«Non ho nessuna voglia di bere,» affermò enfaticamente Marsha in tono asciutto, freddo. Pallida e decisa fissava McFeyffe, ignorando tutti i funzionari della compagnia che sfilavano nella sala d'attesa. «Io e Jack stiamo andando al bevatrone; oggi mettono in funzione la nuova attrezzatura. Lo abbiamo deciso da diverse settimane.»
«Ho la macchina nel parcheggio,» disse McFeyffe. «Vi accompagno io.» Poi aggiunse, con un pizzico di ironia, «Sono un poliziotto... posso portarvi fin dentro l'impianto.»
Mentre la Plymouth impolverata percorreva la lunga salita che portava agli edifici del bevatrone, Marsha disse, «Non so se ridere o piangere, o che cosa. Non riesco a crederci.
Ma tu stai parlando sul serio?»
«Il colonnello Edwards ha suggerito a Jack di buttarti via come un vestito usato,» disse McFeyffe.
Stordita, confusa, Marsha sedeva impettita, stringendo i guanti e la borsetta. «Lo faresti?» domandò a suo marito.
«No,» rispose Hamilton. «Nemmeno se tu fossi una pervertita, una comunista e un'alcolizzata nello stesso tempo.»
«Hai sentito?» chiese Marsha, rivolta a McFeyffe.
«Ho sentito.»
«E che ne pensi?»
«Penso che siete due ottime persone. Penso che se Jack facesse diversamente, sarebbe un gran figlio di buona donna.» Poi concluse, «E l'ho anche detto al colonnello Edwards.»
«Uno di voi due,» disse Hamilton, «non dovrebbe essere qui. Uno di voi due dovrebbe essere cacciato via a calci. Forse dovrei tirare una monetina.»
Colpita. Marsha lo fissò, mentre gli occhi bruni le si riempivano di lacrime e le mani continuavano a tormentare stupidamente i guanti. «Ma non capisci?» gli disse in un sussurro. «È tenibile. È una congiura contro di te. Contro di noi.»
«Anch'io mi sento un po' in colpa,» ammise McFeyffe. Svoltò dalla statale e guidò la Plymouth fino al posto di blocco, e quindi nell'area del bevatrone. Il poliziotto all'ingresso salutò e fece un cenno con la mano. McFeyffe rispose al saluto. «In fondo, voi siete miei amici... ma il dovere viene prima, e mi impone di fare rapporti anche sui miei amici.
Prendere in considerazione ogni aspetto negativo, verificare le voci... credete che mi diverta?»
«Il tuo dovere mettitelo...» cominciò Hamilton, ma Marsha lo interruppe.
«Ha ragione, non è colpa sua. Ci siamo dentro tutti e tre, in questa storia.»
La macchina si fermò di fronte all'ingresso principale. McFeyffe spense il motore, e i tre scesero, imboccando a passo lento il largo vialetto di cemento.
Hamilton si voltò a guardare un gruppetto di tecnici fermi sui gradini. Giovanotti ben vestiti, con i capelli tagliati a spazzola, cravatte a farfalla, che chiacchieravano amichevolmente. Insieme a loro c'era la consueta folla di visitatori che, dopo aver superato il controllo, si stavano avviando tutti eccitati ad assistere allo spettacolo del bevatrone in azione. Ma ad Hamilton interessavano i tecnici; eccomi qua, si disse.
Anzi, pensò, c'ero fino a pochi minuti fa.
«Devo assentarmi un minuto,» disse Marsha con voce fioca, strofinandosi gli occhi rigati dalle lacrime. «Vado in bagno a rimettermi in sesto.»
«D'accordo,» mormorò lui, sempre immerso nei suoi pensieri.
Marsha si allontanò e i due uomini rimasero uno di fronte all'altro nel corridoio rimbombante dell'edificio del bevatrone.
«Forse è meglio così,» disse Hamilton. Dieci anni erano un tempo molto lungo, in qualsiasi genere di lavoro. E poi, che cosa si aspettava da quel lavoro? Ecco una buona domanda.
«Hai tutte le ragioni per essere depresso,» disse McFeyffe.
«Dici bene,» ribatté Hamilton. Si allontanò per stare un po' da solo, con le mani in tasca.
Certo che era depresso. E lo sarebbe rimasto finché non avesse deciso in un modo o nell'altro se scegliere il lavoro o sua moglie. Ma il problema non si riduceva poi solo a quello; era la sua organizzazione che aveva ricevuto un colpo fatale, il suo sistema di vita, l'intera gamma delle sue abitudini; le tante cose in cui credeva e sulle quali faceva affidamento. McFeyffe era penetrato fin nell'intimo della sua esistenza, fino al suo matrimonio, e fino alla donna che per lui significava più di chiunque al mondo.
Più di qualsiasi altra cosa o persona, si rese conto. Più del suo lavoro. Era lei che avrebbe scelto, e nel rendersene conto la cosa gli sembrò strana. Non era tanto il fatto della scelta che lo turbava, quanto l'idea che lui e Marsha fossero stati separati l'uno dall'altra, allontanati da ciò che era successo.
«Sì,» disse a McFeyffe. «Sono proprio a terra.»
«Puoi trovarti un altro lavoro. Con l'esperienza che hai...»
«Mia moglie,» lo interruppe Hamilton. «Sto parlando di lei. Pensi che abbia qualche possibilità di fartela pagare? Mi piacerebbe.» Ma proprio mentre pronunciava quelle parole, si sentì infantile. «Tu sei malato,» aggiunse, continuando ugualmente a parlare, un po' perché voleva dirle, quelle parole, e un po' perché non aveva altri argomenti. «Tu distruggi persone innocenti. Illusioni paranoiche...»
«Piantala,» disse McFeyffe, a denti stretti. «Ce l'hai avuta la tua occasione, Jack. Per anni e anni. Fin troppi.»
Mentre Hamilton stava rimuginando una replica, riapparve Marsha. «Stanno facendo entrare un gruppo di normali visitatori. I pezzi grossi hanno già finito la loro visita.»
Adesso aveva l'aria un po' meno sconvolta. «Quell'affare... quel nuovo deflettore, credo che sia già in funzione.»
Riluttante, Hamilton si scostò dal massiccio poliziotto. «Allora andiamo.»
McFeyffe lo seguì. «Penso che sia interessante,» disse, senza rivolgersi a nessuno in particolare.
«Già,» commentò Hamilton, distrattamente, rendendosi conto che stava tremando.
Respirò profondamente ed entrò nell'ascensore dopo Marsha, girandosi automaticamente per mettersi di fronte alla porta. McFeyffe fece lo stesso. Mentre l'ascensore saliva, Hamilton si ritrovò davanti il grosso collo sudato di McFeyffe. Anche lui era sconvolto.
Al secondo piano furono accolti da un giovane negro con una larga banda sul braccio, che stava organizzando un gruppo di visitatori. I tre si unirono al gruppo, mentre alle loro spalle molti altri attendevano pazientemente il proprio turno. Erano le quattro meno dieci; il Sistema di Deflessione Wilcox-Jones erano già stato messo a fuoco e attivato.
«Siamo arrivati,» stava dicendo la giovane guida di colore in tono piatto ma sicuro, mentre li accompagnava dall'atrio alla piattaforma di osservazione. «Dovremo muoverci in fretta in modo da dare anche agli altri la possibilità di vedere. Come sapete, il bevatrone di Belmont è stato costruito dalla Commissione per l'Energia Atomica per lo studio avanzato dei raggi cosmici indotti artificialmente in condizioni controllate. L'elemento centrale del bevatrone è un enorme magnete il cui campo accelera il raggio protonico e lo ionizza con intensità crescente. I protoni caricati positivamente vengono introdotti nella camera lineare dal tubo di accelerazione Cockcroft-Walton.»
A seconda dei casi, i visitatori sorridevano in modo distratto oppure lo ignoravano. Un anziano signore alto e magro se ne stava a braccia conserte dritto come un palo, rivelando un distaccato disprezzo per la scienza in generale. Un militare, notò Hamilton; sopra la giacca di cotone esibiva una mostrina di metallo brunito. Che vada al diavolo, pensò Hamilton, acido. Al diavolo il patriottismo sotto qualsiasi forma, quella specifica e quella generica. Tutti uguali, piedipiatti e militari. Anti-intellettuali e anti-negri. Anti-tutto, tranne birra, cani, automobili e armi.
«Si può avere del materiale informativo?» stava chiedendo con voce sommessa ma penetrante una florida signora di mezza età, che indossava un abito dall'aria piuttosto costosa. «Ci piacerebbe qualcosa da leggere e da portare a casa, la prego. A scopo di studio.»
«Quanti volts ci sono là dentro?» chiese con voce squillante il figlio della signora. «Più di un miliardo?»
«La sollecitazione di elettronvolt ricevuta dai protoni,» rispose pazientemente il negro,
«prima di essere deflessi dalla loro orbita e spinti fuori dalla camera circolare è di oltre sei miliardi. Ogni volta che il fascio compie un giro, la sua carica e la sua velocità si intensificano.»
«Qual è questa velocità?» domandò una donna snella sulla trentina, dall'aria professionale, vestita di un semplice completo di stoffa ruvida. Gli occhiali le conferivano un'aria severa.
«Di poco inferiore a quella della luce.»
«Quanti giri compiono attorno alla camera?»
«Quattro milioni,» rispose la guida. «La loro distanza astronomica è di trecentomila miglia, e viene coperta in 1,85 secondi.»
«Incredibile,» gorgogliò la signora ben vestita con voce languida, un po' intimorita.
«Quando i protoni lasciano l'acceleratore lineare,» continuò la guida, «hanno un'energia di dieci milioni di volts o, come diciamo noi, di dieci Mev. Il problema successivo è quello di convogliarli in un'orbita circolare nella stessa identica posizione e con lo stessa identica angolazione, in modo che possano essere attratti dal campo magnetico.»
«E il magnete non è in grado di farlo?» domandò il ragazzo.
«No, temo di no. Per questo viene usato un inflettore. I protoni con carica molto alta possono facilmente abbandonare la loro traiettoria e mettersi a vagare in tutte le direzioni.
Occorre un complesso sistema di modulazione di frequenza per impedirgli di seguire un tracciato a spirale crescente. Poi, quando il fascio ha raggiunto la carica richiesta, rimane sempre il problema fondamentale di spingerlo fuori dalla camera circolare.»
La guida indicò verso il basso, oltre la ringhiera, il magnete che si trovava sotto di loro.
Largo e imponente, ricordava alla lontana una grossa ciambella, ed emetteva un debole ronzio.
«La camera di accelerazione si trova all'interno del magnete. È larga centoventi metri.
Ho paura che da qui non possiate vederla.»
«Chissà,» disse il militare dai capelli bianchi con voce ispirata, «se i costruttori di questo spettacoloso congegno si sono mai resi conto che un qualsiasi uragano scatenato da Dio sulla Terra supera di gran lunga tutta la potenza creata dall'uomo, in questa e in tutte le altre macchine messe insieme.»
«Sono certa che se ne sono resi conto benissimo,» replicò la donna dall'aria severa in tono malizioso. «Anzi, forse sarebbero capaci di dirle con precisione quale sia la potenza di un uragano.»
Il veterano le rivolse un'occhiata fredda e dignitosa. «Lei è uno scienziato, signora?» le chiese soavemente.
La guida aveva fatto accomodare sulla piattaforma gran parte dei visitatori. «Dopo di voi,» disse McFeyffe ad Hamilton, facendosi di lato. Marsha avanzò meccanicamente, subito seguita da suo marito. McFeyffe finse blandamente di leggere i pannelli informativi che tappezzavano le pareti dietro la piattaforma, e rimase in fondo alla fila.
Hamilton prese la moglie per mano, gliela strinse e le sussurrò all'orecchio, «Pensi che rinuncerei a te? Non viviamo nella Germania nazista.»
«Non ancora,» replicò Marsha, avvilita. Era ancora pallida e infelice: si era tolta quasi tutto il trucco, e le sue labbra erano sottili, esangui. «Tesoro, quando penso che quella gente ti ha fatto andare fin lì per metterti a confronto con me e con le cose che faccio, come se fossi una specie di... come se fossi una prostituta o qualcosa del genere, o magari una che se la fa con i cavalli, insomma, mi viene voglia di ucciderli. E Charley...
credevo che fosse amico nostro. Credevo di poter contare su di lui. Quante volte è venuto a cena da noi?»
«Però non viviamo nemmeno in Arabia,» ribatté Hamilton. «Il fatto che gli abbiamo dato da mangiare non fa di lui un nostro fratello di sangue.»
«Se la può scordare la torta meringata al limone che gli piace tanto. Lui e le sue giarrettiere arancioni. Promettimi che non userai mai più le giarrettiere.»
«Solo calze elastiche e nient'altro.» La avvicinò a sé e le disse, «Buttiamo quel bastardo nel magnete.»
«Pensi che sarebbe in grado di digerirlo?» Marsha fece un debole sorriso.
«Probabilmente lo risputerebbe fuori. Troppo indigesto.»
Alle loro spalle avanzavano lentamente la grassa signora con suo figlio. McFeyffe era ancora più indietro, con le mani infilate in tasca e la faccia bovina sopraffatta dall'avvilimento.
«Non sembra molto felice,» osservò Marsha. «In un certo senso mi dispiace per lui. Non è colpa sua.»
«E allora di chi è la colpa?» In tono vacuo, come se raccontasse una barzelletta, aggiunse, «dei mostri del capitalismo succhiasangue di Wall Street?»
«Che strano modo di porre la questione,» disse Marsha, preoccupata. «Non ti ho mai sentito usare parole simili.» All'improvviso si strinse a lui. «Tu non credi davvero che...»
Non finì la frase, e si ritrasse di scatto. «Sì, tu lo credi. Tu pensi che può essere vero.»
«Che forse può essere vero che cosa? Che eri iscritta al Partito Progressista? Ti accompagnavo sempre io alle riunioni con la Chevy coupé, ti ricordi? Sono dieci anni che lo so.»
«No, non quello. Non ciò che ho fatto. Ciò che significa... ciò che loro dicono che significa. Lo pensi anche tu, vero?»
«Be',» replicò lui, a disagio, «non hai una trasmittente a onde corte, in cantina. O
almeno, io non l'ho vista.»
«Hai cercato bene?» La voce di Marsha era gelida e accusatoria. «Forse ce l'ho, non esserne così sicuro. Forse sono qui per sabotare il bevatrone, o come accidenti si chiama.»
«Abbassa la voce,» le disse Hamilton in tono di rimprovero.
«Non darmi ordini.» Furiosa, frustrata, la donna si scostò da lui e andò a urtare il militare magro e austero.
«Stia attenta, giovane signora,» la apostrofò quest'ultimo, allontanandola prontamente dalla ringhiera. «Non vorrà cadere di sotto.»
«Il problema principale nella costruzione di questo impianto,» stava dicendo la guida,
«è stato quello di progettare l'unità di deflessione necessaria per convogliare il fascio protonico fuori dalla camera circolare e per dirigerlo esattamente sul bersaglio. Sono stati impiegati diversi sistemi. In origine l'oscillatore veniva escluso nel momento critico, consentendo ai protoni di procedere a spirale verso l'esterno, ma si è rivelato un metodo di deflessione troppo inaffidabile.»
«È vero,» domandò bruscamente Hamilton, «che una volta nel vecchio ciclotrone di Berkeley un fascio se ne è andato per conto suo?»
La guida lo scrutò con interesse. «È quello che dicono, sì.»
«Ho sentito dire che ha attraversato un ufficio bruciando ogni cosa. Mi hanno detto che i segni delle bruciature sono ancora lì, e che di notte, quando le luci sono spente, si vede ancora la radiazione.»
«Pare che aleggi sotto forma di una nuvola azzurrina,» convenne la guida. «Lei è un fisico, signore?»
«Un tecnico elettronico,» rispose Hamilton. «Sono interessato al deflettore; conosco molto bene Leo Wilcox.»
«Questo è il grande giorno di Leo,» osservò la guida. «Hanno appena messo in funzione la sua unità, là sotto.» «Qual è?» chiese Hamilton.
La guida fece un cenno verso il basso, indicando un complesso meccanismo che si trovava su un lato del magnete. Una serie di piastre schermate sosteneva un grosso condotto color grigio scuro, sul quale era montata una intricata sequenza di tubi pieni di liquido. «Ecco l'opera del suo amico, signore. Dev'essere qui attorno da qualche parte, a controllare.»
«Che impressione ne avete avuto?»
«È ancora presto per dirlo.»
Alle spalle di Hamilton, Marsha si era ritirata in fondo alla piattaforma. Lui la raggiunse.
«Cerca di comportarti da persona adulta,» le disse in un sussurro risentito, appena udibile. «Finché siamo qui, voglio vedere tutto quello che succede.»
«Tu e la tua scienza. Cavi e tubi... tutta questa roba, per te, è più importante della mia vita.»
«Sono venuto qui per vederlo e ho intenzione di farlo. Non mandare tutto all'aria con una scenata.»
«Sei tu che stai facendo una scenata.»
«Non ti sembra di avere già combinato abbastanza guai?» Le voltò le spalle, contrariato, si fece strada oltrepassando la giovane professionista dall'aria competente, lo stesso McFeyffe, e giunse alla rampa che dalla piattaforma portava all'atrio. Stava frugandosi in tasca in cerca delle sigarette quando il primo minaccioso squillo della sirena di allarme coprì con il suo suono stridulo il sommesso ronzio del magnete.
«Indietro!» urlò la guida, sollevando e ondeggiando le braccia scure e magre. «Lo schermo antiradiazioni...»
Un ruggito furioso e lacerante travolse la piattaforma. Nuvole di particelle incandescenti avvamparono, esplosero, e piovvero addosso ai visitatori terrorizzati. Mentre un disgustoso odore di bruciato si spargeva nell'aria, tutti cominciarono a muoversi sgomitando freneticamente verso il retro della piattaforma.
Si formò una fessura. Un montante metallico, colpito in pieno dall'intensa radiazione, si fuse, si piegò e infine cedette. La matrona di mezza età aprì la bocca ed emise un urlo lacerante. McFeyffe tentò freneticamente di allontanarsi dalla piattaforma ormai corrosa e dalla vampa accecante della radiazione che sfrigolava dappertutto. Andò a sbattere addosso ad Hamilton; quest'ultimo spinse di lato il poliziotto in preda al panico e lo oltrepassò tentando disperatamente di raggiungere Marsha.
I suoi abiti presero fuoco. Attorno a lui la gente, avvolta dalle fiamme, si dibatteva freneticamente, mentre la piattaforma, pian piano, si piegava in avanti; per un attimo rimase in bilico, poi si dissolse del tutto.
Il sistema automatico di allarme risuonava in ogni parte dell'edificio. Grida di terrore, umane e meccaniche, si mescolarono in una cacofonia assordante. Sotto i piedi di Hamilton il pavimento cedette quasi con solennità. Cessando di essere compatti, acciaio e cemento, plastica e cavi si trasformarono in particelle impazzite. D'istinto sollevò le mani dinanzi a sé, e si ritrovò a precipitare a faccia avanti verso il macchinario che si distingueva appena giù in basso. L'aria gli uscì dai polmoni in un sibilo bruciante; l'intonaco gli piovve addosso, frammenti di cenere bruciacchiata che scintillava e scottava.
Poi, dopo qualche attimo, si schiantò sul reticolato metallico aggrovigliato che costituiva la protezione del magnete. Il rumore stridulo del materiale che si lacerava e la furiosa presenza della radiazione che fuoriusciva sopra di lui...
Urtò con violenza. Il dolore si fece visibile: un lingotto luminoso che diventava sempre più morbido, più elastico, come una maglia metallica radioattiva. Ondeggiava, si espandeva, e pian piano lo assorbì. Lui era, nella sua agonia, un puntolino di umida materia organica che veniva silenziosamente intriso da una infinita lastra di densa fibra metallica.
Poi anche quello cessò. Consapevole delle grottesche condizioni del suo corpo martoriato, giacque in un mucchietto inerte, tentando inutilmente, automaticamente, di alzarsi in piedi. E rendendosi conto nello stesso tempo che nessuno di loro si sarebbe rialzato in piedi. Per un bel po'.
Nell'oscurità qualcosa si muoveva.
Per un lungo periodo Hamilton rimase in ascolto. Gli occhi chiusi, il corpo molle, rinunciò a ogni movimento e divenne, per quanto possibile, un unico grande orecchio. Il rumore era un tap tap ritmico, come se nell'oscurità ci fosse qualcosa che si muoveva a tastoni.
Per un tempo interminabile, come fosse appunto un grande orecchio, prese in considerazione quel rumore, e poi, come fosse un grande cervello, si rese conto stupidamente che era solo una veneziana che sbatteva contro una finestra, e che lui si trovava in un reparto d'ospedale.
Adesso era un occhio normalissimo, nervo ottico e cervello umano, e percepì la sagoma indistinta di sua moglie, che ondeggiava avanti e indietro a un metro o due dal letto. Si sentì invadere da una sensazione di gratitudine. Marsha non era stata incenerita dalla radiazione dura, grazie a Dio. Il suo cervello fu travolto da una muta preghiera di ringraziamento; si rilassò, cercando di godere la gioia di quel fatto.
«Sta riprendendo i sensi,» affermò la voce profonda, autoritaria di un medico.
«Credo di sì,» aggiunse Marsha. La sua voce sembrava provenire da grande distanza.
«Quando potremo saperlo con certezza?»
«Sto bene,» riuscì a farfugliare Hamilton.
Subito la sagoma indistinta avanzò verso il letto e si chinò verso di lui. «Tesoro,» gli disse con voce soffocata, abbracciandolo e stringendolo appassionatamente. «Non è rimasto ucciso nessuno... stanno tutti bene. Anche tu.»
Simile a una grande luna, lo irradiava di una passione quasi estatica. «McFeyffe si è slogato una caviglia, ma guarirà. Pare che il ragazzo abbia subito una commozione cerebrale.»
«E tu come stai?» le chiese Hamilton con voce fiacca.
«Sto bene anch'io.» Si girò su se stessa, perché lui potesse vederla tutta. Al posto del solito abitino elegante indossava una semplice vestaglia bianca da ospedale. «La radiazione mi ha bruciacchiato quasi tutti i vestiti... mi hanno dato questa.» Imbarazzata, si passò la mano sui capelli bruni. «E guarda come sono corti. Ho dovuto tagliare tutti quelli bruciati. Ma ricresceranno.»
«Posso alzarmi?» chiese Hamilton, cercando di mettersi seduto. Fu colto da un violento attacco di vertigini e si ritrovò quasi sdraiato di nuovo, ansimando per riprendere fiato.
Frammenti di oscurità danzavano e vorticavano attorno a lui: chiuse gli occhi e aspettò, preoccupato, che passasse.
«Per un po' sarà ancora debole,» lo informò il dottore. «Conseguenza dello shock, e della perdita di sangue.» Toccò il braccio di Hamilton. «Si è procurato un brutto taglio, su un pezzo di lamiera metallica, ma abbiamo ricucito tutto.»
«Chi è che sta peggio?» domandò Hamilton, sempre con gli occhi chiusi.
«Arthur Silvester, il vecchio militare. Non ha mai perso del tutto conoscenza, ma sarebbe stato meglio se fosse avvenuto. Pare che si sia fratturato la spina dorsale. È in chirurgia.»
«Troppo fragile, immagino,» commentò Hamilton, osservandosi il braccio. Era avvolto in un grosso bendaggio di plastica bianca.
«Io me la sono cavata meglio di tutti,» disse Marsha, con voce esitante. «Ma io sono stata colpita a freddo. Voglio dire, la radiazione mi ha colpito a freddo. Sono caduta proprio al centro del fascio principale: ho visto solo tanti scintille e una luce accecante.
Naturalmente l'hanno disattivato subito. In realtà l'esposizione è durata meno di una frazione di secondo.» Poi aggiunse, con un velo di tristezza, «ma mi è sembrato un milione di anni.»
Il medico, un giovane dall'aria piuttosto pratica, scostò le coperte e gli prese la pressione del polso. Una massiccia infermiera apparve dal fondo del letto e gli sistemò rapidamente un'attrezzatura sotto il gomito. Tutto sembrava sotto controllo.
Sembrava... ma c'era qualcosa che non andava. Hamilton ne era convinto. Dentro di lui c'era la netta, sgradevole sensazione che qualcosa di importante fosse fuori posto.
«Marsha,» disse all'improvviso, «lo senti anche tu?»
Titubante, Marsha gli si avvicinò. «Sentire che cosa, tesoro?»
«Non lo so, ma c'è.»
Dopo un attimo di indecisione, Marsha si rivolse al dottore. «Le avevo detto che c'era qualcosa. Gliene ho parlato, appena ho ripreso i sensi, non è vero?»
«Chiunque si risvegli dopo uno shock prova un senso di irrealtà,» le spiegò il dottore. «È
una sensazione normalissima. Dopo un giorno o due dovrebbe sparire. Ricordatevi che siete stati entrambi sottoposti a una terapia a base di sedativi. E avete passato dei momenti terribili; quel macchinario aveva una carica incredibile.»
Hamilton e sua moglie tacquero e si scambiarono un'occhiata, cercando ciascuno di leggere l'espressione sul volto dell'altro.
«Siamo stati fortunati,» commentò Hamilton, tanto per dire qualcosa. La sua preghiera di gioia aveva ceduto il posto a una incertezza angosciosa. Che cos'era? Non si trattava di una consapevolezza razionale, e lui non era in grado di definirla. Si guardò intorno, ma nella stanza non vide nulla di strano, nulla che fosse fuori posto.
«Molto fortunati,» confermò l'infermiera, con un senso di orgoglio nella voce, come se fosse stato merito suo.
«Per quanto tempo dovremo restare qui?»
Il medico riflette. «Potreste tornare a casa anche stasera, credo. Ma sarebbe meglio che rimaneste a letto per un paio di giorni. Avete bisogno di molto riposo, almeno per tutta la settimana prossima. Vi consiglierei di prendere un'infermiera diplomata.»
«Non possiamo permettercela,» osservò Hamilton, pensieroso.
«Non dovrete pagarla voi, naturalmente.» Il dottore sembrava quasi offeso. «Ci penserà il Governo Federale. Se fossi in lei, passerei il tempo pensando a rimettermi in piedi al più presto.»
«Forse preferisco così,» replicò Hamilton, cocciuto. Non si dilungò oltre; preferì abbandonarsi per un po' a cupe riflessioni sulla sua situazione.
Incidente o no, per lui non era cambiato nulla. A meno che, mentre lui era svenuto, il colonnello T. E. Edwards non fosse morto per un infarto. Cosa che non sembrava probabile.
Dopo essere riuscito a convincere il medico e l'infermiera a lasciarli soli, Hamilton si rivolse a sua moglie. «Bene, adesso abbiamo una scusa. Qualcosa da dire ai vicini per spiegare come mai non vado a lavorare.»
Avvilita, Marsha annuì. «Me ne era dimenticata.»
«Dovrò trovarmi un lavoro che non abbia a che fare con materiale riservato, che non riguardi la sicurezza nazionale.» Poi aggiunse, di malumore, «come disse Einstein nel 1954, posso fare l'idraulico, o riparare televisioni. Mi si addice di più»
«Ricordi che cosa hai sempre voluto fare?» Appollaiai sul bordo del letto, Marsha si tormentava i capelli cortissimi e spettinati. «Volevi progettare nuovi circuiti per registratori a nastro. E per radio a modulazione di frequenza. Volevi diventare qualcuno nel campo dell'alta fedeltà, come Bogen e Thorens e Scott.»
«È vero,» annuì, cercando di sembrare il più convinto possibile. «Il mio sistema sonoro Trinaural. Ti ricordi quella volta che ne abbiamo parlato per tutta la sera? Tre audiocassette con musica registrata, amplificatori e altoparlanti, il tutto montato in tre stanze separate. Un uomo in ogni stanza, che ascolta un singolo impianto di registrazione, ciascuno dei quali trasmette una composizione diversa.»
«Uno suona il concerto doppio di Brahms,» aggiunse Marsha, con un entusiasmo non troppo convinto. «Me lo ricordo.»
«Un altro suona le Nozze di Stravinskij, e il terzo musica per liuto di Dowland. Poi i cervelli dei tre uomini vengono rimossi e collegati fra loro per mezzo del sistema sonoro Trinaural, l'Ortocircuito Musifonico Hamilton. Le sensazioni dei tre cervelli vengono assemblate secondo una relazione matematica molto precisa, basata sulla costante di Planck.» Il braccio aveva cominciato a pulsargli. Concluse, con voce roca, «La combinazione risultante viene registrata su nastro e trasmessa a una velocità di 3:14
rispetto a quella originale.»
«E viene ascoltata con un'apparecchiatura di cristallo.» Marsha si piegò di scatto verso di lui e lo abbracciò. «Tesoro, quando sono venuta qui, sembravi morto. Davvero, sembravi proprio un cadavere, pallido, silenzioso e immobile. Ho avuto paura che mi si spezzasse il cuore.»
«Sono assicurato,» disse lui, serio. «Saresti diventata ricca.»
«Io non voglio essere ricca.» Dondolandosi avanti e indietro, sempre abbracciata a lui, Marsha gli parlò con un filo di voce, e con un velo di tristezza. «Guarda quello che ti ho fatto. Solo perché sono annoiata e curiosa, e mi diverto a frequentare degli estremisti politici, tu hai perso il tuo lavoro e il tuo futuro. Vorrei tanto prendermi a calci. Con un marito che lavora in un'industria di missili teleguidati, dovevo capirlo da sola che non era il caso di firmare quella petizione della Pace di Stoccolma. Ma ogni volta che qualcuno mi sottopone iniziative come questa, io ci casco sempre. Sai, le minoranze oppresse, e roba del genere.»
«Non pensarci più,» tagliò corto lui. «Se tutto questo fosse successo nel 1943, tu saresti una persona normalissima, e McFeyffe sarebbe disoccupato. Lo avrebbero preso per un fascista pericoloso.»
«Ma lui lo è,» disse Marsha, scaldandosi. «È un fascista pericoloso.»
Hamilton la scostò da sé. «McFeyffe è un fanatico nazionalista, e un reazionario. Ma non è un fascista. A meno che tu non creda che chiunque sia...»
«Non ne parliamo più,» lo interruppe Marsha. «Non devi agitarti, va bene?» Lo baciò sulla bocca con febbrile trasporto. «Aspetta di essere a casa.»
Mentre lei stava per alzarsi, Hamilton la afferrò per la spalla. «Ma che succede? Che cosa c'è che non va?»
Come stordita, la donna scosse la testa. «Non lo so. Non riesco a immaginarlo. Da quando ho ripreso i sensi, è come se ci fosse sempre qualcosa dietro di me. Lo sento.
Come se...» Gesticolò. «Ho paura di voltarmi e di vedere... non so nemmeno io che cosa.
Qualcosa che si nasconde. Qualcosa di orribile.» Fu scossa da un brivido di paura. «Sono terrorizzata.»
«Anch'io.»
«Magari lo scopriremo,» disse Marsha debolmente! «Magari non è niente... solo lo shock e l'effetto dei sedativi, come ha detto il dottore.»
Hamilton non ne era convinto. E nemmeno lei.
Furono riaccompagnati a casa da un medico, insieme alla giovane professionista dall'aria severa. Anche lei indossava una vestaglia dell'ospedale. Sedevano tutti e tre sul sedile posteriore, tranquilli, mentre il pulmino Packard percorreva le strade buie di Belmont.
«Pare che abbia un paio di costole incrinate,» spiegò la donna con voce incolore. Poi aggiunse subito, «Mi chiamo Joan Reiss. Vi ho già visti tutti e due... siete venuti nel mio negozio.»
«Che negozio è?» domandò Hamilton, dopo aver rapidamente presentato se stesso e sua moglie.
«Il negozio di libri e oggetti d'arte a EI Camino. Lo scorso agosto avete acquistato una stampa di Chagall curata da Skira.»
«È vero,» confermò Marsha. «Era il compleanno di Jack... lo abbiamo appeso al muro.
In basso, nella sala d'ascolto.»
«In cantina,» precisò Hamilton.
«C'è una cosa,» disse all'improvviso Marsha, stringendo convulsamente la borsetta.
«Hai fatto caso al dottore?»
«Fatto caso?» ripetè Hamilton, perplesso. «No, non particolarmente.»
«Voglio dire che... che era una specie di... insomma, come se fosse finto. Come quei dottori che si vedono sulla pubblicità del dentifricio.»
Joan Reiss ascoltava attentamente. «Ma di che state parlando?»
«Di niente,» tagliò corto Hamilton. «È una conversazione privata.»
«E l'infermiera. La stessa cosa. Costruita, come tutte le infermiere che si trovano negli ospedali.»
Hamilton rifletté, mentre guardava fuori dal finestrino, nel buio della sera. «È la conseguenza delle comunicazioni di massa,» azzardò. «La gente si modella sulla pubblicità. Non è così, signorina Reiss?»
«C'è una cosa che vorrei chiederle,» replicò la donna. «Ho notato qualcosa che mi ha fatto pensare.»
«Che cosa?» le domandò Hamilton, in tono guardingo; non era possibile che la signorina Reiss sapesse di che cosa stavano parlando.
«Il poliziotto sulla piattaforma... poco prima che cedesse. Perché si trovava lì?»
«È venuto con noi,» rispose contrariato Hamilton.
La signorina Reiss lo squadrò. «Davvero? Io credevo che forse... » Lasciò la frase a metà. «Ho avuto l'impressione che si sia voltato per allontanarsi appena prima del crollo.»
«Infatti,» convenne Hamilton. «Voleva andarsene. E anch'io, ma poi mi sono lanciato dall'altra parte.»
«Lei intende dire che è tornato volutamente indietro? Quando avrebbe potuto salvarsi?»
«L'ho fatto per mia moglie,» disse Hamilton, stizzito.
La signorina Reiss annuì, apparentemente soddisfatta. «Mi dispiace... tutto lo shock e la tensione. Siamo stati fortunati. Alcuni non lo sono stati. Non è strano? Qualcuno se l'è cavata quasi senza conseguenze, e invece quel povero militare, il signor Silvester, si è rotto la spina dorsale. È una cosa che fa riflettere.»
«Volevo parlarvene,» intervenne il medico che era alla guida della macchina. «Il signor Silvester non si è fratturato la colonna vertebrale. Pare che si tratti semplicemente di una vertebra incrinata e di lesioni alla milza.» I
«Grande,» borbottò Hamilton. «E la guida? Nessuno ne ha parlato.»
«Qualche lesione interna,» rispose il medico. «Ma ancora non è stata stilata una diagnosi.»
«L'hanno messo in attesa nella dispensa?» domandò Marsha.
Il dottore si mise a ridere. «Vuole dire Bill Laws? È stato il primo a essere ricoverato; ha degli amici fra i medici.»
«E un'altra cosa,» aggiunse subito Marsha. «Considerando l'altezza da cui siamo caduti e tutte le radiazioni che ci hanno colpito... nessuno di noi si è fatto veramente male.
Prendiamo noi tre, per esempio: ce ne stiamo tornando a casa come se non fosse successo niente. È irreale. È stato tutto troppo facile.»
Esasperato, Hamilton disse, «Magari siamo caduti proprio addosso a un gruppo di congegni di sicurezza. Ma perdio. ..»
Voleva aggiungere altro, ma le parole gli morirono in bocca. In quel preciso momento un dolore acuto, lancinante, gli trafisse la gamba destra. Sussultò, emettendo un urlo, e andò a sbattere la testa contro il tettuccio della macchina. Quasi in preda a una sorta di frenesia, si arrotolò i pantaloni fino al ginocchio, appena in tempo per vedere una piccola creatura alata che tentava di volare via.
«Che ti succede?» gli domandò Marsha, preoccupata, poi la vide anche lei. «Un'ape!»
Furioso, Hamilton riuscì a schiacciare l'insetto sotto la scarpa. «Mi ha punto, proprio sul polpaccio.» Si stava già formando una brutta chiazza rossa e rigonfia. «Non bastavano tutti i guai che ho passato?»
Il medico aveva già accostato la macchina sul lato della strada. «L'ha uccisa? Quelle maledette si infilano nelle macchine al parcheggio. Mi dispiace... si sente bene? Ho con me una pomata da spalmare sulla puntura.»
«Sopravviverò,» brontolò Hamilton, massaggiandosi energicamente la pelle. «Un'ape.
Come se non avessimo già avuto già abbastanza problemi, oggi.»
«Saremo a casa fra poco,» disse dolcemente Marsha, guardando fuori dal finestrino.
«Signorina Reiss, venga da noi a bere qualcosa.»
«Be',» disse la donna, ambiguamente, mentre si tormentava un labbro con il dito lungo e ossuto. «Credo che gradirei una tazza di caffè, se ne avete.»
«Ma certo,» replicò subito Marsha. «Dovremmo aiutarci l'un l'altro, noi otto. La nostra è stata un'esperienza così sconvolgente.»
«Speriamo che sia finita qui,» disse la signorina Reiss, a disagio.
«Amen,» commentò Hamilton. Pochi secondi dopo la macchina si accostò al marciapiede e si fermò. Erano tornati a casa.
«Avete una casetta deliziosa,» osservò la signorina Reiss mentre scendevano dalla macchina. Nel crepuscolo la moderna casa in stile fattoria californiana sembrava essere in serena attesa che i tre risalissero il vialetto fino al portico anteriore. E accovacciato sul portico c'era un grosso gatto giallo, con le zampe raccolte sotto il corpo.
«È il gatto di Jack,» spiegò Marsha, frugando nella borsetta in cerca della chiave.
«Aspetta che gli diamo da mangiare.» Poi, rivolta al gatto, «Vieni dentro, Tontolone. Qui non ti darà da mangiare nessuno.»
«Che strano nome,» osservò la signorina Reiss, disgustata. «Perché lo chiamate così?»
«Perché è stupido,» rispose seccamente Hamilton.
«Jack trova sempre nomi strani per i suoi gatti,» aggiunse Marsha. «L'ultimo che abbiamo avuto si chiamava Parnaso.»
Il grosso gatto dall'aria un po' malmessa si era alzato piedi e stava venendo loro incontro sul vialetto. Si accostò ad Hamilton e si strofinò rumorosamente contro la sua gamba. La signorina Reiss si ritrasse, stavolta con un disgusto evidente. «Non sono mai riuscita ad abituarmi ai gatti, confessò. «Sono così viscidi e subdoli.»
In un'altra occasione Hamilton le avrebbe fatto notare che quello era un luogo comune, ma in quel momento noi gli interessavano particolarmente le opinioni della signorina Reiss in fatto di gatti. Infilò la chiave nella serratura, api la porta e accese le luci del soggiorno.
Il piccolo ma accogliente appartamento tornò in vita, e le due donne entrarono. Tontolone le seguì all'istante e si diresse verso la cucina, con la coda arruffata dritta come un grosso scovolo giallo.
Sempre con addosso la sua vestaglia da ospedale, Marsha aprì il frigorifero e ne tirò fuori una grossa ciotola di plastica verde con dei pezzi di cuore di bue bollito. Mente faceva a pezzetti la carne e li lasciava cadere verso il gatto, Marsha osservò, «Molti geni dell'elettronica hanno degli animali domestici meccanici... tipo quelle falene fototropiche e cose simili, che girano e vanno a sbattere da tutte le parti. Quando eravamo sposati da poco Jack ne costruì uno che catturava i topi e le mosche. Però non andava bene; infatti ne dovette costruire un altro che catturasse lui.»
«Giustizia cosmica,» commentò Hamilton, togliendosi cappello e cappotto. «Non volevo che popolassero il mondo.»
Mentre Tontolone divorava avidamente la sua cena, Marsha andò in camera da letto a cambiarsi. La signorina Reiss si mise a gironzolare per la stanza, esaminando con aria competente i vasi, le stampe e gli arredi.
«I gatti non hanno anima,» disse Hamilton in tono compiaciuto, mentre osservava il suo gatto che si ingozzava. «Anche il gatto più nobile sarebbe disposto a tenere in equilibrio una carota sulla testa in cambio di un boccone di fegato di maiale.»
«Sono animali,» commentò la signorina Reiss dal soggiorno. «Questa stampa di Paul Klee l'ha acquistata da noi?»
«Può darsi.»
«Io non sono mai riuscita a definire che cosa volesse dire Klee.»
«Magari non voleva dire niente. Forse si voleva solo divertire.» Il braccio aveva ricominciato a dolergli; si domandò che aspetto avesse sotto il bendaggio. «Ha detto che gradisce del caffè?»
«Sì, caffè... e forte,» rispose la donna. «Vuole che l'aiuti a prepararlo?»
«No no, si metta pure comoda.» Meccanicamente Hamilton allungò la mano verso la caffettiera. «Nel carrello delle riviste, accanto al divano, c'è l'edizione economica della History di Toynbee.»
«Caro,» lo chiamò Marsha dalla camera da letto, con una nota di urgenza nella voce.
«Puoi venire qui?»
Lui andò, tenendo in mano la caffettiera, e agitandola mentre camminava. Marsha era in piedi vicino alla finestra, pronta ad abbassare la tapparella. Guardava fuori, nel buio della notte, e la fronte era corrugata per la preoccupazione. «Che succede?» le chiese Hamilton.
«Dai un'occhiata fuori.»
Lui guardò, ma tutto ciò che vide fu solo l'oscurità, e il profilo indistinto delle case. Qua e là c'erano poche luci che brillavano debolmente. Il cielo era coperto, un basso soffitto di nebbia che scivolava silenziosamente sulle cime tetti. Niente si muoveva. Non c'era vita, né attività. Non vedeva nessuno.
«È come stare nel Medio Evo,» disse Marsha a bassa voce.
Perché un'immagine del genere? Anche lui vedeva ciò che c'era, ma si trattava oggettivamente di una scena comunissima, il consueto panorama dalla camera da letto alle nove e mezzo di una fredda sera di ottobre.
«Ne parlavamo prima, in macchina,» aggiunse Marsha scossa da un brivido. «Tu hai detto qualcosa a proposito dell'anima dei gatti. Non avevi mai parlato così, prima. »
«Prima di che cosa?»
«Prima di tornare qui.» Si allontanò dalla finestra e prese una camicetta pulita che era appesa sulla spalliera di una sedia. «E... lo so che ti sembrerà sciocco, ma tu hai visto veramente la macchina del dottore che si allontanava? Lo hai salutato? È successo qualcosa?»
«Be', se ne è andato,» precisò Hamilton in tono vago.
Seria in volto, Marsha si abbottonò la camicetta e poi la infilò nei pantaloni. «Forse sto dando i numeri. Lo shock, i sedativi... ma è tutto così immobile. Come se fossimo le uniche persone vive. Chiuse in una prigione grigia, senza luci né colori, una specie di... di luogo primordiale. Ti ricordi le antiche religioni? Prima che il cosmo si trasformasse in caos, prima che la terra fosse separata dall'acqua, e l'oscurità dalla luce. Quando le cose non avevano nome.»
«Tontolone ce l'ha il suo nome,» le fece notare dolcemente Hamilton. «Tu ce l'hai, e così la signorina Reiss,e anche Paul Klee.»
Ritornarono insieme in cucina. Marsha si occupò di preparare il caffè, e dopo pochi minuti la caffettiera bolliva furiosamente. La signorina Reiss era seduta tutta impettita al tavolo della cucina, e aveva un'espressione tirata, quasi stravolta; i suoi lineamenti severi, esangui, esprimevano una grande concentrazione, come se lei fosse agitata da chissà quali tumulti interiori. Era una donna giovane, dal viso anonimo ma volitivo, e i capelli scialbi color sabbia raccolti in uno stretto chignon dietro la testa. Aveva il naso piccolo e aguzzo, e le labbra serrate riducevano la sua bocca a una linea dura e sottile. Aveva l'aria di una persona con la quale era meglio non scherzare.
«Di che stavate parlando, voi due?» chiese mentre girava il caffè.
Contrariato, Hamilton rispose, «Di cose personali, perché?»
«Su, caro,» lo riprese Marsha.
Hamilton affrontò la signorina Reiss a brutto muso. «Ma lei fa sempre così? Mette il naso dappertutto, si impiccia delle cose degli altri?»
Il volto teso della donna non rivelò alcuna emozione visibile. «Devo essere prudente,»
spiegò. «L'incidente di oggi mi ha reso particolarmente consapevole dei pericoli che corro.» Poi si corresse, e aggiunse, «Il cosiddetto incidente, anzi.»
«Perché lei in particolare?» le chiese Hamilton, incuriosito.
La donna non rispose; stava guardando Tontolone. Il grosso gatto malandato aveva finito di mangiare, e adesso era in cerca di un posto dove mettersi a dormire. «Che gli prende?» domandò la signorina Reiss, con voce esile, spaventata. «Perché mi guarda?»
«Lei sta seduta,» disse Marsha in tono conciliante. «Il gatto vuole solo saltarle in grembo e farsi una dormita.»
La signorina Reiss sobbalzò e se la prese col gatto. «Non avvicinarti! Tieni il tuo lurido corpo lontano da me!» Poi, rivolta ad Hamilton, gli confidò, «Se non avessero le pulci forse non me la prenderei tanto. E questo, poi, ha un aspetto davvero poco invitante.
Immagino che farà fuori un bel po' di uccellini.»
«Sei o sette al giorno,» rispose Hamilton, sentendo che stava perdendo la pazienza.
«Già,» disse la signorina Reiss, ritraendosi cautamente dal gatto, che la fissava perplesso. «Si vede subito che ha un istinto omicida. Dovrebbero emanare delle leggi molto severe. Sono bestie pericolose, animali aggressivi, e costituiscono una minaccia per tutti; come minimo bisognerebbe chiedere il permesso per tenerli. E poi le autorità dovrebbero...»
«Non solo uccelli,» la interruppe Hamilton, che si sentiva invadere da un freddo, perverso sadismo. «Anche serpenti e talpe. E stamattina si è presentato con un coniglio morto.»
«Tesoro,» intervenne Marsha, secca, mentre la signorina Reiss era scossa da un tremito di genuina paura. «A certa gente non piacciono i gatti. Non puoi pretendere che tutti la pensino come te.»
«E anche piccoli topi pelosi,» insistette brutalmente Hamilton. «A dozzine. Alcuni li mangia, altri li porta a noi. E una mattina aveva in bocca la testa di una vecchia.»
La signorina Reiss emise un urlo stridulo di tenore. Presa dal panico, arretrò, patetica e indifesa. Hamilton si pentì immediatamente di ciò che aveva detto. Vergognandosi di se stesso, aprì la bocca per scusarsi, per fare ammenda del suo umorismo frainteso...
Dall'alto piovve uno sciame di locuste. Travolto da una massa brulicante di animali vermiformi, Hamilton lottò freneticamente per liberarsi. Le due donne e il gatto rimasero a guardare senza riuscire a credere ai loro occhi, incapaci di muoversi. Per un bel po' lui si dimenò e scalciò per non soccombere a quell'orda di insetti che strisciavano, mordevano e pungevano, poi si ritrasse e riuscì a cacciarli via; esausto e ansimante, rimase in un angolo a riprendere fiato.
«Santo Dio,» mormorò Marsha, sconvolta, allontanandosi anche lei dalla massa di insetti che frinivano e saltellavano dappertutto.
«Che... che diavolo è stato?» riuscì a dire con fatica la signorina Reiss, gli occhi fissi sul mucchio di animali formicolanti. « È impossibile.»
«Be',» disse Hamilton con voce tremante, «invece è successo.»
«Ma come?» fece eco Marsha, mentre tutti lasciavano la cucina, e quella valanga straripante di ali e corpi chitinosi. «Cose del genere non possono succedere.»
«Però quadra,» aggiunse Hamilton, sempre con un filo di voce. «L'ape... ti ricordi?
Avevamo ragione; è successo qualcosa. E tutto quadra. Tutto ha senso.»
Stese sul pavimento della camera del bevatrone c'erano otto persone, nessuna delle quali del tutto cosciente. Attorno a loro una massa frammentata di macerie fumanti, le strutture contorte e carbonizzate di metallo e cemento che erano state la piattaforma di osservazione, il confuso groviglio di materiale dal quale poco prima avevano guardato verso il basso.
Gli infermieri scesero come lumache guardinghe giù per le scale fino al fondo della camera. Ci avrebbero messo poco a raggiungere gli otto corpi, prima ancora che l'energia del magnete fosse stata tolta e il sibilante fascio protonico fosse stato ridotto al silenzio.
Rigirandosi in continuazione nel letto, Hamilton osservava la scena immutabile, esaminandola in continuazione sotto ogni aspetto e in ogni particolare. Quando era sul punto di svegliarsi la scena si offuscava, quando faticosamente tornava ad addormentarsi riacquistava consistenza, e diventava chiara e ben delineata.
Al suo fianco, Marsha si agitava nel sonno, sospirando. Nella città di Belmont otto persone si rigiravano nel letto, alternandosi fra sonno e veglia, e continuavano a rivedere il profilo sempre uguale del bevatrone, e quei corpi martoriati stesi a terra.
Nel tentativo di conoscere la scena in tutti in particolari, Hamilton studiò ogni corpo palmo a palmo.
Per primo, e con maggiore interesse, vide il suo stesso corpo. Era caduto dopo tutti gli altri, colpendo il pavimento di cemento con una violenza devastante: giaceva in una posa dolorosamente scomposta, le braccia larghe, una gamba innaturalmente piegata sotto il corpo. A parte un respiro appena accennato, era del tutto immobile. Dio, se solo ci fosse stato un modo per raggiungerlo... se solo avesse potuto gridargli qualcosa, ridestarlo, urlare con tale forza da sottrarlo al buio dell'incoscienza. Ma non poteva.
Poco lontano c'era la sagoma corpulenta di McFeyffe. Il volto massiccio dell'uomo tradiva un'espressione di infuriato stupore; una mano era ancora protesa nell'inutile tentativo di aggrapparsi a una ringhiera che non c'era più. Lungo la guancia gli colava un rivolo di sangue. McFeyffe era ferito, questo era indubbio. Respirava pesantemente, e in modo irregolare: il petto si alzava e si abbassava dolorosamente sotto la giacca.
Accanto a McFeyffe c'era la signorina Joan Reiss, semisepolta sotto un mucchio di macerie; anche lei respirava a fatica, mentre le braccia e le gambe si agitavano nel gesto riflesso di allontanare da sé i frammenti di plastica e intonaco. Gli occhiali si erano rotti, e gli abiti erano ridotti a brandelli, e un brutto taglio si stava gonfiando sulla fronte.
Marsha, sua moglie, era poco lontana da lui. Vedendo il suo corpo immobile, Hamilton non riuscì a trattenere un moto di tristezza. Come gli altri non poteva essere sollevata.
Svenuta, giaceva con un braccio sotto il corpo, le ginocchia rannicchiate in una posizione quasi fetale, la testa girata da un lato, i capelli bruciacchiati sparsi sul collo e sulle spalle.
Respirava appena, ma per il resto era anche lei del tutto immobile. Gli abiti bruciavano ancora; lentamente, inesorabilmente, una linea di scintille avanzava verso il suo corpo.
Sopra di lei c'era uno strato di fumo acre che le nascondeva in parte le gambe e i piedi.
Nel cadere aveva perso una delle sue scarpe con i tacchi alti, che adesso si trovava a circa un metro di distanza da lei, dimenticata.
La signora Pritchet era un cumulo corpulento di carne pulsante, grottesca nel suo vistoso vestito a fiori ora del tutto bruciato. Il suo incredibile cappellino era stato maciullato dai detriti che le erano caduti addosso. La borsetta, strappata dalle sue mani, era accanto a lei, spalancata, e il suo contenuto si era sparpagliato tutt'intorno. David Pritchet era quasi nascosto dalle macerie. Ogni tanto gemeva, ogni tanto si muoveva. La testa era schiacciata da una sezione di metallo ritorto che gli impediva di sollevarsi. Era verso di lui che la squadra di medici e infermieri si stava dirigendo a passo di lumaca. Ma che accidenti gli era preso, a quelli? Hamilton ebbe voglia di gridare, di urlare con tutto il fiato che aveva in corpo. Ma perché se prendevano così comoda? Erano passate quattro notti... Ma non lì. In quel mondo, nel mondo reale, erano trascorsi solo pochi, terribili secondi.
La guida negra, Bill Laws, agonizzava in mezzo agli schermi di protezione tutti sventrati.
Il suo corpo allampanato era scosso da un fremito continuo; con gli occhi aperti e sbarrati fissava senza vederlo un mucchio fumante di materia organica: era la sagoma asciutta e macilenta di Arthur Silvester. Il vecchio aveva perso i sensi... lo shock e il dolore per la frattura alla spina dorsale gli avevano tolto anche l'ultima scintilla di personalità. Fra tutti e otto era quello ridotto peggio.
Eccoli tutti lì, quegli otto corpi ustionati e orribilmente martoriati. Uno spettacolo sconfortante. Ma Hamilton, continuando a girarsi e rigirarsi nel suo comodo letto, accanto alla sua snella e avvenente moglie, avrebbe dato qualsiasi cosa per trovarsi di nuovo lì, per tornare al bevatrone e risvegliare la sua controparte inanimata... e in tal modo liberare la sua mente da quel cammino obbligato al quale non riusciva più a sottrarsi.
* * *
In tutti i possibili universi, ogni lunedì era sempre uguale all'altro. Alle otto e trenta del mattino Hamilton era seduto sul treno dei pendolari della Southern Pacific, con il San Francisco Chronicle spiegato sulle ginocchia, diretto verso la costa, alla Electronic Development Agency. Ammesso, naturalmente, che esistesse ancora. Cosa che lui, a quel punto, non poteva affermare con sicurezza.
Intorno a lui molti impiegati dai colletti bianchi che fumavano, leggevano i fumetti o discutevano di sport. Rincantucciato nel suo sedile, Hamilton li osservò di malumore. Si rendevano conto che erano soltanto creazioni distorte del mondo fantastico di qualcun altro? Apparentemente no. Affrontavano tranquillamente l'abituale tran tran del lunedì mattina, inconsapevoli che ogni aspetto della loro esistenza era manipolato da una presenza invisibile.
Non era difficile provare a dare un nome a quella presenza. Con ogni probabilità sette degli otto membri del gruppo lo avevano già fatto, ormai. A colazione Marsha gli aveva detto, con grande solennità, «La signora Pritchet. Ci ho pensato tutta la notte. Ne sono sicura.»
«Come fai a esserne sicura?» le aveva chiesto lui, acido.
«Perché,» aveva risposto sua moglie, con assoluta convinzione, «lei è l'unica che sia disposta a credere a una cosa del genere.» Fece scorrere la mano sul suo corpo piatto. «È
esattamente il genere di insensato bigottismo vittoriano che mi aspetterei da una persona così.»
Se c'era ancora qualche dubbio nella sua testa, era subito svanito alla prima occhiata dal treno, appena partito da Belmont. Di fronte a una piccola costruzione rurale c'era un cavallo attaccato a un carretto con dei rottami metallici. Quel cavallo indossava dei pantaloni.
«San Francisco sud,» blaterò il conduttore apparendo in fondo alla vettura ondeggiante.
Hamilton si infilò in tasca il giornale e si unì ai pochi passeggeri che si dirigevano verso l'uscita. Poco dopo camminava mestamente verso gli scintillanti palazzi bianchi dell'EDA.
Almeno quella esisteva ancora... era già un inizio incoraggiante. Incrociò le dita, e pregò ardentemente che il suo lavoro facesse parte di quel mondo.
Il dottor Guy Tillingford lo accolse nel suo ufficio. «Pimpante e mattiniero, vedo,» gli disse raggiante, stringendogli la mano. «Proprio un ottimo inizio.»
Notevolmente rilassato, Hamilton cominciò a togliersi il soprabito. L'EDA esisteva, e lui aveva ancora un lavoro. Tillingford, in quel mondo distorto, lo aveva assunto; almeno questo non era cambiato. Un altro problema cancellato dal suo taccuino mentale delle cose di cui preoccuparsi.
«È stato molto gentile da parte sua concedermi un giorno libero,» disse Hamilton cautamente, mentre Tillingford lo accompagnava lungo il corridoio verso i laboratori. «L'ho apprezzato davvero.»
«Com'è andata?» gli chiese Tillingford.
Un passo falso. Nel mondo di Silvester Tillingford gli aveva consigliato di andare a trovare il profeta del Secondo Bab, e non era affatto probabile che quello esistesse ancora... anzi, era proprio da escludere. Perciò scelse di tenersi sul vago. «Non male, tutto sommato. Naturalmente, non ci sono abituato, ma insomma...»
«Hai avuto qualche problema a trovare il posto?»
«Nessuno.» Sudando, Hamilton si domandò che cosa potesse aver fatto, in quel mondo.
«È stato...» cominciò. «È stato un bel gesto, il suo. Proprio il primo giorno...»
«Non pensarci. Dimmi solo una cosa.» Giunto davanti a una porta, Tillingford si fermò un attimo. «Chi ha vinto?»
«V-vinto?»
«L'hai vinto tu, il premio?» Tillingford sorrise e gli batté calorosamente la mano sulla spalla. «Accidenti, ci avrei scommesso. Ti si legge in faccia.»
Il corpulento direttore del personale venne loro incontro lungo il corridoio, con una grossa borsa sotto il braccio. «Come andiamo?» domandò con una risatina ironica. Anche lui diede una pacca amichevole ad Hamilton. «Ha portato qualcosa da farci vedere? Un attestato, magari?»
«Fa il misterioso,» gli confidò Tillingford. «Ernie, mettiamo una notiziola sul bollettino della ditta; non pensi che al personale farebbe piacere saperlo?»
«Lei ha proprio ragione,» convenne il direttore del personale. «Prenderò un appunto.»
Poi, rivolto ad Hamilton, «come ha detto che si chiama il suo gatto?»
«Che cosa?» replicò lui, balbettando.
«Ne stavamo parlando venerdì, non si ricorda? Accidenti a me, me ne sono dimenticato.
Voglio segnarmi bene come si scrive per pubblicarlo sul bollettino.»
In quell'universo Hamilton aveva avuto un giorno libero, il suo primo giorno di lavoro, per portare Tontolone a un concorso felino. Dentro di sé gemette. In qualche modo il mondo della signora Pritchet si stava rivelando più impegnativo di quello di Silvester.
Dopo aver raccolto ogni possibile informazione, il direttore del personale si allontanò di corsa, lasciando Hamilton e il suo capo l'uno di fronte all'altro. Era giunto il momento, e non poteva tirarsi indietro.
«Dottore,» disse cupo Hamilton, facendosi coraggio, «devo confessarle una cosa.
Venerdì ero così eccitato per avere trovato un lavoro che...» Fece un sorriso supplichevole. «Ecco, in tutta franchezza, io non ricordo un bel niente di quello che ci siamo detti. Ho dei ricordi vaghissimi.»
«Ti capisco, figliolo,» disse Tillingford in tono suadente, rivolgendogli un'occhiata paterna. «Non ti preoccupare... non mancherà occasione di scendere nei dettagli. Io mi auguro che tu rimanga qui a lungo.»
«Per dirla tutta,» si buttò Hamilton, «io non mi ricordo nemmeno qual è il mio lavoro.
Non è buffo?»
Scoppiarono tutti e due in una grossa risata.
«È proprio divertente, ragazzo mio,» convenne alla fine Tillingford, asciugandosi le lacrime per il troppo ridere. «Credevo di averle sentite tutte, ma...»
«Non potrebbe...» disse Hamilton, cercando di dare un tono casuale e disinteressato alla domanda. «Solo qualche indicazione, prima che se ne vada.»
«Be',» fece Tillingford. Aveva perso un po' del suo buonumore; adesso la sua espressione era pomposa e solenne, e il suo sguardo serio e pensieroso, quasi assente, come se vedesse al di là del fatto contingente per concentrarsi sul quadro d'insieme.
«Penso che non faccia mai male dare una ripassata ai concetti essenziali. Io dico sempre che è importante tornare ai postulati di base, di tanto in tanto. Quindi non è in ogni caso una perdita di tempo.»
«D'accordo,» convenne Hamilton, pregando fra sé e sé che, di qualsiasi cosa si trattasse, lui fosse in grado di adattarvisi. Chissà che concetto poteva avere Edith Pritchet della funzione di un gigante nel campo della ricerca elettronica.
«L'EDA,» cominciò Tillingford, «come ti renderai conto benissimo, è un elemento fondamentale nel tessuto sociale della nazione, e ha un compito di grande importanza da eseguire. E lo sta eseguendo.»
«Non lo metto in dubbio,» disse Hamilton.
«Quello che facciamo, qui all'EDA, è ben più che un lavoro. Ben più, oserei dire, che una semplice iniziativa economica. L'EDA non è stata costituita con l'idea di guadagnare denaro.»
«Capisco,» annuì Hamilton.
«Sarebbe meschino e riduttivo vantarsi che l’EDA è un successo dal punto di vista finanziario. In effetti lo è, ma non è quello che conta. Il nostro compito qui, un compito importante e gratificante, oltrepassa ogni concetto di profitto e di guadagno. E questo è particolarmente vero nel tuo caso. Tu che sei giovane e che cominci adesso, pieno di zelo e di entusiasmo, hai le stesse motivazioni che sospinsero me, tanto tempo fa. Io ormai sono vecchio, ho fatto la mia parte. Un giorno, forse fra non troppo tempo, passerò la mano, e affiderò questo fardello a spalle più giovani e robuste delle mie.»
Il dottor Tillingford prese Hamilton per un braccio e lo introdusse con orgoglio nel vasto labirinto dei laboratori di ricerca dell'EDA.
«Il nostro scopo,» salmodiò con voce ispirata, «è quello di utilizzare le immense risorse e i grandi talenti dell'industria elettronica per sollevare il livello culturale delle masse.
Perché l'arte sia alla portata di tutto il genere umano.» Hamilton fece un brusco sobbalzo.
«Dottor Tillingford,» disse, alzando la voce, «mi guardi dritto negli occhi e me lo ripeta.»
Sbalordito, Tillingford rimase lì aprendo e richiudendo la bocca senza sapere bene cosa dire. «Ma Jack...», farfugliò. «Che cosa...?»
«Ma come fa a raccontarmi tutte queste sciocchezze? Lei è un uomo colto e intelligente, un esperto di statistica, una delle menti più brillanti del paese.» Agitando freneticamente le mani, Hamilton investì il povero vecchio con veemenza, lasciandolo attonito. «Ma non ha una testa per ragionare? Per l'amor di Dio... cerchi di ricordarsi chi è. Non si lasci sopraffare da questa storia!»
Tillingford indietreggiò, sbigottito, e unì timidamente le mani. «Jack, ragazzo mio, che ti succede?»
Hamilton fu scosso da un brivido. Era inutile, stava solo perdendo tempo. All'improvviso fu sopraffatto dalla voglia di una grossa risata. La situazione era assurda oltre ogni dire, tanto valeva che si tenesse per sé la sua rabbia. Il povero Tillingford non aveva nessuna colpa... non valeva la pena di prendersela con lui più di quanto valesse la pena di prendersela con quel cavallo in pantaloni.
«Mi scusi,» disse stancamente Hamilton. «Sono fuori di me.»
«Santo Dio,» esclamò il dottor Tillingford, boccheggiando. «Ti dispiace se mi siedo un attimo? Ho qualche problema al cuore... niente di grave, uno strano disturbo che si chiama tachicardia parossistica. Qualche volta accelera un po' troppo i battiti del cuore.
Scusami.» Si infilò in un ufficio lì accanto, sbattendo la porta dietro di sé; il rumore di bottigliette di farmaci aperte in tutta fretta e di pillole ingurgitate al volo giunse fin nel corridoio.
Probabilmente aveva perso il suo nuovo lavoro. Hamilton si accasciò indolente su una panca e cercò le sigarette. Proprio un bell'inizio, il suo... non avrebbe potuto fare di peggio.
Lentamente, con prudenza, la porta dell'ufficio si riaprì. Il dottor Tillingford, con uno sguardo impaurito negli occhi sgranati, fece capolino con aria esitante. «Jack,» disse.
«Sì?» farfugliò Hamilton senza alzare lo sguardo.
«Jack,» ripetè Tillingford con voce dubbiosa, «tu vuoi portare la cultura alle masse, non è vero?»
Hamilton sospirò. «Ma certo, dottore.» Si alzò in piedi e guardò in faccia il vecchio.
«Non chiedo altro. È la cosa più grande che sia mai stata inventata.»
Tillingford fu travolto dal sollievo. «Grazie al cielo.»
Avendo riacquistato un po' di fiducia, si avviò lungo il corridoio. «Pensi di essere abbastanza in forma per cominciare a lavorare? Io... ecco... non vorrei che fossi troppo sotto pressione...»
Un mondo creato e abitato da tante Edith Pritchet. Adesso Hamilton ne aveva un'immagine chiara: dolcezza, disponibilità, zucchero a profusione. Fare, pensare e credere nient'altro che il bello e il buono.
«Non mi licenzia?» chiese Hamilton.
«Licenziarti?» Tillingford strabuzzò gli occhi. «E perché mai?»
«Sono stato molto villano con lei.»
Tillingford ridacchiò debolmente. «Non pensarci più. Figliolo, tuo padre è stato uno dei miei migliori amici. Un giorno o l'altro ti racconterò le furiose litigate che ci siamo fatti. Tu sei tale e quale a lui, eh, Jack?» Lo prese delicatamente per la spalla e lo accompagnò dentro i laboratori. C'erano tecnici dappertutto e un'imponente attrezzatura: un'immagine dinamica e vibrante di un istituto di ricerca elettronica in piena attività.
«Dottore,» disse Hamilton, senza troppa convinzione, «posso farle una domanda? Così, tanto per curiosità?»
«Ma certo, ragazzo mio. Di che si tratta?»
«Lei ha mai sentito nominare qualcuno che si chiama Tetragrammaton ?»
Il dottor Tillingford lo fissò stupito. «E chi è questo... Tetragrammaton? No, credo proprio di no. Non che io ricordi, almeno.»
«Grazie,» disse Hamilton, infelice. «Volevo solo esserne sicuro. Non pensavo che lei lo conoscesse.»
Il dottor Tillingford prese da un tavolo da lavoro la copia del Journal of Applied Sciences del novembre 1959. «Qui c'è un articolo che è circolato molto nel nostro ambiente. Può interessarti, anche se è un po' datato, ormai. È un'analisi degli scritti di uno degli uomini più importanti lei nostro secolo. Sigmund Freud.»
«Bene,» disse Hamilton con voce atona. Era preparato a tutto.
«Come tu ben sai, Sigmund Freud sviluppò il concetto psicanalitico di sesso come sublimazione della tendenza artistica. Ha mostrato come la pulsione basilare dell'uomo verso la creatività artistica, se privata di validi mezzi espressivi, viene trasformata e modificata nella sua forma surrogata: l'attività sessuale.»
«Davvero?» disse Hamilton, rassegnato.
«Freud ha dimostrato che nell'individuo sano e disinibito non esiste pulsione sessuale, e nessuna curiosità o interesse per la sessualità. Contrariamente al pensiero tradizionale, il sesso è una preoccupazione del tutto artificiale. Quando a un uomo o a una donna si offre l'occasione di una decorosa, normale attività artistica, come la pittura, la scrittura o la musica, la cosiddetta pulsione sessuale viene meno. L'attività sessuale è la forma nascosta, dissimulata, dietro la quale opera il talento artistico quando la società meccanicistica sottopone l'individuo a una inibizione innaturale.»
«Certo,» disse Hamilton. «Me l'hanno insegnato al liceo. Qualcosa di simile.»
«Per fortuna,» continuò Tillingford, «l'iniziale resistenza alla fondamentale scoperta di Freud è stata sconfitta. Naturalmente ha incontrato un'opposizione feroce, ma ormai, grazie al cielo, è quasi del tutto sconfitta. Al giorno d'oggi è difficile trovare una persona colta che parli di sesso e di sessualità. Io uso il termine nel suo stretto significato clinico per definire una condizione clinica anormale.»
Speranzoso, Hamilton domandò, «Lei afferma che fra le classi inferiori c'è ancora qualche residuo del modo di pensare tradizionale?»
«Be',» ammise Tillingford, «ci vorrà del tempo per completare l'opera.» Si era illuminato, e aveva recuperato tutto il suo entusiasmo. «E questo è il tuo compito, figliolo.
È questa la funzione dell'artigianato elettronico.»
«Artigianato,» ripeté meccanicamente Hamilton.
«Non proprio una forma d'arte, temo. Ma nemmeno del tutto lontana. Il nostro compito, ragazzo mio, è quello di proseguire la ricerca per il mezzo di comunicazione definitivo, il congegno che non lascerà neanche una pietra rivoltata, e che metterà tutti gli esseri umani di fronte al loro retaggio artistico e culturale. Mi segui?»
«Come no,» rispose Hamilton. «Sono anni che possiedo un impianto ad alta fedeltà.»
«Alta fedeltà?» Tillingford sembrò compiaciuto. «Non sapevo che ti piacesse la musica.»
«Mi piace ascoltarla.»
Tillingford lo ignorò. «Allora,» proseguì, infiammato, «dovrai far parte dell'orchestra sinfonica della compagnia. Sfideremo quella del colonnello T. E. Edwards alla fine di dicembre. Per Giove, avrai l'occasione di esibirti contro la tua vecchia ditta. Che strumento suoni?»
«L'ukulele.»
«Sei un principiante, eh? E tua moglie?»
«La ribèca.6»
Perplesso, Tillingford lasciò cadere il discorso. «Be', ne parleremo un'altra volta.
Immagino che tu non veda l'ora di cominciare a lavorare.»
Alle cinque e mezza del pomeriggio, Hamilton poté finalmente lasciar perdere gli schemi e riporre gli strumenti del suo lavoro di artigiano. Si unì a tutti gli altri dipendenti che sciamavano dai vari edifici e lasciò senza rimpianti il laboratorio, imboccando il vialetto ghiaioso fiancheggiato da alberi che portava verso la strada.
Stava guardandosi attorno in cerca della stazione ferroviaria quando una macchina blu dall'aria familiare accostò al marciapiede e si fermò dolcemente accanto a lui. Dietro il volante della Ford coupé di Hamilton c'era Silky.
«Mi venisse un accidente,» disse lui... o forse pensò di dirlo, perché in effetti disse qualcosa di peggio. «E tu che ci fai qui? Stavo proprio per venirti a cercare.»
6 Strumento musicale a tre corde, simile a una piccola viola, usato nel medioevo. Hamilton si sta prendendo evidentemente gioco di Tillingford, che nemmeno se ne rende conto (N.d.T.).
Sorridendo, Silky aprì lo sportello dal lato del passeggero. «Ho letto il tuo nome e l'indirizzo sul bollo della macchina.» Indicò il foglietto bianco accanto al volante. «Allora mi hai detto la verità. Che significa quella W?»
«Willibald.»
«Sei proprio impossibile.»
Mentre saliva a bordo senza troppo entusiasmo, Hamilton osservò, «Però lì non c'è scritto dove lavoro.»
«No,» ammise Silky. «Ho chiamato tua moglie e lei mi ha detto dove avrei potuto trovarti.»
Mentre Hamilton la guardava sbalordito, la ragazza ingranò la marcia e avviò la vettura.
«Non ti dispiace se guido io, vero?» gli domandò, un po' imbarazzata. «È che... questa macchina mi piace molto. È così piccola, e pulita, e così facile da guidare.»
«Guida pure,» le disse Hamilton, che ancora non si era del tutto ripreso. «Tu... hai telefonato a Marsha?»
«Abbiamo fatto una lunga chiacchierata, da vecchie amiche,» lo informò Silky, placida.
«Di che avete parlato?»
«Di te.»
«Di me? E che cosa vi siete dette?»
«Niente di particolare. Quello che fai, quello che ti piace... insomma, le solite cose. Lo sai come parlano le donne.»
Costretto a un silenzio impotente, Hamilton guardò distrattamente mentre attraversavano El Camino, seguendo il flusso incessante di macchine che si dirigevano a sud, verso i diversi sobborghi residenziali di San Francisco. Accanto a lui Silky guidava spensierata, sprizzando serenità dal volto piccolo e angoloso. In quel mondo incontaminato Silky aveva subito una trasformazione radicale: aveva i capelli biondi raccolti in due lunghe trecce gialle che le penzolavano sul collo e indossava una camicetta bianca col colletto alla marinara e una gonna molto castigata color azzurro scuro. Ai piedi aveva dei semplici mocassini disadorni. Somigliava in tutto e per tutto a una ingenua scolaretta, Nien- i te più trucco, ed era svanita anche quell'espressione civettuola e maliziosa. Il suo corpo, come quello di Marsha, non rivelava la minima forma.
«Come stai?» le chiese Hamilton, senza reale interesse.
«Non c'è male.»
«Ti ricordi,» le chiese allora, cauto, «quando ci siamo visti l'ultima volta? Ti ricordi quello che è successo?»
«Ma certo.» rispose Silky senza esitazione. «Noi due e Charley McFeyffe siamo andati in macchina a San Francisco.»
«A fare che?»
«Il signor McFeyffe voleva che tu visitassi la sua chiesa.»
«E l'ho fatto?»
«Credo di sì. Siete scomparsi dentro tutti e due.»
«E poi?»
«Non ne ho idea. Mi sono addormentata nella macchina.»
«Non... non hai visto niente?»
«Che avrei dovuto vedere?»
Non gli avrebbe creduto se le avesse risposto, «Due uomini adulti che salivano in cielo attaccati a un ombrello,» perciò non lo disse. Invece le chiese, «Dove stiamo andando?
Torniamo a Belmont?»
«Ma certo. Dove altro potremmo andare?»
«A casa mia?» Adattarsi a quel mondo sarebbe stato un processo piuttosto lungo. «Tu e io e Marsha...»
«La cena è pronta,» lo interruppe Silky. «O comunque lo sarà quando arriveremo.
Marsha mi ha telefonato dove lavoro, mi ha detto quello che le serviva al supermercato e io ho fatto la spesa.»
«Ti ha telefonato dove lavori?» Incuriosito, Hamilton le domandò, «Che... ehm, che genere di lavoro fai?»
Silky lo guardò senza capire. «Jack, sei proprio un tipo strano.»
«Oh.»
Preoccupata, Silky continuò a fissarlo finché un rumore smorzato di freni non la costrinse a rivolgere lo sguardo sulla strada.
«Suona il clacson,» le suggerì Hamilton. Un grosso camion sulla destra stava cambiando carreggiata.
«Che cosa?» fece Silky.
Seccato, Hamilton allungò la mano e premette il clacson. Non successe niente: non venne fuori nessun suono.
«Perché l'hai fatto?» gli domandò incuriosita Silky, rallentando per fare strada al camion.
Hamilton tornò a immergersi nei suoi pensieri e registrò un'altra informazione nel suo archivio di saggezza. In quel mondo la categoria dei clacson era stata abolita. Su quella strada, a quell'ora, con tutti i pendolari che tornavano a casa, c'era sempre qualcuno che suonava. Adesso non più.
Nel suo sforzo di ripulire i mali del mondo, Edith Pritchet aveva sradicato non dei semplici oggetti, ma intere categorie di oggetti. Probabilmente, in qualche luogo e in qualche tempo ormai lontani, era stata disturbata dallo strombazzare di un camion.
Adesso, nella accogliente versione fantastica di quel mondo, cose del genere non esistevano più. Anzi, non esistevano, e basta.
La sua lista di contrarietà era certamente considerevole. E ancora non sapeva che cos'altro includeva. Gli venne in mente la canzone di Koko nel Mikado: Ma davvero non importa chi sia il primo della lista,
poi non mancherà nessuno, poi non mancherà nessuno!
Non era un pensiero incoraggiante. Qualsiasi cosa, oggetto o evento che nel corso dei cinquanta e passa anni di vita della signora Pritchet avesse smosso appena la superficie ovattata della sua placida e vacua serenità, veniva rimosso delicatamente e cancellato.
Hamilton poteva anche fare qualche congettura. I netturbini che svuotavano rumorosamente i bidoni della spazzatura, i venditori porta a porta, le fatture e le cartelle delle tasse di ogni tipo, i bambini che piangono (o magari tutti i bambini), l'ubriachezza, la sporcizia, la povertà. La sofferenza in generale.
C'era da chiedersi che cosa potesse essere rimasto.
«Che ti prende?» gli chiese premurosa Silky. «Non ti senti bene?»
«È lo smog,» le rispose. «Mi da sempre un po' fastidio.»
«Che cos'è lo smog?» gli domandò la ragazza. «Che strana parola.»
Per un po' di tempo nessuno dei due parlò. Hamilton se ne restò seduto tentando inutilmente di aggrapparsi alla propria parte razionale.
«Hai voglia di fermarti da qualche parte lungo la strada?» gli chiese lei a un certo punto, sempre piena di attenzioni. «Magari a bere un bicchiere di limonata?»
«Chiudi il becco!» sbottò Hamilton.
Silky gli rivolse un'occhiata muta e intimorita, sbattendo gli occhioni.
«Scusami.» Fuori di sé, Hamilton si inventò la prima scusa che gli venne in mente. «Sai, ho cominciato oggi un nuovo lavoro... è stata una giornataccia.»
«Lo immagino.»
«Davvero?» Non riuscì a nascondere una sfumatura di gelido cinismo. «A proposito...
non mi hai ancora detto che lavoro fai.»
«Sempre lo stesso.»
«E cioè?»
«Lavoro sempre al Rifugio.»
Hamilton provò un senso di sollievo. Qualcosa almeno era rimasto. Esisteva ancora un bar che qualcuno chiamava Rifugio. Era un piccolo frammento di realtà al quale lui poteva ancora aggrapparsi. «Andiamoci,» le disse, ansioso. «Facciamoci una birra prima di tornare a casa.»
Quando giunsero a Belmont, Silky parcheggiò lungo la | strada dall'altra parte del bar.
Hamilton si soffermò a guardarlo. Da lontano non sembrava particolarmente cambiato.
Era un po' più pulito, forse, più tirato a lucido; il tocco marinaresco era stato intensificato, mentre i riferimenti alle bevande alcoliche sembravano un po' meno evidenti. In effetti lesse con qualche fatica l'insegna Golden Glow. Le lettere rosse luminose apparivano quasi mescolate fra loro, a formare una macchia indistinta. Se lui non avesse saputo da prima quello che c'era scritto...
«Jack,» gli disse Silky con voce esile, turbata. «Vorrei che tu mi dicessi che cos'è.»
«Che cos'è che?»
«Io... non saprei dirlo.» Gli rivolse un sorriso esitante. «Mi sento così strana. Come se avessi tanti ricordi confusi che mi turbinano nella testa; niente che possa dirti con precisione, solo un mucchio di sensazioni vaghe.»
«A proposito di che?»
«Di te e di me.»
«Oh,» Hamilton annuì. «È così. E McFeyffe?»
«C'è anche lui. E Bill Laws. Sembra un ricordo di tanto tempo fa. Ma non è possibile, non ti pare? Ci conosciamo da così poco.» Si premette con forza le mani affusolate sulle tempie; Hamilton notò oziosamente che non aveva le unghie laccate. «È tutto così maledettamente confuso.»
«Vorrei poterti aiutare.» Lo disse sul serio. «Ma anch'io ho avuto dei problemi, negli ultimi giorni.»
«Va tutto bene? Ho la sensazione che se entro, attraverserò il pavimento. Sai... come se, facendo un passo, dovessi sprofondare.» Scoppiò in una risata nervosa. «È ora che mi trovi un altro analista.»
«Un altro? Vuoi dire che adesso sei in cura da uno?»
«Ma certo.» Si voltò e lo guardò ansiosamente. «Voglio dire... tu mi parli così e questo mi mette in imbarazzo. Non dovresti dirmi cose come quelle, Jack, non è giusto. Fa... fa molto male.»
«Mi dispiace,» si scusò lui, a disagio. «Non è colpa tua, è inutile che continui a tormentarti.»
«Colpa mia? E di che?»
«Su, adesso.» Hamilton spinse lo sportello e scese sul marciapiede. «Andiamo al bar a berci la nostra birra.»
Il Rifugio aveva subito una metamorfosi interna. Tavolini quadrati ricoperti da tovaglie di cotone immacolate e fresche di ferro da stiro erano ordinatamente sistemati a intervalli regolari. Una candela accesa gocciolava su ogni tavolo. Alle pareti erano appese una serie di stampe di Currier e di Ives. Alcune coppie di mezza età consumavano tranquillamente dell'insalata mista.
«Dietro è più carino,» disse Silky, facendogli strada in mezzo ai tavoli. Ben presto si misero a sedere in una specie di retrobottega in penombra, con il menù aperto davanti a loro.
La birra, quando arrivò, si rivelò la migliore che lui avesse mai bevuto. Esaminando il menù, Hamilton si rese conto che era una McCoy autentica, genuina birra tedesca del tipo che lui raramente riusciva a procurarsi. Per la prima volta dal momento del suo ingresso in quel mondo, ritrovò un po' di ottimismo, e addirittura un po' di allegria.
«Alla salute,» disse a Silky, sollevando il boccale.
Sorridendo, Silky lo imitò. «È bello ritrovarsi qui,» gli disse mentre sorseggiava la birra.
«Sì, è bello.»
Giocherellando con il bicchiere, Silky disse, «Sapresti consigliarmi un buon analista? Io ne ho provati a bizzeffe... ogni volta provo con quello che viene dopo nell'elenco, sempre in cerca del migliore. Ognuno ha un analista di fiducia.»
«Io no,» disse Hamilton.
«Davvero? Che strano.» Osservò oltre le sue spalle le stampe di Currier e di Ives appese dietro il tavolino. Rappresentavano una scena invernale del New England nel 1845.
«Credo che andrò alla AMIM e mi rivolgerò a uno dei loro consulenti. In genere riescono ad aiutarmi.»
«Che cos'è la AMIM?»
«L'Associazione Mobile di Igiene Mentale. Tu non sei iscritto? Lo sono tutti.»
«Io sono un tipo un po' asociale.»
Silky estrasse una tessera dalla borsetta e gliela mostrò. «Ti risolvono tutti i problemi mentali. È magnifico... puoi fare analisi a qualsiasi ora del giorno e della notte.»
«Ti prescrivono anche le medicine?»
«Vuoi dire quelle per i disturbi psicosomatici?»
«Immagino di sì.»
«Sì, pensano anche a quello. E c'è anche un servizio dietetico attivo ventiquattro ore al giorno.»
Hamilton gemette. «Era meglio Tetragrammaton.»
«Tetragrammaton?» Silky fu colta da un attimo di sbandamento. «Ho già sentito quel nome? Che significa? Ho la vaga sensazione di...» Poi scosse la testa tristemente. «No, proprio non mi torna alla mente.»
«Parlami di questo servizio dietetico.»
«Ecco, si prendono cura di quello che mangi.»
«Questo lo avevo capito.»
«Una corretta alimentazione è molto importante. Adesso, per esempio, io seguo una dieta a base di melassa e formaggio fresco fermentato.»
«Io preferisco una bella bistecca di manzo,» disse Hamilton, convinto.
Silky lo guardò con un'espressione inorridita. «Una bistecca? Carne di animale?»
«Ci puoi scommettere. E anche bella grossa. Affogata nelle cipolle, con un bel contorno di patate arrosto, piselli verdi e caffè nero bollente.»
L'orrore si tramutò in repulsione. «Oh, Jack!»
«Ma cosa c'è che non va?»
«Tu sei un... un selvaggio.»
Hamilton si piegò sul tavolo verso la ragazza. «Che ne diresti di andarcene da qui?
Andiamo a parcheggiare in qualche vicoletto buio e ci facciamo una bella scopata.»
Il volto della ragazza mostrava solo una perplessa indifferenza. «Non capisco.»
Hamilton ci rinunciò. «Lascia perdere.»
«Ma...»
«Lascia perdere, ti ho detto!» Trangugiò di malumore l'ultimo goccio di birra. «E adesso andiamo a casa. Marsha ci aspetta per la cena e si starà già domandando che fine abbiamo fatto.»
10
Quando entrarono nel piccolo soggiorno, Marsha li accolse con gioia. «Appena in tempo,» disse al marito sollevandosi sulla punta dei piedi per baciarlo. Nel suo grembiule sopra il vestito a fiori era una figura graziosa e snella, calda e fragrante. «Andate a lavarvi le mani e mettetevi a tavola.»
«Posso aiutarti?» chiese educatamente Silky.
«Niente affatto. Jack, prendile il cappotto.»
«No, non serve,» disse Silky. «Lo appoggerò in camera da letto.» Si allontanò a piccoli passi, lasciandoli momentaneamente soli.
«Questa è la cosa più incredibile,» disse Hamilton, seguendo la moglie in cucina.
«Vuoi dire lei?»
«Già.»
«Quando l'hai incontrata?»
«La settimana scorsa. È un'amica di McFeyffe.»
«È carina.» Marsha estrasse dal forno una pentola fumante. «Così fresca e dolce.»
«Tesoro, è una puttana.»
«Oh.» Marsha sgranò tanto d'occhi. «Sul serio? Non ha l'aria di... di quello che hai detto.»
«Certo che no. Qui le puttane non esistono.» Marsha si illuminò. «Allora non lo è. Non può esserlo.» Esasperato, Hamilton la bloccò mentre si dirigeva verso il soggiorno con la pentola in mano. «Lo è. Nel mondo reale è una lucciola da bar, una professionista che abborda i clienti nei locali, si fa offrire da bere e tutto il resto.»
«Oh, davvero,» disse Marsha, ancora non convinta. «Io non lo credo proprio. Abbiamo parlato a lungo al telefono. Fa la cameriera o qualcosa del genere. È una ragazza deliziosa.»
«Tesoro, quando il suo apparato era intatto....» Si interruppe perché era riapparsa Silky, sbarazzina e impeccabile nel completo da scolaretta.
«Mi meraviglio di te,» bisbigliò Marsha al marito mentre rientrava in cucina. «Dovresti vergognarti.»
Lui si allontanò ciondolando. «Al diavolo tutto,» borbottò, poi prese l'edizione serale dell’Oakland Tribune, si buttò sul divano di fronte a Silky e cominciò a scorrere i titoli di testa.
FEINBERG ANNUNCIA UNA NUOVA SCOPERTA
L'ASMA VINTA PER SEMPRE
L'articolo, in prima pagina, mostrava la fotografia di un medico grassoccio, sorridente e un po' stempiato, in camice bianco, proprio davanti al manifesto pubblicitario di un collutorio. L'articolo parlava di questa rivoluzionaria scoperta. Pagina uno, prima colonna.
A pagina due, alla colonna due, c'era un lungo articolo sulle recenti scoperte archeologiche in Medio Oriente. Avevano ritrovato piatti e vasellame e individuato un'intera città dell'Età del Ferro. L'umanità attendeva gli sviluppi trattenendo il respiro.
Hamilton fu preso da una specie di curiosità morbosa. Che ne era stato della guerra fredda con la Russia? Anzi, che ne era stato della Russia? Sfogliò velocemente tutte le altre pagine, e ciò che scoprì gli fece venire la pelle d'oca.
La Russia, come categoria, era stata abolita. Era semplicemente troppo sgradevole.
Milioni di uomini e donne, milioni di chilometri quadrati di terra... svaniti nel nulla! Che cosa c'era al suo posto? Una landa desolata? Un vuoto nebuloso? Un gigantesco pozzo?
In un certo senso non esisteva sul giornale una sezione dedicata alla politica... si cominciava con le rubriche femminili: moda, avvenimenti mondani, matrimoni e fidanzamenti, eventi culturali, giochi. Quanto alla pagina dei fumetti, ce n'era solo una parte; erano rimaste le strisce umoristiche e quelle per i ragazzi, mentre erano scomparse quelle di argomento poliziesco, quelle d'azione e quelle un po' più spinte. Non che importasse poi tanto, solo che quegli spazi bianchi nella pagina facevano un certo effetto.
Probabilmente l'Asia settentrionale doveva essere ridotta più o meno nello stesso modo.
Una specie di gigantesca striscia con tutti i riquadri bianchi, dove una volta, nel bene e nel male, vivevano milioni di persone. Nel male, per quanto riguardava una anzianotta signora sovrappeso chiamata Edith Pritchet. La Russia le dava fastidio, le rendeva la vita sgradevole come una grossa zanzara ronzante.
Adesso che ci pensava, non aveva ancora visto insetti; niente mosche, moscerini o ragni, né animali nocivi o fastidiosi di qualsiasi tipo. Una volta che la signora Pritchet avesse concluso il suo lavoro, quello sarebbe stato certamente un mondo accogliente e piacevole... se fosse rimasto qualcosa.
«Non ti dispiace,» domandò improvvisamente a Silky, «che non esista più la Russia?»
«Che non esista più che cosa?» chiese Silky, alzando gli occhi dalla rivista che stava leggendo.
«Lascia perdere.» Hamilton buttò via il giornale e con passo strascicato raggiunse sua moglie in cucina. «È proprio questo che non sopporto,» le disse.
«Che cosa, tesoro?»
«Che non gliene importa niente!»
Marsha sottolineò, con voce soave, «Per loro la Russia non è mai esistita. Perciò come può importargliene qualcosa?»
«Invece dovrebbe. Se la signora Pritchet abolisse la scrittura, loro rimarrebbero del tutti indifferenti. Non ne sentirebbero la mancanza... non si accorgerebbero nemmeno che non c'è più.»
«Ma non accorgendosene comunque,» obbiettò Marsha, pensierosa, «allora che importanza ha?»
Lui non aveva preso in considerazione questo aspetto del problema. Mentre le due donne apparecchiavano ci pensò un po' su. «È peggio,» disse poi a Marsha quando fu tornata. «È proprio questa la parte peggiore. Edith Pritchet si balocca con il loro mondo...
modella le loro vite e non se ne accorgono nemmeno. È terribile.»
«Perché?» Marsha si scaldò. «Forse non è poi così terribile.» Quindi riabbassò la voce, e fece un cenno in direzione di Silky. «Lo è davvero? Lei era tanto meglio, prima?»
«Non è questo il punto. Il pùnto è...» Le andò dietro cercando di non perdere la calma.
«Questa non è più Silky, è qualcun'altra. È una bambola di cera che la signora Pritchet ha messo al posto suo.»
«A me sembra Silky.»
«Ma se non l'hai mai vista prima!»
«Grazie a Dio,» disse Marsha con fervore.
Lentamente un minaccioso sospetto cominciò a prendere forma dentro di lui. «A te tutto questo piace,» le disse in un sussurro. «Anzi, tu lo preferisci a quello che c'era prima.»
«Non direi proprio così,» replicò Marsha in tono evasivo.
«Invece è proprio così! A te piacciono questi... miglioramenti.»
Marsha si fermò sulla porta della cucina, con le mani piene di forchette e cucchiai. «Ci ho riflettuto a lungo, oggi. Sotto molti aspetti è tutto molto più pulito. Non c'è quella confusione di prima. Le cose sono... ecco, più semplici. Più ordinate.»
«Be', non ne sono rimaste molte, di cose.»
«E che cosa c'è di male?»
«Forse anche noi diventeremo elementi da mettere in discussione, ci hai pensato?»
Gesticolò, poi riprese. «Non siamo al sicuro. Ma guarda come siamo ridotti... siamo già stati rimodellati. Non abbiamo più sesso... sei contenta?» Marsha esitò a rispondere.
«Tu sei contenta, non è vero?» le disse Hamilton, atterrito. «Per te va meglio così.»
«Ne parliamo più tardi,» tagliò corto Marsha, facendo per allontanarsi con l'argenteria.
Lui l'afferrò per un braccio e la fece rigirare con violenza. «Rispondimi! Ti piace così, vero? Ti piace l'idea di una vecchia matrona piena di complessi che ripulisce il mondo dal sesso e da ogni cosa altra sporca!»
«Be',» disse Marsha, riflettendo, «io credo che il mondo abbia bisogno di una bella ripulita, questo sì. E se non ci siete riusciti voi uomini, o se non avete voluto farlo...»
«Allora ti confiderò una cosa,» le disse Hamilton con voce quasi esaltata. «Visto che Edith Pritchet abolisce le categorie, io ho intenzione di ripristinarle. E la prima categoria che ho intenzione di ripristinare è il sesso. Entro stanotte avrò restituito il sesso al mondo intero.»
«Già, tu saresti capace di farlo, vero? È questo che vuoi; è un'idea fissa, per te.»
«Quella ragazza.» Hamilton indicò con un cenno della testa verso il soggiorno. Silky stava sistemando spensieratamente i tovaglioli sul tavolo. «Me la porterò di sotto e farò l'amore con lei.»
«Ma caro,» gli fece notare Marsha in modo sbrigativo., «non puoi.»
«Perché?»
«Perché non...» Marsha fece un gesto vago. «Non è equipaggiata.»
«E a te non te ne importa un accidente?»
«Ma è assurdo. È come parlare di asini che volano. Non esistono.»
Hamilton attraversò il soggiorno a grandi passi e prese con decisione Silky per la mano.
«Vieni con me,» le ordinò. «Andiamo nella nostra saletta di musica ad ascoltare i quartetti di Beethoven.»
Sbalordita Silky lo seguì barcollando, e senza capire. «E la cena?»
«Al diavolo la cena,» ribatté lui, aprendo la porta che conduceva al seminterrato.
«Scendiamo prima che abolisca anche la musica.»
Il seminterrato era freddo e umido. Hamilton accese il radiatore elettrico e abbassò le tapparelle. Mentre l'ambiente si riscaldava piacevolmente, lui andò allo scaffale dei dischi e cominciò a tirare fuori decine di dischi.
«Che cosa vuoi sentire?» le domandò in tono aggressivo.
Spaventata, Silky esitava accanto alla porta. «Io vorrei mangiare. Marsha ha preparato una cenetta deliziosa...»
«Solo gli animali mangiano,» borbottò Hamilton. «È una cosa sgradevole. Non è bella.
L'ho abolita.»
«Non capisco,» protestò Silky lamentosamente.
Hamilton accese l'amplificatore e sistemò tutta la complicata serie di controlli. «Che te ne sembra del mio impianto?» le chiese.
«Molto... interessante.»
«Uscita parallela in controfase. Fino a trentamila cps. Quattro woofer da quindici pollici.
Otto altoparlanti professionali. Tweeter. Sistema incrociato a quattrocento cps.
Trasformatori bobinati a mano. Puntine di diamante e braccio con molla in oro.» Mentre sistemava un disco sul piatto aggiunse, «il motore è in grado di sostenere un peso fino a dieci tonnellate senza scendere minimamente sotto i 33 e tre quarti di velocità. Niente male, eh?»
«B-bellissimo.»
La musica era quella di Dafne e Cloe. Una buona metà dei suoi dischi era misteriosamente sparita, quasi tutti quelli di musica moderna atonale e a percussione. La signora Pritchet preferiva la buona vecchia musica classica: Beethoven e Schumann, la grande musica orchestrale prediletta dal frequentatore borghese delle sale da concerto.
Stranamente, il fatto di aver perduto la sua preziosa raccolta di Bartok lo mandò su tutte le furie più di quanto gli fosse successo in precedenza, perché lo toccava nel profondo, andava a intaccare gli strati più intimi della sua personalità. Non era possibile vivere nel mondo della signora Pritchet: era ancora peggiore di quello di Tetragrammaton.
«Va bene così?» le domandò automaticamente, regolando l'intensità della lampada fino a una penombra molto accentuata. «Adesso non ce l'hai più negli occhi, eh?»
«Non ce l'ho mai avuta, Jack,» rispose Silky, preoccupata. L'eco di un ricordo lontano si stava insinuando nella sua mente purificata. «Accidenti, non vedo nemmeno quello che c'è intorno... ho paura di cadere.»
«Non cadresti, ci sono io vicino a te,» ribatté Hamilton, ironico. «Che ne diresti di bere qualcosa? Dovrei avere una bottiglia di scotch, da qualche parte.»
Spalancò l'armadietto dei liquori e armeggiò all'interno. Le sue dita si richiusero sul collo di una bottiglia; la tirò fuori e si piegò a cercare un paio di bicchieri. Ma quella bottiglia aveva un'aria strana. La guardò meglio ed ebbe la conferma che non era affatto una bottiglia di scotch.
«Be', facciamo crema alla menta.» si corresse, rassegnato. In qualche modo era meglio così. «Va bene?»
Dafne e Cloe riempiva maestosamente la stanza buia quando Hamilton invitò Silky a sedersi sul divano. Lei accettò obbediente il suo drink e lo sorseggiò senza fare storie, con un'espressione vuota e remissiva sul viso. Hamilton si diede da fare per la stanza, curando gli ultimi ritocchi, come raddrizzare un quadro, sollevare di un niente l'amplificatore, abbassare ulteriormente la luce, sistemare un cuscino sul divano e accertarsi che la porta della scala fosse chiusa a chiave. Sentiva sopra la testa Marsha che si muoveva per la casa. Be', se l'era cercata.
«Adesso chiudi gli occhi e rilassati,» le impose con rabbia.
«Sono rilassata.» Silky aveva ancora paura. «Non ti sembra che lo sia?»
«Ma certo,» le disse fra i denti, in tono allusivo. «Splendido. Senti, ho un'idea... prova a toglierti le scarpe e a mettere i piedi sul divano. Se ascolti Ravel in quel modo è tutta un'altra cosa.»
Silky obbedì. Scalciò via i suoi mocassini bianchi e sollevo i piedi nudi. «È bello,» disse con voce incolore.
«Molto meglio, eh?»
«Sì, molto.»
Tutto a un tratto Hamilton fu sopraffatto da una tristezza enorme, opprimente. «È
inutile,» disse, sconfitto. «Non si può fare.»
«Che cosa non si può fare, Jack?»
«Non capiresti.»
Vi fu una breve pausa di silenzio poi, pian piano, Silky si avvicinò a lui e gli toccò la mano. «Mi dispiace.»
«Anche a me.»
«È colpa mia, vero?»
«Più o meno. In un certo senso lo è, anche se in un modo piuttosto astratto.»
Dopo una lunga pausa, Silky domandò, «Posso... posso farti una domanda?»
«Ma certo. Tutto quello che vuoi.»
«Vorresti...» La sua voce era così debole che lui la sentiva appena. Lo guardava dal basso in alto, con gli occhi grandi e scuri nella penombra della stanza. «Jack, mi daresti un bacio? Solo uno?»
Lui la prese per le braccia, la attirò a sé, le sollevò il piccolo viso e la baciò sulla bocca.
Silky si aggrappò a lui, fragile e leggera, magra e piatta in modo terribile, mortificante.
Hamilton la strinse con tutte le forze che aveva, e i due rimasero così per un attimo eterno, finché lei alla fine si ritrasse, una figuretta stanca e sconsolata, quasi perduta nell'oscurità incombente della stanza.
«Mi sento così male,» disse con voce esitante.
«Non devi.»
«Mi sento... come vuota. Mi fa male tutto. Perché, Jack? Che succede? Perché devo sentirmi così?»
«Lasciamo perdere,» disse lui con voce rotta. «Non mi piace sentirmi così. Vorrei darti qualcosa, ma non ho niente da darti. Io non sono altro che una cosa vuota, vero? Una specie di involucro, senza niente dentro.»
«Non esattamente.»
Qualcosa animò l'oscurità. Silky si era alzata dal divano e adesso era in piedi di fronte a lui, una macchia indistinta che si muoveva rapidamente. Quando tornò a guardarla, Hamilton si rese conto che la ragazza si era tolta rabbiosamente tutti i vestiti; adesso erano ammucchiati in una pila ordinata accanto a lei.
«Mi desideri?» gli chiese lei, esitante.
«Be' sì, in un modo più o meno teorico.»
«Puoi avermi, lo sai.»
Lui sorrise ironicamente. «Davvero?»
«Se vuoi, sì.»
Hamilton raccolse il mucchietto di vestiti e glielo porse. «Rivestiti e torniamo su. Stiamo solo perdendo tempo e la cena si raffredda.»
«È inutile?»
«Sì,» rispose lui provando quasi un senso di dolore fisico, e cercando di non vedere quel corpo liscio e piatto. «È assolutamente inutile, ma tu hai fatto del tuo meglio. Hai fatto quello che potevi.»
Quando si fu rivestita, Hamilton la prese per mano e la guidò verso la porta. Dietro di loro il giradischi continuava a suonare quell'inutile, ridondante carosello di musica che era il Dafne e Cloe. Nessuno dei due gli prestò ascolto mentre risalivano tristemente le scale.
«Mi dispiace di averti deluso,» disse Silky.
«Non pensarci più.»
«Forse posso riuscirci, in qualche modo. Forse posso...»
La voce della ragazza si spense, mentre la pressione delle sue dita piccole e asciutte veniva meno all'improvviso. Hamilton si ritrovò a stringere il nulla. Sconvolto si girò e scrutò nel buio.
Silky era scomparsa. Era svanita dall'esistenza.
Confuso, incredulo, era ancora inchiodato su quel gradino quando la porta superiore si aprì e in cima alle scale apparve Marsha. «Oh,» disse, sorpresa. «Eccoti. Vieni su...
abbiamo compagnia.»
«Compagnia,» ripeté lui meccanicamente.
«La signora Pritchet. E c'è un sacco di gente insieme a lei... sembra proprio una festa.
Sono tutti allegri ed eccitati.»
Ancora stordito, Hamilton salì gli ultimi gradini ed entrò in soggiorno, accolto da un brusio di voci e di movimento. Sul gruppo di persone incombeva la figura massiccia di una donna che indossava una vistosa pelliccia e un cappello adorno di grottesche piume ondeggianti, e con i capelli biondi ossigenati che le ricadevano in riccioli rigidi sul collo e sulle guance floride.
«Ah, eccola qui,» strillò allegramente la signora Pritchet quando lo vide. «Sorpresa!
Sorpresa!» Sollevò una grossa scatola di cartone di forma quadrata e gli confidò con voce squillante, «Ho portato i migliori pasticcini che lei abbia mai assaggiato... una squisitezza.
E la migliore frutta candita che abbia mai...»
«Che ne ha fatto di lei?» la interruppe Hamilton con voce strozzata, avanzando verso la donna. «Dov'è?»
Per un attimo la signora Pritchet rimase perplessa. Poi i rotoli di grasso del suo volto si rilassarono in un sorriso di compiaciuta soddisfazione. «Be', l'ho abolita, mio caro. Ho eliminato l'intera categoria, non lo sapeva?»
11
Mentre Hamilton restava lì con lo sguardo fisso sulla signora Pritchet, Marsha gli si avvicinò senza dare nell'occhio e gli disse in un bisbiglio, «Stai attento, Jack. Stai attento.»
Lui si girò. «C'entri anche tu, in questa storia?»
«Immagino di sì.» Marsha si strinse nelle spalle. «Edith mi ha chiesto dove fossi e io gliel'ho detto. Non sono entrata nei particolari... mi sono tenuta sul vago.»
«In quale categoria rientrava Silky?»
Marsha sorrise. «Edith è stata molto chiara. Una ragazza poco seria, credo che l'abbia definita così.»
«Devono essercene un bel po',» commentò Hamilton. «Ne valeva la pena?»
Dietro Edith Pritchet spuntarono Bill Laws e Charley McFeyffe, entrambi con le braccia cariche di bottiglie e generi alimentari. «Si festeggia,» disse Laws con un leggero cenno della testa, quasi a scusarsi. «Dov'è la cucina? Voglio sistemare questa roba.»
«Come va, amico mio?» gli chiese McFeyffe, strizzando l'occhio. «Ho portato venti lattine di birra; possiamo incominciare.»
«Alla grande,» rispose Hamilton, ancora confuso.
«Basta solo schioccare le dita,» aggiunse McFeyffe, con il volto massiccio rosso e sudato. «Cioè, basta che lei schiocchi le dita.»
Dopo McFeyffe seguì la sagoma minuta e incolore di Joan Reiss; accanto a lei c'era il ragazzo, David Pritchet. Chiudeva la fila la figura allampanata e claudicante del vecchio militare, il cui viso raggrinzito era una maschera di impassibile dignità.
«Ci siamo tutti?» chiese Hamilton, con una fìtta di doloroso sgomento.
«Giocheremo alla sciarada mimata,» li informò con voce garrula Edith Pritchet. «Oggi pomeriggio ho fatto un salto qui,» spiegò poi ad Hamilton. «La sua dolce mogliettina e io ci siamo fatte proprio una bella chiacchierata.»
«Signora Pritchet...» cominciò lui, ma sua moglie lo interruppe all'istante.
«Vieni in cucina e dammi una mano a preparare,» gli disse con un tono fermo e autoritario.
La seguì con riluttanza. Vi trovò Laws e McFeyffe che se ne stavano in piedi, goffi e imbarazzati, senza sapere bene cosa fare. Laws aveva una specie di smorfia disegnata sul viso, un misto di preoccupazione e di qualcosa che somigliava molto al senso di colpa; Hamilton non fu in grado di definire se prevalesse l'una o l'altra. Quando li vide, Laws si voltò rabbiosamente e cominciò ad aprire gli involti con i salatini e le creme per i sandwich. La signora Pritchet andava pazza per gli antipasti.
«Bridge,» stava dicendo enfaticamente la donna nell'altra stanza. «Ma bisogna essere almeno in quattro. Possiamo contare su di lei, signorina Reiss?»
«Temo di non essere troppo brava a bridge,» rispose la donna con voce atona. «Ma farò del mio meglio.»
«Laws,» disse Hamilton, «lei è troppo in gamba per accettare tutto questo. McFeyffe ce lo vedo, ma lei proprio no.»
Il negro non ebbe il coraggio di guardarlo in faccia. «Lei pensi a se stesso,» gli disse di malagrazia. «Io penserò a me.»
«Ma non ha un briciolo di buon senso...»
«Badron Hamildon,» motteggiò Laws. «A me sda bene gosì. In guesdo modo gamberò a lungo.»
«Ma la smetta,» replicò Hamilton, avvampando. «Non si metta a fare il buffone con me.»
Gli occhi neri e irridenti di Laws avvamparono di ostilità. Gli voltò la schiena ma tremava visibilmente, a tal punto che Marsha dovette togliergli dalle mani il pezzo di pancetta affumicata che stava affettando. «Lascialo in pace,» disse Marsha al marito in tono di rimprovero. «È la sua vita.»
«È qui che ti sbagli,» ribatté Hamilton. «È la vita di quella donna. Ti sta bene una vita fatta di sandwich e antipastini?»
«Non è poi così male,» osservò filosoficamente McFeyffe. «Svegliati, amico. Questo è il mondo di quella anziana signora, giusto? È lei che guida la danza; il capo è lei.»
Sulla soglia apparve Arthur Silvester. «Potrei avere un bicchiere di acqua calda e del bicarbonato di sodio, per favore? Oggi ho un po' di acidità di stomaco.»
Hamilton appoggiò la mano sulla spalla fragile di Silvester e gli disse, «Arthur, in questo posto il suo Dio non c'è; non credo che le piaccia.»
Senza una parola Silvester lo scansò e si diresse verso il lavandino, dove Marsha gli diede ciò che aveva chiesto; poi si rintanò in un angolo e si concentrò sul suo bicchiere, dimenticandosi del resto del mondo.
«Non riesco ancora a crederci,» disse Hamilton a sua moglie.
«A credere che cosa, caro?»
«Silky. È sparita. Così su due piedi, come un moscerino che schiacci fra le mani.»
Marsha alzò le spalle con indifferenza. «Be', deve essere qui intorno da qualche parte, in qualche altro mondo. Nel mondo reale starà sicuramente scroccando da bere ai suoi clienti.» Pronunciò quella parola, "reale", in modo tale da far sembrare che stesse parlando di qualcosa di sporco e contaminato.
«Posso esservi utile?» Edith Pritchet apparve sulla soglia starnazzando vivacemente, un'enorme massa di carne flaccida ingabbiata in un osceno vestito di seta a fiori sgargianti. «Buon Dio, dove posso trovare un grembiule?»
«Nell'armadietto, Edith,» le ripose Marsha, indicando col dito.
Provando una istintiva avversione, Hamilton si ritrasse quando la donna gli si avvicinò ondeggiando. La signora Pritchet gli rivolse un sorriso fatuo, mentre il resto del viso tradiva l'espressione di chi ha capito tutto. «Su, non faccia i capricci, signor Hamilton. Non ci rovini la festa.»
Quando la donna ebbe portato la sua mole fuori dalla cucina, Hamilton mise alla strette Laws. «Lei vuole davvero che quel mostro disponga liberamente della sua vita?»
Laws si strinse nelle spalle. «Io non ho mai avuto una vita. Per lei fare da guida ai visitatori del bevatrone significa vivere? Spiegare le cose a persone che non capiscono niente, a dei semplici turisti senza la minima preparazione tecnica...»
«E adesso che fa?»
Sul volto di Laws si disegnò un'espressione di fiero orgoglio. «Sono il capo dell'ufficio ricerche dell'Industria di Saponi Lackman.»
«Mai sentita nominare.»
«L'ha inventata la signora Pritchet.» Poi aggiunse, senza guardarlo in faccia, «Fabbrica quelle saponette da bagno profumate che vanno tanto di moda.»
«Cristo,» esclamò Hamilton.
«Per lei è un lavoro da poco, eh? Lei non lo accetterebbe mai, vero?»
«Io mi rifiuterei di fabbricare saponette profumate per Edith Pritchet, questo è sicuro.»
«Allora le dirò una cosa,» disse Laws con voce bassa, esitante. «Ci provi lei ad andare in giro con la pelle nera. Ci provi lei a inchinarsi e a dire "Sissignore" a qualunque fottuto bianco che le passa vicino, magari a bifolco della Georgia così ignorante da soffiarsi il naso con le mani, così deficiente da non essere capace di trovare il cesso degli uomini se qualcuno non glielo indica. Glielo devo indicare io, e magari gli devo anche far vedere come si tirano giù i pantaloni. Ci provi. Provi a mantenersi per sei anni all'università lavando i piatti dei bianchi in un ristorantuccio da quattro soldi. Ho sentito parlare di lei; suo padre era un fisico di prim'ordine. Aveva un sacco di soldi, e lei non ha dovuto sgobbare come lavapiatti. Provi a prendersi una laurea come ho fatto io, e provi a portarsela in tasca per mesi e mesi, in cerca di un lavoro. Per poi finire a fare da cicerone ai turisti con una fascia sul braccio, come uno di quegli ebrei che stavano nei campi di concentramento. Allora non farà tanto lo schizzinoso, se le offriranno di lavorare in una fabbrica di saponette profumate.»
«Anche se questa fabbrica non esiste?»
«Qui esiste.» Il viso scuro e magro di Laws era stravolto dall'ira. «Ed è qui che mi trovo.
E finché sarò qui, ho intenzione di ricavarne il meglio che posso.»
«Ma,» obiettò Hamilton, «questa è un'illusione.»
«Illusione?» Laws fece un ghigno sarcastico; chiuse a pugno la mano e picchiò sul muro della cucina. «A me sembra abbastanza reale.»
«È una costruzione della mente di Edith Pritchet. Un uomo della sua intelligenza...»
«Mi risparmi la predica,» lo interruppe brutalmente il negro. «Non voglio sentirla. A lei non interessava niente della mia intelligenza, prima. Quando ha visto che facevo la guida non ha avuto niente da obiettare e non mi è sembrato così scandalizzato.»
«C'è tanta gente che fa la guida,» osservò Hamilton, a disagio.
«Gente come me, forse. Ma non gente come lei. Vuole sapere perché mi trovo bene qui? A causa sua, Hamilton. E colpa sua, non mia. Ci pensi un attimo. Se lei avesse fatto qualche tentativo, nel nostro mondo... invece non l'ha fatto. Lei aveva una bella moglie, una bella casa, e la macchina e il gatto. Se la passava bene... naturalmente, è lei che vuole tornare indietro. Io no, invece, io non me la passavo così bene. E non ho nessuna intenzione di tornare indietro.»
«Se questo mondo cessa di esistere dovrà farlo,» disse Hamilton.
Laws lo squadrò con un'espressione di odio profondo. «Ha intenzione di farlo scomparire?»
«Ci può scommettere.»
«Lei vuole che io tornì là con la fascia al braccio, eh? È uguale agli altri, Hamilton... non è diverso per niente. Mai fidarsi di un bianco, questo me l'hanno sempre detto. Ma credevo fossimo amici.»
«Laws,» disse Hamilton, «lei è il più nevrotico figlio di puttana che abbia mai conosciuto.»
«Se lo sono è colpa sua.»
«Mi dispiace che la pensi così.»
«È la verità,» disse con enfasi Laws.
«Non proprio. Lo è solo in parte; c'è un fondo di verità, in quello che dice, e forse ha anche ragione lei, forse dovrebbe davvero restare qui. Forse questo mondo è il migliore possibile, per lei... la signora Pritchet si prenderà cura di lei, Laws, se si metterà a quattro zampe e abbaierà nel modo giusto, se camminerà alla giusta distanza e non le darà fastidio, se le andranno bene le saponette profumate, gli antipasti freddi e le cure per l'asma. Nel vecchio mondo sarebbe costretto a lottare per la vita, con tutti, e ogni giorno, e magari è anche giusto che adesso si riposi un poco; tanto non avrebbe vinto comunque.»
«Piantala di tormentarlo,» intervenne McFeyffe che era rimasto ad ascoltare senza intervenire. «Stai perdendo tempo... è solo un muso nero.»
«Ti sbagli,» ribatté Hamilton. «È un essere umano e si è stancato di perdere. Ma qui non vincerà, e nemmeno tu. Qui nessuno può vincere, a parte Edith Pritchet.» Poi, rivolto a Laws, «Sarà peggio che essere maltrattato dai bianchi... in questo mondo lei sarà sempre nelle mani di una cicciona di mezza età.»
«La cena è pronta,» gridò con voce acuta Marsha dal soggiorno. «Tutti a tavola.»
Tornarono tutti nel soggiorno, in fila indiana. Hamilton uscì dalla cucina appena in tempo per vedere Tontolone che compariva sulla porta di casa, attratto dall'odore del cibo. Tutto arruffato per aver dormito in una scatola di scarpe dentro il ripostiglio, il gatto attraversò la strada proprio davanti a Edith Pritchet.
«Santo Cielo!» esclamò infuriata la donna, che per poco non perse l'equilibrio. E Tontolone, già pronto a balzare in grembo sulle ginocchia di qualcuno, scomparve. La signora Pritchet proseguì la sua marcia senza neppure rendersi conto di ciò che era successo, il vassoio di pasticcini sempre stretto fra le dita rosa e grassocce.
«Ha fatto scomparire il vostro gatto,» strillò isterico David Pritchet in tono accusatorio.
«Non preoccuparti,» disse Marsha con aria assente. «Ce ne sono tanti.»
«No,» la contraddì Hamilton, con la voce che gli usciva a fatica. «Non ce ne sono più.
Non te lo ricordi? Ci siamo giocati l'intera categoria dei gatti.»
«Che cos'era?» chiese la signora Pritchet. «Di che cosa stava parlando? Non ho capito bene.»
«Non importa,» si affrettò a dire Marsha, sedendosi a tavola e cominciando a servire.
Anche gli altri si misero seduti; l'ultimo fu Arthur Silvester, che aveva finito di bere il suo bicchiere di acqua e bicarbonato e stava uscendo dalla cucina portando una caraffa di tè.
«Dove devo metterla?» domandò in tono querulo, cercando un posto sulla tavola ingombra, mentre la grossa caraffa umida e scivolosa sembrava lì lì per cadergli dalle mani rinsecchite.
«La prendo io,» disse la signora Pritchet, con un sorriso ebete. Mentre Silvester si avvicinava, lei allungò le mani verso la caraffa. Il vecchio, senza cambiare espressione, sollevò la caraffa e fece per scaraventarla sulla testa della donna con quel poco che rimaneva della sua forza. Dal tavolo si levò un gemito di incredulità, e tutti si alzarono in piedi di scatto.
Un attimo prima che la caraffa colpisse, Arthur Silvester svanì nel nulla. La caraffa stessa gli cadde dalle mani ormai inesistenti e finì sul tappeto, spaccandosi in mille pezzi.
Il tè schizzò tutto intorno, una brutta chiazza giallastra simile a urina.
«Oh, mio Dio,» esclamò la signora Pritchet, infastidita. Dopo Arthur Silvester, scomparvero anche i frammenti della caraffa e tutti gli schizzi di té bollente.
«Che cosa spiacevole,» disse Marsha dopo un po'.
«Meno male che è finita bene,» disse Laws con voce fiacca, le mani che gli tremavano ancora. «C'è mancato... un pelo.»
Joan Reiss si alzò all'improvviso dal tavolo. «Non mi sento bene. Torno subito.» Si girò rapidamente e corse fuori dal soggiorno, scomparendo nella camera da letto.
«Che cos'ha?» domandò ansiosa la signora Pritchet, guardandosi intorno. «C'è qualcosa che l'ha sconvolta? Forse posso...»
«Signorina Reiss,» la chiamò Marsha, con un tono insistito, pressante nella voce. «La prego, torni qui. Stiamo cenando.»
«Andrò a vedere che cosa le è successo,» disse sospirando la signora Pritchet, pronta ad alzarsi.
Ma Hamilton era già uscito dalla stanza. «Ci penso io,» disse mentre si allontanava.
Joan Reiss era seduta in camera da letto con le mani unite in grembo, e cappotto, cappello e borsetta accanto a lei. «Gli avevo detto di non farlo,» confessò ad Hamilton con voce calma. Si era tolta gli occhiali con la montatura di corno, e li teneva fra le dita facendoli dondolare. Senza occhiali i suoi occhi erano smorti e pallidi, quasi privi di colore.
«Non era quello il modo giusto.»
«Allora era tutto programmato?»
«Ma certo. Arthur, il ragazzo e io. Ci siamo visti oggi. Degli altri non ci potevamo fidare.
Non ce la siamo sentita di coinvolgere anche lei, per via di sua moglie.»
«Potete contare su di me,» disse Hamilton.
La donna estrasse una bottiglietta dalla borsa e la posò sul tavolino accanto al letto. «La metteremo a dormire,» disse con voce priva di emozione. «È vecchia e stanca.»
Hamilton prese la bottiglietta e la portò alla luce per osservarla. Era un preparato liquido a base di cloroformio, utilizzato per il fissaggio dei campioni biologici. «Ma questo la ucciderà.»
«No, non la ucciderà.»
David, il ragazzo, comparve ansioso sulla soglia. «Sarà meglio che vi sbrighiate...mamma sta diventando nervosa.»
La signorina Reiss si alzò in piedi, afferrò la bottiglietta e tornò a infilarla nella borsa.
«Adesso sto bene. È stato tutto così improvviso. Aveva promesso di non farlo... questi vecchi militari...»
«Lo farò io,» le disse Hamilton.
«Perché?»
«Non voglio che la uccida. E so che ha intenzione di farlo.»
Per un attimo i due si fissarono negli occhi. Poi, con un gesto brusco e impaziente, la donna prese la bottiglietta e gliela mise in mano. «Faccia un buon lavoro, allora. E lo faccia stasera.»
«No. Domattina. La porteremo da qualche parte... a fare un picnic. Partiremo presto, appena fa giorno, e andremo verso le montagne.»
«Non si spaventi, e non si tiri indietro.»
«Non lo farò,» disse lui, mettendosi in tasca la bottiglietta.
E ne era convinto.
12
Freddo e luminoso, il sole di ottobre si stagliava nel cielo. Sui prati c'era ancora una leggera patina di brina; era mattina presto e la città di Belmont emergeva da una fitta coltre di nebbia azzurrina. Lungo l'autostrada, quasi l'uno attaccato all'altro, una fiumana incessante di veicoli risaliva la penisola in direzione di San Francisco.
«Buon Dio,» esclamò angosciata la signora Pritchet. «Che traffico.»
«Lo eviteremo,» le disse Hamilton mentre lasciava la superstrada per Bayshore e si immetteva su una strada provinciale. «Noi andiamo verso sud, in direzione di Los Gatos.»
«E poi?» chiese la signora Pritchet, con la curiosità avida e ingenua di un bambino. «Dio Santo, non mi sono mai spinta così lontano.»
«E poi dritti fino all'oceano,» continuò Marsha, tutta eccitata. «Prenderemo l'Autostrada Uno, quella costiera, fino a Big Sur.»
«Dove si trova?» domandò la signora Pritchet, dubbiosa.
«Fra le montagne di Santa Lucia, appena sotto Monterey. Non ci vorrà molto, ed è un posto splendido per fare un picnic.»
«Bene,» acconsentì la donna, abbandonandosi contro il sedile e poggiando le mani sulle ginocchia. «È stata proprio un'idea carina, da parte vostra, quella di organizzare un picnic.»
«È un piacere anche per noi,» disse Hamilton pestando bruscamente il piede sull'acceleratore.
«Non capisco perché non poteva andare bene il Golden Gate Park,» mugugnò McFeyffe, insospettito.
«C'è troppa gente,» fu la replica assennata della signorina Reiss. «Big Sur fa parte della Riserva Federale ed è ancora un posto molto selvaggio.»
La signora Pritchet sembrò preoccuparsi. «Ci sarà pericolo?»
«Assolutamente no,» la rassicurò Joan Reiss.«Andrà tutto benissimo.»
«Ma lei non dovrebbe essere al lavoro, signor Hamilton?» domandò ancora la signora Pritchet. «Oggi non è vacanza, no? Il signor Laws è al lavoro.»
«Mi sono preso una mattina libera,» rispose ironicamente Hamilton, «in modo da poterla accompagnare in questa? gita.»
«Oh, che carino,» esclamò la signora Pritchet, agitando le dita grassocce.
McFeyffe sbuffò di malumore il fumo del suo sigaro e disse, «Che diavolo ti prende, Hamilton? Hai intenzione di fare qualche brutto scherzo?» Una voluta di fumo puzzolente di sigaro aleggiò verso il sedile posteriore, dove era seduta la signora Pritchet. La donna fece una smorfia e abolì i sigari. McFeyffe si ritrovò a stringere l'aria fra le dita; per un attimo divenne tutto rosso poi, gradualmente, riprese il colorito normale. «Uh,» borbottò.
«Che cosa stava dicendo?» lo incalzò la signora Pritchet.
McFeyffe non rispose; si frugò goffamente in tutte le tasche, sperando che per miracolo fosse stato risparmiato un sigaro.
«Signora Pritchet,» disse Hamilton, con aria casuale, «le è mai venuto in mente che gli irlandesi non hanno dato nessun contributo alla cultura? Non esistono pittori irlandesi, musicisti irlandesi...»
«Gesù,» esclamò McFeyffe, allarmato.
«Non esistono musicisti irlandesi?» ripetè la signora Pritchet, sorpresa. «Oh, Dio del Cielo, è davvero così? Non ci avevo mai pensato.»
«Gli irlandesi sono una razza di barbari,» incalzò Hamilton con sadico piacere. «Tutto quello che sanno fare è...»
«George Bernard Shaw!» mugolò McFeyffe, sconvolto dal terrore. «Il maggior drammaturgo del mondo! William Butler Yeats, grandissimo poeta. James Joyce, quello che ha...» Si interruppe all'istante. «Un poeta anche lui.»
«Quello che ha scritto Ulisse,» completò per lui la frase Hamilton. «Bandito per anni a causa del contenuto osceno della sua prosa.»
«Ma la sua è grande arte,» gracchiò McFeyffe.
La signora Pritchet riflette. «Sì,» convenne alla fine, avendo preso la sua decisione.
«Quel giudice ha deciso che si tratta di arte. No, signor Hamilton, io penso che lei si sbagli. Gli irlandesi hanno rivelato un grande talento nel teatro e nella poesia.»
«Swift,» disse in un bisbiglio McFeyffe, che aveva ripreso coraggio. «Ha scritto I viaggi di Gulliver. Un'opera straordinaria.»
«D'accordo,» riconobbe serenamente Hamilton. «Ho perso.»
Quasi fuori di sé per la paura, McFeyffe si accasciò contro lo schienale, e rimase lì ansimante e madido di sudore, il volto bianco come un lenzuolo.
«Ma come ti è venuto in mente?» sibilò in tono di accusa Marsha all'orecchio del marito.
«Sei un mostro.»
Divertita, la signorina Reiss guardò Hamilton con rinnovato rispetto. «C'è mancato un pelo.»
«Non ho voluto calcare la mano,» replicò Hamilton, anche lui un po' turbato, adesso che era passato tutto. «Mi dispiace, Charley.»
«Lascia perdere,» biascicò McFeyffe con voce strozzata.
Sulla destra della strada c'era una distesa di campi non coltivati. Mentre guidava, Hamilton frugò fra i suoi ricordi; non c'era stato qualcosa, in quel punto? Alla fine, dopo uno sforzo non indifferente, si ricordò. Lì avrebbe dovuto esserci una zona industriale piena di fabbriche chiassose e impianti di raffinazione, dove si produceva e si lavorava di tutto, dalla cera all'inchiostro, dalla plastica ai prodotti chimici, al legname... adesso non c'era più niente. Restava solo una spianata di terra arida e disabitata.
«Una volta sono passata da queste parti,» disse la signora Pritchet notando l'espressione sul suo viso. «Ho abolito tutte le fabbriche. Erano brutte, rumorose e maleodoranti.»
«Allora non esistono più fabbriche?» chiese Hamilton. «Bill Laws ci sarà rimasto male, adesso che non c'è più la sua fabbrica di saponette.»
«No, quelle che producono saponi le ho lasciate,» disse con aria innocente la signora Pritchet. «Almeno quelle che mandano un buon profumo.»
In uno strano modo un po' contorto, Hamilton cominciava quasi a divertirsi. Era tutto così assolutamente assurdo, così casuale e precario. Con un cenno della mano la signora Pritchet poteva cancellare un'intera regione industriale, anzi tutte le regioni industriali del mondo. Di certo quell'illusione non poteva durare. La struttura era stata pericolosamente minata dalle fondamenta e si stava sgretolando. Non c'erano più nascite, non si produceva quasi più nulla... Intere categorie vitali non esistevano più, semplicemente. Il sesso e la procreazione erano una condizione peccaminosa, materia per soli medici. Quella fantasia, per la stessa logica che ne costituiva la base, era destinata a frantumarsi.
Questo gli fece venire un'idea. Forse aveva scelto l'approccio sbagliato, forse c'era un sistema più semplice e più rapido per prendere il gatto senza farsi graffiare.
Gatti, già. Ormai non ce n'erano più. Al ricordo del povero Tontolone, Hamilton fu invaso da una rabbia sorda, frustrata, che gli tolse il lume della ragione. Solo perché quella bestiola le aveva attraversato la strada per caso... ma almeno nel mondo reale i gatti esistevano ancora. Lì Arthur Silvester, Tontolone, le zanzare, le fabbriche di inchiostro e la Russia continuavano a occupare più o meno fastidiosamente un loro spazio ben definito. Hamilton ebbe un moto di soddisfazione.
A Tontolone comunque quel mondo non sarebbe piaciuto. Topi, mosche e talpe erano già stati cancellati dall'esistenza, e in quella realtà distorta non c'era più spazio per ogni forma di naturale carnalità.
«Guardi,» le disse allora, per fare una prova. Stavano attraversando un brutto sobborgo nato ai margini della strada, con locali malfamati, botteghe artigiane, alberghi scalcinati.
«È una vergogna,» affermò. «Mi offende, vedere uno spettacolo del genere.»
I locali malfamati, le botteghe artigiane e gli alberghi scalcinati cessarono di esistere. In tutto il mondo si aprirono altri spazi vuoti nel tessuto della realtà.
«Così va meglio,» disse Marsha, un po' a disagio. «Però, Jack, forse sarebbe il caso...
voglio dire, lasciamo che sia la signora Pritchet a decidere.»
«Io voglio solo rendermi utile,» disse Hamilton in tono affabile. «In fin dei conti anch'io sto dando il mio contributo all'acculturazione delle masse.»
La signorina Reiss non tardò a capire. «Guardi quel poliziotto,» fece notare. «Quello che sta facendo la multa al povero automobilista. Come può fare una cosa simile?»
«Quell'automobilista mi fa pena,» aggiunse Hamilton con enfasi. «Cadere nelle grinfie di quel bestione ignorante. Magari è un irlandese anche lui. Sono tutti uguali.»
«Per me assomiglia più a un italiano,» osservò con aria critica la signora Pritchet. «Ma la polizia fa del bene, non le sembra, signor Hamilton? Sono sempre stata convinta che...»
«La polizia sì,» convenne Hamilton. «Ma non gli agenti del traffico. È diverso.»
«Oh,» fece la signora Pritchet, annuendo. «Capisco.» Tutti i vigili del mondo, compreso quello che era sulla strada vicino a loro, scomparvero dall'esistenza. E nella macchina tutti, a parte McFeyffe, tirarono un sospiro di sollievo.
«Non te la prendere con me,» gli disse Hamilton. «È stata la signorina Reiss.»
«Aboliamo la signorina Reiss,» propose McFeyffe, imbronciato.
«Su, Charley,» disse Hamilton, con un sorrisetto. «Il tuo non si può davvero definire spirito umanitario.»
«Già,» convenne severamente la signora Pritchet. «Mi meraviglio di lei, signor McFeyffe.»
McFeyffe si chiuse in un silenzio offeso e guardò fuori dal finestrino. «Qualcuno dovrebbe togliere di mezzo quelle paludi.» disse poi. «Mandano una puzza terribile.»
La distesa paludosa cessò di puzzare. Anzi, scomparve del tutto. Al suo posto rimase un basso avvallamento del terreno. Hamilton osservò lo spettacolo e si domandò quanto fosse profondo; probabilmente solo qualche metro... le paludi coprivano solo la parte superficiale del suolo. Uno stormo di uccelli selvatici improvvisamente privati della loro fonte di nutrimento svolazzò sconcertato sulla zona.
«Ehi,» intervenne David Pritchet, «pare che vi divertite.»
«Allora partecipa anche tu al gioco,» lo incalzò vivacemente Hamilton. «C'è qualcosa che non ti piace?»
David riflette, poi rispose, «No, non c'è niente che non mi piace. Anzi, voglio che rimanga tutto quello che c'è.»
Hamilton si calmò. «Hai ragione,» disse. «E non permettere che qualcuno ti faccia cambiare idea.»
«Come faccio a diventare uno scienziato se non c'è niente da studiare?» chiese David.
«Come faccio a procurarmi l'acqua stagnante per esaminarla al microscopio? Non ci sono più paludi.»
«Paludi?» ripeté la signora Pritchet, colpita. «Che significa, David? Io non sono sicura di...»
«E non ci sono nemmeno più le bottiglie rotte nei campi,» si lagnò risentito David. «Non si trovano più scarafaggi per la mia raccolta, e sono spariti anche tutti i rettili, così la mia trappola per serpenti è diventata inutile. E non posso andare più alla stazione a vedere quando caricano il carbone sul treno, perché non c'è più carbone. Prima mi piaceva andare alla fabbrica di inchiostri Parker... non esiste più nemmeno quella. Hai intenzione di lasciare qualcosa, o no?»
«Solo le cose belle,» rispose in tono di rimprovero la signora Pritchet. «Ne rimarranno un bel po' alle quali potrai dedicarti. Non vorrai mica metterti a giocare con le cose brutte e sporche?»
«E poi,» continuò David con vigore, «Eleanor Root, quella ragazza che si è trasferita da poco vicino a casa nostra, voleva farmi vedere una cosa che io non ho, se fossi andato con lei nel garage, e io ci sono andato, e lei non aveva niente, invece. E non mi piace per niente.»
La signora Pritchet avvampò. «David,» strillò, faticando a trovare le parole, «sei un lurido, piccolo pervertito. In nome del cielo, che ti prende? Ma come hai fatto a diventare così?»
«Avrà preso dal padre,» buttò lì Hamilton. «Cattivo sangue.»
«Credo anch'io.» Ansimando, la donna continuò, «Di certo non ha preso da me. David, quando torniamo a casa ti toccherà una bella razione di frustate. Non riuscirai a sederti per una settimana. In tutta la mia vita, non ho mai...»
«Lo abolisca,» disse filosoficamente la signorina Reiss.
«Non ci provare nemmeno!» ruggì David in tono aggressivo. «E meglio che tu non lo faccia, non ti dico altro.»
«Ne riparliamo più tardi,» sibilò la signora Pritchet a denti stretti. «Per il momento sono io che non ho niente da aggiungere, ragazzo.»
David farfugliò qualcosa a mezza bocca.
«Gli parlerò io,» si offrì Hamilton.
«Preferirei di no,» disse la signora Pritchet con decisione. «Voglio che sappia che non può frequentare la gente per bene, se continua a fare tutte quelle porcherie.»
«Anch'io faccio qualche porcheria,» cominciò a dire Hamilton, ma la moglie gli diede un calcio sulla caviglia, e lui tacque.
«Se fossi in te non me ne vanterei,» disse Marsha con voce bassa e tagliente.
Contrariata e offesa, la signora Pritchet guardò in silenzio il panorama che scorreva fuori dal finestrino, e abolì sistematicamente diverse categorie. Scomparvero brutte fattorie con i mulini malmessi, vecchie automobili arrugginite, stalle e fienili, alberi marciti, scuderie, mucchi di spazzatura e cenciosi raccoglitori di frutta itineranti.
«Che cos'è quella?» chiese a un certo punto la donna, ancora irritata.
Sulla destra c'era una costruzione brutta e tozza di cemento. «Quella,» le spiegò Hamilton, «è la centrale della Compagnia del Gas e dell'Elettricità. Collega i cavi ad alta tensione.»
«Allora,» concesse la signora Pritchet, «dev'essere utile.»
«Alcuni pensano di sì,» disse Hamilton.
«Potrebbero renderla più attraente,» osservò la donna. Mentre le passavano davanti, le linee rette della centrale tremolarono e ondeggiarono. Quando l'ebbero superata, si era trasformata in una pittoresca costruzione con il tetto a mattoni, e piante rampicanti fiorite sulle pareti color pastello.
«Deliziosa,» mormorò Marsha.
«Aspetta che gli elettricisti vadano a controllare i cavi,» disse Hamilton. «Li aspetta una bella sorpresa.»
«No,» lo corresse la signorina Reiss con un sorriso senza allegria. «Non se ne accorgeranno nemmeno.»
Era quasi mezzogiorno quando Hamilton lasciò l'Autostrada Uno e si infilò nel verde inestricabile della foresta di Los Padres. Si ritrovarono in mezzo a un bosco di sequoie gigantesche e minacciose, interrotto ogni tanto da qualche radura; proseguirono sulla stretta strada sterrata che si inoltrava nel parco di Big Sur e che conduceva fino all'altura di Cone Peak.
«Fa paura,» osservò David.
La strada cominciò a salire. Dopo un poco raggiunsero un ampio pendio cosparso di cespugli di un color verde brillante, con le rocce che spuntavano qua e là in mezzo alla vegetazione. I fiori preferiti di Edith Pritchet, i papaveri dorati della California, vi crescevano a milioni. Nel vederli, la donna emise un gridolino di gioia.
«Oh, che meraviglia! Fermiamoci qui per il picnic!»
Obbediente, Hamilton lasciò la strada e portò la macchina sul prato, saltellando sul terreno in tutta fretta, prima che alla signor Pritchet venisse in mente di eliminare anche i terreni irregolari. Poco dopo si fermò e spense il motore. Non si sentiva nessun rumore, a parte il debole sfiatare del radiatore e il cinguettio lontano degli uccelli.
«Bene,» disse Hamilton. «Eccoci arrivati.»
Uscirono impazienti dalla macchina. Gli uomini scaricarono il cestino con le cibarie dal bagagliaio, Marsha prese la coperta e la macchina fotografica, Joan Reiss portò il thermos pieno di tè caldo. David si mise a sgambettare, battendo i cespugli con un bastoncino e facendo svolazzare un'intera famiglia di quaglie.
«Come sono carine,» commentò la signora Pritchet. «Guardate quelle più piccole.»
Non c'era nessuno nei paraggi. La distesa verde della foresta digradava fino quasi a toccare l'Oceano Pacifico, da cui la separava solo una sottile striscia di roccia color piombo; al di là l'immensa superficie di acqua in movimento che fece trasalire lo stesso David.
«Cavolo,» mormorò. «È enorme.»
La signora Pritchet scelse il punto esatto in cui fermarsi per il picnic e fece distendere scrupolosamente la coperta per terra. Vennero aperti i cestini; tovaglioli di carta, piatti, posate e bicchieri di plastica passarono allegramente di mano in mano.
Nascosto nell'ombra del bosco vicino, Hamilton era intento a preparare il cloroformio.
Nessuno lo notò quando tirò fuori il fazzoletto e cominciò a imbeverlo della sostanza. Il vento fresco di mezza mattina allontanò i vapori da lui. Non c'era pericolo per nessuno, a parte la vittima designata, che forse avrebbe avuto qualche problema all'apparato respiratorio. Sarebbe stata una cosa rapida e di sicura efficacia.
«Che stai facendo, Jack?» gli bisbigliò improvvisamente Marsha all'orecchio. Colto di sorpresa e anche da una specie di senso di colpa, Hamilton sobbalzò e per poco non gli cadde la bottiglietta dalle mani.
«Niente,» le disse brusco. «Torna indietro e comincia a sbucciare le uova sode.»
«Tu stai facendo qualcosa.» Marsha aggrottò la fronte e cercò di vedere oltre le spalle di suo marito. «Jack! Non sarà... veleno per topi?»
Lui fece una smorfia poco convinta. «Ma no, è sciroppo per la tosse. Contro il catarro.»
Marsha sgranò gli occhi. «Tu stai tramando qualcosa,» affermò. «Ci scommetterei; quanto hai in mente qualcosa ti comporti sempre in questo modo sfuggente.»
«Ho intenzione di mettere la parola fine a tutta questa ridicola storia,» le confessò allora, rassegnato, Hamilton. «Ho sopportato abbastanza.»
Le dita aguzze di Marsha si strinsero sul suo braccio. «Jack, fallo per me...»
«A te piace così tanto?» Amareggiato, si ritrasse bruscamente da lei. «Tu e Laws e McFeyffe ve la spassate, qui, ci state bene; e intanto quella megera elimina uomini, animali e insetti... tutto quello su cui si sofferma la sua limitata immaginazione.»
«Jack, non fare niente. Ti prego, non farlo. Promettilo!»
«Mi dispiace,» rispose lui. «È già tutto deciso. La macchina si è già messa in movimento.»
La signora Pritchet fissò con espressione miope i due seminascosti in mezzo agli alberi.
«Jack e Marsha, venite. Ci sono tramezzini e yogurt. Presto, prima che finisca tutto.»
Marsha si piazzò decisa davanti al marito. «Non te lo permetterò,» gli sibilò. «Jack, non puoi farlo. Ma non capisci? Ricorda quello che è successo ad Arthur Silvester, ricorda...»
All'improvviso, con grande sorpresa di Jack, gli occhi le si riempirono di lacrime. «Oh, Gesù, caro. Che ne sarà dì me? Se lei ti abolisse io non sopravviverei. Morirei all'istante.»
Hamilton si sentì intenerire. «Che sciocchina.»
«Ma è vero.» Le lacrime le rigavano le guance; si strinse a lui e cercò di trascinarlo via.
Ma naturalmente era tutta fatica sprecata. Intanto Joan Reiss era riuscita a far sedere la signora Pritchet in modo che voltasse le spalle ad Hamilton. David, tutto eccitato, parlava fitto: stava calamitando l'attenzione della madre mostrandole una pietra dalla forma strana che aveva trovato scavando, e contemporaneamente indicando col dito qualcosa in distanza. La situazione era ideale; un'occasione come quella non gli sarebbe capitata una seconda volta.
«Resta pure qui,» disse dolcemente Hamilton a sua moglie. «E voltati, se non vuoi guardare.» Si liberò con decisione dalla sua stretta e la scostò da sé. «È anche per il tuo bene. Per te, per Laws, per Tontolone, per tutti noi. E anche per i sigari di McFeyffe.»
«Ti amo, Jack,» disse Marsha con un fremito nella voce.
«E ho fretta,» disse lui per tutta risposta. «Va bene?»
Lei annuì. «Va bene. Buona fortuna.»
«Grazie.» Mentre si avviava verso il luogo del picnic, aggiunse, «Sono contento che tu mi abbia perdonato per la storia di Silky.»
«E tu mi hai perdonato?»
«No,» rispose lui, cocciuto. «Ma forse lo farò quando la rivedrò di nuovo.»
«Spero che sia così,» disse Marsha con voce triste.
«Incrocia le dita.» Hamilton lasciò la moglie e si avviò a passo deciso lungo il terreno soffice, verso la schiena ricurva e informe di Edith Pritchet, che proprio in quel momento stava trangugiando un bicchiere di tè all'arancia. Nella mano sinistra stringeva mezzo uovo sodo. Appoggiato sulle ginocchia aveva un piatto di insalata di patate e pesche sciroppate.
Mentre Hamilton si avvicinava, piegandosi rapidamente verso il basso, la signorina Reiss si rivolse alla anziana signora. «Mi passerebbe lo zucchero, per favore?» le chiese con voce decisa.
«Ma certo, mia cara,» rispose educatamente la signora Pritchet, posando ciò che rimaneva del suo uovo sodo e frugando in cerca della busta dello zucchero. «Santo Dio,»
disse, arricciando il naso. «Che cos'è quest'odore terribile?»
Contemporaneamente il fazzoletto impregnato di cloroformio che Hamilton stringeva fra le mani tremanti scomparve. Anche la bottiglia che gli premeva contro un fianco cessò di essere un problema, svanendo nel nulla. La signora Pritchet allungò premurosamente la busta di zucchero verso la mano protesa della signorina Reiss e tornò al suo uovo sodo.
Era già finito tutto. Il piano era fallito: sommessamente, definitivamente fallito.
«Delizioso questo tè,» esclamò la signora Pritchet mentre Marsha si avvicinava a piccoli passi. «Devo farle le mie congratulazioni, mia cara. Lei è davvero un'ottima cuoca.»
«Be',» disse Hamilton, «eccoci qua.» Si accoccolò sul terreno, dandosi una rapida pulita alle mani, e osservò le pietanze. «Che cosa abbiamo qui?»
David lo fissò con gli occhi sgranati. «La bottiglia è scomparsa!» disse piagnucolando.
Poi, indicando la madre, «L'ha fatta sparire lei!»
Hamilton lo ignorò e cominciò a servirsi con generosità. «Credo che assaggerò un po' di tutto,» disse con entusiasmo. «Dev'essere tutto molto buono.»
«Faccia pure,» gorgheggiò la signora Pritchet con la bocca piena di uovo. «Provi uno di quei meravigliosi sandwich al sedano e formaggio. Sono davvero incredibili.»
«Grazie,» disse Hamilton. «Li provo subito.»
David Pritchet, isterico per la disperazione, puntò il dito contro la madre e strillò,
«Accidenti a te, vecchia ranocchia... l'hai preso tu, il cloroformio! L'hai fatto scomparire. E
adesso che facciamo»
«Sì, caro,» disse sbrigativa sua madre, «aveva un odore tremendo, e francamente non vedo a che cosa ti poteva servire. Perché non finisci di mangiare e poi vai a vedere quanti tipi di felce riesci a trovare?»
Con un tono di voce stranamente acuto, la signorina Reiss domandò, «Signora Pritchet, che cosa ha intenzione di fare con noi?»
«Dolcezza mia,» affermò la donna, mentre si serviva dell'altra insalata di patate. «Che razza di domanda è questa? Mangi, cara; lei è troppo magra, davvero, dovrebbe mettere su un po' di carne.»
Il gruppetto consumò meccanicamente il proprio pasto, ma l'unica che sembrò goderne veramente fu la signora Pritchet, che mangiò con grande piacere... e con grande generosità.
«C'è una gran pace quassù,» osservò a un certo punto. «Si sente solo il fruscio del vento in mezzo ai pini.»
In lontananza un piccolo aereo ronzava debolmente; era una pattuglia della Guardia Costiera in ricognizione lungo il litorale.
«Santo Cielo,» esclamò la signora Pritchet, sbattendo nervosamente le palpebre, «che sgradevole intruso.» L'aereo, e ogni altro componente della categoria aeroplano, cessarono di esistere.
«Ecco,» osservò Hamilton con ironico distacco. «Anche questa è fatta. A chi tocca la prossima volta?»
«All'umidità,» rispose lei con enfasi.
«Prego?»
«All'umidità.» La donna si agitò nervosamente sul cuscino. «La sento anche attraverso il cuscino. Mi da molto fastidio.»
«Lei è in grado di abolire anche un'astrazione?» le domandò la signorina Reiss.
«Ma certo, mia cara.» Il terreno sotto i loro piedi divenne caldo e secco come un toast.
«E poi il vento; è un po' troppo freddo, non vi pare?» Il vento si trasformò in una tiepida carezza. «Non è meglio adesso?»
Hamilton si sentì travolgere da un irrazionale senso di abbandono. Che gli rimaneva da perdere, ormai? Non era rimasto quasi più niente, avevano toccato il fondo. «Non le sembra che l'oceano abbia un colore disgustoso?» le chiese. «Io trovo che sia un brutto spettacolo.»
L'oceano perse il suo colore piombo cupo e divenne di un bel verde pastello.
«Così va molto meglio,» riuscì a dire Marsha, che poi si mise a sedere accanto al marito e gli strinse convulsamente la mano. «Caro...» cominciò a dire, ma senza convinzione.
Tenendola stretta a sé, Hamilton continuò, «Guardi quel gabbiano che volteggia laggiù.»
«Va a caccia di pesce,» puntualizzò la signorina Reiss.
«È un uccello malvagio,» dichiarò Hamilton. «Uccide pesci indifesi.»
Il gabbiano scomparve.
«Ma i pesci se lo meritano,» osservò pensierosa la signorina Reiss. «Fanno strage di piccoli animali marini, protozoi, esseri unicellulari.»
«Schifosi, spietati pesci,» disse Hamilton in tono eccitato.
Un debole crepitio sembrò smuovere l'aria. I pesci, come categoria, avevano cessato di esistere. Nel bel mezzo della coperta la scatoletta di aringhe affumicate scomparve.
«Oh, cielo,» esclamò Marsha. «Erano importate dalla Norvegia.»
«Devono essere costate un bel po',» borbottò McFeyffe con voce roca. «Tutta la merce importata costa cara.»
«Ma a che serve il denaro?» proseguì imperterrito Hamilton. Tirò fuori una manciata di spiccioli e la sparpagliò per il prato. Le monetine rimasero a scintillare nel sole del primo pomeriggio. «Robaccia.»
Le monetine luccicanti scomparvero. Il portafogli che teneva in tasca ebbe uno strano sussulto; erano svanite anche le banconote.
«Tutto questo è molto bello,» gorgheggiò la signora Pritchet. «Siete molto carini ad aiutarmi. Ogni tanto mi dimentico di qualche cosa.»
Lungo il pendio c'era una mucca che si trascinava lentamente. Mentre la guardavano, la mucca fece qualcosa di irriferibile. «Abolisca le mucche!» gridò la signorina Reiss, ma non fu necessario. Edith Pritchet non aveva gradito la scena, e la mucca non c'era più.
E anche la cinta dei pantaloni, notò Hamilton. E le scarpe di sua moglie. Tutte in pelle di vitello. E poi lo yogurt, il formaggio e tutti i derivati del latte.
Joan Reiss si piegò in avanti e strappò un ciuffo di piante urticanti, secche e malandate.
«Che brutte piante,» si lamentò. «Una mi ha lasciato il segno sulla mano.»
Le piante scomparvero, e così pure gran parte dell'erba secca nei campi in cui prima brucavano le mucche. Adesso si vedeva solo roccia e terreno sterile.
Mettendosi a girare in tondo, quasi preda di un attacco isterico, David strillò, «Ho trovato una quercia velenosa! Una quercia velenosa!»
«I boschi ne sono pieni,» aggiunse Hamilton. «E sono anche pieni di ortiche, e piante nocive.»
Sulla loro destra la foresta sembrò rabbrividire, e fu attraversata da una specie di spasmo appena avvertibile. La vegetazione si era notevolmente diradata.
Scura in volto, Marsha si tolse ciò che rimaneva delle sue scarpe: la striscia di stoffa e i chiodini metallici. «Non è triste?» disse al marito quasi piangendo. «Abolisca le scarpe,»
propose Hamilton. «Questa è proprio un'ottima idea,» convenne la signora Pritchet, gli occhi lucidi per l'entusiasmo. «Le scarpe rovinano i piedi.» I rimasugli scomparvero dalle mani di Marsha, insieme a tutte le scarpe del gruppo. I calzini sgargianti di McFeyffe risaltarono vistosamente; imbarazzato, lui raccolse i piedi sotto di sé, nascondendoli alla vista.
All'orizzonte si vedeva appena il fumo di un grosso piroscafo da carico. «Una volgarissima nave commerciale,» decise Hamilton. «La spazzi via.»
Il fumo nero svanì. Tutte le navi commerciali avevano cessato di esistere.
«Un mondo molto più pulito,» commentò la signorina Reiss.
Lungo l'autostrada stava passando una macchina, e si sentiva l'eco debolissima dell'autoradio. «Abolisca le autoradio,» propose Hamilton. Il rumore cessò. «E anche i televisori e i film.» Non avvenne alcun cambiamento visibile, ma l'evento si era ugualmente consumato. «E gli strumenti musicali più economici... le fisarmoniche, i banjo e le armoniche a bocca.»
Quegli strumenti scomparvero in tutto il mondo. «Le scritte pubblicitarie,» strillò Joan Reiss, mentre un grosso camion di forma ovale percorreva lentamente l'autostrada, con una vistosa insegna sui fianchi. «E anche i camion.» Il camion svanì, scaraventando il guidatore sulla cunetta di scolo a lato della strada.
«È ferito,» disse Marsha in un sussurro. Di lì a poco il povero camionista era scomparso anche lui.
«La benzina,» disse Hamilton. «È quella che il camion trasportava.»
La benzina scomparve in tutto il mondo.
«Petrolio e trementina,» propose la signorina Reiss.
«Birra, alcoJ e té,» aggiunse Hamilton.
«Melassa, miele e sidro,» incalzò Joan Reiss. «Mele, arance, limoni, albicocche e pere,»
suggerì stancamente Marsha.
«Uva passa e pesche,» borbottò McFeyffe, di malumore.
«Noci e patate dolci,» disse Hamilton. La signora Pritchet cancellò doverosamente tutti questi prodotti dalla faccia della terra. Le loro tazze di tè divennero vuote, e la provvista di cibarie diminuì visibilmente.
«Uova e hamburger,» disse la signorina Reiss con voce stridula, balzando in piedi.
«Formaggi, maniglie e appendiabiti,» aggiunse Hamilton, alzandosi anche lui.
Ridacchiando, la signora Pritchet eseguì. «Sul serio,» disse ansimando, ma felice come una bambina. «Non è che stiamo un poco esagerando?»
«Cipolle, tostapane elettrici e spazzolini da denti,» disse Marsha con voce chiara.
«Zolfo, matite, pomodori e farina,» salmodiò David, aggiungendosi al coro.
«Erbe, automobili e aratri,» strillò la signorina Reiss. Alle loro spalle la Ford coupé svanì senza rumore. Sulle alture e sui pendii del parco di Big Sur la vegetazione si assottigliò ulteriormente.
«Marciapiedi,» suggerì Hamilton.
«Fontanelle e sveglie,» aggiunse Marsha.
«Lucido per mobili,» gridò David, saltando come un | forsennato.
«Spazzole per capelli,» disse Joan Reiss.
«Fumetti,» citò McFeyffe. «E tutta quella pasticceria zuccherosa con le scritte sopra.
Quella robaccia francese.»
«Sedie,» disse Hamilton, stupito dal suo ardire. «E divani.»
«I divani sono immorali,» convenne la signorina Reiss, inciampando sul thermos per l'eccitazione. «Via anche quelli. E il vetro. Tutti gli oggetti di vetro.»
La signora Pritchet fu costretta ad abolire i suoi stessi occhiali, nonché tutti gli occhiali dell'universo.
«Il metallo,» gridò Hamilton con voce fiacca, stupita.
La chiusura lampo dei suoi pantaloni scomparve, così come ciò che rimaneva del thermos, un involucro metallico; sparirono anche il piccolo orologio da polso di Marsha, le impiombature dei denti, i gancetti e gli uncini della biancheria intima femminile.
David fu colto da un raptus incontrollabile. «I vestiti!» esclamò, sempre continuando a saltellare.
Tutti si ritrovarono all'istante completamente nudi. Ma la cosa non scandalizzò nessuno; il loro sesso e ogni caratteristica a esso collegata erano svaniti da tempo.
«La vegetazione,» disse Marsha, alzandosi in piedi impaurita e rifugiandosi fra le braccia del marito. Questa volta il cambiamento fu stupefacente. Le colline e tutta l'enorme distesa di montagne divennero glabre come un sasso levigato. Non rimase nulla se non la terra d'autunno, bruna e arida sotto il pallido sole.
«Le nuvole,» disse la signorina Reiss, stravolta in viso. Le poche nuvolette bianche che fluttuavano nel cielo sparirono. «E la nebbia!» Subito il sole cominciò a risplendere furiosamente.
«Gli oceani,» disse Hamilton. La distesa color verde pastello svanì all'improvviso, lasciando solo un enorme pozzo di sabbia asciutta che si stendeva a perdita d'occhio.
Spaventato, lui ebbe un attimo di esitazione, lasciando a Joan Reiss il tempo di gridare,
«La sabbia!»
Il gigantesco pozzo divenne più profondo; non era neanche possibile vedere dove finiva.
Un ruggito sordo e minaccioso scosse il terreno sotto di loro; era stato intaccato l'equilibrio terrestre.
«Presto,» rantolò la signorina Reiss, il volto deformato dall'eccitazione. «Che altro c'è?
Che manca?»
«Le città,» suggerì David.
Hamilton lo allontanò con impazienza. «I burroni,» disse quasi in un ruggito. Tutto a un tratto si ritrovarono su un terreno perfettamente piatto, come se ci fosse passato sopra un enorme ferro da stiro. Sei pallide figure nude, di peso e dimensioni assortite, che si guardavano intorno febbrilmente.
«Tutti gli animali tranne l'uomo,» rantolò la signorina Reiss, ormai senza fiato. Era fatta.
«Tutte le forme di vita tranne l'uomo,» la corresse Hamilton.
«Gli acidi!» strillò la signorina Reiss e le gambe le cedettero ali 'istante, mentre il viso diventava una maschera di dolore. Tutti e sei si contorsero in un'estasi di sconforto; la chimica fondamentale del corpo era stata radicalmente alterata.
«Sali metallici!» urlò Hamilton, e furono travolti da un lancinante dolore interno.
«Nitrati specifici!» aggiunse la signorina Reiss con voce stridula.
«Fosforo!»
«Cloruro di sodio!»
«Iodio!»
«Calcio!» Joan Reiss si accasciò sui gomiti, quasi priva di conoscenza; tutti gli altri erano crollati a terra, vittime rattrappite di una sofferenza impotente. Il corpo rigonfio e palpitante di Edith Pritchet si contorceva fra spasimi atroci; la saliva le gocciolava dalle labbra pendule mentre si sforzava ancora di concentrarsi sulle categorie di cose da eliminare.
«Elio!» gracchiò Hamilton.
«Anidride carbonica!»
«Neon,» riuscì a dire Hamilton. Tutto girava vorticosamente e perdeva consistenza intorno a lui; stava precipitando in un caos di infinita, totale oscurità. «Freon. Gleon.»
«Idrogeno,» esalarono le labbra esangui della signorina Reiss dal buio che la stava travolgendo.
«Azoto,» boccheggiò Hamilton con l'ultimo fiato che aveva, appena prima che il vortice del non essere si richiudesse su di lui.
In un ultimo, debole rigurgito di energia, Joan Reiss si sollevò sulle braccia e disse in un sussurro, «Aria!»
Tutti gli strati dell'atmosfera cessarono di esistere. Con i polmoni completamente vuoti, Hamilton precipitò in un abisso indistinto di morte. Mentre l'universo intero veniva meno, lui vide la forma inerte di Edith Pritchet allontanarsi rotolando in uno spasmo riflesso: la sua coscienza e la sua personalità erano svanite.
Avevano vinto; quella donna non aveva più alcun potere su di loro. Se n'erano liberati e adesso erano finalmente e dolorosamente liberi.
Lui era vivo. Giaceva steso a terra, troppo svuotato di energia per muoversi, con il petto che saliva e scendeva e le dita che artigliavano il suolo. Ma dove diavolo si trovava?
Con uno sforzo tremendo riuscì ad aprire gli occhi.
Non era più nel mondo della signora Pritchet. Attorno a lui l'oscurità sembrava picchiare e pulsare con ritmo sordo e cadenzato, come una specie di sgradevole corrente sotterranea che cresceva, si dilatava e premeva minacciosamente su di lui. Si rese conto confusamente della presenza di altre forme, di altri corpi sparpagliati intorno a lui.
Marsha giaceva non lontana, inerte e silenziosa. Al di là di lei s'era la sagoma corpulenta di Charley McFeyffe, con la bocca aperta e gli occhi spalancati nel nulla. Nel turbinio dell'oscurità pulsante distinse vagamente Arthur Silvester, David Pritchet, la figura scomposta di Bill Laws, e l'enorme corpo sgraziato di Edith Pritchet, ancora privo di conoscenza.
Si trovavano di nuovo nel bevatrone? Provò un fremito fuggevole di gioia eccitata... che però svanì subito. No, quello non era il bevatrone. Nella sua gola si formò pian piano un gemito gorgogliante che cercò di farsi strada fino alla bocca. Fiaccamente, disperatamente, lottò per strisciare via da quella cosa che incombeva su di lui, l'involucro liscio e sottile della vita che si stava lentamente piegando su se stesso, fino a quando non gli fu sopra, quasi a schiacciarlo.
Nel suo orecchio prese forma un bisbiglio secco e metallico. Percorso da una vibrazione soffocata, il suono tambureggiava e si riverberava con insistenza, tornando a ondate successive finché lui non smise di urlare, o di tentare di urlare, nell'inutile sforzo di soffocarlo, di cacciarlo via.
«Grazie,» rantolò la voce metallica. «Hai svolto molto bene il tuo compito. È successo tutto proprio come avevo programmato.»
«Vattene via!» gridò lui in tono stridulo.
«Me ne andrò,» promise la voce. «Ma voglio che ti alzi e torni alle tue cose. Voglio guardarvi. Siete tutti molto interessanti. Vi ho tenuto d'occhio a lungo, ma non come avrei voluto. Voglio osservarvi più da vicino, ogni minuto; voglio vedere tutto quello che fate.
Voglio essere intorno a voi, dentro di voi, in modo da potervi raggiungere ogni volta che ne sentirò il bisogno. Voglio riuscire a toccarvi, voglio poter fare delle cose con voi. Voglio vedere come reagite. Voglio... voglio...»
In quel momento seppe dove si trovava, e a chi apparteneva quel mondo. Riconobbe il sussurro pacato, metallico che gli martellava incessantemente nelle orecchie e nel cervello.
Era la voce di Joan Reiss.
13
«Grazie al cielo,» stava dicendo una voce, lentamente e metodicamente. Una voce femminile, vivace e decisa.
I gorghi di oscurità si erano dissolti. Da ogni parte si stagliava l'immagine familiare della foresta e dell'oceano; la distesa verde del parco di Big Sur e la minuscola striscia dell'autostrada ai piedi di Cone Peak erano ritornati alla vita.
Il cielo in alto era quello del primo pomeriggio, limpido e azzurro, e i papaveri dorati della California erano punteggiati da scintillanti goccioline di umidità. C'era ancora la coperta per il picnic, le bottiglie, i piatti, i bicchieri e tutto il resto. Sulla destra di Hamilton c'era il boschetto di sempreverdi. La Ford coupé, ancora parcheggiata all'estremità del prato, risplendeva ai raggi del sole con un luccichio metallico ma amichevole.
Un gabbiano si librava nella nebbiolina che si stava formando all'orizzonte. Un camion a motore diesel transitava rombando lungo l'autostrada emettendo nuvolette di fumo nero.
A metà del pendio erboso uno scoiattolo zigzagò in mezzo ai cespugli diretto verso la sua tana sotterranea.
Anche gli altri stavano cominciando a muoversi. Erano sette in tutto: Bill Laws doveva essere dalle parti di San José, a piangere la scomparsa della sua fabbrica di saponette.
Hamilton riuscì faticosamente a mettere a fuoco l'immagine di sua moglie; Marsha si era messa in ginocchio e lo fissava con espressione vuota. Poco lontana, Edith Pritchet non aveva ancora ripreso conoscenza; più in là Arthur Silvester e David Pritchet, mentre Charley McFeyffe, dall'altra parte della coperta, si agitava appena.
Accanto ad Hamilton c'era la figura magra e austera di Joan Reiss, che stava raccogliendo con meticolosa precisione il contenuto della sua borsa e gli occhiali; poi si sistemò la crocchia di capelli, fissandolo con uno sguardo inespressivo.
«Grazie al cielo,» ripeté la donna, rimettendosi in piedi non senza sforzo. «È finita.»
Era la sua voce che lo aveva risvegliato. McFeyffe, che non si era ancora rialzato, la fissò con l'aria imbambolata di chi era ancora sotto shock. «È finita,» ripete, ma senza avere capito davvero.
«Siamo tornati nel mondo reale,» disse la signorina Reiss con un tono molto sicuro.
«Non è meraviglioso?» Poi, rivolta alla grossa figura immobile accasciata nell'erba umida accanto a lei, aggiunse, «Si alzi, signora Pritchet. Ormai non ha più nessun potere su di noi.» Si chinò e diede un pizzico sul braccio rigonfio della donna. «Tutto è tornato com'era prima.»
«Grazie a Dio,» farfugliò penosamente Arthur Silvester mentre si sforzava di rimettersi in piedi. «Oddio, quella orrenda voce.»
«È finita davvero?» ansimò Marsha, gli occhi scuri che esprimevano nello stesso tempo incertezza e sollievo. Rabbrividì e si drizzò in piedi anche lei, barcollando un poco. «Quello spaventoso incubo alla fine... mi è bastato viverlo solo di sfuggita...»
«Che cos'era?» chiese implorante David Pritchet, che ancora tremava tutto per lo spavento. «Quel posto, e quella voce che ci parlava...»
«È finita,» intervenne debolmente McFeyffe. «Siamo al sicuro,» aggiunse poi con il tono di chi non è convinto, ma vuole convincersi a tutti i costi.
«L'aiuto io, signor Hamilton,» si offrì la signorina Reiss avvicinandosi a lui. Protese la mano ossuta e rimase lì con un sorriso smorto dipinto sul viso. «Come ci si sente a tornare nel mondo reale?»
Lui non poté rispondere. Riuscì solo a rimanere a terra, pietrificato dall'orrore.
«Suvvia,» disse con calma Joan Reiss. «Prima o poi dovrà alzarsi.» Indicò la Ford e spiegò, «Voglio che ci riporti a Belmont. Prima torniamo a casa sani e salvi, meglio sarà.»
Impassibile, senza la minima traccia di emozione, aggiunse, «Voglio rivedervi tutti come eravate, nei luoghi che vi appartengono. Fino ad allora non potrò ritenermi soddisfatta.»
La sua guida, come tutto il resto, fu meccanica, rigida, una cosa fatta di riflesso, senza realmente volerlo. Davanti a loro si stendeva l'autostrada, liscia e rettilinea in mezzo alle colline grigie. Ogni tanto qualche macchina li sorpassava; si stavano avvicinando alla superstrada per Bayshore.
«Non ci vorrà molto,» disse la signorina Reiss, già pregustando il ritorno a casa. «Siamo quasi arrivati a Belmont.»
«Mi stia a sentire,» disse Hamilton con voce strozzata. «La smetta di fingere; la smetta di giocare sadicamente con noi.»
«Ma di che gioco sta parlando?» gli chiese dolcemente la donna. «Non la seguo, signor Hamilton.»
«Non siamo tornati nel mondo reale. Siamo nel suo mondo, nel suo mondo paranoico, nevrotico...»
«Ma io ho creato il mondo per voi,» disse con semplicità la signorina Reiss. «Non vedete? Guardatevi intorno. Non ho fatto un buon lavoro? Era già tutto programmato da molto tempo. Troverete ogni cosa esattamente come deve essere, non ho trascurato niente.»
Le dita di Hamilton strinsero il volante con tanta forza da diventare bianche. «Stava aspettando?» le domandò. «Sapeva che dopo la signora Pritchet sarebbe toccato a lei?»
«Ma certo.» Pacatamente, tenendo a freno l'orgoglio, la signorina Reiss spiegò, «Lei non ha usato la testa, signor Hamilton, tutto qui. Si ricorda perché Arthur Silvester fu il primo di noi a prendere il controllo? Perché non aveva mai perso conoscenza. E perché dopo di lui è subentrata la signora Pritchet?»
«Si stava muovendo,» disse Marsha, atterrita. «Sul pavimento del bevatrone. Io... noi potevamo vederla, la notte, quando sognavamo.»
«Avrebbe dovuto porre maggiore attenzione ai suoi sogni, signora Hamilton,» osservò Joan Reiss. «Così avrebbe visto quello che succedeva, e si sarebbe accorta che la più vicina a riprendere i sensi ero io.»
«E dopo di lei?» chiese Hamilton. ? «Non ha nessuna importanza, signor Hamilton, perché io sono l'ultima. Siete tornati indietro... e siete arrivati alla fine del viaggio. Ecco il vostro piccolo mondo, non è delizioso? Ed è tutto vostro. Per questo l'ho creato così, perché le cose fossero come voi le avete sempre volute. Troverete ogni cosa intatta...
spero che comincerete a vivere come vivevate prima.»
«Io credo,» obbiettò subito Marsha, «che dovremo farlo per forza. Non abbiamo altra scelta.»
«Perché non ci lascia andare?» chiese inutilmente McFeyffe.
«Non posso lasciarvi andare, signor McFeyffe,» rispose la signorina Reiss. «Dovrei smettere di esistere, per farlo.»
«Non esattamente,» precisò McFeyffe in tono ansioso, masticando le parole. «Potrebbe lasciare che le facessimo qualcosa. Il cloroformio, per esempio... oppure potremmo farle perdere i sensi, Solo per...»
«Signor McFeyffe,» lo interruppe con calma Joan Reiss, «Ho lavorato a lungo su questo progetto. L'ho programmato nei minimi particolari fin dal giorno dell'incidente, da quando mi sono resa conto che prima o poi sarebbe toccato anche a me. Sarebbe stato un peccato non approfittarne, non crede? Magari un'occasione così non ci capiterà più... No, questa era un'opportunità da non lasciarsi sfuggire. Troppo preziosa.»
Dopo un po' David Pritchet indicò col dito. «Ecco Belmont.»
«Sarà bello tornare a casa,» disse la signora Pritchet con voce tremula e incerta.
«Belmont è una città così carina.»
Seguendo le direttive della signorina Reiss, Hamilton li accompagnò uno dopo l'altro alle rispettive abitazioni. Gli ultimi ad arrivarci furono, naturalmente, lui e Marsha. Prima ancora, quando giunsero davanti alla casa di Joan Reiss rimasero seduti in macchina mentre la donna raccoglieva le sue cose e scendeva sul marciapiede.
«Adesso andatevene a casa,» disse loro la donna in tono premuroso, «fatevi un bel bagno caldo e vedrete che dopo apprezzerete il letto più di ogni altra cosa al mondo.»
«Grazie,» disse Marsha, quasi senza fiato.
«Cercate di rilassarvi e divertitevi,» li istruì la signorina Reiss. «E vi prego, cercate di dimenticare tutte le cose che sono accadute. Ormai sono acqua passata. Ricordatevelo sempre.»
«Sì,» annuì Marsha, rispondendo meccanicamente a quel tono asettico, spassionato, da maestra di scuola. «Ce ne ricorderemo.»
Mentre attraversava il marciapiede diretta verso casa, la signorina Reiss esitò un attimo.
Con il lungo soprabito di velluto a coste che le dondolava addosso, aveva un aspetto tutt'altro che autoritario. Carica com'era dei suoi effetti personali, borsa, guanti e una copia del New Yorker che aveva acquistato in un supermercato, sembrava piuttosto una normalissima segretaria che tornasse a casa dopo una giornata di lavoro in ufficio. Il vento freddo della sera le scompigliava i capelli color sabbia. Dietro gli occhiali con la montatura di corno, gli occhi ingranditi e distorti erano fissi sui due rimasti in macchina.
«Forse fra qualche giorno verrò a farvi una visita,» disse, quasi per metterli alla prova.
«Potremmo passare insieme una bella serata, seduti a chiacchierare.»
«Sarebbe... sarebbe bello,» disse Marsha con voce bassa e poco convinta. «Jack, andiamo a casa. Ti prego, portami a casa.»
Lui lo fece il più rapidamente possibile. Imboccò il vialetto in tutta fretta, tirò il freno a mano con uno strattone, spense il motore e spalancò rabbiosamente lo sportello con un calcio.
«Eccoci arrivati,» disse a sua moglie. Marsha era seduta immobile accanto a lui, pallida e fredda come una statua di cera. Lui passò dall'altra parte, la tirò dolcemente, ma con decisione, e quando fu uscita la prese in braccio e la portò di peso fino al portico anteriore.
«Comunque,» disse Marsha, ancora scossa e tremante, «Tontolone ci sarà di nuovo. E
anche il sesso. Tutto tornerà a essere come prima, non credi? Forse ci andrà bene lo stesso.»
Lui non disse nulla, concentrato com'era a trovare la chiave per aprire la porta di casa.
«Vuole dominarci,» proseguì Marsha. «ma in fondo che importa? Abbiamo il nostro mondo; lo ha creato lei apposta per noi. A me sembra identico a prima, tu vedi qualche differenza? Jack, per l'amor di Dio, di’ qualcosa.»
Hamilton spinse la porta con la spalla e accese la luce del soggiorno.
«Siamo a casa,» disse Marsha, guardandosi intorno con circospezione mentre lui la rimetteva giù senza tanti complimenti.
«Sì, siamo a casa.» Hamilton si sbatté la porta alle spalle.
«È sempre lei, no? Esattamente come era prima che... incominciasse tutta questa storia.» Mentre cominciava a sbottonarsi il soprabito, Marsha si mise a camminare per il soggiorno esaminando le tende, i libri, le stampe alle pareti, gli arredi. «Sembra a posto, no? Che sollievo... non manca niente, mi pare. Non ci sono più serpenti o cavallette che piovono dal cielo, non c'è più nessuno che abolisce le categorie... non sei contento?»
«Fantastico,» disse acido Hamilton.
«Jack.» Gli si avvicinò lentamente, il soprabito sul braccio. «Io non credo che dobbiamo preoccuparci di lei; non è come la signora Pritchet, è più intelligente. È molto più avanti di noi.»
«Un milione di anni più avanti,» convenne lui. «Ha programmato tutto. Ha pensato, riflettuto, organizzato e progettato ogni cosa... aspettando solo che le capitasse l'occasione di assumere il controllo.» Nella sua tasca c'era un oggetto duro e rotondo; lo prese e lo scagliò con rabbia contro la parete opposta. La bottiglietta vuota di cloroformio rimbalzò sul tappeto, rotolò via e rimase immobile in un angolo, intatta.
«È tutto inutile,» disse poi. «Tanto vale che ci arrendiamo subito. Questa volta abbiamo proprio le mani legate.»
Marsha prese un attaccapanni nel ripostiglio e vi appese il soprabito. «Mi sa che Bill Laws non la prenderà troppo bene.»
«Avrà voglia di uccidermi.»
«No,» ribatté sua moglie. «Non è colpa tua.»
«Come farò a guardarlo negli occhi? Come farò a guardare chiunque di voi, negli occhi?
Voi ci stavate bene, nel mondo di Edith Pritchet, e io vi ho portato qui... mi sono fatto abbindolare dall'idea di quella psicotica.»
«Non ti preoccupare, Jack. Tanto non serve proprio a niente.»
«È vero,» riconobbe lui. «Non serve a niente.» «Vado a preparare del caffè.» Giunta sulla porta della cucina, si voltò e gli chiese, «Ci vuoi del brandy, dentro?»
«Certo. Puoi giurarci.»
Con un sorriso poco convinto, Marsha scomparve in cucina, e per qualche attimo vi fu silenzio. Poi la donna cominciò a urlare. Hamilton scattò in piedi e si precipitò verso la cucina. All'inizio non notò nulla di particolare; Marsha, appoggiata al tavolo, gli nascondeva in parte la vista.
Fu mentre si dirigeva verso di lei per sorreggerla che vide. L'immagine si impresse nel suo cervello, poi scomparve quando lui chiuse gli occhi e allontanò Marsha da quella scena. Le mise una mano sulla bocca per soffocare le sue urla isteriche, e si sforzò di non imitarla, tentò con tutte le sue forze di tenere a freno le proprie emozioni.
Alla signorina Reiss non erano mai piaciuti i gatti. Ne aveva paura, e li considerava dei nemici.
La cosa sul pavimento era Tontolone. Era stato rovesciato come un calzino, ma era ancora vivo; quella massa aggrovigliata era un organismo ancora vitate. C'era la mano della signorina Reiss; limitarsi a eliminare i gatti sarebbe stato per lei troppo semplice.
Fremendo e palpitando, la cosa umida e molliccia di ossa e tessuti si trascinava alla cieca sul pavimento. Probabilmente si muoveva in quel modo, un passo alla volta, da un bel po' di tempo, fin da quando era nato il mondo della signorina Reiss. La massa grottesca, in tre o quattro ore, aveva continuato ad avanzare con una specie dì movimento peristaltico, proprio in mezzo alla cucina.
«Non è possibile,» gemette Marsha. «Non può essere vivo!»
Hamilton prese una paletta dal cortile posteriore, raccolse quella roba informe e la portò fuori. Pregando che potesse morire riempì d'acqua un catino metallico e vi gettò dentro la massa tremolante di organi, ossa e tessuti. Per un po' quello che era stato un gatto si dimenò, tentando di nuotare e di mantenersi a galla, aggrappandosi in qualche modo al bordo e tentando anche di uscire. Poi, gradualmente, con un sussulto finale, la cosa morì e affondò.
Hamilton ne bruciò gli avanzi, scavò in tutta fretta una buca nel terreno e la seppellì. Poi si lavò le mani, ripose il catino e tornò in casa. C'erano voluti solo pochi minuti... ma gli era sembrata un'eternità.
Marsha si era seduta quietamente sul divano, le mani serrate, e fissava il vuoto davanti a lei. Quando lui entrò nella stanza non lo vide nemmeno. «Tesoro,» le disse Hamilton.
«È finita?»
«Sì. È morto. E dobbiamo esserne contenti. Adesso non gli potrà fare più niente.»
«Lo invidio. Con noi non ha ancora nemmeno cominciato.»
«Però odia i gatti, non odia noi.» Marsha si girò appena. «Ti ricordi quello che le hai detto quella sera? L'hai spaventata a morte. E di certo lei non se ne è dimenticata.»
«Già,» ammise lui. «Probabilmente è così. Probabilmente non dimentica nulla.» Tornò in cucina e cominciò a preparare il caffè. Lo stava versando nelle tazze quando lo raggiunse di soppiatto Marsha, che prese la panna e lo zucchero.
«Be',» disse lei. «Ecco la risposta che aspettavamo.»
«A quale domanda?»
«Alla domanda se possiamo sopravvivere a questo mondo. La risposta è no. Anzi, peggio che no.»
«Non c'è niente di peggio di un no,» osservò lui, ma con un tono che alle sue stesse orecchie suonò assai poco convinto.
«È pazza, vero?»
«Sembra di sì. È una paranoica con manie di persecuzione e di cospirazione. Tutto ciò che vede ha un significato, per lei: è parte del complotto ordito ai suoi danni.»
«E adesso,» disse Marsha, «non dovrà più preoccuparsi. Perché per la prima volta nella sua vita lei è in grado di opporsi con successo.»
Mentre sorseggiava il caffè nero bollente, Hamilton disse, «Secondo me lei è davvero convinta che questo mondo sia una replica di quello reale. O quanto meno del suo mondo reale. Buon Dio, il suo mondo reale dev'essere lontanissimo dalle fantasie di chiunque di noi...» Tacque per un attimo, poi concluse, «Guarda in che modo ha trasformato quel povero gatto. Probabilmente lei immagina che noi le faremmo una cosa del genere e che le cose vadano sempre ', così.»
Hamilton si alzò in piedi e andò ad abbassare tutte le tapparelle. Era già sera, e il sole era scomparso da un bel po'. Le strade erano buie e fredde.
Poi andò al cassetto della scrivania e prese la sua 45 automatica, cominciando a infilare le pallottole nel caricatore. Solo perché domina questo mondo,» disse alla moglie che lo guardava preoccupata, «non significa che sia onnipotente.»
Si infilò l'arma nella tasca interna della giacca, provocando un rigonfiamento vistoso.
Marsha sorrise stancamente. «Hai l'aria di un killer.»
«Invece sono un investigatore privato.»
«E dov'è la tua formosa segretaria?»
«Sei tu,» rispose Hamilton, ricambiandole il sorriso.
Marsha alzò volutamente le mani. «Non so se ti sei accorto che sono tornata anch'io,»
gli disse, non senza malizia.
«Me ne sono accorto.»
«È tutto a posto?»
«Ti sopporterò, in ricordo dei vecchi tempi.»
«Che strana cosa... mi sento quasi volgare. Come dire, poco ascetica.» Lo baciò sulle labbra e gli ondeggiò attorno. «Non pensi che mi ci riabituerò? Però c'è qualcosa che mi turba... devo essere ancora sotto l'influenza di Edith Pritchet.»
«Quella è roba passata,» disse Hamilton in tono ironico. «Adesso è tutta un'altra musica.»
Nel suo schivo compiacimento, Marsha scelse di non replicare. «Andiamo di sotto, Jack, nella sala d'ascolto. Possiamo... be', mettiamo su un po' di musica e ci rilassiamo.» Gli si avvicinò e lo strinse con le piccole braccia. «Lo facciamo? Ti prego.»
Hamilton si ritrasse bruscamente. «Un'altra volta.»
Marsha, sorpresa e dispiaciuta, ci rimase male. «Cosa c'è che non va?»
«Non ti ricordi?»
«Oh,» annuì. «La ragazza, quella cameriera. È scomparsa, vero? Mentre voi due ve ne stavate laggiù.»
«Non era una cameriera.»
«Immagino di no.» Marsha si illuminò. «Comunque, adesso è tornata anche lei, perciò è tutto a posto, no? E poi...» Lo guardò dritto negli occhi, speranzosa. «Non mi importa niente di lei. Io ho capito.»
Hamilton non sapeva se infastidirsi o esserne contento. «Hai capito che cosa?»
«Come ti sentivi. Insomma, lei era solo un pretesto, uno strumento attraverso il quale tu potessi affermare te stesso. Stavi solo protestando.»
Lui la cinse con le braccia e la avvicinò a sé. «Sei una donna dalla mente incredibilmente aperta.»
«Mi piace guardare le cose in modo moderno,» replicò lei, decisa.
«Mi fa piacere sentirlo.»
Marsha si liberò e gli prese il colletto della camicia. «Dai,» gli disse, civettuola.
«Andiamo giù. Sono mesi che non metti un disco per me... una volta lo facevi sempre.
Quando voi due siete scesi laggiù mi sono sentita morire di gelosia. Mi piacerebbe ascoltare uno dei nostri pezzi preferiti.»
«Vuoi dire Ciaikovskij? È a lui che ti riferisci quando parli dei "nostri pezzi preferiti".»
«Vai ad accendere le luci e il riscaldamento. Sistema tutto per bene, crea un po' di atmosfera. Quando scendo voglio trovare tutto a posto.»
Lui si piegò in avanti e la baciò sulla bocca. «Troverai un erotismo che farà scintille.»
Marsha arricciò il naso. «Tutti uguali, voi scienziati.»
Le scale erano buie e fredde. Hamilton scese a tastoni nell'oscurità, un gradino dopo l'altro. Gli era tornata un po' di fiducia, frutto dei quei preliminari amorosi che conosceva così bene. Canticchiando a bocca chiusa continuò a scendere verso l'abisso tenebroso della cantina, muovendosi tuttavia con la disinvoltura che aveva acquisito negli anni...
Qualcosa di viscido e repellente gli sfiorò la gamba e vi si attaccò. Una specie di grossa fune appiccicaticcia, che trasudava una sostanza umida e vischiosa. Scalciò con violenza per liberarsi e sotto di lui, in fondo alle scale, un essere grosso e peloso sgattaiolò attraverso la sala di ascolto, rimanendo immobile.
Senza muovere il corpo, Hamilton allungò la mano sulla parete della scala in cerca dell'interruttore, finché non lo sentì con le dita; lo azionò con un gesto repentino e si ritrasse immediatamente. La luce si accese: un tremolante bagliore giallastro, una chiazza sbiadita in mezzo all'oscurità.
Proprio in fondo alle scale c'era un grossolano ammasso di filamenti, alcuni spezzati, altri legati insieme a formare un informe gomitolo grigio. Una ragnatela, un lavoro di filatura rozzo e approssimativo, fatto in tutta fretta, senza armonia, da qualcosa di immenso, animalesco, accovacciato nel buio. I gradini sotto i suoi piedi erano cosparsi di uno strato di polvere, e il soffitto era segnato da righe di sporcizia, come se il ragno, o quello che era, avesse strisciato dappertutto, esplorando ogni più remoto angolo e ogni più piccola crepa.
Svuotato di ogni energia, Hamilton si accasciò sul gradino. Adesso poteva sentirla, sotto di lui, che lo aspettava nella sala di ascolto, nella fetida oscurità. Urtando nella sua ragnatela ancora incompleta l'aveva spaventata. La ragnatela non era abbastanza robusta da trattenerlo, e lui poteva ancora muoversi, e liberarsi.
Lo fece, con lacerante lentezza, scuotendo il meno possibile la tela. I filamenti si staccarono e la sua gamba fu libera. I pantaloni erano impregnati di una densa bava gommosa, come se gli fosse passata sopra una lumaca gigantesca. Hamilton si aggrappò alla ringhiera e cominciò a risalire.
Aveva fatto appena due gradini quando le sue gambe, di loro stessa volontà, si rifiutarono di portarlo oltre. Il suo corpo comprendeva ciò che la sua mente non voleva accettare. Stava scendendo di nuovo, sempre più giù, verso la sala di ascolto.
Impietrito, terrorizzato, girò su se stesso e provò a lanciarsi freneticamente verso l'alto, ma quella cosa mostruosa, quell'incubo a occhi aperti, si ripeté. Tornò a scendere verso le tenebre, verso quel luogo sporco e degradato. Era in trappola.
Mentre se ne stava accucciato a subire il fascino ipnotico dei pochi gradini che lo separavano dalla sua fine, sopra di lui vi fu un rumore. In cima alle scale era apparsa sua moglie.
«Jack?» lo chiamò con voce esitante.
«Non scendere,» le ringhiò, girando appena la testa, fino a distinguere confusamente la sagoma del corpo di lei che si stagliava contro la luce. «Stai lontana dalle scale.»
«Ma...»
«Resta dove sei.» Respirando pesantemente, rimase inchiodato a quel gradino, le dita ben strette alla ringhiera, tentando di recuperare la lucidità mentale. Doveva muoversi lentamente; doveva evitare di alzarsi di scatto e precipitarsi avventatamente verso il rettangolo luminoso sopra di lui, e verso la dolce immagine di sua moglie.
«Dimmi che succede,» disse lei, cocciuta.
«Non posso.»
«Dimmelo, o vengo giù.» Aveva intenzione di farlo, lo capì dal tono della voce.
«Tesoro,» gracchiò Hamilton, «a quanto pare non riesco a risalire.»
«Ti sei fatto male? Sei caduto?»
«Non mi sono fatto male. È successo qualcosa. Quando tento di salire...» Respirò a fondo, scosso da un brivido. «Mi ritrovo a scendere.»
«Posso... posso fare qualcosa? Non puoi girarti verso di me? Perché mi volti la schiena?»
Hamilton rise istericamente. «Ma certo che mi giro verso di te.» Si afferrò alla ringhiera e fece un lentissimo dietro-front... ma non cambiò niente; il suo sguardo era sempre rivolto verso quel pozzo minaccioso di polvere e ombre.
«Ti prego,» lo implorò Marsha. «Per favore, voltati e guardami.»
Lui fu colto da un accesso di rabbia... una furia impotente che non riusciva a esprimere.
Con una imprecazione soffocata si alzò in piedi. «Al diavolo,» sbottò. «Al diavolo tutto.»
Da molto lontano giunse il suono del campanello.
«C'è qualcuno alla porta,» disse Marsha freneticamente.
«E allora vai ad aprire.» Ormai non era più preoccupato; si era arreso.
Per un attimo Marsha esitò, poi si girò di scatto facendo ondeggiare la gonna e corse via. La luce gli piovve addosso con violenza, proiettando per le scale un'ombra lunga e minacciosa. La sua stessa ombra, immensa e sproporzionata.
«Santo Dio,» giunse una voce maschile. «Che cosa ci fa laggiù, Jack?»
Hamilton sbirciò da sopra la spalla e vide la sagoma torva e dinoccolata di Bill Laws. «Mi aiuti,» disse Hamilton sommessamente.
«Subito.» Laws si girò prontamente verso Marsha, che lo aveva raggiunto. «Rimanga quassù,» le ordinò. «Si regga a qualcosa in modo da non cadere.» La prese per la mano e le assicurò le dita a una sporgenza del muro. «Ce la fa a resistere?»
Marsha annuì con un cenno del capo. «Credo... di sì.»
Laws strinse l'altra mano della donna e cominciò a scendere con cautela lungo le scale, un gradino dopo l'altro; si portò quanto più in basso gli fu possibile, sempre aggrappato alla mano di Marsha, e si piegò sulle ginocchia, allungando una mano verso Hamilton.
«Ci arriva, alla mia mano?» gli chiese in una specie di grugnito.
Hamilton, senza girare la testa, protese il braccio all'indietro e lo allungò quanto poteva.
Non riusciva a vedere Bill Laws, ma ne avvertiva la presenza, sentiva il suo respiro ansimante e accelerato mentre, appollaiato qualche gradino più in alto, cercava di afferrargli le dita protese.
«Niente da fare,» disse Bill Laws, senza perdere la calma. «Siamo ancora troppo lontani.»
Rassegnato, Hamilton ritirò il braccio indolenzito e si risistemò sul suo scalino.
«Non si muova da lì,» gli disse Laws. «Torno subito.» Risalì rumorosamente la scala fino alla porta illuminata, prese Marsha e si allontanò con lei.
Quando tornò, con lui c'era David Pritchet.
«Stringi forte la mano della signora Hamilton,» gli disse. «Niente domande; fai solo quello che ti dico.»
Marsha tornò ad aggrapparsi alla sporgenza del muro in cima alle scale e afferrò la piccola mano del ragazzo. Laws e David scesero insieme fin dove era possibile, poi il negro prese l'altra mano del compagno e proseguì da solo.
«Sto arrivando,» borbottò. «È pronto, Jack?»
Hamilton si afferrò alla ringhiera e protese l'altra mano dietro di lui, alla cieca. Adesso il respiro affannoso di Laws era più vicino, e lui sentiva le scale vibrare sotto i passi dell'altro. Quindi, come per miracolo, la mano robusta e sudata di Laws si chiuse sulla sua, lo schiodò dal suo gradino e lo trascinò verso l'alto con forza.
Hamilton e Laws emersero sbuffando e respirando a fatica nel corridoio pieno di luce.
David scappò via terrorizzato e Marsha, che faticava a reggersi in piedi, si lanciò verso il marito, che tremava più di lei. j
«Che cosa è successo?» gli chiese Laws, quando fu in ì grado di parlare. «Che diavolo c'è là sotto?»
«Io...» Hamilton stentava a trovare le parole. «Non riuscivo a risalire. Per quanto mi girassi, non c'era niente da fare.» Dopo un lungo intervallo aggiunse, «in qualunque direzione andassi, mi ritrovavo sempre a scendere.»
«C'era qualcosa laggiù,» disse Laws. «L'ho visto.»
Hamilton annuì. «Lei mi stava aspettando.»
«Lei?»
«È lì che l'ho persa. Era sulle scale quando Edith Pritchet l'ha abolita.»
Marsha emise un gemito soffocato. «Vuoi dire la cameriera.»
«È tornata,» disse Hamilton, misurando le parole. «Ma non è più una cameriera. Non in questo mondo.»
«Possiamo bloccare la porta delle scale,» propose Laws.
«Sì,» convenne Hamilton. «La blocchi. Tenga lontana da me quella cosa.»
«Lo faremo,» lo rassicurò Laws. Poi lui e Marsha si avvicinarono ad Hamilton, che continuava a fissare come inebetito il pozzo delle scale, buio e pieno di filamenti di ragno.
«Lo bloccheremo per bene. Così non potrà fare del male a nessuno.»
14
«Dobbiamo mettere le mani su Joan Reiss,» disse Hamilton mentre gli altri componenti del gruppo sfilavano lungo il portico ed entravano nel soggiorno. «E poi dobbiamo liberarcene. Subito e in modo definitivo, senza esitazione. Appena sarà fisicamente nelle nostre mani.»
«Ci distruggerà,» borbottò McFeyffe.
«Non tutti. Forse molti di noi, ma non tutti.»
«E comunque sarebbe meglio,» osservò Laws.
«Sì,» disse Hamilton. «Molto meglio che restarsene qui ad aspettare. Questo mondo deve finire.»
«C'è qualcuno che non è d'accordo?» chiese Arthur Silvester.
«No,» rispose Marsha. «Siamo tutti d'accordo.»
«E lei, signora Pritchet?» domandò Hamilton. «Che ne pensa?»
«Naturalmente bisogna metterla a dormire,» rispose la donna. «Quella sventurata creatura...»
«Sventurata?»
«Questo mondo spaventoso, allucinato, è quello in cui ha sempre vissuto. Provate a immaginare... un giorno dopo l'altro. Un mondo fatto di orribili predatori.»
Con gli occhi fissi sulla porta della cantina, sopra la quale erano state inchiodate assi di legno, David chiese nervosamente, «Quella cosa può arrivare fin quassù?»
«No,» gli rispose Laws. «Non può. Resterà laggiù finché non morirà di fame. O almeno finché non riusciremo a distruggere la signorina Reiss.»
«Allora siamo tutti d'accordo,» disse Hamilton in tono definitivo. «È già qualcosa.
Questo è un mondo nel quale nessuno di noi vuole rimanere.»
«Va bene,» intervenne Marsha. «Abbiamo deciso quello che vogliamo fare. Ma come lo facciamo?»
«Una bella domanda,» osservò Arthur Silvester. «Non sarà certo una passeggiata.»
«Ma nemmeno impossibile,» ribatté Hamilton. «Con lei ci siamo riusciti, Silvester, e anche con la signora Pritchet.»
«Avete notato,» disse pensieroso Silvester, «che ogni volta diventa più difficile? Adesso vorremmo tutti essere nel mondo della signora Pritchet...»
«E quando eravamo nel mondo della signora Pritchet,» concluse cupo McFeyffe,
«avremmo voluto essere nel suo, Silvester.»
«Che cosa intende dire?» gli chiese Hamilton, a disagio.
«Forse succederà la stessa cosa,» rispose Silvester, «quando ci troveremo nel prossimo.»
«Speriamo che il prossimo sia quello reale,» replicò Hamilton. «Prima o poi dovremo pure uscire da questa specie di scatola cinese.»
«Non è detto che succeda subito,» osservò Marsha. «Siamo in otto, e siamo stati soltanto in tre mondi. Ne mancano altri cinque, mi pare.»
«Siamo stati in tre mondi di fantasia,» disse Hamilton. «Tre mondi chiusi che non hanno alcun punto di contatto con la realtà. Una volta lì dentro siamo fregati... non c'è nessuna via d'uscita. Fino a ora abbiamo avuto sfortuna.» Poi aggiunse, pensieroso, «Non credo che noialtri viviamo così chiusi in noi stessi.»
Dopo un attimo di silenzio, Laws disse, «Brutto figlio di puttana.»
«Perché, non potrebbe essere così?»
«Forse.»
«Lei compreso.»
«No, grazie.»
«Laws,» disse Hamilton, «lei è cinico e nevrotico, ma è anche una persona dotata di un sano realismo, come me. E come Marsha, e McFeyffe, e David Pritchet. Penso che possiamo considerarci lontani da questo genere di fantasie.»
«Che cosa intende dire, signor Hamilton?» domandò la signora Pritchet, preoccupata.
«Non capisco.»
«Non mi aspettavo che lo facesse,» ribatté Hamilton. «Lasciamo perdere.»
«Interessante,» commentò McFeyffe. «Forse hai ragione. Sono d'accordo su di me, su Laws e sul ragazzo, ma non su Marsha. Mi dispiace, cara signora Hamilton.»
Pallida, Marsha disse, «Non te ne sei dimenticato, vero?»
«Per me quello è un mondo di fantasia bello e buono.»
«Lo è anche per me,» replicò Marsha, secca. «Le persone come te...»
«Ma di che stanno parlando?» chiese Laws ad Hamilton.
«Non ha importanza,» rispose Hamilton, infastidito. l. «Forse ne ha. Di che si tratta?»
Marsha rivolse un'occhiata al marito. «Non mi vergogno di parlarne davanti a voi.
McFeyffe lo ha già reso di pubblico dominio.»
«Dovevo farlo,» ribatté McFeyffe, imperturbabile. «Ne andavano di mezzo le nostre vite.»
«Marsha è stata accusata di essere comunista,» spiegò Hamilton. «È stato McFeyffe a raccogliere le prove. Che naturalmente sono un cumulo di assurdità.»
Laws riflette. «Potrebbe essere una cosa seria. Non mi piacerebbe ritrovarmi in quel tipo di fantasia.»
«Non ci si ritroverà,» lo rassicurò Hamilton. Sul volto scuro di Laws si disegnò una smorfia fredda e amara. «Lei mi ha già rovinato una volta, Jack.»
«Mi dispiace.»
«No,» lo contraddisse l'altro. «Probabilmente aveva ragione lei. Non mi sarebbe piaciuto il profumo di una fabbrica di saponette. Non a lungo, almeno. Però...» Si strinse nelle spalle. «Per come stanno le cose lei ha torto marcio. Finché non usciamo da questo casino...» Si interruppe. «Dimentichiamo il passato e occupiamoci del presente. Ci sono un sacco di cose da fare.»
«Un'ultima cosa,» disse Hamilton. «Poi potremo dimenticarlo.»
«Che cosa?»
«Grazie per avermi tirato fuori dalle scale.»
Laws si concesse un sorriso fugace. «Non c'è di che. Certo che non aveva un bell'aspetto, accucciato su quel gradino. Credo che sarei sceso comunque, anche a rischio di non tornare più su. Non avrei scommesso un centesimo su di lei. Non dopo aver visto quello che c'era in fondo alle scale.»
Marsha si diresse verso la cucina dicendo, «Vado a mettere su il caffè. Qualcuno vuole mangiare qualcosa?»
«Io ho una fame da lupi,» rispose subito Laws. «Sono venuto direttamente qui da San José appena è scomparsa la fabbrica di saponette.»
«Che cosa c'è al suo posto?» domandò Hamilton mentre si trasferivano tutti in cucina dietro a Marsha.
«Qualcosa che non sono riuscito a capire. Una specie di fabbrica dove si producono oggetti per stringere, come pinze e tenaglie, simili a strumenti chirurgici. Ne ho presi un paio e li ho esaminati a lungo, ma non sono stato in grado di stabilire quale potesse esserne l'uso.»
«Mai visto niente del genere?»
«Nel mondo reale mai. Dev'essere qualcosa che la signorina Reiss ha intravisto chissà dove, senza nemmeno sapere bene a che cosa servisse.»
«Strumenti di tortura,» ipotizzò Hamilton.
«È probabile. Naturalmente sono scappato da lì a gambe levate e ho preso il primo autobus che ho trovato.»
Marsha salì su una piccola scala a pioli e aprì l'armadietto sopra il lavello. «Che ne direste di un po' di pesche sciroppate?» domandò.
«Ottimo,» disse Laws. «Qualsiasi cosa, purché subito.»
Marsha allungò la mano verso il barattolo, ma quello scivolò dalla mensola, rotolò in avanti e le cadde pesantemente sul piede. Lei si ritrasse con un gemito di dolore mentre un secondo barattolo scivolava giù e, dopo essersi fermato per un attimo sul bordo dell'armadietto, precipitava a terra. Marsha lo evitò con un rapido spostamento del corpo.
«Chiudi l'armadietto» disse subito Hamilton, in tono deciso. Poi lui stesso, senza salire sulla scaletta, allungò la mano e lo richiuse con violenza. Il rumore soffocato degli altri barattoli che urtavano contro lo sportello di legno durò ancora per qualche secondo, poi cessò.
«Un incidente,» disse la signora Pritchet in tono fatuo.
«Cerchiamo di vedere la cosa in modo razionale,» disse Laws. «Sono cose che capitano.»
«Ma questo non è il mondo regolare,» precisò Arthur Silvester. «Questo è il mondo della signorina Reiss.»
«E se fosse capitato alla signorina Reiss,» confermò Hamilton, «lei non lo avrebbe considerato un incidente.»
«Allora è stato intenzionale?» chiese debolmente Marsha, chinata a massaggiarsi il piede dolorante. «Quel barattolo di pesche...»
Hamilton raccolse il barattolo e lo aprì con l'apriscatole. «Bisognerà essere molto prudenti. D'ora in poi dobbiamo considerarci tutti a rischio di incidenti. E di vendette.» Al primo assaggio della sua porzione di pesche sciroppate, Laws fece una smorfia e allontanò immediatamente il piatto. «Capisco quello che intende dire.»
Hamilton fece un assaggio guardingo. Non sentì, come si aspettava, il sapore zuccherino della frutta sciroppata, ma un gusto acido e metallico che lo fece quasi vomitare e che lo costrinse a sputare il boccone nel lavandino. «Acido,» disse con voce strozzata. «Veleno,» ribatté con calma Laws. «Dovremo guardarci anche da quello.»
«Forse è il caso di fare un elenco,» propose nervosamente la signora Prìtchet.
«Dovremmo cercare di scoprire in che modo funzionano le cose.»
«Buona idea,» convenne Marsha, rabbrividendo. «Così non avremo sorprese.» Si rimise la scarpa sul piede indolenzito e si diresse zoppicando verso suo marito. «Tutto ciò che può essere potenzialmente pericoloso...»
Mentre stavano rientrando in soggiorno, le luci si spensero e la stanza piombò nel buio.
«Bene,» disse Hamilton con calma, «ecco un altro incidente. Si è fulminata la lampadina. C'è qualcuno che è disposto a cambiarla?»
Nessuno si offrì volontario.
«Lasciamo perdere,» decise allora Hamilton. «Non ne vale la pena. Me ne occuperò io domani mattina, alla luce del giorno.»
«E se si fulminano tutte?» domandò Marsha. «Una buona domanda,» ammise Hamilton.
«Posso risponderti così: faremo di tutto, immagino, per procurarci delle candele e ogni altra fonte di luce autonoma, come torce, accendini e fiammiferi.»
«Povera donna,» mormorò Marsha. «Ma pensateci... ogni volta che c'è una mancanza di corrente lei se ne sta seduta al buio in attesa che qualche mostro la aggredisca. Sempre convinta che tutto ciò faccia parte di chissà quale complotto ai suoi danni.»
«Proprio quello che stiamo pensando di fare adesso,» [osservò acido McFeyffe.
«Infatti,» disse Laws. «Ma questo è il suo mondo, e [quando la luce va via...»
Nell'oscurità della stanza squillò il telefono.
«Anche il telefono,» disse Hamilton. «Cosa credete che pensi, quando squilla il telefono? Sarà meglio che facciamo uno sforzo di immaginazione: che significa per un paranoico un telefono che suona?»
«Immagino che dipenda dal tipo di paranoia,» osservò Marsha.
«Ovviamente in questo caso penserebbe che è un tentativo per attirarla nell'oscurità con chissà quali scopi, perciò noi non risponderemo.»
Attesero. Il telefono smise ben presto di squillare. Tutti i sette tornarono a respirare normalmente.
«È meglio restare in cucina,» disse Laws, facendo dietro front. «Lì non dovrebbe succederci niente; è un luogo caldo e accogliente.»
«Una specie di fortezza,» concluse Hamilton senza convinzione.
Quando Marsha cercò di mettere in frigorifero il secondo barattolo di pesche, lo sportello non si aprì. Lei continuò stupidamente a forzare la maniglia bloccata, tenendo il barattolo con l'altra mano, finché non giunse Hamilton ad allontanarla con dolcezza.
«Sono solo un po' nervosa,» mormorò la donna. «Magari funziona alla perfezione, solo che qualche volta si incastra.»
«Qualcuno di voi lo ha acceso?» chiese la signora Pritchet indicando il tostapane che ronzava sul piccolo tavolo della cucina.
Hamilton lo esaminò. Dopo avere inutilmente trafficato i con il termostato, ci rinunciò e staccò il cavo. La resistenza si spense lentamente.
«Di che cosa possiamo fidarci?» domandò sgomenta la signora Pritchet.
«Di niente,» rispose Hamilton.
«È tutto così... grottesco,» si lagnò Marsha.
Soprappensiero, Laws aprì il cassetto a fianco dell'acquaio. «Potremmo avere bisogno di protezione.» Cominciò a frugare in mezzo alla posateria finché non trovò ciò che cercava, un grosso coltello d'acciaio per bistecche con il manico robusto. Mentre le sue dita stavano per richiudersi su di esso, Hamilton fece un passo avanti e lo bloccò.
«Sia prudente,» lo ammonì. «Si ricordi del barattolo di pesche.»
«Ma ci serve,» reagì irritato Laws. Ignorò Hamilton e afferrò il coltello. «Anch'io voglio qualcosa con cui difendermi; non è una pistola, quella che sporge sotto la sua giacca?»
Per un attimo il coltello rimase nel palmo della sua mano. Poi, quasi fosse dotato di vita propria, schizzò via vibrando e puntò direttamente verso lo stomaco del negro. Laws lo evitò con uno scarto improvviso e il coltello andò a piantarsi sul pannello dell'acquaio.
Rapido come un lampo, Laws alzò il piede e lo calò sulla maniglia, che si ruppe con uno schianto metallico; la mezza lama conficcata nel legno continuò a fremere impotente per qualche secondo.
«Visto?» disse Hamilton, secco. La signora Pritchet, debolissima, ebbe un capogiro.
«Mio Dio,» esclamò con voce fioca, accasciandosi su una sedia. «Che ne sarà di noi?»
Poi cominciò a gemere sommessamente.
Marsha si affrettò a prendere un bicchiere dalla credenza e andò verso il rubinetto. «Le porto subito un bicchier d'acqua, signora Pritchet.»
Ma il liquido che uscì dal rubinetto non era acqua: era sangue, caldo, denso e rosso.
«La casa,» disse debolmente Marsha, chiudendo il rubinetto. Nell'acquaio smaltato si era formata una pozza scura di sangue che rifluiva lentamente verso lo scarico. «La casa è viva.»
«Non c'è dubbio,» annuì Hamilton. «E noi ci siamo dentro.»
«Penso che siamo tutti d'accordo,» disse Arthur Silvester. «Bisogna assolutamente uscire. La domanda è: possiamo farlo?»
Hamilton andò alla porta sul retro e provò il chiavistello. Era chiuso. Tirò con tutte le sue forze ma non riuscì ad aprirlo. «Non da questa parte,» riferì agli altri.
«Quello si blocca spesso,» disse Marsha. «Proviamo dalla porta principale.»
«Ma questo significa passare attraverso il soggiorno,» fece notare Laws.
«Lei ha qualche idea migliore?»
«No,» ammise Laws. «A parte un suggerimento: qualunque cosa dobbiamo fare, facciamola subito.»
In fila indiana tutti e sette si diressero con molta prudenza verso il soggiorno immerso nell'oscurità. Hamilton era in testa alla fila; il fatto di sapere che si trovava in casa sua gli dava, in qualche modo, un po' di coraggio. Forse, ma era solo una speranza assurda, gli sarebbe stato riservato un trattamento di favore.
Dal radiatore del corridoio fuoriusciva un ronzio ritmico. Hamilton si fermò e si mise ad ascoltare. L'aria che ne usciva era calda... e fragrante! Non l'aria inerte e malsana di un congegno meccanico, ma il tepore intimo, corporale, generato da un organismo vivente.
La caldaia sistemata in cantina stava respirando. L'aria si muoveva avanti e indietro, man mano che la creatura-casa inspirava ed espirava.
«E... è maschio o femmina?» chiese Marsha.
«Maschio,» rispose McFeyffe. «La signorina Reiss ha paura degli uomini.»
L'aria che usciva dal radiatore emanava un sapore intenso di sigaro, di birra stantia e di sudore maschile. Quel fastidioso miscuglio di odori che la signorina Reiss aveva sicuramente sentito sugli autobus, negli ascensori, nei ristoranti. Quel tanfo pungente di aglio degli uomini di mezza età.
«Forse è l'alito del suo fidanzato,» ironizzò Hamilton, ; «quando la bacia sul collo.»
Marsha rabbrividì. «Deve essere ossessionata da quell'odore.»
A questo punto, probabilmente, l'intero impianto elettrico della casa era diventato un sistema neurologico che trasmetteva gli impulsi nervosi della creatura-casa. Perché no?
Nei tubi dell'acqua scorreva il suo sangue, mentre i condotti del riscaldamento portavano l'aria fino ai suoi polmoni, giù in cantina. Attraverso la finestra del soggiorno Hamilton poteva vedere le piante di edera rampicante che Marsha aveva faticosamente fatto arrivare fino al tetto. Nel buio della notte l'edera non era più verde, ma di un marrone scuro.
Come capelli. Come i capelli folti e pieni di forfora di un anziano uomo d'affari. L'edera ondeggiava appena al vento, un brivido sinistro che faceva piovere sul prato frammenti di gambi e di foglie.
Sotto i piedi di Hamilton il pavimento cominciò a fremere. All'inizio non se ne accorse nemmeno; solo quando la signora Pritchet se ne uscì con gemito soffocato, si rese conto dell'impercettibile movimento.
Si piegò e toccò il pavimento con il palmo della mano. Le mattonelle erano calde...
come carne umana.
Anche le pareti lo erano. E la superficie non era dura; non si sentiva al tatto la consistenza solida, compatta del legno, dell'intonaco, della vernice o della carta da parati... ma una struttura morbida, che cedeva leggermente sotto la pressione delle mani.
«Forza,» disse Hamilton a denti stretti. «Muoviamoci.» Un passo dopo l'altro, come animali in trappola, i sette attraversarono il soggiorno buio. Sotto i loro passi il tappeto si muoveva incessantemente. Tutti avvertivano con chiarezza la presenza minacciosa che li circondava, una presenza viva, irrequieta, che ondeggiava e sussultava, e sembrava animata da una rabbia incontenibile.
Fu un viaggio nell'oscurità che sembrò non finire mai. Da ogni parte era tutto un agitarsi incessante di lampade e libri. A un certo punto la signora Pritchet emise un urlo stridulo di terrore; il cavo del televisore si era annodato intorno alla sua caviglia. Bill Laws la liberò strappandolo con un gesto fulmineo, e il cavo spezzato, ormai innocuo, continuò a dimenarsi furiosamente dietro di loro.
«Siamo quasi arrivati,» disse Hamilton alle forme indistinte che lo seguivano. Riusciva già a distinguere la porta e la maniglia, e cominciò ad allungare la mano. Pregando in silenzio continuò ad avanzare; tre passi, due passi, un solo passo da percorrere ancora...
Gli sembrò di trovarsi in cima a una salita.
Sbalordito, ritirò la mano. Era su un ripido pendio e stava già scivolando all'indietro.
All'improvviso si ritrovò a precipitare scompostamente; agitò le mani cercando senza riuscirci di recuperare l'equilibrio. Tutti e sette caddero verso il centro della stanza, rimbalzando fin quasi al corridoio. La casa era completamente buia; si era spenta anche la luce della cucina, e c'era solo il bagliore tremolante delle stelle al di là della finestra, puntolini luminosi e lontani.
«È il tappeto,» esclamò Bill Laws in un sussurro quasi incomprensibile, «Ci sta...
risucchiando all'indietro, come se fosse una lingua!»
Sotto di loro il tappeto ebbe uno strattone violento. Una superficie calda, spugnosa, che già si stava inumidendo. Hamilton si raddrizzò come poté, andò a sbattere contro una parete e si ritrasse all'istante. La parete stava secernendo una bava densa e vischiosa, come una bocca avida che avesse l'acquolina per il pasto imminente.
La creatura-casa si stava preparando a divorarli.
Allora Hamilton aderì alla parete e provò ad aggirare il tappeto. Ma gli angoli del tappeto si misero a brancolare nel tentativo di afferrarlo mentre lui, tremante e madido di sudore, puntava verso la porta. Un passo. Due. Tre. Quattro. I suoi compagni lo seguirono... ma non tutti.
«Dov'è Edith Pritchet?» chiese Hamilton.
«È sparita,» rispose Marsha. «È rotolata fino al corridoio.»
«Nella gola,» giunse la voce di Laws.
«Invece noi siamo nella bocca,» disse debolmente David Pritchet.
La carne umida e calda della bocca della creatura si gonfiava e premeva contro il corpo di Hamilton. Il solo contatto gli provocò dei brividi di repulsione, ma con un ultimo sforzo allungò concitatamente la mano verso la maniglia, concentrandosi su quel piccolo pomo metallico rilucente. Questa volta riuscì ad afferrarla e con uno strattone la spalancò. Tutti fissarono ansimanti l'immagine della notte che si stagliava nel riquadro della porta. Le stelle, la strada, le case buie sull'altro lato, gli alberi che ondeggiavano al vento... e l'aria fredda, pungente.
Ma fu solo un attimo. Senza preavviso la porta cominciò a diminuire, o forse furono le pareti che si dilatarono, schiacciandola, fino a lasciare una piccola apertura; le pareti si erano richiuse come labbra, tagliandoli fuori da ogni possibilità di fuga.
Dalle loro spalle, dal corridoio, il tanfo rancido di aglio della creatura li avvolse. La lingua fremeva, ingorda, e le pareti trasudavano saliva. Nel buio che lo avvolgeva, Hamilton sentiva le urla stridule, terrorizzate e impotenti, dei suoi compagni; le ignorò e cercò di infilarsi con le mani e con le braccia in quella minuscola cavità che era stata la porta principale. Sotto di lui il pavimento cominciò a sollevarsi, mentre il soffitto prese a scendere lentamente, inesorabilmente; si muovevano all'unisono, con ritmica precisione, e fra breve si sarebbero incontrati.
«Sta masticando,» rantolò Marsha, che era accanto a lui nell'oscurità.
Hamilton scalciò con tutta la forza che gli rimaneva. Fece forza con la spalla contro la porta chiusa, e spinse, colpì, graffiò e lacerò la carne morbida. Vi affondò le mani e ne strappò via brandelli di materia organica.
«Aiutatemi!» gridò agli altri che si affollavano dietro di lui. Bill Laws e Charley McFeyffe emersero dalla pozza di saliva e cominciarono anche loro ad accanirsi freneticamente sulla porta. Apparve un'apertura, e con l'aiuto di Marsha e di David Pritchet riuscirono ad allargarla fino ad avere un buco di forma circolare.
«Fuori,» disse in un ringhio Hamilton, spingendo sua moglie. Marsha atterrò sul portico e rotolò via. «Adesso lei,» disse allora Hamilton, rivolto a Silvester. Anche il vecchio venne sospinto fuori senza troppi complimenti; dopo di lui toccò a Laws, e infine a McFeyffe.
Hamilton si guardò rapidamente intorno e non vide più nessuno, oltre a se stesso e a David Pritchet. Il pavimento e il soffitto si erano praticamente quasi uniti, e non c'era più tempo da perdere per preoccuparsi di Edith Pritchet.
«Infilati là dentro,» rantolò, e fece passare al ragazzo attraverso lo squarcio palpitante.
Poi, piegandosi tutto, riuscì a infilarsi anche lui. Dopo un attimo il soffitto e il pavimento si incontrarono, e nel momento del contatto si sentì un rumore sordo, che si ripeté più volte.
La signora Pritchet, che non ce l'aveva fatta ad uscire, era diventata cibo per quella creatura.
I superstiti si raccolsero nel cortile, ormai al sicuro dalla casa. Nessuno parlò; rimasero tutti a fissare in silenzio il metodico contrarsi ed espandersi di quel mostro. Stavano iniziando i processi digestivi. Dopo un po' il movimento cessò. La casa fu attraversata da un ultimo sussulto di attività spasmodica, poi tacque.
Le tapparelle delle finestre calarono con un fruscio soffocato, formando delle ombre opache sulla facciata.
«Sta dormendo,» disse Marsha in tono incolore.
Oziosamente, Hamilton si domandò che cosa avrebbero detto i netturbini quando fossero venuti l'indomani a raccogliere la spazzatura. Sul portico anteriore avrebbero trovato un mucchietto di ossa bianche ben spolpate; le avrebbero raccolte, messe nel camion tritarifiuti e gettate via. Insieme, forse, a qualche bottone e a qualche gancio metallico.
«È fatta,» commentò Laws.
Hamilton si diresse verso la macchina. «Sarà un vero piacere ucciderla,» affermò.
«No, non in macchina,» lo mise in guardia Laws. «Non possiamo fidarci.»
Hamilton si fermò. «Andremo da lei a piedi,» disse dopo un attimo di riflessione.
«Cercherò di farla uscire; se riusciamo ad attirarla fuori senza entrare in casa sua...»
«Probabilmente sarà già fuori,» disse Marsha. «Forse tutto questo agisce anche contro di lei. Forse è già morta. Magari il suo appartamento l'ha divorata appena è entrata in casa.»
«Non è morta,» puntualizzò ironicamente Laws. «Altrimenti noi non saremmo ancora qui.»
Una figura sottile emerse dall'oscurità del garage. «Proprio così,» affermò una voce tranquilla, priva di tono. Una voce familiare. «Sono ancora viva.»
Hamilton si affrettò a estrarre dalla tasca la sua 45, ma mentre con il dito armeggiava sulla sicura gli venne in mente una cosa curiosa. Lui non aveva mai visto né usato pistole in vita sua. Nel mondo reale non ne possedeva. Quella pistola aveva fatto la sua comparsa nel mondo della signorina Reiss: faceva parte della sua vita e della sua personalità. Della sua patologica, tetra fantasia.
«Si è salvata?» chiese Bill Laws alla signorina Reiss.
«Sono stata l'unica così furba da non entrare in casa,» giunse la sua risposta. «Mi sono resa conto di quello che avevate architettato appena ho messo piede sul tappetino d'ingresso.» Nella sua voce c'era una sfumatura esaltata di trionfo. «Non siete così in gamba come credevo.»
«Mio Dio,» disse Marsha. «Ma noi non abbiamo mai...»
«Volevate uccidermi, non è così?» le chiese la signorina Reiss. «Tutti voi, il gruppo al completo. Era da tempo che stavate cospirando contro di me, vero?»
«È vero,» ammise francamente Hamilton. «È così.» Joan Reiss scoppiò a ridere. Una risata strozzata, metallica. «Lo sapevo. E non ha paura di venirmelo a dire in faccia?»
«Signorina Reiss,» disse Hamilton, «è vero che abbiamo cospirato per ucciderla, ma è anche vero che non possiamo farlo. Non c'è un solo essere umano in questo mondo di follia che possa metterle un dito addosso. Sono quegli orrori dai quali è ossessionata che....»
«Ma voi,» lo interruppe la donna, «non siete esseri umani.»
«Che cosa?» disse Arthur Silvester.
«Certo che non lo siete. L'ho capito nello stesso istante in cui vi ho visto, quel giorno al bevatrone. È per questo che siete tutti sopravvissuti alla caduta; era un ovvio tentativo di attirarmi là e di eliminarmi. Ma io non sono morta.» Joan Reiss fece un sorriso. «Ho diverse frecce al mio arco.»
Misurando le parole, Hamilton le domandò, «Ma se non siamo esseri umani, allora che cosa siamo?»
In quel momento Bill Laws si mosse. Si sollevò ronzando dall'erba umida e puntò verso la figura esile e minuta di Joan Reiss. Con le ali spiegate, due ali membranose e ricoperte da un velo di polvere, svolazzò rumorosamente nel buio della notte. Prese la mira con assoluta precisione, e le fu sopra prima ancora che lei potesse emettere un grido o fare un solo movimento.
Quello che fino a poco prima era stato, o almeno era sembrato, un essere umano, si era trasformato in un'entità dal corpo chitinoso diviso in diversi segmenti, che ormai aveva avvolto con le ali la sua vittima, ignorando la sua debole reazione. La parte posteriore allungata della creatura si contorse e con un colpo secco infilò il pungiglione velenoso della coda nel corpo della donna, tenendo velo a lungo. Alla fine, soddisfatta, lo ritrasse.
Poi, poco a poco, gli artigli ticchettanti mollarono la presa e Joan Reiss cadde a terra ginocchioni e rimase lì faccia a terra, rantolando nell'erba bagnata.
«Scapperà via strisciando,» disse subito Arthur Silvester, che si lanciò sul corpo rattrappito e lo rigirò sul dorso. Poi, con grande rapidità ed efficienza, spruzzò del cemento a presa rapida attorno ai fianchi ossuti della donna; infine la rigirò ancora e la avvolse strettamente con una robusta rete di filamenti. Quando ebbe finito, l'insetto allungato che era stato Bill Laws la afferrò di nuovo con gli artigli e la tenne sollevata, mentre lei si agitava debolmente nel suo bozzolo; Silvester srotolò un altro filamento, lo fece passare sopra un grosso ramo, lo assicurò al corpo della donna e la tirò su. Dopo un attimo la figura semiparalizzata di Joan Reiss penzolava dal ramo avvolta nel suo involucro di fili vischiosi, gli occhi spalancati, la bocca leggermente aperta, dondolando appena al vento notturno.
«Dovrebbe bastare,» disse Hamilton soddisfatto.
«Sono contenta che non l'abbiate uccisa,» disse Marsha, con una nota di sadica crudeltà. «Così potremo divertirci un po' con lei... Non c'è più niente che possa farci, ormai.»
«Comunque alla fine dovremo ucciderla,» osservò McFeyffe. «Dopo che ci saremo divertiti.»
«Ha ucciso mia madre,» esclamò David con voce stridula e prima che qualcuno potesse fermarlo si lanciò in avanti, prese la rincorsa e saltò addosso al bozzolo dondolante.
Protese un tubo nutritivo, scostò gli strati di filamenti, lacerò il vestito e si attaccò avidamente al corpo pallido della donna, penetrando all'istante in profondità nella carne umida e cedevole. Dopo un po' si lasciò ricadere al suolo, sazio e rigonfio, lasciando dietro di sé soltanto un involucro secco e disidratato.
La donna non era ancora morta, ma non avrebbe resistito a lungo. I suoi occhi sgranati fissavano il gruppo con un'espressione di muto dolore. Aveva perso quasi del tutto coscienza, e in lei rimaneva solo una fioca scintilla di personalità. I sette assistettero con un misto di pietà e di sollievo agli ultimi secondi della sua agonia.
«Se lo è meritato,» disse Hamilton in tono incerto. Adesso che era tutto finito, cominciava ad avere dei dubbi. Accanto a lui l'insetto chitinoso e segmentato che era Bill Laws annuì.
«Ma certo.» La sua voce era uno stridio sommesso e ronzante. «Basta vedere quello che ha fatto alla signora Pritchet.»
«Non vedo l'ora di andarmene da questo mondo,» disse Marsha. «E di tornare al nostro.»
«E di recuperare il nostro aspetto normale,» aggiunse Hamilton, con un'occhiata sgomenta ad Arthur Silvester. «Che cosa intende dire?» gli chiese Bill Laws. «Non capisce,» rispose Silvester con una sfumatura di freddo divertimento. «Questo è il nostro aspetto normale. Hamilton, solo che fino a ora non è mai emerso.» Poi concluse, «almeno non si è mai reso visibile a noi.»
Laws fece una risatina chioccia. «Lo ascolti, Silvester. Sentiamo come la pensa. Quanto a lei, Hamilton, è proprio un tipo interessante.»
«Forse vale la pena di ascoltarlo fino in fondo,» propose Arthur Silvester.
«Teniamolo d'occhio,» convenne Laws. «Restiamo vicino a lui e ascoltiamo quello che dice. E vediamo anche che cosa è in grado di fare.»
Atterrito, Hamilton disse, «Uccidiamola e mettiamo fine a tutta questa storia... voi fate parte della sua follia e non ve ne rendete nemmeno conto.»
«Chissà quanto è veloce a scappare,» disse Arthur Silvester, quasi parlando fra sé e sé, mentre si avvicinava lentamente ad Hamilton.
«Stia lontano da me,» disse Hamilton allungando la mano verso la pistola.
«E sua moglie,» aggiunse Silvester. «Perché non ci divertiamo anche con lei?»
«La voglio io,» intervenne avidamente David Pritchet. «Lasciatela a me. Se volete, potete tenermela ferma, per evitare che...»
Silenziosamente appesa dentro il suo bozzolo, la signorina Reiss morì in quel momento senza un rumore. E senza un rumore il mondo attorno a loro si dissolse in un pulviscolo di particelle impazzite.
Esausto ma sollevato, Hamilton prese sua moglie e la abbracciò. «Grazie a Dio,» disse.
«Ne siamo usciti.»
Marsha si strinse a lui. «Appena in tempo, eh?» Il mondo era un turbinio di ombre; Hamilton attese con pazienza. Sapeva che li aspettava il dolore, quando si fossero ritrovati ancora una volta distesi scompostamente in mezzo ai rottami, sul pavimento del bevatrone. Erano tutti feriti: sarebbe seguito un periodo di sofferenza, poi la lenta guarigione, lunghi giorni vuoti in ospedale. Ma ne sarebbe valsa la pena. Su questo non c'era dubbio.
Le nuvole si diradarono. Non si trovavano nel bevatrone.
«Ci siamo di nuovo,» disse McFeyffe preoccupato, mentre si alzava dal prato umido e si aggrappava alla ringhiera del portico.
«Ma non è possibile,» disse stupidamente Hamilton. «Non è rimasto più nessuno. Siamo passati attraverso tutti i mondi possibili.»
«Ti sbagli,» ribatté McFeyffe. «Scusami, Jack, ma te lo avevo detto. Ti avevo messo in guardia contro di lei e tu non hai voluto darmi retta.»
Parcheggiata lungo il marciapiede, proprio di fronte a casa, sua c'era una minacciosa macchina nera. Gli sportelli si spalancarono e dal sedile posteriore scese una grossa figura che attraversò il prato con passo rapido e ondeggiante e si diresse verso Hamilton. La seguivano alcuni uomini massicci, dalla faccia arcigna, che indossavano cappotto e cappello e tenevano le mani infilate minacciosamente nelle tasche.
«Eccoti qua,» grugnì l'uomo corpulento. «Va bene, Hamilton. Vieni con noi.»
Sulle prime Hamilton non lo riconobbe. Il volto di quell'uomo era una massa di tessuto molle, con il mento rincagnato e gli occhietti porcini affondati nel grasso. Le sue dita, quando si chiusero senza complimenti sul braccio di Hamilton, erano artisti carnosi.
L'uomo emanava un lezzo insopportabile di acqua di colonia costosa ma irrancidita, e di sangue.
«Come mai non eri al lavoro, ieri?» latrò il grassone. «Mi dispiace per te, Jack.
Conoscevo tuo padre.»
«Abbiamo saputo del vostro picnic,» aggiunse uno dei suoi scagnozzi.
«Tillingford,» esclamò Hamilton, sbalordito. «È proprio lei?»
Il dottor Guy Tillingford, il grasso capitalista con le mani sporche di sangue, gli rivolse un'occhiataccia, poi si voltò e trotterellò verso la Cadillac parcheggiata. «Portatelo via,»
ordinò ai suoi uomini. «Io devo tornare ai laboratori della Epidemic Development Agency.
Abbiamo delle nuove colture batteriche da sperimentare. Lui sarà un'ottima cavia.»
15
La morte incombeva pesantemente nel buio gelido della notte. Nell'oscurità davanti a loro un grande organismo corroso stava morendo. Frammentata e spaccata, la massa raggrinzita emetteva penosamente fluidi corporali sul cordolo e sul marciapiede; tutt'intorno si stava già formando una pozza di liquame scintillante, che si espandeva e gorgogliava.
Per un attimo Hamilton non riuscì a identificarla. Mentre la guardava, la massa ebbe un leggero sussulto e si rigirò su un fianco. La luce delle stelle pulsava debolmente sui finestrini scheggiati. Come legno fradicio, il guscio rigonfio della macchina si contrasse e collassò. La cappotta si spaccò sotto i suoi occhi come un uovo, e ne fuoriuscirono pezzi arrugginiti che si sparsero dappertutto, sprofondando nella chiazza di olio, acqua, benzina e liquido dei freni.
Per un attimo la struttura massiccia della vettura fu animata da un barlume di solidità: poi, con un ultimo gemito di protesta, i resti del motore sfondarono il pianale corroso e caddero sull'asfalto. Il blocco motore si spaccò in due e cominciò a disgregarsi metodicamente in un'infinità di frammenti informi e smussati.
«Ecco qui,» disse l'autista di Tillingford, rassegnato. «Anche questa è partita.»
Tillingford guardò con tristezza il rottame che era stata la sua Cadillac, mentre una furia impotente si impadroniva visibilmente di lui. «Tutto si sfascia,» disse, sferrando con cattiveria un calcio ai resti della macchina; la Cadillac ebbe un ultimo sussulto, cercando di riassestarsi in una informe accozzaglia di metallo, ma poi cedette di schianto scomparendo nelle ombre della notte.
«Ormai è del tutto inutile,» disse uno degli uomini di Tillingford. «Tanto vale lasciarla qui.»
«Avremo qualche problema, per arrivare fino all'impianto,» affermò Tillingford, scrollandosi gocce nere di olio dal risvolto dei calzoni. «Dobbiamo attraversare un distretto operaio.»
«Potrebbero avere eretto delle barricate sull'autostrada,» confermò il suo autista. In quel buio quasi totale era impossibile distinguere gli scagnozzi l'uno dall'altro, e ad Hamilton sembravano tutti uguali: colossi tarchiati dal portamento tedesco, e dai volti brutali e inespressivi.
«Quanti uomini abbiamo qui?» chiese Tillingford.
«Trenta,» rispose uno.
«È meglio accendere una torcia,» propose, ma senza particolare convinzione, un altro.
«Con questo buio non riusciremmo nemmeno a vederli, quando si muovono.»
Facendosi largo a gomitate, Hamilton raggiunse il dottor Tillingford. «Ma state facendo sul serio?» gli domandò con voce roca. «I suoi uomini credono davvero che....»
Si interruppe quando un mattone si infranse sui rottami della Cadillac. Tra le ombre si intravidero delle forme indistinte correre via e nascondersi.
«Capisco,» disse allora, spaventato. Adesso gli era tutto più chiaro.
«Mio Dio,» esclamò Marsha con voce sommessa. «Come faremo a sopravvivere?»
«Forse non ci riusciremo,» rispose suo marito.
Un secondo mattone sibilò attraverso l'oscurità. Marsha, impaurita, si abbassò e corse verso Hamilton. «Per poco non mi colpiva. Siamo proprio in mezzo; da un momento all'altro si massacreranno.»
«Peccato che non l'abbia colpita,» disse con calma Edith Pritchet. «In tal caso saremmo già usciti da questo mondo.»
Atterrita, Marsha emise un grido sommesso di disperazione. Attorno a lei i volti degli altri componenti del gruppo erano maschere pallide appena illuminate dal bagliore della torcia. «Voi lo credete tutti. Credete che io sia... comunista.»
Tillingford si voltò di scatto e sulla sua faccia abietta e volgare si disegnò un'espressione di terrore isterico. «Esatto; me ne ero dimenticato. Eravate tutti a un picnic del Partito.»
Hamilton accennò a una protesta, ma la stanchezza lo sopraffece. Che importanza aveva? Probabilmente, in quel mondo, loro avevano veramente partecipato a un picnic del Partito Comunista, una riunione progressista a base di danze popolari, canzoni della Spagna franchista, slogan, discorsi e petizioni. «Be',» disse con dolcezza rivolto a sua moglie, «abbiamo fatto tutta questa strada, attraverso tre mondi, per arrivare fino a questo.»
«Che vuoi dire?»
«Avrei preferito se me lo avessi detto.»
Gli occhi di Marsha si accesero. «Allora non mi credi neanche tu?» Nel buio la sua mano snella e pallida scattò verso l'alto; Hamilton sentì un dolore bruciante sul viso, e intorno a lui fu tutto un turbinio di scintille. Ma il risentimento di sua moglie durò un attimo. «Non è vero,» affermò con voce disperata.
Strofinandosi la guancia dolorante e rigonfia, Hamilton disse, «È interessante, però.
Dicevamo che non lo avremmo saputo finché non ci fossimo trovati dentro la testa di una persona. Adesso ci siamo, così come siamo stati dentro la testa di Arthur Silvester, di Edith Pritchet e di Joan Reiss e...»
«Se la uccidiamo,» lo interruppe Silvester con voce atona, «ne usciremo.»
«E torneremo al nostro mondo.» aggiunse McFeyffe.
«State lontani da lei!» li minacciò Hamilton. «Giù le mani da mia moglie.»
Ma il gruppo aveva formato un cerchio ostile e sempre più ristretto attorno a loro due.
Per un po' nessuno si mosse; le sei figure erano rigide per la tensione, le loro braccia tese lungo i fianchi, pronte a scattare. Poi Laws scrollò le spalle e si rilassò. Voltò le spalle e si allontanò. «Lasciamo perdere,» disse da sopra la spalla. «Che ci pensi Jack a risolvere la situazione. In fondo è un problema suo.»
Marsha cominciò ad ansimare ritmicamente. «È tutto così orribile... Non riesco a capire.» Scosse la testa, disperata. «Non ha senso.»
Altre pietre stavano piovendo addosso a loro. Le ombre sembravano muoversi, e si udivano dei suoni deboli e cadenzati, che crebbero di intensità fino a trasformarsi in cantilene discordi. Tillingford li ascoltava anche lui, con un'espressione amara e crudele sul viso da mastino.
«Li senti?» chiese ad Hamilton. «Sono là fuori, si nascondono nel buio.» Adesso il viso da mastino tradiva un odio viscerale. «Bestie.»
«Dottore,» protestò Hamilton. «Non crederà sul serio a una cosa del genere? Ma che le prende? Non è da lei, comportarsi così.»
Senza degnarlo di un'occhiata, Tillingford gli disse, «Vattene dai tuoi amici rossi là fuori.»
«La pensa davvero così?»
«Tu sei comunista,» disse Tillingford con voce piatta. «Tua moglie è comunista. Siete dei rifiuti umani. Per te non c'è posto nella mia ditta, non c'è posto della società umana.
Vattene da loro e restaci!» Dopo un momento aggiunse, «Tornatevene al vostro picnic comunista.»
«Ha intenzione di combatterli?» gli domandò Hamilton.
«Naturalmente.»
«Vuole veramente cominciare a sparare? Vuole davvero uccidere quegli uomini là fuori?»
«Se non lo facciamo,» rispose Tillingford, con una logica stringente, «saranno loro a uccidere noi. Così vanno le cose, non è colpa mia.»
«Questa storia non può durare,» disse disgustato Laws ad Hamilton. «Sono solo dei fantocci che recitano in una commedia comunista di infimo livello. È una parodia già vista, minestra riscaldata: la Vita in America. Non riesce nemmeno a nascondere bene il mondo reale che c'è dietro.»
Lo scoppiettio secco di una mitragliatrice spezzò improvvisamente il silenzio. Un gruppo di operai si era arrampicato sul tetto di una casa vicina e vi aveva montato quell'arma.
Sbuffi di polvere di cemento grigia e scintillante si sollevarono sotto la raffica di pallottole.
Tillingford si lasciò cadere goffamente sulle ginocchia accanto ai resti della Cadillac, mentre i suoi uomini, correndo qua e là per cercare riparo, cominciavano a rispondere al fuoco. Dall'oscurità sbucò una bomba a mano; Hamilton cercò di proteggersi dall'esplosione, che sollevò una colonna di fuoco e lo sbalzò via, bruciacchiandogli la faccia. Quando il fumo si diradò, c'era una grossa buca piena di calcinacci, in mezzo ai quali si vedevano parecchi degli uomini di Tillingford con i corpi orribilmente martoriati.
Mentre Hamilton fissava istupidito i loro movimenti scomposti, Laws gli sussurrò all'orecchio, «Non le sembra che abbiano qualcosa di familiare? Li guardi bene.»
Fra l'oscurità e la confusione, Hamilton non riuscì a mettere a fuoco la scena con chiarezza, ma una di quelle figure inerti e martoriate aveva effettivamente un che di familiare. Perplesso, restò lì a fissarla. Chi era quella persona stesa in mezzo ai detriti, mezza sepolta da frammenti di pavimentazione e da mucchietti di cenere ancora fumante?
«È lei,» disse Laws.
Era proprio Hamilton. I contorni indistinti del mondo reale andavano e venivano dietro quella fantasia distorta. Come se lo stesso creatore della scena avesse dei dubbi esistenziali che non riusciva a risolvere. La superficie coperta di detriti non era la strada, ma il pavimento del bevatrone. C'erano anche altre figure familiari, sparse qua e là. Si muovevano appena, ed erano sul punto di tornare alla vita.
Alcuni medici e qualche tecnico camminavano con circospezione tra le rovine fumanti. Si muovevano piano, spostandosi con esasperante lentezza, un passo dopo l'altro, attenti a non esporsi. Erano discesi dalle case vicine fino al livello del suolo, e adesso si aggiravano furtivamente sulla strada sconnessa... ma era poi una strada? Adesso somigliava alla struttura del bevatrone, con le passerelle di sicurezza che scendevano fino all'impianto. E
le fasce rosse al braccio degli operai ricordavano quelle della Croce Rossa. Confuso, Hamilton rinunciò a cercare di decifrare quel sovrapporsi di luoghi e di forme.
«Manca poco,» disse con calma la signorina Reiss. Dopo il collasso del suo universo personale, lei era riemersa esattamente come era prima: una donna scialba con il suo lungo abitino di velluto a coste, gli occhiali con la montatura di corno e la preziosa borsetta stretta fra le mani. «Questa costruzione è un vero fallimento. Ma la precedente, quella sì che era stata architettata bene.»
«Lei crede che l'ultima sia stata davvero convincente?» le domandò Hamilton, gelido.
«Ma certo. All'inizio era quasi riuscita a ingannare anche me. Pensavo...» Si interruppe e sorrise con una luce di intenso fanatismo negli occhi. «Proprio un bel lavoro, sul serio. Per poco non l'ho scambiata per il mio mondo reale. Ma naturalmente, quando sono entrata nell'ingresso del mio appartamento e ho visto le lettere anonime sul tavolino, allora ho capito tutto.»
Marsha scivolò ginocchioni verso suo marito. «Ma cosa c'è che non va?» gli chiese rabbrividendo. «Sembra tutto così nebuloso.»
«Siamo quasi alla fine,» rispose la signorina Reiss con voce lontana.
In un anelito di speranza, Marsha si strinse al marito. «È vero? Stiamo per svegliarci?»
«Può darsi,» rispose Hamilton. «Qualcuno dice di sì.»
«È... meraviglioso.»
«Ne sei sicura?»
La donna fu colta da un accesso di panico. «Certo che ne sono sicura. Odio questo posto... non lo sopporto. È così... così strano. Così triste e squallido.»
«Ne parleremo più tardi.» La sua attenzione era adesso rivolta a Tillingford; il grosso capitalista aveva radunato i suoi uomini e stava confabulando con loro a voce bassa e misurata.
«Quei bastardi non si arrendono,» gli disse all'orecchio Laws. «Prima di andarcene da qui, assisteremo a uno scontro.»
Tillingford aveva finito di discutere. Puntò il pollice in direzione di Laws e disse,
«Impiccatelo. Così ce lo togliamo di mezzo.»
Laws fece una smorfia. «Un altro nero da linciare. I capitalisti lo fanno sempre.»
Incredulo, Hamilton per poco non scoppiò a ridere. Tillingford però faceva sul serio, anzi non era mai stato così serio. «Dottore,» gli disse allora Hamilton, spiccicando a fatica le parole, «tutto questo esiste solo perché Marsha ci crede. Ma sta già andando in pezzi: lei, la sua guerra, tutta questa stupida fantasia. Non è reale... è una illusione di Marsha. Mi dia retta!»
«E quel rosso,» continuò stancamente Tillingford, detergendosi la fronte sudicia con un fazzoletto di seta. «Insieme alla sua puttanella, rossa anche lei. Fategli un bel bagno con la benzina, quando smetteranno di strepitare. Ma perché non siamo rimasti all'impianto?
Almeno lì saremmo stati al sicuro, per un po', e avremmo potuto studiare un piano di difesa più efficace.»
Come ombre spettrali, gli operai stavano strisciando attraverso le macerie. Esplosero altre granate, e l'aria si riempì di minuscoli frammenti di polvere e di detriti che piovvero silenziosamente verso il basso.
«Guardate,» esclamò David, atterrito.
Nel cielo buio stavano prendendo forma delle grosse lettere. Macchie luminose dai contorni indistinti che poco per volta si trasformarono in parole, propaganda di sostegno già in parte disintegrata, scribacchiata alla meglio nell'oscurità vuota della notte, a loro beneficio.
Stiamo arrivando.
Tenete duro.
Combattenti della pace.
Ribellatevi.
«Davvero consolante,» commentò Hamilton, disgustato.
La cantilena discorde era cresciuta di tono. Il vento gelido trascinava ritornelli di canzoni cantate a squarciagola dal gruppo ancora quasi invisibile. «Forse ci salveranno,» disse esitante la signora Pritchet. «Ma quelle orribili parole lassù... mi sembrano tanto strane.»
Gli uomini di Tillingford correvano qua e là, raccogliendo calcinacci e rottami di ogni genere, ed erigendo barricate. Li si scorgeva appena, nascosti com'erano dalle nuvole vorticanti di polvere e di fumo. Di tanto in tanto un bagliore metteva in evidenza il muso canino e ossuto di qualche scagnozzo, ma solo per un attimo; subito dopo ripiombava in quell'oscurità nebulosa. Che cosa gli facevano venire in mente? Hamilton si sforzò di ricordare. Cappelli calati sulla fronte, nasi prominenti...
«Gangster,» gli suggerì Laws. «Gangster della Chicago anni trenta.»
Hamilton annuì. «Proprio così.»
«Tutto secondo copione. Deve averlo memorizzato alla perfezione.»
«Lasci in pace mia moglie,» gli disse Hamilton, senza troppa convinzione.
«Che ci aspetta, adesso?» chiese ironicamente Laws alla forma rattrappita che era Marsha Hamilton. «I capitalisti cattivi che impazziscono per la disperazione? È questo, che ci aspetta?»
«Hanno già l'aria abbastanza disperata,» commentò Arthur Silvester nel suo modo sempre misurato.
«Che persone sgradevoli,» gorgheggiò preoccupata la signora Pritchet. «Non pensavo che potessero esistere uomini come quelli.»
Proprio in quel momento uno degli slogan che illuminavano il cielo esplose. Pezzetti di parole in fiamme piovvero sui detriti, incendiandoli. Tillingford si ritrasse a malincuore, imprecando e scuotendosi i vestiti; gli era caduto addosso un intero frammento di lettere che aveva appiccato il fuoco al suo cappotto. Sulla sua destra, il gruppo di scagnozzi era stato quasi schiacciato da un enorme ritratto incandescente che raffigurava Bulganin di profilo e che era piombato dal cielo proprio addosso a loro.
«Sepolti vivi,» fu il commento compiaciuto di Laws.
Adesso stavano cadendo altre parole. Una gigantesca Pace si era appena schiantata sulla graziosa casetta di Hamilton; il tetto era già in fiamme, così come il garage e la corda per stendere il bucato. L'incendio divampò in pochi minuti sotto gli occhi amareggiati e impotenti di Hamilton, sollevando altissime lingue di fuoco nella notte. Dalla città buia non si udì alcun gemito di sirene d'allarme; le strade e le case rimasero silenziose, chiuse e indifferenti all'incendio.
«Santo Cielo,» esclamò impaurita Marsha. «Credo che non si possa più parlare di coesistenza.»
Rannicchiato insieme ai suoi uomini, Tillingford aveva perso il controllo della situazione.
«Bombe e pallottole,» continuava a ripetere senza sosta, in un bisbiglio monotono. Solo pochi dei suoi scagnozzi erano ancora vivi. «Bombe e pallottole non li fermeranno. Stanno cominciando a marciare.»
Nell'oscurità lampeggiante una linea di ombre stava avanzando verso di loro. Il canto era cresciuto ancora di intensità, trasformandosi in un'orgia di febbrile eccitazione che si levava cupo e insistente, precedendo gli uomini ben decisi a farsi strada attraverso i cumuli di macerie fumanti.
«Andiamo,» disse Hamilton. Prese la mano floscia di sua moglie e la condusse rapidamente via dal caos che li circondava.
Trovando la strada ad istinto, Hamilton e Marsha aggirarono la loro casa in fiamme, seguendo il vialetto di cemento fino al cortile posteriore. Una sezione del recinto era già bruciata e carbonizzata; sempre stringendo la mano di sua moglie, Hamilton attraversò le braci ancora accese e sconfinò nel cortile adiacente. Le altre case erano forme opache che si profilavano minacciose in lontananza. Ogni tanto si vedeva di sfuggita qualcuno che correva: operai senza volto, uno uguale all'altro, che avanzavano inesorabilmente verso il luogo della battaglia; poco per volta, però, uomini e rumori scomparvero e il crepitio delle fiamme diminuì. Erano ormai fuori dalla zona di combattimento.
«Aspettate.» Dietro di loro apparvero Laws e McFeyffe, ansimanti. «Tillingford è impazzito,» rantolò Laws. «Cristo, è un massacro.»
«Non riesco a crederci,» farfugliò McFeyffe, paonazzo e sudato. «Sono rimasti in quattro, tutti sporchi e coperti di sangue, ma lottano come forsennati.»
Davanti a loro le luci tremolavano.
«Che succede?» chiese Laws, insospettito. «Sarà meglio tenerci lontani dalla strada principale.»
Si trovavano nella zona commerciale di Belmont, ma non era affatto come la ricordavano.
«Be',» disse acidamente Hamilton, «dovevamo aspettarcelo.»
Era una squallida distesa di casupole, con l'illuminazione stradale che andava e veniva.
C'era una serie di negozietti scrostati, dall'aria vistosa e malmessa, simili a funghi velenosi. Bar, sale da gioco e da bowling, bordelli, armerie... e su tutto uno stridore metallico. Il frastuono assordante del jazz americano che fuoriusciva da altoparlanti montati su una serie di archi di dubbio gusto estetico. Le luci al neon si accendevano e si spegnevano. La zona era piena di militari armati che vagavano senza meta, passando al vaglio tutte le sordide opportunità offerte da quel fatiscente concentrato di depravazione morale.
Nella vetrina di un negozio Hamilton vide qualcosa di strano: una serie di coltelli e pistole all'interno di scatole rivestite di velluto.
«Perché no?» disse Laws. «L'idea comunista dell'America... città popolate di malviventi, dove regnano il vizio e il crimine.»
«E nelle zone rurali,» aggiunse Marsha con voce incolore, «indiani, linciaggi, esecuzioni sommarie, banditi, massacri e bagni di sangue.»
«Sembra piuttosto bene informata,» osservò Laws.
Avvilita, disperata, Marsha si accasciò sul marciapiede. «Non ce la faccio ad andare avanti,» disse.
I tre uomini rimasero lì a guardarsi senza sapere cosa fare. «Muoviti,» le disse poi il marito. «O prenderai freddo.»
Marsha non reagì. Scossa dai brividi, si rannicchiò su se stessa, il viso rivolto verso il basso, le braccia strette, il corpo piccolo e fragile contro il freddo della notte.
«Sarà meglio portarla al riparo,» propose Laws. «Magari in uno di quei ristoranti.»
«È inutile proseguire,» disse Marsha al marito. «Non credi?»
«Immagino che sia così,» rispose lui, semplicemente.
«Non ti importa più di tornare indietro?»
«No.»
«C'è qualcosa che posso dire?»
Hamilton, in piedi dietro di lei, indicò il mondo che li circondava. «Io vedo questo; è tutto quello che c'è.»
«Mi dispiace,» disse goffamente McFeyffe.
«Non è colpa tua,» replicò Hamilton.
«Però mi sento responsabile.»
«Non ci pensare più.» Hamilton si piegò e poggiò la mano sulla spalla tremante di sua moglie. «Andiamo, cara. Non puoi restare qui.»
«Anche se non c'è nessun posto in cui andare?»
«Esatto. Anche se non c'è nessun posto dove andare. Anche se siamo arrivati dove finisce il mondo.»
«Ci sarà arrivato lei,» commentò brutalmente Laws.
Hamilton non seppe che cosa replicare. Si inginocchiò e sollevò di peso sua moglie, rimettendola in piedi. Lei non oppose alcuna resistenza. Nel freddo e nell'oscurità era soltanto un insieme di materia inerte disposta ad assecondarlo ciecamente. «Sembra passato un secolo,» disse Hamilton, quasi parlando fra sé e sé, mentre le stringeva la mano. «Dal giorno in cui ci siamo incontrati nel salotti no, prima che io andassi a parlare con il colonnello Edwards.»
Marsha annuì.
«Quando abbiamo visitato il bevatrone.»
«Pensate un po',» disse McFeyffe con voce roca. «Se non fosse stato per quella visita, non avreste mai saputo niente.»
I ristoranti erano troppo eleganti, troppo pretenziosi. C'erano camerieri in divisa che si profondevano in inchini ossequiosi, trotterellando come topi fra i tavolini agghindati.
Hamilton e gli altri vagarono per le strade senza una meta precisa in mente. I marciapiedi erano quasi deserti; ogni tanto passava qualche figura cenciosa, rattrappita su se stessa per proteggersi dal vento freddo, che poi si dileguava frettolosamente nella notte.
«Uno yacht,» motteggiò Laws.
«Eh?»
«Uno yacht,» ripeté Laws, indicando una enorme vetrina che occupava un intero isolato. «Ce ne sono a bizzeffe. Se ne vuole comprare uno?»
Nelle altre vetrine facevano bella mostra pellicce costose e gioielli. E poi profumi, cibi d'importazione... e gli immancabili ristoranti rococò, con i loro deferenti camerieri e i tendaggi sfarzosi. Gruppetti di uomini e donne vestiti poveramente si fermavano qualche volta a guardare le vetrine, senza un centesimo per poter comprare qualcosa. A un certo punto apparve un carretto trainato da un cavallo, che avanzava desolato lungo la strada.
A bordo c'era un'intera famiglia che si stringeva al suo fardello di stracci.
«Profughi,» ipotizzò Laws. «Dal Kansas bruciato dalla siccità. Il Dust Bowl7, ricordate?»
Di fronte a loro si stendeva l'enorme quartiere a luci rosse.
«Allora,» disse subito Hamilton, «che si fa?»
«In fondo che abbiamo da perdere?» fece Laws. «Più avanti di così non possiamo andare; non c'è altro.»
«Tanto vale che ci rilassiamo un po',» brontolò McFeyffe. «Finché possiamo ancora farlo. Prima che questo rudere blasfemo crolli del tutto.»
Senza dire una parola si avviarono tutti e quattro verso quel carosello di luci sfolgoranti, insegne, altoparlanti a tutto volume e lacere tende svolazzanti. Verso il familiare Rifugio, il Golden Glow.
Stanca ma riconoscente, Marsha si accasciò su una sedia, accanto a un tavolino appartato. «Sembra grazioso,» commentò. «Caldo e accogliente.»
Hamilton assaporò la rumorosa cordialità della sala, la consumata familiarità dei portacenere ammucchiati, la collezione di bottiglie di birra vuote, il vociare metallico del juke-box. Il Golden Glow non era cambiato. Al bar sedeva il consueto gruppetto di operai, volti anonimi appollaiati
stancamente sui loro sgabelli. Il pavimento di legno era cosparso di mozziconi di sigaretta. Il barista, che stava pulendo indolentemente la superficie del bancone con il suo straccio sporco, fece un cenno a McFeyffe quando anche gli altri tre si misero seduti accanto a Marsha.
«Finalmente un po' di riposo per i miei piedi,» sospirò McFeyffe.
«Qualcuno vuole della birra?» domandò Laws. Mentre lui si alzava per andare a ordinare, tutti gli fecero un cenno di assenso.
7 Vasta regione pianeggiante nel centro degli Stati Uniti che negli anni trenta subì un processo di desertificazione dovuto a siccità, disboscamento e altri fattori climatici, diventando praticamente sterile (N.d.T.).
«Abbiamo fatto un sacco di strada,» disse Marsha stancamente, sfilandosi il cappotto.
«Non credo di essere mai venuta qui prima.»
«È molto probabile,» convenne Hamilton.
«Tu ci sei già stato?»
«Ci ritrovavamo sempre qui, a bere un bicchiere di birra. Quando lavoravo per il colonnello Edwards.»
«Oh,» fece Marsha. «Adesso mi ricordo. Me ne parlavi spesso.»
Laws riapparve portando quattro bottiglie di birra Golden Glow e si sedette stando attento a non farle cadere. «Servitevi pure,» disse.
«Non avete notato niente?» chiese Hamilton mentre sorseggiava la sua birra.
«Guardate quei ragazzi.»
Negli angoli più riservati del locale c'erano alcuni adolescenti. Hamilton osservò affascinato una ragazza, che non doveva avere più di quattordici anni, dirigersi verso il bar. Era una cosa nuova per lui; non gli risultava che si potessero servire alcolici ai minorenni. Nel mondo reale... che adesso gli sembrò molto più lontano. Eppure quella fantasia comunista tremolava intorno a lui, confusa e priva di sostanza. Il bar, la fila di bottiglie e di bicchieri, erano come una macchia indistinta. I ragazzi che bevevano, i tavolini, il mucchio di bottiglie vuote, sembravano dissolversi in un'oscurità nebulosa, e lui non era quasi più in grado di distinguere il retro del locale. Le familiari insegne al neon rosse, con su scritto SIGNORI e SIGNORE non si vedevano nemmeno.
Socchiuse gli occhi, mettendosi una mano sulla fronte, e osservò meglio. Molto più in là, ben oltre i tavolini e gli avventori, c'era una striscia di luce rossa indistinta. Erano quelle le insegne?
«Che c'è scritto?» chiese a Laws, indicando col dito.
Laws, quasi sillabando, rispose, «USCITA DI SICUREZZA, mi sembra.» Ma dopo un attimo aggiunse, «È quella che si trova in alto, nella camera del bevatrone. In caso di incendio.»
«A me sembra che ci sia scritto SIGNORI e SIGNORE,» obiettò McFeyffe. « O almeno è quello che c'è sempre stato scritto.»
«È l'abitudine che te la fa vedere,» replicò Hamilton.
«Ma perché quei ragazzi bevono?» chiese Laws. «E si drogano pure. Guardateli... hanno dell'erba con loro, ci scommetterei la camicia.»
«Coca-cola, droga, sesso e liquori,» disse Hamilton. «La moralità depravata del sistema.
Probabilmente lavorano nelle miniere di uranio.» Non riuscì a cancellare l'amarezza dalla sua voce. «E quando cresceranno diventeranno delinquenti e useranno fucili a canne mozze.»
«Gangster di Chicago,» incalzò Laws.
«Poi si arruoleranno nell'Esercito per massacrare i contadini e bruciare le loro baracche.
Ecco il sistema che abbiamo. Terra ideale per assassini e profittatori di tutte le risme.»
Poi, rivolto a sua moglie, «Giusto, tesoro? I ragazzi si drogano, i capitalisti hanno le mani grondanti di sangue, e gli emarginati morti di fame frugano nell'immondizia per rimediare qualcosa da mangiare.»
«Sta arrivando un'amica tua,» disse quietamente Marsha.
«Un'amica mia?» Sorpreso, Hamilton si girò poco convinto sulla sedia.
Dalla penombra spuntò una bionda sinuosa e provocante, le labbra appena socchiuse, i capelli sciolti sulle spalle. All'inizio non la riconobbe. Indossava una camicetta chiusa con dei lacci, corta e tutta spiegazzata. Il viso era una maschera di trucco, e la gonna strettissima le scopriva tutte le cosce. Non portava calze, e i piedi nudi erano infilati in bassi mocassini sporchi e consumati. Aveva un seno straripante, e quando si avvicinò al tavolo Hamilton si sentì avvolgere da una nuvola di profumo e di calore... un elaborato miscuglio di odori che gli evocarono altrettanto elaborati ricordi.
«Ciao,» disse Silky con voce sommessa, un po' roca. Si chinò su di lui e lo sfiorò con le labbra sulla fronte. «Ti stavo aspettando.»
Hamilton si alzò e le offrì una sedia. «Accomodati.»
«Grazie.» Dopo essersi seduta, Silky si guardò intorno. «Salve, signora Hamilton,» disse a Marsha. «Come va, Charley? Salve, signor Laws.»
«Posso farle una domanda?» disse Marsha, sbrigativa.
«Ma certo.»
«Che misura di reggiseno porta?»
Quasi inconsciamente. Silky si slacciò la camicetta e la aprì, mettendo in mostra i suoi seni magnifici. «Questo risponde alla sua domanda?» le domandò a sua volta. Non portava reggiseno.
Marsha arrossì. «Sì, grazie,» disse.
Contemplando con una sorta di ben camuffato timore reverenziale quei seni abbandonati, e quasi misticamente eretti, Hamilton commentò, «Immagino che il reggiseno sia un'invenzione capitalistica, progettata per abbindolare le masse.»
«A proposito di masse lei non scherza,» disse Marsha, ma fu la prima a non ridere della sua battuta; quello spettacolo le aveva tolto il poco spirito che le era rimasto. «Deve avere qualche problema a trovare indumenti della sua misura, quando butta via quelli vecchi,»
aggiunse poi.
«In una società comunista,» sentenziò Laws, «il proletariato non butta via mai niente.»
Silky fece un sorrisetto poco convinto. Restò seduta per un poco a carezzarsi i seni con le mani lunghe e affusolate, immersa nei suoi pensieri, poi scrollò le spalle, richiuse la camicetta, diede una ravviata alle maniche e appoggiò le mani unite sul tavolo. «Che mi raccontate di nuovo?»
«C'è stata una grossa battaglia alle nostre parti,» disse Hamilton. «Il vampiro succhiasangue di Wall Street contro l'eroico operaio dallo sguardo fiero che intona canzoni di rivolta.»
Silky lo guardò senza capire. «E chi ha vinto?»
«Ecco,» rispose Hamilton, «la banda di menzogneri sciacalli fascisti è stata sepolta da slogan fiammeggianti.»
«Guardi un po'» disse all'improvviso Laws, indicando qualcosa col dito. «Lo vede che c'è laggiù?»
In un angolo del locale c'era il distributore automatico di sigarette.
«Se lo ricorda?» chiese Laws ad Hamilton.
«Me lo ricordo sì.»
«C'è anche l'altro.» Laws indicò il distributore di caramelle, dalla parte opposta, quasi invisibile in mezzo alle ombre vaganti. «Ricorda quello che abbiamo fatto?»
«Me lo ricordo. Gli abbiamo fatto sputare del brandy francese di prima qualità.»
«Potevamo cambiare la società, il mondo intero. Pensi a tutto quello che avremmo potuto fare. Jack.»
«Ci sto pensando.»
«Avremmo potuto produrre qualunque cosa. Cibo, medicinali, whisky, fumetti, aratri, contraccettivi. Che principio straordinario, dietro quella macchina.»
«Il Principio del Divino Rigurgito. La Legge della Fissione Miracolosa.» Hamilton annuì con la testa. «In quel mondo in particolare avrebbe funzionato benissimo.»
«Avremmo potuto fare anche meglio del Partito,» continuò Laws. «Quelli si devono costruire le dighe, e le industrie pesanti e via dicendo. A noi bastava solo una confezione di caramelle.»
«E un tubo al neon vuoto,» aggiunse Hamilton. «Sì, ce la saremmo proprio spassata un mondo.»
«Hai l'aria così triste,» disse Silky. «Cosa c'è che non va?»
«Niente,» rispose asciutto Hamilton. «Proprio niente.»
«C'è qualcosa che posso fare?»
«No.» Hamilton fece una smorfia. «Grazie comunque.»
«Potremmo andare di sopra a fare l'amore.» Silky scostò maliziosamente il lembo della camicetta e scoprì i fianchi. «È da sempre che desidero farlo con te.»
Hamilton le diede un buffetto sul polso. «Sei una brava ragazza. Ma non servirebbe a niente.»
«Ne sei sicuro?» Gli mostrò le cosce nude, dove scintillava qualche gocciolina di sudore.
Il suo fu un gesto quasi supplichevole. «Ci farà sentire meglio tutti e due... vedrai, ti piacerà...»
«Magari un'altra volta, ma non adesso.»
«Ma che piacevole conversazione,» intervenne Marsha, rossa e tirata in volto.
«Stavamo solo scherzando,» le disse gentilmente Hamilton. «Non c'era nessuna intenzione cattiva.»
«Morte al capitalismo monopolista,» esclamò tutto a un tratto Laws, con un rutto solenne.
«Il potere alla classe operaia,» replicò doverosamente Hamilton.
«Viva la democrazia popolare degli Stati Uniti,» incalzò Laws.
«Viva l'America socialista sovietica.»
Alcuni operai seduti al bar avevano smesso di bere e si erano girati verso di loro.
«Parlate piano,» li ammonì McFeyffe, a disagio.
«Ascoltatemi bene,» gridò invece Laws, picchiando sul tavolo con il coltello da tasca. Poi lo aprì e lo agitò minacciosamente. «Ho intenzione di spellare vivo uno di quei mangiacarogne di Wall Street.»
Hamilton lo studiò con sospetto. «I negri non portano coltelli da tasca. È uno stereotipo borghese.»
«Io lo porto,» ribatté Laws seccamente.
«Allora,» decise Hamilton, «lei non è un negro. È un criptonegro che ha tradito il suo gruppo religioso.»
«Gruppo religioso?» ripeté Laws, come ipnotizzato.
«Il concetto di razza è un concetto fascista,» gli confidò Hamilton. «Il negro è un'entità religiosa e culturale, niente di più.»
«Che mi prenda un colpo,» disse Laws, impressionato. «Ehi, questa è una roba niente male.»
«Ti va di ballare?» chiese Silky ad Hamilton, con improvviso trasporto. «Vorrei poter fare qualcosa per te... hai un'aria così orribilmente disperata.»
«Sopravviverò,» replicò secco Hamilton.
«Che cosa possiamo fare per la rivoluzione?» chiese ansioso Laws. «Chi uccidiamo?»
«Uno qualsiasi,» rispose Hamilton. «Il primo che incontri. Chiunque sappia leggere e scrivere.»
Silky scambiò un'occhiata con qualcuno degli operai che stavano seguendo la conversazione. «Jack,» gli disse poi, in tono preoccupato, «questi non sono argomenti su cui scherzare.»
«Certo che no,» convenne lui. «C'è mancato poco che finissimo linciati dal quel cane pazzo dell'alta finanza, Tillingford.»
«Liquidiamo Tillingford,» propose Laws.
«Lo farò io,» disse Hamilton. «Lo farò a pezzettini e lo getterò nello scarico del gabinetto.»
«È strano sentirti parlare in questo modo,» disse Silky, squadrandolo con occhi dubbiosi. «Ti prego, Jack, non ti esprimere così. Mi spaventi.»
«Ti spavento? E perché?»
«Perché...» La ragazza gesticolò indecisa. «Ho l'impressione che tu stia facendo del sarcasmo.»
Marsha emise un gridolino isterico. «Oddio, adesso ci si mette anche lei.»
Alcuni degli operai erano scesi dagli sgabelli e si stavano avvicinando lentamente, passando in mezzo ai tavolini. Il frastuono del bar era scomparso. Il juke-box si era ammutolito. I ragazzi sul retro erano praticamente svaniti nell'oscurità vorticante.
«Jack,» disse Silky preoccupata, «Stai attento. Fallo per amor mio.»
«Adesso le ho proprio viste tutte,» sbottò Hamilton. «Tu fai politica attiva. Proprio tu!
Una ragazza onesta, amante della casa, non è così? Anche tu corrotta dal sistema?»
«Dall'oro dei capitalisti,» aggiunse cupo Laws, grattandosi la fronte ampia e rovesciando la bottiglia di birra ormai vuota. «Sedotta da qualche borioso industriale. Magari da un ministro. Hai incorniciato la tua verginità e l'hai appesa in cima alla sua libreria, sopra il caminetto.»
Marsha si guardò intorno e disse, «Questo non è veramente un bar, vero? Ha solo l'aspetto di un bar, ma non lo è.»
«A vederlo è un bar,» precisò Hamilton. «Che altro vuoi?»
«Ma sotto sotto,» insistette Marsha, agitata, «è una cellula comunista. E questa ragazza è...»
«Tu lavori per Guy Tillingford, non è vero?» chiese Silky ad Hamilton. «L'altro giorno sono venuta a prenderti là.»
«Hai ragione, ma Tillingford mi ha cacciato via. Il colonnello T. E. Edwards mi ha licenziato, Tillingford mi ha licenziato... e credo che il peggio debba ancora venire.»
Vagamente interessato, Hamilton notò che il gruppetto di operai attorno a loro era armato. In quel mondo tutti andavano in giro armati. Ognuno era schierato da una parte o dall'altra. Perfino Silky. «Silky,» le chiese ad alta voce, «sei la stessa persona che conoscevo?»
La ragazza ebbe un attimo di esitazione. «Ma certo. Però...» Scosse la testa, non sapendo come esprimersi, e i capelli biondi le ondeggiarono sulle spalle. «È tutto così maledettamente confuso. Non riesco a orizzontarmi.»
«Già,» annuì Hamilton. «È proprio tutto un casino.»
«Credevo che fossimo amici,» disse Silky mogia mogia. «Credevo che fossimo dalla stessa parte.»
«Lo siamo,» replicò Hamilton. «Anzi, lo eravamo, una volta. Chissà dove, in qualche altro luogo. Molto lontano da qui.»
«Ma... non volevi venire a letto con me?»
«Mia cara,» le disse con aria infelice, «è da sempre che voglio venire a letto con te. In ogni tempo e in ogni luogo, attraverso tutti i mondi possibili. Dovunque. E lo vorrò fino al giorno della mia morte. Mi piacerebbe prenderti e scoparti fino a far fremere quel tuo petto enorme come un albero scosso dal vento.»
«Lo immaginavo,» disse Silky con voce rotta. Per un attimo si piegò verso di lui, appoggiando la guancia sulla cravatta. Hamilton giocherellò goffamente con una ciocca di capelli biondi che le era scivolata sugli occhi. «Vorrei che le cose fossero andate in un altro modo,» gli disse alla fine la ragazza.
«Anch'io,» replicò lui. «Forse... una volta o l'altra ti verrò a trovare e berremo qualcosa insieme.»
«Acqua colorata,» disse Silky. «Mi basta quella. E il barista mi offre sempre qualche patatina.»
Gli operai, piuttosto imbarazzati, avevano tirato fuori i fucili. «Adesso?» chiese uno di loro.
Silky si rialzò.
«Credo di sì,» rispose, in modo quasi inaudibile. «Procedete, e facciamola finita.»
«Morte ai cani fascisti,» disse Laws con il suo vocione.
«Morte ai cattivi,» aggiunse Hamilton. «Possiamo alzarci?»
«Certo,» rispose Silky. «Tutto quello che vuoi. Vorrei... mi dispiace, Jack, mi dispiace davvero. Ma tu non sei dalla parte nostra, vero?»
«Temo di no,» riconobbe Hamilton, quasi di buonumore.
«Sei contro di noi?»
«Devo esserlo,» ammise lui. «Non potrei essere qualcosa di diverso, non credi?»
«Ci faremo ammazzare così, senza alzare un dito?» protestò Marsha.
«Sono amici tuoi,» disse McFeyffe con il tono rassegnato di chi si è già arreso. «Cerca di fare qualcosa. Trova qualcosa da dire. Non puoi cercare di farli ragionare?»
«Non servirebbe a niente,» disse Hamilton. «Loro non ragionano.» Poi si voltò verso sua moglie e la fece alzare dolcemente in piedi. «Chiudi gli occhi,» le disse. «E rilassati. Non ti farà troppo male.»
«Che... che cosa hai intenzione di fare?» gli chiese Marsha in un bisbiglio.
«Ho intenzione di andarmene da qui. Con l'unico sistema che sembra funzionare sempre.» Mentre il cerchio di fucili si sollevava verso di loro, Hamilton caricò il pugno, prese bene la mira e colpì forte sua moglie sulla mascella.
Marsha emise un rantolo soffocato e si accasciò fra le braccia di Bill Laws. Poi Hamilton la prese e rimase lì a stringerla fra le braccia, con un'aria istupidita sul viso. Istupidita perché gli operai erano sempre lì, impassibili, concreti e reali: stavano caricando i fucili e qualcuno aveva cominciato a prendere la mira.
«Mio Dio,» esclamò Laws, sbalordito. «Siamo ancora qui. Non siamo tornati al bevatrone.» Confuso e disorientato, aiutò Hamilton a sorreggere il corpo inerte della moglie. «Ma allora questo non è il mondo di Marsha.»
16
«Tutto questo non ha senso,» disse Hamilton, legnoso, continuando a stringere il corpo immobile, caldo e morbido, di sua moglie. «Deve essere il suo mondo. Altrimenti, di chi può essere?»
Poi, con un sollievo crescente, se ne rese conto.
Charley McFeyffe aveva cominciato a cambiare. Fu un cambiamento involontario, al di fuori del suo controllo. La trasformazione germogliò nello strato più intimo e profondo delle sue convinzioni, nucleo centrale da cui aveva origine la sua visione complessiva del mondo.
McFeyffe cresceva a vista d'occhio. Mentre lo guardavano cessò di essere un uomo basso e tarchiato, con il ventre prominente e il naso rincagnato. Divenne alto e imponente, suscitando un senso di soggezione, quasi ci si trovasse di fronte a una divinità. Le braccia erano grosse e muscolose, il petto ampio e forte, gli occhi fiammeggianti. La mascella dura e squadrata aveva adesso una linea nobile e rigorosa, sottolineata dall'aria di superiorità con cui si guardava intorno nel locale.
La rassomiglianza con Tetragrammaton era stupefacente. Evidentemente McFeyffe non era stato capace di soffocare tutte le sue convinzioni religiose.
«Che succede?» domandò Laws, affascinato. «In che cosa si sta trasformando?»
«Non mi sento troppo bene,» tuonò McFeyffe con una voce squillante, da dio. «Credo che prenderò un'aspirina.»
Intanto gli energumeni con la tuta da operaio avevano abbassato i fucili. Allibiti, tremanti, lo fissavano con reverenza.
«Compagno Commissario,» farfugliò uno di loro. «Non ti avevamo riconosciuto.»
Infastidito, McFeyffe si girò verso Hamilton. «Che imbecilli,» esclamò fragorosamente, con tono autoritario.
«Che mi prenda un accidente,» mormorò Hamilton. «Il Piccolo Padre in carne e ossa.»
La nobile bocca di McFeyffe si aprì e si richiuse, ma non ne uscì nessun suono.
«Questo spiega tutto,» disse Hamilton. «Quando l'ombrello ci ha portati lassù e Tetragrammaton ti ha potuto vedere da vicino... non c'è da stupirsi che tu sia ne rimasto sconvolto, né che Lui ti abbia scagliato addosso la folgore.»
«Riconosco che la cosa mi ha stupito,» ammise McFeyffe dopo una pausa. «Non credevo che esistesse veramente. Pensavo che fosse tutto un imbroglio.»
«Charley,» incalzò Hamilton. «Tu sei comunista.»
«Già,» tuonò miseramente McFeyffe. «Pare di sì.»
«Da quanto tempo?»
«Da anni. Fin dai tempi della Grande Depressione.»
«Hai avuto un fratello piccolo ucciso da Herbert Hoover?»
«No. Avevo semplicemente fame, non trovavo lavoro e mi ero stufato di prenderlo sempre in quel posto.»
«In fondo non sei da buttare via,» disse Hamilton. «Ma certo sei un piuttosto contorto dentro. Sei più pazzo della signorina Reiss, più puritano della signora Pritchet e più condizionato di Silvester. In te si assomma il peggio di tutti loro messi insieme. E anche di più. Ma a parte questo, sei a posto.»
«Non sono obbligato ad ascoltarti,» dichiarò la magnifica divinità dorata.
«E soprattutto sei una canaglia. Sei un sovversivo, un bugiardo senza coscienza, un maneggione affamato di potere, e sei anche un gran figlio di buona donna. Come hai potuto fare una cosa del genere a Marsha? Come hai potuto inventarti tutta quella storia?»
Dopo un attimo la creatura radiosa gli rispose, «II fine, a quanto si dice, giustifica i mezzi.»
«Tattiche di partito?»
«La gente come tua moglie è pericolosa.»
«Perché?» gli chiese Hamilton.
«Perché non appartengono a nessun gruppo. Si impicciano di tutto, e appena voltiamo la schiena...»
«E così li distruggete gettandoli in pasto ai patrioti fanatici.»
«I patrioti fanatici li possiamo capire,» spiegò McFeyffe. «Ma tua moglie no. Firma le petizioni per la pace e legge il Chicago Tribune. Quelli come lei... costituiscono una minaccia gravissima per la disciplina del Partito, più di chiunque altro. E il culto dell'individualismo che è pericoloso; l'idealista con le sue leggi, la sua etica, colui che rifiuta di sottostare all'autorità indebolisce la società, scardina l'intera struttura. Con queste premesse non si può costruire niente di duraturo. La gente come tua moglie si rifiuta di prendere ordini da chiunque.»
«McFeyffe,» disse Hamilton, «tu mi perdonerai.»
«Perché?»
«Perché adesso farò qualcosa di stupido e inutile. Perché, anche se mi rendo conto che non servirà a niente, ho intenzione di ricacciarti in gola quella tua aria da divinità di terz'ordine.»
Mentre si lanciava verso McFeyffe, Hamilton vide che l'altro tendeva la muscolatura massiccia e dura come il ferro. Era una lotta impari, e infatti non riuscì nemmeno a sfiorargli il grosso viso. McFeyffe fece qualche passo indietro, si raccolse e reagì con determinazione.
Hamilton chiuse gli occhi e abbrancò McFeyffe, tenendolo stretto. Nonostante le ammaccature, i denti saltati, il sangue che gli sgorgava da una ferita all'occhio, i vestiti a brandelli, tenne duro come un topo preso a sassate, sopraffatto da una specie di religiosa frenesia. Continuò a stringerlo, facendo appello a tutto l'odio che c'era dentro di lui, e si mise a sbattergli metodicamente la nobile testa contro il muro. McFeyffe si difese artigliandolo e graffiandolo, ma lui non mollò la presa.
Lo scontro si era virtualmente concluso; il suo piccolo assalto sconsiderato si era esaurito senza grandi risultati. Laws era accasciato a terra con la testa rotta, non lontano dalla figura scomposta e abbandonata di Marsha, che era ancora dove Hamilton l'aveva deposta. Lui stesso, ancora in piedi, si ritrovò addosso tutti i calci dei fucili; ormai la sua ora era giunta.
«Fatevi avanti,» li invitò, ansimante. «Non fa nessuna differenza. Anche se ci farete a pezzi. Anche se ci ridurrete in briciole e userete quel che resta dei nostri corpi per costruire barricate. Anche se ci userete come polvere da cannone. Tanto questo non è il mondo di Marsha e non c'è altro...»
Il calcio di un fucile si abbatté su di lui; Hamilton si piegò in due per il dolore. Uno degli operai del Partito gli mollò un calcio al basso ventre, mentre un altro si mise a colpirlo sistematicamente sui fianchi. Poi si rese conto confusamente che il corpo massiccio di McFeyffe si stava dileguando. Nell'oscurità delirante che lo circondava le sagome degli aggressori andavano e venivano; a un certo punto si ritrovò a strisciare sulle ginocchia, rantolando, e cercando di rintracciare McFeyffe attraverso la nebbia del suo stesso sangue. Ma anche di allontanarsi quanto più possibile dagli operai.
Grida. I calci del fucile che picchiavano forte sulla sua testa. Hamilton, scosso da un tremito convulso, cercò di orientarsi in mezzo a tutta quella confusione, vide una forma inerte accasciata poco lontano e si trascinò verso di lei.
«Lasciatelo perdere, adesso,» stava dicendo una voce, ma lui la ignorò e continuò a strisciare come un verme verso McFeyffe. Ma quella forma immobile e martoriata non era McFeyffe; era Joan Reiss.
Dopò un poco riuscì a trovare McFeyffe. Indebolito, frastornato, rovistò fra i detriti in cerca di qualcosa con cui ucciderlo. Mentre la sua mano si richiudeva su un pezzo di calcinaccio, un calcio violento lo fece stramazzare. Il corpo inerte di McFeyffe scomparve, e lui si ritrovò da solo a dimenarsi in mezzo alle macerie e al caos, perso fra le particelle sospese di polvere che si stavano depositando da ogni parte.
Le macerie che lo circondavano erano le rovine contorte del bevatrone, e le figure che avanzavano lentamente erano gli infermieri della Croce Rossa e i tecnici dell'impianto nucleare.
Nell'indiscriminata gragnola di colpi con il calcio dei fucili c'era andato di mezzo anche McFeyffe. In quel massacro non gli era stata riservato un trattamento di favore; nessuno aveva pensato di rispettare l'etichetta.
Sulla destra di Hamilton c'era il corpo immobile di sua moglie, con i vestiti bruciacchiati e ancora fumanti. Un braccio era ripiegato sotto il corpo, le ginocchia raccolte in posizione fetale: era un piccolo, patetico ammasso di carne sulla superficie bruciata di cemento.
Poco lontano giaceva McFeyffe. Hamilton strisciò istintivamente verso di lui, ma giunto a mezza strada una squadra di soccorso lo raggiunse e tentò di sistemarlo su una barella.
Allucinato, confuso, ma ancora spinto da una volontà feroce, Hamilton li scansò e si mise seduto.
McFeyffe, colpito alla testa dai suoi stessi compagni, era ancora svenuto e aveva sul viso massiccio e ammaccato un'espressione di furia risentita; rabbia e frustrazione gli deformavano i lineamenti, e quando riprese dolorosamente i sensi quell'espressione non cambiò. Respirava rantolando, in modo irregolare, e farfugliava qualcosa di incomprensibile agitando le braccia e dimenandosi, mentre le grosse dita si stringevano sul vuoto.
Semisepolta sotto le macerie, la signorina Reiss stava incominciando a muoversi. Si sollevò a fatica sulle ginocchia e cercò fiaccamente a tastoni i suoi occhiali rotti. «Oh,»
disse senza fiato, gli occhi ammiccanti, vuoti e inespressivi, lacrime di paura lungo le guance. «Che cosa...» Quasi per proteggersi, afferrò i resti laceri e bruciacchiati del soprabito e se lo avvolse intorno al corpo.
Un gruppo di tecnici aveva raggiunto la signora Pritchet e la stava ripulendo in tutta fretta dai detriti che ricoprivano il suo corpo voluminoso e ustionato. Hamilton si drizzò in piedi con una fitta di dolore e si trascinò verso Marsha, mettendosi a battere con la mano sulla linea di scintille incandescenti che attraversavano il suo vestito carbonizzato. Marsha rabbrividì e si agitò in un movimento riflesso.
«Non muoverti,» le disse. «Potresti avere qualcosa di rotto.»
Lei obbedì e rimase immobile, gli occhi chiusi, il corpo rigido. Più lontano, perso in mezzo alla polvere e al fumo, David Pritchet piagnucolava sommessamente, con voce lamentosa e atterrita. Adesso si muovevano tutti: tutti stavano riprendendo conoscenza.
Bill Laws, circondato da un gruppetto di infermieri bianchi, si dimenava futilmente. Pianti, grida, il gemito assordante delle sirene di allarme...
Il frastuono del mondo reale. Fumo acre e puzzolente, apparecchiature elettroniche semidistrutte, gli impacciati tentativi da parte del personale medico di prestare i primi soccorsi.
«Siamo tornati,» disse Hamilton a sua moglie. «Puoi sentirmi?»
«Sì,» rispose Marsha. «Ti sento.»
«Sei contenta?» le chiese lui.
«Sì,» rispose Marsha con calma. «Non gridare, caro. Sono molto contenta.»
Il colonnello T. E. Edwards ascoltò pazientemente, senza fare commenti, la relazione di Hamilton. Quando lui ebbe finito di snocciolare per sommi capi tutte le sue accuse, la sala convegni rimase assolutamente silenziosa. Si sentiva soltanto il fioco rumore dei sigari che venivano aspirati e il frusciare sulla carta della stenografa.
«Lei sta accusando il nostro responsabile della sicurezza di essere un membro del Partito Comunista,» disse Edwards dopo una pausa di accigliata riflessione. «È così?»
«Non esattamente,» rispose Hamilton. Era ancora sottosopra; dal momento dell'incidente al bevatrone era trascorsa poco più di una settimana. «Quello che voglio dire è che McFeyffe è un comunista disciplinato il quale si serve della sua posizione per favorire gli scopi del Partito Comunista. Se poi si tratti di una disciplina interna al partito o di una posizione sua personale...»
Edwards si girò di scatto verso McFeyffe e gli chiese a brutto muso, «Che ne dice di tutto ciò, Charley?»
L'altro non alzò nemmeno gli occhi. «Dico che è una calunnia piuttosto evidente,»
rispose.
«Lei sostiene che Hamilton sta semplicemente cercando di indebolire la sua posizione?»
«Proprio così.» McFeyffe parlava quasi meccanicamente, snocciolando le parole. «Sta tentando di gettare l'ombra del dubbio sulla validità delle mie affermazioni. Invece di difendere sua moglie ha scelto di attaccare me.»
Il colonnello T. E. Edwards si rivolse nuovamente ad Hamilton. «Temo di dover essere d'accordo con lui. È sua moglie a essere sotto accusa, non Charley McFeyffe. Cerchi di essere pertinente, nella sua linea di difesa.»
«Lei si rende conto benissimo,» disse Hamilton, «che io non posso dimostrare né adesso né mai che mia moglie non è comunista. Posso solo farvi capire per quale motivo McFeyffe ha formulato quelle accuse nei suoi confronti. Posso spiegarvi quello che sta facendo e come stiano veramente le cose. Considerate la sua posizione: chi potrebbe sospettare di lui? Ha libero accesso agli archivi riservati, e può accusare chi vuole... una posizione ideale per un fedele servitore come lui. Può scegliere chiunque non piaccia al Partito o chiunque si metta sulla sua strada. In questo modo il Partito è in grado di eliminare sistematicamente tutti i suoi avversari.»
«Ma è tutto così vago,» obiettò Edwards. «Basta un minimo di logica... dove sono le prove? Lei può dimostrare che Charley è un rosso? Come ha precisato lei stesso, non è un membro del Partito Comunista.»
«Io non faccio l'investigatore privato,» replicò Hamilton. «Né il poliziotto. Non ho modo di raccogliere informazioni contro di lui. Immagino che abbia qualche genere di contatto con il Partito Comunista americano, o con qualche organizzazione a esso collegata...
qualcuno gli deve pur passare le istruzioni. Se l'FBI lo tenesse sotto sorveglianza...»
«Nessuna prova, dunque,» lo interruppe Edwards, masticando il suo sigaro. «Giusto?»
«Nessuna prova,» ammise Hamilton. «Nessuna prova di ciò che passa per la testa di Charley McFeyffe. Ma neanche lui aveva alcuna prova di ciò che passa per la testa di mia moglie.»
«Ma su sua moglie c'era tutto quel materiale a carico. Le petizioni che ha firmato, gli ambienti di sinistra che ha frequentato. Lei mi mostri una sola petizione firmata da McFeyffe; o una riunione sovversiva alla quale abbia partecipato.»
«Nessun vero comunista si esporrà mai fino a quel punto,» ribatté Hamilton, rendendosi conto dell'assurdità nello stesso momento in cui lo diceva.
«Non possiamo licenziare Charley sulla base di ipotesi del genere. Anche lei si renderà conto di quanto sia fragile la sua affermazione. Che facciamo, lo cacciamo via perché non ha partecipato a riunioni sovversive?» Sul volto del colonnello apparve l'ombra di un sorriso. «Mi dispiace, Jack. Lei non ha uno straccio di prova.»
«Lo so,» riconobbe Hamilton.
«Lo sa?» Edwards era sbalordito. «Lei lo ammette?»
«Ma certo che lo ammetto. Non ho mai preteso di averne.» Poi spiegò, senza particolare emozione, «Ho semplicemente ritenuto di sottoporre il caso alla sua attenzione. Solo per scrupolo.»
Imbronciato, affondato nella sua poltrona, McFeyffe non disse niente. Aveva incrociato le dita grassocce e le stringeva con forza; teneva lo sguardo fisso su di esse, evitando così di guardare Hamilton.
«Vorrei poterla aiutare,» disse Edwards, a disagio. «Ma che diavolo, Jack, seguendo il suo ragionamento dovremmo classificare l'intero popolo americano come pericoloso per la sicurezza.»
«Tanto lo farete comunque. Io volevo solo che lo stesso sistema venisse applicato anche a McFeyffe. Mi sembra una vergogna che venga escluso uno come lui.»
«Io penso,» disse impettito Edwards, «che l'integrità e l'attaccamento alla nazione di Charley McFeyffe siano al di sopra di ogni sospetto. Lei lo sa, Jack, che quest'uomo ha combattuto nella seconda guerra mondiale, nel corpo dell'Aeronautica? Lo sa che è un devoto cattolico, e che è membro dei Veterani delle Guerre d'Oltremare?»
«Magari è anche boy-scout,» ironizzò Hamilton. «E tutti gli anni fa l'albero di Natale.»
«Vuole forse insinuare che i cattolici e gli ex combattenti non sono leali verso la nazione?» gli domandò Edwards.
«No. Io sto solo cercando di dire che un uomo può essere tutte quelle cose, ed essere nello stesso tempo un pericoloso sovversivo. Mentre una donna può firmare petizioni per la pace e abbonarsi a In Fact, e contemporaneamente amare fino all'ultimo pezzetto di terra di questo paese.»
«Mi sembra,» affermò Edwards freddamente, «che stiamo solo perdendo tempo.
Questo sono soltanto chiacchiere inutili.»
Hamilton spinse indietro la sedia e si alzò in piedi. «Grazie per avermi ascoltato, colonnello.»
«Non c'è di che.» Impacciato, Edwards aggiunse, «Vorrei fare più per lei, ragazzo mio.
Ma lei capisce la mia situazione.»
«Non è colpa sua,» convenne Hamilton. «Anzi, da un certo punto di vista, sono quasi contento che lei non mi abbia dato retta. In fin dei conti McFeyffe è innocente fino a quando non venga provata la sua colpevolezza.»
La riunione era terminata. I dirigenti del California Maintenance cominciarono ad allontanarsi a passo di carica lungo il corridoio, ben lieti di tornare alle loro solite mansioni. L'impeccabile stenografa raccolse la macchinetta, le sigarette e la borsa.
McFeyffe si concesse non senza difficoltà un'occhiata velenosa nei confronti di Hamilton, poi lo oltrepassò con una spinta e scomparve.
Sulla soglia, Hamilton fu bloccato dal colonnello Edwards. «Che cosa farà?» gli chiese.
«Cercherà lavoro nella penisola? Farà un tentativo all'EDA di Tillingford? Lui la assumerà senza dubbio. Era molto amico di suo padre.»
Lì, nel mondo reale, Hamilton non si era ancora rivolto a Tillingford. «Sì, mi assumerà,»
rispose pensieroso. «In parte per quel motivo, e in parte perché sono un bravissimo esperto di elettronica.»
«Mi dispiace, figliolo,» cominciò a farfugliare Edwards, imbarazzato. «Non intendevo insultarla. Volevo solo dire che...»
«Capisco benissimo ciò che voleva dire.» Hamilton si strinse nelle spalle, muovendosi con cautela per via della costola rotta, strettamente fasciata. I due denti nuovi che gli avevano impiantato gli sembravano instabili; non ci si era ancora abituato, così come non si era abituato alla chiazza. sopra l'orecchio destro, dove lo avevano rasato per suturargli con due punti una brutta ferita. Per molti versi l'incidente e tutte le disavventure successive lo avevano invecchiato precocemente. «Non andrò da Tillingford,» dichiarò.
«Mi metterò in proprio.»
Esitante, Edwards gli domandò, «Lei prova del risentimento nei nostri confronti, vero?»
«No. Ho perso il mio lavoro ma non importa. Da un certo punto di vista è un sollievo. Se non fosse successo tutto questo, probabilmente sarei andato avanti tranquillamente per chissà quanto tempo, senza preoccuparmi del sistema di sicurezza, senza nemmeno rendermi conto che esisteva. Ma adesso ci ho sbattuto il naso; sono stato costretto a prendere coscienza che esiste. Ho dovuto aprire gli occhi, che mi piacesse o no.»
«Suvvia, Jack...»
«Per me la vita è stata sempre piuttosto facile. La mia famiglia era ricca e mio padre era una persona molto conosciuta nell'ambiente. Normalmente quelli come me non vengono nemmeno sfiorati da gente come McFeyffe, ma i tempi stanno cambiando. Tutti i McFeyffe di questo mondo cominciano a farsi avanti, e prima o poi bisogna sbatterci il muso; perciò è ora che ci si accorga della loro esistenza.»
«Un gran bel discorso,» disse Edwards. «Nobile e toccante. Ma lei dovrà guadagnarsi da vivere; dovrà trovare un lavoro per mantenere la sua famiglia. E senza un'organizzazione di sicurezza non ci sarà compagnia in cui lei possa progettare i suoi missili, né qui né altrove. Nessuno che abbia un contratto governativo la assumerà.»
«Forse anche questa è una cosa positiva. Ne ho abbastanza di costruire bombe.»
«Stanchezza del lavoro?»
«Io lo chiamerei risveglio di coscienza. Alcune delle cose che mi sono successe hanno cambiato il mio modo di pensare. Mi hanno fatto uscire dai binari, per così dire.»
«Ah, sì,» disse distrattamente Edwards. «L'incidente.»
«Ho visto tanti aspetti della realtà che pensavo non esistessero nemmeno, e ne sono uscito con una prospettiva modificata. Forse ci voleva un'esperienza del genere per spezzare le catene dell'abitudine. Se è così, è stata un'esperienza che valeva la pena di essere vissuta.»
Dietro di lui, dal corridoio, provenne il suono ritmato di un battito di tacchi. Marsha, radiosa e ansimante, corse verso di lui e lo abbracciò. «Possiamo andarcene,» gli disse con calore.
«E la cosa più importante,» aggiunse Hamilton, «è stata chiarita. Marsha diceva la verità, ed è questo che mi sta più a cuore. Un altro lavoro posso sempre trovarlo, ma le buone mogli scarseggiano.»
«Che cosa ha intenzione di fare?» insistette il colonnello mentre Hamilton e Marsha si allontanavano lungo il corridoio.
«Le scriverò,» gli rispose Hamilton senza nemmeno voltarsi. «Sulla carta intestata della ditta.»
«Tesoro,» disse Marsha tutta eccitata mentre scendevano le scale dell'edificio e si avviavano sul vialetto di cemento, «sono arrivati i camion e hanno già cominciato a scaricare.»
«Bene,» disse Hamilton, soddisfatto. «Così faremo un figurone quando ci lavoreremo quella vecchia ciabatta.»
«Non parlare così,» lo rimproverò Marsha, preoccupata, stringendogli il braccio. «Mi vergogno di te.»
Hamilton ridacchiò e la aiutò a salire in macchina. «D'ora in poi sarò sempre più che onesto con tutti, dirò esattamente ciò che penso, e farò esattamente ciò che ho voglia di fare. La vita è troppo breve per viverla in un altro modo.»
Esasperata, Marsha si lagnò, «Tu e Bill... mi domando che ne verrà fuori.»
«Faremo un sacco di soldi,» le rispose allegramente Hamilton mentre guidava lungo l'autostrada. «Ricordati quello che ti dico, amore mio. Tu e Tontolone mangerete piatti sopraffini e dormirete su cuscini di seta.»
Mezzora più tardi erano in cima a una spianata brulla, e studiavano con occhio critico il piccolo capannone in lamiera ondulata che Hamilton e Laws avevano preso in affitto. Una fila di grossi camion stava andando a marcia indietro per scaricare sulla piattaforma posteriore i macchinari, imballati all'interno di gigantesche scatole di compensato.
«Uno di questi giorni,» disse pensieroso Hamilton, «da quella piattaforma verranno fuori piccole scatole lucide e quadrate, con manopole e levette. E i camion verranno a caricare la merce, non a scaricarla.»
Bill Laws, il corpo magro contratto contro il vento freddo d'autunno, stava trotterellando verso di loro, con un mozzicone tutto storto di sigaretta fra le labbra sottili e le mani infilate nelle tasche. «Bene,» disse con una smorfia sardonica sulla faccia. «Non è molto, ma almeno ci divertiremo. Magari andremo subito a gambe all'aria, però lo faremo spassandocela come matti.»
«Jack sostiene che faremo un sacco di soldi,» disse Marsha, perplessa, le labbra serrate in un'espressione falsamente imbronciata.
«Quello verrà dopo,» le spiegò Laws. «Quando saremo troppo vecchi e malridotti per spassarcela.»
«Si è fatta vedere Edith Pritchet?» chiese Hamilton.
«È in giro da queste parti,» rispose Laws, indicando vagamente con la mano. «Ho visto la sua Cadillac parcheggiata lungo la strada.»
«Cammina ancora?»
«Oh sì,» affermò Laws. «Funziona benissimo. Decisamente non siamo più in quel mondo.»
Un ragazzetto sugli undici anni spuntò correndo tutto eccitato. «Che cosa fabbricherete?» domandò. «Razzi?»
«No,» rispose Hamilton. «Giradischi. Così la gente potrà ascoltare la musica. È un prodotto destinato ad avere un grande successo.»
«Evviva,» esclamò il ragazzo, colpito. «Ehi, l'anno scorso ho costruito un apparecchio ricevente a cuffia, con tubo unico. Funzionava a batteria.»
«È un buon inizio.»
«E adesso sto costruendo un sintonizzatore ad alta frequenza.»
«Ottimo,» disse Hamilton. «Magari ti prenderemo a lavorare con noi. Ammesso naturalmente che non dobbiamo stamparci da soli i quattrini.»
La signora Edith Pritchet li raggiunse in quel momento, muovendosi a piccoli passi sul terreno ancora privo di qualsiasi servizio. Era imbacuccata in un pesante cappotto di lana, e sui riccioli tinti troneggiava un elaborato cappellino. «Su, caro, non fare perdere tempo al signor Hamilton e al signor Laws,» disse in tono di rimprovero, rivolta al figlio. «Hanno già tante cose di cui occuparsi.»
David Pritchet si fece da parte con aria avvilita.
«Avete acquistato una gran quantità di materiale,» osservò dubbiosa la signora Pritchet ai due uomini. «Dev'essere costata parecchio.»
«Ci era indispensabile,» disse Hamilton. «Noi non assembliamo amplificatori da componenti standard; noi progettiamo e costruiamo ogni singolo pezzo, dai condensatori ai trasformatori. Bill ha gli schemi di una nuova cartuccia antiattrito. Dovrebbe essere una bomba, nel mercato dell'alta fedeltà... garantisce il consumo minimo del disco.»
«Siete due degenerati,» disse Marsha, divertita. «Cercate di soddisfare i capricci della classe più agiata.»
«Io credo,» disse Hamilton, «che la musica sia destinata a crescere nell'interesse della gente. Il problema riguarda il modo di ascoltarla. Utilizzare bene un impianto hi-fi diventerà un'arte vera e propria. Questi nostri impianti richiederanno lo stesso impegno, per farli funzionare, di quanto ce ne vorrà a noi per costruirli.»
«Già me li vedo,» disse Laws, sorridendo. «Giovanotti aitanti seduti sul pavimento del loro appartamento di North Beach, che girano freneticamente manopole e interruttori, mentre nella stanza rimbomba il suono incredibilmente autentico di motori, tempeste di neve, camion che scaricano rottami metallici e altre stranezze registrate.»
«Non ne sono così sicura,» obbiettò la signora Pritchet, ancora poco convinta. «Voi due sembrate così... eccentrici.»
«Ma questo è un campo di eccentrici,» la informò Hamilton. «Peggiore di quello degli articoli di moda, o dell'organizzazione di feste di addio al celibato, ma immensamente più remunerativo.»
«Ma voi siete certi,» insistette la signora Pritchet, «che la vostra iniziativa sarà uri successo commerciale? Non mi piace fare investimenti senza la garanzia di un ritorno ragionevole.»
«Signora Pritchet,» disse Hamilton, con aria di rimprovero, «mi è sembrato di sentirle dire, una volta, che lei avrebbe voluto fare la mecenate in campo artistico.»
«Santo Cielo,» lo rassicurò la donna. «Non c'è niente di più importante per la società di un sostegno convinto alle attività culturali. La vita senza il grande patrimonio artistico creato da generazioni di geni ispirati...»
«Allora sta facendo la cosa giusta,» la interruppe Hamilton. «Sentirà la musica dei contanti.»
«Ma...»
«Dei cantanti, voleva dire Jack,» intervenne Laws.8 «Insomma, noi operiamo in campo musicale. Con un impianto come il nostro, chiunque potrà ascoltare la musica come non ha mai fatto in vita sua. Musica al massimo della potenza senza la minima distorsione, e con una fedeltà mai raggiunta. Sarà una rivoluzione culturale.»
Hamilton pose un braccio attorno alla moglie e la strinse calorosamente a sé. «Che te ne sembra, tesoro?»
«Magnifico,» rispose Marsha, con una smorfia di dolore. «Ma stai attento... sono tutta ustionata, ti ricordi?» «Pensi che avremo successo?» «Non ne dubito.»
«Dovremmo essere tutti soddisfatti,» disse allora Hamilton, rivolto alla signora Pritchet, lasciando Marsha. «Giusto?»
Ancora incerta. Edith Pritchet frugò nella sua voluminosa borsa in cerca del blocchetto degli assegni. «Be', pare che sia per una buona causa.»
«È un'ottima causa,» annuì Hamilton. «Perché se non abbiamo i soldi, non potremo nemmeno cominciare a lavorare.»
8 Qui c'è un gioco di parole intraducibile in italiano fra "loot" (quattrini) e "liute" (liuto), che si pronunciano più o meno allo stesso modo (N.d.T.).
La signora Pritchet richiuse di scatto la borsa. «Tutto sommato, forse è meglio che non mi lasci coinvolgere in questa storia.»
«Non ci faccia caso,» intervenne prontamente Marsha. «Nessuno dei due sa quello che sta dicendo.»
«D'accordo,» cedette infine la signora Pritchet, ormai convinta. Compilò scrupolosamente un assegno corrispondente alla spesa iniziale prevista. «Mi aspetto di riaverlo indietro,» disse con aria severa, porgendo l'assegno a Laws. «Secondo quelli che sono i termini del nostro accordo.»
«Lo riavrà,» disse Laws. Ma subito dopo fece un salto all'indietro, strillando per il dolore.
Si piegò, portò rabbioso una mano alla caviglia e schiacciò con il pollice qualcosa di piccolo che si dimenava freneticamente. «Che cos'è?» gli chiese Hamilton. «Una forbicina. Si è infilata lungo il calzino e mi ha pizzicato.» Laws fece una smorfia impacciata e aggiunse,
«È solo una coincidenza.»
«Noi speriamo di poterle restituire il denaro,» disse Hamilton alla signora Pritchet, tanto per coprirsi le spalle. «Naturalmente non possiamo prometterglielo, ma faremo tutto il possibile.»
Aspettò, ma niente lo morse o lo pizzicò.
«Grazie a Dio,» ansimò Marsha, dando un'occhiata all'assegno.
Bill Laws si incamminò di buon passo verso il capannone di lamiera ondulata. «Allora?»
strillò. «Che stiamo aspettando? Mettiamoci al lavoro!»
Questo libro falsifica e distorce deliberatamente l'immagine reale, mettendo in ombra gli elementi cospiratori e sottintendendo che la loro esistenza è immaginaria.
Joan Reiss
Si cercherebbe invano qualsiasi reale consapevolezza del perché questi eventi si siano verificati. L'autore si accontenta semplicemente di offrircene un resoconto piatto e naturalistico, senza alcun riferimento al significato morale... la malattia del naturalismo contemporaneo.
Arthur Silvestre
Non saprei trovarci niente di interessante, escluso l'episodio dell'ombrello, al quale non credo.
David Pritcher
L'autore è andato fuori dalle righe tentando di rivestire di un certo fascino alcuni personaggi minori piuttosto insignificanti, come la cameriera (o quel che diavolo è).
Marsha Hamilton
Il libro è delizioso. Solo che c'è un interesse insistito per la violenza e il sesso, e manca invece un messaggio spirituale più ampio che redima alcune sequenze altrimenti sgradevoli.
Edith Prichet
Sul romanzo sembra aleggiare una specie di roseo bagliore ottimistico, una fiducia anacronistica che le cose in un modo o nell'altro volgeranno per il meglio. Nella vita reale tutto questo semplicemente non avviene.
Bill Laws
In qualche modo è lungo e tortuoso, si parla troppo e si agisce poco.
Charley McFeyffe
Mi è sembrato buono, anche se avrei preferito che la scena nella sala d'ascolto entrasse meno nei particolari. Non è necessario che tutto sia così esplicito.
Jack Hamilton
Questo è il testo completo di un prologo incluso nel manoscritto originale di Eye in the Sky del 1955, dove i protagonisti sembrano dare un giudizio personale sul romanzo.
Nell'originale la citazione di Bill Laws viene prima di quella di Edith Prichet.