La notte prima di
Natale
Nikolaj V. Gogol’
Recensione
«Era passata la vigilia. Una notte limpida, poche stelle. La luna si levava maestosa, mandando dall’alto la sua luce alla buona gente e al mondo intero, perché tutti con cuore allegro intonassero i canti di Natale…».
«...A Dikan’ka nessuno sentì come il diavolo avesse rubato la luna. Vero è che lo scrivano comunale, uscendo a quattro gambe dall’osteria, notò che, a un tratto, e senza alcuna ragione, la luna si era messa a ballare per il cielo;…».
Realismo e magia, fin dall’inizio. Favola natalizia, è parte della raccolta “Veglie alla fattoria presso Dikan’ka”, tra i primi lavori di Gogol’ nato nel 1809 a Soročincy (nell’allora governatorato di Poltava, in Ucraina). Ha per protagonisti un diavolo e un fabbro-pittore di nome Vakula, innamorato di Oksana, la ragazza più bella del villaggio. Filo conduttore del racconto è la rabbia con annesso desiderio di vendetta del demone verso Vakula, colpevole di averlo rappresentato in un quadro sgradevole, e che si tradurrà in un continuo litigio tra i due. La vigilia di Natale diventa quindi l’occasione scelta per recarsi nel paese dopo il tramonto e rubare la luna dal cielo per fare un dispetto al ragazzo.
«Così dunque, non appena il diavolo s’ebbe ficcato la luna in saccoccia, una così profonda tenebra si sparse pel mondo, che non tutti avrebbero imbroccato la nota via dell’osteria, non che della casa del chierico…».
A questo punto, tra passioni, amicizie e fraintendimenti inizia una narrazione organizzata con maestria descrittiva, che fotografa uno spaccato del vecchio Impero russo. La storia – agile impasto di originalità ed emblema dello stile vivido dello scrittore – sceglie la strada della semplicità per tessere un filo sottile tra il reale e un fantastico in parte nascosto dall’uso del grottesco. Pubblicato nel 1832, il racconto mescola leggenda e folklore, anticipando – con alcune intuizioni – tratti del realismo magico di inizio Novecento e della raffinatezza tipica di Gogol’. Trasmette in poche pagine – secondo abitudini che ritornano nell’autore – una morale ottimistica e un lieto fine dalle sfumature fiabesche. Senso diretto e ultimo della scrittura è che la purezza di cuore e il bene hanno la meglio sulla perfidia e sul male. Oltre ogni cosa. Ambientata nell’Ucraina di Caterina la Grande (1762-1796), la favola di Gogol’ ha ispirato negli anni le opere liriche di Pëtr Čajkovskij “Il fabbro Vakula” (1874) e “Gli Stivaletti” (1885) e “La notte prima di Natale” di Nikolaj Rimskij-Korsakov (1894-95), senza dimenticare un film d’animazione – con lo stesso titolo
La notte prima di Natale
L’ultimo giorno prima di Natale era passato. Era discesa una notte chiara, d’inverno; si erano affacciate le stelle; la luna si era innalzata maestosamente nel cielo a far lume alla brava gente e al mondo intero, affinché tutti cantassero le koljadki 9 e lodassero Cristo in letizia. Gelava più intensamente che al mattino; in compenso vi era un tale silenzio che lo scricchiolio del ghiaccio sotto i passi si udiva a distanza di mezza versta. Non si era ancor fatta viva alcuna brigata di giovanotti sotto le finestre delle capanne: soltanto la luna le guardava con la coda dell’occhio, quasi a invitare le ragazze vestite a festa ad uscire al più presto sulla neve crepitante. A questo punto, dal camino di una capanna sgorgò un grosso pennacchio di fumo, e salì come una nuvola verso il cielo; e, insieme col fumo, si innalzò una strega in sella a una granata.
Se in quel mentre fosse passato l’assessore di Soročincy, sopra la sua trojka di cavalli padronali, col suo berretto all’ulana, dai risvolti d’agnello, con la sua pelliccia azzurra foderata di nera calmucca, con la frusta intrecciata alla diavola, – con la quale usa frustare il cocchiere, – egli, certo, l’avrebbe notata: poiché all’assessore di Soročincy non sfugge strega al mondo. Egli sa a menadito quanti porcelli abbia figliato la troia d’ogni massaia; di quanta tela sia stivato il ventre d’ogni forziere; e qual parte esattamente di ogni indumento proprio, o del proprio avere, abbia impegnato alla bettola ogni buon uomo alla domenica. Ma l’assessore di Soročincy non passava di là. Eppoi, cosa gli importa dell’altrui? Egli ha la propria giurisdizione. In quanto alla strega, essa si era levata frattanto ad una tale altezza che la si discerneva a malapena come un puntino nero. Ma dovunque il puntino appariva, là scomparivano ad una ad una le stelle. Ben presto la strega ne ebbe riempita un’intera manica. Tre o quattro ancora brillavano. Improvvisamente, dalla parte opposta, comparve un altro puntino: crebbe, allungò, e non era ormai un puntino. Un miope, se pure avesse inforcato sul naso, al posto degli occhiali, le ruote della carrozza commissariale, nemmeno allora avrebbe potuto distinguere di che si trattasse. Di fronte – un vero Tedesco 10: un grifuccio sottile, sempre in movimento, continuamente intento a fiutacchiare ciò che incontrava per strada, e che terminava, come quello dei nostri porci, in una monetina tonda, da un soldo; le gambe tanto affilate che, se le avesse avute a quel modo il sindaco di Jareskovo, se le sarebbe rotte al primo ballo. Ma di dietro, in compenso, era un vero paglietta di provincia in uniforme, ché gli penzolava una coda lunga e fatta a punta come le falde delle nostre divise; sol che, forse dalla barba caprina che aveva sotto il ceffo, dalle piccole corna che gli spuntavano fuori dalla testa, e dal fatto che, da capo a piedi, non era certo più bianco d’uno spazzacamino, si poteva arguire che non fosse un Tedesco, né un paglietta qualsiasi di provincia, ma soltanto il diavolo; al quale era rimasta un’ultima notte per poter scorrazzare indisturbato per il mondo a insegnare magagne ai bravi cristiani. Il giorno dopo, al primi rintocchi del mattutino, sarebbe scappato via con la coda fra le gambe, nella sua tana, senza neppur volgersi addietro.
Frattanto il diavolo si era avvicinato, zitto zitto, alla luna, e aveva già allungato una mano per afferrarla, quando la ritrasse di colpo, quasi si fosse scottato: prese a succhiarsi le dita, a saltellar sulle zampe e, di corsa, girò dal lato opposto, e di nuovo balzò indietro e ritrasse la mano. Ciò nonostante, malgrado questi insuccessi, l’astuto demonio non rinunciò alla sua birbanteria. Presa la rincorsa, ghermì la luna d’un colpo, con tutte e due le mani: facendo smorfie, e soffiandovi, la palleggiò come un villano che abbia preso un tizzo per la pipa sui palmi nudi; infine la cacciò bravamente in saccoccia, e continuò oltre come niente fosse.
A Dikan’ka nessuno sentì come il diavolo avesse rubato la luna. Vero è che lo scrivano comunale, uscendo a quattro gambe dall’osteria, notò che, a un tratto, e senza alcuna ragione, la luna si era messa a ballare per il cielo; e lo affermò – giurando – dinanzi a tutto il villaggio; ma i compaesani scossero la testa, e perfino lo presero in giro. Ma per quale motivo il diavolo si era deciso a compiere un atto così illegittimo? Ed ecco per quale: egli sapeva che Čub 11, facoltoso cosacco, era stato invitato a mangiare la kutja in casa del diacono; dove vi sarebbero stati: il sindaco; un parente del diacono, giunto dalla cantoria vescovile con un soprabito turchino, e con una voce di basso profondo; il cosacco Prudibernoccolo, e qualcun altro ancora; dove, a parte la suddetta kutja, vi sarebbero stati: zozza bollita con frutta e miele, vodka allo zafferano, e gran copia di cibi d’ogni genere e specie. Ma, al contempo, sua figlia, la più grande bellezza del villaggio, sarebbe rimasta a casa, sola; e da questa figlia sarebbe venuto, senza alcun dubbio, il fabbro: un pezzo di giovanotto, forte da mettere paura, che al diavolo riusciva antipatico assai più delle prediche di padre Kondrat. Il fabbro, nelle ore in cui era libero dalle occupazioni, si applicava a dipingere, ed aveva fama di essere il miglior pittore del contado. Il centurione L...ko in persona, a quel tempo ancor vivo e vegeto, lo aveva chiamato appositamente a Poltava, per fargli dipingere le stecche della palizzata che circonda la casa. Tutte le ciotole, in cui i cosacchi di Dikan’ka mangiavano la minestra, erano state dipinte dal fabbro. Il fabbro era uomo pio, e dipingeva spesso immagini sante: si può ammirare tutt’oggi nella chiesa di T... un suo San Luca evangelista. Ma, apice della sua maestria, era un quadro dipinto sulla parete, nell’atrio destro della chiesa, dove egli aveva raffigurato San Pietro nel giorno del Giudizio universale mentre, le chiavi in pugno, cacciava dall’inferno il demonio. Saltabeccava il demonio, all’impazzata, presentendo la fine imminente, e i dannati, sino allora prigioni, lo flagellavano e gli davan la caccia con verghe, mazzapicchi, e quant’altro capitava loro sotto mano. Durante il tempo in cui il fabbro stava lavorando al quadro, e lo dipingeva su di una grande tavola di legno, il demonio si era industriato di nuocergli con ogni mezzo: invisibile, gli aveva urtato il gomito, aveva fatto volare la cenere dal crogiolo della fucina, ed aveva imbrattato con essa il quadro intero; ma, a dispetto di tutto, il lavoro era stato compiuto, la tavola portata in chiesa, e incastrata nel muro; e da quel giorno il diavolo aveva giurato di prendersi vendetta del fabbro.
Solo un’ultima notte gli era rimasta per scorrazzare nel mondo, e in questa notte andava cercando come sfogare la propria collera sul fabbro. Ecco perché aveva deciso di rubare la luna, contando sul fatto che il vecchio Čub era pigro, non proclive a muoversi, e che dalla casa di lui a quella del diacono c’era una distanza non trascurabile: la strada girava dietro l’abitato, rasente i mulini, rasente il cimitero, e tutto attorno a un burrone. Col chiaro di luna, per Čub vodka allo zafferano e zozza bollita potevano, ancora, costituire un’attrattiva; ma con un buio di tal sorta non sarebbe stato facile tirarlo giù dalla stufa e indurlo ad uscire di casa. In quanto al fabbro, che da un pezzo era in disaccordo con lui, non avrebbe avuto davvero il coraggio di andare dalla figlia, lui presente.
Perciò, allorché il diavolo ebbe messa in saccoccia la luna, per il mondo intero si fece a un tratto una tale oscurità che non sarebbe stata impresa da molti, non dico arrivare dal diacono, ma nemmeno trovare la strada dell’osteria. La strega, nel vedersi sprofondare di colpo in quella tenebra, cacciò uno strillo. Allora il diavolo, accostatosi a lei con l’aria furbesca di un demonietto, la cinse sotto braccio, e incominciò a sussurrarle all’orecchio ciò che di solito si sussurra al bel sesso. In che modo curioso è fatto il mondo! Non c’è essere vivo che non si sforzi di contraffare e copiare i propri simili. Un tempo a Mirgorod, non vi erano che il giudice ed il sindaco ad andarsene, durante l’inverno, in pelliccia rivestita di panno; l’impiegataglia minuta portava la pelliccia così com’è: senza nulla sopra; ora anche l’assessore e il segretario si sono ripicchiati in certe pellicce, nuove, d’agnello di Resetilovka, rivestite di panno. Il cancelliere e lo scrivano comunale, due anni fa, si sono comprati una stoffa di nanchino azzurro, pagandola sei grivenniki al metro. Il campanaro si è fatto un corpetto, e un par di brache da estate, di lana a righe. Insomma, tutti cercano di diventare dei cristiani! Ma i cristiani quando la smetteranno d’esser vanitosi? Ora, c’è da scommettere che a molti sembrerà incredibile vedere anche il demonio battere la stessa strada. Ciò che più indispettisce è che si reputi, senza dubbio, un bell’uomo, mentre è una rogna che fa coscienza a guardarlo. Ha un ceffo, come dice Foma Grigor’evič, che è l’arcischifo degli schifi; eppure, anche lui, pretende di combinare corti amorose! Certo è che in cielo e sotto il cielo vi era un buio così pesto che come andasse a finire, tra quei due, non si sa: non fu possibile in alcun modo vederlo.
– Allora tu, compare, non ci sei stato nella capanna nuova del diacono? – disse, facendosi sulla porta di casa, il cosacco Čub a un contadino magro, lungo, con una pelliccia corta, e una barba incestita che mostrava come da oltre due settimane non fosse stata sfiorata da quel troncone di falce con cui i nostri villani, per non aver rasoi, usano tondersi il viso. – Là ci sarà una bella bevuta, stasera! – continuò Čub, allargando in un ghigno la bocca fino agli orecchi. – Purché si arrivi in tempo!
Nel dir questo, Čub si aggiustò la cintura che gli teneva ben stretta la pelliccia, si calcò meglio il berretto sulla testa, strinse nel pugno lo scudiscio – scempio e flagello dei cani importuni, – ma volti gli occhi in su, si interruppe... – Che diavolo è questo! Guarda! Guarda, Panas!
– Eh? – proferì il compare, e anch’egli sollevò la testa all’insù.
– Come eh? Non c’è luna!
– Accidenti! Non c’è luna davvero!
– Già, la quistione è proprio qui: che non c’è! – ribatté Čub con una punta di stizza per la imperturbabile pacatezza del compare. – A te, si sa, non importa un bel nulla!
– E che ci posso fare?
– Ci voleva proprio – riprese Čub, nettandosi i baffi con una manica, – che un qualche diavolo (che non possa mai più, quel cane, bersi un bicchiere di vodka al mattino!) venisse a ficcarci dentro le corna!... Si direbbe che ci prenda in giro... Mentre ero ancora in casa ho guardato apposta dalla finestra: una notte che era una meraviglia! Chiaro; una neve lucente, sotto la luna; ci si vedeva come di giorno. Non ho fatto a tempo a usci-re dalla porta – un buio da cavar gli occhi! (Che si rompa tutti i denti contro il pan secco!).
Čub continuò per un pezzo a bofonchiare e sacramentare, mentre nel tempo stesso meditava sulla decisione da prendere. Aveva proprio una voglia matta di una bella chiacchierata dal diacono; dove, senza alcun dubbio, erano ormai giunti e il sindaco, e il basso venuto da fuori, e il catramaro Mikita, che ogni due settimane andava a Poltava al mercato, e sapeva combinare certi scherzi che tutti i paesani si reggevano la pancia dal ridere. Già vedeva Čub, col pensiero, la zozza bollita troneggiare in mezzo alla tavola. Ciò gli era, è vero, di grande tentazione; ma il buio della notte gli richiamò la pigrizia così cara ad ogni cosacco. Come sarebbe stato bello, ora, giacere sopra la stufa, con le gambe raccolte sul ventre, fumare in pace la pipa, e ascoltare, di tra una sonnolenza beata, le koljadki ed i canti delle allegre ragazze e dei ragazzi assiepati in frotte sotto le finestre! Non v’è alcun dubbio che egli si sarebbe risolto per quest’ultimo partito, se fosse stato solo; ma in due non è poi tanto noioso, né fa poi tanta paura andar di notte al buio; e d’altronde nemmeno voleva passare per indolente o pavido, di fronte a un altro. Smesso di tirar sacramenti, si rivolse di nuovo al compare:
– Allora, compare, la luna non c’è?
– Non c’è.
– Curiosa, davvero! Fiutiamo una presa di tabacco! Tu, compare, ci hai un ottimo tabacco! Dove lo acquisti?
– Ottimo un corno! – rispose il compare, chiudendo la tabacchiera di betulla con fregi a intaglio. – Non farebbe starnutire neanche una gallina vecchia!
– Mi torna in mente – continuò Čub sul medesimo tono: – che una volta il povero bettoliere Cuculo mi portò del tabacco da Nezin. Eh, quello sì che era tabacco! Tabacco buono era quello! E allora, compare, che facciamo? È buio pesto!
– Restiamo a casa, allora – disse il compare, e poggiò la mano sulla maniglia dell’uscio.
Se il compare non avesse detto questo, Čub avrebbe sicuramente deciso di rimanersene a casa, ma adesso si sentì spinto al ripicco: – No, compare, andiamo! Non sta bene, non si può non andare!
Aveva appena finito di dirlo che si indispettì con se stesso per averlo detto, ma si consolò al pensiero di averlo voluto lui, espressamente, e di avere agito, ad ogni caso, in modo opposto a quello consigliatogli.
Il compare, con una faccia che non esprimeva la più lontana ombra di contrarietà, come uno cui fosse assolutamente indifferente lo starsene a casa, o l’andar fuori di casa, girò attorno lo sguardo, si grattò le spalle con la gruccia del bastone, e i due compari si misero in cammino.
Adesso vediamo cosa sta facendo la bella figliola, rimasta sola a casa. Oksana non aveva ancora diciassett’anni, e quasi in tutto il mondo – e da questo lato di Dikan’ka, e da quell’altro lato di Dikan’ka – non si parlava che di lei. I giovanotti, a una voce, affermavano che ragazza più bella non v’era stata mai, né mai vi sarebbe al villaggio. Oksana sapeva e udiva quel che dicevano di lei, ed era capricciosa come ogni bellezza. Se, invece di andare in giro con una sottana a quadri e un grembiule, se ne fosse andata con una cappottina, avrebbe eclissato tutte le compagne. I giovanotti le correvano dietro a sciami, ma a lungo andare perdevano la pazienza, e si mettevano con altre meno viziate di lei. Non c’era che il fabbro, ostinato; e seguitava a farle la corte, benché lui pure non fosse trattato per nulla meglio degli altri. Uscito il padre, Oksana rimase ancora un pezzo ad agghindarsi, a far moine dinanzi a un piccolo specchio dalla cornice di stagno, e non si saziava di ammirarsi.
– Che fantasia è venuta alla gente di chiamarmi bella? – diceva con aria quasi svagata, tanto per discorrere un po’ con se stessa. – Mentono, non sono affatto bella!
Ma il volto che appariva nello specchio, pieno di vita, di una fanciullezza ancor tenera, con certi occhi neri e lucenti, con un sorriso indicibilmente allettante che ti metteva il fuoco addosso, le attestò subito il contrario.
– Sono proprio miei quegli occhi e quelle sopracciglia – riprese la ragazza senza abbandonare lo specchio – così belli che non hanno l’eguale? Che c’è di bello in quel naso volto all’insù? e in queste guance? e le labbra? Son forse belle le mie trecce nere? Uh! C’è da aver paura a guardarle di notte: sembrano lunghe serpi contorte, e attorcigliate alla testa. Ora lo vedo, che non sono affatto bella! – E scostando un poco lo specchio esclamò: – No, che io sono bella! Ah, come sono bella! Una meraviglia! Quale gioia sarò per chi mi sposa! Come si beerà di me mio marito! Uscirà fuor di sé per la gioia. Fino a morire vorrà baciarmi.
«Uno splendore di ragazza! – mormorò il fabbro, entrato di soppiatto. – Eppoi modesta! È un’ora che si sta a rimirare allo specchio e non è ancora riuscita ad ammirarsi abbastanza; e per giunta si loda ad alta voce».
– Ma no, giovanottini: sono forse un boccone per voi? Ma guardatemi solo – continuò la deliziosa civetta. – Vedete che andatura aggraziata! E ho la camicia ricamata di seta rossa. E che nastri sul capo! Un gallone più ricco non lo vedrete mai in vita vostra! È mio padre che mi ha comprato tutte queste cose, perché il giovanotto più bello del mondo possa sposarmi. – E, sorridendo, fece una piroetta, e vide il fabbro...
Dette un grido, e gli si piantò davanti aggrondata.
Il fabbro si sentì cadere le braccia.
È difficile ridire quel che esprimesse il volto morato della bella ragazza: vi si leggeva sopra una severità e, assieme alla severità, una venatura di beffa per l’impaccio del fabbro; e vi era anche soffusa una tinta leggera di dispetto; e tutto ciò talmente commisto, e con un’aria così indicibilmente incantevole, che – baciarla un milione di volte: ecco tutto quel che c’era da fare di meglio in quel momento.
– Perché sei venuto qui? – prese a dirgli Oksana. – Vuoi che ti cacci fuori con l’attizzatoio? Tutti bravi, voialtri, a sgusciar dentro le case. Subito lo fiutate quando i genitori sono via. Io vi conosco! E il mio forziere è pronto?
– Sarà pronto, cuor mio: sarà pronto dopo le feste. Sapessi quanto tempo ci ho speso: per due notti intere non sono uscito dalla fucina. Ma un forziere come quello non ci sarà figlia di prete che possa averlo. Le cerniere sono di un ferro quale non ne ho usato di simile neppure per la carrozza del centurione, quando andai a lavorare a Poltava. E come sarà, poi, dipinto! Gira anche tutti i dintorni, se vuoi, coi tuoi bianchi piedini: non ne trovi di simili! Te lo smalterò di fiori rossi e celesti. Abbaglierà come un fuoco. Non adirarti con me! Lascia che io ti parli almeno un poco, che almeno un poco ti guardi!
– Chi te lo vieta? Parlami, guarda pure!
Qui ella si mise a sedere sulla panca, e riprese a mirarsi allo specchio, e cominciò ad aggiustarsi le trecce sul capo. Lo sguardo le si fermò sul collo, la camicia nuova, ricamata di seta, e un impercettibile moto di compiacimento le si disegnò sulle labbra, le fresche guance, e si specchiò dentro gli occhi.
– Lasciami sedere accanto a te! – disse il fabbro.
– Siedi – rispose Oksana, conservando sulla bocca e negli occhi felici quel medesimo moto.
– Bella, splendida Oksana, lasciati baciare! – proferì il fabbro, rincuorato, e la strinse a sé nell’intento di carpirle un bacio. Ma Oksana ritrasse le guance, che erano venute a trovarsi a una distanza ormai trascurabile dalle labbra del fabbro, e lo respinse.
– Che altro pretendi? Guai a dargli il miele: chiede immediatamente anche il cucchiaio! Vattene, ché hai le mani più ruvide del ferro. E puzzi di fumo. Scommetto che mi hai imbrattata con la tua fuliggine!
Qui, ella avvicinò di nuovo lo specchio e riprese ad aggiustarsi.
– «Non mi ama – pensò il fabbro tra sé, abbassando la testa. – Per lei tutto è giuoco; e io le sto piantato davanti come uno sciocco, e non le tolgo gli occhi di dosso. E me ne starei sempre così, davanti a lei; e mai le toglierei gli occhi di dosso! Che ragazza stupenda! Cosa non darei per sapere quel che ha dentro il cuore, a chi vuol bene! Ma no: a lei non importa di nessuno. Di se stessa è innamorata; e fa soffrire me, disgraziato, che dalla pena non ho più vita. E io le voglio così bene come non gliel’ha voluto e non glielo vorrà mai nessuno al mondo».
– È vero che tua madre è una strega? – proferì Oksana, e scoppiò in una risata; e il fabbro sentì che tutto aveva preso a ridergli nell’intimo: quel riso gli aveva a un tratto contagiato il cuore e le vene, che appena appena pulsavano; e insieme lo colse un dispetto, nell’anima, così che non ebbe più coraggio di baciare un viso che rideva in modo tanto soave.
– Che importa a me di mia madre? Tu mi sei madre e padre e quel che vi è di più caro al mondo. Se lo zar mi chiamasse e dicesse: «Fabbro Vakula, domandami tutto quel che vi è di più bello nel mio reame, e a tutto acconsentirò. Darò ordine che ti apprestino una fucina d’oro, e forgerai con martelli d’argento». «Non voglio» risponderei allo zar «né pietre preziose, né fucina d’oro, né l’intero tuo regno: concedimi, invece la mia Oksana!».
– Furbo lui! Ma anche mio padre la sa lunga: vedrai se non sposa tua madre! – rispose Oksana con un sorrisetto furbesco. – Però, queste ragazze che ancora non arrivano... Che significa? È già ora di andare a cantar le koljadki; comincio ad annoiarmi, io.
– Lasciale perdere, bellezza mia!
– Neppure per sogno! Verranno con loro anche i giovanotti. Balleremo. Chissà quante storie allegre racconteranno!
– Ti diverti tanto con loro?
– Molto più che con te! Oh! qualcuno ha bussato: sono certamente le ragazze e i giovanotti.
«Cosa sto, ancora, qui? – si disse il fabbro. – Mi canzona. Tiene conto di me come di un ferro arrugginito. Ma se è così, non ci sarà un altro che mi rida alle spalle! Se faccio tanto di accorgermi, con certezza, chi è quello che lei preferisce, lo divezzo...».
Un colpo alla porta, e una voce «Apri!» che suonava aspra nel gelo, vennero ad interromperlo nei suoi pensieri.
– Fermati: apro io! – disse il fabbro, e uscì nell’ingresso, deciso, per la rabbia, a rompere le costole al primo che gli capitava sotto.
Il gelo si era andato intensificando e, su in alto, era venuto un tal freddo che il diavolo si era messo a ballettare sugli zoccoli, e a soffiarsi nel pugno per scaldare alla meglio le mani intirizzite. Non è difficile, del resto, raggricciare per chi, ventiquattr’ore al giorno, batte le strade dell’inferno; dove, come è noto, non fa così freddo come da noi nel periodo invernale; e dove, infilatosi in capo il berrettone, e postosi dinanzi ai fornelli come un vero cuoco, egli rosola i peccatori col medesimo gusto con cui, a Natale, le massaie arrostiscono i salami.
Anche la strega sentì che era freddo, benché fosse assai bene coperta; e perciò, sollevate le braccia, spinto un piede all’indietro, e assunto l’atteggiamento di chi slitta sui pattini, senza muovere muscolo volò giù per l’aria come da una montagna di ghiaccio, e andò a infilarsi dritta nel fumaiolo.
Il diavolo partì nella stessa maniera, dietro a lei. Ma, poiché quella bestia è assai più destra di un damerino con le calze, non è da stupire che, giunto all’imboccatura del fumaiolo, saltasse in groppa alla druda. E tutti e due si ritrovarono dentro un forno capace, fra le casseruole.
La viaggiatrice dischiuse pian piano lo sportello, per vedere se il figliolo Vakula avesse invitato qualche ospite a casa; ma visto che non c’era nessuno, fuor che certi sacchi, i quali se ne stavano in mezzo alla stanza, sgusciò fuori, si tolse la pesante pelliccia, si rassettò, e più nessuno avrebbe potuto avvedersi che, or è un istante, ella avesse viaggiato su di una scopa.
La madre del fabbro Vakula non contava più di quarant’anni. Non era né bella né brutta di aspetto. Eppoi è anche difficile, a quell’età, esser belli. Possedeva pertanto, e in tanta misura, l’arte di rendere teneri anche i cosacchi più austeri (ai quali, del resto, non nuoccia il dirlo, la bellezza importa assai poco), che perfino il sindaco, e il diacono Osip Nikiforovič (certo quando sua moglie non era a casa) le facevan la corte; e il cosacco Kornij Čub; e il cosacco Kasjan Prudibernoccolo. E, a dirla a suo onore, ella sapeva trattarli con arte fina: non ve n’era uno solo, fra essi, che neppur sospettasse di avere un rivale. Se un cosacco timorato di Dio, ovverosia un nobile, come usano dire i cosacchi di se medesimi, andava alla domenica in chiesa, vestito di un bel cappotto col cappuccio attaccato di dietro, – ovverosia alla bettola, allor che il tempo era brutto, – come non sostare per qualche minuto da Solocha, non gustare una grassa frittella intinta nella crema di latte, e non scambiar due ciance in quella casa ben calda, con quella padrona così loquace e così compiacente? Appositamente compiva il nobile un lunghissimo giro, con quell’intento, per arrivare alla bettola, e chiamava ciò un «fermarsi strada facendo». E se va in chiesa Solocha, alla festa, con un sottabito sgargiante, e con un grembiule di nanchino e, sopra, una gonna turchina con sul di dietro, a ricamo, due baffi d’oro, e si mette proprio accanto al coro di destra, allora il diacono incomincia a tossicchiare e, senza volerlo, assottiglia gli occhi da quella parte. Si liscia i baffi il sindaco, si attorce il ciuffo dietro l’orecchio, e dice al vicino: «Eh, un bel pezzo di donna! Un diavolone di donna!». Solocha saluta ciascuno di essi, e ciascuno di essi è convinto di essere il solo che essa saluti.
Ma un voglioso di ficcare il naso nelle altrui faccende si sarebbe subito accorto che Solocha era particolarmente garbata con Čub il cosacco. Era vedovo, Čub. Otto biche di grano facevano sempre mostra di sé dinanzi alla sua casa. Due paia di solidi buoi affacciavano sempre la testa, al cancellino della sua stalla, verso la strada, e muggivano allorché scorgevano avanzare per essa una qualche comare: una vacca; o uno zio: un qualche toro massiccio. Un capro barbuto si inerpicava fin sulla cima del tetto, e di là sbelacchiava con voce asprigna al par di un sindaco, irritando i tacchini incedenti per il cortile, e voltando il didietro allorché mirava i propri nemici: i ragazzini che lo sfottevano per la sua barba. Nei forzieri di Čub allignava gran copia di tela, gabbane, e antiche vesti donnesche: molto amante del ben vestire era stata sua moglie buonanima. Nell’orto, oltre il papavero, i cavoli e i girasoli, si seminavano ogni anno due quadri a tabacco. Tutto ciò non reputava Solocha superfluo assommarlo coi propri beni, riflettendo fin d’ora al corso che avrebbe dato alle cose non appena queste fossero passate nelle sue mani; e raddoppiava le buone grazie nei riguardi di Čub. E acciocché il figlio Vakula, in qualche modo, non stesse troppo accosto alla figlia di costui, e arrivasse a prendere per sé quella grazia di Dio – ché allora, certo, non le avrebbe lasciato ficcar mano in cosa di sorta, – era ricorsa al consueto ripiego d’ogni comare di quarant’anni: metter male il più spesso possibile fra Čub e il fabbro. Forse queste sue furberie, e la di lei sagacia, erano state la causa per cui qualche vecchietta aveva preso ad affermare, soprattutto allorquando, in una allegra brigata, le era occorso di alzare un po’ il gomito, che Solocha fosse una strega; che il giovanotto Sbatacchiasterco le avesse visto di dietro una coda, non più grande di un fuso; che or sono due giovedì ella avesse traversato la strada sotto le spoglie di gatta nera; che dalla moglie del prete, una volta, fosse entrata di corsa una troia: – aveva fatto il verso del gallo, s’era ficcata in testa il cappuccio di padre Kondrat, ed era scappata.
Accadde che mentre le vecchiette stavano ragionando di tali cose, capitasse un certo Tymis Rognoso, vaccaro. Costui non mancò di narrare che in tempo d’estate, esattamente avanti San Pietro, si era sdraiato a terra per dormire, dentro la stalla, dopo essersi aggiustata un poco di paglia sotto il capo, allorché vide coi propri occhi la strega, coperta solo di una camicia, e con le trecce disfatte, che si era messa a mungere le vacche; e lui non poteva muoversi, tant’era stregato; e lei gli aveva imbrattato la bocca con una certa materia così schifosa che, per un giorno intero, egli non aveva fatto che sputare. Ma tutto ciò è ben dubbio, imperocché soltanto all’assessore di Soročincy è dato vedere le streghe. E tutti i cosacchi ragguardevoli, per siffatto motivo, prendevano a scuotere la testa allorché udivano discorsi del genere. «Mentono, quelle figlie di troie!». Questa era la loro solita risposta.
Uscita dal forno, e riassettatasi, Solocha da buona massaia si dette a ordinare e a rimettere tutte le cose al loro posto; ma i sacchi non li toccò: «Ce li ha portati Vakula, e lui li tolga!». Il diavolo, frattanto, proprio quando stava per infilarsi nel camino, essendosi voltato per caso, aveva scorto Čub, sottobraccio al compare, lontano già un buon tratto da casa. In un batter d’occhio era rivolato fuori dal forno, aveva tagliato loro la strada, e si era messo, a sparnazzare nuvoli interi di neve gelata da ogni verso. Si scatenò una tormenta. L’aria divenne bianca. La neve tempestava a dritta e a mancina, incrociandosi come una rete, minacciando di incollare gli occhi, la bocca e gli orecchi dei due viandanti. Allora, il diavolo se ne tornò, volando, dentro il camino, nell’assoluta certezza che Čub avrebbe ripreso la strada di casa, insieme al compare, avrebbe sorpreso il fabbro, e lo avrebbe sicuramente ricevuto in modo da rendergli impossibile per un bel pezzo di por mano al pennello e dipingere oltraggiose caricature.
Effettivamente, non appena si fu levata la tormenta e il vento ebbe cominciato a frustar proprio diritto negli occhi, Čub manifestò senza indugio il suo pentimento e, calcatosi in testa ancor più forte il berretto, elargì improperi a se stesso, al diavolo e al compare. Questa bizza, del resto, era ipocrita. Čub era felicissimo di quella tormenta. Per arrivare dal diacono bisognava fare ancora una strada otto volte più lunga di quella già fatta. I viandanti ritornarono addietro. Il vento soffiava sulla nuca, ma attraverso il turbinio della neve non si distingueva niente lo stesso.
– Aspetta, compare! Mi sembra che andiamo male – disse Čub, che si era un po’ allontanato dall’altro. – Non vedo nessuna casa. Eh, che bufera! Prova a piegare da quella parte, compare, per vedere se ritrovi la strada; io intanto me ne vado di qua. Il diavolo ci ha spinto ad uscire con una simile bufera! Non dimenticarti di darmi una voce, se ritrovi la strada. Accidenti, che manciata di neve mi ha schiaffato negli occhi quel satanasso!
Ma la strada non si vedeva. Il compare, allontanatosi in quella direzione, cominciò a ramingare coi suoi lunghi stivali avanti e indietro, avanti e indietro, e andò a sbattere proprio contro la bettola. Questa scoperta lo riempì di una tale letizia che egli si dimenticò di ogni altra cosa e, scrollata la neve, infilò dentro il vestibolo senza preoccuparsi per nulla del compagno rimasto all’aria aperta. A Čub, frattanto, parve di aver ritrovato la strada. Fermatosi, cominciò a chiamare a gran voce, ma, visto che il compare non si faceva vivo, decise di andarsene da solo. Fatti pochi passi, scorse la propria capanna. Tutto attorno, e sul tetto, vi erano monticelli di neve. Battendo con le mani intirizzite dal freddo, incominciò a bussare e a gridare con tono perentorio alla figlia di aprire.
– Che vuoi, tu? – gli gridò rozzamente il fabbro, uscendo fuori.
Čub, riconosciuta la voce del fabbro, rinculò di un passo. «Eh, no: questa non è casa mia – si disse: – In casa mia il fabbro non pratica. Però, a guardarla bene, non è neppure la casa del fabbro. Di chi potrebbe essere questa casa? Caspita! Non l’avevo riconosciuta. È la casa dello sciancato Levcenko: quello che poco fa si è preso una moglie giovane. Non c’è che lui ad avere una casa come la mia. Mi era parso un po’ strano, infatti, sin dal primo momento, di essere giunto a casa tanto presto. Levcenko, però, è dal diacono adesso – lo so con certezza. E allora il fabbro che c’entra?... Eh, eh, eh, eh, sta dietro alla moglie tenerella! Vedi un po’ come va! Ma bene!... Ora ho capito tutto».
– Chi sei, e cosa vieni a girellare attorno alle porte? – disse il fabbro con voce ancora più rude, e facendoglisi ancor più vicino.
«No, non gli dirò chi sono», pensò Čub. «A che pro? C’è anche il caso che me le suoni, quel sacramentato bastardo!». E contraffacendo la voce rispose: – Sono io, buonomo! Sono venuto a cantarvi un po’ di koljadki sotto le finestre, per divertirvi!
– Va’ all’inferno con le tue koljadki! – urlò furioso Vakula. – Che te ne resti lì? Mi hai sentito? Levati subito di torno!
Čub l’aveva già avuta questa giudiziosa intenzione, ma gli fece dispetto dover ubbidire a una imposizione del fabbro. Pareva che un qualche spiritello maligno lo spingesse per il gomito e lo forzasse a dire qualcosa di traverso. – Ma perché ti sei messo a gridare a quel modo? – riprese con la medesima voce di prima: – Io voglio cantare le koljadki: ecco tutto!
– Ohò! Come vedo, non ti riesce tener chiuso il becco! – E Čub, subito dopo queste parole, si sentì arrivare una botta dannata su una spalla.
– Ma, ecco, tu, come vedo, ti metti a dare! – disse rinculando di qualche passo.
– Fuori dai piedi, fuori dai piedi! – gridò il fabbro; e sbatacchiò la porta.
– Vedi che sicumera ha messo su! – disse Čub rimasto per strada: – Provati soltanto ad andargli vicino! Vedi un poco com’è! Il gran pezzo grosso! Credi che io non ti sappia raddrizzare le gambe? No, bello mio: diritto, diritto dal Commissario me ne andrò. Lo vedrai chi son io! Non starò a guardare per il sottile se sei fabbro e pittore. Però dovrò guardarmi le spalle e il groppone, ché sono sicuro di averci i lividi. Deve aver pestato sodo, figlio di un demonio. Peccato che è freddo, e non ho voglia di cavarmi la pelliccia. Ma aspetta, fabbro del diavolo, che satana ti rompa il muso e la fucina: ti farò ballare io! Vedi, maledetto pezzo di forca! Però... però non è a casa sua in questo momento. Quindi Solocha è sola! Hm!... Non è poi tanto lontano di qua: ci potrei fare magari una capatina. È un’ora, adesso, in cui non ci sorprenderebbe nessuno. Si potrebbe tentare, se anche questa fosse una cosa da tentare... Vedi come mi ha pestato malamente quel fabbro sacramentato!
Qui Čub, strofinandosi il dorso, si incamminò in un’altra direzione. Il pensiero dei godimenti che lo attendevano da Solocha servì ad attutirgli un poco il dolore, e lo rese insensibile perfino al ghiaccio, che andava crepitando per tutte le strade così che neppure il sibilare della tormenta ne copriva il rumore. Di quando in quando sopra il viso, ove il turbine aveva insaponato di neve la barba ed i baffi con più destrezza di un barbitonsore che abbia carpito per il naso la vittima, gli si disegnava una smorfia semidolce. Ma se la neve non avesse battezzato a dritto e a rovescio tutte le cose dinanzi agli occhi, si sarebbe potuto vedere come molte volte ancora Čub si fermasse per strada, si strofinasse la schiena, e dicesse: «Malamente mi ha pestato quel fabbro sacramentato!» e si rimettesse poi di nuovo in cammino.
Nel momento in cui l’abile damerino provvisto di coda e barba caprina partiva in volo, e poi di nuovo in volo rientrava dentro il comignolo, la bisaccia che gli pendeva legata al fianco, e in cui aveva riposto la luna rubata, gli andò per avventura a impigliarsi nel forno: si slacciò; e la luna, colto il destro, si involò per la gola del camino di Solocha, e prese a salire dolcemente nel cielo. Tutto divenne chiaro. Della tormenta nessuna traccia. La neve sfolgorò come un’ampia distesa d’argento, ed era tutta un polverio di stelle cristalline. Il gelo diminuì. Cominciarono ad apparire brigate di giovanotti e ragazze con i sacchi. Risonarono i primi canti, e non furono molte, allora, le finestre sotto le quali non si affollavano i cantori.
Meravigliosa risplende la luna! È difficile dire come sia bello, in una simile notte, sentirsi stretti fra un crocchio di ragazze ridanciane e canore, e di giovanotti pronti a tutte le burle e a tutte quelle fantasie che solo una notte così lietamente ridente può suggerire. Hai caldo nella tua pelliccia; le guance ti scottano ancora di più per il gelo; e a combinar marachelle è il diavolo stesso che ti sospinge, urtandoti dietro, nelle spalle.
Frotte di ragazze, coi sacchi, irruppero in casa di Čub, fecero cerchio attorno ad Oksana. Le risate, il cicaleccio assordirono il fabbro. Ciascuna, a gara, si industriava a raccontare alla nostra bellezza una qualche novità; vuotavano i sacchi, vantavano le numerose focacce, i salami, le frittelle guadagnati a cantar le koljadki. Oksana era manifestamente al colmo della felicità e della gioia: sfringuellava con questa e con quella, e rideva senza riprendere fiato.
Il fabbro contemplava quella allegria con invidia e dispetto, e ora malediva le koljadki, benché ne andasse pazzo egli stesso.
– Ehi, Odarka! – esclamò la gioiosa bellezza, rivolgendosi ad una delle ragazze: – hai le scarpette nuove! Oh, quanto sono graziose! E trapunte d’oro! Te beata, Odarka, che hai chi ti compra ogni cosa; io non ho nessuno che mi procuri delle scarpette così belle.
– Non rattristarti, mia adorata Oksana! – interloquì subito il fabbro: – Ti procurerò delle scarpette, quali poche ragazze ricche ne portano.
– Tu? – disse Oksana, sfiorandolo con una rapida occhiata altezzosa. – Staremo a vedere da dove le tirerai fuori delle scarpette degne di calzarmi il piede. A meno che non mi porti quelle dell’imperatrice.
– Vedi un po’ quali vuole! – esclamarono in coro le ragazze ridendo.
– Certo! – continuò altezzosa la bella. – Siatemi tutte testimoni: se il fabbro Vakula mi porta le stesse scarpette che calza l’imperatrice, do la mia parola che lo sposo subito.
Le ragazze uscirono, portandosi via la capricciosa bellezza.
– Ridi, ridi! – disse il fabbro uscendo dietro di loro. – Rido anche io di me stesso! Dove è andata a finirmi la testa, mi domando! Non mi ama: che se ne vada con Dio! Come se al mondo non ci fosse che una sola Oksana. Qui al villaggio, grazie al cielo, ce n’è più d’una, anche senza di lei, di belle ragazze. E cos’è poi Oksana? Non sarà mai una brava donna di casa: è buona soltanto a infronzolarsi. No, basta! È ora di finirla con queste sconsideratezze.
Ma nel momento stesso in cui il fabbro aveva risoluto di comportarsi in modo energico, uno spiritello maligno gli ricondusse dinanzi agli occhi l’immagine di Oksana ridente, che diceva furbesca: «Portami, fabbro, le scarpette dell’imperatrice, e ti sposerò!». Si sentì rimescolare tutto, e non ebbe pensiero che non fosse per Oksana.
Le brigate dei cantori – giovanotti a sé, ragazze a sé – correvano veloci di strada in strada. Ma il fabbro camminava e non vedeva niente, e non partecipava a quei giuochi che un tempo amava più di ogni cosa al mondo.
Frattanto, da Solocha, il diavolo si era intenerito sul serio: le andava sbaciucchiando la mano, smancioso come l’assessore quand’è dalla figlia del prete; si portava le mani al cuore, sospirava: «Oh, oh!», e poi le disse chiaro e tondo che, se ella non accondiscendeva alle sue brame e, come è d’uso, a contraccambiarle, egli sarebbe stato capace di tutto: di gettarsi nell’acqua, e spedire l’anima direttamente all’inferno. Ma Solocha non era così tanto crudele; d’altronde, come ci è ormai noto, essa agiva di pieno accordo col diavolo. Anch’essa amava vedersi attorniata da un fitto stuolo di spasimanti, e poche erano le volte in cui rimaneva senza compagnia. Quella sera, però, aveva creduto di doverla passare da sola, essendo che ogni paesano notabile era stato invitato dal diacono a mangiar la kutja. Ma tutto andò in modo proprio diverso: aveva fatto appena a tempo il diavolo ad esporre le proprie esigenze, che all’improvviso si udirono un colpo alla porta e la voce del corpulentissimo sindaco. Solocha accorse prontamente ad aprirgli, e il diavolo, lesto, si infilò dentro un sacco.
Dopo avere scosso la neve dal cappuccio, e aver bevuto un bicchiere di vodka, che Solocha gli aveva porto fino alla bocca, il sindaco raccontò di non essere stato dal diacono a causa della tormenta; e poiché aveva veduto il lume acceso da lei, era venuto a fare una capatina con l’intento di passare assieme la sera.
Non ebbe tempo il sindaco di finire il discorso che si udirono un colpo alla porta e la voce del diacono. – Nascondimi in qualche posto – sussurrò il sindaco: – Non mi va di abboccarmi col diacono in questo momento.
Solocha rifletté un bel pezzo sul dove poter nascondere un ospite tanto massiccio; alla fine scelse il più grosso dei sacchi; il carbone lo rovesciò in un mastello; e il corpulentissimo sindaco calò nel sacco: coi baffi, la testa, e il cappuccio.
Il diacono entrò gemicchiando, e stropicciando le mani; e raccontò che da lui non era venuto nessuno; e che era cordialmente contento dell’occasioncella di poter fare una bisboccina con lei; e che non si era lasciato impaurire dalla tormenta. Detto questo, le si avvicinò, tossicchiò, ridacchiò, le vellicò con le lunghissime dita il braccio nudo e polposo, e le chiese con un’aria da cui trapelava furbizia e sufficienza: – E che ci avete qui, mia superba Solocha? – E, detto che l’ebbe, fece un saltarello all’indietro.
– Come, che cosa? Un braccio!
– Hm! Un braccio! Hé, hé, hé!
– E che ci avete qui, mia carissima Solocha?
– Non lo vedete da voi, Osip Nikiforovič! – rispose Solocha: – Il collo, e sul collo una collana!
– Hm! E sul collo una collana! Hé, hé, hé! – e il diacono fece un’altra passeggiatina per la stanza, stropicciandosi le mani.
– E che ci avete qui, mia incomparabile Solocha?... – Non si sa cosa quel diacono lascivo avrebbe toccato con le sue lunghissime dita, se all’improvviso non si fossero uditi un colpo alla porta e la voce di Čub.
– Ah, mio Dio, un estraneo! – strillò impaurito il diacono. – Cosa succederà adesso, se sorprenderanno in flagrante una persona del mio ceto?... La cosa giungerà agli orecchi di padre Kondrat...
Ma i timori del diacono erano di ben diversa natura: egli temeva assai più che venisse a saperlo la moglie; la quale, con le proprie terribili mani, anche senza di ciò, gli aveva ridotto la testa, da grosso bosco, in cespuglio. – Per amor del Signore, o virtuosa Solocha! – diceva tremolando per ogni membro: – La vostra bontà, sì come afferma la Sacra Scrittura in San Luca, tredicesimo vers... vers... Bussano, per lo Iddio, bussano! Oh, nascondetemi dove che sia.
Solocha rovesciò nel mastello il carbone di un altro sacco, e in quel sacco il diacono sgattaiolò col suo corpiciattolo scrio, andando a rannicchiarsi proprio sul fondo, così che, sopra, avrebbe potuto capirci ancora mezzo sacco di carbone.
– Salute, Solocha! – esclamò Čub entrando in casa: – Non mi aspettavi, eh? Vero che non mi aspettavi? Non ti ho mica inguaiato?... – continuò Čub, atteggiando la faccia a una espressione divertita, e significativa, che lasciava prevedere che il suo testone era in doglie e si preparava a partorire un frizzo mordace e macchinoso. – Forse che te la stavi spassando con qualcuno?... Forse hai già rimpiattato qualcuno, eh? – E, beato di questa sua spiritosaggine, Čub si fece una bella risata, gongolando in cuor suo di essere l’unico e il solo a goder dei favori di Solocha. – Bene, Solocha: ora dammi da bere un bicchierino di vodka. Mi pare di aver la gola come un pezzo di ghiaccio per via di quel gelo dannato. Proprio una bella nottata ci ha regalato il Padreterno avanti Natale! Si è scatenata una di quelle tormente, sapessi, una di quelle tormente... Come mi si sono intirizzite le mani: non ce la faccio a sganciarmi la pelliccia! Si è scatenata una di quelle tormente...
– Apri! – risuonò una voce di fuori, seguita da un colpo alla porta.
– Cè qualcuno che bussa – disse Čub, interrompendosi.
– Apri! – fu gridato ancora più forte.
– È il fabbro! – soffiò Čub, afferrando il berretto. – Ascolta, Solocha: ficcami dove ti pare; per nessuna ragione al mondo voglio farmi vedere da quel bastardo sacramentato, che a quel figlio di un diavolo schizzino fuori delle vesciche grosse come pagliai sotto a tutti e due gli occhi!
Solocha, anch’essa impaurita, si affannava qua e là come una invasata e, fuor dei lumi, fece cenno a Čub di cacciarsi dentro quel medesimo sacco dov’era entrato già il diacono. Il povero diacono non ebbe ardire di manifestar la propria presenza: né con un colpetto di tosse, né con un nicchiar di dolore, allorché quel massiccio contadinone gli si accucciò quasi sopra la testa, e gli cacciò i suoi stivali gelati di neve ai due lati delle tempie.
Il fabbro entrò senza dire parola, senza levarsi il cappello, e si lasciò andare quasi di peso sopra la panca. Si vedeva che era di pessimo umore.
Nell’istante medesimo in cui Solocha gli richiudeva dietro la porta, qualcun altro bussò di nuovo. Era Prudibernoccolo. Questi, ormai, non lo si poteva nascondere dentro alcun sacco, ché alcun sacco al mondo neppur si sarebbe trovato di tanta capienza. Era costui di membra più corpacciute del sindaco, e di statura più sperticata del compare di Čub. E perciò Solocha lo condusse seco nell’orto, per porgere orecchio a quello che egli aveva da dirle.
Il fabbro guardava con occhio distratto le pareti di casa, e di tanto in tanto porgeva orecchio ai cantori che percorrevano le vie del villaggio; posò infine lo sguardo sui sacchi. – Perché stanno qui, questi sacchi? È tempo di levarli di mezzo. Questo amore insensato mi ha reso stupido del tutto. Domani è festa, e qui in casa c’è ancora un monte di porcherie. Portiamoli nella fucina!
Qui, il fabbro si curvò su quei sacchi smisurati, ne riannodò i legacci, e si accinse a metterseli in spalla. Ma si vede che i suoi pensieri erano molto lontani, ché altrimenti egli avrebbe sentito come Čub si era messo a friggere allorquando la cordicella che stringeva il sacco gli aveva attorcigliato i capelli, e come il corpulentissimo sindaco era stato colto da un singhiozzo piuttosto esplicito.
«Ma è davvero impossibile che io possa togliermi quella perfida Oksana dalla mente? – andava dicendosi il fabbro: – Più cerco di non pensarci, e più ci penso. E, come per dispetto, non penso a nient’altro che a lei. Perché un’idea deve entrarti in testa anche quando non vuoi? Ma che diavolo è? Questi sacchi sono diventati più pesanti. Deve esserci qualcos’altro, oltre il carbone. Sciocco che sono! Non pensavo che adesso tutto mi sembra più gravoso. Una volta potevo piegare una moneta, e raddrizzarla, con una mano, e ora non sono buono a sollevare una balla di carbone. Ancora un poco, e un soffio di vento potrà gettarmi a terra...». – No! – esclamò dopo un istante di silenzio, e avendo ripreso coraggio: – Che razza di femminuccia sono io! Non mi lascerò canzonare da nessuno! Anche dieci, ne alzerò, di sacchi come questi. – E si gettò arditamente in spalla quei sacchi che neppure due uomini nerboruti sarebbero stati in grado di trasportare. – E anche questo mi prendo, proseguì, sollevando il sacchetto in fondo al quale se ne stava racciambellato il demonio. – Qui mi sembra di averci riposto gli arnesi. – Ciò detto, uscì di casa, fischiando la canzonetta:
Non voglio perder tempo con mia moglie
I canti, le risa, il vocio diventavano sempre più assordanti. Il pigia-pigia era andato aumentando per il sopraggiungere di nuove persone dai villaggi vicini. I giovanotti ruzzavano e facevan baldoria senza più ritegno. Spesso, di tra i canti natalizi, si udiva una allegra strofe improvvisata da un qualche giovane cosacco. Oppure, inaspettatamente, invece di una koljadka, tra la folla qualcuno prendeva a intonare una canzone di fin d’anno, e gridava a squarciagola:
Secchio e secchietto,
date un pasticcetto,
d’orzo un pugnettino,
una fetta di salamino!
Una risata era la ricompensa tributata al burlone. Le finestrelle si aprivano, e il braccio scarno di una vecchietta (queste, e gli austeri padri di famiglia, erano gli unici che fossero rimasti a casa) si sporgeva con un salamino o una fetta di torta. Giovanotti e ragazze gareggiavano nel porgere i sacchi e impossessarsi del bottino. In un luogo, alcuni giovanotti, irrompendo da ogni parte, chiusero in cerchio un gruppo di ragazze: chiasso, strilli; chi tirava palle di neve, chi cercava di portar via qualche sacco colmo d’ogni grazia di Dio. In un altro luogo, alcune ragazze corsero dietro ad un giovanotto, e con uno sgambetto mandarono a gambe all’aria lui e il suo sacco. Sembravano decisi a continuare la baldoria per tutta la notte. E la notte, quasi a farlo apposta, era così stupendamente luminosa. E ancor più bianca sembrava la luce lunare per il luccichio della neve.
Il fabbro, coi suoi sacchi, si fermò. Gli era parso di riconoscere, in un crocchio di ragazze, la voce e la risatella sottile di Oksana. Gli presero a tremare le vene; gettati a terra i sacchi, in così malo modo che il diacono ch’era in fondo mugolò dal dolore, e al sindaco sfuggì un singhiozzo a gola spiegata, e seguitando a reggere solo il sacchetto più piccolo, si accodò alla schiera dei giovanotti che andava dietro alla schiera delle ragazze fra le quali egli aveva udito la voce di Oksana.
«Sì, è lei! Ha il portamento di una regina, uno splendore negli occhi neri. C’è un bel ragazzo che le sta raccontando qualcosa: qualcosa, certo, di divertente, perché lei ride. Ma lei ride sempre». Quasi senza volerlo, senza rendersi conto, il fabbro si aprì un varco fra la ressa, e andò a fermarlesi a fianco.
– Oh, Vakula, sei qui? Salute! – disse la bella con quella tal risatina che lo gettava fuor dalla grazia di Dio. – Be’, hai raccolto parecchio a cantar le koljadki? Oh, ma che sacchetto piccino! E le scarpette dell’imperatrice me le hai portate? Portami le scarpette, e ti sposerò!... – E fatta una bella risata, frullò via, assieme al gruppo delle altre ragazze.
Il fabbro rimase lì come un sasso. – No, non reggo più; non ne ho più la forza... – disse alla fine. Ma, Dio mio, perché è così diabolicamente bella? Il suo sguardo, le parole, tutto in lei brucia, brucia così... No, non sono capace di vincermi. Bisogna allora farla finita. Addio, anima mia, ché ti danno! Nell’acqua mi butto, e di me non si udrà più parola!
Raggiunse con passo deciso il gruppo delle ragazze, si avvicinò ad Oksana e con voce ferma le disse: – Addio, Oksana, per sempre! Trovati chi vuoi, prendi in giro chi vuoi, ché non mi rivedrai più fin che vivi.
La ragazza restò allibita; stava per aprir bocca, ma il fabbro fece un gesto cori la mano e fuggì.
– Dove scappi, Vakula? – gridarono i giovanotti vedendo correre il fabbro.
– Addio per sempre, ragazzi! – gridò il fabbro in risposta: – Se Dio vorrà, ci rivedremo nell’altro mondo; in questo non ci troveremo assieme mai più. Addio per sempre! Non conservatemi rancore! Dite a Padre Kondrat di recitare un uffizio per l’anima mia che si perde. Le cose del mondo hanno impedito a me, peccatore, di condurre a termine la pittura dei ceri, accanto alle immagini del Salvatore e della Vergine. Tutto quel che vi è nel mio scrigno sia per la chiesa. Addio per sempre!
Detto ciò, il fabbro riprese la corsa, sempre col suo sacchetto sulla spalla.
– Ha perso il bene dell’intelletto! – dissero i giovanotti.
– Un’anima perduta! – bofonchiò piamente una vecchiarella che stava passando di là in quel momento: – Bisogna correre subito a raccontarlo, che il fabbro si è andato a impiccare!
Vakula, frattanto, dopo aver attraversato di corsa alcune strade, si fermò a riprendere fiato. – Ma, veramente: dov’è che corro? – prese a riflettere: – Come se tutto, ormai, fosse perduto! Tenterò ancora una via: andrò dal zaporožec Pacjuk il Panciuto. Dicono che sia amico di tutti i diavoli, ed ottenga ciò che vuole. Ci andrò: se l’anima mia deve dannarsi – o in questo modo o in un altro...!
A queste parole il diavolo, che da un pezzo se ne stava nel sacco assolutamente immobile, fece un salto di gioia; ma il fabbro, credendo di essere stato lui, in qualche modo, a urtare il sacco col gomito, ci assestò sopra un formidabile pugno, e raggiustatolo in spalla si diresse verso la casa di Pacjuk il Panciuto.
Questo Pacjuk il Panciuto era stato una volta un zaporožec; ma dal Zaporož’e, o che lo avessero cacciato, o che se ne fosse andato da sé, nessuno lo sapeva. Da gran tempo ormai, da dieci, e forse quindici anni, egli viveva a Dikan’ka. Visse, all’inizio, da vero zaporožec: non faceva niente, per tre quarti del giorno se la dormiva, mangiava quanto sei mietitori, e beveva d’un fiato quasi un secchio di vodka; del resto, il recipiente per insaccare tante provviste ce lo aveva, poiché Pacjuk, se di altezza non era molto elevato, era in ampiezza piuttosto esteso. Eppoi i braconi che portava eran tanto larghi che, per quanto lungo avesse fatto il passo, non gli si sarebbero mai scorte le gambe; e pareva un vagello di distilleria che ambulasse per strada. Ciò, forse, aveva dato motivo al soprannome suo di Panciuto. Poche settimane soltanto erano passate dal suo arrivo al villaggio, e già tutti sapevano che era un fattucchiere. Se accadeva che qualcuno si ammalasse di un qualche male, immediatamente chiamava Pacjuk; e a Pacjuk bastava bisbigliar due parole perché il male sfumasse per miracolo. Se avveniva che, nella fretta dell’appetito, a un qualche notabile andasse a traverso una lisca, Pacjuk sapeva con tale arte assestargli un pugno sul groppone che la lisca andava a finire laddove è di pertinenza, senza arrecar danno veruno alla notabile gola. Negli ultimi tempi, lo si incontrava raramente per strada. Ciò era forse a cagione della sua pigrizia, e fors’anche del fatto che, di anno in anno, gli diventava più arduo passare attraverso la porta.
Così i paesani, se di lui abbisognavano, dovevano andare da lui di persona.
Non senza timore dischiuse il fabbro la porta, e vide Pacjuk seduto in terra, alla turca, dinanzi ad un piccolo mastello, sul quale posava una zangola di ravioli. La zangola, nemmeno a farlo apposta, era proprio al livello della bocca. Senza alzare un dito, piegando appena la testa, egli andava succhiando il brodetto, e afferrando di quando in quando, coi denti, un raviolo.
«No, costui», si disse Vakula, è ancor più pigro di Čub: quegli adopera almeno il cucchiaio, e costui non vuole alzare neppur la mano».
Pacjuk doveva essere, certo, tenacemente assorto dai suoi ravioli, poiché sembrò non accorgersi affatto dell’arrivo del fabbro; il quale, varcata appena la soglia, lo onorò di un profondissimo inchino.
– Dalla tua signoria son venuto, Pacjuk – disse Vakula inchinandosi di nuovo.
Il grasso Pacjuk alzò il capo, e ricominciò a mangiare gli gnocchi.
– Si dice che tu, con rispetto parlando... – continuò il fabbro, dandosi coraggio: – sia detto senza offesa, sei in qualche parentela col demonio.
Pronunciato che ebbe queste parole, Vakula si impaurì, temendo di aver parlato in modo troppo palese, e non aver abbastanza attenuato l’asprezza dei vocaboli; e, aspettandosi che Pacjuk, afferrati mastello e zangola, glieli tirasse in testa, si scansò e fece schermo coi gomiti affinché il brodetto bollente dei ravioli non gli imbrattasse la faccia.
Ma Pacjuk gli dette un’occhiata, e riprese a mangiare i ravioli.
Rifattosi animo, il fabbro decise di continuare. – Da te son venuto, Pacjuk. Che Dio ti conceda ogni bene, dovizie a profusione e pane in proporzione! (Al fabbro riusciva, qualche volta, incoccare una parolina alla moda: vi si era impratichito ancora al tempo del suo soggiorno a Poltava, allorché dipingeva le stecche alla cancellata del centurione). È necessità che mi danni, io peccatore! Non c’è chi mi aiuti a questo mondo! Sia quel che sia, son costretto a chiedere aiuto al demonio. Allora, Pacjuk – proseguì il fabbro, vedendo che quegli continuava a tacere impassibile: – che debbo fare?
– Se hai bisogno del diavolo, vattene al diavolo! – rispose Pacjuk senza guardarlo neppure con un occhio, e seguitando a insaccare i ravioli.
– Proprio per questo son venuto da te – rispose il fabbro, con un grande inchino: – All’infuori di te non c’è nessuno che ne conosca la strada.
Pacjuk – zitto; e ripulì gli ultimi ravioli. – Fammi questo favore, buon uomo, non rifiutare! – insisté il fabbro: – Vuoi del maiale, dei salami, della farina; oppure della tela, del grano, o qualche altra cosa, ancora, nell’eventualità che ti occorra... Come si usa, per lo più, tra gente perbene... Non si starà a lesinare. Spiegami, almeno, per dirla ad esempio, in che maniera posso trovare la strada di casa sua!
– Non ha bisogno di andar tanto lontano per il diavolo chi ci ha il diavolo addosso – proferì impassibile Pacjuk, senza muoversi di un pelo.
Vakula gli sgranò gli occhi in faccia, come se l’altro, in fronte, ci avesse avuto scritto il senso di quelle parole. «Che dice mai?», chiedeva la sua muta espressione; e la bocca era schiusa, pronta a inghiottire, come un raviolo, la prima frase che venisse detta.
Ma Pacjuk stava zitto.
Qui, Vakula si accorse che costui non aveva più dinanzi né mastello, né ravioli, ma al loro posto vi erano per terra due ciotole: l’una ripiena di tortelli, l’altra di crema. Involontariamente, lo sguardo e l’attenzione si trasportarono sopra quei cibi. «Vediamo», si disse: «come farà Pacjuk a mangiare i tortelli. Piegarsi, certamente, non vorrà, come per i ravioli; e poi non andrebbe: i tortelli han da esser tuffati, prima, nella crema».
Non aveva finito di pensarlo, che Pacjuk aperse la bocca; fissò i tortelli, ed aperse la bocca ancor di più. Ed ecco che un tortello guizzò fuor dalla ciotola, andò a diguazzare nella crema, ci si rivoltò sottosopra, fece un salto in aria e andò a infilarglisi dritto nella bocca. Pacjuk lo mangiò; aperse di nuovo la bocca, e, al medesimo modo, un altro tortello seguì la medesima strada. Altra fatica egli non si prendeva fuor che di masticare e inghiottire.
«Vedi là che portento!», pensò il fabbro, aprendo, la bocca per lo stupore, e nel medesimo istante si accorse che un tortello stava schizzando in bocca anche a lui, e già gli aveva imbrattato le labbra di crema. Lo respinse e, forbite le labbra, cominciò a considerare quanti prodigi accadano nel mondo, e a quali industrie la forza impura adduca l’uomo; deducendo, al contempo, che solo Pacjuk poteva venirgli in aiuto.
«Gli farò un altro inchino. Ma che mi spieghi per bene... Diavolo! Oggi è giorno di magro, e lui mangia i tortelli, i tortelli grassi! Sono dunque impazzito a star qui a coprirmi di tanti peccati! Via!...». E il timorato fabbro se la dette a gambe levate.
Ma il diavolo che se ne stava nel sacco, e già si era allietato in anticipo, non poté sopportare che una sì bella preda gli sfuggisse di mano. Non appena il fabbro depose il sacco a terra, saltò fuori e gli montò a cavallo sul dorso.
Il fabbro si sentì agghiacciare la pelle; sbiancato e pieno di paura, non sapeva qual partito prendere; voleva segnarsi... ma il diavolo, accostatagli la grinta canina all’orecchio manritto, gli disse: – Sono io: il tuo amico; per un sozio e amicone par tuo farò tutto! Io ti darò tanto denaro quanto ne vorrai, – gli squittì nell’orecchio mancino. – Oggi stesso Oksana sarà nostra! – gli soffiò nell’orecchio manritto, voltando di nuovo il muso da quella parte. Il fabbro rimase perplesso.
– E sia! – disse infine: – A questo patto sono disposto a darmi in tuo potere!
Il diavolo cominciò a battere le mani, e a far salti sulle spalle del fabbro. «Ora sì che il fabbro c’è cascato!», pensava fra sé: «Ora sì, amicone, che me la pagherai per tutte le pitture e le fandonie create a spese dei diavoli! Cosa diranno i miei confratelli quando sapranno che l’uomo più pio del villaggio è in mio potere?».
Qui il diavolo sbottò in un’allegra risata, pensando a come avrebbe dato la baia, nell’inferno, all’intera razza codigna; a come il diavolo zoppo, che si vantava d’essere il primo per strategia, avrebbe avuto un demonio per capello.
– Va bene, Vakula! – squittì il diavolo sempre sullo stesso tono, senza smontargli di dosso, quasi per tema che dovesse fuggirgli: – Tu sai che senza un contratto non si fa mai niente.
– In quanto a me sono pronto! – gli disse il fabbro. – Ho sentito che da voi c’è l’usanza di firmare col sangue; allora aspetta: prendo un chiodo in tasca!
Qui allungò una mano di dietro, e – paff! ti acchiappò il diavolo per la coda.
– Vedi, il burlone! – esclamò ridacchiando il diavolo. – Ma ora basta, bando agli scherzi.
– Aspetta, amico! – esclamò il fabbro: – Che cosa ne dici di questa? – E trinciò un segno di croce; e il diavolo si fece mansueto al pari di un agnello. – Aspetta un pochino, – disse, e lo calò giù, a terra, tirandolo per la coda. – Ti insegnerò io come indurre in peccato la brava gente e i cristiani intemerati.
Qui il fabbro gli saltò in groppa, e alzò una mano in atto di trinciare un segno di croce.
– Abbi pietà, Vakula! – cominciò a gemere lamentosamente il diavolo: – Farò tutto quello che ti abbisogna: tutto farò; ma da’ tempo all’anima mia di pentirsi; non riversar sopra di me una così terribile croce!
– Senti con che vocina intona il suo canto questo tedesco dannato! Lo so da me, adesso, quel che debbo fare. Trasportami subito in groppa! Mi senti? E fila come una rondine!
– Dove? – gli chiese il diavolo, immalinconito.
– A Pietroburgo, direttamente dall’imperatrice! – E il fabbro raggelò di spavento nel sentirsi sollevare su in alto.
A lungo rimase Oksana a riflettere sulle strane parole del fabbro. Una certa voce, dentro, aveva preso a rimproverarla di aver agito con troppa crudeltà nei riguardi di lui. «E se fosse deciso davvero a qualcosa di brutto? Dio non voglia! E se per disperazione gli venisse l’idea di innamorarsi di un’altra, e dicesse, per picca, che è la più bella del villaggio? Ma no: mi vuole bene. Così bella sono! Con nessun’altra al mondo mi cambierà: scherza, sta fingendo. Non passeranno dieci minuti che sarà qui nuovamente a guardarmi. Io, però, sono veramente crudele. Dovrò pur lasciarmi baciare; magari con l’aria di non volerlo. Come sarà felice!». E già era tornata a folleggiare, quella incantevole sventatella, con le compagne.
– Aspettate! – gridò una di queste: – Il fabbro ha dimenticato i suoi sacchi; guardate che sacchi enormi. Gli hanno fruttato bene le sue koljadki; altro che le nostre! Devono avergli dato interi quarti di montone; e salami, e focacce da non finire. Che bellezza! Cè da far bisboccia per tutto il tempo delle feste!
– Sono i sacchi del fabbro, questi? – interloquì pronta Oksana: – Presto, portiamoli via, magari nella mia capanna; così vediamo con comodo quel che c’è dentro.
Ridendo, tutte approvarono la proposta.
– Ma non riusciremo a sollevarli! – cominciarono a gridare, ad un tratto, tutte assieme, cercando di smuoverli.
– Aspettate – disse Oksana: – Facciamo una corsa a prendere la slitta: li trascineremo sopra la slitta.
E frullarono via, in cerca della slitta.
I prigionieri erano ormai fortemente seccati di doversene stare dentro quei sacchi, malgrado che il diacono, per uso proprio, nel proprio, avesse praticato col dito un buco piuttosto ragguardevole. Se non ci fosse stato nessuno, egli avrebbe trovato forse anche il mezzo di uscirne; ma uscirne al cospetto di tutti, esporsi al ridicolo... erano considerazioni che lo raffrenavano, ed egli risolse di attendere, limitandosi ad emettere qualche gemito da sotto gli scorbutici scarponi di Čub. Lo stesso Čub non vagheggiava di meno la libertà, sentendosi sotto un certo qualcosa su cui, star seduto, era oltremodo sgradevole. Ma come ebbe udito i progetti della figliola si tranquillizzò, e non volle più saperne di uscire, considerando che di lì a casa sua c’era un buon centinaio di passi da percorrere, e fors’anche duecento; eppoi, uscendo, avrebbe dovuto rimettersi in ordine, riabbottonar la pelliccia, affibbiarsi la cintola: troppa fatica! Aggiungi che il cappuccio gli era rimasto in casa di Solocha. No: che a casa ce lo portassero pure, sulla slitta, quelle ragazze!
Ma tutto avvenne in modo diverso da come Čub aveva pensato. Nel momento in cui le ragazze erano corse a prendere la slitta, l’allampanato compare usciva dalla bettola, scombussolato, e di umore tetro. La bettoliera non si era lasciata indurre minimamente a fargli credito. Dapprima egli aveva deciso di attendere: poteva, chissà, sopraggiungere un qualche nobile timorato di Dio e convitarlo, ma neanche a farlo apposta tutti i nobili erano rimasti a casa loro, e da buoni cristiani avevano gustato la kutja in compagnia dei propri familiari. Meditando sulla corruzione dei costumi, e sul cuor di pietra della giudea venditrice di vodka, il compare andò a sbattere contro i sacchi, e si arrestò sconcertato. – Vedi che sacchi hanno gettato per la strada! – disse, volgendo un’occhiata attorno: – Qua dentro deve esserci anche un bel tocco di porco. Questa sì che si chiama fortuna: racimolare tanta roba a cantar le koljadki! Che sacchi smisurati! Anche se non fossero pieni che di gallette e biscotti, sarebbe mica male; ci fossero, magari, soltanto panini, anche questo è da leccarsi i baffi: la giudea, per ogni panino, dà un ottavo di vodka. Presto: bisogna portarli via – che non veda nessuno.
Qui, egli si gettò sul groppone il sacco con Čub e il diacono, ma si accorse ch’era troppo pesante. – No, pesa troppo per portarlo da solo, – proferì: – Ma ecco che sta venendo in qua, neppure a farlo apposta, Sarchiello, il tessitore. Salute, Ostap!
– Salute – disse il tessitore fermandosi.
– Dov’è che vai?
– Così, dove vanno le gambe.
– Aiutami, galantuomo, a trasportare questi sacchi! Qualcuno è stato a cantar le koljadki e poi li ha lasciati qui in mezzo alla strada. Faremo a metà.
– Sacchi? E che c’è dentro quei sacchi: pagnotte o gallette?
– Un po’ di tutto, credo.
Qui, seduta stante, essi sfilarono dei pali da una staccionata, ci poggiarono sopra uno dei sacchi, e lo portarono a spalla.
– Dove si porta: alla bettola? – chiese il tessitore, cammin facendo.
– Avrei avuto anch’io quell’idea: di portarlo alla bettola; ma la giudea maledetta non ci presterà fede; è capace di credere che lo abbiamo rubato; aggiungi che proprio adesso vengo via dalla bettola. Lo porteremo nella mia capanna; là non ci disturba nessuno: mia moglie è fuori.
– È proprio sicuro che sia fuori? – si informò, prudente, il tessitore.
– Grazie a Dio, ho ancora la testa sulle spalle, – disse il compare: – Col diavolo che vado dov’è lei! Penso che rimarrà a vagabondare con le comari fino all’alba.
– Chi è? – urlò la moglie del compare, sentendo il rumore che facevano nell’ingresso i due amici col sacco, e spalancando la porta.
Il compare restò di sasso.
– Addio! – proferì il tessitore, lasciandosi cadere giù le braccia.
Era la moglie del compare un tesoro di quel tal conio del quale non v’è alcuna penuria nel mondo di Dio. Anch’essa, esattamente come suo marito, a casa non stava quasi mai; e quasi sempre, per tutto il giorno, stava attaccata alle gonne delle comari e delle vecchierelle che avevano più soldi; adulava e mangiava con gran veemenza, e leticava col marito soltanto al mattino, poiché soltanto in quelle ore aveva occasione, a volte, di incontrarlo. La loro casa era il doppio più vecchia dei pantaloni dello scrivano, e il tetto mancava di paglia in più luoghi. Della staccionata non si vedeva più che qualche residuo, poiché chiunque uscisse di casa non si armava mai di alcun bastone per guardarsi dai cani, contando di passare nei paraggi dell’orto del nostro compare, e sfilar dalla staccionata un qualche palo. La stufa restava spenta anche tre giorni di seguito. Tutto quel che l’amorevole consorte riusciva a pitoccare dalla brava gente lo nascondeva il più lontano possibile dalle mani del marito, e spesso di prepotenza gli sottraeva quel che egli aveva arraffato – sol che costui non avesse avuto ancora tempo di mutarlo in vodka alla bettola. Il compare, malgrado l’abituale suo costume pacato, non amava dargliele vinte, e questo è il motivo per cui egli usciva quasi sempre di casa coi fanali ad ambedue gli occhi, e la sua cara metà – fra degli «oh!» e degli «ah!» – si trascinava fino alla casa di qualche vecchietta a narrare della turbolenza del marito, e delle percosse che aveva avuto a patire.
Ora possiamo figurarci in che peste si trovassero tessitore e compare al cospetto di una tanto inattesa apparizione. Lasciato scivolare il sacco di spalla, si disposero in fronte difensivo, parandolo con le falde dell’abito; ma era ormai tardi: la moglie del compare, benché mal ci vedesse coi suoi occhi consunti, il sacco lo aveva già veduto.
– Oh, questa è una bella cosa! – disse con una faccia su cui era dipinta una gioia grifagna. – Questa è una bella cosa, che abbiate raccolto tanta roba a cantare koljadki! Ecco: così si comporta la gente perbene. Ma no: per me mi sa che l’abbiate sgraffignata. Fatemelo vedere all’istante! mi sentite? Fatemelo vedere all’istante quel sacco!
– Un diavolo pelato te lo mostrerà, ché noi no! – disse il compare, assumendo un’aria marziale.
– Tu che ti immischi ? – disse il tessitore: – È frutto delle nostre koliadki, mica delle tue.
– No, che me lo farai vedere, porco d’un ubriacone! – gridò la donna, sferrando un pugno sul mento al lungo compare e aprendosi la strada in direzione del sacco.
Ma virilmente tessitore e compare fecero scudo al sacco, obbligandola a battere in fuga. Non ebbero tempo tuttavia di rimettersi che la consorte irruppe daccapo nell’ingresso, brandendo in pugno un attizzatoio. Con quell’attizzatoio destramente raggiunse le mani del marito, la schiena del tessitore – e già era accanto al sacco.
– Perché l’abbiamo lasciata passare? – disse il tessitore riavendosi.
– Eh! Perché l’abbiamo lasciata passare! Ma tu perché l’hai lasciata passare? – disse pacatamente il compare.
– Deve esser di ferro il vostro attizzatoio! – proferì dopo un certo silenzio il tessitore, grattandosi la schiena. – L’anno scorso, alla fiera, mia moglie comprò un attizzatoio: venticinque copeche lo pagò. Non cè male, quello... non pizzica...
Nel frattempo la consorte, trionfante, deposto a terra l’attizzatoio, aveva slacciato il sacco, e stava guardandovi dentro.
Ma certo, i suoi occhi consunti, che così bene avevano scorto quel sacco, caddero questa volta in equivoco: – Ehé, ma c’è un porco intero qui dentro! – esclamò applaudendo per l’esultanza.
– Un porco! Un porco intero, hai sentito! – sussurrò il tessitore, urtando il compare col gomito. – La colpa è tutta tua!
– E che puoi farci? – disse il compare, alzando le spalle.
– Come che? Cosa ce ne stiamo con le mani in mano?! Portiamole via il sacco! Su, fatti avanti!
– Passa via! Passa via di costì! Quel porco è nostro – gridò il tessitore avanzando.
– Fa’ luogo! Fa’ luogo, femmina demoniaca! Non è tua questa roba! – disse il compare, avanzando.
La consorte tornò a dar di piglio all’attizzatoio, ma in quel mentre Čub venne fuori dal sacco e andò a piantarsi nel mezzo della stanza, stirandosi così come un uomo che si ridesti da un lungo sonno.
La moglie del compare cacciò un urlo, battendo con le mani sugli orli della sottana, e tutti spalancarono la bocca.
– Che dice quella scimunita: che è un porco! Ma mica è un porco quello! – esclamò il compare con gli occhi fuor dell’orbita.
– Vedi che omone ti hanno messo nel sacco! – esclamò il tessitore, rinculando dalla paura. – Di’ quel che vuoi, crepa, se vuoi, magari, ma qui c’è di mezzo la forza impura: mica poteva passarci lui da un finestrino!
– È il compare! – disse dopo avergli messo gli occhi addosso, il compare.
– E chi credevi che fossi? – disse Čub ridacchiando. – Che ne pensate? Non vi ho fatto una burla coi fiocchi? E volevate mangiarmi come un porco! Ma aspettate, che vi accontento: dentro il sacco c’è ancora qualcosa e, se non si tratta proprio di un porco, un porcello è sicuro, oppure un’altra bestiola. Sotto i piedi sentivo un che in eterno rimestamento.
Tessitore e compare si gettarono sul sacco; dall’altra parte l’adunghiò la padrona di casa – e la baruffa si sarebbe riaccesa se il diacono, visto che non era possibile ormai restar nascosto, non si fosse industriato a districarsi dal sacco.
Basendo, la moglie del compare si lasciò sfuggire di mano il piede per il quale aveva incominciato a tirare su il diacono.
– Un altro! – urlò il tessitore atterrito. – Sa il diavolo quel che succede oggi al mondo... La testa ti turbina... Niente salami, niente pagnotte – uomini ti buttano nel sacchi!
– È il diacono! – proferì Čub, stupito più di tutti gli altri. – Vedi un po’! Guarda un po’ quella Solocha! Metter nel sacco... E mi era pur sembrato strano vedere quella stanza piena di sacchi... Ora capisco tutto: due per sacco ne aveva. Ed io credevo che lei soltanto con me... Vedila un po’, quella Solocha!
Le ragazze restarono alquanto sorprese, trovando un sacco di meno.
– Cè poco da fare: ci contenteremo di questo – cinguettò Oksana.
Tutte assieme afferrarono il sacco e lo gettarono sopra la slitta.
Il sindaco decise di starsene zitto, considerando che se si fosse messo a gridare che lo liberassero, quelle ragazze stupidelle sarebbero scappate via: avrebbero pensato che nel sacco c’era il demonio, e a lui sarebbe toccato restarsene dentro, forse, fino al giorno seguente.
Frattanto le ragazze, presesi per mano, si erano messe a correre sulla neve scricchiolante, veloci come il vento, trascinando la slitta. Più d’una, ruzzando, vi era saltata sopra; altre eran montate sul sindaco. Il sindaco aveva deciso di sopportare ogni cosa.
Finalmente arrivarono, spalancarono la porta d’ingresso e quella della cucina, e fra le più matte risate vi introdussero il sacco.
– Vediamo quel che c’è dentro – gridarono ad una voce, affrettandosi a scioglierlo.
Qui, il singhiozzo che non aveva cessato di tormentare il sindaco per tutto il tempo della sua permanenza nel sacco, si incrudelì a tal punto che egli prese a singhiozzare e tossire a gola aperta.
– Oh, c’è qualcuno qui dentro! – gridarono, e impaurite fuggirono fuor della porta.
– Che diavolo! Dov’è che scappate come tante indemoniate? – disse Čub, varcando la porta.
– Oh, babbo! – articolò Oksana: – Cè qualcuno nel sacco!
– Nel sacco? E dove lo avete preso quel sacco?
– Lo ha lasciato il fabbro in mezzo alla strada – dissero tutte assieme.
«Proprio così. Non lo avevo detto, io?...», pensò Čub fra sé.
– Di che vi impaurite? Vediamo. Su, quell’uomo, non ve ne abbiate a male se non vi chiamiamo col nome e il patronimico, uscite fuor dal sacco!
Il sindaco se ne uscì fuori.
«Pure il sindaco ci s’era ficcato», diceva, perplesso, Čub fra se stesso, squadrandolo dalla testa ai piedi: «Vedi un po’ come stavano le cose!... Eh!...». Più non poté dire.
Anche il sindaco non era meno turbato, e non sapeva come iniziare il discorso. – Deve far freddo fuori! – disse rivolgendosi a Čub.
– Gela – rispose Čub. – Ma permettimi di domandarti: con che ti ungi le scarpe: col grasso d’oca o con la morchia? – Egli non voleva dire questo; voleva chiedere: «Com’è che tu, sindaco, ti sei ficcato nel sacco?». Ma egli stesso non seppe capacitarsi perché gli fossero venute fuori tutt’altre parole.
– Con la morchia è assai meglio – disse il sindaco. – Be’, addio, Čub! – E calcatosi il cappuccio fin sopra gli occhi uscì in strada.
– Ma perché gli ho chiesto così stupidamente con che si ungesse le scarpe! – proferì Čub, guardando la porta da dove il sindaco se n’era uscito. – Ah, Solocha! Metter nel sacco un uomo come lui!... Vedi un po’ quella femmina del diavolo! E io stupido... Ma dov’è quel sacco dannato?
– L’ho gettato in un canto: non c’è più nulla dentro, – disse Oksana.
– Non c’è nulla! Me ne intendo io di queste cose! Datemelo qua: ce n’è ancora un altro, là dentro! Scuotetelo bene... Che? Non c’è nulla? Vedi, la femmina dannata! E a guardarla sembra una santa, come se in vita sua non avesse mai toccato cibo di grasso.
Ma lasciamo Čub sfogare sino alla sazietà la sua rabbia, e torniamo al fabbro, ché sono ormai le otto suonate.
Dapprima Vakula ebbe una paura matta, in specie allorché fu sollevato a una tale altezza che, sotto, non si poteva distinguere più nulla, e volò, come una mosca, così rasente alla luna che se non abbassava un tantino la testa gli ci restava impigliato il berretto. Ma dopo qualche momento riprese coraggio, e incominciò perfino a burlarsi del diavolo (se la spassava un mondo a vedere come il diavolo starnutisse, e avesse un attacco di tosse, ogni qualvolta egli si levava la crocetta di cipresso dal collo e gliela metteva sotto il naso. Alzava, apposta, una mano per grattarsi la testa, e il diavolo, temendo che volesse segnarsi, prendeva a volare con maggior furia). Tutto era chiaro in alto. Si poteva vedere come un mago, seduto su un vaso, passasse poco lontano con la velocità di un turbine; come le stelle giocassero assieme a moscacieca; come, in disparte, un intero sciame di spiriti si snodasse in forma di nuvola; come un diavolo, che ballava accanto alla luna, si togliesse il cappello scorgendo il fabbro a cavallo; come tornasse addietro, in volo, una scopa su cui poco fa aveva scarrozzato una strega a destinazione... E molte altre porcherie essi videro. Le quali tutte, come avvistavano il fabbro, sostavano qualche secondo a guardarlo, poi riprendevano veloci la corsa per i loro affari; il fabbro continuava sempre a volare e, improvvisamente, Pietroburgo gli risplendé davanti, in un immenso sfolgorio. (V’era in quei giorni, non so per quale occasione, una luminaria). Oltrepassato il dazio a volo, il diavolo si trasformò in un cavallo, e il fabbro si trovò in mezzo a una strada in groppa a un focoso destriero.
Dio mio: rumori, fracasso, luci! Da ambo i lati si slanciavano in aria muraglie di quattro piani; il rombo delle ruote e degli zoccoli dei cavalli scrosciava come un tuono, investendo da tutte le direzioni; a ogni piè sospinto le case si affittivano quasi nascesser da terra; ponti tremavano, le carrozze passavano come turbini; i cocchieri, i postiglioni sciabolavano l’aria di grida; la neve strideva sotto mille slitte sfreccianti per ogni verso; i pedoni si addensavano in una calca compatta sotto le case disseminate di lampioncini, e le loro ombre enormi apparivano e scomparivano lungo le pareti, lambendo col vertice comignoli e tetti.
Ammirato, il fabbro si guardava attorno. Gli pareva che quelle case gli conficcassero addosso miriadi d’occhi di fuoco, e che lo stessero guardando. Di signori in pellicce rivestite di stoffa ne vide tanti che non sapeva più a chi far di cappello. «Dio benedetto! Quanta signoria, da queste parti!» pensò il fabbro tra sé. «Io credo che, fra quelli che passano per la strada con la pelliccia, se uno è perlomeno assessore, l’altro è senza meno assessore! E quelli che se ne vanno nelle belle carrozze con i vetri, se non sono sindaci, sono commissari di certo, e forse più!». Le sue parole furono interrotte da una domanda del diavolo: – Dobbiamo andare direttamente al cospetto della imperatrice? – «No, mi mette paura la cosa», pensò il fabbro. «Qua, da qualche parte, non so dove, hanno preso alloggio quei zaporožcy che passarono in autunno da Dikan’ka. Erano partiti dalla Sec con delle suppliche per l’imperatrice; non sarebbe mal fatto consigliarsi con loro». – Ehi, satanasso! Entrami in tasca, e guidami dai zaporožcy!
E il diavolo, in men che non si dica, smagrì, e divenne a tal punto minuscolo che, senza sforzo, poté entrargli in tasca. E Vakula non fece a tempo a voltarsi che era già dinanzi a un grande palazzo; salì, senza saper come, la scalinata, aprì una porta, e retrocesse abbagliato dallo splendore di un sontuoso salone; ma riprese un po’ d’animo nel riconoscere quei medesimi zaporožcy che erano passati per Dikan’ka, e che adesso sedevano su divani di seta, tenendo sotto, incrociate, le gambe coperte da stivaloni ingrassati con la morchia, e fumando quel tabacco gagliardo che passa comunemente sotto il nome di radicozzo.
– Salute, signorie! Dio vi aiuti; vedete un po’ dove ci siamo rincontrati! – disse il fabbro, avanzando e inchinandosi fino a terra.
– Quello lì chi sarebbe? – chiese uno, che era seduto proprio di fronte al fabbro, ad un altro che era seduto un poco più lontano.
– Che non mi avete riconosciuto? – disse il fabbro. – Sono io, Vakula, il fabbro! Quando passaste da Dikan’ka, l’autunno scorso, siete stati miei ospiti, Dio vi conceda salute e lunga vita, per quasi due giorni. E vi ho rimesso un cerchio nuovo a una delle ruote anteriori del vostro calesse.
– Ah! – disse quel medesimo zaporožec: – È quel fabbro che dipinge bello. Salute, paesano. Che buon vento ti porta?
– Così: volevo dare un’occhiata; si dice che...
– Che cosa, paesano? – chiese il zaporožec, atteggiandosi a un’aria di importanza, e desiderando mostrare che sapeva parlare anche in russo: – Che la città è grande?
Il fabbro non volle neppur lui essere da meno, e mostrarsi novellino; poi, come già si ebbe a dire, era esperto nella lingua letteraria.
– Guvernatorato distinto! – rispose con noncalenza: – Non c’è che dire: case ampliose, pendono quadri arcimportantissimi. Parecchie case sono sfregiate a lettere d’oro massiccio fino alla straordinarietà. Non cè che dire: magnifica proporzione!
I zaporožcy, nell’udire con quanta disinvoltura si esprimesse quel fabbro, si formarono un’idea assai lusinghiera di lui.
– Ragioneremo assieme dopo, un po’ più a lungo, paesano. Ora dobbiamo andare dall’imperatrice.
– Dall’imperatrice? Fatemi il garbo, signorie, di portarmi con voi!...
– Te? – proferì il zaporožec col tono col quale un aio si rivolge a un puttino quattrenne che gli chieda di esser messo in groppa a un grosso, ad un vero cavallo: – Che ci faresti? No, non si può. E il zaporožec assunse un’aria significativa: – Noi, mio caro, abbiamo da ragionare con l’imperatrice di affari nostri.
– Prendetemi con voi – insisté il fabbro. – Pregali! – sussurrò al diavolo, menando un pugno sulla tasca.
Non finì di dirlo che l’altro zaporožec propose: – Prendiamolo davvero con noi, compagni!
– Va bene: prendiamolo! – dissero gli altri.
– Indossa un vestito come il nostro!
Il fabbro stava infilandosi in fretta una gabbana verde, allorché si aprì improvvisamente una porta ed entrò un uomo gallonato a dir che era tempo di muoversi.
Al fabbro ancora una volta parve cosa stupefacente sentirsi portare di gran carriera su una gigantesca carrozza, cullato dalle molle, mentre ai lati fuggivano palazzi di quattro piani, e, rimbombando, il selciato pareva dipanarsi da solo sotto gli zoccoli dei cavalli.
«Dio mio, che luce!», pensò il fabbro tra sé: «Neppure di giorno ve n’è tanta da noi!».
Le carrozze si arrestarono dinanzi alla reggia. I zaporožcy discesero, entrarono in un atrio sontuoso, e presero a salire uno scalone sfarzosamente illuminato.
«Che scala!», mormorò fra sé il fabbro: «È un peccato metterci sopra i piedi. Che ornamenti! E poi si dice che le fiabe non sono vere! Diavolo, se sono vere! Dio, che ringhiera! Quale fattura! soltanto per il ferro devono esserci andati almeno cinquanta rubli!».
Giunti alla sommità dello scalone, i zaporožcy attraversarono una prima sala. Il fabbro li seguiva peritante, temendo ad ogni passo di sdrucciolare sull’impiantito. Avevano attraversato tre sale, e il fabbro non ristava dallo sgranare gli occhi. Come entrarono in una quarta, egli non poté fare a meno di accostarsi ad un quadro appeso alla parete. Rappresentava la Vergine con il Bambino in braccio.
«Che quadro! Che pittura stupenda!», andava meditando: «Ecco: ti sembra proprio che, ora, si metterà a parlare! Viva sembra! E il Santo Bambino! E tiene incrociate le manine, e sorride, poverello! E i colori! Dio, che colori! Qui non c’è neanche un centesimo d’ocra: tutta porpora, e verde smeraldo. E il cobalto com’è luminoso! Un lavoro di gran valentia! La tela deve essere stata apprestata con la biacca più cara. Ma per quanto sia magnifica quella pittura, c’è poi questa maniglia di bronzo», continuò, accostandosi ad una porta e palpandone la gruccia, «che è degna di ancor più grande meraviglia. E che lavoro ben rifinito! Tutte queste cose le han dovute forgiare i fabbri tedeschi, e Dio sa a quale prezzo...».
Il fabbro sarebbe forse rimasto chissà quanto, a riflettere, se un lacchè gallonato non lo avesse urtato nel gomito e non gli avesse ricordato di non distanziarsi dagli altri. I zaporožcy attraversarono ancora due sale, e si fermarono. Qui fu detto loro di attendere. Vi era, in quella sala, una moltitudine di generali con le uniformi ricamate doro. I zaporožcy menarono inchini per ogni verso, e si raccolsero in gruppo.
Un istante dopo, accompagnato da tutto un seguito, entrò un uomo di grande statura, piuttosto corpulento, in divisa di etmano e stivali gialli. Aveva i capelli scomposti, e un occhio un po’ strabico; sul viso un’espressione altera, e in ogni sua movenza si rilevava l’abitudine al comando. Tutti i generali dalle uniformi dorate, che fino ad allora avevano passeggiato su e giù con una notevole aria di sussiego, si fecero piccoli, e fra incessanti, profondissimi inchini, seguivano ogni parola, ogni minimo cenno di lui, per precipitarsi a ubbidirlo. Ma l’etmano sembrava quasi non essersi accorto nemmeno di loro: fece appena un piccolo segno col capo, e si diresse verso i zaporožcy.
I zaporožcy si inchinarono fino a terra.
– Siete tutti presenti? – chiese, strascicando le parole, con una pronuncia leggermente nasale.
– Sì, tutti, babbo! – risposero i zaporožcy, inchinandosi di nuovo.
– Non dimenticatevi di parlare così come vi ho insegnato!
– No, babbo, non lo dimenticheremo.
– È lo zar? – chiese il fabbro a uno zaporožec.
– Ma che zar! È Potëmkin in persona – rispose quegli.
Nella sala attigua risuonarono delle voci, e il fabbro non seppe più dove nascondere lo sguardo, vedendosi comparire dinanzi una folla di dame che stavano entrando, in abiti di raso dal lungo strascico, e di cortigiani in palandrane ricamate d’oro, e i codini di dietro. Vide soltanto uno scintillio, e basta.
I zaporožcy si gettarono tutti, improvvisamente, a terra, e presero ad esclamare a una voce: – Facci grazia, mammina, facci grazia!
Il fabbro, con la vista annebbiata, si distese anche lui con gran fervore sul pavimento.
– Alzatevi! – risuonò sopra a loro una voce al contempo dolce e imperiosa. Alcuni cortigiani si dettero a far segni ai zaporožcy e a urtarli nei fianchi.
– Non ci rialzeremo, mammina! Non ci rialzeremo! Moriremo ma non ci rialzeremo! – gridavano i zaporožcy.
Potëmkin si mordeva le labbra; alla fine venne avanti, e sussurrò all’orecchio di un zaporožec un ordine perentorio. I zaporožcy si alzarono.
In quella anche il fabbro ardì levare lo sguardo, e si vide dinanzi una donna di non grande statura, perfino un poco abbondante di forme, incipriata, con gli occhi celesti e, insieme, un’aria sorridente che aveva il dono di soggiogare, e che poteva appartenere soltanto a un sovrano.
– Sua grazia mi ha promesso di farmi conoscere oggi uno dei miei popoli col quale non ho avuto ancora occasione di intrattenermi – disse la dama dagli occhi celesti, osservando con curiosità i zaporožcy: – Siete bene ospitati qua? – continuò avvicinandosi.
– Eh, sì, mammina, grazie! Le provviste son buone; certo che i montoni di qua non sono proprio la stessa cosa dei nostri, nel Zaporož’e. Però: perché non ci dovremmo adattare?
Potëmkin aggrottò le ciglia, udendo i zaporožcy parlare in modo affatto diverso da come egli aveva loro insegnato...
Uno dei zaporožcy, assumendo un’aria piena di gravità, si fece avanti: – Perdona, mammina! Per quale motivo è incorso nella tua ira il tuo popolo fedele? Abbiamo forse tenuto di mano ai Tatari pagani; siamo stati forse in qualche intesa coi Turchi; ti abbiamo forse tradita con gli atti o le intenzioni? Perché siamo dunque caduti in disgrazia? Dapprima siamo venuti a conoscenza che tu avevi dato ordine di costruire dovunque fortezze contro di noi, per difenderti; poi siamo venuti a conoscenza che volevi trasformarci in carabinieri; ora veniamo a conoscenza di altri malanni. Quali colpe ha l’esercito del Zaporož’e? Di avere accompagnato la tua armata attraverso il Perekop, e avere aiutato i tuoi generali a sterminare i Crimeani?...
Potëmkin taceva, e con aria distratta andava lucidandosi con uno spazzolino i brillanti di cui aveva costellate le dita.
– E cosa, allora, desiderate? – chiese premurosa Caterina.
I zaporožcy si guardarono significativamente l’un l’altro.
«Questo è il momento! L’imperatrice domanda cosa vogliamo!» si disse il fabbro, e si gettò subito a terra.
– Maestà imperiale, non degnatevi di adirarvi, degnatemi della vostra grazia! Ditemi, con rispetto parlando, di che cosa son fatte le scarpette che avete al piede? Credo che nessun calzolaio, in nessun paese del mondo, sappia farne a quel modo. Dio mio, se mia moglie potesse calzarne di simili!
L’imperatrice si mise a ridere. Si misero a ridere anche i cortigiani. Potëmkin si rabbuiò – e sorrideva al medesimo tempo. I zaporožcy cominciarono a dar di gomito al fabbro, temendo che fosse iscimunito.
– Rialzati – disse amichevolmente l’imperatrice: – Se desideri avere delle scarpette come queste non è difficile accontentarti. Portategli all’istante le mie scarpette più preziose, quelle con l’oro! Tale semplicità d’animo è cosa che veramente mi piace. Eccovi, – riprese l’imperatrice, dirigendo lo sguardo su un gentiluomo che se ne stava in disparte, e aveva un viso pieno, e leggermente pallido, e il cui modesto soprabito dai grandi bottoni di madreperla lasciava vedere come egli non appartenesse al numero dei cortigiani – eccovi un soggetto degno della vostra penna arguta!
– Vostra Maestà imperiale è troppo benevola. Almeno un La Fontaine ci vorrebbe! – rispose inchinandosi il gentiluomo dai bottoni di madreperla.
– In fede mia vi assicuro che sono ancor piena di entusiasmo per il vostro Brigadiere. Sapete leggere in modo sorprendente! Ma – riprese l’imperatrice, indirizzandosi nuovamente ai zaporožcy – ho udito che da voi, alla Sec, nessuno si sposa.
– Ma come, mammina! Eppure lo sai anche tu che un uomo senza una femminuccia non può stare – rispose quello stesso zaporožec che aveva parlato col fabbro; e il fabbro stupì nell’udire come costui, che conosceva così bene la lingua letteraria, parlasse, neanche a farlo apposta, nel dialetto più rozzo: contadinesco, come si suol dire. «Gente furba», si disse. «È certo che lo fa a ragion veduta».
– Mica siamo frati – continuò il zaporožec: – Peccatori siamo. Ci garba, come a tutti i bravi cristiani, mangiar di grasso. V’è più d’uno fra noi che ci ha la moglie: non l’ha con sé, ecco, alla Sec. Chi l’ha in Polonia, chi in Ucraina, e chi perfino ce l’ha in Turchia.
In quella portarono le scarpette per il fabbro.
– Mio Dio, che galanteria! – gridò costui, dalla gioia, afferrando le scarpette. – Vostra Maestà imperiale! Se portate delle scarpette simili – ci scommetto che le usate anche per andare a sdrucciolare sul ghiaccio – come avranno da essere i piedini vostri? Uno zucchero per lo meno, dico io!
L’imperatrice, che per l’appunto aveva dei piedini ben fatti, non poté rattenere un sorriso nell’udire un tal complimento dalle labbra di quel semplice fabbro; il quale, nel suo costume di zaporožec, poteva dirsi un bel ragazzo, malgrado il viso olivastro.
Contento di essere oggetto di una così compiacente attenzione, il fabbro si disponeva già a rivolgere all’imperatrice un subisso di svariate domande: se era vero che i re mangiassero soltanto lardo e miele, e simili argomenti, allorché, sentendosi urtare nei fianchi dai zaporožcy, prese il partito di tacere. E quando l’imperatrice, indirizzandosi agli anziani, cominciò a chieder loro come vivessero alla Sec, quali ne fosser le usanze, egli, trattosi alquanto indietro, piegò il capo verso la tasca e sussurrò: – Presto: portami via di qui! – e si trovò, in un lampo, fuor dalla cinta daziaria.
– S’è affogato! Perdio s’è affogato! Ecco: che non mi possa più muovere di qui se non si è affogato! – abborracciava la grassa tessitrice dentro un capannello di donne in mezzo alla strada.
– Che sono io? Una bugiarda? Ho rubato forse una vacca a qualcuno? Ho scarognato forse qualcuno, perché non mi si creda? – strillava una contadina in giubbetto cosacco, col naso paonazzo, sventagliando le mani. – Ecco: che non mi venisse più voglia di bere l’acqua, se la vecchia Strapepe non ha visto coi propri occhi che il fabbro si è impiccato!
– Il fabbro s’è impiccato? Ma guarda un po’! – disse il sindaco, uscendo dalla casa di Čub; si trattenne e, lavorando di gomiti, si accostò alle interlocutrici.
– Di’ piuttosto che non ti venga più voglia di bere la vodka, vecchia sbronzona! – le rispose la tessitrice. – Bisognerebbe esser pazzi come te per impiccarsi! S’è affogato! Lo so tanto bene come che te ne sei stata or ora alla bettola.
– La spudorata! Vedi di che mi rimprovera! – ribatté invelenita la contadina dal naso paonazzo. – Se stessi zitta tu, lazzerona! Credi che non lo sappia io che il diacono ti viene a trovare tutte le sere?
La tessitrice avvampò.
– Che diacono? Da chi va il diacono? Che inventi tu?
– Il diacono? – attaccò, canora, la moglie del diacono, serrandosi sotto alle due litiganti, in pelliccia di lepre rivestita di nanchino azzurro: – Ve lo do io il diacono! Chi ha detto: il diacono?
– Ecco da chi va il diacono! – disse la contadina dal naso paonazzo indicando la tessitrice.
– Ah, sei tu, cagna! – esclamò la moglie del diacono, avanzando verso la tessitrice: – Dunque sei tu, fattucchiera, che lo annebbi, e lo abbeveri di filtri impuri per allettarlo!
– Arretra, o satana! – diceva la tessitrice rinculando.
– Vedi la maledetta strega! Che non possa più rivedere i tuoi figli! Sporcacciona! Tphu! – E la moglie del diacono sputò dritto negli occhi alla tessitrice.
Anche la tessitrice voleva fare il medesimo, ma invece lo sputo arrivò sulla barba intonsa del sindaco che, per sentir meglio, s’era ficcato lì sotto.
– Ah, donnaccia porca! – sbraitò il sindaco, asciugandosi il viso con una falda e alzando il frustino. Questo gesto disperse gli astanti, che si sparpagliarono imprecando. – Che zozzume! – ripeteva il sindaco, continuando a nettarsi. – Vedi un po’ quel fabbro: si è annegato! Dio santo! E che pittore bravo era! Che coltelli robusti, e che falci, e che aratri sapeva fucinare! Com’era forzuto! Già, – continuò meditabondo: – Ce n’eran pochi, al villaggio, come lui. Anch’io, stando dentro a quel sacco dannato, mi ero accorto che il poveretto era assai fuor del bene di Dio. O prendilo, ora, quel fabbro! C’era, e non c’è più! E io che volevo fargli ferrare la cavalla pezzata!... – E pieno di simili cristiani pensamenti, il sindaco si avviò passo passo in direzione di casa.
Oksana si turbò allorché queste voci le giunsero all’orecchio. Ci credeva poco agli occhi della Strapepe ed alle ciaccole delle comari: sapeva bene che il fabbro era un uomo troppo devoto per arrivare a dannarsi l’anima. Ma se veramente avesse abbandonato il villaggio con l’intenzione di non tornarvi mai più? Sarebbe stato difficile poter trovare, anche in un altro luogo, un giovanotto in gamba come lui. E lui, poi, le voleva così bene! Aveva sopportato i suoi capricci molto più a lungo di qualsiasi altro... La bella ragazza non fece che rigirarsi tutta la notte dal fianco sinistro a quello destro, da quello destro al sinistro, e non le riusciva prendere sonno. Ora, smaniando e stirandosi sopra le coperte, nella propria incantevole nudità, che la tenebra notturna celava ai suoi stessi occhi, si redarguiva quasi ad alta voce; ora, acquietandosi, si giurava di non voler pensare più a nulla; e ancora pensava. E tutta ardeva; e tutta, al mattino, era innamorata, fino ai capelli, del fabbro.
Čub non prese né piacere né dolore alla sorte di Vakula. I suoi pensieri erano occupati da ben altri soggetti: non poteva dimenticare in nessun modo la fedifraga Solocha; e non cessava di rampognarla.
Sopraggiunse il mattino. Già prima dello spuntare del giorno la chiesa era gremita di gente. Le donne di una certa età, in copricapo bianco, in bianchi giubbetti di panno, andavano devotamente segnandosi presso l’entrata di chiesa. Le nobili, in camicette verdi e gialle, e alcune perfino in azzurre guarnacche coi baffi doro di dietro, stavano loro davanti. Le fanciulle, nei capelli delle quali erano intrecciati magazzini interi di nastri, e che al collo portavano vezzi, croci e ducati, cercavano di spingersi oltre, più che potevano, verso l’iconostasi. Ma in testa a tutti vi erano i nobili, e i semplici contadini: coi baffi, coi ciuffi, con le grasse collottole e i menti rasati di fresco; tutti, per lo più, indossando un mantello di sotto al quale si affacciava un bianco giubbotto; e alcuni lo avevano perfino azzurro. Su tutte le facce, dovunque si volgesse lo sguardo, era dipinta la festa. Il sindaco si leccava le labbra in anticipo al pensiero del salame col quale avrebbe rotto il digiuno; le ragazze sognavano il momento in cui sarebbero andate a sdrucciolare sul ghiaccio coi giovanotti; le vecchiette, più alacremente del solito, biascicavano giaculatorie. Per tutta la chiesa si udiva come il cosacco Prudibernoccolo andasse compiendo le genuflessioni. Soltanto Oksana stava lì come fuor dei suoi panni: pregava e non pregava. Le facevano ressa al cuore sentimenti diversi, uno più increscioso dell’altro, così che il suo viso esprimeva solo un gran turbamento; sugli occhi le tremavano le lacrime. Le compagne non riuscivano a capire il perché di tanto affanno, e lo attribuivano al fabbro. Ma per il fabbro non la sola Oksana era in ansia. Tutti i paesani si erano accorti che quella festa era come se non fosse una festa, come se mancasse qualcosa. Per colmo della disdetta il diacono, dopo le peregrinazioni nel sacco, si era arrochito, e andava sbelacchiando, tremulo, con una vocina che appena appena si udiva; è vero che il basso venuto di fuori pigliava note stupendamente profonde; ma quanto meglio sarebbe stato se avesse potuto esservi il fabbro; il quale, allorché intonavano il «Padre nostro» o «Se i cherubini», saliva nel coro, e di là modulava l’eguale cadenza con cui si canta a Poltava. Si aggiunga che era il solo a disimpegnare i compiti del fabbriciere. Già il mattutino era stato celebrato, dopo il mattutino era stata celebrata la messa... Ma, davvero: dove era andato a ficcarsi quel fabbro?
Nelle ultime ore della notte il diavolo prese a volare con maggior lena, e in un batter d’occhio Vakula si trovò a pochi passi da casa. In quel momento il gallo cantò.
– Dove vai? – gridò il fabbro, riacchiappando per la coda il demonio che voleva fuggirsene. – Aspetta, amico: non è tutto ancora: ancora non ti ho ringraziato.
Qui, afferrata una verga, gli aggiustò tre frustate, e il povero diavolo partì a galoppo serrato come un contadino che abbia avuto una ripassata dall’assessore. Così, in luogo di gabbare, far cadere in tentazione e confondere il prossimo, il nemico del genere umano rimase egli stesso confuso.
Dopo di che Vakula entrò nell’ingresso di casa, si seppellì nel fieno, e dormì fino all’ora di pranzo. Destatosi, si spaventò nel vedere come il sole fosse già tanto alto: «Ho perduto la messa e il mattutino!».
Allora il timorato fabbro si attristò, considerando che il Signore gli aveva certo mandato – appositamente per punirlo dell’intento peccaminoso di perdere l’anima – un sonno che gli aveva impedito di andare in chiesa in un giorno simile. Pur tuttavia, consolandosi al pensiero che nella settimana entrante si sarebbe ampiamente confessato dal prete, e che, a contare da oggi, per tutto un anno, avrebbe fatto cinquanta genuflessioni ogni giorno, entrò in casa a dare un’occhiata; ma in casa non c’era nessuno. Evidentemente Solocha non era ancor tornata.
Con gran cautela si tolse di seno le scarpette, e stupì ancora del prezioso lavoro, e della straordinaria avventura della notte passata; si lavò, si vestì con i panni migliori, indossò l’abito che aveva avuto dai zaporožcy, tirò fuori dalla cassapanca un berretto nuovo di agnello di Resetilovka, dal cocuzzolo azzurro – che non si era mai messo da quando, ancora al tempo del suo soggiorno a Poltava, lo aveva comprato – tirò fuori anche una cintura nuova, di mille colori, mise tutte queste cose, insieme con uno scudiscio, dentro una pezzuola, e andò diritto da Čub.
Čub sbarrò un tanto d’occhi, quando vide entrare il fabbro; e non sapeva di cosa avesse maggiormente a stupire: se del fatto che il fabbro era resuscitato, se del fatto che avesse avuto l’ardire di venirgli in casa, o del fatto che si fosse agghindato a quel modo, e in un abito da zaporožec. Ma ben più egli stupì allorquando Vakula, disciolti i nodi della pezzuola, gli pose dinanzi un berretto fiammante, e una cintura quale il villaggio non ne aveva mai vedute di eguali; e allorquando il fabbro, gettatoglisi ai piedi, gli disse con voce di preghiera: – Sii clemente, babbo! Non adirarti! Ecco, ti ho portato anche lo scudiscio: frustami fin che vuoi, ma non adirarti. Un giorno stringesti un patto di fratellanza col mio povero babbo: insieme avete mangiato il pane ed il sale, e bevuto il vino della fede.
Čub, non senza segreta soddisfazione, guardava come quel fabbro, che nel villaggio non si lasciava posar mosche sul naso, che con una sola mano torceva ferri di cavallo e monete come ciambelle di gran saraceno, gli stesse ai piedi. Per non compromettere la propria dignità, Čub prese lo scudiscio, e per tre volte toccò il fabbro sul dorso. – Su, ora basta! Sii sempre ubbidiente con gli anziani. Dimentichiamo il passato. E adesso di’ quel che vuoi.
– Dammi Oksana per moglie, babbo!
Čub ci stette un poco a riflettere; sbirciò berretto e cintura: era stupendo il berretto, e la cintura non gli cedeva; gli tornò a mente la fedifraga Solocha, e disse risoluto: – Bene. Manda qui i compari!
– Ahi! – gridò Oksana, varcando la soglia e scorgendo il fabbro; e gli ficcò addosso occhi pieni di meraviglia e allegrezza.
– Guarda quali scarpette ti ho portato! – le disse Vakula: – Sono le stesse dell’imperatrice!
– No, no, che non mi importa niente delle scarpette! – diceva Oksana facendo con le mani il gesto di respingerle, e continuando a tenergli gli occhi fitti addosso: – Anche senza scarpette io... – Non andò oltre, e diventò rossa.
Il fabbro le si accostò, le prese la mano: la bella chinò lo sguardo. Così magnificamente bella non era mai stata. Incantato, il fabbro la sfiorò con un bacio leggero, e il viso di lei si fece ancor più vermiglio e ancora più bella divenne.
Attraversò Dikan’ka, un giorno, l’arciprete di santa memoria: lodò il luogo in cui era sito il villaggio e, cammin facendo, sostò dinanzi a una capanna nuova.
– Di chi è questa capanna istoriata di pitture? – chiese il reverendissimo a una bella sposina, ritta sulla soglia di casa, con un puttino in braccio.
– È del fabbro Vakula! – rispose Oksana inchinandosi, ché era proprio lei.
– Eccellente! Eccellente fattura! – disse il reverendissimo, guardando attento le finestre e la porta. E le finestre eran contornate tutte di rosso e sulla porta eran dovunque figure di cosacchi a cavallo: – su destrieri ardenti – e la pipa fra i denti.
Ma ancor più lodò, il reverendo, Vakula allorché seppe che egli si era assoggettato a penitenza ecclesiastica, e che aveva dipinto l’intero coro, posto a sinistra, di verde, e a fiorellini rossi.
Questo, però, non è tutto. Sulla parete di fianco, non appena si entra nella chiesa, Vakula aveva dipinto il demonio nell’inferno: così schifoso che ognuno, passando, sputava e le donne, quando i bimbi che avevano in braccio prendevano a frignare, li menavano sotto l’icona, dicendo: «Vè’, pipi, che cacca è dipinta!».
E i puttini, frenando le lacrime e mirando di sbieco, si serravano al petto materno.
9Sono chiamati koljadki certi canti che, da noi, si suole cantare alla vigilia del Natale, sotto le finestre delle capanne. A colui che li canta, il padrone, o la padrona di casa, usa sempre gettare nel sacco un salame, o un pane o una moneta: ciascuno a seconda di quel che può. Sembra che un tempo, vi fosse un idolo detto Koljada, considerato una divinità, e che da lui prendessero nome le koljadki. Chi può dirlo? Non è da noi, gente semplice, trattar simili cose. L’anno scorso padre Osip interdisse di andare in giro per le masserie a cantar le koljadki, affermando che, in tal modo, si compiaceva il diavolo. Ma, a dir vero, non v’è una sola parola, nelle koljadki, che ricordi Koljada. Spesso vi si canta del Natale di Cristo e, alla chiusa, si rivolge un augurio di buona salute al massaio, alla massaia, e a tutta la gente di casa (N.d.A.).
10 Da noi chiamano Tedesco ogni straniero: o francese, o ungherese, o svedese – sono tutti Tedeschi (N.d.A.).
11 Ciuffo (N.d.T.).