlio in una diversa classe sociale avrei avuto migliori prospettive (tutte domande peraltro assolutamente oziose). Una cosa era chiara: dato il bambino che ero stato, con i genitori e il carattere che avevo avuto e nella classe sociale nella quale ero cresciuto, non ero diventato un individuo sano e felice, ma un nevrotico malato di cancro. Qui non è neppure necessario stare a giudicare di chi è stata la colpa: se del mio carattere o dei miei genitori e della società borghese; forse nessuno porta veramente la colpa o forse la colpa è di tutti. Ora non si trattava più tanto del problema delle responsabilità e dell'origine di tutta la mia infelicità, quanto assai più del risultato: cioè un essere umano distrutto sistematicamente e con estrema coerenza fin dalla prima giovinezza; e ora le conseguenze di questa distruzione stavano sul lettino dello psicoterapeuta e aspettavano ciò che avrebbe dovuto accadere. E questo essere umano distrutto ero io.

Una prima conseguenza di questa nuova consapevolezza fu una sensazione tremenda di abbandono, di isolamento. D'improvviso sentivo che non vi era più luogo al mondo dove potessi sentirmi a "casa mia" e proprio questo, di trovarmi in un guscio protettivo come quello del famoso paguro, era stato il bisogno più profondo di tutta la mia vita. Non avevo patria, non avevo casa, non c'era luogo al quale tornare. Nella vita che avevo vissuto prima non mi ero mai sentito al mio posto e meno che mai mi sentivo al mio posto nella mia vita attuale. Da una piena di sensazioni dapprima contraddittorie, si andava delineando in me sempre più la certezza di non poter odiare i miei genitori, il luogo delle mie origini, il mio paese ma, invece di questo, mi nasceva dentro piuttosto un senso profondo di estraneità. Da mio padre, che ora è morto, mi veniva l'impressione che fosse morto da sempre, che addirittura non fosse mai vissuto. La tomba di mio padre si trova a K. e quando lo vado a trovare è sempre come se dovessi dirmi: "Guarda, guarda! Lì è sepolto un tale che ha portato il mio stesso nome. Che caso strano!". Mia madre vive ancora e la vedo di tanto in tanto.

Trovo che è una garbata vecchia signora come sono appunto le garbate vecchie signore della costa d'oro di Zurigo; ma se penso che sono imparentato con questa garbata vecchia signora, il pensiero mi appare assurdo, direi quasi ridicolo. Nello stesso modo potrei essere imparentato anche con l'imperatore della Cina. Trovo mia madre simpatica, ma l'idea che sia mia madre mi pare soltanto strana. Anche la casa in cui mia madre vive, anche lì vado ogni tanto; è una grande villa in splendida posizione, con la vista sul lago e molte, molte stanze. Questa splendida villa è la mia casa paterna. Di questo mi rendo perfettamente conto, ma l'espressione "casa paterna" mi appare ugualmente assurda.

Fra gli aspetti positivi che quasi ogni malattia, e quindi anche la nevrosi, porta con sé, c'è però certamente anche l'idea della guarigione. Probabilmente ogni malato spera di poter guarire dalla propria malattia, e con ciò ha davanti agli occhi, più o meno chiaramente, un desiderio che è anche una meta. Ma per me una meta in questo senso era una novità. Al tempo in cui cercavo ancora di convincermi di essere normale, potevo sempre dirmi soltanto che, in fondo, "tutto era a posto", anche se niente era a posto. Ma sperare che un giorno le cose potessero essere migliori, diverse dal mio "tutto a posto" tenuto insieme con tanta fatica, allora non mi era possibile. Ora invece niente più era "a posto"; ero fisicamente e psichicamente gravemente malato e chiaramente minacciato dalla morte.

Ma poiché tanto il cancro che la nevrosi sono, almeno in qualche caso, anche guaribili, mi si apriva davanti la possibilità che anche per me la situazione potesse un giorno migliorare; nasceva il pensiero che questo tempo di dolore sarebbe anche potuto finire e che sarebbe venuto un giorno in cui non sarei più stato malato.

Se però ero stato psichicamente malato tutta la vita, e se teoricamente esisteva ora per me la possibilità di una guarigione, ciò significava che potevo essere liberato dalla sofferenza che mi ero trascinato appresso per trent'anni e che avevo imparato a vedere come reale contenuto, la sostanza stessa della mia esistenza; voleva dire che il tormento che avevo vissuto per trent'anni della mia vita non era affatto la mia vera vita, ma soltanto l'elemento patologico che aveva distrutto la mia esistenza; voleva dire che mi si apriva davanti la possibilità di esistere, che forse la vita mi stava ancora dinanzi e che avrei potuto magari anche risvegliarmi dall'incubo nel quale ero finora vissuto. Se la mia sofferenza era nevrotica e se una nevrosi può essere guarita, questo poteva solo significare che io forse avrei potuto anche conoscere un giorno l'assenza di questa sofferenza.

Forse. Mi rendevo perfettamente conto che questo avveniristico sogno era molto più una eventualità che una reale certezza. Per il momento nulla faceva pensare che avrei vissuto questo ipotetico futuro. Il cancro, che da principio si era manifestato in quel tumore alla gola le "lacrime non piante" - si era nel frattempo esteso e le mie speranze, dal punto di vista clinico, erano di molto diminuite. Per il momento comunque i medici non mi avevano ancora dato per spacciato; sapevo però che il male era molto progredito. Compresi anche che i medici combattevano con successo il male in una determinata parte del corpo, ma poi il cancro ricompariva in un punto diverso e aveva così sempre una lunghezza di vantaggio sui medici. Intuivo che i medici da soli non ce l'avrebbero fatta ad aiutarmi e che potevo salvarmi soltanto se l'intero organismo, anima e corpo insieme, avesse potuto formare tanta resistenza da opporsi e vincere il male. Altrettanto mi era chiaro che l'anima per il momento non era, a quanto pare, ancora in grado di offrire la minima resistenza, perché era ancor più malata del corpo; e che lo stato del corpo si aggravava prima che l'anima potesse far qualcosa per aiutarlo.

Le chances di sopravvivenza quindi non erano molte. Per il momento non potevo neppure dire che la psicoterapia mi avesse reso tanto più felice. Al contrario, fino ad ora aveva avuto il solo compito di mandare in frantumi la mia esistenza fino allora vissuta, o per meglio dire, quella che io avevo fino allora ritenuto la mia esistenza, e questo processo non era certo il più adatto a darmi serenità, ma piuttosto non poteva che aggravare la depressione.

Quel primo anno di psicoterapia divenne quindi l'anno più terribile della mia vita, perché prima di poter creare qualcosa di nuovo essa doveva distruggere tutto quanto vi era di vecchio in me. E il vecchio ANDO' realmente in pezzi. La mia idea, da principio solo vaga, di dover vivere la morte prima di poter pensare a una rinascita, si realizzò in quel primo anno di psicoterapia a tal punto che nel corso di quell'anno, fra spaventose angosce e sofferenze, conobbi veramente la morte, cioè la morte del mio io di allora. Alla fine questo io fu completamente e definitivamente morto e in effetti non ne rimase più traccia. Ciò che me ne rimase fu soltanto un mucchietto di sofferenza che ora doveva aspettare di rinascere, non so come né quando né in che forma. L'idea di una rinascita per la verità appariva un po' strana, perché per il momento i medici avevano tutti ininterrottamente il loro da fare a irradiarmi, a operare, a esaminare, e a rimpinzarmi di medicine, solo perché quella piccolissima porzione di vita che ancora era rimasta in me non gli scivolasse dalle dita e la morte simbolica, cui ho più sopra accennato, non si trasformasse in una banalissima concreta morte per cancro.

Piano piano però si verificò una cosa strana, qualcosa di forse già sperato, forse anche persino atteso, ma tuttavia pur sempre strano: un bel giorno la depressione non ci fu più. Non posso dire: il tal giorno scomparve; ma lentamente mi resi conto che era davvero scomparsa e non tornava. Non voglio con questo affermare di essermi sentito molto più felice; ma questo nuovo stato era comunque, lo sentivo, da preferire per molti aspetti al precedente. Forse lo si può esprimere così: ero cioè sì infelice, ma non mi capitava più di sentirmi affiorare alle labbra senza che lo volessi i versi:  

 

"Ai, Deus, se sabe ora meu amigo, Como eu senheira estou em Vigo?"  

  e neppure mi ritrovavo più seduto alla mia scrivania a scrivere per ore e ore la parola "tristeza" per dritto e per traverso su un foglio di carta a quadretti. Un'altra differenza era questa: in un certo senso reagivo alle cose in una maniera che si potrebbe certo definire "più logica", voglio dire, quando per esempio vedevo un film comico, ora mi capitava di ridere PERCHE' era buffo e non, come prima, di piangere SEBBENE fosse buffo. Nonostante mi sentissi ancora solo, lo ero quando ero veramente senza compagnia, e non SEBBENE fossi in mezzo alla gente. Avevo anche raggiunto una certa capacità di sentirmi contento di qualche cosa. C'erano cose che riuscivano persino a rallegrarmi. Parlando in senso generico, si potrebbe dire che ora erano molte di più le cose che avvertivo come gradevoli, e anche le cose sgradevoli cominciavo a sentirle tali solo nella loro reale dimensione. Prima tutto era stato "semplicemente così" e sempre genericamente opprimente: ero depresso SEBBENE piovesse e SEBBENE ci fosse il sole. Ora cominciavo a essere capace di sentirmi contento PERCHE' c'era il sole e di arrabbiarmi PERCHE' pioveva. Se prima dunque nulla aveva potuto aiutarmi quando il tempo piovoso si trasformava in bel tempo, perché la depressione sussisteva appunto malgrado il sole, ora il mio malumore per la pioggia spariva in maniera del tutto naturale quando non pioveva più. Sotto molti aspetti dovetti constatare che la parola "normale" era più di un semplice concetto astratto e che in molti casi cominciavo a reagire in maniera molto più "normale" di quanto avessi fatto prima.

Imparai anche ad apprezzare un altro aspetto della mia personalità, cioè quello divertente. Per tutta la vita sono stato considerato la persona tradizionalmente divertente, e l'allegria era spesso l'etichetta che mi appiccicavo addosso o la bandiera sotto cui militavo. Ora comprendevo che la mia allegria in molti casi non era stata che l'involucro di cui ricoprivo la mia tristezza. Di cose tristi o anche soltanto di cose serie non ero mai stato capace di parlare, perché la tristezza che mi portavo dentro era così enorme che, se mi fossi permesso di aprire le chiuse che trattenevano la massa impetuosa della disperazione che mi urgeva dentro, il mio linguaggio avrebbe travalicato di molto i confini di ogni discorso convenzionale. Per questo mi ero difeso ribaltando sempre tutto automaticamente in allegria o addirittura nel ridicolo, per sfuggire quanto più possibile all'angoscia che mi minacciava. La mia eterna allegria era stata quindi il più delle volte tutt'altro che spontanea, ma piuttosto il risultato dello sforzo sempre più disperato, sempre più prolungato di dilazionare ancora un poco nel tempo la catastrofe che incombeva su di me. Perciò mi ero sempre sentito in dovere di diffondere intorno a me allegria - e ci ero anche riuscito - ma c'era un particolare che fino allora non mi ero mai dato la briga di analizzare più da vicino: riuscivo a far ridere chiunque, ma io non ridevo mai.

Ora dovevo valutare la mia allegria sotto un nuovo punto di vista e venire alla conclusione che la maggior parte della mia allegria di un tempo era stata soltanto un bluff. Credo cioè di possedere veramente il talento di dire o scrivere cose divertenti e penso che questo talento, come ogni talento, sia indubbiamente da valutare positivamente. Soltanto che era sbagliato trarne la conclusione che io fossi per questo un uomo allegro. Tanto poco ero normale, semplicemente perché non mi comportavo poi in modo tanto anormale, altrettanto poco ero una persona allegra e spensierata solo perché spesso mi capitava di dire cose divertenti. Un pittore che dipinge sempre belle donne non deve per questo necessariamente essere un bell'uomo. Così dovetti seppellire il mio figliolino prediletto, cioè l'illusione di essere un uomo allegro.

Ma per tornare al tema dell'inferiorità, ora non si poteva più negare che io sotto certi aspetti fossi realmente inferiore, non sotto tutti, ma certo in uno almeno molto importante, forse persino il più importante. Non si poteva più negare che in fondo avevo avuto perfettamente ragione nel sentirmi in linea di massima in tutto e per tutto sempre un escluso, nel sentire che tutto ciò che la vita mi aveva finora offerto erano state in fondo solo cose secondarie, che non potevano in nulla modificare la grande verità, e cioè che mi era sempre mancata la cosa più importante della vita. Una volta che fui arrivato al punto di pronunciare le parole "la cosa più importante", fu anche subito chiaro che cosa era questa cosa "più importante": l'amore, naturalmente. Questo per me non era peraltro una cosa nuova, perché lo avevo sempre saputo e chiunque mi abbia letto sin qui, fin dalla prima pagina sa in che cosa consisteva la mia malattia.

Eppure per me era davvero una cosa nuova. Ho in queste pagine ripetutamente parlato del non-sapere e del non-voler-sapere e ho anche detto che, quando si viene a sapere una cosa nuova, prima di poter veramente dire di saperla, bisogna averla voluta sapere. Per tutta la vita io avevo sempre cianciato di "difficoltà in amore" senza confessarmi che avrei anche potuto semplicemente dire che ero distrutto e morivo per mancanza di amore. Quando uno muore di fame, non si usa dire che alla fine della sua esistenza ha avuto "difficoltà di alimentazione", si dice semplicemente che è morto di fame. Quando di me stesso dicevo di avere "difficoltà in amore" l'espressione valeva quanto quella di uno che avesse detto di avere "difficoltà di forma" perché era finito sotto un rullo compressore.

Non avevo altra scelta che ammettere di non aver avuto le cosiddette "difficoltà", ma di aver completamente fallito nella cosa più importante dell'esistenza umana, e che però non sopportavo questa carenza così essenziale e per questo ero diventato matto (o appunto nevrotico, tanto per usare questo tanto più ben educato eufemismo), e che questa mia follia aveva poi messo in moto il cancro che era ora in procinto di distruggere il mio organismo.

Che cos'è l'amore, non occorre stia ora a spiegarlo. D'altro canto il vocabolo amore da duemila anni in qua è stato tanto usato a sproposito e strapazzato e gettato nel fango da quella infausta setta che ancor oggi gode fama di essere la principale religione del cosiddetto Occidente, che in verità non dovrebbe far meraviglia che al giorno d'oggi più nessun abitante di questo nostro Occidente cristiano sappia che cos'è in realtà l'amore. Eppure tutti lo sanno. Come l'anima e il corpo non si possono separare e l'una influisce sull'altro e lo condiziona e insieme rappresentano la globalità dell'individuo, così non si può distinguere l'amore in "spirituale" e "fisico", o in "platonico" e "sessuale" e non si può stabilire una differenza, una linea di demarcazione fra l'amore e la sessualità. E tanto per ricordare ancora una volta Freud, colui che per una ragione qualsiasi non vuole pronunciare la parola "amore" dica "sessualità"; e chi ha qualcosa a ridire sulla parola "sessualità" che in nome di Dio dica allora "amore".

Per servirmi comunque una volta di più dello stile del nostro linguaggio quotidiano, che in certi casi preferisce dire amore, in altri sessualità, posso soltanto confermare che in entrambi questi campi apparentemente diversi ho ugualmente fallito. In altre parole: non ho mai voluto bene a nessuno e non ho mai avuto rapporti sessuali con nessuno, il che torna appunto a essere poi la stessa cosa, quello cioè che si intende con la parola amore. Naturalmente non ero normale; naturalmente ero infelice - e per questa ragione, appunto.

D'improvviso tutto pareva così elementare, che deve effettivamente riuscire incomprensibile che io abbia avuto bisogno di quasi trent'anni per scoprire una verità così elementare. Ma qui vorrei ripetere che per me, appunto, non era affatto elementare, e precisamente per la gravità delle sue conseguenze. Tutti sanno che le mele mature hanno la tendenza a cadere dagli alberi e possono cadere anche sulla testa di chi sta sotto. Ma se una mela matura cade sulla testa di Newton, lui scopre la legge di gravità e su questo semplicissimo dato di fatto fonda la fisica moderna. La maggioranza dei fatti sono semplici ed elementari e generalmente noti; importanti diventano soltanto quando se ne scopre la portata.

E ciò che io ero in procinto di scoprire era appunto questa portata delle cose. Mi resi conto che si può fallire in tutte le possibili maniere; non è poi così grave. Ma sul piano sessuale non si può fallire, perché è una vergogna imperdonabile. Mi resi conto di urtare qui un tabù molto più profondo e antico di quello superficiale del mondo borghese, di tipo vittoriano. Il fatto è che non si parla dell'amore, l'amore è tabù e bisogna fare come se non esistesse, perché questa è appunto la moda del nostro tempo. Però in amore non si può essere dei falliti; chi non è capace d'amore, non esiste. Un uomo che non è un uomo, non è niente. Non se ne parla apertamente perché il tema è, appunto, tabù, ma in silenzio si è tutti d'accordo. La sessualità è totalmente rimossa come argomento di conversazione nella società borghese ma essa rappresenta il metro reale con cui tutto è misurato, valutato, giudicato. Nessuno ne parla, ma tutti lo sanno.

Nessuno ne parla e tuttavia, dal principio dei tempi, non si parla d'altro: da quando è stata inventata la scrittura, la letteratura non conosce altro tema al di fuori di questo: la sessualità conta più di ogni altra cosa. Che si accenda la radio e si ascolti la più banale delle conzonette o che si leggano le parole degli Eletti nel cosiddetto Libro dei Libri, non si sente mai altro che questo: chi non possiede l'amore non è che bronzo sonante o un cembalo squillante.

A quanto pare però non sono solo io a rifiutarmi di accettare questa primordiale verità, l'intera società si rifiuta di farlo. Quando Freud agli inizi del nostro secolo pubblicò la sua teoria in base alla quale tutta l'esistenza umana è sostanzialmente fatta di sessualità, tutti si indignarono di sentir tradurre in parole la verità che conoscevano da un pezzo.

Uno scettico a questo punto potrebbe chiedersi se tutta la questione sia poi davvero così semplice da poterla esprimere in poche parole.

Probabilmente siamo tutti degli scettici, perché tutti siamo abituati ad accettare assai malvolentieri le verità più semplici. Molto spesso quando si scopre che una cosa è molto semplice, subito nasce il sospetto che ci sia qualcosa di sbagliato, perché non è possibile che sia così semplice. Naturalmente il credere o no una cosa semplice è anche una questione di temperamento. Nella mia famiglia, ad esempio, era abituale supporre che le cose fossero, in linea di massima, "difficili"; in quanto a me io tendo piuttosto a pensare che le cose siano semplici, ma che per lo più non si voglia ammettere quanto semplici sono in realtà.

La mia vita e la storia della mia malattia, per fare un esempio, non mi sembrano affatto complicate, anzi, mi appaiono come la cosa più semplice del mondo. Una situazione molto brutta e sgradevole, certo, ma assolutamente non "difficile". Posso anche accettare molto bene una teoria tanto semplice come quella di Wilhelm Reich, che in quanto a semplicità non lascia davvero nulla a desiderare. Reich distingue in linea di principio solo due fattori esistenziali: la contrazione da disgusto e il rilassamento da piacere, indipendentemente dal fatto che si tratti di un organismo monocellulare o di un essere umano. Il povero organismo monocellulare ovviamente non può far altro che contrarsi e poi nuovamente distendersi, e con ciò ha già colmato il suo campo d'azione (se colmare non è già eccessivo nel caso di un organismo monocellulare). E l'uomo che notoriamente è già "difficile"?

In realtà anche lui non fa altro che talvolta contrarsi e talvolta invece rilassarsi, distendersi nel piacere. Secondo Reich l'orgasmo è la forma più pura e più totale di distensione positiva: una contrazione altrettanto totale dell'organismo induce un impoverimento psichico e un deperimento corporeo per cui i singoli organi non riescono più neppure a dilatarsi in giusta misura, a respirare bene e neanche ad avere la giusta irrorazione sanguigna e questo conduce al cancro. L'uomo contratto assomiglia quindi a quell'organismo monocellulare che si contrae e si rattrappisce senza più sapersi dilatare. Che da questo nasca poi un cancro, è più che logico. Secondo Reich quindi l'orgasmo e il cancro sono le due manifestazioni più pure dei due singoli contenuti esistenziali. Devo ammettere che, formulata in questo modo, la cosa appare estremamente semplice e sicuramente per moltissima gente sarà troppo poco "difficile". Non vorrei togliere a nessuno il piacere delle cose difficili, ma credo che in fondo la teoria di Reich tocchi veramente il nucleo fondamentale della questione. Chi non vuol prendere la teoria alla lettera, può anche farlo "cum grano salis"; personalmente non credo che fra le due posizioni esista una grande differenza. Non vorrei nemmeno affermare che tutto sia sempre facile come un gioco da bambini o che l'intera esistenza dell'individuo sia da considerarsi solo un gioco da bambini (le mie personali esperienze mi hanno convinto che la vita non è affatto un gioco da bambini), ma credo che in moltissimi casi si potrebbe vedere l'elemento della semplicità se non ci si intestardisse a voler a tutti i costi vedere le cose "difficili".

Alla fine la conclusione fu questa: la mia situazione era sì molto triste, ma non veramente confusa. Le mie possibilità non erano molte né molto positive, ma non avevo ancora perduto completamente la partita. Non ero guarito, ma esisteva una eventualità che potessi guarire. Altrettanto possibile era che non potessi guarire e che morissi. Finora i medici erano riusciti a impedire che le singole manifestazioni tumorali mi mettessero veramente in pericolo di vita, ma la malattia non l'avevano ancora potuta guarire. Anche la psicoterapia mi aveva aiutato a far luce nel caos della mia malattia psichica, ma anche da questa malattia non ero ancora guarito.

Questa situazione per me perdura tuttora. Del mio effettivo male, il cancro - e sotto questa denominazione intendo tanto il cancro organico quanto quello psichico, vale a dire non due malattie distinte, ma piuttosto una sola con due diverse manifestazioni, una fisica e una psichica, un caso per il quale si usa adoperare anche il termine "psicosomatico" - non sono ancora guarito. Ora posso guarirne o ne posso morire: le mie due possibilità sono queste. Di solito credo che si veda sempre la morte come un fatto triste e doloroso. Ma se si pensa che ancor oggi ci sono persone che si fanno un merito di morire per Dio, per la patria capitalista e per le sue strutture economiche, non si può arrivare altro che alla conclusione che ci sono ragioni di morte assai più stupide che la morte per mancanza di amore. Come un tempo - e ancor oggi nell'opera lirica - si moriva d'amore, così oggi si può morire anche per il contrario, per la mancanza d'amore. Penso che dopotutto non sia neppure la peggiore fra le cause di morte.

Ma se invece riescono a guarirmi, allora il mio originario concetto di morte e rinascita diventa realtà. Allora si potrà dire che effettivamente, in un certo senso simbolico - pressappoco nel corso di questi ultimi due anni - sono morto e sono rinato a una nuova vita, una nuova vita che è giustificato sperare non consista più soltanto nella malattia e in essa soltanto si identifichi. Se poi questa vita si svolgerà felice o infelice, resta da vedersi; ma la probabilità che si svolga in maniera meno patologica è grande.

Se invece morirò prima di essere guarito, allora vuol dire che mi è venuta a mancare quest'ultima chance. In tal caso sarò stato distrutto dal male, senza aver avuto la possibilità di conoscere della vita altro che l'aspetto patologico. Anche questo è possibile. Molti milioni di negri e di indiani muoiono ogni anno di fame, di epidemie o di qualche carenza senza un lamento e anche loro non hanno avuto l'occasione buona per salvarsi. Credo però che ci sia una differenza sostanziale fra uno di quei negri e me. Il negro è semplicemente divorato dalla lebbra, dalla peste o dalla fame, senza che il singolo individuo si renda veramente conto di ciò che gli sta succedendo.

Forse si meraviglierà del suo triste destino, ma dopo un certo tempo, quando ha finito di meravigliarsi senza essere arrivato a un risultato, muore e basta. Può darsi che anch'io venga in breve tempo divorato dal cancro; la differenza fra quel negro e me consisterà nel fatto che io conosco molto bene le ragioni che mi hanno portato alla morte; ho l'impressione di sapere con estrema precisione ciò che mi sta accadendo e questo lo considero un enorme vantaggio rispetto alla situazione del negro. Anche se sarò distrutto dalla situazione in cui attualmente mi trovo, la mia morte sarà infinitamente più umana di quella del negro, che alla fine crolla morto come un capo di bestiame, senza neppure sapere perché.

Senza voler essere presuntuoso, credo che la mia possibilità di capire e questo resoconto della mia situazione possano in teoria persino avere una certa utilità. Non posso pensare che il mio sia un caso unico (perché la "costa d'oro" è molto lunga e sovrappopolata fino a scoppiare e che sulle sponde del lago di Zurigo vivano molte persone davvero normali, questo proprio non me lo posso figurare). Penso piuttosto di rappresentare un caso tipico e che molte altre persone si trovino o si siano trovato in una situazione analoga alla mia. Anche se io, come tutti questi altri nelle mie stesse condizioni, non conosco altro che il male che ha divorato la mia esistenza fin dalla prima giovinezza e ora sto quasi per morirne definitivamente, continuo tuttavia a credere che la mia vita e la mia morte siano state e debbano essere un po' meno inutili e assurde di quella del povero negro di cui ho parlato più sopra.

Questo è il primo grande vantaggio. Legato a questo c'è il secondo, quello di conoscere il male: oggi come sempre sono dell'avviso che un male che si conosce e si può chiamare per nome è assai meno difficile da sopportare di una sofferenza di cui non si conosce l'esatta natura.

Di conseguenza anche la speranza in una possibile vittoria sul male assume forme più concrete. La speranza è molto piccola, ma questo minuscolo frammento di speranza è più reale e forse più intenso di una grande speranza indefinita, che si perde nel vago e nella quale si finisce solo a malapena a vedere in che cosa si spera. Forse si potrebbe parlare di una speranza che poggia sul probabile e di una che poggia su un concreto possibile. Tutti ovviamente sperano di non essere mai colpiti dalla caduta di un meteorite, ed è anche molto probabile che tale speranza si confermi nella realtà; ma una speranza di questo tipo non ha un'importanza reale, non gioca un ruolo preminente. Nel mio caso è tutt'altro che probabile che io sopravviva al male, ma l'eventualità che ciò sia ancora possibile esiste, e rende la speranza molto più intensa e importante.

Può darsi che sia per questa ragione che io sento la mia vita attuale, malgrado tutto, come meno disperata, meno desolata dei primi trent'anni della mia esistenza. Non sono felice, ovviamente, ma per lo meno sono infelice e non depresso. Mi riesce difficile presentare ora con una elegante formulazione stilistica l'esatta differenza di significato fra "infelice" e "depresso", ma è chiaro che "infelice" è assai meno triste, meno grave che "depresso". Per riallacciarmi all'immagine delle lacrime non piante, si può dire che colui che piange è infelice, mentre il depresso ha perduto persino la capacità di piangere. Il contenuto di questo mio resoconto non è certo pura beatitudine, ma nella sostanza non è frutto di depressione, come erano invece le continue visioni che mi perseguitavano due anni fa, con quell'allegorica figura di donna impietrita dal dolore che non voleva o non poteva morire. E' anche assai diverso e infinitamente meno deprimente mettersi a scrivere un saggio sull'infelicità che non passare ore e ore a scrivere la parola "tristeza" per dritto e per traverso su un foglio di carta a quadretti. (Freud definisce i due fenomeni come lutto e malinconia.) La depressione era un grigiore incerto e onnipresente che mi soffocava; questo nuovo stato ha invece la gelida trasparenza del cristallo. Fa soffrire, ma non mi soffoca.

Inoltre mi sento molto più attivo. Dopo aver passato trent'anni a cercare di evadere dalla realtà, sfuggire alla vita, come mi avevano insegnato i miei genitori e la classe sociale ch'essi rappresentavano, ora mi trovo faccia a faccia con la morte nella sua forma più concreta e devo lottare. Per dirla in latino: "Hic Rhodus, hic salta".

Posso ben immaginare che il destino, visto che con la mia vita non otteneva nulla, si sia detto, be', proviamo con la morte. E guarda un po', le cose sono andate meglio. A questo punto vorrei ritornare al concetto già altrove citato dell'umorismo cosmico. Il peggio in verità non è mai il peggio e si comincia a capire che cosa intendeva Camus quando in "Le mythe de Sisyphe" dimostrava che Sisifo all'inferno è felice.

Un altro elemento che caratterizza questo mio nuovo stato è che non mi posso augurare una sorte diversa. Date tutte le premesse che posso chiamare mie, posso ancora essere soddisfatto che mi sia venuto il cancro e che la psicoterapia abbia mandato in frantumi la mia precedente esistenza. Non mi è possibile desiderare che tutto questo non fosse mai accaduto; posso solo trovare che è stato un bene. Non posso neppure desiderare che le cose fossero andate diversamente, perché in tal caso dovrei desiderare di essere un altro, e questo è impossibile. Non posso desiderare di essere il signor Tal-dei-Tali invece di essere me stesso. Non posso desiderare che ciò che è accaduto sin qui non sia mai accaduto o che sia andato diversamente, ma devo invece accettare che, date le premesse della mia esistenza, tutto ciò che è stato doveva accadere esattamente come è accaduto e non è né possibile né desiderabile che le cose stessero diversamente.

L'unica cosa che posso desiderare è che ora volgano al meglio; ma questo desiderio rientra nel possibile ed è assolutamente realistico.

Non ho bisogno di desiderare nulla di irreale e tutto ciò che è irreale non lo voglio nemmeno desiderare. Poiché vedo la necessità della mia attuale situazione, automaticamente essa diventa più sopportabile che non se dovessi ritenerla del tutto assurda.

Per di più c'è un altro aspetto che ancora bisogna considerare: sono convinto che il cancro che mi divora non sono io, non è il mio io, ma la mia famiglia, la mia estrazione sociale; c'è in me una tara, un ereditarietà che mi consuma. Messo in termini medico-politici o sociopolitici ciò significa: fintanto che ho il cancro continuo a restare legato all'ambiente borghese e cancerogeno che è stato il mio, e se muoio di cancro sarò appunto morto da borghese. Sociologicamente parlando è una perdita da poco, perché che muoia un borghese non è mai un gran male. Ma per quanto riguarda la natura della famiglia, quelli che hanno avuto più fiuto credo proprio siano stati i greci. Non per niente Edipo e la sua famiglia sono diventati il simbolo della famiglia "tout court". Anche l'orrenda sorte di Fedra, la si scopre già in quel verso in cui essa si definisce figlia dei propri genitori:  

 

"La fille de Minos et de Pasiphaé".

 

 

Persino la buona Ifigenia tedesca (sebbene, come è noto, sia una creatura di Goethe) intuisce quanto è fatale essere figli della propria famiglia. Ma in nessun'altra figura la cara vita di famiglia viene alla luce tanto chiaramente e senza veli come nell'immagine di Crono che divora i propri figli. Credo che questa bella antica usanza sia rimasta fino a tutt'oggi una apprezzata tradizione, e certo non c'è nessuno fra noi che non possa dire anche di sé:  

 

La mia mamma che mi sgozza, Il papà che mi ha mangiato.

 

 

Oggi peraltro si è più evoluti e non ci si mette più all'opera con coltello e forchetta per mangiare i propri figli (poiché nell'ambiente dal quale io provengo le buone maniere a tavola sono un rito assai complicato), ma si provvede con una adeguata educazione affinché ai figli un giorno venga un bel cancro così che alla fine, secondo l'antico rito dei padri, i figli possano essere divorati dai genitori.

Soltanto che non sempre i figli sono tutti ugualmente digeribili.

Per questo non credo neppure che il termine "rassegnazione" si adatti bene al mio stato attuale. Un tempo mi ero imposto il dogma per cui io "stavo bene", ma questo star bene era popolato dalle angosce più tremende, dalla paura che questo "star bene" potesse alla fine non risultare valido. Quella, appunto, era stata rassegnazione, quando mi ero semplicemente accontentato di non sfiorare mai e per nessun motivo qualcosa che avrebbe potuto rinfocolare quelle angosce; rassegnazione era stata il non aprire mai l'armadio perché lo scheletro che ci stava nascosto non piombasse con una bella capriola nel bel mezzo del salotto buono. Adesso non sto più "bene", al contrario, sto male, ma in compenso non c'è più nessuno scheletro nascosto nell'armadio e, per di più, esiste ancora la possibilità che un giorno non stia più così male.

A conclusione voglio illustrare ancora un altro aspetto della mia storia, che potrei chiamare magico, anche se è inteso in maniera tutt'altro che scherzosa, e cioè l'aspetto astrologico.

Sono - naturalmente - nato sotto il segno dell'Ariete, che è senz'altro da vedersi come un segno di Marte. Nell'astrologia antica anche il segno dell'Aquila (che rimane ancora in alcuni casi, ad esempio come simbolo dell'evangelista Giovanni, anche dopo che l'Aquila nell'astrologia comune è stata da molto tempo sostituita con il segno dello Scorpione) era inteso come un segno di Marte; da quando lo Scorpione si è sostituito all'Aquila, questo segno zodiacale sottostà piuttosto al pianeta Plutone. L'Ariete è quindi più che mai il vero rappresentante di Marte.

Marte è notoriamente il dio della guerra, dell'aggressione, e della forza creativa (che la guerra sia la madre di tutte le cose lo sappiamo ormai da secoli), il dio della primavera e dell'inizio dell'anno (notoriamente i romani festeggiavano l'inizio dell'anno con gli Idi di Marzo, e soltanto quel guastafeste di Gesù con la sua inopportuna nascita ha portato il disordine in questo ordine antico e bellissimo). E' il dio del principio, del principio delle cose e del principio creatore e in effetti è il dio dei creatori e degli artisti.

Quell'Apollo, tanto apprezzato in certi ambienti (io non lo stimo affatto), è anche lui in qualche modo legato alla cultura; si tratta di un ragazzotto grassoccio e smorto con quella eterna lira e la pettinatura alla Botticelli, in realtà più un dio dei letterati che dei veri poeti, e più adatto al supplemento letterario domenicale della "Neue Zürcher Zeitung" che al mondo dei veri poeti, che per loro natura sono invece più vicini a Marte.

Le creature nate sotto il segno dell'Ariete e sotto la stella di Marte sono per natura profondamente aggressive e creative (e qui naturalmente non intendo aggressivo nell'accezione comune e tanto erroneamente usata di "violento", "cattivo", "litigioso", ma nel suo vero e naturale significato di "capace e disposto ad affrontare ogni cosa") e vogliono soltanto uno spazio esterno nel quale potersi impegnare e realizzare. Se all'individuo dotato di tale natura viene a mancare lo spazio in cui vivere positivamente questa sua energia vitale, la naturale aggressività si volge verso l'interno e l'individuo si autodistrugge.

Il segno zodiacale del Cancro corrisponde al pianeta Luna (qui naturalmente uso il termine Luna nel suo significato tradizionale e non secondo quello della moderna astronomia) e alla Quarta Casa astrologica. Ma la Luna - che non a caso nelle lingue romaniche è di sesso femminile: Luna, dea della notte, o Iside, Astarte, Artemide, Diana, Ecate - personifica la Grande Madre, il principio femminile, la passività, l'elemento ricettivo, e l'inconscio. La Quarta Casa però rappresenta tutto ciò da cui l'uomo deriva, la sua origine, la sua casa paterna, il suo rapporto con la terra natale, in senso lato con la sua famiglia e con tutto ciò che riguarda questa famiglia. Il segno del Cancro (1) personifica perfettamente il già citato paguro, che non conosce e non vuole altro che nascondere il suo posteriore indifeso e tanto vulnerabile nella struttura protettiva di un guscio di lumaca, che cerca continuamente la casa, il rifugio, l'intimità, la "casa" (sia che si tratti di quella della lumaca o della Quarta Casa astrologica di cui ho ora parlato). Il crostaceo si rinchiude quindi nel suo guscio, si nasconde così nella sua solitudine, cerca rifugio in tutto ciò che aiuta il suo isolamento, cullandosi in un'esistenza infantile, chiusa, regressiva, e tutta volta all'indietro, perché il gambero va sempre all'indietro. Non gli piace dover affrontare la realtà perché, molto probabilmente, trova che la realtà è troppo "difficile", ma preferisce ritirarsi in un irreale mondo onirico, come spiega la guida astrologica che dice: "quando non può vivere il suo sogno, sogna la sua vita". Non è partecipe, ma guarda tutto solo da lontano, dall'interno della sua sicura casa; la realtà sarebbe per lui troppo concreta e troppo poco tenera e delicata.

E' facile immaginare ciò che accade a un Ariete quando entra nell'orbita della Quarta Casa, della casa paterna, nell'orbita quindi della madre e della famiglia: perde lo spazio in cui gli è possibile esercitare la propria aggressività, quello spazio esterno che gli è tanto necessario, e quando il mondo esterno non esiste più, non può che ripiegarsi in se stesso, tutta la sua carica aggressiva ricade su se stesso, non gli resta che autoaggredirsi. Finisce nell'orbita del Cancro e - qui il vocabolo assume un significato sia simbolico che astrologico e medico - diventa Cancro.

Come se ci fosse stato bisogno anche dell'astrologia! Non dipende tanto dal credere o meno all'astrologia, ma se uno è ricettivo per questo tipo di interpretazione, può accettare questo preciso dato di fatto: ciò che accade a un individuo che viene a trovarsi nella situazione descritta in queste pagine, sta già scritto nelle stelle; questo è ancora più chiaro del messaggio del professor Freud, peraltro inequivocabile e a tutti noto da sempre; lo si può leggere in cielo ogni sera, con o senza cannocchiale. Credo che anche qui si tratti non tanto della capacità di occultarsi delle cose, quanto piuttosto di avere occhi che vogliono o non vogliono vedere, orecchie che vogliono o non vogliono sentire.

Questa è la mia vita. Sono nato e cresciuto nel migliore e più sano e più armonico e sterile e falso di tutti i mondi e oggi mi trovo davanti a un cumulo di macerie. Ma quanto è mille volte più bello trovarsi davanti a un cumulo di macerie che non davanti a un vacillante alberello di Natale, sempre con una tremenda paura che quello stupidissimo aggeggio possa alla fine cadere e rompersi e che tutto possa andare in frantumi! E con questo posso arrivare alla morale di questa storia: meglio il cancro che l'armonia. O, in spagnolo, "¡Viva la muerte!".

 

 

Zurigo, 4. 4. 1976.

 

 

 

 

 Seconda parte

 

ULTIMA NECAT 

 

 

Qualche tempo fa ho scritto la storia della mia malattia, nella speranza, più o meno chiaramente avvertita, che ricapitolare e riesaminare il mio passato avrebbe potuto aiutarmi a trovare un certo distacco dalla mia sofferenza o addirittura a superarla. E' accaduto esattamente il contrario. Da quando ho cominciato a rifletterci più intensamente, la sofferenza che provo di fronte alla mia vicenda umana mi frana addosso con una violenza nuova, con una furia mai prima raggiunta. Scrivere i miei ricordi non mi ha portato pace, ma soltanto ancor più inquietudine e disperazione.

La malattia psichica non è più la depressione, che cammina accanto alla mia vita esteriore e la avvelena, ma è diventata ora un solo fuoco divoratore in cui tutto brucia e si consuma - e quella che ora mi cammina accanto è la mia vita esteriore, il mio lavoro, i miei amici, il mio cancro.

Come da tempo ho immaginato una reciprocità di effetto fra lo stato fisico e quello psichico, ora devo accettare che il mio stato fisico è andato rapidamente peggiorando. Il piccolo tumore nel collo di due anni e mezzo fa si è trasformato in una forma tumorale generalizzata; tutto il corpo è ora divorato dal cancro, nuove metastasi nascono e si formano continuamente in tutte le parti del corpo. Sono perpetuamente nelle mani dei medici e passo presso di loro la maggior parte del mio tempo. Nuovi sintomi si manifestano ininterrottamente e ogni nuovo sintomo dice sempre la stessa cosa: "memento mori". Naturalmente ho paura, anche se non più come all'inizio. Al principio della mia malattia a ogni nuova tumefazione, a ogni nuovo dolore mi dicevo: purché non sia un altro segno del cancro! Oggi sono già in grado di contare senza sforzo almeno una mezza dozzina di punti del mio corpo dove posso vedere e sentire il male, come ad esempio nell'osso che si sgretola e si dissolve; in questi casi non ho più bisogno di temere che sia il cancro: lo so.

Nessuno è contento di avere un cancro, nemmeno io. Ma non gli posso attribuire più importanza di quanta già ne ha. Anche il cancro, anche il fatto che io ora di questa malattia sto morendo non è più la cosa principale. Il cancro è soltanto la illustrazione somatica del mio stato psichico. Che si abbia paura della morte e ci si senta oppressi quando si deve morire, lo trovo normale; e tutto quello che è normale non ha mai destato in me molta preoccupazione. L'angoscia, la paura della morte è certo anch'essa un sentimento, ma piccolo e insignificante in confronto alle esplosioni emotive che mi tormentano VERAMENTE.

L'odio e la disperazione non mi danno tregua: sono come un vulcano che ml esplode dentro e non può spegnersi finché sono in vita. Quando di notte non riesco a dormire e mi volto e rivolto nel letto gemendo e urlando, immerso in un bagno di sudore, quando corro come un disperato fra le quattro mura del mio appartamento, gridando la mia furia contro il muro come un pazzo, allora il vulcano è in eruzione. Ci sono due sensazioni fisiche ben precise e definite di cui soffro soprattutto.

Spesso ho l'impressione di sentire una spada che lentamente mi affonda giù per la spina dorsale, fino alle ultime vertebre lombari. Quello che mi scuote così non è un brivido, non è il caldo e non è il freddo, non è il cattivo tempo o l'alzarsi presto il mattino. E' la sofferenza scoperta, denudata e senza maschera dell'anima che travolge il corpo e lo getta in un abisso di impotente disperazione.

Queste reazioni fisiche non hanno in sé nulla di razionale; non portano a nulla, non hanno scopo, si verificano, semplicemente. Anche la storia della mia vita non conduce a nulla e non ha alcun senso, ma esiste, è semplicemente così; questo è appunto l'aspetto caratteristico di tutte le vicende, che accadono, esistono, indipendentemente dal fatto di essere buone o cattive, liete o tristi.

La mia storia è triste. Ma la scrivo ugualmente; o meglio, la scrivo proprio per questo. Mi sono proposto di scrivere tutto e trovo che sia giusto. Quando si è picchiati, si grida; anche il gridare è in sé irrazionale, non serve a nulla e non ha alcun senso, ma in un certo qual modo ci vuole, fa parte della cosa, è naturale che si risponda alle percosse con delle grida. E' giusto, appunto. Per questo è anche giusto che io scriva la mia storia.

Alla mia vicenda familiare è inutile ritorni ancora; l'ho già descritta nei miei ricordi. Ma il risultato di questa storia familiare, ciò che essa ha prodotto, questo relitto umano che chiamo me stesso, a quello devo pur sempre ritornare, perché la consapevolezza della distruzione mi trafigge senza sosta, mi tiene sotto il tiro, mi crivella di colpi come una mitragliatrice. La consapevolezza del mio fallimento mi brucia l'anima e il corpo. E quanto più imparo a conoscere me stesso, tanto più apprendo come sono in realtà: distrutto, castrato, ridotto in frantumi, disonorato, svergognato. Con ogni velo che strappo al mio inconscio, mi si presenta un orizzonte sempre nuovo e sempre più profondo di disperazione. E' come se il dolore potesse continuare ad aumentare all'infinito, fino all'eternità. Il mio mondo è impietrito di dolore.

Da questa situazione nasce sempre più chiara per me la necessità di scrivere queste cose, di dirle, raccontarle. Per amore di chi le dovrei tacere? Per amore di chi dovrei far mistero della storia della mia vita? Chi dovrei risparmiare con il mio silenzio?

Se taccio, risparmio soltanto tutti coloro che non vivono volentieri altro che nel migliore dei mondi, tutti coloro che non parlano volentieri delle cose spiacevoli, che rimuovono e rinnegano i problemi del nostro tempo, che condannano i critici della situazione attuale, anche i più onesti e incorruttibili, come mostri di cattiveria, solo perché preferiscono vivere in un porcile al di fuori delle critiche, piuttosto che in un mondo dove si osa invece pronunciare la parola "porco". Ma proprio quelli non li voglio risparmiare. Non voglio mostrarmi solidale con loro, perché sono loro che mi hanno fatto quello che sono oggi. Non li posso risparmiare, per loro c'è solo il mio odio. Il lettore sa già di chi intendo parlare; la società borghese, il Moloch che divora i propri figli e ora è in procinto di divorare anche me e che ben presto lo avrà fatto: in brevissimo tempo avrà finito di divorarmi.

Di tutti i vizi ce n'è uno che non si deve, non si può avere: la pazienza. E qui penso a quel rappresentante esemplare della pazienza, al Giobbe dell'Antico Testamento. In tutto il suo dolore Giobbe non si fa mai venire l'idea di prendere posizione, ma china il capo e, come dice la Bibbia: "Non si sporcò col peccato e non disse nulla di male contro Dio". La moglie di Giobbe, evidentemente fra i due il carattere più forte, gli aveva consigliato: Maledici Iddio e muori! Ma lui le risponde Come potrei maledire Iddio? Che cosa ne direbbe Iddio? Sono certo che Dio non vorrebbe che io lo maledicessi.

Già, e se non dovesse fargli piacere? E se avesse qualcosa da ridire?

Perché dovrebbe essere tanto terribile che Dio fosse disturbato dalle maledizioni di Giobbe?

Dio del resto mette prontamente le cose in chiaro e fa capire a Giobbe che non gli sarebbe affatto gradito sentire delle critiche al suo operato.

Allora il Signore del Cielo rispose a Giobbe e disse:  

 

Non ho creato il coccodrillo?

Chi preme in quella doppia dentatura?

Chi ha aperto le porte delle sue fauci?

Sui suoi denti è deposto l'orrore.

 

 

Non ho forse creato io il coccodrillo, che in quanto a orrore supera ogni altra cosa? Non può forse il coccodrillo mordere, amputare, mutilare, divorare, distruggere? Come puoi pensare di mettere in dubbio la mia autorità, dal momento che io sono il Signore di tutti questi orrori?

Allora Giobbe rispose al Signore e disse: Hai ragione. Riconosco che tu sei l'essere più tremendo, più brutale e perverso, più sadico, più ripugnante e malvagio della terra. Riconosco che sei un despota sanguinario, un tiranno che colpisce e uccide ogni cosa. Questo è per me motivo sufficiente per riconoscerti Dio unico e unica fonte di beatitudine e come tale onorarti e lodarti. Sei il più gran porco dell'universo. La mia risposta a tutto ciò è che sono volentieri tuo suddito, ti trovo giusto e cerco di amarti. Tu hai inventato la Gestapo, i campi di sterminio, la tortura; riconosco quindi che tu sei il più grande e il più forte. Sia lodato il nome del Signore.

Quale atteggiamento sia eticamente più valido, quello di Giobbe o quello della moglie di Giobbe, è facile capirlo. Appunto perché Dio ha creato il coccodrillo, esiste il dovere di ribellarsi. La reazione di Giobbe non è soltanto vile, è anche stupida.

Come tante cose riprovevoli, anche Giobbe e il suo modo di reagire hanno fatto scuola: oggi il mondo pullula di Giobbi. Se ne incontrano ovunque; non da ultimo mio padre era un Giobbe. Ma proprio questo, il fatto che ci siano tanti Giobbi, costituisce per me appunto la necessità, l'obbligo di non emularli, di seguire piuttosto la moglie di Giobbe e mentre muoio maledico Dio. Non si deve lasciarsi confortare, fintanto che il conforto è solo un falso conforto.

Ovviamente a questo punto c'è però una questione che bisogna trascurare, e cioè a che cosa potrebbe servire maledire il Dio creatore del coccodrillo. No, non c'è nessun bisogno che serva a qualcosa; basta che sia giusto. E da ultimo anche il come reagiscono gli altri colpiti non ha nessuna importanza; basta che io ritenga giusto per me stesso "maledire il Signore", tanto per usare ancora una volta l'espressione biblica. Non ha importanza se io sono l'unica vittima o una fra mille, e non ha alcun significato confrontare fra loro i singoli destini. Vedo ogni giorno innumerevoli altre vittime, falliti, storpi, gente rovinata, distrutta, li vedo a scuola, per la strada, al ristorante; che vengano portati in giro su una sedia a rotelle o trasportati al pronto soccorso dopo un incidente stradale, che siano dei rottami sul piano intellettuale o su quello psichico, il loro numero non ha fine. In un simile confronto non serve a nulla dirsi che non si è gli unici colpiti e che anche gli altri hanno avuto un destino avverso; non serve a nulla a me e non serve a nulla all'altro. A un tale un incidente ha portato via una gamba; la gamba amputata è il suo problema, io sono nevrotico, la mia nevrosi è il mio problema. Ciascuno deve venire a capo del proprio problema, io non posso preoccuparmi della gamba dell'altro, né l'altro della mia nevrosi. Per questo non posso qui neppure descrivere la mia storia come rappresentativa di mille altre, perché ciascuno è solo con la propria sofferenza e con la propria solitudine; ciascuno ha la propria storia.

Molti stanno ancora peggio di me. E' vero, ma ciononostante non si possono fare confronti: quando ho mal di denti, mi è assolutamente indifferente che il mio vicino abbia un mal di denti più forte del mio. Io non posso combattere contro il mal di denti di tutto il mondo; posso soltanto preoccuparmi che il dentista strappi il mio dente malato.

E tuttavia ci sono moltissime persone volonterose che si preoccupano più del mal di denti del vicino che del proprio che forse è meno forte, ma in compenso è un fatto personale. Oppure, per usare la formula classica: si preferisce vedere la pagliuzza nell'occhio dell'altro che la trave nel proprio. Quando ero ancora bambino, nell'ambiente che ero allora costretto a considerare il mio, era in uso un'espressione: quello dovrebbe andare a Mosca! Con ciò ci si riferiva a coloro che la pensavano diversamente e criticavano il nostro sistema svizzero. Si voleva dire con questo che chiunque avesse qualcosa da ridire sulla Svizzera, avrebbe dovuto andare in quella fantomatica Mosca, nel luogo cioè dove, per proverbiale definizione, tutto doveva essere tanto e tanto peggio che da noi in Svizzera.

"Andare a Mosca" significava: fra i due mali scegliere il minore, invece di riflettere se non si sarebbe potuto fare qualcosa per curare il proprio male.

Si diceva: "Ma vai a Mosca!" e si intendeva dire: non siamo disposti ad accettare una qualsiasi critica al nostro sistema. Ci è del tutto indifferente sapere se dovremmo migliorarci o no, preferiamo riferirci a "Mosca", dove tutto è ancora tanto peggio che, nel confronto, dobbiamo per forza avere la meglio. Noi del resto non abbiamo neanche bisogno di migliorarci perché in confronto a Mosca, abbiamo pur sempre un enorme vantaggio. Comincino i "moscoviti" intanto a migliorarsi! La trave nel nostro occhio non ci dà alcun fastidio, fintanto che ci possiamo giustificare con la pagliuzza dell'occhio altrui.

In realtà quella fantomatica Mosca, dove tutto deve sempre essere più brutto, più nero che nel luogo dove in quel momento ci si trova, non esiste. Ci sono ben pochi luoghi dove tutto è sempre peggio che da noi, come non c'è un Eldorado dove tutto è sempre più bello e felice, tutto meglio che da noi. La Mosca dove i non conformisti sarebbero dovuti andare, è un luogo immaginario. E continua a essere un luogo immaginario anche se a Mosca tutto dovesse in realtà essere tanto più brutto che a Zurigo, come molti svizzeri sperano; non soltanto perché anche a Mosca si può essere felici e anche a Zurigo infelici. Persino se Mosca dovesse essere davvero questo luogo tanto terribile, il peggiore della terra, così come lo si descrive nelle fiabe - che cosa gliene importa a un moscovita felice? E anche se a Zurigo tutto dovesse essere così meraviglioso come in questo Paese volentieri si vuol credere - che cosa serve questo a uno zurighese infelice?

Questa Mosca è però un luogo immaginario anche per un motivo più profondo. Per giudicare se una cosa è buona o cattiva non ha alcuna importanza se l'altra è migliore o peggiore; di due cose miserevoli, una dev'essere per forza migliore dell'altra, e anche di due cose magnifiche forzatamente ce ne deve essere una che ha la precedenza sull'altra, in modo che la seconda è meno magnifica della prima.

Quando di questa fantomatica "Mosca" si sa soltanto che è "peggio", non se ne sa ancora nulla, anzi, cessa addirittura di esistere. "Vai a Mosca" quindi non significa né più né meno che "vai nel luogo che non esiste". Non c'è una strada che porta a Mosca. Credo che nella vita non ci possa mai essere una strada che porta a Mosca. Ogni situazione in cui ci si trova è necessariamente l'unica possibile, e non si può mai dire: grazie a Dio, per lo meno non sono a Mosca, perché là sarebbe tutto ancora peggio.

Ogni volta che un altro disgraziato mi passa davanti su una poltrona a rotelle, mi sento come se una voce mi dicesse: sii dunque contento, quello sta ancora peggio di te - ed è come se quella voce intendesse dire: vai dunque a Mosca! Ma anche di fronte a questi infelici non c'è una strada per Mosca. Io non sono a Mosca, io non sono altrove, io sono qui; io non sono qualcun altro, ma sono io e mi trovo nel cuore della mia personale tragedia, e precisamente davanti alla catastrofe finale. Il contenuto di questa tragedia l'ho già descritto nei miei ricordi: sono il figlio nevrotico di un padre nevrotico e di una madre nevrotica; la mia famiglia rappresenta per me la quintessenza di tutto ciò che detesto e perciò, in quanto membro di questa famiglia, anch'io sono necessariamente nevrotico, tento di lottare per staccarmi dal mio passato, ma, prima che io riesca a liberarmene, il mio passato mi divora nella forma concreta del cancro. La cosa più tremenda di tutta questa situazione è che essa non finisce col fatto che io non voglio essere come i miei genitori e per questo, per non essere come loro, lotto e combatto; il grave è che i miei genitori sono dentro di me, a metà corpi estranei e a metà me stesso, e mi divorano, così come anche il cancro che mi divora è per una metà una parte malata del mio organismo e per l'altra un corpo estraneo all'interno del mio organismo.

Mi è già stata posta la diabolica domanda se avrei preferito essere mio padre piuttosto che me stesso. No, naturalmente no. Anche mio padre è stato uno dei tanti in una situazione ancora peggiore della mia; anche mio padre è una figura simbolo, ma di quelle che mi passano davanti in una poltrona a rotelle con la domanda: preferiresti forse essere sulla poltrona a rotelle? Mio padre era un comune milionario della costa d'oro di Zurigo, con l'infarto e sessant'anni di frustrazione. E' forse meglio cuocere per sessant'anni al fuoco lento della frustrazione o non è meglio morire a trenta di disperazione e di cancro? E' forse meglio che le mole dello squallore girino un po' più lentamente per sessant'anni, o prendano invece un ritmo più rapido e ti macinino in trenta? Fra le due, è migliore la seconda ipotesi, naturalmente. Se per me, in quanto discendente dalla mia famiglia, non c'è altra soluzione che farmi stritolare dalla disperazione, allora preferisco morire a trent'anni della mia disperazione divenuta cancro, che aspettare per sessant'anni un aneurisma liberatore. Se per me non c'è altra soluzione che andare in rovina, allora preferisco un chiaro suicidio a un suicidio camuffato.

Ma a che cosa può servire sapere queste cose? Devo ricordare la vita dei miei genitori e dirmi per tutta consolazione che per lo meno non sono come mio padre? Che cosa me ne importa di mio padre? Quando mi si propone di confrontare la mia esistenza con quella di mio padre, per poi scoprire che la sua era peggio della mia, è come se mi si invitasse ancora una volta ad andare a Mosca. Questo non mi aiuta davvero. Mio padre è morto; lui è già morto, e quello che muore ora sono io. Perdermi ora in riflessioni sul fatto che mio padre è morto in conseguenza di una situazione interiore ancora inifinitamente più squallida della mia, non ha nulla a che vedere con la mia morte.

Credo che anche morire possa in molti casi significare "andare a Mosca". La morte riconcilia con molte cose, soprattutto con quelle cose con le quali si preferirebbe non riconciliarsi. Si propone: "De mortuis nihil nisi bene". Perché poi? Se nel caso di questi morti le cose non erano "bene", perché a un certo punto tutto il male che era in loro deve essere di colpo dimenticato, solo perché sono morti? E qui penso meno all'abitudine di affermare che tutti coloro che sono morti erano persone buone e care e di grande valore, quanto piuttosto alla mia propria morte. Credo che anche di fronte alla morte si è tentati di presentarsi come persone migliori di quello che si è in realtà. Credo che anche davanti alla morte risuoni ancora una volta quell'invito seducente: ma vai dunque a Mosca!

Se io ora devo riassumere la mia vita e giudicarla, non posso che arrivare alla conclusione che è mal riuscita, fallita. Fin che si vive, ci si può sempre consolare pensando che la vita soltanto "fino ad ora" è andata male e che in futuro forse potrà ancora diventare migliore. Ma davanti alla morte queste scappatoie non ci sono più, non c'è più un "fino ad ora"; non c'è più che il fatto concreto e concluso: è fallita. Anche in questa situazione estrema non c'è una scappatoia per Mosca, non serve a nulla e non vale nulla di fronte alla morte mettersi delle lenti rosate e dire della propria vita che "non è poi andata così male e che, in fondo, si muore riconciliati con se stessi e con il mondo". Se non è vero che si muore riconciliati con se stessi e con il mondo, allora non lo si deve dire, neppure nel momento della morte, quando ogni possibilità di aiuto, di miglioramento, ogni possibilità di mutamento o di conforto è ormai esclusa.

La Effi Briest di Fontane, poco prima di morire di dolore del dolore che le hanno causato l'incomprensione dei genitori e del marito, dice a sua madre che muore tranquilla, riconciliata e in pace, e confronta la vita con la descrizione di un banchetto, tolta da un libro: uno dei commensali deve lasciare il convito prima del tempo, ma in seguito ci si accorge che non ha perso molto. Alla domanda che cosa c'è stato al banchetto dopo la sua intempestiva uscita, il commensale si sente rispondere: oh, un po' di tutto; ma in realtà lei non ha perso molto Effi muore giovanissima, quasi ancora fanciulla, muore di dolore, di angoscia, ma è rassegnata: pensa di non aver perso molto. Felice o infelice Effi? E' molto significativo che mio padre non abbia mai potuto soffrire il libro "Effi Briest". Già soltanto il pensiero che qualcuno alla fine dell'esistenza si chieda se la sua vita valeva o no la pena di essere vissuta, lo disgustava. Posso spiegarmelo solo immaginando che lui avesse persino paura di porsi la domanda. Ma questa paura l'avrebbe potuta avere soltanto se avesse intuito quale sarebbe dovuta essere la risposta. Felice o infelice il mio povero padre che non poteva neppure chiedersi se non aveva perduto per caso qualcosa, quando nella vita c'era ancora "un po' di tutto"? Se nella vita si è arrivati ad avere solo "un po' di tutto!, allora si ha davvero avuto troppo poco e la vita non la si è vissuta. Se ci si chiede che cosa gli esseri umani vogliono dalla vita, penso che la prima cosa sia la FELICITA'. E per felicità immagino una situazione dello spirito in cui il fatto stesso di esistere non è sofferenza, e l'individuo sta al mondo volentieri, ci prova persino gusto. Questa situazione io non la conosco e non l'ho mai conosciuta. In me la facoltà di essere felice è distrutta. Questo è, in effetti, il segno che contraddistingue la nevrosi: nevrotico è colui che non può essere felice. L'espressione più chiara e lampante di questa impotenza alla felicità è certamente l'impotenza sessuale. E infatti la distruzione delle mie facoltà sessuali è sicuramente il danno più grave che io abbia subito. Sono un castrato psichico, non ho impulsi sessuali, non riesco a provare stimoli sessuali nei confronti delle donne né degli uomini. Non ho mai avuto rapporti con le donne perché non le posso amare, non le so desiderare. La logica conseguenza è la mia incapacità a compiere l'atto sessuale, sia pure in maniera puramente meccanica, senza alcun sentimento o eccitazione; non posso ottenere a forza ciò che non esiste e così resto anche fisicamente impotente.

Un altro segno caratteristico della nevrosi è la mia totale incapacità di ridere. Questo forse è un segno meno drammatico dell'impotenza sessuale, ma non per questo meno opprimente. E' tanto opprimente perché anche il riso è qualcosa che non si può ottenere con la forza.

Non so ridere perché in me non c'è nulla che ride. Anche questa è una incapacità e una impotenza che non si può correggere con la volontà.

Non mi posso imporre di ridere; niente ride in me, tutto rimane morto.

A definizione di queste impotenze oggi si usa la parola frustrazione, e fra tutte le frustrazioni, ovviamente quella sessuale è certo la più mortale. Questa frustrazione è appunto di natura etica, perché riguarda l'onore dell'individuo. L'onore umano consiste nella sessualità; la sessualità è la sostanza di cui è fatto l'onore e non c'è altro onore all'infuori di quello sessuale. Anzi, io credo persino che le due espressioni "onore" e "sensualità" si equivalgano; siano sinonimi per lo stesso concetto. Io per lo meno lo sento così. Se dovessi dire qual è la sostanza della frustrazione sessuale, non saprei trovare altra espressione che "disonore, vergogna". Questo è appunto l'elemento letale nella frustrazione sessuale: la vergogna, il disonore sessuale di cui soffro. Anche questo spesso si manifesta in me in una sensazione fisica: mi sento costretto ad abbassare la testa, perché non mi posso attribuire il diritto di andare a testa alta.

Anche l'espressione che io uso: "essere divorato dalla frustrazione" è qualcosa di più di un semplice modo di dire e trova anche a livello fisico la sua realizzazione: io sono letteralmente divorato, e precisamente dal cancro. Questo è in realtà il cancro, la sua ragione, la sua origine, la sua disperazione, ben al di là di ogni accezione puramente medica.

La seconda meta della vita umana mi pare sia il SENSO della propria esistenza. Se già non si può essere felici, si vorrebbe per lo meno che la vita, anche una vita infelice, avesse un senso, un significato, un valore. Con questa espressione secondo me si fanno delle grosse confusioni. Intendo soprattutto la tendenza tanto generalizzata a voler trovare a tutti i costi un senso in tutte le cose. Una delle massime colpevoli nel pervertire il concetto di "senso", di "significato" è certamente la religione cristiana, che ci insegna che non un passero cade dal tetto senza che ci sia stata in questo la volontà del creatore del passero medesimo. Il dogma cristiano insegna: se il passero resta sul tetto, è stata la volontà divina a volerlo, e questo ha un senso; se invece il passero cade, anche questa è la volontà divina e ha il suo significato - solo che noi questo significato non riusciamo a comprenderlo. Se l'uccello dunque resta in volo o sul tetto, ciò ha un significato che anche noi possiamo capire; se pero il passero cade, ciò ha un significato che noi non possiamo capire. Ergo: TUTTO ha un senso. In questa argomentazione c'è una contraddizione che mi dà una tale nausea che non la posso sopportare senza reagire. A questo punto questo famoso Dio che ha creato il passero (anche se per mia personale convinzione non esiste) bisognerebbe addirittura inventarlo per poterlo prendere a sberle.

Io sono convinto che esista un senso delle cose. La logica conseguenza di ciò è che esiste anche il non senso. Non tutto può essere sensato, significativo; certe cose devono essere prive di senso. Anche della vita di un individuo non si può a tutti i costi affermare che ha avuto un senso. L'insensatezza, la mancanza di significato esiste e anche se nel momento della morte ci si pone l'interrogativo sul senso della vita, in quel momento in cui, come ho già detto, non ci sono più scappatoie verso Mosca, ciò non muta nulla nella necessità di dare una risposta; alla domanda sul senso della vita bisogna pur rispondere con un sì o con un no. Se la risposta è no, la cosa è molto dolorosa per la persona in questione, ma non per questo è meno vera.

Io però questo senso nella mia vita non riesco a trovarlo. I miei nevrotici genitori hanno prodotto in me un individuo fisicamente non abbastanza debole per morire al momento della nascita, ma, grazie all'ambiente nevrotico in cui lo si è fatto crescere, passibile di una totale distruzione psichica, quindi non in grado di giungere a un'esistenza che si potesse definire veramente umana. Per trent'anni infatti sono fisicamente esistito, ma psichicamente ero già morto fin dal principio. Oggi, dopo trent'anni di sterilità, il corpo va in pezzi e questo prodotto incapace di vita si autodistrugge. Ha un senso che fra la mia morte psichica e quella fisica ci siano stati in mezzo trent'anni di sofferenza, di angoscia, di depressione, di frustrazione? Ha un senso che io non sia morto subito dopo la nascita?

No, non riesco a vedere che senso possa avere. Non posso vedere che senso abbia che i miei genitori abbiano prodotto questa tormentata creatura e che, per tutto accompagnamento, nella vita non siano stati capaci di trasmettergli altro che la loro stessa incapacità di vivere e la loro stessa nevrosi. Avrebbe avuto molto più senso che non mi avessero messo al mondo. Avrebbe avuto molto più senso che mio padre si fosse fatto castrare e mia madre fosse rimasta sterile. Ma così, appunto, non è stato; e che non sia stato così, io la definisco una cosa senza senso.

Io però vedo nella vita umana, dopo la felicità e il senso, ancora un terzo possibile contenuto, cioè la CHIAREZZA. Se nella vita non posso essere felice, e la mia vita non ha un senso, posso almeno vedere con chiarezza che cosa sono e che cos'è la mia esistenza. In questo senso credo di poter trovare nella mia vita una certa logica e una certa coerenza. Ho già scritto della predisposizione nevrotica dei miei genitori e della mia convinzione che neppure loro siano state persone felici. Se esamino il decorso della mia esistenza, mi si rivela una certa catastrofica coerenza: la nevrosi dei miei genitori causa la mia nevrosi; la mia nevrosi dà luogo alla sofferenza di tutta la mia vita; la sofferenza fa sì che io mi ammali di cancro e il cancro da ultimo è la causa della mia morte. Non è una storia molto allegra ma è chiaramente comprensibile. La mia vicenda esistenziale mi angoscia a morte, ma mi è chiara e comprensibile. Vi debbo constatare una fatalità davanti alla quale non posso dire: "Ah ma cose simili non accadono"; al contrario, devo prendere atto che accadono, eccome. E' proprio quello che si chiama "vuotare il calice fino all'ultima goccia" e poi constatare: è così e non può essere diversamente.

Riconosco anche la necessità di trarre il meglio da ogni situazione e di qui giungo all'obbligo della sincerità: una volta constatato che una causa è perduta, è un errore chiudere gli occhi di fronte a questa realtà. Una sconfitta ammessa è sempre meglio di una sconfitta non accettata.

Io non ce l'ho fatta, sono stato sconfitto, la guerra è perduta. La guerra contro chi? Chi sono i miei nemici? E' difficile a dirsi, anche se per loro ci sono moltissimi nomi: i genitori, la famiglia, l'ambiente, la società borghese, la Svizzera, il sistema. In ognuno di questi elementi c'è qualcosa che potrei definire il principio ostile, anche se nessuno di essi, singolarmente intesi, basta a spiegare tutta la verità. Si potrebbe anche tentare di definirla come una forza sovrannaturale amorfa e del tutto anonima, in cui i singoli concetti di "genitori", "società", si illuminano di tanto in tanto per attimi, come scintille. Per la verità nel mio stato attuale mi preoccupa relativamente poco sapere chi è partecipe di questa forza sovrannaturale e anonima, e in quale misura, perché sono convinto che, per lo meno ora e qui, a Zurigo, in Svizzera, nel nostro sistema politico, ciascuno di noi è stato minacciato e danneggiato da questo anonimo principio ostile. Ho già detto che non mi considero un caso isolato, ma solo uno fra i tanti, anche se forse uno di quelli più gravemente colpiti. Un altro forse ne ha meno sofferto, alcuni lo hanno forse superato, altri hanno forse da portarne conseguenze anche peggiori, ma riescono meglio a tenersi a galla, e infine altri ancora ne sono vinti e ne muoiono.

Secondo Sartre, in questa condizione umana, evidentemente generale, l'essenziale non è tanto "che cosa si è fatto dell'uomo ma che cosa l'uomo ha saputo fare di ciò che a lui è stato fatto". Una frase che potrei sottoscrivere. Esiste certamente una possibilità di fare ancora qualcosa di ciò che si è subìto; forse ogni individuo ha questa possibilità. Forse anch'io l'avrei potuta avere? Forse se il danno che i miei genitori mi hanno arrecato (con tutto ciò che è compreso nel concetto "genitori"), non fosse stato così totale e conclusivo, mi sarebbe stato ancora possibile avere il tempo per diventare me stesso, prima che il cancro mi divorasse. Forse, se il decorso della mia malattia si fosse rallentato, mi sarebbe stato concesso ancora un certo lasso di tempo in cui avrei potuto superare la mia nevrosi.

Forse. Ma queste ipotesi sono inutili, perché in realtà le cose non stanno così o, per tornare alle parole di Sartre: non sono riuscito a fare qualcosa di ciò che mi è stato fatto. Sono stato distrutto, ma di questa "distruzione" non sono riuscito a fare nulla, come vorrebbe Sartre.

C'è ancora un ultimo punto da considerare nel fare l'inventario della mia vita. La mia tragedia è stata di non poter vivere quegli unici valori esistenziali che soli mi parevano degni di essere vissuti, perché evidentemente nella mia vita la cosa principale non è stato il mio io, la mia volontà, i miei sentimenti, ma sempre e soltanto la tara ereditaria: non è accaduto ciò che io volevo, ma ciò che i miei genitori o, per essere più precisi, i miei "genitori" fra virgolette hanno fatto di me. Così, ad esempio, i miei genitori hanno fatto sì che io non dovessi conoscere la sessualità, sebbene in quella parte del mio io che considero "me stesso" la sessualità sia il massimo dei valori. Soltanto una minimissima parte del mio io è veramente "me stesso"; la massima parte è stata invece avvelenata, violentata, distrutta dal principio ostile cui ho più sopra accennato, e di cui i miei genitori sono stati per me i più tipici rappresentanti. C'è in me come un enorme corpo estraneo, assai più grande del mio "me stesso", un corpo estraneo che mi divora e a cui soggiaccio.

L'espressione " corpo estraneo" chiarisce anche il confine fra ciò che è mio e ciò che non è mio, e QUESTA è l'ultima conseguenza di quel contenuto esistenziale che ho chiamato chiarezza: scoprire quale ultima piccola parte del mio io NON è stata intossicata dal mio passato, scoprire in quale parte del mio io possa riconoscermi senza dover volgere altrove lo sguardo pieno di odio e di orrore. Anche qui credo di poter stabilire un parallelo fra la mia nevrosi e il mio cancro.

Come l'organismo è invaso dal corpo estraneo "cancro" (sebbene anche questo corpo estraneo sia composto di cellule del mio stesso organismo, che originariamente non erano maligne), così anche la mia anima è invasa dal corpo estraneo "genitori" che, esattamente come le ulcerazioni cancerose del corpo, non conoscono altro scopo che quello di distruggere tutto l'organismo globalmente inteso. Come è noto, i tumori di solito in se stessi non sono dolenti; ciò che provoca il dolore sono gli organi sani compressi e soffocati dal tumore. Credo che ciò valga anche per la malattia psichica: ovunque sento dolore, là sono io. La tara ereditaria è dentro di me come un gigantesco tumore; tutto ciò che di esso soffre, l'angoscia, il tormento, la disperazione, quello sono io. Io non sono soltanto come i miei genitori; sono anche DIVERSO dai miei genitori, la mia individualità è fatta del dolore che provo. La mia vita è più tragica di quella dei miei genitori, la loro esistenza è stata più deprimente della mia; i miei genitori sono andati in rovina senza che mai gli venisse in mente che anche per loro poteva esserci un'occasione per uscire dalla rassegnazione. Io invece questa possibilità l'ho vista; ho visto che sarebbe potuta anche esserci la possibilità di una salvezza: che questa possibilità non abbia fatto in tempo a realizzarsi, di lì nasce la disperazione, lo sconforto, il dolore che per la sua mortale qualità di delusione diventa molto più selvaggio, violento, urlante della semplice passiva, opaca depressione dei miei genitori. Anche in questo, in questo mio essere così disperato, mi distinguo da loro, che invece non hanno accettato il rischio di conoscere la disperazione.

Anche la qualità della mia morte sarà diversa da quella di mio padre; per mio padre vale effettivamente la solita, banale immagine, alquanto kitsch, del vecchio orologio che, messo in un angolo e coperto di polvere, alla fine smette di funzionare. Un oggetto che per un certo tempo con pena e fatica ha continuato a ticchettare e poi alla fine si ferma, come un vecchio ferro arrugginito. La mia morte vorrei piuttosto definirla un'esplosione di disperazione. Detonazione e crollo. Se si vuole anche detonazione e crollo sono un po' kitsch, ma non come l'orologio, questo no.

E poi l'odio. Ciò che, ad onta di tutta l'inanità, l'assurdità, la totale mancanza di una qualsiasi via d'uscita, ancora urla e graffia e morde e odia come un animale calpestato: anche quello sono io. Io sono finito, ma non vengo a patti con quelli che mi hanno finito. Anche l'ultimo frammento del mio io, fiaccato dalla sofferenza e dal tormento e divorato dal cancro, ora muore - ma protestando. La protesta però è un concetto che va oltre il fatto di avere o non avere un senso; vive autonomamente, completamente sganciata dal concetto di significato. Aveva un senso che Ulrike Meinhof dichiarasse la guerra totale a un'intera nazione? Avere un senso non è la giusta espressione per questo, come non lo è neppure il contrario, non avere un senso.

Per conto mio poteva anche essere assurdo, totalmente insensato, ma è stato COERENTE. Non so quali siano state le circostanze che hanno indotto Ulrike Meinhof a diventare una terrorista; ma circostanze buone non possono in alcun caso essere state, perché nessuno che sta bene ed è in pace diventa terrorista. Molto probabilmente la sua è stata una vita infelice, forse era anche una vita priva di un reale significato, ma una cosa c'è stata nella sua vita: coerenza. Io in questo momento non getto bombe; ma la coerenza, credo, l'ho anch'io.

Anche se la coerenza dovesse essere l'unica cosa che posseggo.

Quando mi chiedo se davvero per me non esiste una felicità, un conforto, una liberazione, non posso sfuggire alla risposta; e la risposta è: no. Queste sono cose che la vita non mi ha concesso. Ma due cose la vita me le ha date: primo la chiarezza, la facoltà di vedere chiaramente la catastrofe della mia esistenza e di non raccontarmi storie. E in secondo luogo la forza di sopportare il peso di questa verità. La mia vita è l'inferno; lo so e sto di fronte a questo dato di fatto senza porre in atto manovre di diversione o di occultamento.

Sono in un campo di sterminio e quel fattore ereditario "parentale" che è in me sarà la mia camera a gas. Ma io sono dentro il campo di sterminio e i miei carnefici sono fuori. All'interno del campo godo di una certa, anche se estremamente limitata, libertà individuale. Ho la libertà di scegliere se voglio gridare sotto i colpi che ricevo o se dichiararmi d'accordo con i maltrattamenti che subisco. Posso scegliere se mentre muoio nella camera a gas voglio gridare "Heil Hitler" oppure "assassini". Ho la libertà di riconoscere la perversità della società che ha fatto di me quello che sono e la possibilità di soffrire di questo riconoscimento. Potrei anche rassegnarmi e dire sì e amen di fronte al mio assassinio. Questa volontà di distanziarmi in un certo senso dal mio passato familiare al punto di soffrire, questa è la mia libertà. Sono stato percosso, castrato e svergognato, disonorato, avvelenato e ucciso, ma in questa mia libertà individuale mi distinguo da un capo di bestiame portato al macello: in questo raggiungo persino una certa dignità umana.

Credo che da ultimo, malgrado tutto, è proprio la incommensurabilità del mio dolore che mi emancipa dal mio passato familiare.

(Nell'ambiente che è stato il mio si usa morire in maniera più discreta.) Mi sono angosciato a morte, muoio di dolore. Forse devo pagare con la morte proprio il mio voler essere diverso dai miei genitori. Forse persino il cancro è una scelta volontaria, il prezzo che sono disposto a pagare per liberarmi di loro. Qui si potrebbe obiettare che ciò significherebbe gettar via il bene per liberarsi dal male. Ma quando il bene è comunque già perduto, quando la vita è comunque destinata a finire, non è forse una ragione di più per liberarsi almeno del male, soprattutto quando questo male è odiato con tanta feroce violenza da dover essere eliminato a QUALUNQUE PREZZO? La emancipazione dal mio passato familiare deve aver luogo a qualunque prezzo, perché l'oppressione ch'esso ha esercitato su di me è la grande sopraffazione che ha travolto la mia vita. Se realmente non ci si può arrivare ad altro prezzo che con la morte, bene, allora anche la morte non è un prezzo troppo alto. Nessun prezzo è troppo elevato, se ciò che con esso si ottiene rappresenta una necessità. Potrei anche rassegnarmi e mettermi il cuore in pace, accettare di essere così come sono come i miei genitori mi hanno fatto; ma in questo caso diventerei il traditore di quel minuscolo frammento del mio io che chiamo "me stesso". Se mi rassegnassi e soffrissi meno di essere ciò che sono, probabilmente non morirei di dolore e potrei continuare a vivere. In tal caso mi sarei comperato la vita, e cioè la parte più deteriore della mia vita al prezzo di quel frammento di me stesso che non è ancora stato avvelenato. Allora la mia sconfitta sarebbe ancora più grande, perché sarei diventato il traditore di me stesso. Che ciò non sia avvenuto, rappresenta già, malgrado tutto, nella immensità della mia sconfitta, una piccola vittoria. 

Zurigo, 7. 6. 1976.

Terza parte

 

 

IL CAVALIERE, LA MORTE E IL DIAVOLO 

 

 

Sento la necessità di scrivere ora una terza parte della mia storia, sebbene non creda che la mia situazione si sia sostanzialmente modificata, né penso di essere giunto a consapevolezze nuove o molto diverse. Per me tutto rimane come prima, e tuttavia tutto è però cambiato. Vorrei spiegarlo con un esempio che ritengo anch'esso di carattere psicosomatico. La diagnosi clinica del mio male da qualche tempo è cambiata, ha preso un nome diverso. Dopo ulteriori, ripetuti esami, i medici ultimamente hanno scoperto che non ho un cancro, bensì un'altra malattia di natura maligna, che si chiama linfoma maligno.

Questa forma ha in comune con il cancro la maggior parte dei caratteri, presenta però alcuni tratti particolari, sufficienti per attribuirle una diversa denominazione. A questo proposito c'è da notare una cosa: le differenze fra il linfoma maligno e il cancro sono troppo poco note perché chi non si intende di medicina sia in grado di riconoscerle. Per il profano dunque, ora ho "una specie di cancro"; soltanto il tecnico sa che la cosa è diversa. Il fatto si può vedere anche sotto il profilo storico; soltanto qualche anno fa la medicina non sarebbe ancora stata in grado di cogliere questa sottile differenza e la mia malattia sarebbe stata ancora denominata cancro.

E' quindi necessaria una concomitanza di particolari circostanze diverse per arrivare a stabilire la differenza fra il cancro e il noncancro.

Oltre a ciò bisogna considerare la mia reale situazione individuale.

Anche il linfoma è una forma maligna, e quindi letale.

Se io in breve tempo muoio di un linfoma maligno, per me la conclusione è praticamente la stessa che se fossi morto di cancro.

Oppure - ed è poi la stessa cosa - anche se avessi un cancro, come si è creduto fino a qualche tempo fa, e sopravvivessi, sarei semplicemente sopravvissuto, ad onta di tutta la malignità del male.

Questa considerazione rende relativi anche i valori statistici: le possibilità di sopravvivenza per il linfoma maligno sono per la verità leggermente superiori che per il cancro; ma per il singolo malato resta del tutto privo di importanza sapere se muore di un male che statisticamente offre maggiori possibilità di sopravvivenza o di un altro. Per il malato, la sola cosa veramente interessante è sempre e soltanto una: guarire. Le cifre delle statistiche sulla sopravvivenza possono anche lasciarlo perfettamente indifferente.

Credo perciò che la sola differenza fra la mia attuale situazione clinica e la precedente sia di natura puramente stilistica. Il nome "cancro" è l'espressione proverbiale per tutto ciò che è male; il termine "linfoma" sul piano stilistico o, se si vuole, poetico, non dice assolutamente nulla, non è fiorito, non ispira a nulla e nemmeno fa inorridire, è semplicemente un termine tecnico della più aggiornata medicina. Non è un concetto magico, ma soltanto una parola che bisogna andare a cercare nei testi di divulgazione medica. Agli effetti di questo scritto ciò significa che la parola "cancro" sta per il male in generale in forma indifferenziata, mentre il termine "linfoma" sta per una indicazione clinica molto precisa e assai ben differenziabile.

Questo è del resto il senso di queste pagine, distinguere il male vago, impreciso da quello chiaramente precisabile.

Per la mia situazione emotiva naturalmente questa distinzione ha ben poca importanza. Nella mia infelicità ciò non ha portato alcun mutamento e l'unica cosa che posso fare di fronte a questa infelicità è continuare a scriverne. Fintanto che non mi sono liberato da questa jattura, devo continuare a gridare la mia sofferenza, anche se mai riuscirò a vomitarla tutta e anche se per tutta la mia vita non ci dovesse essere per me altro che questo. Non è molto bello passare tutta la propria esistenza a vomitare un passato che non si è riusciti a digerire, ma non riuscire a vomitarlo è ancora peggio. La sensazione tremenda che si prova prima del conato di vomito è sempre assai peggiore del vomito stesso.

Ci si potrebbe anche domandare se non è ora di finirla, se non mi sono occupato anche troppo del mio passato; la realtà però mi risponde che non è ancora abbastanza, la sofferenza della mia esistenza passata e presente non è ancora finita. Nuovi tumori continuano ininterrottamente a presentarsi, tumori sia fisici che morali e nessuno è mai l'ultimo. L'ultimo può essere tale nel senso che dopo di esso non si hanno altre manifestazioni patologiche e allora sono veramente guarito; ma ultimo può anche essere quello che mi uccide.

L'alternativa è ancora aperta. Per il momento il male mi sta ancora nelle ossa, nel senso più letterale del termine e io, come si suol dire, ne sono divorato fino al midollo, perché è proprio lì infatti, nel midollo, che il male negli ultimi tempi si è annidato e si manifesta con maggior virulenza. In ciascuna delle innumerevoli ossa del mio scheletro la malattia si annida maligna e aspetta soltanto di divorare l'osso e con esso anche me. E lo stesso sta avvenendo con il male psichico. Anche la nevrosi si annida dentro di me, altrettanto maligna, altrettanto generalizzata, altrettanto letale. Come è ancora da vedere se la massa infetta del linfoma sarà in grado di uccidermi, così resta ancora da vedere se la massa venefica della nevrosi si farà troppo insostenibile perché la vita possa continuare.

A questo si aggiunge la paura di non farcela, di non arrivare in tempo. La malattia psichica non è ancora guarita; se ora dovessi morire del male organico, prima che quello psichico sia guarito, allora dovrò dirmi che non ho fatto in tempo, che non ho saputo portare a termine il compito della mia vita, che non sono riuscito, che, ancora una volta, ho fallito. La cosa più angosciosa è ora appunto questa paura di non aver più il tempo necessario, di non poter vivere abbastanza per fare in tempo a liberarmi del mio passato.

Perché il mio compito ora è questo: liberarmi del tormento soffocante del mio passato. Il compito mi è perfettamente chiaro in tutta la sua necessarietà, in tutta la sua logica, che lo possa portare a termine o no. Per il problema che così mi viene posto non ha alcuna importanza se vinco o se perdo. Il pensiero che la probabilità di perdere è assai grande, è molto angosciante ma ciò non muta nulla nella impostazione del problema. Ogni momento del mio passato ha in sé la facoltà di uccidermi così come ogni cellula del mio organismo porta in sé la possibilità di distruggere il corpo. Il caso è chiaro: devo andarmene di qui, via da tutto, da tutto quello che sono stato, poiché tutto ciò significa per me un immediato pericolo di morte.

Lo si può dire persino con una formula matematica: quanto più lontano da tutto ciò che mi uccide, tanto meglio. Anche se non dovessi più farcela, anche ogni più minuscola vittoria parziale è già qualcosa, anche se il male nel suo complesso non è più domabile. Meglio poco che niente. O, viceversa: "tanto molesta lo poco como lo mucho". Anche i più piccoli sollievi sono sollievi, e persino nell'ultima disperazione vi può ancora essere qualcosa che va oltre ogni disperazione.

Un esempio molto illuminante lo ha portato Michail A. Bulgachov in "Il Maestro e Margherita". In questo libro ho letto per la prima volta del tormento delle mosche che Gesù ha sofferto sulla croce. "Il capo coperto di sangue e di ferite" è già stato dipinto e cantato migliaia di volte, ma alle mosche prima di Bulgachov nessuno ci aveva pensato.

Le mosche in sé non sono poi la cosa peggiore che possa capitare, né per un crocifisso né per un comune mortale in una situazione normale.

Ma quando però un poveretto è già appeso alla croce e sta nel sangue, nei tormenti e nella infinita desolazione dell'ultima umiliazione, e per di più nella calura di un Paese meridionale e alla fine viene anche assalito da uno sciame di mosche, si può soltanto dire: ci mancava soltanto questo. Chissà, forse a un certo momento può anche darsi che le mosche diventino la cosa più importante, la più difficile da sopportare. Posso immaginare che l'ultima cosa che un uomo crocifisso sente, dopo che da molto ormai il dolore fisico e i tormenti dello spirito si sono mescolati fino a diventare un'unica, generale sofferenza, posso ben immaginare che l'ultima cosa sia questa disgustosa sensazione di essere attorniato e assalito da uno sciame di mosche nere e assillanti.

D'altro canto, quando uno è condannato all'impiccagione ed è già legato all'albero dal quale dovrà poi penzolare e aspetta l'esecuzione, si può immaginare che mentre è lì che aspetta, nel caso dovesse essere una giornata molto calda, magari si mette un momento a sedere all'ombra e non al sole. Ciò non porta più alcuna differenza nel fatto che sarà impiccato; ma certo è sempre meglio aspettare all'ombra che sotto il sole cocente.

Voglio dire con questo che anche per me ogni lenimento della mia sofferenza psichica è benvenuto, persino se per una guarigione dovesse essere troppo tardi. Quest'ultima eventualità però non è ancora dimostrata. Non sono cioè ancora guarito, ma non è ancora detto, in maniera irrevocabile, che io sia inguaribile. Fintanto che non è dimostrato che la condanna è definitiva e inappellabile, sussiste pur sempre la speranza, e quando mi domando che cos'è che mi tiene ancora in piedi e fa sì che io possa sopportare questa esistenza, so che è appunto questa piccola speranza. Fino ad oggi la speranza di un domani migliore è sempre stata più grande della disperazione che mi danno il mio passato e il mio presente, e l'impulso che mi fa desiderare la liberazione da questo presente è, malgrado tutto, ancora più forte di quello di togliermi la vita.

Anche questa non è una cosa nuova, ma anch'essa va continuamente ripetuta. Anche se non voglio più dire niente di nuovo, voglio però continuare a ripetere ciò che ho già detto. L'essenziale della mia storia l'ho già delineato, ma le varianti, le diramazioni di questa storia vanno continuamente seguite nella singolarità della loro natura. In questo momento il mio massimo desiderio è quello della chiarezza; il bisogno di definire sempre meglio, con sempre maggior precisione, chiamandoli per nome, i singoli aspetti dell'angoscia che minaccia di soffocarmi.

Ho già accennato altrove che il carattere particolare della mia infelicità, del mio essere preda di questa infelicità, è di natura puramente quantitativa. Tutti sono nevrotici, ma io lo sono un poco di più. Tutti sono malati, e probabilmente tutte le malattie sono condizionate da una situazione psichica (si dice persino che anche sciagure di aspetto esteriormente così meccanico come gli incidenti stradali siano di origine psicosomatica), ma l'emicrania finisce, il cancro uccide. Dire che tutti sono nevrotici e che perciò la mia nevrosi rientra nel campo della normalità, non ha per me alcuna importanza. Anch'io sono convinto di essere in questo senso "normale", in quanto soffro di nevrosi come tutti gli altri, credo però che la anomalia del mio caso consista appunto in quel pochino in più, in base al quale il mio danno psichico si differenzia dal danno psichico degli altri, dei "normali", appunto. L'acqua bolle a cento gradi. A novantotto non bolle ancora, ma a cento sì, appunto questa è la piccola - o grande - differenza.

La differenza dal novantanovesimo grado al centesimo è appunto il piccolo particolare che porta all'ebollizione, una differenza minima sulla scala del termometro, ma la conseguenza è rilevante.

Credo che esista la necessità di vedere le cose con chiarezza. Nella prima parte della mia storia ho raccontato come nella casa dei miei genitori tutto era "difficile". Ora voglio tentare di dimostrare che nulla è "difficile", ma, al contrario, tutte le cose sono in fondo molto semplici o per lo meno semplici da dire. Intendo cioè che le impostazioni dei problemi sono sempre semplici, persino quando la soluzione dei problemi stessi si rivela poi difficile. La vita non è "difficile", è semplicissima; difficile è soltanto esserne veramente padroni. Anche le cose della vita non sono "difficili"; in sé sono semplici, ma spesso sono orrende da chiamare per nome. La frase "E' morto" la si pronuncia a fatica non perché sia difficile, ma perché è terribile.

Nel corso della mia malattia il mondo è diventato per me sempre più semplice e sempre più opprimente. Le mie angosce e le mie sofferenze hanno continuato ad aumentare, ma nell'ambito di queste angosce e sofferenze tutte le cose hanno intanto acquisito il loro vero nome. I nomi sono certamente importanti. Come Adamo agli inizi del mondo ha provato il bisogno di chiamare tutti gli animali per nome e dire: tu sei la tigre, e tu sei il ragno e tu sei il canguro, anch'io, di fronte alla distruzione che mi minaccia, provo il bisogno di dire a ogni fitta che mi trapassa il cuore: tu ti chiami così e tu così e tu così. A nessuno piace restare anonimo; e probabilmente nessuno vuole neanche morire di qualcosa di anonimo.

Soprattutto però vorrei dare a me stesso un nome e potermi dire: tu ti chiami così. La mia vita è fatta soprattutto di infelicità; questo l'ho già detto nella prima parte della mia storia. Dopo tutto ciò che so di me stesso, è in fondo logico e chiaro che io sia infelice, e quindi non è neppure tanto interessante. La mia infelicità è nel non poter essere quello che vorrei; è nel fatto che la massima parte di me non sono io, ma qualcosa che mi è estraneo, che sta di fronte al "me stesso" come un nemico, e persino minaccia di divorarlo e annientarlo completamente. In grandissima parte io sono, più che il prodotto, la scoria delle frustrazioni e dei pregiudizi borghesi (di questo avrò ancora occasione di parlare), ma in un'altra, piccolissima parte di me, io non sono questo. Ho già tentato di definire la mia individualità come la sostanza stessa del dolore che provo nell'essere come sono. Vorrei ampliare tale definizione affermando che la mia individualità non è fatta soltanto del dolore che nasce dalla mia condizione, ma anche del mio giudizio su questa condizione. Quando mi vedo costretto a considerarmi un prodotto di scarto, una scoria della società borghese, vorrei da questa scoria estrarre la parte di me che ora così la giudica, perché questa parte sono veramente io. Ed è questa in effetti che costituisce l'interesse della mia storia. La mia infelicità è soltanto una parte presa a caso nell'infelicità generale e rappresenta solo l'elemento generico, quindi non interessante. Ciò che interessa è soltanto la mia individuale ribellione contro questa infelicità. Solo l'elemento INDIVIDUALE è la mia storia, o meglio: solo l'elemento individuale è la MIA storia.

Quasi tutto in me è stato preventivamente programmato: i miei genitori nevrotici, un ambiente nevrotico, e da parte mia una certa ricettività per questa atmosfera nevrotizzante, che hanno fatto di me quello che ora sono. Ma non solo questo. Io non sono soltanto il prodotto matematicamente calcolabile di un infernale computer, un prodotto assolutamente odioso, ma sono anche qualcosa di più, e proprio questo "qualcosa di più" che si sottrae al raggio d'azione di questo diabolico meccanismo, questo non lo odio; questo "qualcosa di più" che non è stato programmato e ottenuto con la costrizione, che non è tarato, è, al contrario, nuovo e importante. Essere tarati rende infelici, è molto chiaro. Ma ciò che ora importa è quello che fa la parte non tarata di me; questo è l'aspetto affascinante e particolare all'interno della storia di una infelicità altrimenti non interessante perché comune.

Avere dei genitori che mi hanno lasciato in eredità i loro problemi irrisolti e la loro nevrosi non basta a fare di me qualcosa di speciale. E' ciò che sempre accade; tutti i genitori lo fanno. I genitori sono un male necessario; c'è bisogno di loro per poter esistere. Mi sono già domandato se nel mio caso il male non è stato più grave della necessità di esistere, ma oggi devo rispondere negativamente a questa domanda. Se potessi pensare che per me sarebbe stato davvero meglio non venire al mondo piuttosto che esserci così, mi sarei già tolto la vita da un pezzo. Ne concludo quindi che per me fino ad oggi la necessità dl vivere, malgrado tutto, è stata più grande del male che la vita ha significato per me.

L'elemento particolare del mio caso è semplicemente che il male della vita e il male dei genitori sono stati di quel fatale "pochino" più grandi che in altri, normali o anormali. Vorrei spiegarlo con un esempio di carattere ecologico. L'individualità del bambino e l'influsso dei genitori, ostile a questa individualità, si possono paragonare a uno spazio vitale biologico. Per fare un esempio: in un bosco vivono lupi e caprioli. I lupi mangiano i caprioli, i caprioli mangiano le foglie degli alberi e il bosco costituisce per entrambi lo spazio vitale. Se i lupi prendono il sopravvento, mangiano troppi caprioli e i pochi caprioli che restano non bastano a mangiare foglie nella giusta misura, il bosco diventa troppo folto e sempre più simile a una foresta vergine in cui né lupi né caprioli possono più vivere.

Se invece sono i caprioli a prendere il sopravvento, i lupi non possono più mangiare abbastanza caprioli e i caprioli mangiano troppo fogliame dagli alberi: il bosco si spoglia e di nuovo diventa uno spazio non più vitale né per lupi né per caprioli. Che i lupi fino a un certo limite debbano mangiare i caprioli è quindi giusto e persino necessario per la vita di tutti; solo non devono mangiare TROPPO e neppure TROPPO POCO.

Vorrei paragonare la mia situazione esistenziale a un equilibrio biologico disturbato di questo tipo: essere un po' divorato non avrebbe ecceduto dai limiti della norma, del biologicamente sano; il mio problema è che sono stato divorato TROPPO. Che nel mio bosco si mangi e ci si nutra, l'uno a spese dell'altro, mi va benissimo. Il bosco funziona fintanto che al suo interno si conserva il giusto rapporto; ma non appena si mangia troppo, il bosco non funziona più e muore. Qui non importa affatto ciò che più piace all'uno o all'altro; c'è chi ama più i caprioli e chi preferisce i lupi; non ha nessuna importanza. I caprioli però non sono soltanto i "poveri" caprioli, e i lupi non sono solo i lupi "cattivi"; negli animali mangiare ed essere mangiati serve solo a mantenere un giusto rapporto, per salvaguardare l'equilibrio della foresta - in tal caso tutto funziona.

Abbiamo così la definizione della vita: il bosco vive fintanto che funziona. Chi sta di fronte al bosco non si domanda se ha un senso che da un lato i lupi mangino i caprioli e dall'altro i caprioli mangino le foglie; vede soltanto che il bosco è vivo e verde - e questo a quanto pare basta. Anche qui mi può essere d'aiuto la concezione di Wilhelm Reich, per cui la vita non ha alcun bisogno di avere un senso; basta che funzioni. O, in altre parole: chi guarda il bosco vede che prospera, che "funziona", non pensa al "senso". Pensa invece che si è contenti che il bosco "funzioni", perché il giorno che non dovesse più funzionare, sarebbe un guaio, una "disgrazia". Traggo quindi la conclusione: ciò che non funziona è una disgrazia; ciò che funziona è un bene o, viceversa: bene è ciò che funziona.

Credo che il bene, cioè la felicità, sia anche qualcosa di molto concreto, di una brutale immediatezza. La vita del resto non è tenera; perché la felicità dovrebbe essere una cosa tanto dolce e delicata? Si è felici, così come si è vivi; per constatarlo non occorre essere particolarmente colti. Quando uno è infelice o giace morto per la strada, non c'è più bisogno di un professore che faccia uno studio approfondito del caso per poi sentenziare, dall'alto della sua sapienza: è morto.

Anche per giudicare il mio caso non c'è bisogno di un professore: basta soltanto il coraggio di chiamare le cose con il loro nome. Sono infelice perché non funziono e non ho mai funzionato. Da ragazzo non sono stato un ragazzo, da adulto non sono stato un adulto, da uomo non sono stato un uomo; non ho funzionato sotto nessun aspetto. E ora, per rendere più chiaro ed evidente al mondo intero questo mio "non funzionare", anche il mio corpo non funziona più, sia simbolicamente, sia in maniera concreta e terribilmente coerente, è malato, è avvelenato, è infiltrato dalla morte. Questo "non funzionare", questa morte, che è morte dei sentimenti, morte del corpo, morte della vita, questa è la mia infelicità, la mia "disgrazia". Questo non è "difficile", al contrario è logico, chiaro, semplice, è soltanto così.

Come l'infelicità è qualcosa di facilmente riconoscibile, credo che anche la felicità sia una cosa semplice, anche se nel corso dei millenni il concetto di felicità è sempre stato interpretato in maniera più o meno sofisticata. Penso qui ad esempio alla differenza fra la felicità dell'Antico Testamento e quella del mondo cristiano.

Il Dio dell'Antico Testamento promette ad Abramo di benedirlo in maniera tangibile, e in effetti lo fa: "E Abramo era ricco di bestiame, di argento e di oro". Gesù, per contro, nella sua predica della montagna propone: "Beati i poveri, perché a loro apparterrà il regno di Dio. Beati coloro che piangono, perché rideranno. Guai a voi che ora ridete perché sarete nel lutto e nel pianto" (Luca, 6.20).

Bisogna ammettere che la concezione della felicità nel Nuovo Testamento è molto più raffinata e sottile - anche se un pochino troppo sottile, proprio di quel "pochino" che impedisce di esserne davvero contenti. Nel sentire "beati i poveri" si prova già un certo senso di disagio alla bocca dello stomaco, ma al "guai a voi che ridete", lo stomaco si rivolta del tutto. Un difensore della nuova fede potrebbe obiettare che la felicità data da Dio ad Abramo è in fondo una cosa molto banale perché tutto sommato è fatta solo di oro e di cammelli, mentre quella promessa dal Cristo è molto più nobile ed elevata. Potrebbe obiettare: che cos'è dopotutto un cammello? Al che si potrebbe rispondere: che cos'è dopotutto l'elevatezza? E' assai significativo che su questo punto anche la proverbiale saggezza popolare e la teologia cristiana si contraddicano. In senso teologico, infatti, la speranza è considerata una delle sette virtù cardinali, mentre un detto popolare afferma: "dall'aspetta e spera si riconosce il matto". Ho già altrove affermato che anche nella mia vita la speranza ha un ruolo preminente e sono d'avviso che in sé è una buona cosa, ma una VIRTU' no, non lo è. L'intero problema mi pare si riduca a una questione di gusto, e sui gusti, è noto, non è il caso di discutere. Preferire il cammello di Abramo o il regno di Dio di Cristo, è una questione di temperamento. Personalmente sono per il cammello, perché mi sembra una scelta più vitale. Come mi figuro la felicità qualcosa di concreto, così soffro la mia infelicità come una cosa molto concreta. La mia infelicità è il cancro e qui, come sempre, intendo tanto l'aspetto organico quanto quello psicologico. Ho anche cercato di spiegarmi questa infelicità e sono giunto alla formula: i miei genitori sono il mio tumore. Ora come sempre sono del parere che questa formula sia quella giusta, non vorrei però liquidarla con un semplice modo di dire, ma cercare invece di approfondirla. In questo senso mi pare significativo che la mia diagnosi clinica oggi non sia più cancro ma, meno genericamente, linfoma maligno. Dire che i miei genitori sono stati il mio linfoma maligno suona meno generico, ma indica che i miei genitori hanno significato per me non il male in generale, ma un male ben definito e preciso.

Indica che non solo la parola "cancro" è un modo di dire, ma lo è anche il termine "genitori", sebbene i miei genitori non siano solo un concetto puramente astratto, ma, al contrario, esistano, siano esistiti in maniera quanto mai reale e concreta. Vedo i miei genitori, e anche me stesso, come un miscuglio di parti diverse. Io ho riconosciuto di essere un miscuglio in cui alla mia più autentica individualità si unisce una massa di pregiudizi borghesi assolutamente estranei alla mia vera natura, e così vedo anche i miei genitori come un miscuglio formato dalla loro individualità e dalla zavorra di ciò che hanno a loro volta ereditato.

Ho già detto che non posso intendere i miei genitori semplicemente come il "male", come i "cattivi" che mi hanno fatto del male. In proposito voglio fare ancora una precisazione: i miei genitori non sono stati per me "cattivi", il che non significa che non siano stati un male. In termini matematici: i miei genitori per me non furono un po' cattivi o piuttosto cattivi o per metà cattivi, in grandissima parte non sono stati affatto cattivi; ma in un certo senso sono stati per me il male in senso assoluto. Per quanto riguarda il loro influsso sulla mia esistenza e sulla mia sorte essi hanno avuto fra l'altro un aspetto che ha significato per me il male in senso assoluto.

L'espressione "il male in senso assoluto" non è una contraddizione: relativo è soltanto ciò che ci confronta con il resto, mentre "assoluto" per me è il fatto che questo male ora mi minaccia con la morte e la mia morte per me è un assoluto.

Come individui i miei genitori non erano cattivi, né mio padre né mia madre. Mio padre, un pover'uomo silenzioso, tranquillo, triste e distinto, persino dotato di una certa sua nobiltà, che andava a lavorare coscienzioso e depresso, con un confuso senso di tristezza nel plesso solare, che, se glielo avessero chiesto, avrebbe certo definito "coraggio"; e mia madre che ora da anziana signora solitaria immersa in una inerte gentilezza priva di ogni vitalità consuma i suoi giorni in una grande villa sulla riva del lago di Zurigo - no, non erano cattivi; eppure mi hanno fatto tanto male. Io non odio l'uomo "padre" né la donna "madre" e tuttavia odio coloro che sotto il generico nome di "genitori" mi hanno entrambi fatto tanto male. Non troverei giusto odiare mio padre o mia madre, ma trovo giusto odiare i "genitori", in senso generale, perché bisogna odiare i propri oppressori, i persecutori. Bisogna odiare coloro che ci uccidono; non farlo, sarebbe una vergogna. Non si può dire a colui che uccide: sono d'accordo che tu mi tolga la vita. No, questo non si fa. Anche qui c'è una morale.

Tempo fa mi sono molto spesso trastullato con il pensiero di uccidere mia madre e ne ho spesso anche sognato. In forma di visione mi sono visto gettare mia madre giù per le scale della cantina e battere ripetutamente contro il pavimento di pietra il capo insanguinato fino a vederlo ridotto a una massa informe che si dissolveva in una pozza di sangue. Una visione di orrore - ma una visione reale. Mi ricorda sempre il Goya, che sotto le più orribili e mostruose delle sue rappresentazioni di incubi e di crudeltà dei "Desastres de la guerra" ha semplicemente messo come titolo le parole: "Yo le he visto" - io l'ho visto. L'ho visto, perciò è anche accaduto, perciò è anche realtà. Ma se ora trasferisco questa visione sulla persona di mia madre e immagino di gettare la mia vera madre giù per le scale della cantina della sua vera casa - che sciocco e insensato atto di sangue sarebbe mai! Un'azione insensata, assurda, certo - ma non soltanto insensata. Insensato sarebbe l'atto di sangue se si realizzasse in maniera concreta, ma la visione indica una certa dimensione in cui non sarebbe assurda, in cui, anzi, deve avvenire. Nella dimensione in cui mia madre per me personifica il male, in questa dimensione è giusto e sensato e necessario che io immerga la sua testa nel sangue, anche se solo nella forma in cui questi concetti diventano valori puramente simbolici.

Da un lato è stato anche insensato decapitare Maria Antonietta, perché non era lei la colpa della miseria e dei mali del popolo francese, ma per un altro verso è stato giusto decapitarla, perché, indipendentemente dalla sua personalità individuale, lei era anche la figura simbolica di quella miseria e di quella sofferenza. Sollevando la testa di Maria Antonietta per mostrarla al popolo, il carnefice non mostrava la testa di una donna di nome Maria Antonietta, ma la testa della regina, e quella testa il popolo aveva tutto il diritto di averla, è giusto che l'abbia avuta. E qui non mi si venga a obiettare che il popolo intorno alla ghigliottina era plebaglia e quindi non era necessario rispettare le sue esigenze, la plebaglia esiste e ha le sue pretese; pone le sue condizioni: è la realtà. Anche il cancro non è una cosa distinta, ma esiste.

Non è la testa della gentile, anziana signora della villa sul lago di Zurigo che deve cadere, ma un'altra testa, come simbolo, deve cadere, perché è nell'ordine delle cose che di tanto in tanto cadano delle teste, è nel corso delle cose di questo mondo. Io sono minacciato dalla morte e in questo stesso istante vengo ucciso. Mi si uccide, o mi si è già ucciso, ma io non so ancora chi lo ha fatto. I miei genitori mi hanno ucciso. Lo hanno fatto, ma non lo hanno fatto loro fisicamente, soprattutto non hanno mai saputo di averlo fatto. Lo hanno fatto senza cattiva intenzione, inconsciamente e, da ultimo, persino contro la loro stessa volontà. Mio padre è morto, mia madre vive ancora. In un certo senso mia madre mi ha ucciso, ma io non voglio né posso odiarla per questo, perché so che lei non lo sa.

Un'altra visione dei tempi passati, che appare fantastica, ma che pure simbolicamente è molto eloquente, è stata per me quella in cui facevo saltare in aria la Banca di Credito Svizzero. Perché proprio questa banca? Oggi la visione mi appare molto chiara: perché in quella banca è depositato tutto il denaro che mio padre mi ha lasciato in eredità.

In quel luogo giace dunque la mia eredità parentale in forma concreta e tangibile e questa eredità consiste solo in minimissima parte di migliaia e migliaia di franchi, ma in grandissima parte delle migliaia e migliaia di angosce e disperazioni che mi affliggono. Che la Banca di Credito Svizzero come oggetto da far saltare in aria rappresenti un simbolo più che plausibile, mi pare più che evidente. La parte pratica del progetto non presenta difficoltà, perché al giorno d'oggi chiunque ha almeno un amico che conosce un palestinese. Che il progetto dal lato finanziario sarebbe una grossa sciocchezza, anche questo è chiaramente comprensibile, perché dopotutto il denaro che ho ereditato mi serve per pagare i molti medici che mi curano (la Cassa malattia non paga più un centesimo, perché il cancro è una faccenda costosa e di qualcosa, dopotutto, anche le assicurazioni devono pur vivere, così che ora dipendo esclusivamente dalle mie personali risorse finanziarie). Io considero questo denaro come l'indennizzo per la mia sofferenza: l'ho avuto per tutte le sofferenze e i dolori che ho patito: l'ho amaramente guadagnato, molto più amaramente che con il sudore della fronte, l'ho guadagnato con le lacrime; lo considero veramente guadagnato e mio. Vedo persino un certo aspetto di giustizia sociale dietro la mia attuale situazione finanziaria: ho cioè ereditato dai miei genitori più denaro di molta altra gente, ma ho anche bisogno di più denaro di molta altra gente, perché i molti danni che ho anche ereditato dai miei genitori, devo cercare di ripararli spendendo molto denaro.

L'intero progetto di allora di far saltare in aria la Banca di Credito Svizzero, oggi come gesto simbolico lo trovo nel suo significato altamente lodevole: il luogo dove è depositata la mia eredità merita di esplodere - solo che non deve essere in concreto proprio quel pomposo palazzo della Paradeplatz di Zurigo in cui giace custodito il denaro che i miei medici aspettano, perché fintanto che sono malato, non posso permettermi di essere anche in miseria. Anche per motivi non finanziari risulta chiaro e comprensibile che non può essere il mio più vivo desiderio trasformare la più bella banca di Zurigo in un cumulo di macerie, perché ciò che questo luogo personifica per me - il luogo che custodisce la mia letale eredità - non lo si può far saltare con la dinamite. La Banca di Credito Svizzero è anche la quintessenza, il concetto astratto dello spirito zurighese, del borghesismo e dello svizzerismo nelle sue espressioni più deteriori; ma questo aspetto deteriore di Zurigo, del borghesismo, dello svizzerismo, non si trova in un palazzo di solida pietra, che si può far saltare in aria; la natura maligna di queste precipue qualità io ce l'ho nelle ossa, e le ossa non si guariscono con la dinamite.

Inoltre considero le banche svizzere non soltanto detestabili. Trovo cioè che le banche di Zurigo non sono precisamente il monumento più bello della città, ma rivelano però con rude franchezza l'insolente atteggiamento zurighese; poiché se questa bella città è odiata e disprezzata in tutto il mondo, non è certo per il suo bel lago e neppure per i suoi campanili; ammetto d'altro canto che anche le banche, indipendentemente dal loro significato simbolico, assolvono un compito necessario. Anche le cave in cui si raccolgono le immondizie non sono una cosa piacevole, tuttavia sono necessarie.

Perciò ho parlato di valori simbolici riferendomi ai miei genitori e al denaro che ho da loro ereditato e che è depositato presso la Banca di Credito Svizzero. Per questo motivo ho anche prestato fede alle mie visioni di violenza di un tempo; in esse infatti questi valori simbolici assumevano forma concreta, che sarebbe stata assurda in una sua ipotetica realizzazione, ma che nel suo valore simbolico colpiva perfettamente nel segno.

Devo però aggiungere che ciò che riesce bene alla mente, non riesce sempre altrettanto bene allo spirito. Capisco che i miei genitori sono da vedersi come due diversi ordini di cose: in primo luogo, sono un signore e una signora in una bella villa con giardino sul lago di Zurigo, in secondo luogo, essi sono la personificazione di qualcosa che mi è stato letale. Quando siedo alla scrivania "freddo fin dentro il cuore", allora i miei "genitori" sono per me un concetto intellettuale, che io, da uomo di cultura, so manipolare con arte e abilità e in cui, come in un gioco di perle di vetro, riesco a far giocare a mio piacimento tutte le possibili sfaccettature di un virtuale problema.

Talvolta invece non seggo neppure alla scrivania, ma mi volto e rivolto nel letto in preda alla furia, a un'ira disperata, perché la notte non riesco a dormire per i dolori e allora non sono più un intellettuale che martella sulla macchina da scrivere sottili disquisizioni sul dolore, ma sono soltanto tutto e unicamente in preda al mio dolore fisico e psichico, e allora sono anch'io la plebe di Parigi che vuole vedere una testa insanguinata, e gli è indifferente se quella testa è stata di una certa Maria Antonietta; ciò che gli preme è che sia la testa della regina.

Come prognosi per me stesso potrei stabilire questo: non appena avrò superato i miei genitori - i miei "gen tori" - non appena mi saranno divenuti del tutto indifferenti, sarò guarito e salvo. Ma questo è ancora molto difficile per me, fintanto che la misura delle offese fisiche che mi sono state inflitte non è ancora colma, ma continua a crescere. Potrei dimenticare i danni subiti se me li fossi già lasciati alle spalle. Ma nulla è ancora alle mie spalle, tutto è ancora presente, ci sono dentro, ci sono in mezzo, ora, in questo momento, tutto vive in me incessantemente. Non ho una sola lacrima di rimpianto per il mio infelice passato e mi sento perfettamente in grado, se non di dimenticarlo, per lo meno di vincerlo, di superarlo.

Ma che tutto ciò che mi ha tormentato nel passato debba continuare a verificarsi anche nel presente, questo mi opprime e mi angoscia oltre ogni limite, troppo perché lo possa prendere alla leggera o addirittura ignorare. Non ciò che di amaro ho vissuto, mi rattrista, ma il pensiero che esso continui ad agire, ancora e sempre. Non il peso del passato mi affligge, ma il pensiero che anche per il futuro non vi sia una fine, è questo che non riesco a superare. Ogni giorno può presentarsi un nuovo danno fisico o psichico; ogni giorno porta in sé un nuovo dolore e ogni dolore nasconde in sé la possibilità di crescere e di rivelarsi un nuovo tumore. Ciascuno di questi tumori vuole la mia morte e ciascuno può essere l'ultimo. Ma l'ultimo uccide.

In questi tumori l'aspetto simbolico si eleva al di sopra del simbolico fino a entrare nel demoniaco. Ogni nuova tumefazione che si presenta con un turgore che si rileva sul corpo liscio, sembra sorgere dalle profondità della sua origine psicosomatica e rappresentare la smorfia demoniaca e contorta dei miei demoniaci "genitori", e qui è chiaro che il termine "genitori" si leva nel turbine di una spirale di nebbia di cosmico orrore e spazia e si disperde nell'infinito dell'orrore primordiale, nell'indicibile.

Qui si direbbe quasi che io voglia che i miei genitori siano stati soltanto i "genitori" intesi nel loro significato e contenuto simbolico; due figure irreali che vivono soltanto sulla scacchiera della mia costruzione intellettuale come scacchi che si spostano qua e là. I miei genitori sono certo anche QUESTO, ma non sono soltanto figure simboliche del concetto generico di genitori, di borghesi, di zurighesi, di svizzeri; sono stati anche creature assolutamente reali, mio padre, che alcuni anni fa è morto per un aneurisma, e mia madre che vive da vedova sulla sponda del lago di Zurigo nella casa ereditata dal marito. Come genitori concreti essi non erano soltanto rappresentanti e archetipi della specie "genitori zurighesi dell'ambiente borghese", ma avevano anche le loro caratteristiche individuali. Se però ora considero solo quell'aspetto particolare che doveva diventarmi fatale, arrivo nuovamente alla conclusione che la differenza fra i miei genitori e altri genitori, altrettanto normali o altrettanto anormali, è appunto stata di natura puramente quantitativa. Intendo cioè dire che nella loro detestabilità i miei genitori erano assolutamente privi di ogni originalità.

Del resto non si può neppure dire che fossero particolarmente detestabili; erano soltanto un pochino più detestabili di tanti altri genitori detestabili dello stesso ambiente borghese. Non erano più cattivi di altri genitori (ho già detto anche prima che erano persino decisamente gentili, le cosiddette "care persone"), erano soltanto un pochino più tarati di quanto si sia comunque sulla taratissima costa d'oro di Zurigo. Erano solo un pochino più borghesi, un pochino più inibiti, un pochino più ostili alla vita, un pochino più ostili alla sessualità, un pochino più puliti, un pochino più "comme il faut", un pochino più svizzeri di tutti i loro vicini che pure lo erano già tanto anche loro - e appunto quel pochino adesso mi uccide. A questo punto si può soltanto ricordare che è pur sempre soltanto un'ultima goccia quella che fa traboccare il vaso.

E io? Io ero appunto un pochino più sensibile di quanto lo fossero gli altri bambini, e per questo ho anche vissuto il mio ambiente più negativamente degli altri bambini. Si può allora concludere che la mia educazione in fondo non è stata poi tanto cattiva, e che l'avrei superata senza difficoltà se soltanto non fossi stato così sensibile?

Naturalmente no, perché un'educazione è cattiva quando riescono a superarla solo i bambini che non sono sensibili, ed è buona soltanto quando la superano persino i bambini sensibili. Non credo cioè che la sensibilità sia in sé un fattore negativo. Soprattutto non è colpa della sensibilità quando uno muore. Quando sarò morto non si potrà dire che sono morto perché sono stato così sensibile; al contrario, resterà chiaro e fermo che sono morto delle conseguenze di una educazione sbagliata, con o senza sensibilità. Mi ribello all'idea di essere morto e basta. Perché il giorno che sarò morto, saprò almeno PERCHE'. Ancora una parola a proposito di sensibilità. Non credo, in effetti, che la sensibilità sia un elemento di inferiorità, ma sono l'ultimo che - come si fa tanto volentieri negli ambienti borghesi trova così meraviglioso quando di un tale si può dire che è un tipo "tanto sensibile". Già Schiller nel suo saggio su "Poesia ingenua e sentimentale" ha dimostrato che il sentimentalismo può essere invero molto sgradevole per il singolo individuo, ma è invece molto importante per la società. Vorrei andare ancora più in là e notare che per l'interessato la sensibilità spesso è persino più una disgrazia che altro e che porta all'individuo molte sofferenze e ben poche gioie. Per l'interessato è certamente una disgrazia, ma secondo me questo non è un buon motivo per estirparla. Io la considero una sofferenza, ma non una debolezza. Nel caso degli uccelli di passo tanto per fare un esempio, la debolezza dei piccoli rappresenta un motivo sufficiente per sopprimerli, per il bene di una sana comunità.

Nell'ambito della loro società, la debolezza dell'uccellino di passo può effettivamente essere un elemento di inferiorità, ma nella società umana la sensibilità non rappresenta una simile debolezza e inferiorità. Al contrario, è addirittura una necessità, perché solo l'individuo sensibile avverte i fattori negativi della società in cui vive con tanta dolorosa chiarezza da poterli tradurre in parole e, attraverso la loro enunciazione, esercitare una critica capace di indurre possibili miglioramenti.

Facendo una breve digressione da quello che è il mio effettivo desiderio, cioè la mia volontà di sopravvivere come individuo, vorrei aggiungere che, anche sul piano sociologico, trovo ciò che mi accade estremamente malsano. In termini sociologici non mi considero affatto un caso "difficile", ma piuttosto un caso necessario, e anche in questo senso non trovo giusto venire ucciso. Oggi si sa che non si può sterminare impunemente nessuna specie senza correre il rischio di intaccare il patrimonio di molte specie, anche diverse, nell'ambito della stessa comunità. Ciò che ora accade di me, non è soltanto la mia personale infelicità ma, nei confronti della comunità, è uno scandalo, e precisamente uno scandalo con delle conseguenze. Se si uccidono tutti quelli che si chiamano Federico, il mondo va in rovina, perché sterminare la specie dei Federichi è una sorta di inquinamento dell'ambiente; e l'inquinamento dell'ambiente porta sempre conseguenze gravissime.

Ho tentato di presentare la mia situazione come il risultato di un conflitto fra la mia individualità e il mondo borghese e a questo proposito vorrei notare che qui il "borghese'' va sempre inteso fra virgolette, così come il più delle volte ho presentato i miei genitori come i "genitori", fra virgolette, appunto; ma ancora a maggior ragione. Anche il borghesismo non è soltanto il male e non tutto il male è borghese, ma l'elemento borghese ha anche un aspetto che personifica il male, il male in assoluto. Intendo qui l'elemento borghese anche in senso politico, ma non soltanto in senso politico, soprattutto senza partire dalla premessa che tutto ciò che è antiborghese sia necessariamente da preferire al borghese. Solo perché la società borghese è tanto nera, non per questo la società comunista è "à tout prix" sempre e dappertutto color di rosa; e il solo fatto che l'Europa sia gravata di così pesanti tare non basta per affermare che fra le tribù dei negri più primitivi regna solo gioia e felicità.

L'Europa è in effetti un mondo in rovina che si sbriciola per eccesso di cultura; ma Idi Amin - ad onta di tutta la sua davvero autentica primitività - non rappresenta davvero un'alternativa allettante. In Europa quasi tutti vanno dallo psichiatra, ma che i selvaggi della savana con i loro anelli grandi come piatti infilati nel labbro inferiore e i colli da giraffa siano davvero, con tutte le loro astruse decorazioni, tanto naturali e felici ed esenti da ogni nevrosi, di questo mi permetto di dubitare. Non sono quindi contro il mondo borghese in quanto convinto che fuori dal mondo zurighese, svizzero, europeo, ad esempio nei campi di concentramento della Siberia o nella giungla degli Zulù tutto vada meglio, ma in quanto credo che nel concetto di "borghese" ci sia un elemento ostile a tutti, non da ultimo anche ai borghesi.

E' lo stesso principio ostile riscontrato nei miei genitori, che ritrovo anche in quel complesso di fattori che definiscono borghese (che raccoglie evidentemente tutto in un unico concetto, se si pensa che l'aspetto innaturale nei miei genitori era appunto il loro non volersi in nulla distinguere da ciò che supponevano l'ideale borghese). Qui devo esprimere ancora un dubbio circa l'identificazione apparentemente così naturale e indolore dei miei genitori con l'ideale borghese. Ho già avuto prima occasione di affermare che considero il cancro come una chance, cioè come la chance in forma di segnale d'allarme, per avvertire in tempo di un pericolo incombente. Dei miei genitori ho detto che non hanno avuto questa chance, e perciò hanno avuto tanta difficoltà a capire quanto era sbagliata la situazione in cui si trovavano. Ma deve sempre essere per forza un cancro? Non è invece che CIASCUNO deve capire qual è la sua situazione, se soltanto lo VUOLE capire? Su questo non mi sento di assolvere i miei genitori da ogni sospetto: la loro identificazione con il concetto generico di borghese era un po' troppo ben riuscita per supporre che fosse opera di assoluta onestà.

Devo dunque supporre che ciò che io condanno come elemento del male da un lato nei miei genitori, dall'altro nel concetto di borghese non sia sempre esattamente la stessa cosa, ma in entrambi i casi sono sulle tracce dello stesso elemento negativo: il male in se stesso. Oso affermare che il male è sempre e ovunque lo stesso, e che in realtà esiste un solo tipo di male. Quello di cui gli uomini soffrono è sempre lo stesso male: quel che vien loro fatto è sempre lo stesso male. Espresso in termini di criminalità cosmica: esiste sempre un solo delitto che ininterrottamente si compie su tutti e su ciascuno: l'elemento decisivo è solo la quantità. Quando il delitto si compie in proporzioni che restano nell'ambito della norma, l'individuo che ne è vittima non ne soffre più che tanto. Lo sente sì come una cosa spiacevole, ma riesce a sopravvivere - il più delle volte persino bene. Già più sopra mi sono definito normale nel senso che anch'io, come gli altri, ho avuto dei guai; l'aspetto anomalo della mia storia è solo che di guai io ne ho avuto troppi. O, in altre parole: il male si è compiuto su di me in proporzioni superiori alla norma.

Ho già più sopra definito "bene" ciò che funziona e "male" ciò che non funziona. Probabilmente si può andare oltre e dire che non solo è bene quando una cosa funziona, ma che questo è il "bene" in se stesso. Ho già negato più sopra la necessità che qualcosa che funziona debba assolutamente avere un senso. L'unica cosa che importa è che funzioni.

Gli atomi funzionano in quanto gli elettroni roteano intorno al nucleo dell'atomo. Non che questo abbia un significato profondo, comunque lo fanno. Il formicaio funziona in quanto è pieno di movimento. E' assolutamente privo di senso che le formiche siano sempre così indaffarate, ma è una buona cosa. Il bosco di cui abbiamo prima parlato funziona in quanto il lupo mangia il capriolo. Il mondo funziona in quanto la luna gira intorno alla terra e la terra intorno al sole e con questo siamo di nuovo arrivati al ritmo cosmico e agli atomi. Nel caso qualcuno non lo dovesse trovar chiaro, basta che domandi a un bambino che va sulla giostra se non è bello girare in tondo e subito saprà la verità, perché, come è noto, i bambini piccoli dicono sempre la verità. Tutto ciò che brulica e si muove e gira in tondo è un bene. Ma non tutti sono d'accordo, anzi molta gente è decisamente contrarla.

Mentre io nel mio appartamento nella Krongasse di Zurigo metto sulla carta queste mie riflessioni, dalle finestre dei vicini si sente gridare: silenzio! La Krongasse è un quartiere privilegiato in città, perché la strada è così stretta che un'automobile ci passa a malapena e quando anche ci passa, scivola via senza rumore. E' anche un quartiere distinto, dove non ci sono bettole o locali pubblici e dove la notte non si sentono le grida e i richiami degli ubriachi. Ma per la gente che ci abita non è abbastanza tranquillo. Nell'ora del mezzogiorno ci sono dei bambini che giocano in mezzo alla strada, e lo possono fare, appunto grazie al fatto che non c'è traffico. Nel gioco questi bambini di tanto in tanto alzano un po' la voce, e allora le vecchie abitanti della Krongasse si sentono subito autorizzate a gridare "silenzio!" dall'alto delle loro finestre, perché qui è già tutto tranquillo e silenzioso, ma lo deve essere ancora di più. Quando la sera qualche gruppetto di giovani si raccoglie su una terrazza e si mette a cantare qualche canzone, subito viene chiamata la polizia, perché cantare su una terrazza rappresenta "disturbo della quiete notturna". A Zurigo, anche quando qualcuno nella città vecchia nell'ora del mezzogiorno si mette accanto a una fontana e suona la chitarra, anche allora si chiama la polizia, perché questo rappresenta un disturbo della quiete pomeridiana. Ogni ora della giornata ha il suo particolare tipo di quiete e di silenzio e quando questa quiete non viene rispettata e ci si permette di cantare a mezzogiorno accanto a una fontana, o qualcuno la sera si permette di cantare una canzone su una terrazza, subito arriva la polizia, perché per i buoni borghesi la quiete non è soltanto il primo dovere, ma anche un sacrosanto diritto. Ognuno incretinisce all'interno della sua quiete, fra le sue quattro mura, ma se in questo processo di incretinimento viene disturbato da un rumore estraneo, subito si sente ferito nel suo diritto a incretinirsi in pace e chiama la polizia. (Si capisce che io non sto parlando a favore del baccano, poiché parto dal presupposto che fra il rumore di una autostrada e il suono di una chitarra esiste ancora una differenza; trovo anche una certa differenza fra la necessità che a Zurigo ogni cittadino debba andare al lavoro servendosi della propria automobile, causando così un certo rumore, e la necessità che i bambini possano giocare e quindi fare anche un po' di rumore.)

Il concetto che ho portato di borghese mi pare quindi finisca per includere qualcosa di negativo, di male, quando minaccia di identificarsi con la "quiete", là dove questa quiete a sua volta si collega con il concetto altrove citato di pulito, sterile, corretto e "comme il faut". Indipendentemente dal fatto che ciascuno di noi ama essere lasciato in pace, avere la sua quiete, concetto nel quale sono comprese le vacanze, la distensione, il tempo libero, la parola "quiete" ha per me un aspetto sinistro e pauroso. La quiete è così silenziosa (non è un gioco di parole, ma piuttosto liricamente intesa come qualcosa di triste). Chi dice quiete, sembra quasi sempre parli già della quiete della tomba e quindi della morte. Quando uno è morto, si dice che ha raggiunto la quiete eterna, l'eterno riposo. In Svizzera tutto deve sempre essere assolutamente quieto e questo bisogno di tranquillità lo si esprime in forma di imperativo. Si dice: silenzio! con un tono di comando ed è come se si dicesse in tono imperativo: morte!

Anche nella mia casa paterna un tempo tutto era sempre tranquillo, ed essere tranquilli era considerata una virtù. Le persone simpatiche, quelle di carattere, erano sempre tranquille - no, erano più che tranquille, erano "tranquille". Quando le ragazze da marito della mia famiglia e del nostro ambiente avevano finalmente trovato l'uomo giusto da sposare e si domandava com'era il prescelto, in casa dei miei genitori si diceva sempre: oh, è tanto simpatico, è un tipo molto tranquillo. Le giovani spose di questi tranquilli mariti dopo un paio d'anni di tranquillo matrimonio di solito finivano per divorziare, evidentemente perché il prescelto era stato troppo tranquillo. Queste giovani donne, nella maggioranza dei casi, si erano lamentate, più o meno apertamente, che tutta quella tranquillità coniugale alla fine era davvero diventata troppo noiosa e si erano sentite frustrate. Solo mia madre insistette con tenacia nella sua tranquillità coniugale e per ben trent'anni poté dire, con le parole di Annette von DrosteHülshoff:  

 

"Nun muss ich sitzen so fein und klar, Gleich einem artigen Kinde".

[Or devo stare buona e serena / come una brava bambina.]

 

 

Molte cose della vita sono dovute al caso. Ma ci sono casi che colpiscono nel segno. Il padre di mia madre si chiamava Gottfried.

Tutti gli Zorn si chiamavano anche loro Gottfried: il padre di mio padre e anche il marito di mia madre. Si chiamavano tutti Gottfried (2) Zorn e non ebbero mai uno scatto d'ira contro il loro Dio.

Vivevano in pace - in pace con Dio e con gli uomini. Non erano mai colti dall'ira, ma dicevano invece: calma, calma, sta' tranquillo. Se ben ricordo, una volta, un'unica volta, mia madre si lamentò con me che anche a lei sarebbe piaciuto un po' più di allegria, ma "che non sta bene". E' significativo che così facendo ripetesse le parole di sua madre, che una volta aveva confessato che da giovane le sarebbe tanto piaciuto andare a ballare, ma "che non si poteva, appunto", perché al nonno (che lei chiamava "paparino") girava subito la testa.

Il "paparino" se ne stava tutto il santo giorno seduto dietro la sua scrivania, proprio di fronte a un quadro medioevale raffigurante un Cristo crocifisso di grandezza naturale. A lato della sua scrivania c'era appeso un altro quadro, più piccolo, e anche quello rappresentava un Cristo in croce. Mia nonna non era un tipo distinto; forse era persino un po' volgaruccia ma certo era una povera diavola e se penso che le sarebbe tanto piaciuto andare a ballare, mentre il "paparino" Gottfried invece se ne stava seduto davanti ai suoi Cristi crocifissi, mi passa la voglia di prendermela con lei.

Anche mia madre - povera mamma! Ogni domenica sera telefonava a qualche parente e riferiva sulla giornata trascorsa e ogni volta diceva: abbiamo avuto una giornata tanto tranquilla. Tranquilla - che parola orribile! Alla domenica, il mio tranquillo papà faceva sempre il solitario, e ho già detto che ne sapeva fare uno solo, e cioè l'arpa, che è comunque il più noioso che esista. Anch'io qualche volta faccio un solitario, ma non ogni domenica e poi ne conosco una quantità, e soprattutto mi piace fare il "piccolo Napoleone", che è molto interessante; in breve, anche il solitario può essere una cosa divertente, ma quella eterna "arpa" della domenica - quella aveva in sé qualcosa di triste, di opprimente. Mentre faceva il solitario, mio padre ascoltava anche dei dischi, di preferenza triste musica romantica di Schumann, Schubert o Brahms, qualche volta anche il "Winterreise" di Schubert, dove, come se non bastasse si dice anche:  

 

"Und immer hör ich's rauschen: Du fändest Ruhe dort".

[E sempre io odo frusciare: / là trovereste pace.]

 

 

Naturalmente anche per il fatto che mio padre faceva sempre il solitario, anche per questo c'era uno specifico motivo: mio padre era, appunto, "stanco". Mio padre aveva una vita "difficile", perciò era anche sempre "stanco". Io ho imparato a vedere la stanchezza come una cosa molto complessa. Talvolta sono stanco per il lavoro; talvolta sono stanco di far nulla - ma dopo il non far nulla sono sempre più stanco che dopo il lavoro; e qualche volta sono stanco in un modo diverso, per cui stanco diventa sinonimo di triste. Ma allora, quando la stanchezza si identifica con la tristezza, allora sono veramente terribilmente stanco. Non per nulla si parla di un bisogno di riposo che si definisce con l'espressione "stanco della vita". E c'è un'altra cosa che mi rattrista: mio padre, quest'uomo intelligente, dotato, pieno di talento, colto, sensibile, di animo nobile, lasciava completamente inutilizzate tutte le sue qualità e faceva il solitario.

La sua massima colpa mio padre l'ha avuta verso se stesso. Mio padre, che era nato per una attività creativa, era sempre stanco e disponeva le carte per la sua eterna arpa, mentre mia madre, come fedele consorte, badava solo a non disturbarlo e non dava segno di sé, perché lui era "stanco". Mia madre, dal canto suo, sarebbe stata una donna piuttosto predisposta all'allegria, ma "ebbe una vita tranquilla" per tutta l'esistenza. Quella tranquillità della mia casa paterna - che sciagura!

Quando ripenso alla storia della mia famiglia, arrivo alla conclusione che io, con tutte le mie sofferenze e i miei dolori, vivo la mia vita molto più intensamente di quanto abbiano fatto i miei genitori con la loro riposante quiete. Sono infelice, è vero, lo sono in maniera violenta e passionale; i miei genitori invece avevano una vita quieta e riposante - ma questo è ANCORA mille volte peggio. Io sono assalito da mille angosce e vivo mille torture - ma per lo meno VIVO qualcosa, mentre i miei genitori non hanno vissuto nulla. Io sono nell'inferno, ma SONO per lo meno nell'inferno e i miei genitori, beh, loro erano, al massimo, nel limbo e per la verità non ERANO neppure. Io ora sto per morire, ma i miei genitori non hanno mai vissuto. Mio padre ha trovato "l'eterno riposo"; mia madre se ne sta sola in una grande casa morta e vive nella tristezza.

Ma non tutti considerano triste ciò che io trovo triste. I miei genitori non si consideravano tristi, ma piuttosto corretti, giusti, "comme il faut". La quiete della loro casa non era per loro una sofferenza, ma una virtù. In questo, del resto, non differivano molto neppure dall'altra gente, perché quante sofferenze nella nostra società sono considerate come virtù! La mia casa paterna non funzionava, non era viva, non veniva mai coinvolta in nulla e da nessuno e rimaneva quindi indisturbata. Da noi, tutto era sempre tranquillo, molto tranquillo; nessuno poteva essere disturbato da tutta quella tranquillità. Nessuno aveva bisogno di gridare "silenzio!" perché noi eravamo già silenziosi. E appunto perché non disturbavamo niente e nessuno eravamo "comme il faut". E questa era tutta la nostra virtù.

Credo di poter arrischiare una formula per definire quello che ho accennato con il termine di "borghese". Essere "borghese" vuol dire "essere tranquillo a qualunque costo, perché altrimenti si potrebbe disturbare la quiete di qualcun altro". E questo appunto è il male. E borghese ed è male avere qualcosa in contrario che gli elettroni ruotino intorno al nucleo dell'atomo "perché forse potrebbero disturbare qualcuno". Vuol dire essere contrari a che le formiche arranchino nel bosco "perché il sentiero dove arrancano forse è un terreno privato e camminarci sopra è forse proibito e forse si rischia di prendere la multa". Vuol dire essere contrari a che il leone divori la gazzella "prima di tutto perché il leone è forestiero, secondariamente perché la gazzella non è notificata alla polizia e terzo perché entrambi sono minorenni". Vuol dire essere contrari a che la luna ruoti intorno alla terra "perché il chiaro di luna potrebbe disturbare qualcuno". Vuol dire essere contrari a che il sole si levi "perché la banca ha già acquistato la maggioranza delle azioni per il territorio del cielo e bisogna aspettare un miglioramento della situazione economica prima che il sole possa alzarsi". Vuol dire che c'è sempre presente un potenziale qualcuno che si potrebbe eventualmente disturbare; e quando questo potenziale qualcuno è per una volta introvabile, bisogna inventarlo.

Credo che il non voler disturbare sia male proprio perché, al contrario, BISOGNA disturbare. Non basta esistere; bisogna anche far notare che si esiste. Non basta semplicemente ESSERE, bisogna anche AGIRE. Ma chi agisce, DISTURBA - e ciò nel significato più nobile della parola. Dalla Cantata di Bach "Auf, schmetternde Töne der muntern Trompeten (nomen est omne)":  

 

"Dort blühet manche schöne Blume, Hier hebt zur Floras grossem Ruhme Sich eine Pflanze in die Höh Und will thr Wachstum zeigen".

[Là fioriscono alcuni bei fiori, / qui si leva a gloria di Flora / una pianta verso l'alto / e vuol mostrare la sua crescita.]

 

 

Non basta che il fiore si levi alto, deve anche "mostrare la sua crescita".

Nella prima parte della mia storia ho già portato una quantità di esempi per questo fenomeno dell'"essere borghese, essere tranquillo, essere svizzero" e non è ora necessario che allunghi la lista. A un esempio però vorrei ancora tornare per un momento, un esempio che mi pare rappresentativo di tutti gli altri, e cioè la sessualità. Quando ho scritto che l'essere borghese vuol impedire al sole di levarsi, ciò vale, in senso più lato, come formulazione poetica per molte altre cose. Se si pensa che nel mondo borghese tutto ciò che è sessuale "non esiste", vale a dire, semplicemente, che non c'è perché è stato proibito (come se qualcosa potesse cessare di esistere perché viene proibito), allora non ci troviamo di fronte a del lirismo, a un fatto poetico, quanto piuttosto a una realtà, e precisamente a una realtà perversa. La sessualità esiste, ma "disturba" o, che è ancora peggio, "potrebbe forse disturbare" e allora si fa come se non esistesse. Il sole splende, ma qui è proibito splendere e perciò facciamo come se non splendesse. La luna si leva la sera, ma siccome la sua luce potrebbe eventualmente disturbare qualcuno, allora facciamo come se non avessimo visto che si è levata e in una notte di perfetto plenilunio corriamo a testa bassa a sbattere INTENZIONALMENTE contro un albero, per dimostrare che abbiamo creduto che la luna non ci fosse e che fosse invece buio pesto.

Questo non è stupido, è malvagio. Perché ciò che si fa per stupidità lo si fa senza intenzione, ma ciò che si fa di male lo si fa con intenzione. Chi, nel buio, va a sbattere la testa contro il tronco di un albero è idiota; ma chi va a sbattere la testa contro un albero in una notte di plenilunio, è in malafede, è malvagio.

Adesso viene in questo racconto il punto che più mi sta a cuore. Nella prima parte della mia storia ho descritto l'atmosfera della mia casa paterna e ciò che ne è stato di me come prodotto di tale atmosfera. Ho anche esposto perché, nonostante tutti i loro difetti e i loro errori, non posso odiare i miei genitori, e alla fine riconosco anche che non erano cattivi, ma solo dei "poveretti". Ho anche tentato di spiegare come i miei genitori "in una certa misura", anche se in maniera quanto mai tortuosa e complicata, sono stati "corresponsabili" e quindi anch'essi colpevoli o per lo meno complici della mia infelicità.

Questo "in una certa misura" ora non mi piace, perché sembra indicare che la risposta a questa domanda è "difficile". Ma la domanda è stata espressa e la risposta non può essere che: sì, sì, oppure: no, no.

Io constato la mia infelicità: questo è un fatto reale. Questa realtà però non è nata dal nulla, ma si è realizzata. Io non sono "purtroppo" infelice, non "ho avuto sfortuna", non è per caso che sono infelice.

Mi hanno reso infelice. Hanno fatto sì che diventassi infelice. La mia infelicità non è il risultato di un mero caso o di un incidente, ma di un errore, di una colpa. Non è semplicemente "successo", ma è il frutto di un'azione. Non è destino, ma colpa.

Sono pronto a concedere ai miei genitori tutte, ma proprio tutte le circostanze attenuanti; ma alla domanda se sono colpevoli o non colpevoli della mia infelicità devo rispondere: colpevoli. Sono anche pronto a perdonare ai miei genitori e, in fondo, nel corso di queste mie riflessioni, l'ho anche già fatto, ma il fatto che qualcuno venga graziato non significa certo che non sia colpevole. Al contrario: solo chi è colpevole può ottenere la grazia (il non colpevole viene assolto).

Dopo la seconda guerra mondiale tutti i nazisti erano diventati d'un tratto dei "buoni tedeschi" che non avevano fatto altro che ubbidire agli ordini del Führer e avevano fatto soltanto il loro dovere. Tutti quanti non avevano affatto saputo quel che succedeva nei campi di sterminio e avevano tutti "avuto in fondo le migliori intenzioni". Mi sento persino disposto a credere a queste affermazioni. Ma intanto gli ebrei sono morti. Anche i miei genitori nell'educarmi hanno fatto tutto "con le migliori intenzioni" e mi hanno educato "comme il faut".

Ai miei genitori ci credo; credo a mio padre e credo alla mia povera mamma. Ma con questa educazione "comme il faut" io intanto ora sto per morire... Ed essi si riconosceranno dal frutto delle loro opere...

Ora basta parlare dei miei genitori. Ho riconosciuto ciò che mi hanno fatto, li ho condannati, li ho perdonati e ora suscitano in me soltanto compassione. Di più per loro non posso fare. Non mi interessano più. Ciò che rimane sono io. La sofferenza è ricaduta su di me; questo è un dato di fatto e lo riconosco. Nella nostra società borghese non è abituale essere dolenti, non è "comme il faut"; a Zurigo non si vive il proprio dolore, ma lo si rimuove, perché il fatto stesso di soffrire "potrebbe eventualmente disturbare qualcuno".

Non si osa guardare in faccia la realtà della propria tristezza, perché quando si soffre si turba la quiete; e questa mancanza di coraggio di disturbare qualcuno con la propria tristezza, nel gergo della mia borghesissima patria, si chiama "avere coraggio". Ma io non sono affatto di questa opinione. Non si deve dire soltanto:  

 

"Dort blühet manche schöne Blume, ...

Und will ihr Wachstum zeigen"  

  ma è anche necessario mostrare la menomazione. Non è solo la gioia che si deve manifestare, ma anche la sofferenza. Quando un dolore esiste, bisogna piangerlo. Lo trovo giusto. Non occorre che sia sempre un'accusa, spesso basta anche solo lamentarlo. Ciò che in questo contesto vedo come un fatto significativo per la mia vita è che le cose accadono. Il dolore lo si vive, ma si deve vivere anche il pianto che esso provoca. Anche il pianto è un compito (non per nulla A.

Mitscherlich parla di "elaborazione del lutto"). Immagino che questa concezione del lutto sia assai impopolare. Il lamento funebre nella società borghese di solito lo si soffoca. Il penultimo verso della "Nänie" di Schiller non risponde più a una realtà, perché nessuno è più un lamento sulle labbra dell'amata, e meno che mai "splendido"; vero invece è l'ultimo verso (3), poiché ciò che è comune scende sempre nell'Orco senza eco - e da molto ormai non più solo ciò che è comune. In America, come è noto, non si parla mai della morte, e nell'"american way of dying" anche ciò che è più nobile scende agli inferi senza emettere un suono. In questo senso da noi è ormai dappertutto America: dapprima scannati da una società totalmente degenerata sul piano emotivo, e poi sepolti nel silenzio. Quando qualcuno muore, al giorno d'oggi non si dice neppure più che è morto, ma soltanto che "non è più", "non è più tra noi". Anche questo è borghese, questo non osare più pronunciare il nome della morte. Ogni cosa ha il suo nome, anche la morte ha il suo. Ma ogni errore ha la sua punizione: ed è il destino del borghese quello, un bel giorno, di "non esserci più', "non essere più tra noi". Ma io no. Io non sarò semplicemente "non più tra noi", ma sarò morto, e avrò anche saputo perché.

Ho già ripetutamente espresso la mia critica alla società borghese e precisamente a quell'aspetto del borghesismo che ho riconosciuto come negativo, come "male". Provo anche una singolare avversione contro la società borghese perché ne sono io stesso un prodotto e questa è una realtà che non mi piace. Riconosco di essere un prodotto di questa società, ma sento anche di non essere soltanto un simile prodotto preprogrammato. Come credo che il ruolo che i miei genitori hanno avuto nella mia vita possa un giorno avere fine, altrettanto credo che un giorno sarà colma la misura in cui la mia nascita borghese è diventata il mio tragico destino.

Credo di essere composto di tre parti. La prima è la mia individualità, la seconda il prodotto dei miei genitori, della mia educazione, della mia famiglia e della mia società; per la terza parte rappresento il principio esistenziale generale, e cioè proprio quell'energia elementare che fa sì che gli elettroni roteino intorno al nucleo dell'atomo, che le formiche corrano e che il sole spunti al mattino. Una parte di me è anche elettrone, formica, sole e questo neppure tutta la mia educazione borghese me lo può togliere.

Il mio dolore è anche una parte del dolore universale. La mia vita non è soltanto il piagnucoloso lamento di un individuo educato alla morte dalla borghesia zurighese; è anche una parte del pianto dell'intero universo, in cui il sole non si è più levato in cielo. Da bambino c'era un particolare del Nuovo Testamento che mi faceva sempre una grande impressione, quello dove si narra che, dopo la morte del Cristo, il velo del tempio si squarcia. Questa impressione la provo ancor oggi quando più forte mi aggredisce la sofferenza; allora sento che nella mia vita il velo del tempio si squarcia "continuamente"; che tutti i veli di tutti i templi si squarciano. Questa sensazione è una delle possibili immagini alle quali mi riferisco quando scrivo le parole: "il dolore si manifesta". Persino questa idea del dolore senza fine è qualcosa di universale. Per fare solo un esempio: senza fine si piange la morte del Tammuz, del Dumuzi, del "vero figlio" dell'amata e figlio della dea Astarte, sia come divinità del mondo vegetale bruciata dal sole e dalla siccità, sia come l'Adone ucciso dal cinghiale o come il Gesù crocifisso. La morte di ogni singolo individuo è anche la morte di tutti gli uomini, e la morte di ogni individuo è la fine del mondo. Secondo la legge dell'energia, la somma di tutte le energie rimane sempre la stessa. Credo che anche la somma di tutte le sofferenze resti sempre la stessa; e perciò niente ne va perduto. Quando si dice che il dolore si leva verso il cielo, è più di un modo di dire. Il dolore non solo si leva verso il cielo, ma ci arriva anche e là viene tesaurizzato.

Ma quanto poco io mi identifico, come ho già avuto modo di dire, nell'elemento "borghese", nella tradizione trasmessami in ciò che si è fatto di me, altrettanto poco mi identifico nell'universale. In parte soffro anche la morte simbolica e rituale dell'asiatico dio Tammuz; ma soprattutto sono un individuo niente affatto simbolico, al contrario, tremendamente concreto, minacciato da una morte terribilmente concreta e cioè, come ho già detto, da una morte che minaccia di arrivare prima che io abbia assolto il compito della mia esistenza. E questo pericolo produce angoscia e odio. Che in determinate situazioni si provino angoscia e odio, anche questo non ha un senso; ma è così, e provare angoscia e odio fa parte di questa situazione.

Quale sia in realtà la mia situazione non lo so, e nessun medico me lo può dire, perché nessun medico lo sa. Forse la partita è già perduta, ma fintanto che non è ancora definitivamente perduta, non si può neppure sapere che è perduta, e per la realizzazione della vita non ha, tutto sommato, nessuna importanza se la partita è persa oppure no, perché dopotutto in entrambi i casi si fanno le stesse cose, anche se queste cose non devono poi servire più a nulla. Che cosa vuol dire poi "servire"? Che una cosa serva a qualcosa dice soltanto che ha un senso - e non è affatto necessario che abbia un senso, anche questo l'ho già scritto. Se si mette un piede sopra una vespa, quella punge il piede, anche mentre sta già per morire. In questo caso pungere non le serve più a nulla, perché deve comunque morire, essendo stata calpestata, tuttavia essa ha agito nel modo giusto, usando il pungiglione anche nel momento della morte. Perché così fanno le vespe.

Anch'io mi ribello contro la morte che mi minaccia, anch'io odio di venire ucciso e anch'io tiro fuori il mio pungiglione prima di morire.

Questo non lo fanno solo le vespe, lo fanno anche gli esseri umani.

Nella mia situazione mi posso comportare in maniera più o meno giusta; mi posso collocare di fronte al fenomeno della morte in posizione più o meno acconcia, fra le posizioni di cui l'uomo dispone di fronte a questo fenomeno. Davanti alla mia morte posso portare a compimento i pensieri di morte di tutta l'umanità; ma morire devo morire come singolo, e solo. La spiegazione e il significato della mia malattia fisica e psichica sono generali, le riflessioni che ho fatto in proposito hanno dopotutto una certa validità per tutti e per ciascuno; la causa della mia morte sarà, credo, chiara per tutti, ma le mie angosce e i miei dolori sono per me solo, perché nessuna spiegazione li può allontanare da me. Come morto sarò uno dei tanti e anche la ragione per cui sono morto la potranno comprendere forse in molti, ma come morente sono solo.

Ora, ancora una ipotesi di carattere sociologico. Anche se come individuo dovessi essere distrutto, per la società non sarò finito, ma resterò fatalmente presente. Se io adesso dovessi morire, la mia morte non sarà casuale, ma estremamente tipica, perché io mi sono ammalato di ciò di cui oggi, nella nostra società, tutti più o meno si ammalano. I tipici casi letali tendono però a estendersi fino a una epidemia nazionale. Finora rompere qualcosa non era mai stato un problema; oggi comincia invece a diventare un problema sapere cosa fare di tutto ciò che si è rotto. Io morirò in una maniera troppo sintomatica per la nostra società, perché nella mia postuma rovina non si debba vedere un altrettanto sintomatico esempio di scoria radioattiva, e cioè una scoria radioattiva che non si riesce a depositare da nessuna parte e che contagia e infetta l'ambiente. Il mio "esser stato ucciso" lieviterà e si dilaterà e, da ultimo, porterà alla rovina proprio questo mondo che mi ha ucciso. Sotto la costrizione del "comme il faut", mi hanno educato talmente "comme il faut", che io da tutto questo "comme il faut" sono stato distrutto e ne sono morto. Una società però, i cui figli muoiono solo perché personificano perfettamente la società stessa, non ha più molto da vivere. Davvero va la gatta al lardo, finché ci lascia lo zampino. Ma anche questo, trovo, è molto "comme il faut"; che ci lasci la pelle; "il le faut", per la verità. Devo constatare qui persino un'ultima manifestazione di quell'umorismo cosmico cui ho già avuto occasione di accennare nel corso della mia storia.

Tutte le stupidità della società si vendicano, quale prima, quale dopo. Nell'antica Cina, tutte le donne avevano i piedi deformati.

Ciascuna di loro zoppicava e pativa le pene dell'inferno (e, a quanto si legge, deve avere anche puzzato); ciascuna come singola persona; ma i milioni di imperiali piedi deformati hanno fatto sì che venisse la rivoluzione e con essa scomparissero i piedi deformi insieme all'imperatore. Povero imperatore? No, stupido imperatore - avrebbe fatto meglio a preoccuparsi lui dei piedi delle sue suddite; forse in tal caso sarebbe, può darsi, anche rimasto imperatore di quei molti milioni di piedi.

Credo che la rivoluzione venga sempre da un certo numero di piedi o di altre membra o di spiriti deformati. Del resto deve anche venire, perché il nuovo è sempre il meglio. Prego, questa frase va presa "cum grano salis" ed è meglio rinunciare a giocare con le sue interpretazioni, in tal caso rimane sempre valida. (Il che vale anche per il suo contrario, perché "tornare indietro" è sempre peggio.) Ho già portato un altro esempio di rivoluzione, quella francese e constatato che, indipendentemente da tutta la sua - anche inutile crudeltà e insensatezza di decapitare Maria Antonietta, nessuno ha però versato una lacrima sulla regina. Oppure si vorrebbe che la rivoluzione non avesse avuto luogo e a Versailles regnassero ancora i Borboni?

A questo proposito voglio fare ancora un'annotazione addirittura umoristica. Dall'autobiografia dell'ultimo imperatore della Cina si viene a sapere che nessuno più di lui ha profittato della rivoluzione cinese e che, in quanto a lui, imprigionato nella gabbia dorata del suo palazzo imperiale, era quello che più aveva sofferto sotto l'impero. In un Paese in cui i privilegi sono distribuiti in maniera così disuguale, i non privilegiati stanno certamente male - ma quanto peggio stanno i super privilegiati! E questo vale non solo per la Cina, è anche il succo della mia storia personale.

Vorrei sottolineare ancora una volta che non intendo affatto che questo scritto diventi in linea di massima un saggio politico, anche se so benissimo che ogni enunciazione è politica. Anche se sono convinto della necessità della rivoluzione, non credo che ogni rivoluzione debba essere necessariamente politica.

Inoltre, credo che non sia affatto il caso di essere così decisamente PER la rivoluzione; basta NON essere CONTRO, perché la rivoluzione viene comunque sempre da sé, e viene sempre, anche quando, come nella maggior parte dei casi, richiede molto tempo. Come i molti milioni di piedi cinesi deformati rappresentano una rotellina nel meccanismo della rivoluzione cinese, così anche la mia storia è una rotellina nel meccanismo del rivolgimento della società borghese. Io stesso sono solo una minuscola rotellina, ma una rotellina tipica, appunto; una certa quantità di piccole e tipiche rotelline messe insieme non formano però più soltanto un mucchio di rotelline, ma diventano una macchina, e precisamente una macchina che mette in moto qualcosa, ottiene un risultato. Oppure, per dirla in termini medico-sociologici: ogni organismo ha la robustezza del suo organo più debole. Nel mio caso la degenerazione maligna delle cellule linfatiche ha dato il segno di ciò che vi è di malato in tutto il mio organismo, sia sul piano fisico che su quello psicologico; all'interno della mia società sono io la cellula malata che infetta l'organismo sociale. Occorre riconoscere la pericolosità di queste cellule malate per tutto l'organismo e bisogna cercare di guarirle; altrimenti l'organismo ne muore. Sociologicamente parlando, io sono la cellula cancerogena della mia società e, come la mia prima cellula maligna è stata di origine psicosomatica - ciò che, in un certo senso, si può anche definire come "la propria parte di colpa" - così, come rappresentante della malattia della mia società, devo essere registrato nelle pagine negative di questa società. Perciò la formula, che forse può suonare un po' eccessiva, passa dal "bon mot" all'espressione di una realtà concreta: io sono la decadenza dell'occidente. Naturalmente io non sono tutta la decadenza dell'occidente, e non sono io solo la decadenza dell'occidente, ma sono una molecola della grande massa da cui scaturisce e si evolve la decadenza dell'occidente.

In questo senso mi vorrei definire un rivoluzionario attivo e passivo insieme. Attivo non naturalmente perché d'opinione che ora in Svizzera, all'improvviso tutto dovrebbe diventare cinese o cubano o negro; questo, trovo, non sarebbe davvero il caso. Come a suo tempo ho finito per trovare assurda l'idea di far saltare in aria la Banca di Credito Svizzero (anche se l'esplosione di questo rappresentativo edificio, in senso simbolico mi appare, oggi come allora, un fuoco d'artificio bellissimo ed estremamente necessario); allo stesso modo troverei stupido mettere in fuga il diavolo borghese per sostituirlo con il Belzebù di qualche altro "ismo" politico (anche se si deve tener conto che limitandosi a NON chiamare il Belzebù, non è che questo aiuti a migliorare neppure di un filo il vecchio diavolo). Io mi sono dunque rivoltato con violenza contro il sistema borghese, contro il mondo zurighese, contro il mondo svizzero anche se non con l'intenzione di eliminare queste entità. Non è il caso di eliminarle, anche se ancor meno è il caso di conservarle così come sono. Un paziente che ha male a una gamba non lo si cura amputandogli l'arto, ma cercando di guarirglielo.

Rivoluzionario passivo mi considero in quanto, con la mia storia, le mie sofferenze, e forse con la mia morte, rappresento uno dei molti elementi necessari per mettere in moto il meccanismo della rivoluzione. Questa è, in senso generale, la componente necessaria della mia storia e, per me personalmente, è anche la cosa più triste.

Io non sono soltanto un numero, uno dei tanti con cui si fa una rivoluzione, come lo sono stati i milioni di donne cinesi con i piedi storpiati, del cui singolo mal di piedi dopo la rivoluzione io sono il numero 5743, necessario soltanto perché possa esistere un 5742 e un 5744; ma la mia felicità personale è distrutta. Questo è il mio dolore: anche la mia esistenza ha una funzione per il tutto, per la storia del mondo in generale, e questo può bastare a soddisfare l'intelletto; ma il cuore è nella miseria, e si ribella e urla.

Ed ora, dopo questa digressione sociologica, torno alla mia situazione personale: ho visto che il mondo funziona fra l'altro anche in me e grazie a me, e questo soddisfa la mia ragione, ma all'anima non importa nulla di tutto questo e del funzionamento del mondo, e chiede di funzionare per se stessa. Forse il cuore di un cinese batte più forte al pensiero che il suo possessore lavora con ardore per Mao e per il popolo cinese, e magari fa anche gli straordinari, ma il mio non è, appunto, uno di questi cuori cinesi, è diverso. La mantide religiosa divora ogni giorno sedici volte il peso del proprio corpo, mentre il boa constrictor mangia una sola volta al mese: non c'è niente da fare, sono diversi, appunto. Nel mio calcolo sociologico il conto torna, io sono una delle cifre necessarie per ottenere alla fine il prodotto desiderato; ma io, personalmente, di tutto questo sono triste e sgomento, e contro la tristezza e lo sgomento la matematica non è di grande aiuto.

Voglio qui provare perciò anche a trasporre sul piano irrazionale diciamo pure religioso - questi argomenti, visto che sul piano razionale non se ne viene a capo. E qui il concetto religioso vorrei vederlo non tanto in senso etico, quanto piuttosto in senso demoniaco.

In proposito ancora una parola per quanto riguarda il vocabolario cristiano che ho di preferenza usato. Personalmente non sono amico della religione cristiana, ma spesso quando parlo di argomenti religiosi mi servo di concetti tratti dal suo vocabolario, perché li ritengo più noti e familiari a me e al mio prossimo che non i concetti di qualsiasi altra religione. Non importa se in questo Paese si è pro o contro la religione cristiana, si è tuttavia pur sempre cresciuti nel suo clima e quindi tutte le problematiche religiose del mondo sono più facili da comprendere all'interno della terminologia cristiana, non da ultimo anche nel campo emotivo. Il cattivo carattere degli aztechi neri Tezcotlipoca non preoccupa molto noi europei, e i cinesi non si rompono certo la testa con il complesso paterno di Abramo.

Inoltre l'uso della terminologia cristiana ha il vantaggio di corrispondere nel modo più acconcio alle nostre fantasie inconsce. Il nome "Hans" è anche ebreo e biblico, senza che, a livello di coscienza, ci faccia pensare a qualcosa di religioso. Perciò la realtà storica del rabbi Jeshua mi importa meno del fatto che la sua immagine continua ad agire nelle nostre fantasie inconsce e in ogni membro della nostra società, persino in me, che in famiglia non sono stato certo educato cristianamente.

Nella seconda parte della mia storia ho detto che se si parte dall'ipotesi che Dio non esiste, bisogna inventarlo, non foss'altro che per dargli un ceffone. Vorrei andare ancora più in là, e affermare che quando si avverte la necessità di inventare un concetto, in quello stesso istante il concetto lo si è già inventato, è già vivo e operante. Credo che l'anima tormentata senta la necessità dell'esistenza di Dio. E' l'indirizzo al quale può mandare i suoi lamenti, le sue accuse, e dove le accuse devono arrivare. E' il recipiente in cui l'uomo può rovesciare il suo odio. E' la persona alla quale, nel giudizio universale - così come è descritto nella Bibbia, solo con i concetti rovesciati - si dovrà dire di essere stati affamati, nudi e tristi, di non esser mai stati nutriti, rivestiti e consolati. E' anche importante che si tratti di me, che tutte queste belle cose non le ho mai conosciute, di ME, a cui sono state inflitte tutte queste pene.

Nella teologia cristiana è presente il concetto che Gesù viene continuamente, ininterrottamente inchiodato alla croce, in ogni momento dell'eternità, e lo posso capire, sebbene anche qui io lo intenda in senso inverso a quello cristiano. Capisco che l'umanità tormentata ribatta senza posa i chiodi della croce, ripetendo nel tempo l'uccisione di Dio e so anche perché: per rabbia, per l'ira che suscita nell'uomo ciò che Dio ha fatto all'uomo, l'umanità lo inchioda continuamente sulla croce. Credo di essere anch'io fra coloro che inchiodano continuamente Iddio sulla croce, perché lo odiano e vogliono continuamente ch'egli muoia.

Arrivo così al tema che nel contesto di questo saggio mi appare come essenziale, il tema dell'odio per Dio e della necessità che Dio muoia.

Nel mondo delle mie visioni mi sono già visto ingaggiato in una lotta con Dio, una lotta in cui entrambi combattevamo con la stessa arma, e cioè con il cancro. Dio mi colpisce con una malattia maligna e letale, ma al tempo stesso egli è anche l'organismo in cui io incarno la cellula cancerogena. Con la mia letale malattia io sono la dimostrazione della malvagità del mondo di Dio e costituisco il punto debole nell'organismo "Dio" che, appunto come organismo, non può essere più forte del suo membro più debole, cioè io. Io sono il carcinoma di Dio. Visto in un quadro più vasto, naturalmente sono solo un piccolo carcinoma - ma un carcinoma lo sono comunque. Le proporzioni, del resto, non hanno molta importanza, anche il più piccolo nervo, purché faccia davvero male, può gettare il corpo intero in preda alla sensazione del più lancinante dolore. E così mi vedo colpire il nervo nel corpo di Dio, così che anche lui di notte, come me, non riesca a dormire per il dolore e si giri e rigiri nel letto gemendo e urlando.

In questa mia visione ho anche visto i due avversari, Dio e io, lottare sì con la stessa arma, appunto il cancro, che annienta il corpo del nemico, e combattere con la stessa tattica, ma con motivazioni diverse. La mia motivazione è un odio divampante, quello di Dio è piuttosto un cupo, ostile risentimento. In me ho visto la necessità assoluta di colpire il nemico al cuore, in Dio ho visto piuttosto una certa amorfa, sonnolenta malvagità, il bisogno di stritolare anche me nel quadro di un generale programma di annientamento. In quest'ultima immagine, Dio mi appariva piuttosto come un gigantesco, feroce animale, una ripugnante medusa che tentava di strangolarmi e avvelenarmi, o come un polipo mostruoso dai mille tentacoli che mi assaliva da ogni parte. Partendo da quest'ultima immagine del polipo, molte cose all'improvviso mi risultano familiari.

Nella mia vita ho sempre ininterrottamente provato la sensazione che qualcosa di ostile mi avviluppasse con innumerevoli tentacoli che mi stringevano senza altro scopo che quello di soffocarmi, e da questo spaventoso abbraccio non riuscivo mai a sciogliermi. Ho visto qualcosa di simile nei miei genitori, nel borghesismo del nostro ambiente, nella famosa quiete, nel clima zurighese, nel mondo svizzero, e il più delle volte ciò che vi vedevo era più del solo influsso parentale, o borghese, o zurighese, ma il concetto globale di "parentale", di "borghese", di "quiete". Tutti questi concetti non stavano a significare solo se stessi, ma andavano oltre, toccavano più in profondità, risalivano a qualcosa di più profondo e il "parentale" era solo un aspetto del "borghese e il "borghese" era solo un aspetto della "quiete" e quest'ultima e tutti gli altri insieme erano ancora, a loro volta, un aspetto del "Male". E questo "Male" nella gigantesca figura del polipo pare identificarsi con il "divino".

Bisogna con ciò concludere che Dio è l'assoluto Male? (Una conclusione in sé alquanto originale, dal momento che sta in totale opposizione alla comune e un po' banale concezione che Dio è il Bene assoluto, e incarna il "summum bonum".) Questa conclusione pare avere in sé molto di giusto, anche se non mi piace del tutto. E ciò non mi piace, non tanto per l'uso della parola "Male", ma piuttosto per via della parola "assoluto". Come ipotesi di lavoro preferirei quindi impostare la frase così: Dio è il Male, ma non il Male assoluto. O in forma più concreta: il mondo è cattivo (il Male), ma si può ancora migliorarlo (il Male non assoluto).

L'opposto dell'assoluto è però il relativo o, per usare un'immagine più plastica, il locale. Intendo dire che Dio deve essere senz'altro visto come qualcosa di locale; anzi, credo persino che è proprio l'aspetto locale che fa l'efficienza e il fascino di Dio. L'uomo moderno, che nelle sue considerazioni filosofiche pensa volentieri a Dio come a qualcosa di assoluto, dovrà abituarsi all'idea che il Dio universale e assoluto è soltanto una costruzione intellettuale, ma che Dio nel senso appunto di incarnazione del "divino" e quindi non di fatto puramente intellettuale, è qualcosa di diverso in ogni angolo della terra.

Non solo in tutte le religioni del mondo Dio si presenta come qualcosa di diverso; anche l'ipotetico Dio cristiano è sempre diverso secondo i Paesi. Non solo nell'Irlanda del Nord Dio è qualcosa di ben diverso dal Bon Dieu dei francesi; persino nelle terre meridionali di tradizione cattolica il Dio della Spagna è ben diverso da quello dell'Italia. Anche la grande dea e madre di questi due Paesi meridionali, la figura assurta e mitologica della vedova del falegname, Mirjam di Nazareth, è sempre diversa: la Madonna della "Pietà" del Michelangelo, che si china in raffinato lutto sul curatissimo "body" del figlio morto, non ha nulla a che vedere con la "Macarena" sivigliana, che fissa i fedeli dalla pomposa mostruosità dei suoi ornamenti africani.

A nessuno viene in mente di attribuire alla "Macarena" spagnola una validità generica a livello europeo; per gli spagnoli questa divinità può andare benissimo, ma fuori della Spagna non è utilizzabile. Non è forse il caso di attribuire anche a quest'altra figura mitologica, che a livello europeo con una certa superficialità si usa chiamare semplicemente Dio - senza neppure l'articolo determinativo - lo stesso valore nazionale che si è già da molto tempo dato a sua madre? Perché se la madre ha una validità nazionale, il figlio di questa madre dovrebbe poter vantare una validità internazionale? Ammetto che l'originalità del Dio cristiano dipende in buona parte dal fatto ch'egli si arroga una certa universalità, ma a me questa originalità appare piuttosto come un gesto di presunzione. Gli dei non sono così.

Essi vengono sempre da uno spazio geograficamente ben definibile e appartengono sempre a uno spazio ben definito, vale a dire, per loro intrinseca natura, sono profondamente locali. Inoltre non sono neppure eterni, ma finiti; per gli dei è così ed è anche giusto che sia così.

Crono neutralizza Urano, e Zeus scaccia Crono. Seth uccide Osiride e Horus uccide Seth. E anche i Germani hanno il loro bravo Crepuscolo degli Dei che funziona in base allo stesso principio.

Solo la religione cristiana intende il suo Dio (o i suoi dei) come universali ed eterni e non ne vuol sapere di far posto a nuove divinità. Io considero un simile atteggiamento altamente antirivoluzionario e reazionario. Credo che anche questo sia l'aspetto negativo della religione cristiana, il suo voler vantare una supremazia e una superiorità assoluta, arrogarsi il diritto di essere la migliore di tutte, imponendo che gli dei che essa propone siano eterni e infiniti. Tutte le altre religioni ammettono che i loro dei vengano un giorno o l'altro a morire e siano quindi sostituiti da altre divinità; solo il Dio cristiano non vuol morire, non vuol lasciare il posto a un Dio nuovo e migliore. Credo anche di capire che cosa ho definito prima con il concetto di "parentale", "borghese", "cristiano", con il concetto della "quiete" e che ora, alla fine, mi trovo a definire come "Dio". "Dio" è il termine con cui ho chiamato tutto il mondo che pareva essere così buono, appunto perché era così quieto, così pulito, corretto, "comme il faut", così borghese e così onesto; e che poi si è rivelato invece così perverso e malvagio, per me in particolare così dannoso e pieno di insidie, tanto che ora è in procinto di uccidermi. Tutto ciò che è apparentemente buono, così come me lo hanno fatto digerire quando ero bambino, adesso mi è ostile, è il mondo che ora mi porta la morte - un mondo apportatore di morte, un mondo che mira con furia e decisione alla mia distruzione, una situazione portatrice di morte in cui ogni cellula del mio corpo è intossicata e ogni secondo del mio passato familiare è avvelenato; uno stato dell'essere a tal punto CONTRO di me, che non ho potuto fare a meno di sentire la somma di tutte quelle ostilità come un valore globale, e chiamarla alla fine con il termine più totale che la lingua tedesca conosca: Dio. Erroneamente. Perché, come io ho riconosciuto di non essere SOLTANTO il prodotto dei miei genitori, il prodotto della società borghese e il prodotto della universale nevrosi cristiana, ma anche - se pur soltanto in piccola parte - me stesso, così ora mi rendo conto che anche quello che ho chiamato "Dio" non è un'entità infinita. Dio non è ovunque. Ci sono spazi dove non è, dove ha cessato di essere. Da qualche parte ha il suo posto e lì deve stare, ma ci sono anche luoghi dove non è e dove non c'è posto per lui, o meglio, non c'è più posto per lui e lì è finito, esattamente come ci sono spazi dove i miei genitori sono stati tolti di mezzo, dove la società borghese è liquidata ed è liquidato in generale tutto ciò che mi tormenta. Dopo tutto quello che ho scritto sulla natura del divino, si può addirittura dire: Dio esiste. Considero questa enunciazione persino come un possibile dato di realtà. Ma anche se tale affermazione dovesse rivelarsi esatta, lo è soltanto con una precisazione e cioè: Dio esiste soltanto in parte; per un'altra parte è finito.

Sulla fede nel finito o nell'infinito delle cose alla fin fine non si può discutere; è una questione che sembra assomigliare alle questioni di gusti o, se si preferisce, il credere o il non credere nell'infinito delle cose è una questione di temperamento. James Joyce nel suo "Portrait of an Artist as a Young Man" dà una descrizione spaventosa dell'infinito e lo definisce come qualcosa di assolutamente orribile: "Eternity! O dread and dire word!". Jorge Luis Borges, per contro, dimostra in "La doctrina de los ciclos" con tutta la pregnanza dello spirito latino perché il mondo è in sé finito e deve cessare di esistere: "Entonces habrá muerto".

Io tendo - suppongo si tratti di una questione appunto di temperamento - alla seconda interpretazione. Non da ultimo perché credo che ogni cosa debba avere il suo contrario o per lo meno essere opposta a qualche altra cosa. E non parlo solo nel significato generalmente noto, che il nero può essere nero solo là dove c'è anche il bianco; vorrei estendere il concetto più oltre, nell'irrazionale. Anche di fronte all'Universale, al Totale, all'Assoluto ci deve essere qualcosa che non è compreso in questo universale, totale, assoluto. Se ora coniamo il concetto dell'"assoluto-più-appunto-questa-eccezione", allora io affermo che ci deve a sua volta essere qualcosa che si sottrae a questo "assoluto-più-appunto-questa-eccezione-non-compresanell'assoluto", così che il totale non può mai diventare del tutto totale e l'assoluto mai completamente assoluto. Qualcosa che disturba c'è sempre. Per fortuna! (Ho già scritto precedentemente quanto mi è caro e gradito il concetto di disturbo.)

Nel vocabolario filosofico questo a-assoluto e antiassoluto non lo si può esprimere, ma nel vocabolario religioso è facilissimo, un gioco da bambini. C'è una semplicissima parola che lo definisce: il diavolo.

Come si sia riusciti ad arrivare all'idea che il diavolo è qualcosa di male, è e resterà per me un mistero. Io credo, al contrario, che il diavolo sia la nostra ultima, e forse la nostra unica chance.

Stranamente del diavolo si sa pochissimo. Oppure no, non è affatto così strano. Che nella Bibbia compaia a malapena, questo è chiaro, perché nell'ambito del testo biblico il diavolo è materia troppo scottante perché lo si possa propinare in forti dosi senza danno. Non è bene che nella polveriera si facciano troppe scintille. Il diavolo, o Satana, vi è definito soltanto come l'avversario, e in un punto si dice di lui che è stato "respinto nelle buie caverne degli inferi" (2

Pet. 2.4). Di lui non si sa molto di più, ma il poco offre già delle aperture interessanti. Si sa soltanto che Satana "è stato precipitato" quindi evidentemente non è più QUI. Questo, in un certo senso, è esatto, che non è più qui; ma appunto perché ora non è più qui, è ora LA', e cioè appunto nelle "buie caverne degli inferi". Il tutto mi ricorda molto la mia casa paterna, dove si diceva che i comunisti sono sì molto cattivi, ma che in Svizzera in realtà non ce ne sono. Questo processo in base al quale si spera che ciò che non è più QUI, non esista più neanche là, in psicologia si chiama rimozione. Che si sappia così poco del diavolo significa dunque soltanto che lo si è ampiamente rimosso, appunto. Queste "buie caverne degli inferi" però mi interessano molto. Mi sembrano incarnare cioè il luogo che mi sta tanto a cuore, il luogo che è "altrove". Il diavolo è altrove, si trova laggiù, dove Dio non è. Il diavolo si trova cioè all'inferno e l'inferno è notoriamente un luogo terribile, spaventosamente disagevole; è sgradevole, ma vale la pena di essere all'inferno, perché l'inferno è là dove Dio non è.

I romantici hanno descritto Satana persino come un eroe, un nobile ribelle, per così dire il prototipo del rivoluzionario. Satana è il ribelle, che addirittura sceglie di stare all'inferno, piuttosto che sopportare ancora la vista del mostro Dio. In questo senso posso persino identificarmi con Satana, perché, come ho scritto nella prima parte della mia storia, io la mia malattia, il mio cancro (due anni fa la mia malattia si chiamava ancora cancro), l'ho voluta: ho voluto "essere precipitato nelle buie caverne degli inferi" per essere "altrove", piuttosto che nel mondo della depressione in cui avevo vissuto i primi trent'anni della mia vita. In questo senso vedo nell'elemento satanico anche l'elemento liberatorio. Per trent'anni ho vissuto in un mondo che non era l'inferno ma, tanto per cogliere un unico aggettivo dagli innumerevoli che si prestano alla scelta, era "quieto" - e questo è stato molto, molto peggio. Adesso sono all'inferno, ma per lo meno qui non ho la mia quiete, la mia tranquillità. L'inferno è atroce, sì, ma vale la pena di esserci.

Camus va persino un passo più in là e in "Le mythe de Sisyphe" di Sisifo all'inferno dice: "Il est heureux". Io, per la verità, do la preferenza a un'altra soluzione - non fosse che perché non parto, come Camus, dalla premessa che l'inferno è eterno - e penso piuttosto alla possibilità che, come ho scoperto che tutto un giorno o l'altro ha una fine, anche l'inferno un giorno debba finire. Pure, per usare le parole dei fratelli Grimm: "Ci sei dentro (e) devi anche venirne fuori", e con ciò si intende che, quando si è andati in qualche posto, come ci si è entrati, bisogna anche saperne venir fuori. Troverei cioè banale e inutile restare in eterno nell'inferno e mettermi in testa che Dio è il male e il diavolo il bene, perché questo significherebbe soltanto ripetere gli stessi errori, anche qui soltanto all'inverso.

Considero l'inferno solo una stazione del mio cammino - una stazione intermedia, anche se necessaria - in cui non si deve restare in eterno, perché stare troppo a lungo nel suo calore finirebbe per rivelarsi TROPPO caldo. Una permanenza troppo prolungata presso Satana sarebbe inoltre anche contraria alla sua stessa natura, poiché egli è un "avversario", e come tale è CONTRO una cosa. Una volta che la Cosa fosse finita, con essa scomparirebbe anche la necessità dell'avversario e il diavolo diventerebbe, se dovesse sopravvivere alla fine di Dio, un Belzebù.

Ma per me la Cosa non è ancora finita, e fintanto che non è finita, il diavolo è ancora per strada e io sono d'accordo che Satana sia in moto. Io non ho ancora vinto sulla Cosa contro la quale mi ero messo: ma neppure ho ancora perduto e, ciò che è più importante, non ho ancora capitolato. Mi dichiaro quindi in stato di guerra totale.

 

 

Comano, 17. 7. 1976.

 

 

 

 

 

NOTE.

 

 

N. 1. Il Cancro zodiacale in tedesco è "Krebs" che significa però anche gambero e cancro nell'accezione medica (N.d.T.).

N. 2. "Gott fried" significa letteralmente: pace di Dio; "Zorn" in tedesco è: ira (N.d.T.).

N. 3. I versi citati dall'autore sono: "Auch ein Klagelied zu sein im Mund der Geliebten ist berrlich, / Denn das Gemeine geht klanglos zum Orkus hinab". (Anche essere un lamento sulle labbra dell'amata è cosa splendida / perché ciò che è comune scende senza eco nell'Orco.

STORIA DI UN MANOSCRITTO


 


di Adolf Muschg


 


 


L'autore di questo libro è morto a trentadue anni. Era ancora in vita quando, all'inizio di ottobre, io ricevetti da un amico libraio il suo manoscritto, con la preghiera di prenderlo in esame e di vedere se l'autore lo desiderava ardentemente - esisteva una possibilità di pubblicazione. La lettura di quel manoscritto era destinata a diventare un esame di tutt'altra natura, un esame strettamente personale. Scrissi all'autore di trovarmi, come raramente mi era accaduto prima d'allora, sotto l'impressione di aver letto un testo necessario; e sotto questa impressione mi era difficile conservare anche una parvenza di reale obiettività. Gli dissi che non mi sentivo di occuparmene personalmente e che avrei perciò inoltrato il manoscritto a un editore, in grado di dare un giudizio più sereno e pacato e provvedere eventualmente alla pubblicazione. Mi sentivo soltanto in dovere di rammentare all'autore certi riguardi che il MANOSCRITTO non aveva bisogno di prendersi, ma che le persone direttamente colpite avrebbero avuto tutto il diritto di aspettarsi dal LIBRO.


La sua risposta scritta - l'aveva già depositata presso degli amici come parte del suo testamento -: era disposto a servirsi di uno pseudonimo. Non vedeva altra scelta. Il manoscritto doveva VEDERE LA LUCE. La lettera di "Fritz Zorn", l'unico documento della nostra conoscenza, era chiarissima fin nella calligrafia, che aveva quei caratteri di disperato ordine che io imparai in seguito (troppo tardi) a interpretare da un amico che si è tolto la vita qualche tempo fa: espressione di una estrema sofferenza. Di ritorno da un viaggio in America, durante il quale il ricordo di quel manoscritto mi aveva perseguitato, ricevetti dall'editore una risposta titubante: nulla era stato ancora deciso, ma prevalevano alcune perplessità. Il seguito l'editore lo apprese direttamente dallo psicoterapeuta che aveva in cura Fritz Zorn: la risposta non poteva essere procrastinata ulteriormente, se voleva trovare l'autore ancora in vita. Era all'ospedale e il suo stato era molto grave. La tentazione di una pietosa menzogna si presentò e fu vinta: qui si vietava non solo ogni riguardosa gentilezza, ma QUALSIASI tipo di compiacenza. Finalmente l'editore comunicò la sua risposta affermativa all'autore per lettera; non la spedì per espresso per risparmiare al morente l'impressione della fretta; il gesto cadde nel vuoto. Quando il 2 novembre telefonai all'ospedale per annunciare a Zorn la mia visita, seppi che era morto quella stessa mattina. Per alcune ore io e altri fummo tormentati dal pensiero che la notizia - l'unica che ancora aspettava e che poteva recargli una gioia - non lo avesse raggiunto. Ma l'aveva raggiunto. Lo psicoterapeuta che lo seguiva ci assicurò di avergliela portata lui stesso la sera precedente - la vigilia della morte e - Zorn l'aveva percepita.


 


 


PARENTELE.


Senza aver mai incontrato l'autore, conoscevo la sua provenienza, il suo ambiente, la sua preparazione culturale, le sue aspettative esistenziali; l'analogia della sua biografia con la mia mi sconvolse.


Dieci anni prima di lui, anch'io ero nato su quella stessa "costa d'oro", avevo frequentato le sue stesse scuole, fino all'università; anch'io come lui avevo insegnato in un liceo di Zurigo. Ero nonostante le molte dimostrazioni del contrario - un cattivo viaggiatore come lui; anch'io, quando avevo incontrato l'elemento letale che avrebbe potuto distruggere ogni mia aspettativa esistenziale, avevo imboccato la strada della psicoanalisi; naturalmente nel racconto di Zorn l'elemento letale non è più una metafora; è invece un referto medico dal nome popolare e tremendo: cancro. Di qui l'emozione sconvolgente alla lettura. Riconoscevo questa vita; ma al tempo stesso cercavo buone ragioni per prendere le distanze da questo sconosciuto così noto che si faceva chiamare Fritz Zorn.


C'erano, naturalmente, anche delle differenze. Il mio ambiente piccolo borghese non aveva agito così spietatamente come il suo di privilegiato, non aveva avuto la stessa feroce tenuta. Anch'io avevo temuto e tremato davanti alle norme, quelle stesse che avevano regolato la sua esistenza. Ma, nel mio caso, il sistema era saltato prima e, nel fatto stesso di dover tremare ogni giorno per il mio status sociale, ne avevo presto scoperto la vacuità di guscio vuoto agli effetti non tanto della mia consapevolezza ma, "de facto", del mio comportamento. Fin da bambino avevo dovuto imparare a costruirmi, accanto a quell'esistenza così fragile e inconsistente di nato sulla "costa d'oro", un'altra vita diversa, nella parola, nello scritto, nella fantasia e, piano piano, anche nella realtà. Zorn si trovò a incontrare questa alternativa quando già non era più in grado di viverla; io - a differenza di lui - ero stato un cosiddetto buon atleta per il fatto di provare in ogni momento di pausa fra le lezioni il bisogno di mettere il corpo in movimento, avevo imparato a SENTIRLO, anche se- altrettanto poco quanto Zorn - ero riuscito a stabilire con il mio fisico un rapporto fraterno. Le difficoltà di contatto di Zorn le ho conosciute anch'io. Ma un'oscura percezione mi aveva sempre costretto a una sorta di fuga in avanti; e in questa fuga in avanti ho incontrato, fra l'altro, anche la sessualità, dapprima in forme infelici e cariche di sensi di colpa, che non dovevano però necessariamente continuare a restare tali. Incomprensibile rimane per me l'apatia di Zorn nei confronti dei giornali, delle novità culturali del jazz, degli ultimi Single: le mura che avevo eretto intorno a quel poco della mia vita interiore potevano anche essere non meno alte delle sue, ma sfruttavo ogni spazio, ogni breccia, sia per tentare la fuga sia per impossessarmi di tutto ciò che era nuovo. La doppia morale mi aveva per lo meno insegnato a non aspettare la salvezza da me stesso, sapevo di non poter bastare a me stesso. Il mio problema non era quello di una rigida immobilità, ma piuttosto una sorta di contrazione: la paura di lasciar sfuggire qualcosa e di non essere in prima fila nel compensare i miei sensi di colpa (l'unico autentico capitale del piccolo borghese). La paura di rimetterci non doveva necessariamente manifestarsi - come nel caso di Zorn nell'identificazione con un referto clinico. Mi accompagnava come una forma di vita.


E forse è stata proprio questa imposizione che mi ha sempre tenuto aperto un futuro. A me non sarebbe mai potuto accadere di lasciarmi crescere una tumescenza nel collo senza provare questa paura di rischiare qualcosa. Ciò che il mio puritano ambiente familiare non mi aveva insegnato ad amare - cioè il mio corpo - a maggior ragione lo dovevo osservare, studiare, sorvegliare. Non c'è pagina nel manoscritto di Z. ch'io abbia letto con maggior incomprensione di quella in cui tratta di sintomo di morte da principio con una metafora ("le lacrime non piante") invece di affrettarsi a farsi curare in maniera radicale. In realtà, se fosse stato meno intellettuale, meno signore, questa paura gli avrebbe forse salvato la vita. Lui, il figlio di una famiglia che si proteggeva tanto, non era stato educato a far attenzione alle "carenze", ne aveva sofferte già troppe. Ma forse lo sapeva anche troppo bene - il suo inconscio sapeva che cosa gli stava fiorendo nel collo e l'inconscio era segretamente in combutta. Perché infatti in questa biografia è la presenza acuta della morte che costituisce il primo, doloroso scontro con la vera vita. La malinconica verità per la quale solo a prezzo della vita impariamo l'arte di godere la vita, si concentra qui in un unico punto focale e avrebbe il potere di compiere miracoli se insieme al resto non consumasse anche la sostanza su cui questo miracolo avrebbe potuto prodursi. La verità non è un compenso per la vita perduta.


 


 


E' ANCORA LETTERATURA?


Questa è l'opera di un morente. Tuttavia la domanda se è anche letteratura non deve trovare risposta in forma di ricatto morale. E' una domanda di natura estetica, e come tale da prendere sul serio in particolar modo come documento di una problematica di fondo che è la sessualità mancata, la percezione perduta. Il giudizio sull'opera letteraria deve sapersi esprimere anche accanto a una condanna a morte, senza riguardi che sarebbero soltanto umilianti - e questo non riuscirà facile al lettore davvero sensibile. Certo, questo libro è letteratura, nella misura in cui colui che qui scrive è un uomo che sa usare molto bene il linguaggio, che non disdegna neppure la battuta quando gli si offre l'occasione e che la porta qualche volta ai limiti della sentenza pura, per esempio quando dice: "Ero intelligente, ma non sapevo far niente" - "Trovo che un individuo che per tutta la sua vita è sempre stato buono e bravo non merita altro che morire di cancro" - "Dare è molto, molto più facile che ricevere" - "La storia della mia vita mi angoscia a morte, ma la capisco benissimo". Tutto ciò è segno di uno spirito caustico e lascia intravedere la preparazione culturale latina dello studio di filologia romanza; volontà di chiarezza sotto il fuoco. Chi non sa immaginare l'ultima agonia che come grido, troverà qui anche della retorica, persino un certo gusto declamatorio. Il libro è anche letteratura per quel precario aspetto di nobiltà che permette alla vicinanza della ghigliottina di convivere con il fulgore degli alessandrini, come nella poesia di Andrea Chénier; o lascia il "bon mot" accanto alla disperazione, come nella "Morte di Danton" o vede il calcolo scintillante mescolato con la consumazione interiore, come in tutti i drammi di Schiller. Si può in questo libro imparare che questo connubio non deve essere necessariamente inganno, ma può essere pagato con l'impegno di tutta la persona. I moralisti dal fiato corto qui possono imparare qualcosa a proposito del nascere della retorica dallo spirito del coraggio.


Tuttavia, sul piano letterario il libro lascia anche parecchio a desiderare. Non è soltanto un libro senza aneddoti; è un libro che nei momenti decisivi rinuncia persino alla testimonianza del "vissuto", al particolare significativo. Per esempio: veniamo a sapere che i genitori di Z. una volta (un'unica volta) hanno litigato, ma non sappiamo a quale proposito, anche se ciò sarebbe di grande interesse.


Un altro esempio: apprendiamo che l'autore, uomo malato, è stato insegnante di spagnolo e portoghese in un liceo e in effetti ha continuato a insegnare fino a poco tempo prima di morire; mai, in nessun momento troviamo una parola che ci lasci intuire ciò che ha significato per lui questo lavoro, che cosa gli è costato, che cosa possono aver rappresentato per lui in questi anni così difficili i suoi allievi, che rapporto ha avuto con loro. Per muoversi in questi, che potremmo chiamare "spazi di realtà", gli manca l'occhio sociale, manca la calma, manca la disponibilità sensuale del linguaggio. Dove esso non acceca, mostra un certo pallore: deve sempre prendere i colori da quello stesso fuoco che lo consuma. Per poter esistere ha bisogno di una sua singolare freddezza.


In effetti fa parte della tragica ironia di questo libro - della sua stessa credibilità - che esso debba documentare proprio quella mancanza di vita che lamenta e denuncia; che il suo essere opera d'arte consista appunto nell'essere sganciato dalla realtà, un documento autistico nel senso più completo del termine. L'arte non può dare ciò che la vita ha negato: ricchezza di riflessi fisici, duttilità di rapporti con se stessi e con il mondo esterno, il gioco dell'"io" e del "tu", il dono di giungere INVOLONTARIAMENTE al cuore del lettore. Se Z. avesse posseduto queste qualità, non sarebbe dovuto morire così giovane - non avrebbe, soprattutto, dovuto gettar via così la sua vita. Qui, per forza di cose, agisce un'altra forma di volontà artistica; nulla più si mostra alla luce di sentimenti di tenerezza, di nostalgia o nel ricordo. Egli non pensa a togliere asprezza agli oggetti della sua consapevolezza. L'unica grazia che quest'arte concede (se è arte), consiste in una plasticità astratta di immagini di angoscia e di disperazione, nelle quali ogni ricordo di felicità fisica si raggela.


E tuttavia sarebbe ingiusto dire che questo libro non ha altro "vis-àvis" che la morte Assai più esso si rivolge come un tutto al lettore, naturalmente senza un alito di intimità o di familiarità. La forma taciuta del "tu" di questo saggio è tutta una arringa, una perorazione. L'avvocato chiede giustizia per chi non sa farlo: se stesso.


 


 


MONSIEUR LE VIVISECTEUR.


Questo libro non conosce riguardi; né sembra chiederne. L'elemento di gelo che tiene a distanza in questo stile muove dal pathos di un soggetto che si presenta come oggetto; oggetto di una scienza altamente privata e ultrapersonale. In questo atteggiamento c'è qualcosa che appare ironia e vendetta; un modo di vendicarsi dell'insensibilità dell'anima durata tutta un'esistenza, di quell'anima che ora, quando il dolore comincia a darle vita, viene costretta dal bisturi della consapevolezza a resistere, a non lasciarsi andare, a fare "come se" ancora non sentisse nulla.


Sappiamo tutti quanto sia ingannevole il bagliore estetico di questa anestesia, quanto sia fragile l'edificio ricostruito dell'anima tenuta in piedi solo da uno scopo dimostrativo. Ma appunto per ciò, questa apparente oggettività, per quanto voluta, vuole essere rispettata. Z. lo vuole come "caso" (è stata la sua ultima volontà). Egli si presenta non solo come persona, ma come modello, di qui la straordinaria esemplarità del suo stile. L'ATTEGGIAMENTO in cui vuole essere visto non è quello della sofferenza, ma piuttosto quello dell'unica virtù in cui questa sofferenza può ancora trasformarsi: l'atteggiamento di perito settore della propria situazione. Dobbiamo dimenticare che non si tratta di una autopsia "post mortem" ma di una "ante mortem", cioè di una vivisezione. Dobbiamo piuttosto profittare di quest'ultima qualità di tentativo. Il libro pretende una reazione molto più ricca di conseguenze che la nostra partecipazione; vuole il nostro coinvolgimento.


Voglio dire che il valore di acquisita consapevolezza di questo documento è inconsueto: tanto sul piano psicologico quanto su quello medico (se vogliamo continuare a perpetuare questa precaria suddivisione delle scienze). Z. descrive la sua infanzia come un caso maturato in un ambiente sociale in cui il "bon mot" consiste nell'evitare il PRESENTE: che ha perfezionato il meccanismo del RIMANDARE fino a farne uno stile di vita, per poter nutrire di armonia ogni momento della vita oppure, poiché l'armonia in senso reale non è possibile (in quanto essa non può essere che frutto di lavoro interiore, di impegno, di rapporto, di conciliazione) - con la finzione dell'armonia. Tenere un ménage distinto significa: trattare i problemi come privi di stile; vedere nella sfida dei fatti una scortesia; rimandare al domani le realtà particolarmente sgradevoli oppure riferirle a uno studio più accurato (fatto da altri).


Significa: la dispensa totale dal proprio spazio di azione; il diplomatico non riconoscimento dello spazio altrui; il sottile, abilissimo combinare un sì che non impegna con un no che non viene pronunciato; la costituzione di una topografia senza luci e senza ombre, definita e delimitata dall'assenza dei problemi che - se mai si pongono - vengono relegati nel limbo del "difficile" e del "non paragonabile". Significa risarcirsi della perdita della propria fisicità con l'esotico (ma distinto) spettacolo di corpi estranei.


Significa letteralmente ingannare il tempo fino alla morte - evitando accuratamente ogni "esser presente". Anche la morte è dopotutto, fino a nuovo avviso, la morte degli altri.


In questa casa di fantasmi, dove si fa il solitario e si evitano i contatti, dove si trova la gente "ridicola" e le cose "difficili", il tempo e lo spazio evaporano sotto la magia del rituale fino al totale silenzio dei sentimenti. Si può avere un'infanzia senza esser bambini; una giovinezza senza essere giovani; essere adulti senza avere un presente; salutare la gente senza essere vivi. E però con tutto ciò non si ha la consapevolezza di una perdita, è uno stato di totale assenza di dolore. Perché il dolore sarebbe già una sensazione, un segno di sensibilità, un sentimento; ma i sentimenti si "indossano", non si vivono, non vi si reagisce. In questi ambienti non se ne sente la necessità; chi paga per stare a guardare, non ha dopotutto nessun bisogno di mettersi anche a saltare intorno come attore. Paga, con che cosa? Il denaro è il meno, e tuttavia non se ne parla, perché che ci sia va da sé. Di tutto il resto, di quello che non si capisce di sé, a maggior ragione si tace: della sessualità, per esempio, che secondo provati modelli viene rimossa come per magia: dapprima sta in una fantomatica lontananza a venire; più tardi, essendo persone perbene, bisogna essersela già lasciata alle spalle. Soltanto ora e qui non esiste. Civiltà di spettatori. L'idea che tanta finzione di vita potrebbe, in tutto silenzio, venir pagata con la vita, si fa strada lentamente nella giovinezza di Z. e comincia a intossicarla da principio in forma di sospetto psicologico. Come sarebbe se io apparissi agli altri così ridicolo come loro a me? Quanto orrore deve nascondere il mondo perché lo si debba affrontare solo con così implacabili buone maniere? Se su tutto ciò che mi riguarda si deve tacere, quanto enorme deve essere la colpa che io in realtà dovrei compensare? L'adolescente va fra i suoi coetanei con la sensazione di avere "una cornacchia morta legata al collo"; una sinistra e pregnante immagine premonitrice del suo sintomo finale. Qui sta ancora come segno di qualcosa che nessun individuo può aver onestamente meritato: essere escluso dalla vita. Durante gli anni di studio l'ulteriore differimento della vita comincia ad apparirgli come qualcosa di irrevocabile: ciò che mi sta accadendo non è giusto, c'è qualcosa che non va. Quel continuo rimandare la vita al quale sono stato abituato e che è diventato il mio impegno, il mio compito, è una malattia che porta alla morte.


Vediamo con sgomento la negazione delle reali esigenze oggettivarsi, realizzarsi nel corpo e nello spirito del giovane. Dapprima nell'ombra di una inspiegabile malinconia, un generale calo di tono di tutto ciò che la vecchia medicina chiamava "gli spiriti vitali". Il deficit di realtà (che si è accumulato nel corso di anni di apparente armonia e di ingannevoli privilegi) cerca uno sbocco, una via d'uscita dal silenzio di morte dell'infanzia e trova da principio solo il linguaggio sommario della tristezza. Essa si avvicina alla realtà per lo meno in quanto rivela la sua sofferenza. La psichiatria tradizionale chiama questo stato "depressione" e se non riesce a chiarire qual è la causa scatenante, aggiunge l'aggettivo "endogena".


Se essa prendesse la biografia di Z. alla lettera per fare una anamnesi, potrebbe imparare a capirsi più chiaramente. Soltanto che ciò travalicherebbe i confini del suo sapere, i suoi concetti di competenza. Dove andrebbe a finire se dovesse considerare come nevrotica, come causa di malattia psichica proprio la riuscita di una prestazione esistenziale, cioè il totale dissolversi di un essere umano nelle forme, nelle buone maniere della società?


Dopo che, ad onta dei successi negli studi, la depressione si è infittita fino alla rassegnazione, Z. va alla ricerca di uno psicoterapeuta presso il quale la sua globalità di individuo, anima e corpo, possa essere meglio assistita che presso i medici generici. La terapia comincia a dare i primi risultati (per la prima volta Z. si accorge che ciò che fa ha delle conseguenze), ma dapprima i risultati sembrano rivoltarsi contro di lui, e nella forma più acuta e catastrofica. La comprensione dell'elemento silenziosamente distruttivo della vita condotta fin lì mette in moto la distruzione aperta e minaccia di distruggere insieme con la finzione anche le fondamenta della speranza. Cioè l'analisi porta di fatto alla dimostrazione che l'unità di anima e corpo che la "buona educazione" aveva cancellato, è una realtà più forte, assolutamente inscindibile.


Ma accettare questa inscindibilità vorrebbe ora dire disperare della guaribilità della malattia; perché ogni unità si è nel frattempo rivelata nel segno della ritrattazione, della revoca di tutta l'esistenza. Il nome tragico, la realtà schiacciante di questa ritrattazione è: cancro.


Fu per questo che Z., con il referto medico in tasca, di fronte alla disperazione cercò rifugio dall'analista? Fu piuttosto il fatto che il referto medico, che si concludeva nel fatto organico, limitato come pareva, alleggeriva l'anima a tal punto ch'essa ora si sentiva disponibile per l'analisi. "Dall'esterno" dovrebbe apparire difficile comprendere come il nome cancro coincidesse per il paziente non con una condanna a morte, ma con una speranza. Nel momento in cui veniva apertamente aggredito, il principio ostile alla vita pareva finalmente offrire un terreno d'attacco. E in questa volontà di contrattacco, poteva farsi aiutare dalla psicoterapia. Per la prima volta in vita sua questo incapace del contatto umano si trovava ad avere un dichiarato avversario; questo nemico poteva ora prendere il posto del partner ideale, sostituirsi a tutti i contatti mancati. Non pareva ancora del tutto fatale che questo nemico gli si presentasse nella forma del proprio corpo ingannato.


 


 


CANCRO: CHE COS'E'?


Questo libro potrebbe essere più di un contributo alla psicologia di una forma di vita segnata dalla morte. Potrebbe sostenerne la cura ed essere utile per la comprensione di quella malattia che i necrologi definiscono "incurabile" e che la medicina tradizionale di preferenza evita di chiamare per nome. Finora il cancro ha talmente deriso tutte le invenzioni di questa medicina, che nasce il sospetto che la malattia non sia assolutamente curabile su base allopatica; vuole una comprensione nuova, rivoluzionaria del rapporto fra salute e malattia.


Il cancro è una malattia fra virgolette; in forma incomprensibile e conturbante, esso non è tanto una malattia quanto un'evoluzione asociale della norma biologica. Il proliferare delle cellule, di importanza vitale e a certe condizioni altamente desiderabile, a un certo punto smette di attenersi ai limiti del desiderabile, spezza lo schema del "sano" e infetta il suo stesso sistema con un'anarchia che porta alla morte del sistema medesimo. Chi dà il segnale per l'inizio di questa evoluzione, possibile in ogni momento in ciascuno di noi (di qui il concetto di maligno)? Questa proliferazione che conduce alla morte presuppone una segreta disposizione, addirittura un'intesa dell'organismo colpito? E' possibile che si debba alla fine pensare non a un attacco "dall'esterno", ma piuttosto a una evoluzione "dall'interno", guidata a livello del tutto inconscio? L'antica medicina magica e alchimistica che fiorisce ancora in zone eretiche ma stranamente vive (e che torna a noi in forma di terapie esotiche) non ha mai visto la salute come un valore a se stante, ma piuttosto come un gioco di rapporti, un labile e misterioso equilibrio del ricambio fisico e psichico, guidato da una sorta di singolare livello di comunicazione fra il mondo interiore e quello esterno; in breve: una forma di armonia. Da ciò dovrebbe conseguire che malattia è uguale a squilibrio, a comunicazione disturbata; e che perciò dovrebbe essere considerata e trattata non come CAUSA, ma come CONSEGUENZA di una disarmonia. Malati non si "diventa", a meno di non ESSERLO già, a meno di non vivere in un cronico errore di rapporti con il proprio ambiente e quindi anche con se stessi.


La cosa veramente inquietante nel cancro è il fatto che esso sembra confermare fedelmente, fin nel particolare fisiologico e psicologico questa interpretazione di salute e di malattia. Rifiuta ogni terapia che non parta da una comprensione globale dei rapporti. Il trattamento clinico del male, con raggi e cobalto, anche il più radicale, rappresenta un surrogato del tutto insufficiente, come dimostrano i risultati. Chi studia e cura SOLO il cancro, non lo studia né lo cura in modo giusto - questa dovrebbe essere in generale la conclusione che si trae dalla incurabilità di questo male così tipico della nostra civiltà; una conclusione che si tradurrebbe certo in termini molto costosi, non soltanto sul piano economico. Il pensiero che di nulla si muore tanto spesso quanto della nostra incapacità di vivere in pace con le condizioni di quella civiltà che noi stessi abbiamo creato (quella pace che vive ed elabora apertamente il conflitto, invece di doverlo continuamente rimuovere) dovrebbe capovolgere la nostra immagine dell'uomo. Nel caso Z. si dovrebbe studiare che cosa E', secondo tutte le probabilità, il cancro di un individuo: protesta contro le condizioni oggettivamente dominanti che impediscono la vita; segnale di morte che l'organismo, così defraudato, si dà, sviluppando per sé, e alla fine contro di sé, una proliferazione per così dire COMPENSATIVA.


Naturalmente non basta vedere nel cancro un reperto individuale di non-volontà-di-vita, un atto di inconscio rifiuto (sebbene a livello individuale il terapeuta debba agganciarsi a questo se vuole invertire tempestivamente il processo letale). Il cancro è la condanna di una società che ha bisogno della repressione e che rende necessario il mutismo dei sentimenti. Il riferirsi a "Mosca" - il luogo stereotipo dove si sta ancora peggio - rivela, come alibi, solo la carenza di presenza, la irrealtà della propria costituzione. Qui Z., che non è certo uomo di sinistra, stabilisce il nesso preciso fra deficit esistenziale e anticomunismo, povertà interiore e aggressività.


"Mosca" diventa pseudonimo del dato di realtà che, per essere qualcuno, dobbiamo sentirci minacciati.


Nel cancro, questa predisposizione si evolve e diventa una minaccia REALE, concreta. Nel malato di cancro viene condannato ciò che impedisce a noi TUTTI di vivere. La forza di questo libro sta proprio in questo, nella dimostrazione di questo nesso, una dimostrazione condotta con le ultime riserve di un sano impulso reattivo, e sigillata poi con la morte. Se la premessa della sua azione (la inconciliabilità di fronte a un'immagine del "sano" e del "malato" del tutto falsa perché carente e basata sulla rimozione) potesse essere elevata a legge generale, la pubblicazione di questo libro segnerebbe una pietra miliare. Porrebbe nuove mete alla conoscenza dell'uomo - e soprattutto della medicina - imporrebbe forse un capovolgimento totale della linea seguita dalla farmacologia industrializzata e dai medici che la sostengono.


 


 


CONTRATTACCO.


Fa parte della tragica ironia di questo libro che la speranza che Z. trae dalla comprensione della causa della sua malattia arrivi per lui, come singolo caso, troppo tardi. In fondo lui lo sa, la tensione difficilmente sostenibile degli ultimi due capitoli, espressa o no, poggia sulla scommessa con la morte vicina. Ma lui, in un certo senso molto preciso, non lo vuole sapere. A questo nuovo senso di testardaggine è legato il piccolo margine di vantaggio ch'egli ha calcolato e che forse può ancora salvarlo. L'obiettiva vicinanza della morte gli suggerisce una vicinanza con la vita fino allora sconosciuta, e gli permette di liquidare, almeno nel pensiero e nella parola, i problemi rimasti fino a quel momento chiusi nella prigione della depressione e del corretto silenzio. Quale che sia il male che il cancro potrà ancora fargli, esso è riuscito ad allontanare definitivamente la depressione e la tristezza di fondo, sostituendovi il dolore reale. E di questo lo si può ringraziare, se pure con rabbia.


Z. dà in questo libro una dimostrazione esemplare della sua capacità di resistere, di opporsi, che mai prima aveva saputo valutare. Si prende la libertà di utilizzare il mortale tumore come un organo di consapevolezza. ANCHE QUESTO SONO IO, impara a dire un uomo che mai prima aveva imparato a parlare in prima persona. (Che d'altro canto per lui ci fosse stata soltanto la forma della prima persona, il malinconico autismo, è una contraddizione soltanto apparente.) Di più: finalmente egli fa ciò che ogni fiore sapeva fare e lui no: "mostrare la propria crescita". E questa rappresentazione del sé sembra controbilanciare anche la morte che si nasconde in questa crescita divenuta maligna. E' finalmente - in rappresentanza di tutti i rapporti esterni mancati, di tutto il mondo esterno perduto - una morte esteriore; dolorosa, certo, ma mai così maligna come la morte interiore e sempre taciuta di prima. Una morte esteriore, quand'anche nulla più potesse essere di aiuto, egli può sempre farla sua.


Naturalmente non nella forma in cui il Claudio di Hofmannsthal cade finalmente nelle braccia della morte.


 


 


"Da tot mein Leben war, sei du mein Leben Tod!


Was zwingt mich, der ich beides nicht erkenne, Dass ich dich Tod und ienes Leben nenne?" [Poiché morta era la mia vita sii tu la mia vita, o morte! / Che cosa mi costringe, poiché non riconosco entrambe, / a chiamare te morte e l'altra vita?]


 


 


Morire la sua morte significa per Z. riconoscere implacabilmente entrambe: la morte e la vita; mantenere chiara la terminologia; rinunciare una volta per tutte a ogni trucco e a ogni confusione.


Significa chiamare morte la morte e accettare la sua crudele illogicità, e chiamare vita la vita, anche quando non c'è più il tempo per viverla.


Sì, non cedere a questa conciliazione con la morte, evitare, questa volta a ogni costo, la conciliabilità depressiva che non prende partito di fronte alle cose e ha reso la vita un sogno senza seguito.


In ciò sta il senso PERSONALE di questo documento, di quest'ultima volontà. Se in tale atteggiamento si nasconde un po' di speculazione, essa va ben al di là della speranza in un possibile vantaggio. E qui occorre parlare infine della reale temerità di questo morente. Egli calcola - e fa il suo calcolo davanti al lettore sgomento - che questa malattia che conduce alla morte, anche se progredisce inarrestabile, ha una sua reversibilità, può cioè, in modo DIVERSO, rivoltare tutta la sua assurdità contro la causa di tutto l'assurdo... Ciò che il cancro ha fatto a questo malato, egli, il malato, lo può ripagare al "dio del coccodrillo". Perché, se dovesse essere vero che l'universo è un organismo i cui nessi sono strettamente legati, allora questo metafisico organismo non può essere più forte del suo membro più debole. E però proprio in questo essere il membro più debole, quindi il sacrificato, in questo deve consistere la mortale grandezza del sacrificio. Il suo morire è l'attacco al tutto, l'aggressione e deve trasferire nell'aldilà la ben meritata morte...


Qui il cancro appare non più come il mero riflesso della propria vita, ma diventa arma, magia nera, inversione malvagia del detto evangelico secondo il quale ciò che viene fatto al più povero dei fratelli è fatto anche a lui. Il motivo dell'anti-Giobbe, il rifiuto assoluto a riconciliarsi con il dio della morte è il motivo predominante dei due ultimi capitoli. Z. si immedesima nella posizione di rivolta del Sisifo di Camus e ha il coraggio di ripetere: "Il est heureux". Questo è in effetti un esistenzialismo oltre i limiti che un individuo convalida - non senza gettare un'occhiata a Satana-Lucifero - con la sua anima viva (finalmente viva!). Ci vuole davvero un massimo di autosuperamento - no, piuttosto di autoaffermazione - per tenersi, nella situazione di Z., al grido di fede di Camus, per cui di fronte all'assurdo non conta più il vivere "le mieux", ma "le plus". Questo è una sorta di irriverente immoralismo che in realtà va molto al di là della propria così limitata esistenza. Ma appunto questo massimo è per Z. abbastanza estremo per equilibrare almeno nella tendenza il muto peso di ciò che la vita non gli ha dato.


Ma l'opposizione, l'ira ("der Zorn", che lo pseudonimo denuncia) di questo morente implacabile non si rivolge soltanto contro l'assurdo trascendente. Non meno arditamente specula contro l'assurdo concreto delle nostre strutture sociali, contro l'incurabilità della propria origine familiare e sociale. Il morente vorrebbe ora, con la sua disperazione finalmente carica di vita, padrona della vita, avvelenare anche questo. Egli vede la sua morte - o quell'irato ritaglio di vita che gli rimane - come un attacco rivoluzionario al sistema, senza per questo accodarsi a una esistente forza rivoluzionaria, nessuna delle quali appare sufficiente al suo precario assolutismo. E' la sua morte in quanto tale che deve portare alla luce l'elemento di morte di questa società, rendendolo ben riconoscibile e non più rifiutabile. La sua morte non disturberà soltanto la quiete dei genitori e della loro società, non metterà in luce soltanto le loro colpe (questo atto di accusa Z. lo pronuncia alla fine in tutta la sua forza dopo averlo lasciato sospeso nell'aria come un generico "j'accuse"). Di più: renderà loro (non ora e subito, ma quando il numero delle vittime, di cui egli è solo uno dei tanti, avrà raggiunto un peso sufficiente), renderà loro IMPOSSIBILE continuare a esistere con se stessi. Lui, il "rivoluzionario passivo", contribuirà con questo alla decadenza dell'occidente, lui che non era contro la rivoluzione. Una società che non ha imparato, muore, è già morta, manca soltanto che la morte alla quale è condannata si faccia a tutti evidente.


 


 


DOLORI DI UN ADOLESCENTE.


Questa rivelazione il libro di Z. la catapulta ai piedi del lettore. E perché essa non venga addolcita da alcuna speranza nell'aldilà, con la condanna della società egli pronuncia anche la condanna di Dio. Il dio che ha permesso il prosperare di questa società, e di cui essa ha bisogno in quanto egli è il creatore delle sue scappatoie, NON DEVE


ESSERE. Poiché egli dipende dal sistema che lo ha creato, un buon odio basta per la distruzione di entrambi questi mondi. Perché egli non deve essere un dio illimitato e universale, ma un dio locale, un dio della "costa d'oro" - assoluto solo nella sua limitatezza, per il resto solo Male che può essere neutralizzato spezzando ogni rapporto con lui. E' sconvolgente quanta acutezza Z. usa per dimostrare la limitatezza, la REGIONALITA' di Dio - come se qui lo conducesse per mano, ignorata, I'assurda speranza che nell'universo anche il male potesse essere altrettanto limitabile quanto nel suo corpo (come egli continua a sperare). Sì, fino all'ultima pagina - e agli ultimi giorni di Z. quando egli, divorato dalle metastasi, aveva voluto essere ricoverato in ospedale per una "cura del sonno" - la BONTA' del suo desiderio esistenziale rimane chiara e riconoscibile. Egli si propone con tanta ferocia soltanto per non venire sospettato di una gentilezza che gli appare fatale. Ma la sua speranza furtivamente si serve anche delle forme della estrema rivolta - la maledizione di Dio. Perché che altro significa quell'audace speculazione, l'idea di contagiare l'universo con la propria miseria, se non il bisogno di comunicazione, portato all'estremo, di un uomo isolato, solo nella morte? La celebrazione della vita PER SE', a prezzo del proprio desiderio d'amore - che altro nasconde se non l'unica preghiera di trasmettere la vita stessa, che altro esprime - nella forma opposta della maledizione - se non un desiderio d'amore?


Colui che ha scritto questo libro vi progettò - comunque l'abbia poi usata - una strategia della sopravvivenza. Quando tutti i fili si spezzano, una cosa deve per lo meno restare di lui: una consapevolezza che va nel profondo. "Io sarò morto e avrò saputo perché." Può essere una consapevolezza avvelenata - ma Z. preferisce presentare la sua intera esistenza come spazzatura che ci faccia riflettere e possa pesare sul mondo, e in caso estremo distruggerlo, piuttosto che lasciare che questa esistenza finisca nel nulla.


Egli volle vivere fino all'ultimo istante e ancora oltre. Soltanto il cancro, di cui inutilmente cercò di liberarsi, gli aprì gli occhi e gli fece comprendere quanto volentieri avrebbe vissuto e quanto poco aveva vissuto; gli fece comprendere che cosa la vita sarebbe potuta essere. Chi in questo manoscritto avverte una mancanza di maturità, non dimentichi che a questo morto non è stata concessa nemmeno l'immaturità. Qui siamo di fronte a un uomo morto a trentadue anni, un uomo con tendenze del tutto normali e che pure non ha mai fatto l'amore con una donna. Che neppure in questo sia un caso isolato, già sarebbe motivo di indignazione - dell'unica ONESTA indignazione che io posso considerare legittima in questa nostra società. Essa dovrebbe ribellarsi contro l'elemento che in tutti noi impedisce, paralizza la vita - ed è appunto ciò che questo morente fa, nella forma più privata e più virulenta - e lo fa per noi. Il lettore può ancora trovare che questo libro sarebbe stato più graffiante se avesse posto la "piccola" esperienza davanti alla più cospicua speculazione e che forse soltanto in questa forma potrebbe essere definito veramente "personale".


D'accordo. Ma questo giovane non aveva avuto le premesse per una simile esistenza personale - e quindi anche sessuale - e questo è appunto il dolore che egli qui lamenta e di cui muore. Egli cerca la sua dignità nel manifestare il suo più profondo dolore non come DOLORE, ma come IRA. E' contro la morte durante la vita che Z. protesta e a questo egli oppone l'unica cosa che ha VERAMENTE vissuto: l'esperienza che prima della morte ci DEVE essere una vita - sia pure una vita sofferta, tormentata, incompleta, ma pur sempre vita; se non esiste altra possibilità, una vita nella morte, nell'agonia. La sua ira non cela mai completamente il suo bisogno di giustizia, il suo desiderio di essere onesto. L'antico, sospetto desiderio combatte fino all'ultimo momento con il bisogno elementare di esprimersi, di manifestarsi, di enunciare finalmente, una volta per tutte, i suoi desideri.


Ma persino questi suoi desideri sono, se si guarda dal di dentro l'elemento più pungente, al contrario sommessi e stranamente modesti.


A un certo punto Z. scrive che, a vitalizzare il cancro, c'è stato in lui soltanto un po' troppo di tutto. Un po' troppo di quel mendace silenzio, della istituzionalizzata mancanza di sentimenti, un po' troppo del peso della tara familiare. Per la sua qualità, il tipo di vita ch'egli ha vissuto non sarebbe stato letale. E' stato il fattore quantitativo, il troppo di disumanità che si è trasformato in malattia mortale. Si deve allora da questo dedurre che più fantasia, più cure, più attenzioni fisiche e spirituali avrebbero salvato questa vita, anche nel suo clima borghese? Si può e si deve. Z. ha sbattuto la porta con tanta veemenza davanti al suo prossimo soltanto perché sapeva di non poterla chiudere altrimenti. Il lettore resta invitato a contraddire questo radicale gesto di morte. Questo appare legittimo non foss'altro perché obbliga all'azione; perché può e deve essere vissuto qui e ora. Colui che qui ha dovuto morire non è stato la vittima di un destino avverso; è morto a causa di tutti noi; è morto di ciò che a noi manca - da un'occasione all'altra - per essere degli esseri umani completi. E' morto perché non ha potuto condividere la sua vita, non ha imparato a comunicarla, non lo ha imparato fino a quando non è stato troppo tardi. Ciò che gli è mancato nella vita è stato qualcuno che gli avrebbe potuto dare e chiedere partecipazione, comunicazione. In una società incurabile la sua morte non è un'eccezione, ma un fatto normale. Continueremo a morire così fintanto che continueremo a vivere così. Questa è la verità veramente sconvolgente di questo libro.