Il conservatorismo, fonte di progresso
Estratto da "Interventi" di Michel Houellebecq
Il testo è uscito su “Le Figaro” dell’8 novembre 2003 ed è stato ripubblicato in Houellebecq, “Cahiers de L’Herne” (Éditions de L’Herne, 2017).
Il paradosso è solo apparente: il conservatorismo può essere fonte di progresso, come la pigrizia è madre dell’efficienza. Il che spiega in larga parte perché l’atteggiamento conservatore sia così raramente capito.
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Ontologicamente, la reazione presuppone l’azione; se esistono dunque dei nuovi reazionari, devono esserci dei nuovi progressisti. Come definirli? Riprendendo l’ingegnosa terminologia di Taguieff, assimileremo facilmente il nuovo progressismo al bougisme.11
11 Mobilità nella società. (N.d.T.)
Contrariamente al vecchio, il nuovo progressista non identifica il progresso attraverso il suo contenuto intrinseco, ma attraverso il suo carattere di novità. Vive insomma in una sorta di epifania permanente, molto hegeliana nella sua stupidità, in cui tutto ciò che appare è buono per il semplice fatto che è apparso. Sarebbe così altrettanto reazionario opporsi allo “string” quanto al velo islamico, al “loft” quanto alle prediche di Tariq Ramadan. Tutto ciò che appare è buono.
Il nuovo reazionario, invece, restio alla novità per principio, appare come una specie di scorbutico; sarebbe esattamente, se i termini avessero il loro senso, ciò che si dovrebbe definire un conservatore (realista sotto la monarchia, staliniano sotto Stalin ecc.). I due atteggiamenti sembrano sulle prime ugualmente stupidi, nella loro opposizione congiunta alla posizione di buon senso consistente nell’approvare la novità se essa è buona e a respingerla se è cattiva. Questa simmetria, tuttavia, è solo parzialmente esatta. A questo stadio, si potrebbero proporre circa quattordici osservazioni; in mancanza di spazio, mi limiterò a due.
In primo luogo, l’innovazione stanca. Ogni routine, buona o cattiva che sia, ha il vantaggio di essere abitudinaria, dunque di poter essere proseguita con uno sforzo minimo. La radice prima di ogni conservatorismo è la pigrizia intellettuale. Ora, la pigrizia, spingendo alla sintesi, alla ricerca dei tratti comuni al di là delle differenze superficiali, è intellettualmente una virtù potente. In matematica, tra due dimostrazioni di uguale rigore, si preferirà sempre la più breve, che stancherà meno la memoria. Il concetto di eleganza di una dimostrazione, abbastanza misterioso, è di fatto quasi equivalente alla sua brevità (il che non ha nulla di sorprendente, se si considera che l’eleganza di un movimento può misurarsi pressappoco dalla sua economia).
In secondo luogo, il metodo scientifico nel suo insieme (concepito classicamente come alternanza tra le fasi di elaborazione teorica e quelle di verifica sperimentale) ha come prima condizione una disposizione di pensiero essenzialmente conservatrice. Una teoria è cosa preziosa, acquisita con grande sforzo e tenacia, e uno scienziato si rassegnerà ad abbandonarla solo se i fatti sperimentali proprio lo costringono. Rinunciando a una teoria solo per ragioni serie, non sarà mai tentato di aderirvi di nuovo.
Questo conservatorismo di principio ha dunque per corollario la possibilità di progresso effettivo, addirittura, se le circostanze lo vogliono, di autentiche rivoluzioni (chiamate “cambiamenti di paradigma” a partire da Kuhn). Non è dunque affatto paradossale affermare che il conservatorismo è fonte di progresso, come la pigrizia è madre dell’efficienza.
La traduzione politica di tali principi, ne convengo, non ha nulla di immediato; ecco perché l’atteggiamento conservatore, moderatamente simpatico, di contenuto ideologico debole, viene capito così di rado. Per usare una metafora, direi che il conservatore tende a idealizzare la società sotto forma di una macchina perfetta, in cui il passaggio da una generazione all’altra si effettua con uno sforzo minimo, in cui si cerca di minimizzare le sofferenze e le costrizioni come si cerca, in meccanica, di minimizzare gli attriti (il che ha per esempio come conseguenza una limitazione drastica della densità di popolazione). In ogni circostanza, mediterà i principi, improntati a un taoismo del Poitou, del defunto senatore Queuille (come: “Non c’è alcun problema politico che non possa risolversi con l’inazione”); non dimenticherà il detto del vecchio Goethe secondo cui “è meglio un’ingiustizia che un disordine”, soltanto in apparenza cinico, tenuto conto del potente fermento di ingiustizie costituito da ogni disordine.
Uno degli ultimi conservatori autentici fu senza dubbio quel lord inglese, citato da Huxley, che scrisse nel 1940 una lettera alla posta dei lettori del “Times” per proporre di mettere fine alla guerra con un compromesso (il “Times”, “giornale un tempo conservatore”, annota Huxley, rifiutò di pubblicare la lettera).
Consapevole che la vita degli uomini si svolge in un ambiente biologico, tecnico e sentimentale (cioè politico in via molto accessoria), consapevole che essa ha come obiettivo il perseguimento di obiettivi privati, avrà un rifiuto istintivo per ogni convinzione politica spiccata. L’uomo ribelle, il resistente, il patriota, il fomentatore di disordini gli appariranno innanzitutto come individui spregevoli, mossi dalla stupidità, dalla vanità e dal desiderio di violenza. Contrariamente al reazionario, il conservatore non avrà così né eroi né martiri; se non salva nessuno, non farà nemmeno alcuna vittima; non avrà, in sintesi, nulla di particolarmente eroico; ma sarà, è una delle sue attrattive, un individuo assai poco pericoloso.