FURORE
John Steinbeck
Recensione
Romanzo di viaggio e al tempo stesso ritratto epico della lotta dell’uomo contro l’ingiustizia, Furore è forse il più americano dei classici americani, da leggere ancora oggi in tutta la sua bellezza, perché ci racconta non solo di allora, ma anche di adesso.
Steinbeck oltre a denunciare lo sfruttamento e i maltrattamenti delle persone rimaste senza lavoro a causa di una depressione economica, tenta di far emergere anche il circolo perverso da cui si originano questi drammi sociali. Con questo libro ha provato, ad analizzare il problema e a suggerirci che è la capacità di una visione sociale, generosa, rispettosa del mondo, degli uni e degli altri , lo sguardo lungimirante a rendere il nostro mondo sempre migliore e ricco.
Furore racconta la storia dei Joad, una famiglia di tre generazioni privata della propria terra, e della loro devastante marcia lungo la Route 66 alla volta della California. Sono costretti ad abbandonare la fattoria nell’Oklahoma e come altri contadini diseredati vengono denigratoriamente soprannominati Okies. Infatti, sono centinaia le famiglie a peregrinare e a “sciamare” in cerca di lavoro.
[...] Nell’Ovest si diffuse il panico di fronte al moltiplicarsi degli emigranti sulle strade. Uomini che avevano proprietà temettero per le loro proprietà. Uomini che non avevano mai conosciuto la fame videro gli occhi degli affamati. Uomini che non avevano desiderato niente videro la vampa del desiderio negli occhi degli emigranti. E gli uomini delle città e quelli dei ricchi sobborghi agrari si allearono per difendersi a vicenda; e si convinsero a vicenda che loro erano buoni e che gli invasori erano cattivi, come fa ogni uomo prima di andare a combattere un altro.[...](Capitolo 21)
Furore ci offre una testimonianza senza tempo di una condizione dell’uomo”: il migrare, il lasciare il proprio luogo di origine per motivi economici o di conflitto, nella speranza di un’opportunità migliore
Quella di Steinbeck è una scrittura sorprendente per la sua dolorosa attualità: squarci di povertà e disillusione che rievocano l’esodo e lo sciame delle genti che migrano ancora oggi verso una terra promessa.
FURORE
Capitolo 1
Sulle terre rosse e su una parte delle terre grigie dell’Oklahoma le ultime piogge furono leggere, e non lasciarono traccia sui terreni arati. Le lame passarono e ripassarono spianando i solchi piovani. Le ultime piogge fecero rialzare in fretta il mais e sparsero colonie di gramigna e ortiche ai lati delle strade, tanto che le terre grigie e le terre rosso-scure cominciarono a sparire sotto una coltre verde. Nell’ultima parte di maggio il cielo si fece pallido, e scomparvero le nuvole che in primavera avevano indugiato così a lungo con i loro alti pennacchi. Il sole prese a picchiare giorno dopo giorno sul mais in erba, fino a screziare di bruno gli orli di ogni baionetta verde. Le nuvole ricomparvero, e si dileguarono senza tornare più. La gramigna si fece di un verde più scuro per difendersi dal sole, e smise di propagarsi. Il suolo si ricoprì di una crosta dura e sottile, e man mano che il cielo impallidiva, anche il suolo impallidiva, facendosi rosa nelle terre rosse e bianco nelle terre grigie.
Nei solchi scavati dall’acqua, la terra si sfaldava in piccoli rivoli secchi. Formiche e scarabei provocavano minute slavine. E sotto il sole che giorno dopo giorno picchiava più forte, le foglie del mais in erba si facevano meno rigide e dritte; dapprima s’inarcarono appena, poi, con l’indebolirsi della nervatura centrale, ogni foglia si piegò decisamente all’ingiù. Arrivò giugno, e l’intensità del sole crebbe ancora. Le screziature brune sulle foglie di mais si allargarono fino a raggiungere le nervature centrali. La gramigna si sfrangiò e si curvò verso le radici. L’aria era fina e il cielo sempre più pallido, e ogni giorno la terra impallidiva.
Sulle strade percorse dai carri, lì dove le ruote macinavano il suolo e gli zoccoli dei cavalli lo percuotevano, la crosta di terra si frantumava in polvere. Qualunque cosa si muovesse sollevava in aria la polvere: il passo degli uomini la faceva salire fin quasi alla cintola, i carri ne alzavano strati fin sopra le sponde, le automobili lasciavano vortici di polvere dietro di sé. Passava molto tempo prima che la polvere tornasse a depositarsi.
Verso la metà di giugno, grosse nuvole cominciarono ad arrivare dal Texas e dal Golfo, nuvole alte e massicce, dense di pioggia. Gli uomini nei campi alzavano lo sguardo verso le nuvole e fiutavano l’aria e rizzavano l’indice bagnato per capire dove tirasse il vento. E i cavalli erano nervosi sentendo le nuvole. Poi le nuvole sparsero un po’ di pioggia e si affrettarono verso altre terre. Lasciarono dietro di sé un cielo nuovamente pallido e un sole in fiamme. Piccoli crateri dov’era caduta la pioggia, qualche chiazza lustra sul mais, nient’altro.
Un vento leggero seguì le nuvole, spingendole verso Nord, un vento che asciugava piano il mais bagnato. Passò un giorno e il vento si fece più intenso, senza l’indugio di folate. La polvere delle strade si gonfiò, si distese e ricadde sulla gramigna lungo i campi, e per qualche tratto anche dentro i campi. Poi il vento si fece più forte e teso e aggredì la crosta lasciata dalla pioggia nei campi di mais. A poco a poco il cielo si scurì di polvere, e il vento si abbassò fino a sfiorare il suolo, liberando la polvere e trascinandola via. Il vento si fece ancora più intenso. La crosta lasciata dalla pioggia si spaccò e la polvere si librò dai campi in colonne grigiastre simili a fumo. Il mais contrariava il vento spandendo sui campi un fruscio secco. Ora la polvere impalpabile non ricadeva più al suolo, si disperdeva nel cielo sempre più scuro.
Il vento si fece impetuoso, s’infilava sotto le pietre, scalzava paglia e foglie morte, perfino piccole zolle, creando dietro di sé una scia man mano che solcava i campi. L’aria e il cielo s’incupirono, e in mezzo a loro il sole fiammeggiava rosso, e c’era nell’aria una morsa umida. Una notte il vento spazzò con più forza ancora la terra, scalzando subdolamente le radici del mais, e il mais reagì combattendo il vento con le foglie infiacchite, finché le radici non furono divelte dall’accanirsi del vento, e ogni pianta si piegò sfinita verso il suolo, indicando così la direzione al vento.
Venne l’alba, ma senza giorno. Nel cielo grigio apparve un sole rosso, un fioco cerchio rosso che spandeva un po’ di luce simile al crepuscolo; e con l’avanzare del giorno il crepuscolo ricadde verso il buio, e il vento ululò e mugolò sul mais abbattuto.
I contadini stavano rintanati in casa, e quando gli toccava uscire si annodavano un fazzoletto intorno al viso, e indossavano occhiali protettivi per ripararsi gli occhi.
Quando si fece di nuovo sera, fu buio pesto, poiché la luce delle stelle non riusciva a solcare la polvere per toccare terra, e la luce delle finestre arrivava a stento fino all’aia. Ora la polvere era frammista all’aria in parti uguali, un’emulsione di polvere e aria. Ogni casa era chiusa e sbarrata, porte e finestre erano tappate con gli stracci, ma la polvere s’insinuava così impalpabile da essere invisibile in sospensione, e si posava come polline sui tavoli e le sedie, sui piatti. I contadini se la spazzolavano dalle spalle. Piccole piste di polvere giacevano sulle soglie.
Nel cuore di quella notte il vento proseguì e lasciò in pace la terra. L’aria satura di polvere ovattava i suoni perfino più della nebbia. I contadini, coricati nei loro letti, udirono il vento cessare. A svegliarli era stata la fine del vento. Rimasero sdraiati in silenzio ad ascoltare l’improvvisa immobilità. Poi i galli cantarono, e il loro canto era ovattato, e i contadini si rivoltarono impazienti nel letto, smaniando che facesse giorno. Sapevano che ci voleva molto tempo prima che la polvere liberasse l’aria. Al mattino, la polvere fluttuava come nebbia, e il sole era rosso come sangue fresco. Per tutto il giorno il cielo riversò polvere, e ne riversò anche il giorno seguente. Una coltre uniforme ricoprì la terra. C’era polvere sul mais, polvere ammonticchiata sui pali delle staccionate, sul fildiferro delle recinzioni; c’era un manto di polvere sui tetti, un velo di polvere sulla gramigna e sugli alberi.
Gli uomini uscirono dalle case e fiutarono l’aria pungente e calda e si coprirono il viso per non respirarla. Poi dalle case uscirono i bambini, ma non cominciarono a correre e strillare come avrebbero fatto dopo un temporale. Gli uomini erano appoggiati alle staccionate e guardavano il mais rovinato, ormai quasi secco, con appena un po’ di verde che trapelava dalla pellicola di polvere. Gli uomini restavano in silenzio e si muovevano appena. Poi dalle case uscirono le donne e si misero accanto ai loro uomini – per capire se stavolta gli uomini sarebbero crollati. Le donne studiavano di nascosto la faccia degli uomini, perché il mais si poteva anche perdere, purché si salvasse qualcos’altro. I bambini indugiavano lì accanto, disegnando nella polvere con le dita dei piedi scalzi, e i bambini sondavano in silenzio gli uomini e le donne per capire se sarebbero crollati. I bambini sbirciavano la faccia degli uomini e delle donne, e tracciavano nella polvere linee meticolose con le dita dei piedi scalzi. I cavalli si accostavano all’abbeveratoio e sfioravano col muso l’acqua per liberarla dalla polvere. Dopo un po’, le facce attente degli uomini persero la loro stupefatta perplessità e si fecero dure e rabbiose e ostinate. Allora le donne capirono che erano saldi e che non sarebbero crollati. Allora chiesero: Che facciamo? E gli uomini risposero: Non lo so. Le donne capirono che andava tutto bene, e i bambini capirono che andava tutto bene. Le donne e i bambini sapevano dentro di sé che non esistevano disgrazie insormontabili se i loro uomini restavano saldi. Le donne rientrarono in casa per sbrigare le faccende, e i bambini si misero a giocare, dapprima con discrezione. Con il passare delle ore, il sole si fece meno rosso. Divampava sulla terra ricoperta di polvere. Gli uomini sedevano sulla soglia di casa; giocherellavano con pezzetti di legno o sassolini. Gli uomini sedevano immobili – pensando, interrogandosi.
Capitolo 2
Un grosso camion rosso era fermo davanti alla piccola bettola sullo stradone. Il tubo di scappamento verticale borbottava sommesso, spandendo dalla punta un velo quasi invisibile di fumo azzurrognolo. Era un camion nuovo, rosso fiammante, con sulle fiancate la scritta a caratteri cubitali: AGENZIA TRASPORTI OKLAHOMA CITY. I doppi pneumatici erano nuovi, e le maniglie dei due sportelli sul retro erano assicurate da un grosso lucchetto di ottone. Dentro la bettola una radio suonava un ballabile, a volume basso come si fa quando nessuno ascolta. Un piccolo ventilatore ruotava silenzioso nel suo vano circolare sopra l’ingresso, e qualche mosca ronzava eccitata intorno a porte e finestre, sbattendo contro le reti delle zanzariere. All’interno, un uomo, l’autista del camion, sedeva su uno sgabello poggiando i gomiti sul bancone e guardando da sopra la tazza la cameriera magra e solitaria. Stava intrattenendola con le chiacchiere pigre e piccanti dei locali di strada. “L’ho visto un tre mesi fa. S’era fatto operare. Togliere qualcosa. Non ricordo più che.” E lei: “Io mi sa che l’ho visto la settimana scorsa. Aveva l’aria a posto. È uno simpatico quando non è sbronzo”. Ogni tanto il ronzio delle mosche s’impennava contro la porta a rete. La macchina del caffè sfiatò vapore, e la cameriera, senza guardare, allungò una mano dietro di sé per spegnerla.
Fuori, un uomo che camminava lungo la nazionale l’attraversò e si avvicinò al camion. Avanzò lentamente fino al cofano, posò una mano sul parafanghi lucido e guardò l’adesivo NIENTE PASSAGGI sul parabrezza. Sembrò sul punto di riprendere a camminare, ma poi si sedette sul predellino dal lato opposto rispetto alla bettola. Non aveva più di trent’anni. Aveva occhi di un marrone molto scuro, e qualcosa di bruno anche nelle cornee. Aveva zigomi alti e larghi, e guance solcate da rughe profonde che gli incorniciavano la bocca. Aveva il labbro superiore lungo, e siccome i denti sporgevano, le labbra si stiravano per coprirli, perché quell’uomo teneva le labbra chiuse. Aveva le mani dure, con dita larghe e unghie spesse e scanalate come piccole valve di mollusco. Gli spazi tra pollice e indice, così come i palmi, erano lucidi per i calli.
Gli indumenti dell’uomo erano nuovi – tutti quanti: nuovi e dozzinali. Il berretto grigio era così nuovo da avere la visiera ancora rigida e con il bottone ancora a posto, anziché essere informe e gibboso come sarebbe stato se avesse svolto per qualche tempo le tipiche mansioni di un berretto: strofinaccio, sacchetto da trasporto, fazzoletto. Il vestito era di panno grigio da quattro soldi ed era così nuovo che i pantaloni avevano ancora la piega. La camicia di tela azzurra era rigida e lustra di appretto. La giacca era troppo larga, e i pantaloni troppo corti per l’alta statura dell’uomo. Le spalle della giacca gli spiovevano sulle braccia, e tuttavia le maniche erano troppo corte e i lembi della giacca gli ciondolavano sulla pancia. Portava scarpe gialle nuove, di tipo militare, chiodate e con lunette di ferro intorno ai tacchi per rinforzarli. Seduto sul predellino, l’uomo si tolse il berretto e se ne servì per asciugare il viso. Poi si rimise il berretto, e nel rincalzarlo sulla fronte diede il via all’imminente rovina della visiera. Le scarpe attirarono la sua attenzione. Si chinò, allentò i lacci e li lasciò sciolti. Sopra la sua testa lo scappamento del motore diesel borbottava spandendo rapidi sbuffi di fumo azzurrognolo.
Nella bettola la musica s’interruppe e lasciò il posto a una voce maschile, ma la cameriera non la zittì, perché non si era accorta che la musica si era interrotta. Le sue dita in perlustrazione avevano trovato un bitorzolo sotto l’orecchio. Stava cercando di vederselo nello specchio dietro il bancone senza farsi notare dal camionista, perciò finse di ravviarsi una ciocca di capelli. Il camionista disse: “C’è stata baldoria a Shawnee. Dice che hanno ammazzato uno o roba del genere. Hai sentito niente?”. “No,” disse la cameriera, e accarezzò con delicatezza il bitorzolo sotto l’orecchio.
Fuori, l’uomo seduto si alzò in piedi, guardò oltre il cofano del camion e osservò per qualche istante la bettola. Poi si sedette di nuovo sul predellino e cavò dalla tasca laterale della giacca un sacchetto di tabacco e una busta di cartine. Si preparò lentamente una sigaretta perfetta, la studiò, la lisciò. Infine la accese e lasciò cadere il fiammifero acceso nella polvere ai suoi piedi. Il sole intaccava l’ombra del camion approssimandosi al mezzogiorno.
Nella bettola, il camionista pagò il conto e infilò i due centesimi di resto in una slot-machine. I cilindri mulinarono senza produrre nessun punteggio. “Li truccano per non farti vincere,” disse alla cameriera.
E lei ribatté: “Manco due ore fa uno ha fatto il massimo. S’è beccato tre dollari e ottanta. Quando ripassi?”.
Il camionista socchiuse la porta. “Otto o dieci giorni,” disse. “Mi tocca andare a Tulsa, e non riesco mai a tornare presto come mi credevo.”
La cameriera disse, brusca: “Non far entrare le mosche. O esci o resti”.
“Ti saluto,” disse lui, e uscì, sbattendosi dietro le spalle la porta a rete. Si fermò sotto il sole per scartare una gomma da masticare. Era un uomo massiccio, largo di spalle, grosso di pancia. Aveva la faccia rossa e gli occhi blu, allungati e stretti per la continua esposizione alla luce diretta. Portava pantaloni militari e scarponcini allacciati. Avvicinando alla bocca la striscia di gomma, gridò attraverso la zanzariera: “Mi raccomando, fa’ la brava”. La cameriera era voltata verso lo specchio sulla parete opposta. Rispose con un grugnito. Il camionista prese a lavorare lentamente la striscia di gomma, spalancando labbra e mascelle a ogni dentata. Sagomava la gomma dentro la bocca, arrotolandola sotto la lingua mentre camminava verso il grosso camion rosso.
Il viandante si alzò e lo guardò attraverso i finestrini. “Mi dai un passaggio, amico?”
Il camionista si voltò e lanciò un’occhiata fulminea alla bettola. “Non l’hai visto l’adesivo Niente passaggi sul vetro?”
“Certo che l’ho visto. Ma ogni tanto c’è chi è una brava persona pure se un ricco bastardo gli fa attaccare un adesivo.”
Il camionista, salendo lentamente in cabina, considerò le implicazioni di quella risposta. Se adesso si rifiutava, non solo non era una brava persona, ma era pure costretto ad attaccare un adesivo e non era libero di far salire qualcuno. Se faceva salire il viandante, era automaticamente una brava persona e inoltre non era uno che accettasse ordini da nessun ricco bastardo. Capì che quel discorso era una fregatura, ma non riusciva a trovare una via d’uscita. E voleva essere una brava persona. Lanciò un’altra occhiata alla bettola. “Sta’ giù sul predellino finché arriviamo alla curva,” disse.
Il viandante sparì sotto il finestrino e si aggrappò alla maniglia. Il motore diede un ruggito, il cambio ingranò e il grande camion si mise in movimento, prima marcia, seconda marcia, terza marcia, poi un fragoroso stridio di ingranaggi e quarta marcia. L’asfalto della nazionale sfrecciava sotto l’uomo aggrappato. Passò un miglio prima che arrivasse la prima curva, e a quel punto il camion rallentò. Il viandante si alzò in piedi, aprì lo sportello e s’infilò nella cabina. L’autista lo guardò serrando le palpebre e continuò a masticare, come se pensieri e impressioni venissero vagliati e catalogati dalle sue mascelle prima di essere finalmente archiviati nel cervello. Il suo sguardo partì dal berretto nuovo, scese lungo l’abito nuovo fino alle scarpe nuove. Il viandante si addossò comodamente allo schienale, si tolse il berretto e se ne servì per asciugare il sudore sulla fronte e sul mento. “Grazie, amico,” disse. “Ho le fette in fiamme.”
“Scarpe nuove,” disse l’autista. La sua voce aveva la stessa sfumatura indagatrice e allusiva dello sguardo. “È uno sbaglio mettersi le scarpe nuove con questo caldo.”
Il viandante si guardò le scarpe gialle impolverate. “Non n’avevo altre,” disse. “Tocca metterti queste se non n’hai altre.”
L’autista guardò giudiziosamente davanti a sé e aumentò leggermente la velocità del camion. “Vai lontano?”
“No. Ci potevo andare a piedi se non mi scoppiavano le fette.”
Le domande dell’autista avevano un tono vagamente inquisitorio. “Cerchi lavoro?” chiese.
“No, il mio vecchio ha un pezzo di terra, quaranta acri. A mezzadria, ma ci stiamo da un pezzo.”
“Quaranta acri a mezzadria e non s’è pigliato la polvere? Non l’hanno sbattuto fuori per metterci i trattori?”
“È da un po’ che non ne so niente,” disse il viandante.
“Il tempo passa,” disse l’autista. Un’ape volò dentro la cabina e cominciò a ronzare contro il parabrezza. L’autista allungò la mano con cautela e spinse l’ape verso un flusso d’aria che la risucchiò fuori dal finestrino. “I mezzadri stanno sparendo,” disse. “Arriva un trattore e ti sbatte fuori dieci famiglie. I trattori stanno dappertutto ora. Arrivano e ti sbattono fuori i mezzadri. Come fa tuo padre a tener duro?” La lingua e le mascelle dell’autista ripresero a lavorare la gomma trascurata, voltandola e biascicandola. Ogni volta che apriva la bocca si vedeva la lingua che rivoltava la gomma.
“Be’, è da un po’ che non ne so niente. Non me la cavo bene a scrivere, e manco il mio vecchio.” Aggiunse in fretta: “Ma se vogliamo lo sappiamo fare”.
“Eri a lavorare da qualche parte?” Di nuovo la finta noncuranza inquisitoria. L’autista guardò verso i campi, nel luccichio dell’aria torrida, poi stivò la gomma contro la guancia perché non intralciasse, e sputò fuori dal finestrino.
“Sì,” disse il viandante.
“L’avevo capito. T’ho visto le mani. Hai lavorato con un piccone, un’ascia o una mazza. Fanno il callo lucido. Io queste cose le vedo subito. Non mi sbaglio mai.”
Il viandante lo squadrò. Gli pneumatici del camion cantavano sull’asfalto. “Vuoi sapere altro? Te lo dico io. Non serve che indovini.”
“Mica te la devi pigliare. Non stavo ficcando il naso.”
“Ti dico tutto io. Non ho niente da nascondere.”
“Mica te la devi pigliare. È solo che mi diverto a vedere le cose. Fa passare il tempo.”
“Ti dico tutto io. Mi chiamo Joad, Tom Joad. E il mio vecchio si chiama uguale, Tom Joad.” Fissò l’autista con aria di sfida.
“Non te la pigliare. Mica t’ho detto qualcosa.”
“Manco io t’ho detto qualcosa,” disse Joad. “Vedo solo di tirare dritto senza seccare nessuno.” Tacque e si voltò a guardare i campi riarsi nell’aria torrida, le chiome pendule degli alberi in lontananza. Cavò dalla tasca della giacca il tabacco e le cartine. Si preparò una sigaretta arrotolandola tra le ginocchia, dove l’aria che entrava dal finestrino non poteva raggiungerla.
L’autista masticava con un movimento ritmato e pensoso simile a quello di una mucca. Aspettò che la tensione degli ultimi scambi svanisse e si lasciasse dimenticare. Infine, quando gli parve che l’atmosfera fosse tornata neutra, disse: “Uno che non ha mai fatto il camionista non può capirlo. I proprietari non vogliono che facciamo salire gente. Perciò stiamo tutt’il tempo soli se non vogliamo rischiare il licenziamento com’ho fatto io con te.”
“Ti ringrazio,” disse Joad.
“Conosco gente che fa della roba pazzesca quando guida il camion. Ce n’era uno che faceva poesie. Gli passava il tempo.” Lanciò un’occhiata furtiva verso Joad per vedere se fosse interessato o stupito. Joad rimase in silenzio, guardando lontano davanti a sé, lungo la strada bianca che s’inarcava dolcemente, come una lunga onda di terra. Dopo qualche istante, l’autista riprese: “Mi ricordo un pezzo di poesia che aveva scritto. Parlava di lui e due amici suoi che giravano il mondo e se la spassavano a bere e a fare baldoria. Peccato che non mi ricordo come faceva. Ci aveva messo dentro delle parole che manco il Padreterno le poteva capire. Un pezzo faceva così: ‘C’era un negro in quel paese sempre allegro col suo arnese, e ce l’aveva bello grande come la proboscide di un elefante.’ La proboscide è una roba come il naso. Ma degli elefanti. Me l’ha fatto vedere sul vocabolario. Se lo portava dietro pure all’inferno il vocabolario. Appena si fermava a pigliarsi un caffè si metteva lì e leggeva”. L’uomo s’interruppe, sentendosi solo in quella lunga tirata. Lanciò di nuovo un’occhiata furtiva al passeggero. Joad rimase in silenzio. L’autista tentò nervosamente di costringerlo a partecipare. “Hai mai conosciuto qualcuno che diceva i paroloni?”
“Un pastore,” disse Joad.
“Be’, a me mi manda in bestia quando usano i paroloni. I pastori no perché non è che ti metti a discutere con un pastore. Ma quel tizio era uno spasso. Non te ne fregava niente se diceva i paroloni, perché li diceva tanto per dire. Non è che si dava importanza.” L’autista si era rincuorato. Se non altro sapeva che Joad lo stava ascoltando. Prese una curva molto stretta e gli pneumatici stridettero. “Come ti dicevo,” continuò, “uno che guida il camion fa della roba pazzesca. Sfido. Diventi pazzo a startene seduto qui colla strada che ti passa sotto le ruote. Una volta uno ha detto che i camionisti stanno tutt’il tempo a mangiare, tutt’il tempo nelle bettole sulla strada.”
“Be’, pare che ci passano la vita,” convenne Joad.
“Che si fermano nelle bettole è vero, ma non è per mangiare. Fame non ce n’hanno quasi mai. È che sono stufi di guidare, non ne possono più. Le bettole sono l’unico posto dove ti puoi fermare, e quando ti fermi devi ordinare qualcosa per fare quattro chiacchiere colla tipa dietro il bancone. Perciò ordini una tazza di caffè e una fetta di torta. Ti serve per riposarti un momento.” Masticò lentamente la sua gomma e la rivoltò con la lingua.
“Dev’essere dura,” disse Joad in tono neutro.
L’autista gli scoccò un’occhiata, per capire se lo stesse sfottendo. “Be’, non è una maledetta passeggiata,” disse con foga. “Sembra facile startene seduto qui per otto o magari dieci o quattordici ore. Ma la strada è roba che pesa. Qualcosa devi farla. Qualcuno canta, qualcuno fischia. La ditta non ci lascia mettere la radio. Ci sono pure quelli che si portano la fiaschetta, ma non durano a lungo.” Lo disse con un certo compiacimento. “Io non bevo mai finché non finisco la corsa.”
“Davvero?”
“Certo! Uno deve andare avanti. Io mi voglio iscrivere a uno di quei corsi per corrispondenza. Ingegneria meccanica. È facile. Basta che studi le lezioni che ti mandano a casa. Voglio proprio farlo. Così smetto di guidare il camion. Così dico a qualcun altro di guidarlo per me.”
Joad cavò una fiaschetta di whisky dalla tasca laterale. “Sicuro che non vuoi un sorso?” La sua voce era invitante.
“No, perdio. Manco per sogno. Non puoi darci dentro con l’alcol e studiare come voglio fare io.”
Joad stappò la fiaschetta, bevve due sorsi veloci, la ritappò e la mise in tasca. L’odore intenso del whisky riempì la cabina. “Sei molto deciso,” disse Joad. “Com’è… hai una ragazza?”
“Be’, certo. Ma mica voglio andare avanti solo per lei. Io è da un pezzo che m’alleno il cervello.”
Joad sembrò rilassarsi un po’ per effetto del whisky. Si preparò un’altra sigaretta e l’accese. “Io non ho nessun cavolo di avanti dove andare.”
L’autista riattaccò rapidamente: “A me non mi serve l’alcol,” disse. “Io il cervello me l’alleno tutt’il tempo. Due anni fa ho fatto un corso apposta.” Tamburellò sul volante con la mano destra. “Metti che passo un tizio per strada. Prima lo guardo bene, e poi dopo che l’ho passato cerco di ricordarmelo tutto quanto, i vestiti, le scarpe, il cappello, e come camminava, e magari pure l’altezza, il peso e se aveva cicatrici. Me la cavo proprio bene. Riesco a rifarmelo tutto preciso nella testa. Certe volte penso che dovrei fare un corso per esperto d’impronte digitali. Tu manco te l’immagini quanta roba riesce a ricordare uno.”
Joad bevve un rapido sorso dalla fiaschetta. Aspirò l’ultima boccata dalla sigaretta sgualcita, poi, con i polpastrelli callosi di pollice e indice, schiacciò la brace sulla punta. Appallottolò il mozzicone e lo tese fuori dal finestrino, lasciando che la corrente glielo strappasse dalle dita. I grossi pneumatici cantarono una nota alta sull’asfalto. Gli occhi scuri e pacati di Joad cominciarono a luccicare divertiti mentre fissava la strada davanti a sé. L’autista aspettò, sbirciandolo a disagio. Finalmente, il lungo labbro superiore del ragazzo si rialzò scoprendo i denti in un sogghigno, e Joad prese a ridacchiare in silenzio, con il petto che sobbalzava per il gran ridacchiare. “Ce n’hai messo di tempo per arrivarci, amico.”
L’autista non si voltò a guardarlo. “Arrivarci a che? Che vuoi dire?”
Per qualche istante le labbra di Joad si tesero sulla dentatura sporgente, e Joad se le leccò come un cane, due lunghe leccate di labbra, una per ogni verso partendo dal centro. “Lo sai benissimo che voglio dire. M’hai fatto l’ispezione appena sono salito. T’ho visto.” L’autista continuò a guardare dritto, stringendo il volante così forte da far gonfiare l’esterno dei palmi e impallidire il dorso delle mani. Joad proseguì: “Hai capito da dove arrivo.” L’autista non disse niente. “Non è così?” insistette Joad.
“Be’… sì. Cioè… forse. Ma non m’interessa. Io mi faccio gli affari miei. Non ci voglio entrare.” Adesso le parole si affastellavano. “Io non lo ficco il naso negli affari degli altri.” E di colpo tacque e aspettò. Con le mani ancora bianche sul volante. Una cavalletta s’infilò dal finestrino e atterrò sul cruscotto, e lì cominciò a sfregarsi le ali con le lunghe zampette a molla. Joad la afferrò e ne schiacciò tra le dita la testa scheletrica, poi aprì la mano e lasciò che l’aria la risucchiasse fuori dal finestrino. Mentre si ripuliva le dita dai frammenti di insetto spiaccicato, Joad ricominciò a ridacchiare. “Hai capito male, amico,” disse. “Io non voglio nascondere niente. Sì, vengo da McAlester. Ho fatto quattro anni. Sì, questi sono i vestiti che m’hanno dato quando sono uscito. Non me ne frega niente se si vede. E me ne torno dal mio vecchio così non mi tocca raccontare balle per trovarmi un lavoro.”
L’autista disse: “Be’… non sono affari miei. Non sono un ficcanaso.”
“Accidenti se lo sei,” disse Joad. “Quel nasone ti sbuca otto miglia davanti alla faccia. È da quando sono salito che me lo passi addosso come una pecora in un prato.”
La faccia dell’autista si contrasse. “Ti stai sbagliando…” cominciò debolmente.
Joad scoppiò a ridere. “Sei stato gentile. M’hai dato un passaggio. Be’, accidenti! Sono stato al fresco. E con ciò? Vuoi sapere perché sono stato al fresco, eh?”
“Non sono affari miei.”
“Niente sono affari tuoi, a parte guidare questa bestia di camion, e è l’unica cosa che non ti va di fare. Ora ascolta. La vedi quella strada laggiù?”
“Sì.”
“Ecco, io scendo lì. Ma lo so che crepi dalla voglia di sapere che ho fatto. Tranquillo, non ti pianto in asso.” Il rombo del motore si affievolì e il canto degli pneumatici sull’asfalto scese di tono. Joad prese di nuovo la fiaschetta e bevve un sorso veloce. Il camion rallentò fino a fermarsi davanti a una strada sterrata che incrociava la nazionale. Joad scese e si appoggiò al finestrino. Il tubo di scappamento verticale sputacchiava il suo fumo azzurrognolo quasi invisibile. Joad si allungò verso l’autista. “Omicidio,” disse rapidamente. “È un parolone… vuol dire che ho ammazzato uno. Sette anni. Sono uscito con quattro perché ho fatto il bravo.”
Lo sguardo dell’autista scivolò sulla faccia di Joad per memorizzarla. “Mica te l’avevo chiesto,” disse. “Io mi faccio gli affari miei.”
“Puoi raccontarlo in tutte le bettole da qui a Texola.” Sorrise. “Ti saluto, amico. Sei stato gentile. Ma attento, quando uno sta al fresco per un po’, la puzza di ficcanaso la sente subito. E tu l’hai fatta appena hai aperto bocca.” Colpì lo sportello con il palmo della mano. “Grazie del passaggio,” disse. “Ti saluto.” Si voltò e si avviò sulla strada sterrata.
L’autista lo guardò in silenzio per qualche istante, poi gli gridò: “Buona fortuna!”. Joad lo salutò agitando la mano senza voltarsi. Poi il motore ruggì e il cambio ingranò e il grande camion rosso riprese pesantemente il suo viaggio.
Capitolo 3
Lungo l’asfalto della nazionale cresceva un viluppo d’erba secca, arruffata, spezzata, e dalla punta degli steli pendevano barbe d’avena perfette per impigliarsi nel pelo dei cani, e code di volpe per aderire ai garretti dei cavalli, e semi di trifoglio per attaccarsi alla lana delle pecore; natura dormiente che aspettava d’essere dispersa e diffusa, ogni seme dotato di un proprio strumento di dispersione, dardi ritorti e paracadute per il vento, piccoli arpioni e pallottole di minuscole spine, tutti in attesa di bestie e di vento, di risvolti di pantaloni e orli di gonne, tutti passivi ma equipaggiati per l’attività, immobili ma dotati dell’embrione del movimento.
Il sole spioveva sull’erba e la scaldava, e nell’ombra sotto gli steli si muovevano gli insetti, le formiche e i formicaleoni che le aspettavano al varco, le cavallette che balzavano a mezz’aria sbattendo per pochi istanti le ali gialle, gli onischi simili a piccoli armadilli, irrequieti nell’avanzare sulle zampette numerose e fragili. E sull’erba accanto alla strada arrancava una tartaruga, voltandosi senza motivo, trascinando sull’erba l’alta cupola della sua corazza. Procedeva lentamente sulle zampe coriacee artigliando il suolo con le unghie giallastre, e più che avanzare si spingeva faticosamente avanti, trascinandosi sotto il peso della corazza. Le barbe d’orzo le scivolavano sul dorso e i semi di trifoglio le piovevano addosso per poi rimbalzare al suolo. Il suo becco corneo era socchiuso, e gli occhi, crudeli e beffardi all’ombra di sopracciglia simili a unghie, guardavano dritto davanti a sé. La tartaruga avanzava lasciandosi dietro una striscia d’erba spianata, e a un tratto si trovò di fronte il terrapieno che fungeva da alzaia della strada. Si fermò un istante, sollevando la testa. Sbatté gli occhi, scrutò l’ostacolo dall’alto in basso. Infine cominciò a scalare l’alzaia. Le zampe anteriori brancolarono senza trovare appoggio. Le zampe posteriori scalciarono spingendo avanti la corazza, facendola strusciare sull’erba, poi sulla ghiaia. Più l’alzaia si faceva ripida, più gli sforzi della tartaruga diventavano frenetici. Le zampe posteriori spingevano, si tendevano e slittavano issando la corazza, e la testa cornea si protendeva per tutta la lunghezza del collo. Pian piano la tartaruga s’inerpicò sull’alzaia finché non ebbe il cammino sbarrato dalla spalletta della strada, un muricciolo di cemento alto dieci centimetri. Come se agissero autonomamente, le zampe posteriori spinsero la corazza contro l’ostacolo. La testa si drizzò e sbirciò oltre il muricciolo, verso l’ampia e uniforme distesa d’asfalto. Le zampe anteriori, con le unghie che artigliavano l’orlo del muricciolo, si tesero e spinsero, e la corazza avanzò lentamente fino a poggiare la parte anteriore sul muro. Per un istante la tartaruga rimase immobile. Una formica rossa s’infilò sotto la corazza, tra le pieghe della pelle tenera, e all’improvviso testa e zampe si ritrassero, e la coda squamosa si rintanò di sbieco sotto il guscio. La formica rossa finì schiacciata tra il corpo e le zampe, mentre una testa d’avena selvatica finiva incastrata sotto la corazza per lo scatto convulso di una zampa anteriore. La tartaruga rimase immobile per un lungo istante, poi il collo tornò a sporgere, i torvi occhi rugosi sbirciarono intorno, e le zampe e la coda tornarono ad affacciarsi. Le zampe posteriori si rimisero all’opera strusciando come zampe di elefante, e la corazza s’inclinò su un lato, facendo perdere alle zampe anteriori il contatto con la superficie piana della spalletta. Ma le zampe posteriori spinsero in alto, e più in alto ancora, fino a raggiungere il punto di equilibrio, con la parte avanzata della corazza che si abbassava, le zampe anteriori che si posavano sull’asfalto, e la tartaruga di nuovo in piano. Ma la testa d’avena rimase impigliata per il gambo alle zampe anteriori.
Adesso il cammino era agevole, e tutt’e quattro le zampe si misero all’opera, e il guscio cominciò ad avanzare di buona lena, oscillando di qua e di là. Sopraggiungeva una macchina guidata da una donna sulla quarantina. La donna vide la tartaruga e sterzò sulla destra, uscendo di strada, facendo stridere le ruote, sollevando una nube di polvere. Due ruote rimasero per qualche istante a mezz’aria, poi ricaddero. Con una slittata rabbiosa la macchina si rimise in carreggiata e riprese la marcia, adesso con maggior prudenza. La tartaruga si era rintanata dentro la corazza, ma ora si affrettava, perché l’asfalto era rovente.
Sopraggiungeva un camioncino, e l’autista, appena vide la tartaruga, sterzò per investirla. La ruota anteriore urtò il bordo della corazza e fece schizzare la tartaruga come un dischetto da pulci, la fece prillare come una monetina, la sbatté oltre il ciglio della strada. Il camion riprese la rotta tornando sul lato destro della carreggiata. Riversa sul dorso, la tartaruga rimase a lungo tappata nella corazza. Poi le zampe si agitarono nell’aria, cercando un appiglio per raddrizzarsi. Una zampa anteriore trovò un pezzo di masso, e a poco a poco la corazza si sollevò, ruotò su un fianco e si ribaltò. La testa d’avena si liberò e tre semi a punta di lancia si piantarono nel suolo. E mentre la tartaruga arrancava giù dall’alzaia, lo strofinio della corazza ricoprì di terra i tre semi. I beffardi occhi rugosi guardarono avanti, e il becco corneo si aprì leggermente. Gli artigli gialli slittarono appena nella polvere.
Capitolo 4
Quando Joad udì il camion allontanarsi, con gli scatti progressivi delle marce e il suolo che tremava percosso dal rullo degli pneumatici, si fermò, si girò e lo guardò scomparire lungo la strada. Quando non lo vide più, rimase ancora a guardare l’orizzonte e la vibrazione azzurrognola dell’aria. Assorto, cavò di tasca la fiaschetta, svitò il tappo di metallo e sorseggiò il whisky delicatamente, facendo scorrere la lingua nel collo della bottiglia, e poi intorno alle labbra, per assaporare fino all’ultimo l’aroma. Azzardò un verso: “C’era un negro in quel paese…”, ma non riuscì a ricordarsi il seguito. Allora si voltò e guardò la stradina sterrata che s’inoltrava ad angolo retto nei campi. Il sole era rovente, e non c’era alito di vento che smuovesse la polvere impalpabile. La stradina era incisa da solchi in cui la polvere era scivolata per poi tornare ad assestarsi nelle tracce lasciate dai carri. Joad fece qualche passo suscitando una nuvola di polvere farinosa, che avvolgeva le sue scarpe nuove ricoprendo di grigio il loro giallo.
Si chinò per sciogliere i lacci delle scarpe, poi le sfilò una alla volta. E s’incamminò affondando con gusto i piedi sudati nella calda polvere asciutta, facendola zampillare tra le dita e sentendo la pelle tendersi via via che si asciugava. Si sfilò la giacca, vi avvolse le scarpe e ne fece un fagotto che si mise sotto il braccio. Infine si avviò sulla stradina, schizzando polvere davanti a sé, lasciando dietro di sé una nube rasente il suolo.
Il lato destro della strada era recintato, due ranghi di filo spinato fissati a paletti in legno di salice. I paletti erano storti e sfrondati in maniera grossolana. Il filo spinato poggiava sulle inforcature quando capitavano all’altezza giusta, altrimenti era legato al paletto con il fildiferro arrugginito dei covoni. Dall’altro lato della recinzione si stendeva il mais prostrato dal vento, dal caldo e dalla siccità, e le anse tra le foglie e i gambi erano piene di polvere.
Joad avanzava a fatica, trascinandosi dietro la sua nuvola di polvere. Scorse a pochi metri da sé la corazza bombata di una tartaruga che arrancava nella polvere, muovendo a scatti le zampe rigide. Si fermò a guardarla, e la sua ombra cadde sulla tartaruga. La testa e le zampe si ritrassero all’istante, e la piccola coda tozza sparì di sbieco sotto il guscio. Joad raccolse la tartaruga e la ribaltò. Il dorso era grigio scuro, come la polvere, ma la parte ventrale della corazza era di un giallo cremoso, immacolata e liscia. Joad spinse l’involto un po’ più verso l’ascella e accarezzò con l’indice la parte liscia, premendo leggermente. Era più morbida del dorso. La vecchia testa coriacea si affacciò cercando di guardare il dito che premeva, e le zampe si agitarono all’impazzata. La tartaruga pisciò sulla mano di Joad e si dimenò inutilmente nell’aria. Joad la rimise dritta e la avvolse nella giacca insieme alle scarpe. La sentiva spingere e dimenarsi e scuotersi sotto il braccio. Si avviò a passo più svelto di prima, strascicando un po’ i talloni nella polvere fina.
Davanti a lui, lungo la stradina, un salice rachitico e polveroso proiettava un’ombra sbrindellata. Joad lo vedeva laggiù, con i miseri rami incurvati sul sentiero e la chioma di foglie lacere e smilze, simile a un pollo durante la muta. Joad adesso sudava. La sua camicia azzurra si era scurita sul dorso e sotto le ascelle. Diede uno strattone alla visiera del berretto, con tanta veemenza da rompere l’anima di cartone, facendogli perdere una volta per tutte l’aspetto fiammante. E il suo passo si fece più rapido e risoluto verso l’ombra distante del salice. Sapeva che accanto al salice doveva esserci ombra, quantomeno una striscia d’ombra compatta proiettata dal tronco, poiché il sole aveva superato lo zenit. Il sole gli sferzava la nuca e gli faceva ronzare le orecchie. Non riusciva a vedere il piede dell’albero, perché era cresciuto in una piccola conca dove l’acqua indugiava più a lungo rispetto alle zone in piano. Joad accelerò la sua corsa contro il sole, e scese lungo il pendio. Rallentò prudentemente, vedendo che la striscia d’ombra compatta era occupata. Un uomo sedeva per terra, addossato al tronco dell’albero. Aveva le gambe accavallate e un piede nudo sollevato quasi all’altezza della testa. L’uomo non aveva udito l’avvicinarsi di Joad perché stava fischiando solennemente il motivo di Yes Sir, That’s My Baby.1 Il piede sospeso andava su e giù seguendo il ritmo. Non era il ritmo di un ballabile. L’uomo smise di fischiare e prese a cantare con tenue voce tenorile:
Yes sir, that’s my Saviour,
Je-sus is my Saviour,
Je-sus is my Saviour now.
On the level
’S not the devil,
Jesus is my Saviour now.2
Joad aveva ormai raggiunto l’ombra imperfetta del fogliame in muta quando l’uomo si accorse della sua presenza, smise di cantare e voltò la testa. Era una testa lunga, ossuta, con la pelle tesa, e piazzata su un collo snello e nerboruto come un gambo di sedano. Aveva occhi grossi e sporgenti, che le palpebre carnose e rosse sembravano coprire a stento. Le guance erano scure e lustre e glabre, e la bocca era turgida – beffarda o sensuale. La pelle del naso, adunco e duro, era così tesa da sbiancarsi sul dorso. Non c’era traccia di sudore sul suo viso, nemmeno sull’ampia fronte pallida. Era una fronte straordinariamente alta, striata di delicate vene bluastre sulle tempie. Una buona metà del suo viso si trovava al di sopra degli occhi. I capelli grigi e ispidi erano gettati all’indietro come se li avesse appena ravviati con le dita. Indossava una tuta e una camicia blu. Per terra accanto a lui c’erano una giacca di panno con i bottoni metallici e un bisunto cappello marrone tutto sgualcito. Due ciabatte di tela, grigie di polvere, giacevano più in là, dov’erano cadute quando le aveva scalciate via dai piedi.
L’uomo guardò a lungo Joad. La luce sembrava penetrare a fondo nei suoi occhi marroni, cospargendo di pagliuzze dorate le iridi. Il fascio teso dei muscoli pulsava sul collo.
Joad indugiò immobile nell’ombra sbrindellata. Si tolse il berretto, se ne servì per asciugarsi il viso, poi lo lasciò cadere a terra insieme alla giacca avvoltolata.
L’uomo al riparo dell’ombra compatta scavallò le gambe e raspò il terreno con le dita dei piedi.
Joad disse: “Salve. Fa un caldo d’inferno sulla strada”.
L’uomo seduto lo guardò incuriosito. “Ma tu non sei Tom Joad… il figlio del vecchio Tom?”
“Sì,” disse Joad. “In persona. Sto tornando a casa.”
“Mi sa che non ti ricordi di me,” disse l’uomo. Sorrise e le sue labbra carnose scoprirono due file di grossi denti da cavallo. “Non ti puoi ricordare. Quando vi davo lo Spirito Santo tu pensavi solo a tirare le trecce delle bambine. T’attaccavi a quella treccia come se volevi strapparla. Capace che te lo sei scordato, ma io no. A Gesù ci siete arrivati tutt’e due insieme per quel tiraemmolla della treccia. V’ho battezzati tutt’e due insieme nel canale d’irrigazione. Scalciavate e strillavate che manco una coppia di gatti.”
Joad lo guardò abbassando gli occhi, poi scoppiò a ridere. “Certo, il predicatore. Tu sei il predicatore. Ho parlato di te a un tizio manco un’ora fa.”
“Ero un predicatore,” disse gravemente l’uomo. “Ero il reverendo Jim Casy, del Roveto Ardente. Gridavo il nome di Gesù e la sua gloria. E in quel canale ci ficcavo tanti di quei peccatori pentiti che metà rischiavano d’annegare. Ma ora non più.” Sospirò. “Ora sono solo Jim Casy. M’è finita la vocazione. Mi vengono un sacco d’idee da peccatore… ma mi sa che non sono sbagliate.”
Joad disse: “Se uno sta lì a pensare alle cose è normale che gli vengono le idee. Certo che mi ricordo di te. I riti quando c’eri tu erano uno spasso. Mi ricordo che una volta il sermone l’hai fatto tutto a testa in giù, andavi avanti e indietro sulle mani e sbraitavi come un pazzo. Ma’ diceva ch’eri meglio di tutti gli altri. E Nonna diceva che colavi spirito da tutt’i pori.” Joad frugò nell’involto, trovò la tasca della giacca e ne cavò la fiaschetta. La tartaruga mosse una zampa, ma Joad la avvolse più stretta. Svitò il tappo e tese la fiaschetta a Casy. “Vuoi un goccio?”
Casy prese la fiaschetta e la guardò crucciato. “Ora non predico più. Lo spirito la gente non ce l’ha più; e la cosa più brutta è che manco io ce l’ho più. Magari ogni tanto lo spirito si smuove e allora un rito riesco a combinarlo, o quando mi danno da mangiare gli dico pure una preghiera, ma il cuore non ce lo metto. Lo faccio solo perché se l’aspettano.”
Joad si asciugò di nuovo il viso col berretto. “Non sei troppo dannatamente santo per bere un goccio, no?”
Casy sembrò vedere la fiaschetta per la prima volta. La inclinò e bevve tre lunghe sorsate. “Proprio buono,” disse.
“Sfido,” disse Joad. “È roba industriale. Costa un dollaro.”
Casy bevve un altro sorso prima di restituire la fiaschetta. “Sissignore!” disse. “Sissignore!”
Joad prese la fiaschetta, e per delicatezza evitò di pulire il collo con la manica prima di bere. Si accoccolò sui talloni e posò la fiaschetta contro l’involto. Le sue dita trovarono un legnetto con cui disegnare i propri pensieri sul terreno. Spazzò via le foglie da un riquadro e spianò la polvere. E cominciò a disegnare angoli e a fare piccoli cerchi. “Non t’ho visto per un sacco di tempo,” disse.
“Non m’ha visto nessuno,” disse il predicatore. “Me ne sono andato da solo e ho cercato di capire. Lo spirito me lo sento ancora forte dentro, ma non è più uguale a prima. Non sono più sicuro di un sacco di roba.” Si sedette più dritto contro l’albero. La sua mano ossuta si fece strada come uno scoiattolo nella tasca della tuta, e ne trasse una cicca di tabacco nera e già sbocconcellata. La ripulì con cura dai fili di paglia e dalla lanugine grigia della tasca, ne staccò coi denti uno spigolo e se lo spinse contro l’interno della guancia. Joad gli fece segno di no con il legnetto quando lui gli porse la cicca. La tartaruga si agitò nella giacca avvoltolata. Casy si voltò verso l’indumento animato. “Che hai lì dentro… un pollo? Capace che lo soffochi.”
Joad diede una stretta all’involto. “È una vecchia tartaruga,” disse. “L’ho tirata su per la strada. Un vecchio carromatto. Gliela voglio portare al mio fratellino. Ai bambini gli piacciono un sacco le tartarughe.”
Il predicatore annuì lentamente. “Prima o poi tutti i bambini hanno una tartaruga. Ma nessuno riesce a tenersi una tartaruga. Quelle ci provano e ci riprovano, poi un bel giorno pigliano e se la squagliano… per andare chissà dove. Com’ho fatto io. Non mi bastava più il buon vecchio vangelo che avevo a portata di mano. Tanto mi sono messo a stuzzicarlo e a sforzarlo che alla fine l’ho fatto a pezzi. Ora a volte lo spirito ce l’ho ma non ho niente da predicare. Ho la vocazione di portare la gente ma non ho un posto dove portarla.”
“E tu portala un po’ in giro,” disse Joad. “Falli buttare nel canale. Digli che bruceranno all’inferno se non la pensano come te. A che ti serve di portarli da qualche parte? Tu portali e basta.” L’ombra dritta del tronco si era allungata sul terreno. Joad vi si addentrò con piacere, si accoccolò sui talloni e spianò un altro riquadro in cui disegnare con il legnetto i propri pensieri. Un cane pastore dal folto pelo giallastro veniva trotterellando lungo il sentiero, a testa bassa, con la lingua di fuori e madida di bava. Aveva la coda ciondoloni e leggermente incurvata, e ansimava sonoramente. Joad gli fece un fischio, ma il cane si limitò ad abbassare di più la testa e accelerò il passo verso una sua meta ben precisa. “Va da qualche parte,” spiegò Joad, un po’ deluso. “Forse a casa.”
Il predicatore non si lasciava sviare dal suo ragionamento. “Va da qualche parte,” ripeté. “Proprio così, va da qualche parte. Io invece… non lo so dove vado. Ascolta, io a quella gente la facevo ballare e smaniare e cantare la gloria del Signore finché cadevano a terra svenuti. E alcuni li battezzavo per fargli tornare i sensi. E poi… lo sai che facevo? Mi portavo nei boschi una di quelle ragazze e me la facevo. Ogni volta. Poi mi sentivo male, e pregavo e pregavo, ma non serviva a niente. La volta dopo, appena loro e io eravamo pieni di spirito, lo rifacevo. Ho capito che non c’era speranza e ch’ero un maledetto ipocrita. Pure se non lo facevo apposta.”
Joad sorrise, scostò i lunghi denti e si leccò le labbra. “Non c’è niente di meglio dei riti per imbarcarsele,” disse. “L’ho fatto pure io.”
Casy si sporse, eccitato. “Vedi?” gridò. “Ho capito ch’era così e mi sono messo a pensarci.” Scandiva le parole battendo l’aria con la grossa mano nodosa. “Mi sono messo a pensare così: ‘Qui ci sono io che predico la grazia. E lì c’è quella gente che la grazia gli arriva così forte che si mettono a strillare e a saltare. Dice che quando uno si fa una ragazza è opera del diavolo. Ma più una ragazza è piena di grazia, e più ha fretta di andare nei boschi.’ E allora mi sono detto: ‘Ma porco…’ scusa… ‘ma come accidenti fa il diavolo a entrare quando una ragazza è così piena di Spirito Santo che gli esce dal naso e dalle orecchie? Uno pensa che quello è proprio l’unico momento che il diavolo non ha nessuna possibilità!’ E invece è proprio così che va.” I suoi occhi brillavano di eccitazione. Si risucchiò le guance per qualche istante, poi sputò nella polvere, e il bolo di saliva ruzzolò più volte, raccogliendo polvere fino ad assumere l’aspetto di una palletta di materia solida e asciutta. Il predicatore tese una mano e si guardò il palmo come se leggesse un libro. “E lì c’ero io,” riprese sottovoce. “C’ero io con l’anima di tutta quella gente nella mia mano – responsabile e cosciente della mia responsabilità – e ogni volta m’andavo a fare una ragazza.” Affranto, alzò lo sguardo su Joad. L’espressione del suo viso chiedeva aiuto.
Joad disegnò con cura un torso di donna nella polvere: seni, fianchi, bacino. “Io non sono mai stato predicatore,” disse. “Non n’ho mai lasciata passare una quando potevo pigliarmela. E non m’è mai venuto in testa niente di speciale, solo ch’ero maledettamente contento quando me ne pigliavo una.”
“Ma tu non eri un predicatore,” insistette Casy. “Per te una ragazza era solo una ragazza. Per te non significavano niente. Invece per me erano vasi sacri. Io ero lì per salvargli l’anima. E con tutta la responsabilità che avevo, le riempivo di Spirito Santo fino a farglielo uscire dagli occhi e poi me le portavo nei boschi.”
“Forse era meglio se facevo il predicatore,” disse Joad. Tirò fuori tabacco e cartine e si preparò una sigaretta. La accese e sbirciò il predicatore attraverso il fumo. “È da un pezzo che non tocco una ragazza,” disse. “Mi sa che devo rifarmi.”
Casy continuò: “Mi tormentava così tanto che non riuscivo manco più a dormire. Andavo a predicare e mi dicevo: ‘Perdio, stavolta non lo faccio.’ E mentre lo dicevo sapevo che l’avrei fatto.”
“Era meglio se ti sposavi,” disse Joad. “Una volta abbiamo alloggiato in casa un predicatore e sua moglie. Erano della setta di Geova. Dormivano al piano di sopra. I riti li facevano nell’aia. Noi bambini stavamo a sentire. Ogni sera dopo il rito la moglie del predicatore si pigliava una bella ripassata.”
“Hai fatto bene a dirmelo,” disse Casy. “Mi credevo ch’ero solo io. A un certo punto mi faceva soffrire così tanto che ho mollato tutto e me ne sono andato per conto mio a pensarci bene fino in fondo.” Raccolse le gambe e si diede una grattata tra le dita impolverate dei piedi. “Mi sono detto: ‘Cos’è che ti tormenta? Le scopate?’. E mi sono detto: ‘No, il peccato.’ Allora mi sono detto: ‘Com’è che quando uno dovrebbe essere chiuso come un culo d’asino di fronte al peccato, e pieno di Cristo fino ai capelli, com’è che proprio in quel momento gli viene di sbottonarsi la patta?’.” Parlava battendo ritmicamente due dita sul palmo della mano, come per poggiarvi le parole una accanto all’altra. “Mi sono detto: ‘Forse non è peccato. Forse è solo com’è fatta la gente. Forse ci siamo presi tanto a frustate senza nessun motivo’. E m’è venuto di pensare a quelle suore che si frustavano colle corde piombate. E ho pensato che magari a loro gli piaceva farsi male, e che a me mi piaceva farmi male. Be’, quando m’è venuta questa pensata ero seduto sotto un albero, e mi sono addormentato. Poi s’è fatta notte, e quando mi sono svegliato era buio. C’era un coyote che ululava lì vicino. Senza manco accorgermene mi sono messo a gridare: ‘Al diavolo tutto quanto! Non c’è nessun peccato e nessuna virtù. C’è solo quello che la gente fa. È tutto parte della stessa cosa. E certe cose che la gente fa sono belle, e invece altre non sono belle, ma questo è il massimo che qualsiasi uomo ha il diritto di dire’.” Tacque e alzò lo sguardo dal palmo della mano, dove aveva poggiato le parole.
Joad lo guardava sorridendo, ma i suoi occhi erano attenti e interessati. “L’hai pensata proprio bene,” disse. “Mette a posto tutto quanto.”
Casy riprese a parlare, e la sua voce vibrava di dolore e sconcerto. “Mi sono detto: ‘Cos’è questa vocazione, questo spirito?’. E mi sono detto: ‘È l’amore. Io la gente l’amo così tanto che a volte sto per scoppiare’. Allora mi sono detto: ‘E Gesù non lo ami?’. Be’, ci ho pensato e ripensato, e alla fine mi sono detto: ‘No, non conosco nessuno che si chiama Gesù. Conosco un sacco di storie, ma amo solo quelli in carne e ossa. E certe volte li amo così tanto che sto per scoppiare, e voglio farli contenti, perciò mi sono messo a predicare qualcosa che per me poteva farli contenti’. E a quel punto… Parlo un sacco, eh? Magari ti pare strano che uso cattive parole. Be’, per me non sono più cattive. Sono le parole che usa la gente, e non dicono niente di cattivo. Ma voglio dirti un’altra cosa che ho pensato; e per un predicatore è la cosa più empia che c’è, e io non posso mai più essere un predicatore, perché l’ho pensata e ci credo.”
“Che roba è?” chiese Joad.
Casy lo guardò timidamente. “Ma se non ti piace non te la pigli, va bene?”
“Io me la piglio solo per i cazzotti sul naso,” disse Joad. “Cos’è che hai pensato?”
“Ho pensato allo Spirito Santo e al cammino di Gesù. Ho pensato: ‘Perché dobbiamo metterlo con Dio o con Gesù? Magari,’ ho pensato, ‘magari sono tutti gli uomini e tutte le donne che amiamo: magari è questo lo Spirito Santo… lo spirito umano… tutta la baracca. Magari tutti gli uomini messi insieme fanno una grande anima e ognuno di loro è un pezzettino’. E allora me ne stavo lì a pensarci, e all’improvviso… ho capito. L’ho capito proprio dentro di me, e da quel momento sono sicuro ch’è vero.”
Joad abbassò lo sguardo, come se non riuscisse a sostenere la schietta onestà negli occhi del predicatore. “Tu non te la puoi fare una chiesa con idee come queste,” disse. “La gente ti caccia via a pedate con idee come queste. Strillare e saltare. Questo vuole la gente. Li mette in salute. Quando Nonna nei riti cominciava a smaniare, non la potevi tenere. Capace che ti buttava giù con un pugno.”
Casy lo guardò, turbato. “Voglio chiederti una cosa,” disse. “Una cosa che mi tormenta.”
“Su, chiedi. Io certe volte parlo.”
“Be’…” cominciò lentamente il predicatore… “io a te t’ho battezzato quand’ero nella grazia del Signore. Quel giorno lì m’uscivano dalla bocca pezzettini di Cristo. Tu non te lo puoi ricordare perché pensavi solo a tirare quella treccia.”
“Me lo ricordo,” disse Joad. “Era Suzy Little. L’anno dopo m’ha spaccato un dito.”
“Dimmi… quel battesimo t’ha fatto bene? Sei diventato migliore?”
Joad ci pensò sopra. “No-o-o, mi sa che non ho sentito niente.”
“Dimmi… t’ha fatto male? Pensaci bene.”
Joad prese la fiaschetta e bevve un sorso. “Non m’ha fatto niente, né bene né male. Me la sono spassata e basta.” Porse la fiaschetta al predicatore.
Casy sospirò e bevve, poi controllò il livello basso del whisky e diede un altro sorso. “Meglio così,” disse. “Ho sempre il pensiero che magari con quella roba ho fatto danno a qualcuno.”
Joad si voltò verso la giacca e vide la tartaruga, che si era liberata dall’involto e si affrettava nella direzione che stava seguendo quando Joad l’aveva trovata. La guardò per qualche istante, poi si alzò lentamente, la riprese e la riavvolse nella giacca. “Non ho manco un regalo per i miei fratellini,” disse. “Solo questa vecchia tartaruga.”
“È strano,” disse il predicatore. “Pensavo proprio al vecchio Tom Joad quando sei arrivato. M’è venuta voglia di vederlo. All’epoca mi pareva un senzadio. Come sta?”
“Non lo so come sta. È da quattro anni che non vado casa.”
“Non t’ha mai scritto?”
Joad era a disagio. “Be’, Pa’ non è uno che scrive per fare figura, e manco per scrivere e basta. Sa fare la firma come tutti quanti, e sa leccare la matita. Ma di lettere non n’ha mai scritte. Dice sempre che quello che non può dire colla bocca non vale lo sforzo di spremerlo colla matita.”
“Sei andato in viaggio da qualche parte?” chiese Casy.
Joad lo guardò con aria sospettosa. “Non sai niente? Ero su tutt’i giornali.”
“No, non so niente. Ma di che?” Casy accavallò una gamba e si poggiò più in basso contro l’albero. Il pomeriggio avanzava rapidamente, il sole si faceva più intenso.
Joad disse in tono scherzoso: “Ora te lo dico e la chiudiamo lì. Ma se facevi ancora il predicatore non te lo dicevo, sennò capace che ti mettevi a pregare per me”. Scolò l’ultimo goccio dalla fiaschetta, poi la gettò via, e la piccola bottiglia scura e piatta fece un paio di rimbalzi nella polvere.
“Mi sono fatto quattro anni a McAlester.”
Casy si voltò di scatto verso di lui, e le sue sopracciglia si abbassarono, rendendo ancor più spaziosa la sua fronte spaziosa. “Non ti va di parlarne, eh? Non ti chiedo niente, se hai fatto qualcosa di male…”
“Quello che ho fatto lo rifarei,” disse Joad. “Ho ucciso un tizio in una zuffa. Ci siamo sbronzati a un ballo. Lui m’ha dato una coltellata, e io l’ho ammazzato con una pala che stava lì. Gli ho spappolato la testa.”
Le sopracciglia di Casy tornarono in posizione normale. “Allora non ti vergogni?”
“No,” disse Joad. “Per niente. M’hanno dato sette anni, perché c’era la coltellata. M’hanno fatto uscire al quarto… sulla parola.”
“Perciò da quattro anni non sai niente dei tuoi?”
“No, qualcosa la so. Due anni fa Ma’ m’ha mandato una cartolina, e l’anno scorso a Natale Nonna m’ha mandato una cartolina. Cristo, quanto ridevano i miei compagni di cella! C’era un albero e della roba luccicante che pareva neve. E una poesia che diceva:
Merry Christmas, purty child,
Jesus meek and Jesus mild,
Underneath the Christmas tree
There’s a gift for you from me.3
Mi sa che Nonna manco l’ha letta. Magari quelle cartoline l’ha viste da un piazzista e ha pigliato quella che luccicava di più. I miei compagni di cella s’ammazzavano dalle risate. Mi chiamavano Gesù Carino. Nonna non l’ha fatto per ridere, io dico che l’ha vista bella e l’ha pigliata senza manco leggerla. Il mese che m’hanno imbarcato s’era persa gli occhiali. Capace che non l’ha più trovati.”
“Com’era a McAlester?” chiese Casy.
“Be’, mica male. Mangi tre volte al giorno, ti vestono pulito, e ti puoi pure fare la doccia. In fondo è un bel posto. La cosa brutta è che stai senza donne.” All’improvviso scoppiò a ridere. “C’era un tizio ch’era uscito sulla parola,” disse. “Dopo un mese lo riportano dentro perché ha violato la parola. Allora uno gli chiede perché l’ha fatto. ‘Be’, cavolo,’ dice lui, ‘a casa dei miei non ci stanno le comodità. Niente luce elettrica, niente docce. Libri non ce n’è e il mangiare fa schifo.’ Ha detto ch’era meglio tornare dove stava comodo e mangiava tre volte al giorno. Ha detto che gli veniva la tristezza a starsene libero senza niente da fare. Allora ha rubato una macchina e è tornato dentro.” Joad prese il tabacco, soffiò su una cartina per liberarla dal pacchetto, e si preparò una sigaretta. “E aveva ragione,” disse. “Io ieri sera quand’ho pensato che dovevo cercarmi un posto per dormire m’è venuto lo spavento. Ho pensato alla mia cella e a che stava facendo quel pidocchio del mio vicino di branda. Avevamo messo su un’orchestrina. Ce la cavavamo bene. Uno ha detto che potevamo pure suonare alla radio. E stamattina non sapevo quand’è che dovevo alzarmi. Stavo sdraiato lì a aspettare che suonava la campana.”
Casy ridacchiò. “C’è pure chi si riduce a rimpiangere il rumore d’una segheria.”
La luce giallastra e polverosa del pomeriggio dava una tinta dorata alla campagna. I gambi del mais sembravano d’oro. Uno stormo di rondini frullò sopra l’albero, in volo verso qualche stagno. La tartaruga nella giacca di Joad intraprese una nuova manovra di fuga. Joad curvò la visiera del berretto, che ormai aveva assunto la piega adunca di un becco di corvo. “Mi sa che devo andare,” disse. “Mi secca camminare sotto il sole, ma non picchia più tanto.”
Casy si alzò in piedi. “È da un pezzo che non vedo il vecchio Tom,” disse. “Pensavo di passarci lo stesso. Sono andato un sacco di volte dai tuoi a portargli Gesù, e non gli ho mai chiesto né soldi né niente a parte un pezzo di pane.”
“Vieni,” disse Joad. “Pa’ sarà contento di vederti. Diceva sempre che avevi l’uccello troppo lungo per fare il predicatore.” Raccolse la giacca arrotolata e la strinse per bene intorno alle scarpe e alla tartaruga.
Casy raccolse le ciabatte di tela e c’infilò i piedi nudi. “Io mica sono tranquillo come te,” disse. “Mi spavento sempre che sotto la polvere c’è un vetro o un pezzo di ferro. Non c’è niente che mi fa paura come un taglio sul piede.”
Indugiarono sul ciglio dell’ombra, poi si tuffarono nella luce gialla come due nuotatori ansiosi di raggiungere la riva. Dopo qualche passo veloce adottarono un’andatura più calma e riflessiva. Adesso i gambi del mais proiettavano lateralmente la loro ombra grigia, e l’aria era satura di un acre odore di polvere asciutta. Il campo di mais finì e fu rimpiazzato dal verde scuro del cotone: foglie di un verde scuro sotto un velo di polvere, capsule in via di maturazione. Era una piantagione poco uniforme, fitta nelle conche dove l’acqua era rimasta più a lungo, rada nei rialzi. Le piante lottavano contro il sole. In lontananza, verso l’orizzonte, tutto sbiadiva fino all’invisibilità. Il sentiero si allungava davanti a loro seguendo il terreno ondulato. I salici di un torrente disegnavano una linea a ovest, e a nordovest un podere abbandonato cominciava già a riempirsi di sterpaglie. Ma l’odore di polvere arsa era nell’aria, e l’aria era secca, così secca che il muco del naso si rapprendeva in croste, e gli occhi lacrimavano per impedire ai bulbi di prosciugarsi.
Casy disse: “Dovevi vedere com’era bello il mais prima che arrivava la polvere. Poteva essere un fior di raccolto.”
“Ogni anno,” disse Joad. “Ogni anno che mi ricordo ci aspettavamo un bel raccolto, e non arrivava mai. Nonno diceva ch’era un bel raccolto per tutte le prime cinque arature, quando c’erano ancora le erbacce.” Il sentiero discese per una china leggera, per poi risalire su un nuovo poggio.
Casy disse: “La casa del vecchio Tom dev’essere a meno d’un un miglio da qui. Non è dietro la terza collina laggiù?”.
“Già,” disse Joad. “Se qualcuno non se l’è rubata, come l’ha rubata Pa’.”
“Tuo padre ha rubato la casa?”
“Proprio così, l’ha pigliata due miglia a est di qui e se l’è rimorchiata dov’è ora. Ci stava una famiglia che poi se n’era andata da un’altra parte. Nonno e Pa’ e mio fratello Noah volevano pigliarsela tutt’intera, ma la casa non si schiodava. Allora n’hanno pigliato solo un pezzo. È per questo che su un lato è tutta strana. L’hanno tagliata a metà, l’hanno agganciata a dodici cavalli e due muli e se la sono rimorchiata dov’è ora. Poi volevano tornare indietro per pigliarsi l’altra metà e attaccarle insieme, ma Wink Manley e i suoi ragazzi sono arrivati prima e si sono rubati l’altra metà. Pa’ e Nonno ci sono rimasti male, ma dopo un po’ si sono sbronzati insieme a Wink e ci hanno riso sopra tutti quanti. Wink diceva che la sua casa era uno stallone, e se gli portavamo la nostra e gliela facevamo montare capace che ci faceva una bella figliata di catapecchie. Wink era proprio uno spasso quand’era sbronzo. Da quella volta lui e Pa’ e Nonno sono diventati amici. Si sbronzavano insieme appena potevano.”
“Tom è forte,” disse Casy. Avanzarono a fatica nella polvere fino in fondo alla china, poi rallentarono per affrontare la salita. Casy si asciugò la fronte con la manica e si rimise il cappello a cencio. “Sì,” ripeté, “Tom era forte. Per essere un senzadio era forte. L’ho visto certe volte ai riti quando lo spirito gli entrava dentro almeno un poco, l’ho visto che faceva salti di tre metri. Ti dico che quando il vecchio Tom aveva in corpo una bella dose di Spirito Santo, era meglio che scantonavi in fretta sennò capace che ti travolgeva e ti calpestava. S’impennava come uno stallone nella posta.”
Raggiunta la cima del poggio, la strada scendeva fino a un valloncello accidentato, un vecchio greto costeggiato dai solchi lasciati dall’acqua prima di evaporare. “Tu parli di Pa’,” disse Joad, “ma dovevi vedere Zio John la volta che l’hanno battezzato nella fattoria di Polk. N’ha fatti di salti e di tuffi! S’è messo a saltare un cespuglio di felci alto come un pianoforte. Lo saltava di qua, poi lo saltava di là, e ululava come un lupo con la luna. Be’, Pa’ l’ha visto, e Pa’ si credeva ch’era lui il più gran saltatore di tutta la zona. Allora Pa’ si trova un cespuglio di felci alto quasi il doppio di quello di Zio John, poi piglia la rincorsa, fa uno strillo che manco una troia gravida di cocci di bottiglia, salta il cespuglio di felci… e si spacca la gamba destra. Gli è passato di colpo tutto lo spirito. Il predicatore voleva sistemargli la gamba colle preghiere, ma Pa’ ha detto no, perdio, perché voleva un dottore. Be’, il dottore non c’era, ma c’era un dentista ambulante, e alla fine gliel’ha sistemata lui. Ma il predicatore le preghiere gliel’ha dette lo stesso.”
Salirono lentamente sull’altro versante del greto asciutto. Il sole, ormai sul declinare, aveva perso un po’ della sua forza; l’aria era ancora rovente ma i raggi non picchiavano più come prima. La strada era sempre costeggiata dal fildiferro coi paletti di salice. Sul lato destro, una recinzione spartiva in due il campo di cotone, e il cotone verde su entrambi i lati era tutto uguale: polveroso, secco, e verde scuro.
Joad indicò la recinzione. “Quello è il nostro confine. Non è che ci serviva davvero la recinzione, ma il fildiferro ce l’avevamo e a Pa’ gli andava di metterlo lì. Dice che così quei quaranta acri gli parevano proprio quaranta. E la recinzione l’abbiamo fatta perché una sera Zio John se n’è arrivato con sei bobine di fildiferro sul carro. Gliel’ha date a Pa’ in cambio di un maialino. Non s’è mai saputo quel fildiferro dove l’aveva pigliato.” Avevano rallentato per via della salita, muovendo i piedi nella polvere spessa e cedevole, tastando il terreno con i piedi. Lo sguardo di Joad era perso nei ricordi. Sembrava che ridesse tra sé. “Zio John era proprio pazzo,” disse. “Se penso a quello che ha fatto con quel maialino…” Ridacchiò e continuò a camminare.
Jim Casy aspettò, impaziente. Il racconto non riprendeva. Casy gli diede un bel po’ di tempo per saltar fuori. “Allora? Che ha fatto con quel maialino?” chiese infine, con una certa irritazione.
“Eh? Ah! Be’, l’ha ammazzato su due piedi, e ha detto a Ma’ di accendere il forno. Ha tagliato le braciole e l’ha messe in padella, poi ha messo nel forno le costolette e un prosciutto. S’è mangiato le braciole mentre cuocevano le costolette, e s’è mangiato le costolette mentre cuoceva il prosciutto. Poi ha attaccato col prosciutto. Ne tagliava dei pezzi enormi e se li ficcava in bocca. Noi bambini gli sbavavamo intorno, e lui ce ne dava un po’, ma a Pa’ non gliene dava manco un pezzetto. Alla fine ha mangiato così tanto che ha vomitato e se n’è andato a letto. Mentre dormiva, noi bambini e Pa’ ci siamo finiti il prosciutto. Be’, la mattina quando Zio John s’è svegliato è andato subito a ficcare nel forno un altro prosciutto. Allora Pa’ gli fa: ‘John, ti vuoi mangiare tutto quel fottuto maiale?’. E lui: ‘Mi piacerebbe, Tom, ma mi sa che si guasta prima che riesco a mangiarmelo tutto quanto, pure se ho una gran fame di maiale. Magari te ne do un pezzo se mi ritorni un paio di bobine di fildiferro’. Be’, amico mio, Pa’ non era scemo. L’ha lasciato strafogarsi di maiale finché non ce la faceva più, e quando Zio John è risalito sul carro per andarsene n’aveva lasciato più di metà. Allora Pa’ gli fa: ‘Perché non lo sali?’. Ma Zio John il maiale non lo sala, lui quand’ha voglia di maiale vuole un maiale intero, e quando la voglia gli passa non vuole maiali appesi per casa. Perciò Zio John se n’è andato e Pa’ ha salato il maiale ch’era rimasto.”
Casy disse: “Se ero ancora nello spirito del predicatore, da questa storia ci tiravo fuori una morale e te la spiegavo, ma è roba che non faccio più. Secondo te perché l’ha fatto?”.
“Non lo so,” disse Joad. “È che aveva fame di maiale. Mi viene fame solo a pensarci. In quattro anni ho mangiato solo quattro fette di maiale arrosto… una fetta ogni Natale.”
Casy suggerì, con una certa enfasi: “Capace che Tom uccide il vitello grasso, come per il figliol prodigo del Vangelo”.
Joad fece una risata sprezzante. “Tu non conosci Pa’. Se Pa’ ammazza un pollo, quello che starnazza di più è lui, mica il pollo. Non impara mai. Ogni anno si tiene un maiale per Natale, e a settembre quello gli muore di qualche malattia e non può più mangiarlo nessuno. Zio John quand’aveva voglia di maiale se lo mangiava. Senza aspettare.”
Raggiunsero la cima del poggio e videro sotto di loro la fattoria dei Joad. E Joad si fermò. “Prima non era così,” disse. “Guarda quella casa. È successo qualcosa. Lì non c’è nessuno.” I due rimasero immobili, a guardare il piccolo ammasso di fabbricati.
1 Yes sir, that’s my baby: “Sissignore, è la mia ragazza”. La versione italiana di questo brano, intitolata Lola, cosa impari a scuola?, ebbe molta popolarità negli anni cinquanta. (N.d.T.)
2 “Sissignore, quello è il mio Salvatore / È Ge-sù il mio Salvatore / Adesso è Ge-sù il mio Salvatore. / Te lo testimonio / Non è più il demonio / Adesso è Gesù il mio Salvatore”. (N.d.T.)
3 Buon Natale, bel bambino. / Gesù dolce, Gesù carino, / Sotto l’albero di Natale / ecco a te il mio dono speciale. (N.d.T.)
Capitolo 5
I proprietari dei fondi arrivavano sui loro fondi, o più spesso arrivava un delegato dei proprietari. Arrivavano a bordo di macchine coperte, e palpavano con le dita la terra arida, e a volte vi infilavano grossi succhielli di carotaggio per valutarne le condizioni. I mezzadri, sul limitare delle loro aie arse dal sole, guardavano inquieti le macchine coperte che attraversavano i campi. E alla fine i delegati dei proprietari arrivavano nelle aie e rimanevano seduti in macchina e parlavano dai finestrini. I mezzadri restavano per un po’ in piedi accanto alle macchine, poi si accoccolavano sui talloni e trovavano dei legnetti per tracciare linee sulla polvere.
Le donne si affacciavano sulla soglia di casa per guardare, e dietro di loro c’erano i bambini – bambini biondi come il mais, con gli occhi spalancati, un piede nudo sopra l’altro piede nudo, e le dita nervose. Le donne e i bambini guardavano i loro uomini parlare con i delegati dei proprietari. Tacevano.
Alcuni dei delegati dei proprietari erano gentili perché non gli andava di fare quello che dovevano fare, altri erano arrabbiati perché non gli andava di essere spietati, altri ancora erano indifferenti perché da tempo avevano capito che non si può essere proprietari se non si è indifferenti. E tutti quanti erano presi in qualcosa che non riuscivano a controllare. Alcuni di loro odiavano i numeri da cui dipendevano, altri erano impauriti, altri ancora adoravano i numeri perché gli davano rifugio dai pensieri e dai sentimenti. Se il proprietario del fondo era una banca o una società finanziaria, i delegati dicevano: La Banca – o la Società – ha bisogno… vuole… pretende… esige… come se la Banca – o la Società – fosse un mostro, dotato di pensieri e sentimenti, che li avesse soggiogati. Questi delegati non si accollavano le responsabilità delle banche o delle società, perché loro erano uomini e schiavi mentre le banche erano al tempo stesso macchine e padroni. Alcuni delegati provavano una certa fierezza nell’essere schiavi di padroni così insensibili e potenti. I delegati se ne stavano seduti in macchina e spiegavano. Vi rendete conto anche voi che la terra è povera. Lo sa Iddio se ci avete sgobbato abbastanza per rendervene conto.
I mezzadri accoccolati annuivano e riflettevano e disegnavano figure nella polvere, e sì, se ne rendevano conto, lo sa Iddio quanto se ne rendevano conto. Se solo non si fosse alzata la polvere. Se solo se ne fosse rimasta dov’era, forse le cose non si sarebbero messe così male.
Gli uomini seduti in macchina continuavano il loro ragionamento: Lo sapete che la terra diventa sempre più povera. Lo sapete cosa fa il cotone alla terra: la spreme, le succhia tutt’il sangue.
Gli uomini accoccolati annuivano – lo sapevano, lo sa Iddio quanto lo sapevano. Se solo avessero potuto ruotare le colture, magari sarebbero riusciti a ridare un po’ di sangue alla terra.
Già, ma è troppo tardi. E i delegati dei proprietari illustravano le motivazioni e le logiche di quel mostro che era più forte di loro. Un uomo può tenersi la terra finché ha di che mangiare e pagare le tasse; questo può farlo.
Sì, può farlo finché un giorno non gli va male un raccolto, e a quel punto deve farsi prestare i soldi dalla banca.
Ma, vedete, una banca o una società questo non possono farlo, perché non sono creature che respirano aria, che mangiano carne. Respirano profitti; mangiano interessi sul denaro. Se non lo fanno, muoiono esattamente come morireste voi senza aria, senza carne. È triste ma è così. Non ci si può fare niente.
Gli uomini accoccolati alzavano gli occhi per capire. Non potremmo provarci ancora? Magari la prossima annata sarà una buona annata. Lo sa Iddio quanto cotone potremmo fare l’anno prossimo. E con tutte queste guerre… lo sa Iddio di quanto salirà il prezzo del cotone. Col cotone non ci fanno anche gli esplosivi? E le uniformi? Basta che ci sono abbastanza guerre, e il prezzo del cotone salirà alle stelle. L’anno prossimo, magari. Alzavano lo sguardo, speranzosi.
Non possiamo basarci su un’eventualità. La banca… il mostro deve fare utili continuamente. Non può aspettare. Morirebbe. No, il profitto deve continuare. Se il mostro smette di crescere, muore. Non può restare com’è.
Dita morbide cominciavano a tamburellare sul bordo dei finestrini, e dita dure si stringevano sui legnetti che disegnavano inquieti. Sulle soglie assolate delle case dei mezzadri, le donne sospiravano e cambiavano piede, così quello che prima era sotto adesso stava sopra, con le dita sempre inquiete. I cani venivano ad annusare le macchine dei proprietari e pisciavano su tutt’e quattro le ruote, una dopo l’altra. E i polli stavano sdraiati sull’aia soleggiata, strofinandosi nella polvere come per lavarsi le piume. Nelle piccole stie, i maiali grufolavano perplessi tra i resti fangosi del pastone.
Gli uomini accoccolati abbassavano di nuovo lo sguardo. Cosa volete che facciamo? Non possiamo ridurci la quota di raccolto… siamo già allo stremo. I bambini hanno sempre fame. Non abbiamo di che vestirci decorosamente, solo stracci. Se i vicini non fossero nelle stesse condizioni, ci vergogneremmo di farci vedere alle prediche.
E alla fine i delegati dei proprietari arrivavano al punto. La mezzadria non può più funzionare. Un uomo con un trattore può prendere il posto di dodici o quattordici famiglie. Gli si dà un salario e si prende tutto il raccolto. Dobbiamo farlo. Non ci fa piacere farlo. Ma il mostro è malato. Al mostro è successo qualcosa.
Ma così ucciderete la terra con tutto il cotone.
Lo sappiamo. Dobbiamo sbrigarci a prendere il cotone prima che la terra muoia. Poi venderemo la terra. All’Est ci sono tante famiglie che vorrebbero possedere un pezzo di terra.
Gli uomini accoccolati alzavano gli occhi, allarmati. Ma cosa sarà di noi? Come faremo per mangiare?
Dovrete lasciare la terra. Gli aratri verranno a spianare la vostra aia.
A quel punto gli uomini accoccolati si alzavano in piedi, furibondi. Mio nonno ha preso questa terra e ha dovuto uccidere gli indiani e cacciarli via. E mio padre è nato qui, e ha liberato questa terra dalla gramigna e dai serpenti. Poi c’è stata una brutta annata e ha dovuto farsi prestare un po’ di soldi. E noi siamo nati qui. Lì, sulla soglia: quelli sono i nostri figli, nati qui. E mio padre ha dovuto farsi prestare altri soldi. Già allora la terra era della banca, ma ci hanno permesso di restare qui e di tenere un po’ di quello che coltivavamo.
Lo sappiamo… sappiamo tutto. Non siamo noi, è la banca. Una banca non è come un uomo. E manco uno che possiede cinquantamila acri è come un uomo. È questo il mostro.
Già, gridavano i mezzadri, ma questa terra è nostra. L’abbiamo misurata e l’abbiamo dissodata. Su questa terra siamo nati, su questa terra ci siamo fatti uccidere, su questa terra siamo morti. Anche se non serve più a niente, è ancora nostra. Ecco cosa la rende nostra: esserci nati, lavorarci, morirci. È questo a darcene il possesso, non un pezzo di carta con sopra dei numeri.
Ci dispiace. Non siamo noi. È il mostro. Una banca non è come un uomo.
Sì, ma la banca è fatta di uomini.
No, qui vi sbagliate… vi sbagliate di grosso. La banca è qualcosa di diverso dagli uomini. Tant’è vero che ogni uomo che lavora per una banca odia profondamente quello che la banca fa, e tuttavia la banca lo fa ugualmente. Credetemi, la banca è più degli uomini. È il mostro. Gli uomini la creano, ma non possono controllarla.
I mezzadri urlavano: Mio nonno ha ucciso gli indiani, mio padre ha ucciso i serpenti per questa terra. Forse potremmo uccidere le banche: sono peggio degli indiani e dei serpenti. Forse dobbiamo combattere per tenerci la terra, come hanno fatto mio padre e mio nonno.
E a quel punto erano i delegati a infuriarsi. Dovete andarvene.
Ma è nostra, urlavano i mezzadri. Abbiamo…
No. La terra è della banca, del mostro. Dovete andarvene.
Piglieremo i fucili, come Nonno quando arrivarono gli indiani. E allora?
Allora… prima lo sceriffo, poi l’esercito. Sarete ladri se tenterete di restare, e sarete assassini se ucciderete per restare. Il mostro non è fatto di uomini ma fa fare agli uomini quello che vuole.
Ma dove andremo se ce ne andiamo? Come faremo? Non abbiamo denaro.
Ci dispiace, dicevano i delegati. Non è una responsabilità della banca, del proprietario di cinquantamila acri. Siete su una terra che non vi appartiene. Quando l’avrete lasciata, potreste andare a raccogliere cotone in autunno. Potreste ottenere un sussidio di disoccupazione. Perché non andate all’Ovest, in California? Lì c’è lavoro, e non fa mai freddo. Davvero, lì basta allungare una mano e si raccoglie un’arancia. Davvero, lì c’è sempre un qualche raccolto da fare. Perché non andate lì? E i delegati mettevano in moto le loro macchine e andavano via.
I mezzadri tornavano ad accoccolarsi sui talloni e ricominciavano a fare segni sulla polvere con un legnetto, a riflettere, a interrogarsi. Le loro facce cotte dal sole erano scure, e i loro occhi sferzati dal sole erano chiari. Le donne avanzavano caute dalle soglie verso i loro uomini, e i bambini seguivano esitanti le donne, cauti, pronti a scappare. I più grandi si accoccolavano accanto al padre, perché questo li rendeva uomini. Dopo un po’, le donne chiedevano: Che voleva?
E gli uomini alzavano lo sguardo per un istante, e nei loro occhi divampava il dolore. Dobbiamo andarcene. Un trattore e un sorvegliante. Come nelle fabbriche.
Dove andremo? chiedevano le donne.
Non lo sappiamo. Non lo sappiamo.
E le donne si voltavano in fretta e tornavano in silenzio verso le case, e spingevano davanti a sé i bambini. Sapevano che da un uomo così ferito e confuso può esplodere la rabbia, anche contro coloro che ama. Lasciavano gli uomini da soli a riflettere e a interrogarsi nella polvere.
Forse dopo un po’ il mezzadro guardava intorno a sé… la pompa che aveva montato dieci anni prima, con il manico a collo di cigno e dei fiori di ghisa sul beccuccio, e il ceppo dove mille polli erano stati uccisi, e l’aratro nel capanno, con sopra la greppia appesa alle travi.
Nelle case i bambini si stringevano intorno alle donne. Ora che facciamo, Ma’? Dove andiamo?
Le donne dicevano: Non lo sappiamo ancora. Andate fuori a giocare. Ma non vi avvicinate a vostro padre. Potrebbe suonarvele se vi avvicinate. E le donne si rimettevano al lavoro, ma senza mai perdere di vista gli uomini accoccolati nella polvere – confusi e assorti.
I trattori arrivavano dalle strade e per i campi, grandi animali che avanzavano come insetti, dotati dell’incredibile forza degli insetti. Avanzavano sul terreno tracciando la pista, poi la battevano, poi la ripercorrevano. Trattori diesel, che da fermi tossicchiavano, appena messi in marcia tuonavano, e infine si assestavano su un borbottio sordo. Mostri camusi che sollevavano la polvere e ci ficcavano il grugno, percorrendo la campagna in un senso e nell’altro, attraverso recinzioni, attraverso aie, su e giù per forre in linea retta. Non seguivano l’andamento del terreno, seguivano piste tutte loro. Ignoravano poggi e fossi, corsi d’acqua, recinzioni, case.
L’uomo seduto sul seggiolino di ferro non sembrava un uomo; indossava guanti, occhiali protettivi e una maschera di caucciù che copriva il naso e la bocca: era una parte del mostro, un robot sul seggiolino. Il tuono dei cilindri rimbombava per i campi, faceva tutt’uno con l’aria e la terra, tanto che terra e aria risuonavano di un’identica vibrazione. Il trattorista non poteva controllarlo: avanzava dritto nel cuore della campagna, infilzando dozzine di fattorie per poi tornare indietro in linea retta, senza deviare mai. Per deviare bastava tirare una leva, ma la mano del trattorista non poteva tirarla, perché il mostro che aveva costruito il trattore, il mostro che aveva mandato il trattore, era riuscito a penetrare nelle mani del trattorista, nel suo cervello e nei suoi muscoli, lo aveva bendato e imbavagliato – gli aveva bendato la mente, imbavagliato la parola, bendato la sensibilità, imbavagliato la protesta. Il trattorista non poteva vedere l’aspetto della terra, non poteva sentire l’odore della terra; i suoi piedi non toccavano le zolle né avvertivano il calore e il potere della terra. Sedeva su un seggiolino di ferro e premeva pedali di ferro. Non poteva magnificare o criticare o maledire o incoraggiare l’estensione del proprio potere, pertanto non poteva magnificare o criticare o maledire o incoraggiare se stesso. Non conosceva né possedeva né venerava né implorava la terra. Se un seme gettato non attecchiva, non erano affari suoi. Se i teneri virgulti appassivano per la siccità o annegavano sotto un diluvio d’acqua, per il trattorista contava quanto per il trattore.
Egli non amava la terra più di quanto la banca amasse la terra. Poteva ammirare il trattore, le sue superfici levigate, la potenza del suo impeto, il rombo dei suoi cilindri tonanti; ma non era il suo trattore. Dietro il trattore ruotavano i dischi scintillanti che squarciavano la terra con le lame: chirurgia, non aratura, con la terra squarciata sospinta a destra, mentre la seconda fila di dischi la squarciava e la sospingeva a sinistra; scintillanti lame taglienti, lucidate dalla terra squarciata. Trainati dietro i dischi, gli erpici rastrellavano con denti di ferro, frantumando le piccole zolle e spianando il terreno. Dietro gli erpici, ecco le lunghe seminatrici – dodici verghe di ferro erette in fonderia, orgasmi regolati da ingranaggi, che violavano metodicamente, violavano senza passione. Il trattorista sedeva sul suo seggiolino di ferro ed era fiero di quelle linee dritte che non dipendevano da lui, fiero di quel trattore che non possedeva né amava, fiero di quel potere che non aveva modo di controllare. E quando quel raccolto cresceva e veniva mietuto, nessun uomo aveva sbriciolato nel palmo una sola zolla, né lasciato stillare tra le dita la terra tiepida. Nessun uomo aveva toccato i semi, o agognato la crescita. Gli uomini mangiavano ciò che non avevano coltivato, non avevano legami con il loro pane. La terra partoriva sotto il ferro, e sotto il ferro a poco a poco moriva, perché non era stata amata né odiata, non aveva attratto preghiere né maledizioni.
A volte, verso mezzogiorno, il trattorista si fermava vicino alla casa di un mezzadro e tirava fuori il suo pranzo: sandwich avvolti nella carta oleata, pane bianco, sottaceti, formaggio, carne in scatola, una fetta di torta marchiata come un pezzo di macchinario. Mangiava senza piacere. E i mezzadri che non avevano ancora sloggiato uscivano a guardarlo, lo osservavano curiosi mentre si toglieva gli occhiali protettivi e la maschera di caucciù, lasciando cerchi bianchi intorno agli occhi e un grande cerchio bianco intorno al naso e alla bocca. Il tubo di scappamento del trattore tossicchiava, perché il carburante costava così poco che conveniva lasciare il motore acceso anziché darsi la pena di scaldare le candelette per riavviarlo. Bambini curiosi si avvicinavano, bambini laceri che rosicchiavano le loro misere gallette di mais mentre guardavano. Guardavano famelici lo spacchettamento dei sandwich, e i loro nasi aguzzati dalla fame fiutavano i sottaceti, il formaggio, la carne in scatola. Non dicevano niente al trattorista. Guardavano la sua mano portare il cibo alla bocca. Non lo guardavano masticare: i loro occhi seguivano la mano che stringeva il sandwich. Dopo un po’, il mezzadro che non riusciva ad abbandonare il podere usciva e andava ad accoccolarsi nell’ombra accanto al trattore.
“Ma tu sei il figlio di Joe Davis!”
“Già,” diceva il trattorista.
“E allora come mai fai questo lavoro, che ti metti contro la tua gente?”
“Tre dollari al giorno. Ero stufo di spaccarmi la schiena per guadagnarmi il pane, senza manco riuscirci. Ho moglie e figli. Dobbiamo mangiare. Tre dollari al giorno, e ogni santo giorno.”
“Capisco,” diceva il mezzadro. “Ma per i tuoi tre dollari al giorno ci sono quindici o venti famiglie che non hanno più niente da mangiare. Quasi cento persone devono piantare tutto e finire sulla strada per i tuoi tre dollari al giorno. Ti pare giusto?”
E il trattorista diceva: “Non m’interessa. Io devo pensare ai miei figli. Tre dollari al giorno, e ogni santo giorno. Amico, non lo sai che i tempi stanno cambiando? Ormai con la terra ci campi solo se hai duemila, cinquemila, diecimila acri e un trattore. L’agricoltura non è più per i pesci piccoli come noi. Non è che ti metti a piantare rogne perché non puoi fabbricare le Ford, o perché non sei l’azienda telefonica. Ecco, ormai con l’agricoltura è lo stesso. Non ci puoi fare niente. Cerca di guadagnarti tre dollari al giorno da qualche parte. È l’unica strada”.
Il mezzadro ragionava. “È strano come vanno le cose. Se un uomo ha una piccola proprietà, quella proprietà è lui, è parte di lui, è fatta come lui. Se la sua proprietà è grande quanto basta per camminarci sopra, e coltivarla, e rattristarsi se non rende e rallegrarsi quando arriva la pioggia, quella proprietà è lui, e in fondo lui diventa più grande perché quella proprietà è sua. Anche se non si arricchisce, è grande perché ha quella proprietà. È così la faccenda.”
E il mezzadro ragionava ancora. “Ma se un uomo ha una proprietà senza vederla, o senza avere il tempo di infilarci le dita, o senza poterci stare per camminarci… be’, allora la proprietà è l’uomo. Lui non può fare quello che vuole, non può pensare quello che vuole. La proprietà è l’uomo, e è più forte di lui. E lui non è grande, è piccolo. È il suo patrimonio a essere grande, e lui è il servitore della sua proprietà. Anche questa faccenda è così.”
Il trattorista masticava la sua torta marchiata e buttava la crosta. “I tempi sono cambiati, non lo sai? Questi ragionamenti non danno da mangiare ai figli. Trovati i tuoi tre dollari al giorno e da’ da mangiare ai tuoi figli. È a loro che devi pensare, non ai figli degli altri. Se si viene a sapere che fai questi ragionamenti, i tre dollari al giorno non te li darà nessuno. I pezzi grossi non te li danno tre dollari al giorno se ti metti a pensare roba che non c’entra coi tuoi tre dollari al giorno.”
“Quasi cento persone sulla strada per i tuoi tre dollari. Che fine faremo?”
“Ora che ci penso,” diceva il trattorista, “fai meglio a sloggiare in fretta. Dopo la pausa devo passare sulla tua aia.”
“Stamattina hai spianato il pozzo.”
“Lo so. Dovevo andare in linea retta. E appena finisco la pausa devo passare sulla tua aia. Tocca mantenere le linee rette. E… be’, visto che conosci il mio vecchio, Joe Davis, ti dico una cosa. I miei ordini sono che se una famiglia non ha ancora sloggiato… metti che passo troppo vicino alla casa… e per sbaglio ne tiro giù un pezzo… be’, mi busco un paio di dollari in più. Sai, il mio figlio più piccolo non ha ancora un paio di scarpe.”
“L’ho costruita colle mie mani. Ho raddrizzato chiodi vecchi per far reggere la copertura. Le travi le ho legate alle longherine col fildiferro dei covoni. È mia. L’ho costruita io. Tu prova a buttarla giù e vedi come piglio il fucile. Se fai tanto di venire troppo vicino, ti stendo come un coniglio.”
“Non sono io. Io non ci posso fare niente. Se non lo faccio mi licenziano. Ma mettiamo pure che m’ammazzi, lo sai che succede? Succede che t’impiccano, e molto prima che t’impiccano arriva un altro trattorista e ti butta giù la casa. Ammazzeresti la persona sbagliata.”
“Capisco,” diceva il mezzadro. “E a te chi te li dà gli ordini? Andrò da lui. È lui quello da ammazzare.”
“Ti sbagli. Lui piglia ordini dalla banca. La banca gli ha detto: ‘O fai sloggiare quella gente o perdi il lavoro’.”
“Be’, questa banca avrà un presidente, avrà un consiglio d’amministrazione. Io carico il fucile e vado dalla banca.”
Il trattorista diceva: “Un tizio m’ha detto che la banca piglia ordini dall’Est. E gli ordini erano: ‘O quella proprietà fa profitti o vi chiudiamo’.”
“Ma dove finisce questa catena? A chi possiamo sparare? Non mi va di morire di fame senza ammazzare l’uomo che mi fa morire di fame.”
“Non lo so. Forse non c’è nessuno da ammazzare. Forse non c’entrano gli uomini. Forse, come hai detto tu, è la proprietà la causa di tutto. Io comunque t’ho detto gli ordini che ho.”
“Ci devo pensare,” diceva il mezzadro. “Tutti quanti ci dobbiamo pensare. C’è per forza un modo per fermare questa cosa. Non è come i fulmini o i terremoti. Questa è una cattiveria fatta dagli uomini, e le cattiverie fatte dagli uomini si possono cambiare, perdio!” Il mezzadro andava a sedersi sulla soglia e il trattorista metteva in moto e riprendeva il suo cammino di lame che squarciavano, di erpici che rastrellavano, di falli che inseminavano il terreno. Il trattore solcava l’aia, e il suolo rassodato dai piedi diventava campo seminato, e il trattore tornava a solcarlo, lasciando indenne un corridoio di appena tre metri. E tornava ancora una volta. Il paraurti di ferro agganciava l’angolo della casa, sgretolava il muro e strappava la piccola casa dalle sue fondamenta, rovesciandola su un fianco, schiacciata come uno scarafaggio. E il trattorista aveva gli occhiali protettivi e una maschera di caucciù che gli copriva il naso e la bocca. Il trattore proseguiva in linea retta, e l’aria e la terra vibravano sul suo rombo. Il mezzadro lo seguiva con lo sguardo, il fucile in mano. Sua moglie era accanto a lui, e dietro c’erano i bambini, silenziosi. E i loro sguardi erano fissi sul trattore.Capitolo 6
Il reverendo Casy e il giovane Tom, immobili sulla collina, guardavano la fattoria dei Joad. La piccola casa di legno grezzo era sfondata in un angolo, divelta dalle fondamenta fino a rovesciarsi all’indietro, tanto che le finestre cieche sulla facciata fissavano un punto del cielo molto più alto rispetto all’orizzonte. Le recinzioni non c’erano più e il cotone cresceva nell’aia e fin sotto la casa, e il cotone era tutt’intorno alla stalla. La latrina era riversa su un fianco, e il cotone la incalzava su ogni lato. La terra dell’aia, già rassodata dai piedi scalzi dei bambini, dagli zoccoli dei cavalli, dalle larghe ruote dei carri, adesso era terra coltivata, e vi cresceva il cotone, il cotone verde scuro e polveroso. Il giovane Tom guardò a lungo l’ispido salice accanto all’abbeveratoio asciutto, il quadrato di cemento dove prima c’era la pompa. “Cristo!” disse infine. “Pare ch’è scoppiato l’inferno. Lì non c’è più nessuno.” Poi scese a passo svelto lungo il pendio, e Casy lo seguì. Tom si affacciò nella stalla deserta, guardò la manciata di paglia per terra, lo stallo del mulo in un angolo. E mentre guardava udì uno scalpiccio sul pavimento e vide una famiglia di topi sparire sotto la paglia. Poi indugiò sulla soglia del capanno degli attrezzi, dove non c’erano più attrezzi, solo una punta d’aratro spezzata, un rotolo di fildiferro in un angolo, una rondella di rastrello da fieno, un collare da mulo rosicchiato dai ratti, una tanica di latta incrostata di polvere e olio, e una tuta sbrindellata appesa a un chiodo. “Non c’è più niente,” disse Joad. “Avevamo dei begli attrezzi. Non c’è più niente.”
Casy disse: “Se ero ancora un predicatore ti dicevo ch’è stata la mano del Signore. Ma ora non capisco ch’è successo. Chissà dov’ero. Non ho saputo niente”. S’incamminarono verso il pozzo, e per raggiungerlo dovettero farsi largo tra le piante di cotone, con le capsule che cominciavano a formarsi, e la terra era tutta coltivata.
“Qui non avevamo mai piantato niente,” disse Joad. “Questo pezzo l’avevamo sempre lasciato libero. Guarda, ora non puoi manco farci passare un cavallo senza pestare il cotone.” Si fermarono davanti all’abbeveratoio asciutto, e l’erba che di solito cresce sotto gli abbeveratoi non c’era più, e il vecchio buon legno dell’abbeveratoio era secco e screpolato. Sul basamento del pozzo, i bulloni che avevano trattenuto la pompa sporgevano dagli occhielli arrugginiti, privi di dadi. Joad si sporse sull’imboccatura del pozzo, sputò e rimase in ascolto. Lasciò cadere una zolla di terra e rimase in ascolto.
“Era un buon pozzo,” disse. “Non riesco a sentire l’acqua.” Sembrava restio a passare in casa. Lasciò cadere nel pozzo un’altra zolla, e un’altra ancora. “Forse sono tutti morti,” disse. “Ma allora qualcuno me lo diceva. In qualche modo me lo facevano sapere.”
“Magari t’hanno lasciato una lettera in casa, o qualcosa per dirtelo. Lo sapevano che uscivi?”
“Non lo so,” disse Joad. “No, mi sa di no. Manco io lo sapevo fino alla settimana scorsa.”
“Andiamo a vedere in casa. È tutta storta. S’è presa un gran colpo di qualcosa.” S’incamminarono lentamente verso la casa dissestata. Due pilastrini della veranda si erano curvati, tanto che la tettoia pendeva su un lato. E lo spigolo della casa era sfondato. Attraverso un intrico di tavole spezzate si vedeva la stanza d’angolo. La porta d’ingresso pendeva verso l’interno, e il portello nella parte inferiore pendeva verso l’esterno, trattenuto dalle cerniere di cuoio.
Joad si fermò sulla soglia, un ceppo d’una trentina di centimetri di lato. “Lo scalino della porta c’è,” disse Joad. “Ma loro se ne sono andati. O magari Ma’ è morta.” Indicò il portello. “Se Ma’ era in giro, quest’affare era chiuso e sbarrato. Ma’ dice sempre che deve stare chiuso.” Il suo sguardo si ravvivò. “Da quella volta che il maiale è entrato dai Jacobs e s’è mangiato la bambina. Milly Jacobs era andata al fienile. Quand’è tornata in casa, il maiale si stava mangiando la piccola. Milly Jacobs era incinta, e quando l’ha visto l’è partita la testa. Non s’è più ripigliata. È rimasta toccata al cervello. Ma a Ma’ gli è servito da lezione. Il portello del maiale doveva stare sempre chiuso se in casa non c’era lei. Non se lo scordava mai. No… se ne sono andati… o magari sono morti.” Si arrampicò sulla veranda sbilenca e guardò nella cucina. I vetri delle finestre erano rotti e sul pavimento c’erano dei sassi, il pavimento e le pareti erano sganciati dal telaio della porta, e sulle assi c’era un velo di polvere. Joad indicò i vetri rotti e i sassi sul pavimento. “Ragazzini,” disse. “Quelli si fanno venti miglia per spaccare una finestra. Pure io l’ho fatto. Lo sanno quando una casa è vuota, lo sanno subito. È la prima cosa che fanno quando la gente se ne va.” Il mobilio era scomparso insieme al fornetto, e dal foro lasciato dal fumaiolo entrava la luce. Sul ripiano dell’acquaio c’erano un vecchio apribottiglie e una forchetta senza più il manico. Joad entrò guardingo nella stanza, e il pavimento scricchiolò sotto il suo peso. Una vecchia copia del Philadelphia Ledger giaceva sul pavimento accanto al muro. Le pagine erano ingiallite e increspate. Joad guardò nella stanza da letto: niente più letto, niente più sedie, niente più niente. Sul muro, un’immagine a colori di una ragazza indiana, con la scritta: ALA ROSSA. Addossata al muro c’era una stecca da letto, e in un angolo una polacchina coi bottoni, con la punta arricciata e uno squarcio sul collo. Joad la raccolse e la guardò. “Me la ricordo,” disse. “Era di Ma’. Ora è tutta rotta. A Ma’ gli piacevano queste scarpe. Ce l’aveva da anni. No, se ne sono andati. E si sono portati via tutto.”
Il sole al tramonto entrava dalle finestre sbilenche e faceva luccicare i vetri rotti sul pavimento. Joad infine si voltò, uscì e attraversò la veranda. Si sedette sul bordo e posò i piedi nudi sul ceppo della soglia. La luce del crepuscolo sfiorava i campi, le piante di cotone proiettavano ombre lunghe sul terreno, e il salice scheletrico proiettava un’ombra lunga.
Casy sedette accanto a Joad. “Non t’hanno mai scritto niente?” chiese.
“No. Te l’ho detto, non è gente che scrive. Pa’ sa scrivere, ma non gli piace. Gli vengono i brividi a scrivere. Ti sa fare un ordine di roba sul catalogo, ma una lettera non la scrive manco se lo paghi.” Erano seduti fianco a fianco, gli sguardi persi sull’orizzonte. Joad posò accanto a sé la giacca infagottata. Liberate le mani, si arrotolò automaticamente una sigaretta, la lisciò e l’accese, poi aspirò profondamente e soffiò il fumo delle narici. “C’è qualcosa che non va,” disse. “Non riesco a capire cosa. Ma mi puzza di brutto. La casa ridotta così e loro spariti.”
Casy disse: “Laggiù c’era il canale dove t’ho battezzato. Non eri cattivo, ma tosto sì. Stavi attaccato alla treccia di quella bambina come un bulldog. V’abbiamo battezzati tutt’e due in nome dello Spirito Santo, ma tu non la mollavi. Il vecchio Tom mi fa: ‘Tienilo sott’acqua’. Allora t’ho messo la testa sott’acqua finché non hai fatto le bolle e hai mollato quella treccia. Non eri cattivo, ma tosto sì. A volte i bambini tosti vengono su con un bel po’ di spirito dentro.”
Uno smilzo gatto grigio uscì dal fienile e passò in mezzo alle piante di cotone fino a raggiungere il bordo della veranda. Saltò sulla veranda con un balzo silenzioso, poi strisciò sulla pancia verso i due uomini. Si fermò a metà tra l’uno e l’altro e un po’ arretrato, e stese la coda dritta e piatta sul pavimento, dimenando appena la punta. Si accucciò e cominciò a fissare il punto lontano che i due uomini stavano fissando.
Joad si guardò attorno e lo vide. “Buon Dio! Guarda chi c’è. Qualcuno è rimasto.” Allungò la mano ma il gatto si allontanò con un balzo, poi si accucciò di nuovo e si leccò i cuscinetti della zampa alzata. Joad lo guardò e fece una smorfia stupita. “Ecco cos’è!” gridò. “Quel gatto m’ha fatto capire cos’è che non va.”
“Per me c’è un sacco di roba che non va,” disse Casy.
“Ma non è solo la casa. Com’è che il gatto non se n’è andato dai Rance o dagli altri vicini? Com’è che nessuno è venuto a far legna nella casa? Sarà vuota da tre o quattro mesi, e nessuno s’è pigliato manco un pezzo di legno. Le tavole del capanno sono buone, quelle di casa pure, e poi ci sono i telai delle finestre… ma nessuno s’è portato via niente. Troppo strano. Ecco cos’è che mi rodeva, e non riuscivo a metterci il dito sopra.”
“E tu come te lo spieghi?” Casy si chinò, si sfilò le scarpe e sfregò sullo scalino le lunghe dita dei piedi.
“Non lo so. Magari pure i vicini se ne sono andati. Ti pare che se stavano ancora qui lasciavano delle belle tavole come queste? Manco per sogno! Una volta a Natale Albert Rance s’è portato tutta la famiglia a Oklahoma City, coi figli e i cani e tutto quanto. Andavano a passare le feste a casa del cugino di Albert. Be’, la gente qui intorno s’è creduta ch’era partito per sempre senza dire niente a nessuno… magari per roba di debiti o qualche storia di donne. Quando Albert è tornato la settimana dopo, a casa sua non c’era più niente: il fornetto era sparito, i letti erano spariti, i telai delle finestre erano spariti… erano spariti pure tre metri di parete sul retro della casa, tanto che ci potevi guardare dentro. Mentre stava in macchina che tornava a casa ha pure incontrato Muley Graves che si portava via tre porte e la pompa del pozzo. Per due settimane gli è toccato fare il giro dei vicini per ripigliarsi la sua roba.”
Casy si grattò voluttuosamente le dita dei piedi. “E nessuno ha fatto questioni? Gli hanno ridato tutti la sua roba?”
“Certo. Mica gliela volevano rubare. Si credevano che se n’era andato, e allora se la sono pigliata. Gli hanno restituito tutto, a parte un cuscino del divano, un cuscino di velluto con su il disegno di un indiano. Albert diceva che se l’era pigliato Nonno. Diceva che Nonno aveva sangue indiano, per questo voleva il disegno. Be’, Nonno il cuscino se l’era pigliato, ma non gliene fregava niente del disegno. Gli piaceva e basta. Se lo portava in giro e se lo metteva sotto il culo ogni volta che si sedeva. Non gli passava manco per la testa di ridarglielo. Diceva: ‘Se Albert quel cuscino lo vuole così tanto, può venire a pigliarselo. Ma è meglio che si porta il fucile, perché quella brutta faccia gliela riempio di piombo se mi tocca il mio cuscino’. Così alla fine Albert s’è arreso e ha regalato il cuscino a Nonno. Ma a Nonno gli ha fatto venire delle idee. S’è messo a conservare le piume dei polli. Diceva che voleva farsi un letto tutto di piume. Ma quel letto lì non gli è mai riuscito di farselo. Un giorno Pa’ ha scoperto una puzzola sotto la casa. L’ha stesa con un colpo di tavola, e Ma’ ha bruciato tutte le piume di Nonno così in casa riuscivamo a respirare.” Scoppiò a ridere. “Nonno è un gran figlio di puttana. Se ne stava seduto sul suo indiano e diceva: ‘Di’ ad Albert di venire a pigliarselo. Vedrai,’ diceva, ‘quel verme l’acchiappo e lo strizzo come un paio di mutande’.”
Il gatto tornò ad acquattarsi accanto agli uomini, con la coda piatta sulle assi e i baffi che ogni tanto fremevano. Il sole era sceso fin sopra l’orizzonte, e l’aria polverosa era rossa e dorata. Il gatto allungò una grigia zampa curiosa e toccò la giacca di Joad. Questi si voltò. “Accidenti, m’ero scordato la tartaruga. Non mi va di portarmela fino alla tomba.” Liberò la tartaruga e la spinse sotto la casa. Ma dopo qualche istante la bestiola sbucò di nuovo all’aperto, puntando a sudest come all’inizio. Il gatto la raggiunse d’un balzo, cercando di colpire il collo proteso, di artigliare le zampe allungate. La vecchia testa coriacea e beffarda si ritrasse, la spessa coda sparì dentro la corazza, e quando il gatto si stancò di aspettare e si allontanò, la tartaruga riprese il suo cammino verso sudest.
Il giovane Tom e il predicatore guardarono la tartaruga che si allontanava agitando le zampe e trascinando verso sudest la sua pesante corazza bombata. Il gatto la seguì furtivamente per un po’, ma dopo una decina di metri inarcò la schiena, sbadigliò e tornò discretamente verso i due uomini seduti.
“Chissà dove diavolo va,” disse Joad. “N’ho viste tante di tartarughe in vita mia. Sono sempre lì che vanno da qualche parte. Pare sempre che hanno una gran voglia d’arrivarci.” Il gatto grigio si accucciò di nuovo tra loro e un po’ arretrato. Strizzò lentamente gli occhi. Sulle sue spalle la pelle si contrasse per un morso di pulce, poi tornò lentamente a distendersi. Il gatto alzò una zampa e la osservò, sguainò e ritrasse le unghie come per provarle, e si leccò i cuscinetti con la lingua di un rosa perlaceo. Adesso il sole rosso toccava l’orizzonte e si allargava come una medusa, e sopra di esso il cielo sembrava più luminoso e vibrante di prima. Joad estrasse dalla giacca le sue scarpe gialle nuove e le infilò dopo aver strofinato con la mano i piedi impolverati.
Il predicatore guardò verso i campi e disse: “Arriva qualcuno. Guarda! Laggiù, proprio in mezzo al cotone”.
Joad guardò dove indicava il dito di Casy. “È a piedi,” disse. “Non lo vedo con tutta la polvere che alza. Chi diavolo può essere?” Osservarono la figura che avanzava nella luce del crepuscolo, mentre la polvere sospesa si arrossava nel sole al tramonto. “Uomo,” disse Joad. L’uomo si fece più vicino, e, mentre passava davanti al fienile, Joad disse: “Ehi, io quello lo conosco. Pure tu lo conosci… è Muley Graves”. E gridò: “Ehi, Muley! Come va?”.
L’uomo si fermò, sorpreso dal grido, poi affrettò il passo. Era magro, bassino. I suoi movimenti erano rapidi e contratti. Teneva in mano una sacca di tela. Indossava un paio di blue jeans stinti sulle ginocchia e sul sedere, e un vecchio giubbotto nero, sudicio e unto, con le maniche stracciate sulle spalle e lise sui gomiti. Calzava un cappello nero, sudicio come il giubbotto e con il nastro mezzo sdrucito che svolazzava seguendo il suo passo. Muley aveva la faccia liscia e senza rughe, ma un’espressione torva da bambino cattivo, con le labbra sottili e serrate, e gli occhi piccoli, un po’ truci e un po’ capricciosi.
“Te lo ricordi Muley?” disse sottovoce Joad al predicatore.
“Chi siete?” gridò l’uomo venendo avanti. Joad non rispose. Muley dovette avvicinarsi, e avvicinarsi ancora, prima di riconoscere le facce. “Ehi, accidenti,” disse. “Tu sei Tom Joad. Quando sei uscito, Tommy?” Lasciò cadere a terra la sacca.
“Due giorni fa,” disse Joad. “Mi c’è voluto un bel po’ per arrivare a casa a passaggi. E guarda che ci trovo. Dove sono i miei, Muley? Com’è che la casa è sfasciata e nell’aia ci cresce il cotone?”
“Perdio, fortuna che sono passato!” disse Muley. “Perché il vecchio Tom stava in pensiero. Mentre loro si preparavano a sbaraccare io ero lì in cucina. Gli ho detto a Tom che io da qui non me ne vado, perdio. Gli ho detto proprio così, e Tom mi fa: ‘Sto in pensiero per Tommy. Metti che torna e qui non ci trova nessuno. Che penserà?’. Allora gli ho detto: ‘Perché non gli scrivi una lettera?’. E Tom mi fa: ‘Magari lo faccio. Ci devo pensare. Ma se non lo faccio tu vedi se Tommy arriva, se resti da queste parti’. ‘Ci resto sì,’ gli ho detto. ‘Io qui ci resto finché gela l’inferno. Nessuno può cacciare un Graves da questa terra.’ E ancora non c’è riuscito nessuno.”
Joad disse, spazientito: “Dove sono i miei? Le tue storie me le racconti dopo… Dove sono i miei?”.
“Be’, volevano tener duro quando la banca ha mandato il trattore a spianare la terra. Tuo nonno ha pigliato il fucile e gli ha sparato dritto nei fari, ma quello è venuto avanti lo stesso. Tuo nonno non voleva ammazzare il tizio che guidava il trattore, che poi era Willy Feeley, e Willy l’ha capito, allora è venuto avanti lo stesso e ha dato una gran botta alla casa. Tuo padre s’è messo lì a urlare e a bestemmiare, ma non gli è servito a niente. Quand’ha visto il trattore che sfondava la casa e la scuoteva come il cane col topo… be’, a momenti ci restava secco povero Tom. Gli s’è rotto qualcosa dentro. Da quel giorno è diventato un altro.”
“Dove sono i miei?” chiese Joad, furioso.
“Ora te lo dico. Hanno fatto tre viaggi col carro di tuo Zio John. Hanno caricato il fornetto, la pompa e i letti. Dovevi vederli quei letti che se n’andavano con sopra i bambini, e tua nonna e tuo nonno seduti contro la testata, e tuo fratello Noah seduto lì che si fumava una sigaretta e sputava tutto tranquillo dalla sponda.” Joad aprì la bocca per parlare. “Sono tutti da tuo Zio John,” disse in fretta Muley.
“Ah. Tutti da John. Be’, e lì che ci fanno? Frena, Muley. Frena un momento. Poi ti lascio andare avanti come ti pare. Lì che ci fanno?”
“Be’, lì ci raccolgono il cotone, tutti quanti, pure i bambini e tuo nonno. Mettono insieme un po’ di soldi per andarsene all’Ovest. Si vogliono comprare una macchina per andarsene all’Ovest, che lì si campa meglio. Qui non c’è più niente. Cinquanta centesimi all’acro per raccogliere il cotone, e tutti a supplicare di pigliarli per raccogliere il cotone.”
“E non sono ancora partiti?”
“No,” disse Muley. “A quanto ne so. L’ultime notizie me l’ha date quattro giorni fa tuo fratello Noah, quando l’ho visto che sparava ai conigli, e m’ha detto che vogliono partire tra un paio di settimane. Pure a John gli è arrivata la lettera che dice di sloggiare. Per andare da John devi tirare dritto da lì per otto miglia. Li trovi tutti ammucchiati nella casa di John come i sorci nella tana quando fa freddo.”
“OK,” disse Joad. “Ora puoi andare avanti come ti pare. Non sei cambiato manco un po’, Muley. Quando vuoi parlare di qualcosa a nordovest, punti il naso dritto a sudest.”
Muley disse, torvo: “Manco tu sei cambiato. Ti credevi un grand’uomo da bambino, e ti credi un grand’uomo pure ora. Vuoi insegnarmi com’è che devo vivere, per caso?”.
Joad ridacchiò. “No, per niente. A te quando ti viene la voglia di ficcare la testa in un mucchio di vetri rotti non te la fa passare nessuno. Lui lo conosci, no Muley? È il reverendo Casy, il predicatore.”
“Sì, sì, certo. Non l’avevo guardato. Me lo ricordo bene.” Casy si alzò in piedi e i due si strinsero la mano. “Mi fa piacere rivederti,” disse Muley. “È da un pezzo che non venivi da queste parti.”
“Sono andato in giro a cercare risposte,” disse Casy. “Ch’è successo qui? Perché cacciano via la gente?”
Muley chiuse la bocca così forte che il labbro superiore sporse come un piccolo becco su quello inferiore. Si accigliò. “Quei figli di puttana,” disse. “Quei luridi figli di puttana. Ve l’ho detto, io da qui non mi muovo. Quelli a me non mi cacciano. E se mi cacciano torno, e se pensano che sto più tranquillo all’inferno, be’, allora un paio di quei figli di puttana me li porto dietro per farmi compagnia.” Tastò qualcosa di pesante che aveva nella tasca del giubbotto. “Io non me ne vado. Mio padre qui c’è venuto cinquant’anni fa. E io non me ne vado.”
Joad disse: “Ma a che gli serve di cacciare la gente?”.
“Be’, quelli l’hanno spiegata a modo loro. Lo sai le annate che abbiamo avuto, no? Colla polvere che ha rovinato i raccolti, e il mais che non basta manco a riempire un culo di formica. E tutti a fare debiti colla bottega. Lo sai, no? Be’, i proprietari dei terreni arrivano e dicono: ‘I mezzadri non li possiamo più tenere’. E poi: ‘La parte che va al mezzadro è proprio il margine di profitto che non possiamo perdere’. E poi: ‘Se mettiamo insieme tutte le nostre proprietà riusciamo sì e no a cavarne qualcosa’. Allora hanno mandato i trattori e hanno cacciato i mezzadri. Ma con me non ce l’hanno fatta. E io da qui non me ne vado, perdio. Tommy, tu mi conosci. Mi conosci da tutta la vita.”
“Proprio così,” disse Joad, “da tutta la vita.”
“E sai che non sono un fesso. Io lo so che questa terra non vale molto. Dovevano usarla solo come pascolo. Non dovevano usarla per coltivare. E ora l’hanno imbottita di cotone fino a farla crepare. Se non mi dicevano di sloggiare, be’, magari ora me ne stavo in California a mangiare uva e a raccogliere arance quando m’andava. Ma quei figli di puttana m’hanno detto che devo sloggiare… e perdio, un uomo non può sloggiare perché gli dicono di farlo!”
“Già,” disse Joad. “Non capisco come mai Pa’ gliel’ha lasciata così facile. Non capisco come mai Nonno non ha ammazzato nessuno. Nonno non è uno che si fa mettere i piedi in testa. E manco Ma’ è un tipo tenero. Una volta ha pigliato a colpi di pollo un piazzista che faceva questioni. Ma’ aveva in una mano il pollo vivo e nell’altra aveva l’accetta per tagliargli la testa. Voleva colpire il piazzista con l’accetta ma s’è sbagliata di mano e l’ha pigliato a colpi di pollo. Alla fine il pollo non siamo manco riusciti a mangiarlo. A Ma’ gli erano rimaste in mano solo le zampe. Nonno ha riso così tanto che s’è fatto uscire l’osso del fianco. Come mai gliel’hanno lasciata così facile?”
“Be’, il tizio ch’è venuto parlava tutto gentile. ‘Ve ne dovete andare ma non è colpa mia.’ ‘Be’,’ gli ho detto io, ‘e di chi è la colpa? Così vado e gli spacco la faccia.’ ‘È della Shawnee Land and Cattle Company. Io piglio ordini e basta.’ ‘E chi è la Shawnee Land and Cattle Company?’ ‘Non è nessuno. È una società.’ Roba da diventarci matto. Non c’era nessuno per dirgli il fatto suo. Alla fine la nostra gente s’è stufata di cercare qualcuno per pigliarsela con lui… ma io no. Io ce l’ho a morte con tutti quanti. E da qui non me ne vado.”
Una grossa goccia di sole rosso indugiò sull’orizzonte, poi cadde e scomparve, e il cielo era luminoso nel punto dov’era scomparsa, e una nuvola lacera, come uno straccio insanguinato, pendeva sopra il punto dov’era scomparsa. E il crepuscolo cominciò a invadere il cielo da oriente, e il buio cominciò a invadere la terra da oriente. La stella della sera si accese luccicante nel crepuscolo. Il gatto grigio scivolò verso la porta aperta del fienile e sparì all’interno come un’ombra.
Joad disse: “Be’, ora non mi va di farmi otto miglia fino a casa di Zio John. Ho le fette in fiamme. Che ne dici se veniamo da te, Muley? C’è da camminare sì e no un miglio.”
“È inutile,” disse Muley, a disagio. “Mia moglie e suo fratello se ne sono andati coi bambini in California. Non c’era niente da mangiare. Non erano imbestialiti come me, e allora sono partiti. Qui non c’era più niente da mangiare.”
Il predicatore si mosse, inquieto. “Dovevi andare con loro. Non sta bene dividere la famiglia.”
“Non ce l’ho fatta,” disse Muley Graves. “C’era qualcosa che non mi lasciava.”
“Be’, io ho fame, perdio,” disse Joad. “È da quattr’anni che mangio a orari fissi. Ho le budella che gridano aiuto. Tu che mangi, Muley? Come te la riempi la pancia?”
Muley disse, a disagio: “Per un po’ ho mangiato rane e scoiattoli, qualche volta una marmotta. Non c’era altro. Ma ora ho messo un paio di trappole a laccio nei rovi del torrente. Piglio conigli, qualche volta polli selvatici. Ci trovo pure moffette e procioni”. Si chinò, raccolse la sacca e la svuotò sulla veranda. Due piccoli conigli selvatici e una grossa lepre ruzzolarono sulle assi, con un tonfo felpato di pelo soffice.
“Buon Dio!” fece Joad. “È da più di quattr’anni che non mangio carne fresca.”
Casy raccolse uno dei conigli e lo tenne alto con la mano. “Li dividi con noi, Muley Graves?” chiese.
Muley si dimenò, imbarazzato. “Non ho scelta.” S’interruppe, avvertendo lo sgarbo delle proprie parole. “Non è quello che voglio dire. Quello che voglio dire,” farfugliò, “quello che voglio dire è che se un tizio ha un po’ di roba da mangiare e un altro tizio ha fame… be’, il primo tizio non ha scelta. Voglio dire, non è che mi posso pigliare i miei conigli e me li vado a mangiare per conto mio, no?”
“Già,” disse Casy. “Certo. Muley ha azzeccato qualcosa, Tom. Ha messo il dito su qualcosa, ma mi sa ch’è troppo imbrogliata per lui, e mi sa ch’è troppo imbrogliata per me.”
Il giovane Tom si sfregò le mani. “Chi ce l’ha un coltello? Facciamoli fuori questi maledetti roditori. Forza, facciamoli fuori.”
Muley infilò una mano nella tasca dei pantaloni ed estrasse un coltello da caccia con il manico di corno. Tom Joad lo prese, aprì una lama e la fiutò. Affondò più volte la lama nel terreno e la fiutò di nuovo, poi la pulì sulla gamba dei pantaloni e con il pollice ne provò l’affilatura.
Muley cavò dalla tasca posteriore dei pantaloni una bottiglia d’acqua e la posò sulla veranda. “Andateci piano con l’acqua,” disse. “Non ce n’è più. Qui il pozzo l’hanno spianato.”
Tom afferrò un coniglio. “Uno di voi deve pigliare il fildiferro nel fienile. Il fuoco lo facciamo con un paio di quelle tavole rotte.” Guardò il coniglio morto. “Non c’è niente di più facile di preparare un coniglio,” disse. Stirò la pelle sul dorso, la squarciò, infilò le dita nello squarcio e scuoiò la bestia. La pelle venne via come una calza, venne via dal corpo fino al collo, e dalle zampe fino alle unghie. Joad impugnò di nuovo il coltello e mozzò la testa e i piedi della bestia. Distese la pelle sul pavimento della veranda, aprì il coniglio sull’addome, lo scosse per far cadere le interiora sulla pelle, poi buttò pelle e interiora nel campo di cotone. Il piccolo corpo dai muscoli lisci era pronto. Joad tagliò le gambe e spartì in due pezzi il dorso carnoso. Stava raccogliendo il secondo coniglio quando Casy tornò con una matassa di fildiferro. “Ora accendete il fuoco e piantate due picchetti,” disse Joad. “Cristo, che fame mi mettono queste bestie!” Scuoiò gli altri due conigli, li fece a pezzi e li infilzò col fildiferro. Muley e Casy staccarono alcune tavole rotte dal cantone sfondato della casa e accesero il fuoco. Poi piantarono due picchetti sui lati per sorreggere il fildiferro.
Muley si voltò verso Joad. “Vedi se quella lepre ha le pustole,” disse. “Non mi va di mangiare roba malata.” Trasse dalla tasca un sacchetto di tela e lo posò sulla veranda.
Joad disse: “Questa bestia è più sana di te… Cristo santo, hai pure il sale? Per caso hai pure tre piatti e una tenda in quella tasca?” Si versò un po’ di sale nella mano e lo sparse sui pezzi di carne infilzati.
Le fiamme guizzavano e proiettavano ombre sulla casa, e la legna secca crepitava e scricchiolava. Il cielo si era fatto quasi nero e le stelle spiccavano nette. Il gatto grigio uscì dal fienile e trotterellò miagolando verso il fuoco, ma poco prima di arrivarvi deviò e puntò su uno dei mucchietti di budella gettati nel campo. Cominciò a masticare e a inghiottire, e le budella gli pendevano dalle labbra.
Casy sedeva a terra accanto al fuoco, alimentando le fiamme con le tavole rotte, sospingendo le lunghe tavole man mano che le fiamme ne consumavano la punta. I pipistrelli irrompevano nella luce del fuoco e svolazzavano via. Il gatto tornò ad accucciarsi, si leccò le labbra e si lavò il muso e i baffi.
Joad sollevò il fildiferro con la carne infilzata e, tenendolo teso tra le mani, si avvicinò al fuoco. “Ecco, piglia questo capo, Muley. Giralo intorno al picchetto. Bravo, così! Ora tiriamolo bene. Mi sa che il fuoco è troppo alto, ma non mi va di aspettare che cala.” Tirò il fildiferro per tenderlo bene, poi trovò un legnetto e spinse i pezzi di carne lungo il filo per farli arrivare a picco sul fuoco. E le fiamme si allungarono a lambire la carne, dorando la superficie e indurendola. Joad sedette accanto al fuoco, ma con il legnetto continuò a smuovere e a girare i pezzi di carne per non lasciarli incollare al fildiferro. “Questo qui è un banchetto,” disse. “Sissignore, un vero banchetto. Muley ci ha messo il sale, l’acqua e i conigli. Peccato che in quella tasca non ci stava pure una bella zuppa di mais. Tocca accontentarsi.”
Muley si sedette accanto al fuoco. “Magari vi pare che sono suonato a vivere così.”
“Suonato un corno,” disse Joad. “Se sei suonato tu, peccato che non sono suonati tutti.”
Muley continuò: “Be’, è una roba strana. M’è successo qualcosa quando m’hanno detto di sloggiare. Prima m’è venuta voglia di ammazzare un bel po’ di gente. Poi la mia famiglia se n’è andata tutta quanta all’Ovest. Allora mi sono messo a girare. Di qua e di là. Senza mai allontanarmi. Dormivo dove arrivavo. Stanotte volevo dormire qui. È per questo che sono venuto. Mi dicevo: ‘Tengo d’occhio la roba, così quando la gente torna trova tutt’a posto’. Ma sapevo che non era vero. Non c’è niente da tenere d’occhio. La gente non torna più. E io sto solo andando in giro come un maledetto fantasma di cimitero”.
“Uno s’abitua a dove vive, e fa fatica a andarsene,” disse Casy. “Uno s’abitua a come pensa, e fa fatica a cambiare. Io non sono più un predicatore, ma mi scopro sempre lì a pregare, senza manco capire che lo faccio.”
Joad girò i pezzi di carne sul fildiferro. Adesso il sugo sgocciolava, e ogni goccia, cadendo nel fuoco, attizzava le fiamme. La superficie liscia della carne cominciava a incresparsi e a prendere una tinta brunastra. “Sentite che profumo,” disse Joad. “Cristo, sentite che profumo che fa!”
Muley proseguì. “Come un maledetto fantasma di cimitero. Mi sono girato tutti i posti dov’è successo qualcosa. Come quel greto vicino ai nostri quaranta acri, con dentro la siepe selvatica. La prima volta che mi sono fatto una ragazza è stato lì. Avevo quattordici anni, e scalciavo e sbuffavo come un cervo, infoiato come un caprone. Allora sono andato lì e mi sono sdraiato per terra, e m’è tornato tutto davanti come la prima volta. E c’è quell’altro posto vicino al fienile, dove Pa’ è morto sbudellato da un toro. E il suo sangue è ancora su quella terra lì. Dev’esserci per forza. Nessuno l’ha mai lavato via. E ho messo la mano su quella terra dov’è mischiato il sangue di mio padre.” Tacque, a disagio. “Vi pare che sono suonato?”
Joad girò la carne, e aveva lo sguardo assorto. Casy, con le gambe raccolte, fissava il fuoco. Il gatto si era accoccolato a qualche metro da loro, ormai sazio, con la lunga coda grigia accuratamente avvolta intorno alle zampe anteriori. Un grosso gufo passò ululando sopra di loro, e il bagliore del fuoco illuminò il bianco del suo ventre e l’apertura delle ali.
“No,” disse Casy. “Sei solo, ma non sei suonato.”
La piccola faccia tirata di Muley era rigida. “Ho messo la mano sulla terra dove c’è ancora quel sangue. E ho visto mio padre con un buco nel petto, e l’ho sentito che rabbrividiva addosso a me come quel giorno, e l’ho visto che si poggiava per terra e allungava le mani e i piedi. E ho visto i suoi occhi tutti bui di dolore, e poi di colpo era immobile e i suoi occhi erano limpidi… e guardavano in alto. E io ero un bambino seduto lì, senza piangere né niente, seduto lì e basta.” Scosse bruscamente la testa. Joad rigirò la carne, e la rigirò ancora. “E sono andato nella stanza dov’è nato Joe. Il letto non c’era più, ma la stanza era quella. E questa roba è tutta vera, e sta tutta nel posto dov’è capitata. Joe è nato proprio lì dentro. S’è fatto la bocca tutta grande e ha tirato uno strillo che lo sentivi a un miglio, e sua nonna stava lì accanto e gli faceva ‘Picci picci, picci picci,’ e non smetteva mai. E quella sera era così fiera che s’è sbronzata marcia.”
Joad si schiarì la voce. “Mi sa ch’è meglio mangiarla subito.”
“Falla cuocere un altro po’, dev’essere scura, quasi nera,” disse Muley, infastidito. “Voglio parlare. Non ho parlato mai con nessuno. Se sono suonato, sono suonato e non c’è niente da fare. Come un maledetto fantasma di cimitero a girare di notte per le case dei vicini. Dai Peters, dai Jacobs, dai Rance, dai Joad; e le case tutte buie, sfasciate come baracche, e invece lì si faceva festa e si ballava. E si facevano i riti e la gente gridava la gloria del Signore. E lì dentro si facevano pure i matrimoni. E ogni volta mi viene d’andare in città e ammazzare qualcuno. Perché cosa gli è venuto in tasca dopo che hanno mandato i trattori e hanno cacciato la gente dalle proprietà? Cosa si sono pigliati per mettere al sicuro il loro ‘margine di profitto’? Si sono pigliati Pa’ che moriva per terra, e Joe che faceva il suo primo strillo, e io che scalciavo come un caprone sotto una siepe quella notte. Cosa gli è venuto in tasca? Dio lo sa che questa terra non vale niente. È da anni che nessuno riesce a farci un raccolto decente. Ma quei figli di puttana seduti nei loro uffici hanno solo tagliato a metà la gente per il loro margine di profitto. L’hanno tagliata a metà, proprio così. La gente è il posto dove vive. E la gente non è più intera se l’ammucchi in una macchina e la mandi da sola chissà dove. Non è più viva. Quei figli di puttana hanno ammazzato la nostra gente.” E tacque, con le labbra sottili che ancora si muovevano, il petto che ancora ansimava. Si sedette e si guardò le mani alla luce del fuoco. “È… è da un pezzo che non parlavo con qualcuno,” si scusò sottovoce. “Sempre lì a girare come un maledetto fantasma di cimitero.”
Casy spinse le lunghe tavole dentro il fuoco, le fiamme crepitarono e guizzarono di nuovo verso la carne. Dalla casa arrivavano scricchiolii sempre più sonori man mano che l’aria fresca della notte faceva contrarre il legno. Casy disse piano: “Devo parlare colla gente ch’è andata via. Sento che ci devo parlare. Avranno bisogno di un aiuto che nessun predicatore può dargli. Sperare nel paradiso, quando la vita non l’hanno vissuta? Spirito Santo, quando il loro spirito è avvilito e triste? Avranno bisogno d’aiuto. Devono vivere prima di poter morire”.
Joad, spazientito, gridò: “Cristo santo, mangiamoci questa carne prima che si rattrappisce come un topo arrosto! Guardate che meraviglia. Sentite che profumo”. Balzò in piedi e fece scorrere i pezzi di carne sul filo, allontanandoli dalle fiamme. Prese il coltello dalla tasca di Muley e segò un pezzo di carne fino a liberarlo dal filo. “Questo è per il predicatore,” disse.
“T’ho detto che non sono un predicatore.”
“Be’, allora è per l’uomo.” Tagliò un altro pezzo. “Piglia, Muley, se non sei troppo agitato per mangiare. Questa è lepre. Tosta come un bue.”
Si rimise a sedere, affondò i lunghi denti nella carne, ne staccò un grosso boccone e cominciò a masticarlo. “Cristo santo! Sentite come scrocchia!” E staccò voracemente un altro boccone.
Muley, seduto, fissava il suo pezzo di carne. “Mi sa che non dovevo parlare così,” disse. “Mi sa che quella roba è meglio tenersela in testa.”
Casy lo guardò, con la bocca piena di coniglio. Masticò, e la sua gola muscolosa si contrasse nel mandar giù il boccone. “Invece hai fatto bene a parlare,” disse. “Certe volte un uomo triste può togliersi la tristezza facendola uscire dalla bocca. Certe volte un uomo con la voglia d’ammazzare può farsela uscire dalla bocca e non ammazzare nessuno. Hai fatto bene. Non ammazzare nessuno, se puoi.” E addentò un altro pezzo di coniglio. Joad gettò gli ossi nel fuoco, balzò in piedi e staccò un altro pezzo di carne dal filo. Muley aveva cominciato a mangiare, lentamente, e i suoi occhietti nervosi passavano dall’uno all’altro dei suoi compagni. Joad mangiava ringhiando come una bestia, e intorno alla sua bocca si era formato un anello di grasso.
Muley lo guardò a lungo, quasi timidamente. Abbassò la mano che teneva la carne. “Tommy,” disse.
Joad alzò gli occhi continuando a maciullare la carne. “Sì?” disse, attraverso un boccone.
“Tommy, ce l’hai con me perché ho parlato d’ammazzare? Ti sei seccato, Tom?”
“No,” disse Tom. “Non mi sono seccato. È roba che capita.”
“Lo sapevano tutti che non era colpa tua,” disse Muley. “Il vecchio Turnbull ha detto che ti voleva fare secco appena uscivi dal carcere. Ha detto che nessuno poteva ammazzargli un figlio. Ma qui tutti quanti gli hanno parlato e sono riusciti a calmarlo.”
“Eravamo sbronzi,” disse piano Joad. “Sbronzi, al ballo. Non so com’è ch’è cominciata. Poi ho sentito quel coltello che m’entrava dentro, e m’è passata la sbornia. Ho visto Herb che arrivava di nuovo col coltello. E c’era quella pala poggiata al muro della scuola, allora l’ho pigliata e gliel’ho sbattuta in testa. Mai avuto nessun problema con Herb. Era una brava persona. Da piccolo correva dietro a mia sorella Rosasharn.4 No, Herb mi stava simpatico.”
“È quello che hanno detto tutti al vecchio Turnbull, e alla fine l’hanno calmato. Dicono che ha sangue Hatfield per parte di madre, e che doveva fargli onore. Io questo non lo so. Lui e i suoi se ne sono andati in California sei mesi fa.”
Joad staccò l’ultimo tocco di carne dal filo e lo passò in giro. Tornò a sedersi e riprese a mangiare, adesso più lentamente, masticando piano, e con la manica si asciugava il grasso intorno alla bocca. E i suoi occhi, scuri e socchiusi, fissavano pensosamente il fuoco che illanguidiva. “Vanno tutti all’Ovest,” disse. “Io sono fuori sulla parola. Non posso lasciare lo Stato.”
“Sulla parola?” chiese Muley. “L’ho già sentita questa roba. Come funziona?”
“Be’, sono uscito prima, tre anni prima. Gli ho dato la mia parola che faccio delle cose, e se non le faccio mi rimettono al fresco. Devo andare a firmare ogni tanto.”
“Come t’hanno trattato a McAlester? Il cugino di mia moglie c’è stato e dice che ha visto l’inferno.”
“Non è malaccio,” disse Joad. “Come in tutti i posti. L’inferno te lo fanno vedere quando sei tu a fare l’inferno. Te la passi bene se non ti piglia storto qualche secondino. Allora sì che vedi l’inferno. Io me la sono passata bene. Mi facevo i fatti miei, come tutti quanti. Ho imparato a scrivere che manco te l’immagini. Pure uccelli e roba così, mica solo a scrivere parole. Chissà come ci resta male il mio vecchio appena gli faccio un uccello con una botta di matita. Capace che diventa una bestia se mi vede che faccio una roba così. Non gli piacciono queste cose da ricchi. Non gli piace manco scrivere le parole. Gli mette paura, mi sa. Ogni volta che Pa’ ha visto roba scritta era qualcuno che gli portava via qualcosa.”
“Non t’hanno picchiato o roba così?”
“No, mi facevo gli affari miei. Certo, poi ti stufi di fare la stessa roba ogni maledetto giorno per quattro anni. Se hai fatto qualcosa che ti fa vergognare, magari ti metti a pensare a quello. Ma io no, accidenti: se ora Herb era vivo e mi veniva addosso col coltello, io gli spaccavo la pala in testa un’altra volta.”
“Come tutti,” disse Muley. Il predicatore guardava il fuoco, e la sua alta fronte era bianca nel buio sempre più fitto. Il luccichio delle fiamme ormai basse faceva risaltare i muscoli del suo collo. Teneva le mani intrecciate sulle ginocchia, intento a far scrocchiare le giunture.
Joad gettò gli ultimi ossi nel fuoco, poi si leccò le dita e le asciugò sui pantaloni. Si alzò, andò a prendere la bottiglia d’acqua sulla veranda, bevve un piccolo sorso e la passò in giro prima di rimettersi a sedere. Continuò: “Quello che mi seccava di più è che non serviva a niente. Non è che stai lì a chiederti a che serve quando un fulmine t’ammazza una vacca, o quando arriva l’inondazione. Sai che le cose vanno così. Ma se un gruppo di gente ti piglia e ti sbatte al fresco per quattro anni, deve servire a qualcosa. Uno a queste cose ci pensa. Dico, mi sbattono dentro, mi tengono lì e mi danno da mangiare per quattro anni. Dovrebbe servire a farmi cambiare, così non lo rifaccio più; o sennò dovrebbe servire a spaventarmi, così mi passa la voglia di rifarlo”. Tacque per qualche istante. “Ma se ora vedo uno come Herb che m’arriva addosso col coltello, io lo rifaccio. Lo rifaccio senza manco pensarci. Soprattutto se sono sbronzo. Non serve a niente, è questo che non capisco.”
Muley osservò: “Il giudice t’ha calato la pena perché dice che non era tutta colpa tua”.
Joad disse: “A McAlester c’è un tizio… uno coll’ergastolo. Sta tutt’il tempo a studiare. Fa il segretario del direttore: scrive le lettere del direttore e roba del genere. È uno con una testa grossa così e si studia le leggi e tutte quelle cose. Be’, una volta gliel’ho chiesto a lui, perché è uno che legge un sacco di roba. E lui m’ha detto che non serve a niente leggere i libri. Dice che lui ha letto tutti i libri sulle prigioni di ora e pure di quelle vecchie, ma non è ancora riuscito a capire a che serve mandare in prigione la gente. Dice che questa cosa è cominciata non si sa quando, e che nessuno è mai riuscito a fermarla, e che nessuno ha abbastanza cervello per riuscire a cambiarla. M’ha detto: ‘Per carità, non leggere niente su questa roba, perché per prima cosa ti confonde ancora di più, e poi ti fa passare tutto il rispetto per quelli che governano i paesi’.”.
“Io di rispetto per loro ce n’ho poco già ora,” disse Muley. “Qui l’unico governo che abbiamo è il ‘margine di profitto’. C’è una cosa che m’ha rivoltato le budella, e è che su quel trattore c’era Willy Feeley… c’era lui a fare i comodi del padrone sulla terra dove i suoi hanno buttato il sangue. Non lo capisco. Metti ch’era uno di fuori e non conosceva nessuno, allora lo capivo. Ma Willy è uno di qua. E siccome non lo capivo, l’ho fermato e gliel’ho chiesto. E lui subito s’è imbestialito. ‘Guarda che io ho due figli piccoli,’ mi fa. ‘Ho una moglie e la madre di mia moglie. Devo dargli da mangiare a tutti quanti.’ S’è imbestialito ancora di più. ‘Io devo pensare alla mia famiglia e basta,’ mi fa. ‘Quello che capita agli altri sono affari loro,’ mi fa. Era come se si vergognava, e allora s’imbestialiva.”
Jim Casy era rimasto a fissare il fuoco morente, e i suoi occhi si erano fatti più grandi e i muscoli del collo più tesi. All’improvviso gridò: “Ecco com’è! Se un uomo ha mai sentito il soffio dello spirito, ecco com’è! M’è venuto all’improvviso!”. Balzò in piedi e prese a camminare avanti e indietro, dondolando la testa. “Anni fa avevo una tenda. Ci venivano magari cinquecento persone ogni sera. Era prima che mi conoscevate.” S’interruppe e li guardò. “Ve lo ricordate che non facevo mai la colletta quando venivo qui a predicare, nei fienili e nelle aie?”
“Mai, manco una volta,” disse Muley. “Qui la gente era così abituata a non darti soldi, che s’arrabbiavano quando arrivava qualche altro pastore e faceva girare il cappello. Sissignore!”
“Mi pigliavo qualcosa da mangiare,” disse Casy. “Mi pigliavo un paio di pantaloni quando i miei erano consumati, o un vecchio paio di scarpe quando le mie erano bucate, ma non era come quando avevo la tenda. Lì certi giorni mi buscavo dieci o magari venti dollari. In quel modo non ero felice, allora ho lasciato perdere, e per un po’ sono stato felice. Mi sa che ora ho capito. Magari non riesco a dirlo chiaro. Magari non ci riesco… ma mi sa che c’è un posto per un predicatore. Magari posso predicare di nuovo. Sulle strade c’è gente sola, gente senza più terra, senza una casa dove andare. Almeno una casa comune la devono avere. Chissà…” Si alzò davanti al fuoco. I cento muscoli del suo collo si stagliavano in gran rilievo, e il bagliore del fuoco entrava nei suoi occhi e vi accendeva braci scarlatte. Immobile, Casy guardava il fuoco, il volto teso come fosse in ascolto, e le mani, fin lì convulse nell’individuare, maneggiare, scagliare idee, si placarono, e dopo qualche istante scomparvero nelle sue tasche. I pipistrelli svolazzavano dentro e fuori la luce ormai tenue del fuoco, e dall’altro lato dei campi arrivava il debole borbottio di un gufo.
Tom frugò silenziosamente nella tasca dei pantaloni, tirò fuori il tabacco e si preparò lentamente una sigaretta, guardando le braci mentre la arrotolava. Ignorò tutta la tirata del predicatore, come se riguardasse una faccenda privata che non andava approfondita. Disse: “Io ogni notte in cella pensavo a cosa trovavo quando tornavo a casa. Mi dicevo che magari Nonno e Nonna erano morti, e magari c’era qualche bambino nuovo. Magari Pa’ non era più così tosto. Magari Ma’ se la pigliava più comoda e lasciava fare a Rosasharn. Sapevo che non poteva essere più come prima. Be’, mi sa ch’è meglio se dormiamo qui, così quando fa giorno andiamo da Zio John. Io ci vado, tu Casy vieni con me?”.
Il predicatore stava ancora guardando le braci, immobile. Disse lentamente: “Sì, vengo con te. E quando la tua gente si metterà in viaggio, sarò con loro. E dove ci sarà gente in viaggio, sarò con loro”.
“Saranno contenti,” disse Joad. “A Ma’ sei sempre piaciuto. Diceva ch’eri un predicatore onesto. Rosasharn era ancora piccola.” Voltò la testa. “Muley, vieni pure tu?” Muley stava guardando verso la strada da cui erano venuti. “Vuoi venire con noi, Muley?” ripeté Joad.
“Eh? No. Io non vado in nessun posto, e non me ne vado da nessun posto. Vedi laggiù quella luce che sale e scende? Mi sa ch’è il sorvegliante del campo. Capace che hanno visto il nostro fuoco.”
Tom guardò. La luce si avvicinava dall’alto della collina. “Non facciamo niente di male,” disse. “Siamo seduti qui e basta. Non facciamo niente.”
Muley ridacchiò. “Certo! Per fare qualcosa basta che siamo qui. È proprietà privata. Non ci possiamo stare. È da due mesi che cercano di beccarmi. Sentite, se quella è una macchina dobbiamo andare a sdraiarci in mezzo al cotone. Non c’è da andare lontano. Poi voglio vedere se ci trovano, perdio! Gli tocca controllare fila per fila. Basta che tenete la testa bassa.”
Joad gli chiese: “Che t’è successo, Muley? Non eri di quelli che scappano a nascondersi. Eri un tipo tosto”.
Muley guardò la luce che si avvicinava. “Già,” disse. “Ero tosto come un lupo. Ora sono tosto come una donnola. Quando cacci qualcosa sei cacciatore, e sei forte. Il cacciatore non lo frega nessuno. Ma quando sei la preda… è diverso. Ti succede qualcosa. Non sei forte; magari sei feroce, ma non sei forte. Io è da un pezzo che sono la preda. Non sono più il cacciatore. Magari sparo a qualcuno quand’è buio, ma non piglio più nessuno a bastonate. È inutile raccontarsi storie. È così che stanno le cose.”
“Be’, allora vatti a nascondere,” disse Joad. “Io e Casy restiamo qui a dire un paio di cose a quei bastardi.” Adesso il fascio di luce era più vicino. Sobbalzava verso il cielo, poi scompariva, poi daccapo sobbalzava. I tre uomini guardavano.
Muley disse: “Quando sei la preda ti capita pure un’altra cosa. Ti metti a pensare a tutti i pericoli di quello che fai. Quando sei il cacciatore non ci pensi, e non hai paura. Prima hai detto che se ti metti nei guai ti sbattono di nuovo a McAlester”.
“È vero,” disse Joad. “È così che m’hanno detto, ma star seduto qui a riposare o dormire per terra non è mettersi nei guai. Non è fare qualcosa di male. Non è come sbronzarsi o pigliare a pugni la gente.”
Muley rise. “Vedrai. Tu resta seduto qui e fa’ arrivare quella macchina. Magari è Willy Feeley, che l’hanno pure fatto vicesceriffo. ‘Che ci fai qui ch’è proprietà privata?’ dice Willy. E tu lo sai ch’è un pallone gonfiato, e allora gli dici: ‘A te che ti frega?’. Willy s’imbestialisce e ti fa: ‘Vattene o ti sbatto dentro’. Ma tu non pigli ordini da uno come Feeley, che fa la voce grossa perché si spaventa. E così lui non può mollare perché sennò ci perde la faccia, tu l’hai sfidato e non ti puoi tirare indietro… Cavolo, è molto più semplice se andiamo a nasconderci nel cotone e li molliamo lì a cercarci. E è pure più spassoso, perché loro s’imbestialiscono e non ci possono fare niente, e tu sei lì che gli ridi dietro. Ma se ti metti a parlare con Willy o un altro sorvegliante, finisce che gli spacchi la faccia e ti ritrovi a McAlester per altri tre anni.”
“È vero,” disse Joad. “Tutto quello che dici è vero. Ma io non mi faccio mettere i piedi in testa da nessuno, perdio! Preferisco mille volte spaccare la faccia a Willy.”
“Ha la pistola,” disse Muley. “E la userà perché è vicesceriffo. A quel punto, o lui ammazza te o tu riesci a togliergli la pistola e ammazzi lui. Dai, Tommy. Vedrai che ti viene facile raccontarti che li stai fregando, sdraiato lì in mezzo al cotone. E l’importante è quello che uno riesce a raccontarsi.” Adesso i due fasci luminosi puntavano verso il cielo, e si udiva il ronzio costante di un motore d’auto. “Dai, Tommy. Non c’è da andare lontano, bastano dieci o quindici file e possiamo guardare che fanno.”
Tom si alzò in piedi. “Perdio, hai ragione!” disse. “Non ci guadagno niente in nessun caso.”
“Su allora, da questa parte.” Muley girò intorno alla casa e si addentrò per una cinquantina di metri nel campo di cotone. “Qui va bene,” disse. “Ora mettetevi giù. Tocca solo abbassare la testa se accendono il riflettore. Vi dico ch’è uno spasso.” I tre uomini si sdraiarono a terra e si sollevarono sui gomiti. Muley balzò in piedi e corse verso la casa, e dopo qualche istante tornò e lasciò cadere a terra un fagotto di panni e scarpe. “Capace che se li portavano via per vendicarsi,” disse. Le luci apparvero in cima al pendio e cominciarono a scendere verso la casa.
Joad chiese: “E se ci vengono a cercare colle torce elettriche? Peccato che non ho un bastone”.
Muley ridacchiò. “No, non vengono. T’ho detto che sono tosto come una donnola. Una notte Willy ci ha provato, allora gli sono arrivato dietro e gli ho dato una botta in testa con un picchetto. L’ho lasciato lì mezzo svenuto. Poi ha detto in giro che gli erano saltati addosso in cinque.”
L’auto arrivò davanti alla casa e un riflettore si accese. “Giù!” disse Muley. Il fascio di luce bianca e fredda passò sopra di loro e spazzò il campo. I tre, nascosti, non potevano vedere niente, ma udirono una portiera sbattere e udirono voci. “Si spaventano a mettersi davanti ai fari,” bisbigliò Muley. “Un paio di volte ho sparato ai fari. E Willy è diventato prudente. Stasera s’è portato dietro qualcuno.” Udirono rumore di passi sul legno, poi videro un balenio di torcia elettrica dentro la casa. “Gliela sparo una rivoltellata alla casa?” sussurrò Muley. “Non possono vedere da dove arriva. Così ci pensano un po’.”
“Certo, spara,” disse Joad.
“Non farlo,” sussurrò Casy. “Non serve a niente. Roba inutile. Dobbiamo pensare a fare solo le cose che servono.”
Si udì un trapestio vicino alla casa. “Spengono il fuoco,” sussurrò Muley. “Ci buttano su il terriccio coi piedi.” Le portiere dell’auto sbatterono, le luci dei fari ruotarono e illuminarono di nuovo la strada. “Tutti giù!” disse Muley. Abbassarono la testa e il fascio del riflettore passò sopra di loro e spazzò a più riprese il campo di cotone, poi l’auto si mosse, scivolò via, risalì il pendio, scomparve.
Muley si alzò a sedere. “Willy finisce sempre con una botta di riflettore. L’ha fatto tante di quelle volte che ormai so quando arriva. E si crede ancora ch’è una bella pensata.”
Casy disse: “Magari hanno lasciato qualcuno in casa. Per beccarci appena torniamo”.
“Già. Voi aspettatemi qui. Lo so com’è la storia.” Si allontanò in silenzio, e solo un leggero stropiccio di zolle tradiva il suo passaggio. I due in attesa cercavano di udirlo, ma era come svanito. Dopo un po’, li chiamò dalla casa: “Non hanno lasciato nessuno. Venite”. Casy e Joad si rialzarono e si diressero verso la massa nera della casa. Muley li aspettava accanto al mucchietto di terriccio fumante che era stato il loro fuoco. “Lo sapevo che non lasciavano nessuno,” disse orgoglioso. “Dopo la legnata a Willy e le rivoltellate ai fari sono diventati prudenti. Non capiscono chi può essere, e io non mi faccio beccare. Non dormo mai vicino alle case. Venite, vi faccio vedere il posto per dormire. Lì non c’inciampa addosso nessuno.”
“Va’ avanti, ti seguiamo,” disse Joad. “Chi me lo doveva dire che nella terra di mio padre mi toccava nascondermi!”
Muley si avviò in mezzo ai campi, e Joad e Casy lo seguirono. Avanzavano facendosi largo tra le piante di cotone. “Ti toccherà nasconderti da un sacco di cose,” disse Muley. Marciarono in fila indiana attraverso i campi. Giunsero a una forra e si lasciarono scivolare agilmente sul fondo.
“Perdio, ma io questa la conosco!” gridò Joad. “Nell’argine c’è una galleria, vero?”
“Proprio così. Come lo sai?”
“L’ho scavata io,” disse Joad. “L’abbiamo scavata io e mio fratello Noah. Dicevamo che era per cercare l’oro, ma volevamo solo scavare gallerie come fanno tutti i bambini.” Ora le pareti della forra erano alte sopra di loro. “Mi sa che ci siamo,” disse Joad. “Me la ricordo abbastanza vicina.”
Muley disse: “L’ho nascosta colle frasche. Non la può trovare nessuno”. Ora il fondo della gola era liscio, e sotto i loro piedi c’era sabbia.
Joad si sdraiò sulla sabbia pulita. “Non mi va di dormire in una galleria,” disse. “Io dormo qui.” Arrotolò la giacca e se la mise sotto la testa.
Muley scostò le frasche che chiudevano la galleria e s’infilò all’interno. “Io qui dentro ci sto bene,” disse. “È come se nessuno mi può fare niente.”
Jim Casy si sedette sulla sabbia accanto a Joad.
“Dormi,” disse Joad. “Quando fa giorno andiamo da Zio John.”
“Non mi va di dormire,” disse Casy. “Ho troppa roba da pensare.” Alzò i piedi e raccolse le ginocchia tra le braccia. Rovesciò la testa e guardò le stelle luccicanti. Joad sbadigliò e si mise una mano dietro la nuca. Tacevano, e pian piano la vita furtiva del suolo, la vita di tane, crepe e cespugli, ricominciò: le marmotte trottavano, i conigli avanzavano furtivi verso cose verdi, i topi s’infilavano tra le zolle, e i cacciatori alati passavano in silenzio sopra di loro.
4 Dalla “rosa di Saron” citata nel Cantico dei Cantici (2.1). Nell’uso famigliare, il nome Rose of Sharon viene contratto in Rosasharn. (N.d.T.)Capitolo 7
Nelle città, all’ingresso delle città, nei campi, nelle aree dismesse, le rivendite di auto usate, le rivendite di catorci, i garage dalle insegne roboanti: Auto usate, Auto usate d’occasione. Ford 1927 in ottimo stato. Auto certificate, auto garantite. Radio gratis. Auto con 300 litri di benzina gratis. Entrate e guardate. Auto usate. Nessun ricarico.
Uno spiazzo e una casupola abbastanza grande da farci star dentro una scrivania, una sedia e un quaderno blu. Fasci di contratti compilati, sgualciti e tenuti insieme da graffette, e una pila ordinata di contratti in bianco. La penna… tienila sempre pronta, assicurati che scriva. Un affare è sfumato perché la penna non scriveva.
Quei figli di puttana laggiù non stanno comprando. Vanno da un rivenditore all’altro. Sono di quelli che guardano e basta. Stanno tutt’il tempo a guardare. Non hanno nessuna intenzione di comprarsi una macchina; non sprecare il tuo tempo con loro. Quelli se ne fottono del tuo tempo. Quei due lì dietro… no, quelli coi bambini. Schiaffali in una macchina. Parti da duecento e cala un po’. Hanno la faccia giusta per centoventicinque. Scaldali. Fagli fare un giro in carriola. Ammollagliela! Fa’ fruttare il tuo tempo.
Titolari con le maniche rimboccate. Venditori azzimati, spietati, occhi minuscoli in cerca di punti deboli.
Tieni d’occhio la moglie. Se alla moglie piace, il marito è fottuto. Falli cominciare con quella Cadillac. Poi scendi fino a quella Buick del ’26. Se cominci con la Buick, quelli ripiegano su una Ford. Rimboccati le maniche e mettiti al lavoro. Questa pacchia non durerà per sempre. Mostragli quella Nash mentre io faccio gonfiare la gomma a terra di quella Dodge ’25. Ti faccio segno appena ho finito.
Vi serve roba robusta, no? Per voi niente fronzoli. Lo so che la tappezzeria è consumata. Non sono i cuscini a far girare le ruote.
Auto allineate, radiatori in fila, radiatori arrugginiti, gomme sgonfie. Parcheggiate strette l’una all’altra.
Vuole salire su quella? Certo, nessun problema. La spingo fuori dalla fila.
Falli sentire in obbligo. Fagli pesare il tempo che gli dedichi. Non si devono scordare che gli stai dedicando il tuo tempo. Le persone sono gentili, in genere. Gli dispiace deludere. Tu fa’ il deluso e appioppagli il catorcio.
Auto allineate, vecchie Ford T, alte e spocchiose, volante che cigola, copertoni lisci. Buick, Nash, De Soto.
Sissignore. È una Dodge del ’22. La miglior Dodge che sia mai stata fabbricata. Resistentissima. Bassa compressione. L’alta compressione dà grinta per un po’, ma a lungo andare anche la lega migliore non regge. Plymouth, Rockne, Star.
Cristo santo, da dove sbuca quella Apperson, dall’Arca di Noè? E quella Chalmers e quella Chandler… è da anni che non le fanno più. Altro che macchine, qui vendiamo ferraglia ambulante. Ma i catorci mi servono. Non voglio niente che costi più di venticinque, trenta dollari. Li rivendiamo a cinquanta, settantacinque. È un signor margine. Dio santo, che margine ti dà un’auto nuova? Meglio i catorci. Riesco a rivenderli appena li compro. Niente che costi più di duecentocinquanta. Jim, acchiappami quel fessacchiotto sul marciapiedi. Quello non distingue il suo culo da un buco per terra. Prova a rifilargli la Apperson. Ma che fine ha fatto la Apperson? Venduta? Se non ci procuriamo altri catorci non abbiamo più niente da vendere.
Bandierine, rosse e bianche, bianche e blu, lungo tutto il marciapiedi. Auto usate. Auto usate d’occasione.
L’offerta del giorno, lì sulla pedana. Quella non la devi vendere. Serve a far entrare la gente. Se la vendessimo a quel prezzo non ci guadagneremmo un centesimo. Di’ che l’abbiamo appena venduta. Togli la batteria buona prima di fare la consegna. Mettici quella andata. Cristo, cosa pretendono per quattro soldi? Rimboccati le maniche e dacci dentro. Questa pacchia non durerà per sempre. Se avessi abbastanza catorci, tra sei mesi potrei ritirarmi a vita privata.
Ascolta, Jim, ho sentito il semiasse di quella Chevrolet. Fa rumore di cocci di bottiglia. Mettici un po’ di segatura. Mettila pure nel cambio. Dobbiamo liberarci di quel rottame per trentacinque dollari. Con la Chevvy quel bastardo mi ha fregato. Gli offro dieci, lui rilancia a quindici, e poi il figlio di puttana si porta via tutti gli attrezzi. Dio santo, se avessi cinquecento catorci! Questa pacchia non può durare. Dice che i copertoni non gli piacciono? Digli che hanno diecimila miglia e levagli un dollaro e mezzo.
Mucchi di rottami arrugginiti lungo la recinzione, file di carcasse nel retro, paraurti, rottami neri di grasso, motori poggiati per terra, con l’ortica che cresce tra i cilindri. Tiranti di freni e tubi di scarico impilati come serpenti. Grasso, benzina.
Vedi se riesci a trovarmi una candela che non sia spaccata. Dio santo, se avessi cinquanta roulottes a meno di cento dollari mi arricchirei. Che cavolo ha da lamentarsi? Noi le vendiamo, mica gliele scarrozziamo a casa. Mi piace! Non ve le scarrozziamo a casa. Va bene come inserzione sul Monthly. Dici che quello non compra? E allora sbattilo fuori. Abbiamo troppo da fare per perder tempo con uno che non si decide. Smonta l’anteriore destra dalla Graham. Metti sotto la parte riparata. Il resto sembra nuovo. Ha il battistrada e tutto quanto.
Certo! Quell’arnese ne ha fatte già cinquantamila. Basta tenerla sempre giusta di olio. Tanti saluti. Buona fortuna.
Vuole una macchina? Ha già un’idea precisa? Vede qualcosa che le piace? Sto morendo di sete. Le va un goccetto di roba buona? Su, mentre la sua signora guarda quella La Salle. Io la La Salle non gliela consiglio. Ha i cuscinetti andati. Consuma troppo olio. Ho una Lincoln del ’24. Quella sì che è una macchina. Le dura per tutta la vita. Può farci un camioncino.
Sole rovente su metallo arrugginito. Olio per terra. La gente si aggira, stordita, bisognosa di un’auto.
Pulisciti i piedi. Non ti appoggiare a quella macchina, è sporca. Come si compra una macchina? Quanto costa? Sta’ attenta ai bambini. Quanto vorranno per questa? Possiamo chiedere. Chiedere non costa niente. Possiamo chiedere, no? Non possiamo spendere un centesimo più di settantacinque dollari, sennò non ci resta abbastanza per arrivare in California.
Cristo, se solo potessi avere cento catorci. Non m’interessa se vanno o no.
Pneumatici usati, pneumatici deteriorati, impilati uno sull’altro come alti cilindri; camere d’aria, rosse, grigie, appese come salsicce.
Toppe da pneumatico? Liquido per radiatori? Potenziatori di accensione? Metti questa pilloletta nel serbatoio e farai dieci miglia in più per ogni pieno. Basta una passata di vernice, e con cinquanta centesimi avrai una carrozzeria nuova. Tergicristalli, cinghie della ventola, guarnizioni? Forse sono le punterie. Sostituisci l’asta di punteria. Cosa rischi per cinque centesimi?
Allora siamo d’accordo, Joe. Tu li ammorbidisci un po’ e poi li mandi da me. Vedrai come li servo, li incanto e li stendo. Ma non mandarmi pezzenti. Voglio gente che sborsa.
Certo signore, entri pure. Lei sta facendo un affare. Sissignore! Per ottanta dollari è regalata.
Non posso spendere più di cinquanta. Il tizio là fuori ha detto cinquanta.
Cinquanta. Cinquanta? Dev’essere impazzito. Quel gioiellino mi è costato settantacinque dollari. Joe, pazzo scatenato che non sei altro, vuoi rovinarci? Io quello lì devo licenziarlo. Al massimo riesco a dargliela per sessanta. Senta, signore, non posso star qui a discutere tutta la giornata. Sono un commerciante ma non voglio approfittare di nessuno. Ha qualcosa da aggiungere ai contanti?
Ho un paio di muli.
Muli! Ehi, Joe, hai sentito? Questo qui vuole pagarmi coi muli. Non le hanno ancora detto che siamo nell’età delle macchine? Ormai i muli li usano solo per farci la colla.
Sono due bei muli, uno di cinque e uno di sette anni. Mi sa che è meglio provare da un’altra parte.
Provare da un’altra parte? Viene qui quando siamo pieni di lavoro, si prende il nostro tempo e poi vuole andare da un’altra parte! Joe, non ti sei accorto che stavi parlando con dei vagabondi?
Io non sono un vagabondo. Mi serve una macchina. Stiamo andando in California. Mi serve una macchina.
Be’, la verità è che sono un fesso. Joe dice sempre che sono un fesso. Dice che se non la smetto di regalare le cose finirò sul lastrico. Ora le dico cosa facciamo. Io da quei muli posso ricavare cinque dollari a testa per farci carne per i cani.
Non voglio darli via per farci carne per i cani.
Be’, magari riesco a farcene dieci o forse sette. Ecco cosa facciamo: quei due muli li valutiamo venti dollari. Compreso il carro, ovviamente. Lei mi versa cinquanta dollari e nel contratto s’impegna a spedirmi il resto a dieci dollari al mese.
Ma aveva detto ottanta.
Ha mai sentito parlare di tasse e assicurazione? L’importo effettivo è sempre un po’ più alto. In quattro o cinque mesi avrà saldato tutto. Firmi qui. Ci occupiamo di tutto noi.
Be’, non so se…
Oh, insomma. Io sono qui che le do la mia camicia e lei invece di ringraziarmi si mette a cincischiare. Lo sa che nel tempo che le ho dedicato avrei potuto concludere tre vendite? Robe da matti. Sì, la firma va lì. Oh, ce l’abbiamo fatta. Joe, fa’ il pieno alla macchina di questo signore. Gli regaliamo pure la benzina.
Cristo, Joe, hai visto che colpo? Quanto l’avevamo pagato quel catorcio? Trenta dollari… trentacinque? Già colla pariglia di muli dovrei buscarmi almeno il doppio, se non sono una schiappa di commerciante. Poi ci sono i cinquanta in contanti e il contratto per altri quaranta. Oh, lo so che c’è sempre qualche disonesto, ma ti stupirebbe vedere quanti sono quelli che pagano fino all’ultimo dollaro. Ce n’è stato uno che mi ha spedito cento dollari due anni dopo che l’avevo dato per disperso. Vuoi scommettere che questo paga fino all’ultimo dollaro? Cristo, se riuscissi a procurarmi cinquecento catorci! Rimboccati le maniche, Joe. Va’ fuori ad ammorbidirli e poi mandali da me. Voglio darti venti dollari su questo contratto. Non te la stai cavando male.
Bandierine pendule nel sole del pomeriggio. Offerta del giorno. Furgoncino Ford del ’29, buone condizioni.
Per cinquanta dollari cosa pretendi… una Zephyr?
Crini che sbucano dall’imbottitura dei sedili, parafanghi ammaccati e ribattuti col martello. Paraurti sganciati e ciondoloni. Ford spider de luxe con lucine colorate sulle pinne, sul tappo del radiatore, e tre sul cofano. Parafanghi cromati, grosso dado da gioco sulla leva del cambio. Sirenetta di nome Cora sulla fodera della ruota di scorta, dipinta a colori sgargianti. Sole pomeridiano sui parabrezza impolverati.
Cristo, non ho avuto tempo di andare a mangiare! Joe, manda un ragazzo a prendermi un hamburger.
Rumore tossicchiante di vecchi motori.
Joe, c’è un tizio colla faccia da fesso che sta guardando quella Chrysler. Vedi di capire se ha le tasche piene. Con questi campagnoli non si capisce mai. Ammorbidiscili e fammeli venire qui. Te la stai cavando bene.
Certo, l’abbiamo venduta noi. Garanzia? Noi garantiamo che è un’automobile. Non garantiamo di farle da balia. Mi stia a sentire… lei ha comprato un’auto, che ha da sbraitare? Non me ne frega un accidenti se non paga le rate. La sua pratica non la seguiamo noi. Se ne occupa la finanziaria. Saranno loro a farle causa, non noi. Noi non ci occupiamo di queste cose. Ah sì? Be’, ci provi e vedrà se non chiamo la polizia. No, non abbiamo sostituito le gomme. Sbattilo fuori, Joe. Ha comprato un’auto e ora dice che non è soddisfatto. È come se io ordinassi una bistecca, ne mangiassi metà e poi cercassi di riportarla indietro. Io sono un commerciante, non un ente di beneficenza. Joe, ma ha visto che tipo? Ehi… guarda lì! Quello ha il distintivo del Rotary! Corri, non fartelo scappare. Fagli vedere quella Pontiac del ’36. Muoviti.
Cofani squadrati, cofani bombati, cofani arrugginiti, cofani a badile, e le lunghe curve delle linee aerodinamiche, e le superfici piatte prima dell’aerodinamicità. Oggi Super-offerte. Vecchi mostri con imbottiture extra… quella non ci vuol niente a trasformarla in camioncino. Rimorchi a due ruote, assali arrugginiti nel torrido sole pomeridiano. Auto usate, Auto usate d’occasione. Pulita, buone condizioni. Non consuma olio.
Gesù, guarda che meraviglia! Questo sì che è aver cura di un’auto.
Cadillac, La Salle, Buick, Plymouth, Packard, Chevrolet, Ford, Pontiac. File e file, fari scintillanti nel sole pomeridiano. Auto usate d’occasione.
Ammorbidiscili, Joe. Cristo, se avessi mille catorci! Scaldali bene, e vedrai come li stendo.
Andate in California? Ho quello che vi serve. Ha l’aria stanca, ma ha ancora migliaia di miglia nella pancia.
Strette l’una all’altra. Auto usate d’occasione. Super-offerte. Pulita, buono stato.Capitolo 8
Il cielo tra le stelle sbiadiva, e il pallido quarto di luna era esile e vago. Tom Joad e il predicatore avanzavano di buon passo su un sentiero fatto solo di tracce di ruote e solchi di cingoli in mezzo a un campo di cotone. Solo lo sbilanciarsi del cielo indicava l’approssimarsi dell’alba: niente orizzonte a ovest, un’esile linea a est. I due uomini camminavano in silenzio e fiutavano la polvere che con i piedi scalciavano in aria.
“Speriamo che la strada te la ricordi bene,” disse Jim Casy. “Non mi va che quando fa giorno ci ritroviamo sperduti chissà dove.” Il campo di cotone fremeva di vita al risveglio, tra lo zampettio dei conigli spauriti tra le zolle e il frenetico frullo d’ali degli uccelli mattutini che piluccavano per terra. Sui segreti rumori dell’alba si stagliava il quieto tonfo dei loro passi sulla polvere, lo sgretolarsi delle zolle sotto le scarpe.
Tom disse: “Guarda che io lì ci so arrivare pure a occhi chiusi. Questa strada la posso sbagliare solo se ci penso. Basta che me la scordo e ci arrivo dritto filato. Io qui ci sono nato, perdio. Quand’ero piccolo venivo qui a giocare. Da queste parti c’è un albero… eccolo, vedi laggiù? Be’, un giorno il mio vecchio ha ammazzato un coyote e l’ha appeso a quell’albero. È rimasto lì un sacco di tempo, poi è caduto giù come se s’era squagliato. Pareva una pera rinsecchita. Cristo, speriamo che Ma’ sta facendo da mangiare. Ho la pancia vuota”.
“Pure io,” disse Casy. “Ti va di masticare un po’ di tabacco? Ti calma la fame. Era meglio se non ce n’andavamo così presto. Era meglio se aspettavamo l’alba.” Si fermò per staccare un morso dalla cicca. “Dormivo proprio bene.”
“È colpa di Muley,” disse Tom. “Quel pazzo m’ha messo l’agitazione. Mi sveglia e fa: ‘Tom, io me ne vado. Devo andare a vedere dei posti’. E dice: ‘Meglio che ve n’andate pure voi, così quando fa giorno non vi trovano qui’. A furia di vivere come una talpa è diventato strano. Pare sempre che ha gli indiani alle costole. Dici ch’è ammattito?”
“Non lo so. L’hai vista la macchina ch’è arrivata quando abbiamo acceso il fuoco. L’hai vista quella casa com’era conciata. Sta capitando qualcosa di brutto. Sì che Muley è pazzo, per forza. Se vai in giro come un coyote è chiaro che diventi pazzo. Prima o poi ammazzerà qualcuno e gli daranno la caccia coi cani. Me lo vedo come una profezia. A quello gli andrà sempre peggio. Di’, t’ha detto che con noi non ci voleva venire?”
“Già,” disse Joad. “Mi sa che la gente gli mette paura. Strano che ieri c’è venuto incontro. Su che manca poco, all’alba siamo a casa di Zio John.” Proseguirono in silenzio per un po’, mentre le ultime civette volavano verso i fienili, gli alberi cavi, le cisterne, per trovarvi rifugio dalla luce del giorno. A est il cielo continuava a schiarirsi, e già s’intravedevano le piante di cotone e il suolo grigiastro. “Chissà come fanno a entrarci tutti quanti nella casa di Zio John. C’è solo una stanza e uno sgabuzzino per cucinare, e mezzo metro di fienile. Chissà che calca lì dentro.”
Il predicatore disse: “John non ce l’ha una famiglia, vero? Non me lo ricordo bene. Mi pare che viveva da solo, no?”.
“È l’uomo più solo del mondo,” disse Joad. “E è pure toccato di testa… un po’ come Muley, e magari peggio per certe cose. Te lo trovavi nei posti più strani… a Shawnee sbronzo marcio, o a casa di una vedova a venti miglia da qui, o a zappare in piena notte. Proprio pazzo. Dicevano tutti che non campava a lungo. Uno così solo non campa a lungo. E invece Zio John è più vecchio di Pa’. Diventa più secco e più tosto ogni anno che passa, tutto qua. Pure più tosto di Nonno.”
“Guarda, arriva la luce,” disse il predicatore. “Pare d’argento. John non ce l’ha mai avuta una famiglia?”
“Be’, sì, ce l’ha avuta. E Pa’ dice ch’è per questo ch’è diventato così, e che fa quello che fa. Zio John aveva una moglie giovane. S’erano sposati da quattro mesi. Lei era incinta, e una sera alla moglie gli piglia una fitta alla pancia e gli dice a Zio John: ‘Meglio che mi chiami un dottore’. Be’, Zio John non si smuove da dov’è seduto e gli fa: ‘Hai solo un po’ di mal di pancia. Hai mangiato troppo. Pigliati lo sciroppo. Se ti riempi la pancia poi ti viene il mal di pancia,’ gli dice Zio John. Il giorno dopo a mezzogiorno s’è messa a dare i numeri, e alle quattro del pomeriggio era morta.”
“Che era successo?” domandò Casy. “S’era avvelenata con qualcosa che aveva mangiato?”
“No, gli era scoppiata una roba dentro. App… appendite o un affare del genere. Be’, Zio John è uno che non glien’è mai fregato di niente, ma quella volta se l’è sentita brutta. Se l’è sentita come un peccato mortale. È stato un sacco di tempo a non parlare con nessuno. Camminava e basta, andava avanti e indietro come se non vedeva niente, e ogni tanto pregava. Ci ha messo due anni per ripigliarsi, ma non era più come prima. Pareva suonato. Ti levava il fiato. Ogni volta che noi bambini avevamo i vermi o la cacarella, Zio John scappava a chiamare il dottore. Alla fine Pa’ gli ha detto di piantarla. I bambini la cacarella ce l’hanno sempre. Si crede ch’è colpa sua se la moglie è morta. È uno proprio strano. Sempre lì a farsi perdonare colla gente, a regalare roba ai bambini, a lasciare sacchi d’avena davanti casa di qualcuno. Ha dato via quasi tutto quello che aveva, ma mi sa ch’è ancora infelice. Certe notti se ne va in giro da solo. Ma colla terra ci sa fare. Quello che pianta cresce bene.”
“Povero disgraziato,” disse il predicatore. “Povero disgraziato solitario. Andava tanto in chiesa dopo ch’è morta la moglie?”
“No, per niente. Non gli andava di stare vicino alla gente. Se ne voleva stare per conto suo. E i bambini erano tutti pazzi di lui. Certe volte veniva a casa nostra di notte, e noi capivamo ch’era venuto perché ogni volta ci trovavamo tutti un pacchetto di gomme nel letto. Ci credevamo ch’era il Buon Dio in persona.”
Il predicatore continuò a camminare, a testa bassa. Non disse niente. Il chiarore dell’alba sembrava far risplendere la sua fronte, e le sue mani, oscillando lungo i fianchi, guizzavano dentro e fuori la luce.
Anche Tom taceva, quasi avesse detto qualcosa di troppo intimo e se ne vergognasse. Allungò il passo, e il predicatore gli tenne dietro. Si cominciava a distinguere qualcosa nel grigiore della distanza. Un serpente strisciò lentamente fuori dal campo di cotone e raggiunse il sentiero. Tom si fermò di colpo e lo guardò. “Un mangiatopi,” disse. “Lasciamolo stare.” Scansarono il serpente e proseguirono. Nel cielo a est affiorò un po’ di colore, e quasi subito sulla campagna si distese la luce solitaria dell’alba. Sulle piante di cotone comparve del verde, e la terra era grigiomarrone. Le facce degli uomini persero la tinta grigiastra. La faccia di Joad sembrava scurirsi man mano che la luce aumentava. “Questo è il momento più bello,” disse Joad. “Da piccolo m’alzavo e me n’andavo in giro da solo quando c’era la luce così. Che c’è lì?”
Sul sentiero si era formato un comitato di cani in onore di una cagna. Cinque maschi, bastardi di cane da pastore, bastardi di collie, cani di razze ormai confuse nella libertà della vita sociale, erano impegnati a celebrare la femmina. A turno, ognuno di loro fiutava con delicatezza la cagna, poi andava a piantarsi davanti a una pianta di cotone, alzava solennemente una zampa posteriore, pisciava, e subito tornava a fiutare la cagna. Joad e il predicatore si fermarono a guardare, e all’improvviso Joad scoppiò in una risata gioiosa. “Buon Dio!” disse. “Buon Dio!” Ora i cani si erano radunati, tutti a pelo ritto, tutti ringhiando e con le zampe rigide, ciascuno in attesa che gli altri dessero battaglia. Poi uno di loro montò la cagna, e gli altri, ora che la faccenda era risolta, si scostarono e rimasero a guardare, e le loro lingue pendevano, e le loro lingue sbavavano. I due uomini ripresero il cammino. “Buon Dio!” disse Joad. “Mi sa che il cane che sta sopra è il nostro Flash. Mi credevo che ormai era bell’e morto. Vieni, Flash!” Rise ancora. “Perdio, se qualcuno mi chiamava non lo sentivo manco io. Mi ricorda quella storia che raccontano di Willy Feeley quand’era piccolo. Willy da bambino era tonto, pure più tonto di ora. Un giorno va a portare una giovenca al toro dei Graves. In casa c’era solo Elsie Graves, e Elsie non era tonta per niente. Willy stava lì tutto rosso in faccia e non riusciva manco a parlare. Elsie gli fa: ‘Lo so perché sei venuto, il toro è dietro la stalla’. Be’, Elsie e Willy portano la giovenca dietro la stalla e si siedono sulla staccionata a guardare. Dopo un po’ Willy comincia a agitarsi. Elsie lo guarda e gli fa, come se non aveva capito: ‘Che ti piglia, Willy?’. Willy è così arrazzato che non riesce a stare fermo. ‘Perdio,’ le dice, ‘perdio, vorrei tanto farlo io!’ E Elsie gli fa: ‘E perché non lo fai, Willy? La giovenca è tua’.”
Il predicatore rise piano. “Sai,” disse, “è bello non essere più un predicatore. Nessuno raccontava storie quando c’ero io, o magari sì ma io non potevo ridere. E non potevo imprecare. Ora posso imprecare quanto voglio, ogni volta che voglio, e a uno gli fa bene imprecare quando ha voglia.”
A est l’orizzonte rosseggiava, e gli uccelli tutt’intorno cominciarono a cinguettare, petulanti. “Guarda!” disse Joad. “Là in fondo. Quella è la cisterna di Zio John. Il mulino non lo vedo, ma quella è la cisterna sua. Lì in alto, la vedi?” Allungò il passo. “Chissà se sono tutti lì.” La massa della cisterna si stagliava su un poggio. Joad, affrettandosi, sollevava una nuvola di polvere intorno alle ginocchia. “Chissà se Ma’…” Adesso vedevano i puntelli della cisterna, e poi la casa, una scatoletta quadrata di legno grezzo, e poi il fienile, rannicchiato sotto il tetto basso. Dal comignolo della casa usciva fumo. L’aia era stipata di roba: mobilia ammucchiata, pale e motore di un mulino a vento, telai di letti, sedie, tavoli. “Cristo santo, sono pronti per partire!” disse Joad. Al centro dell’aia c’era un camion, un camion con le sponde alte, ma un camion strano, perché il muso era da berlina mentre il tetto era stato tagliato al mezzo per saldarci il cassone. Avvicinandosi, i due sentirono provenire dall’aia dei colpi di martello, e appena il bordo del sole si staccò dall’orizzonte, la sua luce abbacinante piovve sul camion e i due videro un uomo e il lampo del suo martello che si alzava e ricadeva. E il sole faceva luccicare le finestre della casa. Le assi scolorite dagli anni brillavano. Due pollastri rossi in giro per l’aia avvampavano di luce riflessa.
“Non gridare,” disse Tom. “Arriviamo senza farci sentire,” e camminava così in fretta che la polvere gli saliva fin quasi alla vita. Poi passò il limitare del campo di cotone. Adesso erano nell’aia vera e propria, con il suo fondo di terra battuta, battuta sino a farsi liscia, e qua e là qualche ciuffo di erbaccia polverosa. Joad rallentò quasi avesse paura di proseguire. Il predicatore, osservandolo, rallentò per stargli al passo. Tom avanzò piano, muovendosi imbarazzato verso il camion. Era un Hudson Super Six a guida interna, e il tetto era stato tagliato a metà con la cesoia da lamiera. Il vecchio Tom Joad, ritto sul pianale, stava inchiodando le tavole alte delle due sponde. La sua faccia barbuta e brizzolata era china sul suo lavoro, e dalla bocca sporgeva un mazzo di chiodi cromati. Appuntò un chiodo, e con due martellate lo piantò fino in fondo. Dalla casa si udì il tonfo di un cerchio da fornello, seguito dal pianto di un bambino. Joad si accostò al pianale del camion, e vi si appoggiò. E suo padre lo guardò e non lo vide. Appuntò un altro chiodo e lo piantò fino in fondo. Uno stormo di piccioni volò via dalla tettoia della cisterna, girò in tondo, tornò a posarsi, e gli uccelli zampettarono sino al bordo per guardare giù – piccioni bianchi e piccioni blu, e piccioni grigi con le ali iridescenti.
Joad strinse le dita sulla stanga inferiore della sponda del camion. Alzò lo sguardo verso l’uomo attempato e ingrigito ritto sul camion. S’inumidì con la lingua le labbra spesse, e disse piano: “Pa’”.
“Che c’è?” borbottò il vecchio Tom attraverso il suo boccone di chiodi. Calzava un vecchio cappello di feltro nero e sudicio, indossava una camicia da lavoro azzurra, con sopra un panciotto senza bottoni; i suoi jeans erano sorretti da una larga cinta di corame da finimenti, chiusa da una grossa fibbia quadrata di ottone, cuoio e metallo politi da anni di uso; le sue scarpe erano screpolate, con le suole gonfie e imbarcate da anni di sole e pioggia e polvere. Le maniche della camicia erano strette sugli avambracci, trattenute dai muscoli gonfi e possenti. La pancia era piatta, i fianchi stretti, le gambe corte, massicce e forti. Il viso, incorniciato da un’ispida barba sale e pepe, sembrava risucchiato verso il mento energico, un mento prominente e come squadrato dalla barba, che lì era meno grigia e dava peso e forza al risalto del mento. Sulle guance glabre del vecchio Tom la pelle era scura come sepiolite, increspata a raggiera intorno agli occhi per il troppo strizzarli. Aveva gli occhi marrone, di un marrone scuro come caffè, e quando guardava qualcosa spingeva la testa in avanti, perché i suoi occhi scuri e luminosi si erano indeboliti. Le labbra, strette intorno ai chiodi, erano sottili e rosse.
Tenne il martello sollevato, pronto a piantare un altro chiodo, e guardò oltre la sponda del camion verso Tom, con l’aria seccata per l’interruzione. Poi il suo mento si sporse e i suoi occhi guardarono il viso di Tom, e il suo cervello si fece pian piano consapevole di ciò che vedeva. Il martello si abbassò lentamente fino al fianco, e l’altra mano si alzò per sfilare i chiodi dalla bocca. E il vecchio Tom disse stupito, come se lo comunicasse a se stesso: “È Tommy…”. Poi, sempre informando se stesso: “È Tommy ch’è tornato a casa”. La sua bocca si aprì di nuovo, e negli occhi balenò un lampo di paura. “Tommy,” disse piano, “non è che sei scappato? Non è che ti devi nascondere?” Attese ansioso la risposta.
“No,” disse Tom. “Sono fuori sulla parola. Sono libero. Ho tutti i documenti.” Si aggrappò alle stanghe basse della sponda e alzò lo sguardo.
Il vecchio Tom posò con delicatezza il martello sul pianale e mise i chiodi in tasca. Scavalcò con la gamba la sponda e smontò agilmente dal camion, ma quando fu accanto al figlio parve imbarazzato e confuso. “Tommy,” disse, “stiamo andando in California. Ma ti volevamo scrivere una lettera per dirtelo.” Poi disse, incredulo: “Ma tu sei tornato. Puoi venire con noi. Puoi venire!”. Il coperchio di una caffettiera ricadde rumorosamente nella casa. Il vecchio Tom guardò da sopra una spalla. “Facciamogli una sorpresa,” disse, e i suoi occhi brillavano di eccitazione. “Sai, a tua madre gli era venuta una brutta impressione che non ti vedeva più. Gli è venuta quell’aria calma di quando muore qualcuno. A momenti in California non ci voleva andare, per la paura che non ti vedeva più.” Un cerchio di fornello sbatté di nuovo nella casa. “Facciamogli una sorpresa,” ripeté il vecchio Tom. “Entriamo come se non te n’eri mai andato. E vediamo tua madre che fa.” Alla fine si risolse a toccare Tom, ma lo toccò sulla spalla, timidamente, e ritrasse subito la mano. Guardò Jim Casy.
Tom disse: “Te lo ricordi il predicatore, Pa’? È venuto con me”.
“Era in prigione pure lui?”
“No, l’ho incontrato per strada. Era andato in giro.”
Pa’ gli strinse solennemente la mano. “Benvenuto, amico.”
Casy disse: “Sono contento di essere qui. Mette gioia vedere un ragazzo che ritorna a casa. Mette proprio gioia”.
“A casa,” disse Pa’.
“Dalla sua famiglia,” si corresse rapidamente il predicatore. “Stanotte siamo passati dove stavate prima.”
Pa’ sporse il mento e si voltò a guardare per qualche istante la strada. Poi si girò di nuovo verso Tom. “Come gliela mettiamo?” disse, eccitato. “Facciamo che io entro e gli dico: ‘Ci sono due che vogliono un boccone’? O magari tu entri e aspetti che ti vede? Eh, come ti pare?” Il suo viso fremeva di eccitazione.
“Basta che non gli facciamo paura,” disse Tom. “Non mi va che si spaventa.”
Due giovani cani pastori si avvicinarono baldanzosi, ma appena fiutarono gli estranei cominciarono a rinculare prudentemente, guardinghi, scuotendo la coda con movimenti lenti e titubanti, ma con gli occhi e i musi pronti a cogliere il minimo segnale di ostilità o pericolo. Uno di loro, tendendo il collo, si fece avanti con cautela, pronto a scappare, e pian piano si accostò alle gambe di Tom, fiutandole rumorosamente. Poi indietreggiò e guardò Pa’, in attesa di un cenno. L’altro cucciolo non era così coraggioso. Si guardò intorno cercando qualcosa da cui farsi distrarre in maniera onorevole, vide un pollastro rosso zampettare poco più in là, e gli balzò addosso. Ci fu uno strepito da pennuto indignato, poi un’esplosione di piume rosse, e infine il pollo scappò via, sbattendo i moncherini d’ali per prendere velocità. Il cucciolo si voltò a lanciare un’occhiata fiera agli uomini, poi si accoccolò nella polvere, sbattendo soddisfatto la coda sulla polvere.
“Forza,” disse Pa’, “andiamo dentro. Ma’ ti deve vedere. Voglio vedere la faccia che fa quando ti vede. Forza. A momenti grida ch’è pronto da mangiare. È da un pezzo che l’ho sentita sbattere nel tegame il maiale salato.” Li precedette facendo strada sulla polvere fine dell’aia. La casa non aveva veranda, solo una soglia rialzata e poi la porta; accanto alla porta c’era un ciocco per tagliare la legna, con la superficie scabra e scanalata da anni di colpi d’ascia. La parte esterna del ciocco sporgeva, poiché all’interno la polvere aveva eroso la polpa del legno. Nell’aria c’era odore di salice bruciato, cui si aggiunse, man mano che i tre si avvicinavano alla casa, l’odore del maiale fritto, e l’odore delle spesse pagnotte scure, e l’odore intenso del caffè che gorgogliava sul fuoco. Pa’ salì il gradino della soglia e si fermò all’ingresso, bloccandolo con il suo corpo tarchiato. Disse: “Ma’, ci sono due che arrivano dalla strada, e m’hanno chiesto se gli diamo un boccone”.
Tom udì la voce della madre, il timbro basso e pacato che ben ricordava, affabile e dimesso. “Falli entrare,” disse Ma’. “C’è un sacco di roba. Digli che si devono lavare le mani. Il pane è pronto. La carne la tolgo ora dal fuoco.” E dal fornello si levò lo sfrigolio del grasso stizzito.
Pa’ entrò in casa, liberando l’ingresso, e Tom guardò la madre. Stava pescando dalla padella le fette di carne increspate. Lo sportello del forno era aperto, e lasciava scorgere le spesse pagnotte scure allineate sulla piastra. Ma’ guardò verso la porta, ma Tom aveva il sole alle spalle, e Ma’ vide solo una sagoma scura che si stagliava sul giallo bagliore del sole. Annuì affabilmente. “Entrate,” disse. “Fortuna che stamattina ho fatto un sacco di pane.”
Tom rimase fermo a guardare. Ma’ era robusta, ma non grassa: appesantita dalle gravidanze e dal lavoro. Indossava un’ampia veste accollata di tela grigia su cui un tempo erano stampati dei fiori colorati, ma ormai il colore s’era sbiadito e i piccoli disegni floreali erano solo di un grigio un po’ più chiaro dello sfondo. La veste arrivava fino alle caviglie, e i suoi piedi larghi e forti, scalzi, si muovevano lesti e agili sull’assito. I capelli fini e grigi erano raccolti in una piccola crocchia sulla nuca. Le maniche della veste coprivano fino al gomito le braccia forti e lentigginose, e le mani erano pienotte e delicate, come quelle di una bambina paffuta. Si era voltata e guardava nel sole. La sua faccia carnosa non era dolce: era risoluta, garbata. I suoi occhi nocciola sembravano aver vissuto ogni tragedia possibile, salendo come gradini il dolore e la sofferenza fino a raggiungere una comprensione sovrumana e un sommo equilibrio. Sembrava conoscere, accettare, gradire il suo ruolo di cittadella della famiglia, di roccaforte inespugnabile. E poiché il vecchio Tom e i figli non potevano conoscere sofferenza o paura se lei non denunciava sofferenza e paura, aveva imparato a rinchiudere l’una e l’altra dentro se stessa. E poiché, quando succedeva qualcosa di lieto, loro la guardavano per vedere se in lei ci fosse gioia, si era abituata a trarre motivo di riso da faccende che non ne avevano. Ma meglio della gioia era l’equilibrio. Il senso della misura dà affidamento. E il grande e umile ruolo di Ma’ in seno alla famiglia le aveva conferito dignità e una nitida, equilibrata bellezza. Il suo ruolo di risanatrice aveva dato alle sue mani sicurezza, nerbo, sapienza; il ruolo di arbitro l’aveva resa remota e infallibile come una dea. Sembrava sapere che se lei avesse vacillato, l’intera famiglia avrebbe tremato, e che se un giorno si fosse trovata a cedere o a disperare davvero, l’intera famiglia sarebbe crollata, avrebbe smarrito ogni volontà di funzionare.
Ma’ guardò verso l’aia assolata, verso quella sagoma scura di uomo. Pa’ le si era messo accanto, fremendo di eccitazione. “Può entrare,” gridò. “Può entrare, signore.” E Tom, un po’ a disagio, varcò la soglia.
Ma’ alzò lo sguardo dalla padella, sorridendo. Poi la sua mano si abbassò adagio lungo il fianco, e la forchetta cadde rumorosamente sull’assito. I suoi occhi si spalancarono, le pupille si dilatarono. Respirava affannosamente, con la bocca aperta. Chiuse gli occhi. “Dio mio, grazie,” disse. “Oh Dio mio, grazie!” Poi di colpo il suo viso si fece ansioso. “Tommy, non è che sei ricercato? Non è che sei scappato?”
“No, Ma’. Libero sulla parola. Ho i documenti qui.” Si toccò il petto.
Lei gli si avvicinò con delicatezza, silenziosa con i suoi piedi scalzi, e aveva il viso pieno di meraviglia. Con la piccola mano gli toccò il braccio, saggiò il vigore dei muscoli. Poi le dita salirono fino alla guancia come avrebbero fatto le dita di un cieco. E la sua gioia ebbe qualcosa del dolore. Tom strinse tra i denti il labbro inferiore e lo morse. Gli occhi della madre si posarono stupiti sul labbro morso, e videro il sottile filo di sangue sui denti e la goccia di sangue che scendeva sul labbro. Allora Ma’ capì, e riprese il controllo, e la sua mano ricadde. Il fiato le uscì dalla bocca come un’esplosione. “Bene!” gridò. “Lo sai che a momenti partivamo senza te? E ci chiedevamo poi come facevi tu a trovarci.” Raccolse la forchetta, pettinò il grasso crepitante e vi pescò un ricciolo scuro di maiale croccante. Poi tolse dal fuoco la caffettiera bollente.
Il vecchio Tom ridacchiò: “Te l’abbiamo fatta, eh, Ma’? Te la volevamo fare e ci siamo riusciti. Eri lì come una pecora al macello. Peccato che non c’era Nonno a vederti. Era come se t’avevano dato una martellata in mezzo agli occhi. Se c’era Nonno si dava tante di quelle manate che si faceva uscire l’osso del fianco… come quando ha visto Al che pigliava a fucilate quel dirigibile dell’esercito. Sai Tommy, un giorno c’è arrivato sopra la testa quell’affare lungo mezzo miglio, e Al piglia la doppietta e gli spara addosso. E Nonno gli grida: ‘Non sparare agli uccellini, Al; aspetta che passa il capofamiglia!’, e s’è dato tante di quelle manate che s’è fatto uscire l’osso del fianco.”
Ma’ ridacchiò e prese da uno scaffale una pila di piatti di stagno.
Tom chiese: “Dov’è Nonno? Non l’ho visto quel vecchio caprone.”
Ma’ posò i piatti sul tavolo della cucina e v’impilò accanto le tazze. Disse, quasi sottovoce: “Oh, lui e Nonna dormono nel fienile. Di notte gli tocca alzarsi un sacco di volte. Erano sempre lì che inciampavano sui bambini”.
Pa’ s’intromise: “Già, e ogni notte Nonno s’imbestialiva. Inciampava addosso a Winfield, e Winfield strillava, e Nonno s’imbestialiva e si pisciava nelle mutande, e allora s’imbestialiva di più, e alla fine eravamo tutti lì a strillare come matti”. Le parole gli uscivano dalla bocca tra una risata e l’altra. “Oh, ce la siamo spassata. Una notte ch’eravamo lì a strillare e bestemmiare tutti quanti, tuo fratello Al, che ora si crede un grand’uomo, si gira verso il Nonno e gli fa: ‘Perdio, Nonno, perché non ti pigli la tua roba e te ne vai a fare il pirata?’. Be’, Nonno s’è imbestialito così tanto ch’è andato a pigliare il fucile. E a Al quella notte gli è toccato dormire nel campo. Ma ora Nonna e Nonno dormono tutt’e due nel fienile.”
Ma’ disse: “Così s’alzano e escono ogni volta che gli serve. Pa’, vagli a dire che Tommy è tornato. Nonno è il suo preferito”.
“Certo,” disse Pa’. “Non ci avevo pensato.” Uscì dalla porta e attraversò l’aia dondolando energicamente le braccia.
Tom lo guardò allontanarsi, poi la voce della madre attirò la sua attenzione. Stava versando il caffè nelle tazze. Non lo guardava. “Tommy,” gli disse, titubante, timida.
“Sì?” Lo strano imbarazzo della madre suscitò la sua timidezza. Entrambi si sapevano timidi, e il saperlo li rendeva ancor più timidi.
“Tommy, te lo devo chiedere… non sei arrabbiato?”
“Arrabbiato, Ma’?”
“Non t’hanno avvelenato di rabbia? Non t’hanno riempito di odio? Non è che in quella prigione t’hanno fatto qualcosa che t’ha guastato e riempito di odio?”
Tom la guardò di sbieco, la studiò, e i suoi occhi sembravano chiedersi come facesse a sapere certe cose. “N-n-no,” disse. “Magari per un po’ sì. Ma io mica sono orgoglioso come tanta gente. A me quella roba mi scivola addosso. Che c’è, Ma’?”
Ma’ lo stava guardando a bocca aperta, come per ascoltare meglio, e con gli occhi attenti per capire meglio. Il suo viso cercava la risposta che si nasconde sempre sotto le parole. Disse, agitata: “Io ho conosciuto Pretty Boy Floyd.5 Ho conosciuto sua madre. Erano brava gente. Lui aveva il diavolo in corpo, ma come ce l’hanno tutti i ragazzi”. Tacque, poi le parole proruppero. “Io non la so tutta fino in fondo, ma questo lo so. Pretty Boy ha fatto un piccola cosa brutta e quelli gli hanno fatto male, l’hanno pigliato e gli hanno fatto così male ch’è diventato una bestia, e allora ha fatto un’altra cosa brutta, e quelli gli hanno fatto male di nuovo. E lui è diventato una bestia furiosa. Gli hanno sparato come a un topo di fogna, e allora gli ha sparato pure lui, e gli hanno dato la caccia come a un coyote, e lui azzannava e ringhiava come un lupo. Pazzo di rabbia. Non era più un ragazzo e manco un uomo, era solo una bestia furiosa piena di odio. Ma la gente che lo conosceva non gli ha mai fatto male. Lui non ce l’aveva con loro. Alla fine l’hanno pigliato e l’hanno ammazzato. Non m’importa se i giornali dicono ch’era cattivo: è così ch’è andata davvero.” Tacque e si leccò le labbra asciutte, e tutto il suo viso era una domanda ansiosa. “Io lo devo sapere, Tommy. T’hanno fatto male come a lui? T’hanno fatto impazzire di rabbia?”
Tom aveva le labbra stirate sui denti. Abbassò gli occhi sulle sue grosse mani piatte. “No,” disse. “Io non sono come lui.” Tacque e si osservò le unghie rotte, che erano striate come dorsi di conchiglia. “Io quella roba l’ho scansata tutt’il tempo che sono stato dentro. Non sono così arrabbiato.”
Ma’ sospirò e disse, sottovoce: “Benedetto Gesù!”.
Tom alzò gli occhi di colpo. “Ma’, io quando ho visto che hanno fatto alla nostra casa…”
Allora la madre si avvicinò e si strinse a lui; e gli disse con slancio: “Tommy, quelli non li puoi combattere da solo. Capace che ti sparano addosso come a un coyote. Tommy, io ci ho pensato tanto, giorno e notte. Dice che n’hanno cacciati altri centomila come noi. Se ci arrabbiamo tutt’e centomila, Tommy… mica possono spararci addosso a tutti quanti…”. Ma’ tacque.
Tommy, guardandola, abbassò lentamente le palpebre, finché le sue ciglia lasciarono trapelare solo uno spiraglio chiaro. “Ce n’è tanti che la pensano così?” chiese.
“Non lo so. È come se sono tutti storditi. Vanno in giro che sembrano mezzi addormentati.”
Da fuori, in mezzo all’aia, risuonò la vecchia tiritera gracidata. “Lode al Signore glorioso! Lode al Signore glorioso!”
Tom voltò la testa e sogghignò. “Nonna s’è accorta che sono tornato. Ma’,” disse, “non t’avevo mai vista così!”
Il viso della madre s’indurì, il suo sguardo si fece gelido. “Non m’avevano mai distrutto la casa,” disse, “non m’avevano mai buttata per strada colla mia famiglia. Non m’era mai toccato vendere… tutto quanto. Eccoli, arrivano.” Tornò davanti al fornetto e rovesciò su due piccoli piatti di stagno la gran teglia con le pagnotte. Sparse un po’ di farina sul grasso denso per fare il sugo, e la sua mano si fece bianca di farina. Per un istante Tom rimase a guardarla, poi andò alla porta.
Dall’aia arrivavano quattro persone. In testa c’era Nonno, un vecchio smilzo, lacero, frenetico, che avanzava a passi veloci badando alla gamba destra – quella soggetta a slogarsi. Mentre camminava cercava di abbottonarsi la patta, e le sue vecchie mani stentavano a trovare i bottoni, perché aveva infilato il primo bottone nella seconda asola e questo gli sballava la sequenza. Indossava un paio di pantaloni scuri sgualciti e una camicia blu sbrindellata, aperta fino alla pancia, che lasciava intravedere una lunga maglia grigia, anch’essa sbottonata. Da sotto la maglia occhieggiava il petto rinsecchito, cosparso di peli bianchi. Abbandonò la patta, lasciandola aperta, e cominciò ad armeggiare con i bottoni della maglia, poi abbandonò anche quelli e diede uno strattone alle larghe bretelle scure. La sua faccia era scarna, nervosa, con due occhietti brillanti e vispi come gli occhi di un monello scatenato. Una faccia bisbetica, lagnosa, pettegola e ridanciana. Nonno litigava e si azzuffava, raccontava storielle oscene. Era perennemente infoiato. Pestifero, crudele e impaziente come un monello scatenato, ma sotto una maschera di allegria. Beveva troppo quando riusciva a trovarne, mangiava troppo quando ce n’era, parlava troppo in ogni occasione.
Dietro di lui trotterellava Nonna, che era sopravvissuta solo perché si era rivelata tosta quanto il marito. Aveva resistito con una devozione petulante e feroce, mostrandosi capace di tener testa a Nonno per quant’era infoiato e sfrenato. Una sera, dopo un rito, ancora sconvolta dalla frenesia mistica, aveva sparato due colpi di doppietta addosso al marito, facendogli saltare mezza natica, e lui da quella sera aveva cominciato ad ammirarla e aveva smesso di torturarla come i bambini torturano gli insetti. Mentre camminava, si sollevava la gonna fino alle ginocchia e belava con voce stridula il suo terribile grido di guerra: “Lode al Signore glorioso!”.
Nonna e Nonno stavano cercando di superarsi l’un l’altro per arrivare primi alla casa. Litigavano su qualsiasi cosa, e per loro litigare era una passione e una necessità.
Alle loro spalle, con passo lento e regolare ma senza restare indietro, venivano Pa’ e Noah. Noah il primogenito, alto e strano, che camminava sempre con un’espressione stupita negli occhi, calmo e perplesso. Non si era mai arrabbiato in vita sua. Guardava con stupore chiunque si arrabbiasse, con stupore e disagio, come la gente normale guarda i pazzi. Noah si muoveva adagio, parlava di rado, e lo faceva così adagio che spesso chi non lo conosceva pensava che fosse scemo. Non era scemo, però era strano. Non era orgoglioso e non aveva nessun desiderio sessuale. Lavorava e dormiva con un ritmo bizzarro, che però lo appagava. Voleva bene ai suoi, ma senza mai darlo a vedere. Nessuno avrebbe saputo dire perché, ma Noah dava l’impressione di essere deforme, di testa o corpo o gambe o cervello; eppure in lui non si notava alcuna vera deformità. Pa’ credeva di conoscere il motivo della stranezza di Noah, ma Pa’ si vergognava e non ne parlava mai. Perché la notte in cui era nato Noah, Pa’, spaventato alla vista delle cosce spalancate, solo in casa e atterrito dal relitto urlante in cui si era trasformata la moglie, era impazzito di paura. Servendosi delle mani, con le forti dita a mo’ di forcipe, aveva estratto il neonato strappando e storcendo. La levatrice, giunta in ritardo, aveva trovato il neonato con la testa sghemba, il collo stirato, il corpo ritorto; e aveva rimesso in asse la testa e rimodellato il corpo con le mani. Ma Pa’ non aveva mai dimenticato, e si vergognava. Ed era più affettuoso con lui che con gli altri. Nell’ampia faccia di Noah, con gli occhi troppo distanti e la lunga mascella fragile, Pa’ vedeva il cranio sgorbiato e sformato del neonato. Noah sapeva fare tutto ciò che ci si aspettava da lui, sapeva leggere e scrivere, sapeva lavorare e contare, ma come se niente di tutto ciò gli interessasse: sembrava privo sia di desideri sia di necessità. Viveva dentro una strana casa silenziosa e guardava all’esterno con i suoi occhi calmi. Era estraneo rispetto al mondo, ma non era un solitario.
I quattro attraversarono l’aia, e Nonno chiese: “Dov’è? Perdio, dov’è?”. Le sue dita continuavano ad armeggiare con la patta, poi di colpo se la scordarono e s’infilarono in tasca. Infine vide Tom immobile sulla soglia. Nonno si fermò e fece fermare gli altri. I suoi occhietti luccicarono di malizia. “Guardatelo lì,” disse. “Un pendaglio da forca. Era da un pezzo che uno dei Joad non finiva al fresco.” La sua mente fece un salto. “Non avevano il diritto di sbatterlo dentro. Io al suo posto facevo la stessa cosa. Quei figli di puttana non avevano il diritto.” La sua mente fece un altro salto. “E il vecchio Turnbull, quel caprone puzzolento, diceva in giro che appena uscivi ti sparava. Dicono che ha sangue Hatfield. Be’, io gli ho mandato a dire due paroline. Gli ho detto: ‘Non t’immischiare coi Joad. Io capace che ho sangue McCoy, per quello che so,’ gli ho detto. ‘Se t’azzardi a mettere gli occhi addosso a Tom giuro che te li strappo e te li ficco su per il culo,’ gli ho detto. E lui se l’è fatta sotto.”
Nonna, che non seguiva la conversazione, belò: “Lo-ode al Signore glorioso!”.
Nonno si avvicinò e diede una pacca sul petto a Tom, e i suoi occhi luccicavano di affetto e orgoglio. “Come ti va, Tommy?”
“OK,” disse Tom. “E tu come stai?”
“Pieno di piscio e aceto,” disse Nonno. La sua mente fece un salto. “Ve l’ho detto, un Joad non lo puoi tenere in prigione. Gli dicevo: ‘Tommy scapperà da quella prigione come un toro scappa dal recinto’. E tu l’hai fatto. Togliti dai piedi, ho fame.” Si fece largo, si sedette, si caricò di maiale e pagnotte il piatto, annaffiò il tutto con il sugo di grasso e farina, e, ancor prima che gli altri fossero entrati in casa, aveva la bocca piena.
Tom gli sorrise affettuosamente. “Sei proprio un demonio, eh?” disse. E la bocca di Nonno era così piena che non poteva nemmeno sputare, ma i suoi occhietti cattivi sorrisero, e la sua testa annuì vigorosamente.
Nonna disse, orgogliosa: “È l’uomo più cattivo e bestemmiatore del mondo. Andrà all’inferno a cavallo d’un attizzatoio, ringraziando il Signore! Vuole guidare il camion!” disse in tono sprezzante. “Be’, manco per sogno.”
Nonno si fece andare il boccone di traverso, tossì debolmente e si schizzò in grembo uno spruzzo di cibo e saliva.
Nonna sorrise a Tom. “Bello schifo, eh?” chiese, soddisfatta.
Noah era fermo sulla soglia, e osservava Tom, e i suoi grandi occhi distanti sembravano guardargli tutt’attorno. La sua faccia era quasi priva di espressione. Tom disse: “Come va, Noah?”.
“Bene,” disse Noah. “E tu?” Fu tutto, ma era rassicurante.
Ma’ scacciò le mosche dalla ciotola del sugo. “Non c’è spazio per mettersi a tavola,” disse. “Pigliatevi un piatto e sedetevi dove capita. Nell’aia o da qualche parte.”
A un tratto Tom disse: “Ehi! Dov’è il predicatore? Era con me. Dov’è finito?”.
Pa’ disse: “L’ho visto ma è sparito”.
Nonna gridò con voce stridula: “Un predicatore? Ti sei portato un predicatore? Vallo a chiamare. Così ci fa la preghiera”. Indicò Nonno. “Troppo tardi per lui… ha già finito. Va’ a chiamare il predicatore.”
Tom uscì sulla soglia. “Jim! Jim Casy!” chiamò. Fece qualche passo nell’aia. “Ehi, Casy!” Il predicatore emerse da sotto la cisterna dov’era sdraiato, si mise a sedere, poi si alzò in piedi e si avvicinò alla casa. Tom gli chiese: “Che fai, t’eri nascosto?”.
“Be’, no. Ma non è giusto ficcare il naso dove c’è una famiglia che si dice roba della famiglia. M’ero messo lì a pensare.”
“Vieni a mangiare,” disse Tom. “Nonna vuole la preghiera.”
“Ma io non sono più un predicatore,” protestò Casy.
“Su, vieni dentro. Dagli la preghiera. Non fai niente di male, e a Nonna gli piace.” Entrarono insieme nella cucina.
Ma’ disse piano: “Benvenuto”.
E Pa’ disse: “Benvenuto. Pigliati qualcosa da mangiare”.
“Prima la preghiera,” vociò Nonna. “Prima la preghiera.”
Nonno scrutò con aria truce il predicatore finché non lo riconobbe. “Ah, è quel predicatore lì,” disse. “Be’, lui è a posto. M’è sempre piaciuto da quando l’ho visto che…” Ammiccò in maniera così oscena che Nonna pensò avesse completato la frase e lo sgridò: “Zitto tu, caprone pieno di peccati”.
Casy si passò nervosamente le dita tra i capelli. “Guardate che io non sono più un predicatore. Se può bastare che sono felice d’essere in questa casa e vi sono grato perché siete gente buona e generosa, se questo può bastare… be’, allora lo dico come una preghiera. Ma non sono più un predicatore.”
“Facci la preghiera,” disse Nonna. “E mettici dentro che andiamo in California.” Il predicatore chinò il capo, e gli altri chinarono il capo. Ma’ incrociò le mani sul grembo e chinò il capo. Nonna lo chinò tanto da sfiorare col naso il piatto col pane ammollato nel sugo. Tom, addossato alla parete, con un piatto in mano, piegò appena la testa, e Nonno la piegò di lato, per poter sbirciare con un occhio malizioso e allegro il predicatore. E sul viso del predicatore c’era un’espressione non di preghiera ma di pensiero; e nel suo tono non supplica ma dubbio.
“Mi sono messo a pensare,” disse. “Sono andato sulle colline e mi sono messo a pensare, un po’ com’ha fatto Gesù quand’è andato nel deserto per capire com’è che poteva tirarsi fuori da un mucchio di guai.”
“Lo-ode al Signore!” disse Nonna, e il predicatore la guardò stupito.
“Dice che Gesù s’era ficcato in un mucchio di guai, e non riusciva a capire com’è che poteva cavarsela, e Gli è venuto di pensare ma allora che me ne faccio di tutte queste storie, a che accidenti serve star sempre lì a lottare e discutere? S’era stufato, ma proprio stufato, e il Suo spirito s’era consumato. Allora ha deciso di mandare tutto al diavolo. E se n’è andato nel deserto.”
“Aa-men,” belò Nonna. Da anni aveva imparato ad aspettare le pause per infilare le risposte. E da anni aveva smesso di ascoltare le parole e di provare a capirle.
“Non sto dicendo che sono come Gesù,” proseguì il predicatore. “Ma m’ero stufato come Lui, e m’ero tutto imbrogliato come Lui, e allora sono andato nel deserto come Lui, senza la roba per accamparmi. La notte stavo sdraiato sulla schiena e guardavo le stelle; all’alba mi mettevo seduto e guardavo il sole che nasceva; a mezzogiorno m’affacciavo dalla collina e vedevo la campagna tutta arida; la sera andavo dietro al sole che calava. Certe volte pregavo, com’ho sempre fatto. Ma non riuscivo a capire chi pregavo e cosa. C’erano le colline e c’ero io, e non eravamo più divisi. Eravamo una cosa sola. E quella cosa era santa.”
“Alleluia,” disse Nonna, e si dondolò un po’ avanti e indietro, cercando di acciuffare un’estasi.
“E mi sono messo a pensare, ma non era proprio pensare, andava più giù di quando pensi. E mi sono messo a pensare ch’eravamo tutti santi quand’eravamo una cosa sola, e l’umanità era santa quand’era una cosa sola. E non era più santa solo quando un povero disgraziato si pigliava il morso tra i denti e se ne scappava per conto suo, scalciando e tirando e lottando per conto suo. Quelli come lui guastano tutta la santità. Ma quando lavorano tutt’insieme, non un uomo per un altro uomo, ma tutti come se hanno sul collo le corde per tirarsi tutta la baracca… quello sì, quello è santo. E poi mi sono messo a pensare che manco so che voglio dire quando dico santo.” Tacque, ma le teste abbassate rimasero chine, perché erano state abituate come cani ad alzarsi solo al segnale dell’“amen”. “Non posso più fare la benedizione come facevo prima. Sono felice della santità del cibo. Sono felice che qui c’è amore. Tutto qua.” Le teste rimasero chine. Il predicatore si guardò intorno. “V’ho fatto raffreddare la carne,” disse; e poi si ricordò. “Amen,” disse, e tutte le teste si alzarono.
“Aa-men,” disse Nonna, e si avventò sul piatto, e con le vecchie gengive sdentate morse il pane intriso di sugo. Tom mangiava velocemente, e Pa’ s’ingozzava. Non si udì più una parola finché il cibo non fu finito e il caffè bevuto; solo lo scrocchio del cibo masticato e lo sciacquio del caffè intiepidito che raggiungeva la lingua. Ma’ guardava il predicatore mangiare, e il suo sguardo era perplesso, curioso e indulgente. Lo guardava come se d’improvviso fosse diventato uno spirito, non più un essere umano bensì una voce sorta dalla terra.
Gli uomini finirono e posarono il piatto e scolarono l’ultimo sorso di caffè; poi Pa’, il predicatore, Noah e Tom uscirono e si avviarono verso il camion, aggirando l’ammasso di mobili, i telai di letto, il motore di mulino, il vecchio aratro. Arrivarono al camion e si fermarono lì. Toccarono le nuove sponde di abete.
Tom aprì il cofano e guardò il grande motore lustro di grasso. Pa’ si mise accanto a lui. Disse: “Tuo fratello Al l’ha controllato prima che lo compravamo. Dice che va bene”.
“E lui che ne sa? È solo un moccioso,” disse Tom.
“Ha lavorato per una ditta. L’anno scorso portava i camion. Ci capisce un bel po’. Al è uno sveglio. Coi motori ci sa fare.”
Tom chiese: “Ora dov’è?”.
“Be’…” fece Pa’, “sarà a correre dietro a qualche ragazza. È sempre lì che sgroppa come un puledro arrazzato. È sveglio per uno di sedici anni, e cominciano a prudergli le palle. Pensa solo alle ragazze e ai motori. È sveglio sì, tuo fratello Al. È da una settimana che dorme fuori.”
Nonno, armeggiando sul torace, era riuscito a infilare i bottoni della camicia blu nelle asole della canottiera grigia. Le sue dita sentivano che qualcosa non andava, ma non si curavano di scoprire cosa. Le sue dita scesero a risolvere le complicazioni della patta. “Io ero peggio,” disse allegramente. “Io ero molto peggio di lui. Ero quello che dicono un osso duro. Be’, una volta hanno fatto un rito in campagna a Sallisaw, quand’ero poco più grande di Al. Lui è solo un moccioso, fa ancora puzza di latte. Io no, io ero più grande. E hanno fatto questo rito in campagna. Cinquecento persone, e una bella mandria di manze.”
“Mi sa che sei ancora un osso duro, Nonno,” disse Tom.
“Be’, sì, abbastanza. Ma molto meno di com’ero a quei tempi. Vedrai quando arrivo in California e mi posso pigliare un’arancia quando mi pare. O un bel grappolo d’uva. Ecco, quella è una cosa che non mi può stufare mai. Mi stacco un bel grappolo d’uva dal cespuglio, o da dov’è che cresce quella roba, e me lo spremo tutto sulla faccia e me lo faccio colare sul mento.”
Tom chiese: “Dov’è Zio John? Dov’è Rosasharn? Dove sono Ruthie e Winfield? Nessuno m’ha ancora detto niente di loro.”
Pa’ disse: “Bastava chiedere. John è andato a Sallisaw con un carico di roba da vendere: pompa, attrezzi, polli e tutta la roba che ci siamo portati qui. S’è tirato dietro Ruthie e Winfield. È partito prima dell’alba”.
“Strano che non l’ho visto,” disse Tom.
“Ma tu arrivavi dalla nazionale, no? Lui è passato da dietro, da Cowlington. E Rosasharn ora sta dai genitori di Connie. Accidenti! Tu manco sai che Rosasharn s’è sposata con Connie Rivers. Te lo ricordi Connie. È un bravo ragazzo. E Rosasharn è incinta di tre o quattro o cinque mesi. Comincia a farsi tonda. Sta bene.”
“Gesù!” disse Tom. “Rosasharn era una bambina. E ora aspetta un figlio. In quattro anni ne capita di roba se non ci sei. Pa’, quand’è che vuoi partire per l’Ovest?”
“Be’, dobbiamo caricare tutta quella roba per portarla a vendere. Se Al torna dalle sue sgroppate può caricare il camion e portare la roba a vendere, e magari riusciamo a partire domani o dopodomani. Siamo a corto di soldi, e uno m’ha detto che da qui alla California ci sono quasi duemila miglia. Prima partiamo e più siamo sicuri d’arrivare. Qui i soldi vanno via come l’acqua. Tu a soldi come sei?”
“Ho solo un paio di dollari. Come l’avete fatti i soldi che avete?”
“Be’,” disse Pa’, “abbiamo venduto la roba che avevamo giù a casa, e ci siamo messi a raccogliere il cotone tutti quanti, pure Nonno.”
“Proprio così,” disse Nonno.
“Abbiamo messo insieme duecento dollari. Settantacinque l’abbiamo spesi per il camion, e io e Al l’abbiamo tagliato in due per montarci il cassone. Al doveva sistemare le valvole, ma è troppo preso a correre appresso alle ragazze. Mi sa che per il viaggio ce n’avremo un centocinquanta. Queste gomme sono troppo vecchie per arrivare lontano. Ce n’è due di scorta, ma sono vecchie pure loro. Magari per strada ci compriamo la roba che serve.”
Il sole era a picco, i raggi roventi non davano tregua. Le sponde del camion disegnavano fasce d’ombra sul terreno, e il camion puzzava di olio bollente, tela cerata, vernice. I polli superstiti erano scappati dall’aia per ripararsi dal sole nel capanno degli attrezzi. I maiali ansimavano nella stia, sdraiati a ridosso della staccionata dove resisteva un filo d’ombra, e di tanto in tanto lanciavano versi striduli. I due cani erano distesi nella polvere rossa sotto il camion, trafelati, con la lingua sbavante ricoperta di polvere. Pa’ si calò il cappello sugli occhi e si accoccolò sui talloni. E, quasi fosse la sua posizione abituale per riflettere e osservare, esaminò attentamente Tom, il berretto nuovo ma già attempato, il vestito di panno, le scarpe nuove.
“Hai speso soldi tuoi per comprarti quella roba?” chiese. “Mi sa che ci starai scomodo e basta.”
“Me l’hanno data loro,” disse Tom. “Me l’hanno data quando sono uscito.” Si tolse il berretto e lo guardò con una certa ammirazione, poi lo usò per asciugarsi la fronte, lo calzò di sghimbescio e diede uno strattone alla visiera.
Pa’ osservò: “Belle le scarpe che t’hanno dato”.
“Sì,” riconobbe Tom. “Belle sono belle, ma non vanno bene per camminarci con questo caldo.” Si accoccolò accanto al padre.
Noah disse piano: “Magari se finiamo di sistemare le sponde possiamo caricare la roba. Così quando torna Al…”.
“Posso guidare io se vi va,” disse Tom. “A McAlester guidavo un camion.”
“Bene,” disse Pa’, e si voltò a guardare la strada. “Se non mi sbaglio, laggiù c’è il nostro campione che torna colla coda bassa,” disse. “E ha pure l’aria bella sfatta.”
Tom e il predicatore si voltarono verso la strada. E Al lo stallone, vedendosi guardato, drizzò le spalle ed entrò nell’aia con l’andatura tronfia di un gallo che sta per cantare. Troppo preso di sé, riconobbe Tom solo quando si fu avvicinato; a quel punto la sua espressione boriosa scomparve, e gli occhi s’illuminarono di ammirazione e rispetto, e l’andatura tronfia si sciolse. Né i jeans rigidi con il fondo rivoltato per mettere in mostra gli stivali coi tacchi, né la cintura alta con gli intarsi di ottone, e nemmeno gli elastici rossi intorno alle maniche della camicia blu e l’inclinazione spavalda dello Stetson, niente di tutto ciò poteva portarlo all’altezza di suo fratello – perché suo fratello aveva ucciso un uomo, e nessuno l’avrebbe mai dimenticato. Al sapeva di godere lui stesso di una certa ammirazione tra i coetanei perché suo fratello aveva ucciso un uomo. A Sallisaw aveva sentito come lo indicavano: “Quello è Al Joad. Suo fratello ha ammazzato uno colla pala”.
E adesso Al, avvicinandosi umilmente, vide che il fratello non era sprezzante come aveva immaginato. Al vide gli occhi scuri e assorti del fratello, e la flemma dei carcerati, la neutra durezza del volto allenato a non rivelare niente ai secondini, né ostilità né soggezione. E di colpo Al si trasformò. Inconsciamente diventò come suo fratello, e la sua bella faccia si fece assorta, e le sue spalle si rilassarono. Non si ricordava com’era fatto Tom.
Tom disse: “Ciao Al. Quanto sei cresciuto, perdio! Capace che manco ti riconoscevo”.
Al, con la mano pronta qualora Tom volesse stringerla, sorrise a disagio. Tom tese la mano, e la mano di Al le guizzò incontro. E tra i due ci fu simpatia. “M’hanno detto che te n’intendi di camion,” disse Tom.
E Al, intuendo che il fratello non avrebbe gradito la spocchia, disse: “Non è che me n’intendo tanto”.
Pa’ disse: “Sei andato a fare il campione in giro per la campagna, e ora non ti reggi in piedi. Be’, ti tocca andare a Sallisaw a vendere un carico di roba”.
Al guardò suo fratello Tom. “Vieni pure tu?” disse cercando di apparire distaccato.
“No, non posso,” disse Tom. “Devo dare una mano qui. Tanto… stiamo insieme per tutt’il viaggio.”
Al cercò di contenere la domanda. “Sei… sei scappato? Dal carcere?”
“No,” disse Tom. “M’hanno liberato sulla parola.”
“Ah.” E Al fu un po’ deluso.
5 Charles A. Floyd, celebre rapinatore di banche degli anni trenta, ucciso dalla polizia in circostanze misteriose che lo consegnarono alla leggenda. (N.d.T).
Capitolo 9
Nelle piccole case i mezzadri setacciavano la loro roba e la roba dei loro padri e dei loro nonni. Sceglievano cosa portare con sé nel viaggio verso l’Ovest. Gli uomini erano inesorabili perché il passato era rovinato, ma le donne sapevano che il passato le avrebbe invocate nei giorni a venire. Gli uomini andavano nei fienili e nei capanni.
Quell’aratro, quell’erpice, ricordi che durante la guerra piantavamo la senape? Ricordi quel tipo che voleva farci piantare quella specie di gomma che chiamano guayule? Arricchitevi, diceva. Porta fuori gli arnesi… magari possiamo farci qualche dollaro. Aratro Sears Roebuck, sedici dollari più trasporto.
Finimenti, carretti, seminatrici, zappe. Portali fuori. Ammucchiali per bene. Caricali sul carro. Portali in città. Vendili per quello che riesci a farti dare. Vendi pure la pariglia e il carro. Non ci serve più niente.
Cinquanta centesimi è poco per un buon aratro. Quella seminatrice è costata trentotto dollari. Due dollari è poco. Non mi posso riportare tutt’indietro… Be’, allora può pigliarseli, ma con in più l’amarezza. Può pigliarsi la pompa del pozzo e i finimenti. Può pigliarsi cavezze, collari, stanghe e tirelle. Può pigliarsi i frontalini di vetro, rose rosse e perline di vetro. Li avevamo comprati per il castrone baio. Ricordi come alzava le zampe quando trottava?
Scarti ammucchiati sull’aia.
Ormai è impossibile vendere un aratro a mano. Al massimo ti danno cinquanta centesimi per il peso del metallo. Dischi e trattori, ecco cosa vogliono oggi.
Be’, può pigliarsi tutto – tutti gli scarti – e mi dà cinque dollari. Non sta comprando solo scarti, sta comprando vite di scarto. E in più – se ne accorgerà – sta comprando amarezza. Sta comprando un aratro per scavare la fossa ai suoi figli, sta comprando le braccia e i cuori che potevano salvarla. Cinque dollari, non quattro. Non mi posso riportare tutto… Be’, allora può pigliarseli per quattro. Ma l’avverto, sta comprando ciò che scaverà la fossa ai suoi figli. E non lo vede. Non lo può vedere. Va bene quattro. E per la pariglia e il carro quanto mi dà? Quei due splendidi bai, uguali nel colore, uguali nel passo, falcata dopo falcata. Ogni volta che c’era da tirare duro, chiappe e muscoli tesi, tutt’e due a muoversi come una cosa sola. E la luce che avevano addosso al mattino, una luce baia come loro. Si voltavano a guardare dal recinto, e ci fiutavano, e ruotavano le orecchie per sentirci, e quei ciuffi neri! Ho una bambina. Si diverte a intrecciare le criniere e i ciuffi dei cavalli, ci mette dei piccoli fiocchi rossi. Si diverte da matti. Ora non più. Potrei raccontarle una storia buffa a proposito della bambina e di quel baio laggiù. Si farebbe quattro risate. Quello laggiù ha otto anni, questo invece ne ha dieci, ma a vederli lavorare insieme sembrano gemelli. Vede? I denti. Tutti sani dal primo all’ultimo. Polmoni resistenti. Zoccoli lisci e puliti. Quanto? Dieci dollari? Per tutt’e due? E pure il carro? Perdio, meglio sparargli e farci carne da cani. Oh, va bene! Ma deve pigliarseli in fretta, signore. Lei sta comprando una bambina che intreccia i ciuffi, che si toglie il nastro dai capelli per fare i fiocchi, si scosta un po’, piega la testa e accarezza con la guancia quei musi teneri. Sta comprando anni di lavoro, di fatica sotto il sole; sta comprando una pena che non ha parole. Ma attento, signore. Insieme a questo mucchio di scarti e ai due bai – così belli – lei si porta via anche un extra, un pacco di amarezza che le crescerà in casa e che un giorno sboccerà. Potevamo salvarla, ma lei ci ha chiuso la porta in faccia, e ben presto qualcuno la chiuderà in faccia a lei e non ci sarà nessuno di noi a salvarla.
E i mezzadri se ne tornavano a piedi, mani in tasca e cappello calato sugli occhi. Alcuni compravano una pinta di whisky e se la scolavano in fretta per farsi stordire. Ma non ridevano e non ballavano. Non cantavano o strimpellavano la chitarra. Se ne tornavano a casa a piedi, con le mani in tasca e la testa china, con le scarpe che scalciavano la polvere rossa.
Forse possiamo cominciare daccapo, in una terra nuova e ricca – in California, dove cresce la frutta. Cominceremo daccapo.
Ma noi non possiamo cominciare. Solo i neonati possono cominciare. Tu e io… be’, noi siamo quello ch’è stato. La rabbia di un momento, le mille immagini, questo siamo. Questa terra, questa terra rossa, è noi; e gli anni di carestia e gli anni di polvere e gli anni d’inondazione siamo noi. Non possiamo cominciare daccapo. L’amarezza che abbiamo venduto al compratore di scarti… lui se l’è pigliata, certo, ma noi ce l’abbiamo ancora. E quando gli uomini del padrone ci hanno detto di andarcene, questo siamo; e quando il trattore ha buttato giù la nostra casa, questo siamo fino alla morte. In viaggio per la California o chissà dove, ognuno di noi tamburino di una parata di sofferenze, in marcia con la nostra amarezza. E un giorno… un giorno gli eserciti dell’amarezza andranno tutti nella stessa direzione. E marceranno tutti insieme, e spargeranno un terrore di morte.
I mezzadri si trascinavano verso casa in mezzo alla polvere rossa.
Dopo aver venduto tutto ciò che si poteva vendere, fornelli, letti, sedie e tavoli, piccole credenze a incastro, vasche e tinozze, restavano ancora mucchi di cose; e le donne ci si sedevano in mezzo, rigirandosele tra le mani e con lo sguardo lontano verso il passato, quadretti, mattonelle di vetro, e qui c’è un vaso.
Ora sai cosa possiamo portare e cosa non possiamo portare. Dormiremo accampati… qualche pentola per cucinare e per lavarci, e materassi e coperte, lanterne e secchi, e un pezzo d’incerata. Lo useremo per farci una tenda. Questo bidone di latta. Lo sai cos’è? È il fornetto. E vestiti… piglia tutti i vestiti. E il fucile? Saremmo nudi senza il fucile. Quando avremo consumato le scarpe, i vestiti, il cibo, e persino la speranza, avremo ancora il fucile. Quando il nonno arrivò qui – te l’avevo raccontato? – aveva sale, pepe e un fucile. Nient’altro. Il fucile ce lo portiamo. E una borraccia per l’acqua. E con questo siamo pieni. Ora tira su le sponde del rimorchio, e i bambini possono sedersi nel rimorchio, e la nonna su un materasso. Attrezzi, pala, sega, chiave inglese, tenaglie. E pure l’ascia. Quell’ascia ce l’abbiamo da quarant’anni. Guarda com’è consumata. E corde, certo. Il resto? Lascialo lì… o magari brucialo.
E arrivavano i bambini.
Se Mary si porta la bambola, quella sudicia bambola di pezza, io mi voglio portare l’arco indiano. E anche questo bastone rotondo, quasi più grande di me. Capace che mi serve, questo bastone. Ce l’ho da un sacco di tempo… un mese, o forse un anno. Me lo devo portare. E com’è fatta la California?
Le donne stavano sedute in mezzo alle cose spacciate, se le rigiravano tra le mani e le attraversavano con gli occhi, guardando lontano verso il passato. Questo libro. Era di mio padre. Gli piacevano i libri. Il viaggio del pellegrino. Lo leggeva spesso. C’è dentro il suo nome. E l’odore della sua pipa… si sente ancora la puzza di guasto. E questo quadretto con l’angelo. Lo guardavo spesso prima di avere i primi tre… ma non è servito a molto. Secondo te il cagnolino di porcellana ce lo possiamo portare? Era di Zia Sadie, l’aveva preso alla St. Louis Fair. Vedi? C’è scritto proprio qui. No, mi sa che non ce lo possiamo portare. Questa lettera l’ha scritta mio fratello il giorno prima di morire. Questo è un cappello come si usava un tempo. Le piume… non c’è mai stata occasione di usarle. No, non c’è spazio.
Come facciamo a vivere senza le nostre vite? Come sapremo di essere noi senza il nostro passato? No. Tocca lasciarlo qui. Bruciarlo.
Stavano sedute e lo guardavano e lo bruciavano nei loro ricordi. Come sarà non conoscere la terra che c’è fuori dalla porta? Come sarà svegliarsi in piena notte e sapere… e sapere che il salice non c’è? Si può vivere senza il salice? No, no che non si può. Il salice sei tu. Il dolore su quel materasso lì – quel dolore atroce – sei tu.
E i bambini: se Sam si porta l’arco indiano e il bastone rotondo, allora anch’io devo portarmi due cose. Voglio quel cuscino morbido. È mio.
E di colpo erano tutti nervosi. Dobbiamo sbrigarci a partire. Non possiamo aspettare. E ammucchiavano le cose in mezzo all’aia e gli davano fuoco. Stavano lì e le guardavano bruciare, e poi caricavano freneticamente i mezzi e andavano via, andavano via nella polvere. La polvere indugiava a lungo nell’aria dietro di loro.
Capitolo 10
Quando il camion se ne fu andato, carico di utensili, attrezzi pesanti, letti, reti, e qualsiasi oggetto trasportabile si potesse vendere, Tom andò in giro per la fattoria. Indugiò un po’ nel fienile, poi nelle stalle vuote; entrò nel capanno degli attrezzi, scalciò i resti sparsi per terra, rivoltò con un piede un rebbio di falciatrice spezzato. Andò a rivedere i posti che conosceva: l’argine rosso dove i passeri facevano il nido, il salice sopra il recinto dei maiali. Due porcellini gli andarono incontro grugnendo e strusciandosi sulla staccionata, due bei porcellini neri che si beavano al sole. Concluso lì il suo pellegrinaggio, Tom andò a sedersi sul gradino della soglia, dove l’ombra era venuta a posarsi. Dietro di lui, Ma’ si affaccendava per la cucina, lavando in una bacinella i panni dei bambini; e dalle sue forti braccia lentigginose colavano gocce di saponata all’altezza dei gomiti. Smise di strofinare vedendo Tom che si sedeva. Lo guardò a lungo, poi guardò la sua nuca quando Tom si voltò verso la calda luce del sole. Infine riprese a strofinare.
Disse: “Tom, speriamo che in California va tutto bene”.
Lui si voltò e la guardò. “Che ti fa pensare di no?” le chiese.
“Be’… niente. Mi pare troppo bello. Ho visto quei volantini che danno in giro, dove dicono che c’è un sacco di lavoro e le paghe sono alte e tutt’il resto; e sul giornale ho visto che cercano gente per raccogliere le arance e l’uva e le pesche. Dev’essere un bel lavoro raccogliere le pesche, Tom. Pure se non te le lasciano mangiare, magari ogni tanto te ne puoi pigliare una un po’ guasta. E dev’essere bello lavorare in mezzo agli alberi, coll’ombra. Mi spaventa la roba così bella. Non mi fido. Mi spavento che alla fine c’è qualcosa di brutto.”
Tom disse: “Non far volare troppo alta la speranza se non vuoi strisciare come un verme”.
“Proprio così. È la Bibbia, no?”
“Mi sa,” disse Tom. “Con la Bibbia m’imbroglio sempre da quand’ho letto un libro che si chiama La conquista di Barbara Worth.”
Ma’ sorrise e scrollò più volte i panni dentro il bacile. Poi cominciò a strizzare le tute e le camicie, e i muscoli dei suoi avambracci guizzavano. “Il padre di tuo padre era sempre lì che citava la Bibbia. E faceva confusione pure lui. S’imbrogliava coll’Almanacco del dr. Miles. Leggeva tutte le pagine di quell’almanacco a voce alta… lettere di gente che non riusciva a dormire o che gli faceva male la schiena. Poi le andava a dire alla gente come insegnamento, e diceva: ‘È una parabola della Bibbia’. Tuo padre e Zio John ridevano e lui non capiva perché.” Impilò sul tavolo gli indumenti strizzati, simili a ciocchi di legno. “Dice che tocca fare duemila miglia per arrivare in quel posto. Per te quant’è lontano duemila miglia? Ho guardato su una mappa, è pieno di montagne come quelle delle cartoline, e tocca passarci in mezzo. Per te quanto ci vuole per andare così lontano, Tom?”
“Non lo so,” disse lui. “Due settimane, magari dieci giorni se ci va bene. Ascolta, Ma’, piantala di tormentarti. Ora ti dico una cosa di quando stai in prigione. Uno non deve mai pensare a quando esce. Sennò impazzisci. Devi pensare a quel giorno lì, e poi a quello dopo, alla partita di calcio di sabato. È così che devi fare. Quelli che ci stanno da tanto fanno così. I nuovi si sbattono la testa contro la porta della cella. Pensano a quanto ci devono stare. Perché non lo fai pure tu? Pensa un giorno per volta.”
“È un bel sistema,” disse lei, e riempì il bacile con l’acqua del fornetto, ci mise dentro i panni sporchi e cominciò rivoltarli nella saponata. “Sì, è un bel sistema. Ma a me mi piace pensare a quant’è bello in California. Non fa mai freddo. E c’è frutta dappertutto, e la gente sta in posti bellissimi, piccole case bianche in mezzo agli aranci. Magari – dico, se ci pigliano a lavorare e lavoriamo tutti quanti – magari ce la troviamo pure noi una di quelle piccole case bianche. Così l’arance i bambini se le vanno a pigliare proprio sugli alberi. Pensa che strilli, e chi li sente?”
Tom la guardò lavorare, e i suoi occhi sorrisero. “T’è bastato pensarci e t’ha fatto bene. Ho conosciuto uno della California. Non parlava come noi. Lo capivi da come parlava che veniva da qualche posto lontano. Ma quel tizio m’ha detto che ora lì c’è un sacco di gente che cerca lavoro. E dice che quelli che raccolgono la frutta stanno tutti accampati in posti sudici e fanno la fame. Dice che le paghe sono basse, e lavoro ce n’è poco.”
Un’ombra passò sul viso della madre. “Oh, non è vero,” disse. “A tuo padre gli hanno dato un volantino di carta gialla, e lì c’è scritto che cercano un sacco di gente per lavorare. Se non c’era lavoro mica si scomodavano a fare una roba così. Chissà quanti soldi gli costa mandare in giro quei fogli. Ti pare che uno si mette a dire bugie se gli tocca pagare per dirle?”
Tom scosse la testa. “Non lo so, Ma’. È difficile capire perché lo fanno. Magari…” Si voltò a guardare il sole rovente, scintillante sulla terra rossa.
“Magari cosa?”
“Magari è bello, come dici tu. Dov’è andato Nonno? Dov’è andato il predicatore?”
Ma’ stava uscendo nell’aia, con le braccia cariche di panni. Tom si scostò per lasciarla passare. “Il predicatore ha detto che s’andava a fare un giro. Nonno è di là che dorme. Certe volte viene in casa di giorno e si fa una dormita.” Uscì nell’aia e cominciò a stendere sul filo i jeans blu chiari e le camicie blu e le lunghe canottiere grigie.
Tom udì dei passi dietro di sé, e si voltò per guardare in casa. Nonno stava uscendo dalla stanza da letto, e, come al mattino, armeggiava con i bottoni della patta. “Ho sentito parlare,” disse. “Brutti figli di puttana, perché non lasciate dormire in pace un povero vecchio?” Le sue dita furenti riuscirono a disfare gli unici due bottoni della patta abbottonati. La sua mano s’infilò nel varco e cominciò a raspare allegramente sotto i testicoli. Ma’ entrò con le mani bagnate e i palmi arrossati e gonfi per l’acqua calda e il sapone.
“Mi pareva che dormivi. Aspetta che t’abbottono.” E, nonostante Nonno si dimenasse, Ma’ lo tenne fermo e gli abbottonò la canottiera e la camicia e la patta. “Ecco, ora puoi uscire,” disse, e lo lasciò andare.
E Nonno farfugliò, indispettito: “Uno fa proprio una bella… una bella… quando gli abbottonano i pantaloni. Io me li voglio abbottonare da solo”.
Ma’ disse in tono scherzoso: “Guarda che in California la gente non la lasciano andare in giro colla patta aperta”.
“No, eh? Be’, gli faccio vedere io. Si credono che m’imparano l’educazione? Io se mi va me ne vado in giro colle palle di fuori!”
Ma’ disse: “Parla sempre più sporco ogni anno che passa. Gli pare che così si dà importanza”.
Il vecchio spinse all’infuori il mento ispido e guardò Ma’ con i suoi occhietti scaltri, maligni, allegri. “Eh be’,” disse, “tra un po’ ce n’andiamo, perdio. Dice che in quel posto c’è tanta di quell’uva che gli cresce pure in mezzo alla strada. Lo sapete che faccio quando arrivo? Mi riempio una tinozza d’uva, poi c’entro dentro, mi rivolto tutto quanto e me la faccio colare sulle mutande.”
Tom rise. “Perdio, Nonno è così tosto che non lo calmi manco se campa duecento anni,” disse. “Allora sei pronto per partire, Nonno?”
Il vecchio avvicinò una cassa e vi si sedette pesantemente. “Sissignore,” disse. “E ti dico ch’era ora, perdio. Mio fratello se n’è andato in California quarant’anni fa. Mai più saputo niente di lui. Era un lurido figlio di puttana. Nessuno gli voleva bene. Se n’è scappato colla mia Colt a un colpo. Se mi capita di vederlo in California, o magari i suoi figli se laggiù n’ha fatto qualcuno, gli dico di tornarmi la Colt. Ma per come lo conosco, quello s’ha fatto dei figli l’ha fatti in casa d’altri e gliel’ha lasciati da allevare. Sono proprio contento d’andare in California. Capace che lì mi rifaccio nuovo. Appena arrivo mi metto a raccogliere la frutta.”
Ma’ annuì. “E non scherza,” disse. “Tre mesi fa era ancora lì che lavorava, l’ultima volta che gl’è uscito l’osso del fianco.”
“Proprio così,” disse Nonno.
Dal gradino della soglia, Tom guardò verso il fondo dell’aia. “Ecco il predicatore che torna. Viene da dietro il fienile.”
Ma’ disse: “Mai sentita una preghiera così strana come quella che ha fatto stamattina. Manco pareva una preghiera. Era come se parlava e basta, ma colla voce delle preghiere”.
“È un tipo strano,” disse Tom. “Parla sempre strano. Ma è come se parla da solo. Non cerca di metterti in testa qualcosa.”
“L’hai visto che sguardo che ha?” disse Ma’. “Pare battezzato. Dice che quelli così ti vedono dentro. Pare proprio battezzato. Cammina sempre con la testa bassa, e guarda a terra come se non vede niente. Quello sì ch’è uno battezzato.” E smise di parlare, perché Casy era arrivato davanti alla porta.
“Ti pigli un colpo di sole se vai in giro così,” disse Tom.
Casy disse: “Be’… capace di sì”. A un tratto si rivolse a tutti loro, a Ma’ e Nonno e Tom. “Io all’Ovest ci devo andare. Ci devo proprio andare. Magari ci posso andare con voi.” E chinò la testa, imbarazzato dalle proprie parole.
Ma’ guardò Tom aspettando che parlasse, perché era un uomo. Ma Tom non parlò. Lei gli diede il tempo di approfittare del suo diritto, poi disse: “Be’, saremmo onorati di portarla con noi. Certo, mica posso deciderlo io; Pa’ dice che stasera gli uomini si riuniscono e decidono quando dobbiamo partire. Mi sa ch’è meglio aspettare che gli uomini sono tutti qui. John, Pa’, Noah, Tom, Nonno, Al e Connie… sono loro che devono decidere. Ma se c’è posto sono sicura che saremo onorati di portarla con noi”.
Il predicatore sospirò. “Io in qualche modo ci devo andare,” disse. “Sta capitando qualcosa. Sono andato a guardare, e le case sono tutte vuote, e la terra è vuota, e tutto quanto il paese è vuoto. Io qui non ci posso più stare. Devo andare dove va la gente. Lavorerò nei campi, e forse sarò felice.”
“Senza predicare?” chiese Tom.
“Senza predicare.”
“Senza battezzare?” chiese Ma’.
“Senza battezzare. Lavorerò nei campi, nei campi verdi, e starò vicino alla gente. Non cercherò d’insegnargli niente. Cercherò d’imparare. Imparerò perché la gente cammina nell’erba, li sentirò parlare, li sentirò cantare. Ascolterò i bambini mentre mangiano la polenta. Sentirò marito e moglie mentre di notte cavalcano il materasso. Mangerò con loro e imparerò.” I suoi occhi erano umidi e lucidi. “E nei boschi ci andrò schietto e onesto, con tutte quelle che ci vogliono venire. Imprecherò e bestemmierò e ascolterò la poesia della gente che parla. Tutto quello ch’è santo, tutto quello che non capivo. Sono queste le cose buone.”
Ma’ disse: “Amen”.
Il predicatore si sedette umilmente sul ciocco da legna accanto alla porta. “Chissà che t’aspetta quando sei così solo.”
Tom tossì delicatamente. “Se uno non predica più…” cominciò.
“Oh, io parlo tanto!” disse Casy. “E non voglio smettere. Ma predicare no. Predicare è dire roba alla gente. Io voglio chiedere. Quello non è predicare, no?”
“Non lo so,” disse Tom. “Predicare è un modo di parlare, e predicare è un modo di guardare le cose. Predicare è essere buoni colla gente pure se gli mette voglia d’ammazzarti. A Natale giù a McAlester è venuto l’Esercito della Salvezza per farci del bene. Ci hanno messi seduti lì a sentire la cornetta per tre ore di fila. Lo facevano per bontà. Ma se uno di noi provava a squagliarsela, lo sbattevano in isolamento. Ecco cos’è predicare. Fare del bene a uno ch’è conciato male e non può farti smettere con un pugno. No, tu non sei un predicatore. E non metterti a suonare la cornetta.”
Ma’ infilò un po’ di legna nel fornetto. “Vi faccio da mangiare, ma non c’è tanta roba.”
Nonno portò fuori la cassa e ci si sedette sopra e si addossò alla parete, e Tom e Casy si appoggiarono alla parete. E l’ombra del pomeriggio si allontanò dalla casa.
Nel tardo pomeriggio il camion fece ritorno, sobbalzando e sferragliando in mezzo alla polvere, e c’era uno strato di polvere sul cassone, e il cofano era ricoperto di polvere, e i fari erano velati da una specie di farina rossa. Il sole stava tramontando quando il camion fece ritorno, e la terra aveva il colore del sangue nella luce calante. Al era curvo sul volante, fiero e serio e compunto, e Pa’ e Zio John, in quanto capi del clan, occupavano i posti d’onore accanto al guidatore. Gli altri viaggiavano in piedi sul cassone, reggendosi alle stanghe delle sponde: la dodicenne Ruthie e il decenne Winfield, facce sudicie ed eccitate, occhi stanchi ma vispi, dita e orli della bocca neri e appiccicosi per le stecche di liquirizia che in città avevano estorto al padre a furia di piagnistei. Ruthie, vestita con un vero abito di mussola rosa che le arrivava sotto le ginocchia, era compenetrata nel suo ruolo di signorinella. Winfield, invece, aveva ancora qualcosa del moccioso, del musone ombroso che andava a rintanarsi nel fienile, dell’instancabile raccoglitore e fumatore di mozziconi. E mentre Ruthie sentiva l’importanza e la responsabilità e la dignità del suo seno incipiente, Winfield era un monello scatenato e ribelle. Accanto a loro, tenendosi con delicatezza alle stanghe, c’era Rose of Sharon, che badava a tenersi in equilibrio dondolando sui talloni, e ad assorbire con le ginocchia e le anche gli scossoni della strada. Perché Rose of Sharon era incinta e cauta. I suoi capelli intrecciati e arrotolati intorno al capo le facevano una corona biondo-cenere. Il suo morbido viso ovale, che qualche mese prima era ancora voluttuoso e invitante, aveva ormai alzato la barriera della gravidanza, il sorriso appagato, lo sguardo di oculata perfezione; e il suo corpo procace – seni carnosi e sodi, ventre e fianchi e natiche già capaci di ondeggiare in maniera così libera e provocante da ispirare pacche e carezze – l’insieme del suo corpo era diventato contegnoso e sobrio. L’insieme dei suoi pensieri e dei suoi atti era rivolto all’interno, verso il piccolo. Adesso dondolava sulla punta dei piedi, per il bene del piccolo. E per lei era l’intera terra a essere incinta: pensava solo in termini di riproduzione e di maternità. Connie, il marito diciannovenne, che aveva sposato una monella procace e sfrontata, era ancora spaventato e sbalordito da quel cambiamento; perché non c’erano più le schermaglie nel letto, i morsi e i graffi tra le risate soffocate che sfociavano in lacrime. C’era una creatura equilibrata, prudente e saggia, che lo teneva a bada con un sorriso dolce ma risoluto. Connie era fiero e timoroso di Rose of Sharon. Appena poteva, la toccava con una mano o accostava il corpo fino a sfiorarle un fianco o una spalla, sentendo così di mantener vivo un contatto che rischiava di perdersi. Era un ragazzo snello e dal viso squadrato, originario del Texas, e i suoi occhi azzurri erano a volte insidiosi e a volte affettuosi, e a volte timorosi. Era un buon lavoratore e poteva diventare un buon marito. Beveva abbastanza ma senza esagerare; si azzuffava quando era necessario e senza farsene un vanto. In pubblico non alzava mai la voce eppure sapeva come farsi valere.
Se non avesse avuto cinquant’anni, essendo per ciò stesso uno dei capi naturali della famiglia, Zio John avrebbe preferito non sedere nel posto d’onore accanto al guidatore. Avrebbe voluto che in quel posto sedesse Rose of Sharon. Il che era impossibile, essendo lei giovane e donna. Ma Zio John vi si sentiva a disagio, e i suoi malinconici occhi da solitario non avevano requie, e il suo corpo magro e gagliardo non era rilassato. La barriera della solitudine teneva Zio John quasi costantemente separato dalla gente e dalle passioni. Mangiava poco, non beveva affatto, ed era vedovo. Dentro di lui, però, le passioni si gonfiavano fino a esplodere. Allora mangiava fino a star male qualsiasi pietanza che in quel momento lo tentasse; oppure beveva cognac o whisky fino a trasformarsi in un paralitico tremante e con gli occhi rossi; oppure si abbandonava alla lussuria più sfrenata con qualche puttana di Sallisaw. Si diceva che una volta fosse andato fino a Shawnee, avesse assoldato tre puttane, le avesse coricate in un letto e per un’ora avesse smaniato in fregola sui loro corpi impassibili. Ma subito dopo aver saziato uno dei suoi appetiti, era di nuovo prigioniero della tristezza, della vergogna, della solitudine. Evitava le persone, e a furia di regali cercava di farsi perdonare dalle persone. Allora s’intrufolava nelle case e lasciava pacchetti di gomme sotto il cuscino dei bambini; allora tagliava la legna e rifiutava di farsi pagare. Allora dava via qualunque ricchezza gli capitasse di avere: una sella, un cavallo, un paio di scarpe. E in quei momenti nessuno riusciva a parlargli, perché scappava via o, se non faceva in tempo, si rintanava dentro di sé limitandosi a guardar fuori con i suoi occhi spaventati. La morte della moglie, seguita da mesi di isolamento, lo aveva sprofondato nella vergogna e nel senso di colpa, lasciandolo avvolto in un impenetrabile strato di solitudine.
Ma c’erano cose cui non poteva sfuggire. Essendo uno dei capi della famiglia, doveva comandare; e adesso doveva sedere nel posto d’onore accanto all’autista.
I tre uomini seduti nella cabina del camion erano pensierosi lungo la polverosa strada del ritorno. Al, curvo sul volante, continuava ad alternare lo sguardo tra la strada e il cruscotto, tenendo d’occhio l’ago dell’amperometro che oscillava in maniera allarmante, tenendo d’occhio il livello dell’olio e la temperatura dell’acqua. E col pensiero passava in rassegna i punti deboli e i dettagli sospetti del veicolo. Ascoltava un gemito continuo che forse era l’assale posteriore da ingrassare, e ascoltava il saliscendi delle punterie. Teneva la mano sulla leva del cambio, controllando così l’ingranare delle marce. E provava la frizione per vedere se facesse troppo gioco rispetto al freno. Poteva anche capitargli di fare il caprone in fregola, ma adesso aveva una responsabilità sulle spalle, quella del camion, del suo funzionamento, della sua manutenzione. Se qualcosa fosse andato storto, sarebbe stata colpa sua; nessuno l’avrebbe fatto notare, ma tutti quanti, e Al per primo, avrebbero saputo che era colpa sua. E perciò stava all’erta, ascoltando, guardando. E la sua faccia era attenta e responsabile. E tutti rispettavano lui e la sua responsabilità. Persino Pa’, che era il capo, era pronto a manovrare la chiave inglese agli ordini di Al.
Sul camion erano tutti stanchi. Ruthie e Winfield erano stanchi per aver visto troppo movimento, troppe facce, per aver troppo smaniato per ottenere le stecche di liquirizia; stanchi per l’eccitazione di avere Zio John che di nascosto gli infilava in tasca le gomme.
E gli uomini nella cabina erano stanchi e arrabbiati e tristi, perché avevano ricavato diciotto dollari dalla vendita di tutt’il vendibile della fattoria: i cavalli, il carro, gli attrezzi, e tutti i mobili della casa. Diciotto dollari. Avevano tormentato il compratore, avevano insistito; ma si erano spaventati quando quell’uomo era parso perdere ogni interesse e aveva detto che lui quella roba non la voleva per nessun prezzo. A quel punto, pensando che dicesse sul serio, avevano ceduto, accettando un’offerta di due dollari più bassa rispetto a quella iniziale. E adesso erano spossati e impauriti perché avevano affrontato un sistema che non capivano e che li aveva sconfitti. Sapevano che la pariglia e il carro valevano molto di più. Sapevano che il compratore avrebbe ricavato molto più di quanto offriva, ma non sapevano come fare. Non erano pratici di strategie di vendita.
Al, con gli occhi che sfrecciavano tra la strada e il cruscotto, disse: “Quello non era di qua. Non parlava come uno di qua. Era pure vestito diverso”.
E Pa’ spiegò: “All’emporio ho parlato con dei tizi che conosco. Dice che questa gente viene solo per comprarsi la roba che ci tocca vendere quando ci cacciano. Dice che questa gente di fuori sta fregando tutti. Ma non ci possiamo fare niente. Magari era meglio se veniva Tommy. Capace che se la cavava meglio”.
John disse: “Ma quello la nostra roba non la voleva tutta quanta. Mica potevamo riportarcela indietro”.
“I tizi dell’emporio m’hanno parlato pure di questo,” disse Pa’. “Dicono che quelli che comprano fanno sempre così. Lo fanno per mettere paura a quelli che vendono. Ma noi non ci sappiamo fare con queste cose. Chissà Ma’ come ci resta male. S’arrabbia e ci resta male.”
Al disse: “Pa’, per te quand’è che dobbiamo partire?”.
“Non lo so. Stasera parliamo e decidiamo. Sono contento che Tom è tornato. Ora sto più tranquillo. Tom è un bravo ragazzo.”
Al disse: “Pa’, dei tizi parlavano di Tom e dicevano ch’è libero sulla parola. Per loro vuol dire che non può passare il confine, sennò l’arrestano e lo rimandano al fresco per tre anni”.
Pa’ trasalì. “Hanno detto così? Erano gente istruita o sbruffoni?”
“Non lo so,” disse Al. “Erano lì che parlavano, e io non gli ho detto ch’è mio fratello. Mi sono messo a sentire e basta.”
Pa’ disse: “Cristo, speriamo che non è vero! Tom ci serve. Appena arriviamo gli chiedo com’è questa cosa. Rogne n’abbiamo abbastanza senza che ci danno la caccia. Speriamo che non è vero. Dobbiamo chiederglielo a Tom”.
Zio John disse: “Tom lo sa per forza”.
Tacquero, e il camion continuò la sua avanzata sferragliante. Il motore era rumoroso, pieno di cigolii minuti e diversi, e i tamburi dei freni stridevano. Le ruote scricchiolavano come se fossero di legno, e un sottile getto di vapore usciva da un buco sotto il tappo del radiatore. Il camion lasciava dietro di sé un turbinio di polvere rossa simile a un’alta colonna. Arrancarono sull’ultima salita mentre il sole era ancora per metà sopra l’orizzonte, e scesero verso la casa mentre il sole scompariva. I freni stridettero quando il camion si fermò, e quel rumore si stampò nella mente di Al: le guarnizioni erano andate.
Ruthie e Winfield scavalcarono la sponda urlando e si lasciarono cadere a terra. Gridarono: “Dov’è? Dov’è Tom?”. E lo videro fermo accanto alla porta, e si bloccarono, imbarazzati, poi si avviarono adagio verso di lui e lo guardarono timidamente.
E quando lui disse: “Ciao, come va?”, loro risposero piano: “Ciao! Bene”. E rimasero in disparte, a guardarlo furtivamente, il grande fratello che aveva ucciso un uomo ed era stato in prigione. Ripensavano a quando nel pollaio giocavano alla prigione, disputandosi il diritto di essere il prigioniero.
Connie Rivers tolse la sponda posteriore del cassone e smontò dal camion per aiutare Rose of Sharon a scendere; e lei accettò con fare regale, sorridendo con quel suo sorriso cauto e compiaciuto, e un’increspatura un po’ fatua agli angoli della bocca.
Tom disse: “Oh, c’è Rosasharn. Non sapevo che venivi con loro”.
“Eravamo a piedi,” disse lei. “È passato il camion e siamo saliti.” Poi disse: “Lui è Connie, mio marito”. E nel dirlo fu solenne.
I due maschi si strinsero la mano, soppesandosi a vicenda, squadrandosi a vicenda; e in pochi istanti furono soddisfatti ciascuno dell’altro, e Tom disse: “Be’, vedo che vi siete dati da fare”.
Rose of Sharon si guardò il grembo. “Non si vede, non ancora.”
“Me l’ha detto Ma’. Quand’è che nasce?”
“Oh, c’è ancora tempo! Non prima dell’inverno.”
Tom rise. “Vuoi che nasce sotto gli aranci, eh? In una di quelle piccole case bianche con tutti gli aranci intorno.”
Rose of Sharon si palpò il ventre con entrambe le mani. “Non si vede,” disse, e sorrise con il suo sorriso compiaciuto ed entrò in casa. La sera era calda, e una striscia di tramonto indugiava ancora all’orizzonte. E, senza alcun segnale, la famiglia si raccolse accanto al camion, e l’assemblea, il governo di famiglia, aprì la seduta.
La tenue luce del crepuscolo dava alla terra rossa una sorta di nitore, ed era come se la profondità delle cose aumentasse, come se una pietra, un palo o una costruzione avessero contorni più netti e profondi che alla luce del giorno; e l’individualità di tali oggetti ne veniva stranamente accresciuta: un palo era più essenzialmente un palo, staccandosi dalla terra in cui era piantato e dal campo di mais sul quale si stagliava. E le piante erano individui, non la massa del raccolto; e il salice smunto era se stesso, libero e distinto da ogni altro salice. La terra contribuiva alla luce della sera. La facciata di legno grezzo della casa grigia, rivolta a ponente, aveva la luminosità della luna. Nell’aia davanti alla porta, il camion grigio di polvere si stagliava in quella luce magicamente, come nella prospettiva dilatata di uno stereoscopio.
La sera cambiava anche le persone, calmandole. Sembravano elementi di una struttura inconscia. Obbedivano a impulsi che i loro cervelli registravano solo in parte. I loro sguardi erano rivolti all’interno, calmi, e anche i loro occhi erano nitidi nella sera, nitidi nelle facce impolverate.
La famiglia si raccolse nel punto più importante, accanto al camion. La casa era morta, i campi erano morti; ma quel camion era la cosa attiva, il principio vivente. Quel decrepito Hudson con lo schermo del radiatore ammaccato e incrinato, con il grasso rappreso in granuli polverosi sui bordi usurati degli ingranaggi, con i coprimozzi di lamiera sostituiti da coprimozzi di polvere rossa – era quello il nuovo focolare, il centro vivente della famiglia: metà automobile e metà camion, sponde alte e andatura incerta.
Pa’ girò intorno al camion, osservandolo, poi si accoccolò nella polvere e trovò un legnetto con cui disegnare. Teneva un piede poggiato di piatto sul terreno, e l’altro un po’ arretrato, sollevato sul tallone, così da avere un ginocchio più alto dell’altro. L’avambraccio sinistro poggiava sul ginocchio più basso, il sinistro; il gomito destro sul ginocchio destro, il mento sul pugno a coppa. Zio John si fece avanti e si accoccolò accanto a lui. I loro sguardi erano assorti. Nonno uscì dalla casa e vide i due figli accoccolati uno accanto all’altro; zoppicò fino al camion e si sedette sul predellino, di fronte a loro. Quello era il nucleo. Sopraggiunsero Tom e Connie e Noah e si accoccolarono ai lati, formando un semicerchio con Nonno al centro dell’apertura. Poi Ma’ uscì dalla casa, e con lei c’era Nonna, seguita da Rose of Sharon, che camminava con cautela. Presero posto dietro gli uomini accoccolati; rimasero in piedi, con le mani sui fianchi. E i bambini, Ruthie e Winfield, saltellavano da un piede all’altro accanto alle donne; i bambini rovistavano con i piedi scalzi nella polvere rossa, ma senza fare rumore. Mancava solo il predicatore. Si era seduto per terra dietro la casa, per discrezione. Era un buon predicatore e conosceva la sua gente.
La luce della sera si era attenuata, e la famiglia rimase in silenzio per qualche minuto. Poi Pa’, rivolgendosi non a qualcuno in particolare bensì al gruppo, fece il suo rapporto. “Ci hanno fregati colla roba che abbiamo venduto. Il tizio sapeva che avevamo fretta. Abbiamo fatto solo diciotto dollari.”
Ma’ ebbe un moto d’insofferenza, ma non perse la calma.
Noah, il figlio maggiore, chiese: “Ora quant’abbiamo in tutto?”.
Pa’ tracciò dei numeri sulla polvere e borbottò fra sé per qualche istante. “Centocinquantaquattro,” disse infine. “Ma Al dice che ci servono gomme migliori. Dice che queste non durano.”
Era la prima volta che Al interveniva nell’assemblea di famiglia. Le altre volte era sempre rimasto sullo sfondo, con le donne. E il suo rapporto lo fece solennemente. “Il camion è vecchio e malconcio,” disse in tono grave. “Gli ho dato una bella guardata prima di comprarlo. Quello diceva ch’era un affare, ma io non gli ho dato retta. Ho messo il dito nel differenziale e non c’era segatura. Ho aperto la scatola del cambio e non c’era segatura. Ho provato la frizione e ho fatto girare le ruote per vedere l’allineamento. Mi sono messo sotto il telaio e non ci sono ammaccature. Incidenti non n’ha avuti. Ho visto che c’era una perdita nella batteria e gliel’ho fatta cambiare. Le gomme non valgono niente ma la misura è buona. Si trovano facile. Il motore è vecchio ma non perde olio. Ho detto a Pa’ di comprarlo perché è un camion popolare. Gli sfasciacarrozze sono pieni di Hudson Super Six, e i pezzi costano poco. Cogli stessi soldi ci potevamo pigliare un camion più grande e più bello, ma i pezzi sono difficili da trovare e costano troppo. Almeno, io è così che la vedo.” L’ultima frase rinviava alla famiglia. Al tacque e aspettò il parere degli altri.
Nonno era ancora il capo riconosciuto, ma non comandava più. La sua posizione era onoraria e relativa alla consuetudine. Però aveva il diritto di fare il primo commento, per quanto confuso potesse essere il suo vecchio cervello. E gli uomini accoccolati e le donne in piedi aspettarono che parlasse. “Tu sei un bravo ragazzo, Al,” disse Nonno. “Quand’ero un moccioso come te stavo sempre in giro a fare il caprone. Ma se c’era un lavoro da fare lo facevo. Sei cresciuto bene.” Concluse in tono di benedizione, e Al arrossì di piacere.
Pa’ disse: “Per me Al ha ragione. Se erano cavalli non c’era da fidarsi di Al. Ma coi motori è l’unico che ci capisce”.
Tom disse: “Io un po’ li conosco. A McAlester ci lavoravo. Al ha ragione. Ha scelto bene”. Adesso Al era ancora più rosso per la fierezza. Tom continuò: “Volevo dire un’altra cosa… be’, il predicatore… dice se può venire con noi”. Tacque. Le sue parole si posarono sul gruppo, e il gruppo rimase in silenzio. “È un brav’uomo,” aggiunse. “Lo conosciamo da un pezzo. Certe volte parla un po’ strano, ma dice roba giusta.” E rimise la proposta alla famiglia.
La luce stava scemando. Ma’ lasciò il gruppo per entrare in casa, e lo schiocco metallico del fornetto risuonò dalla casa. Dopo qualche istante, Ma’ riprese posto nell’assemblea assorta.
Nonno disse: “Sui predicatori non la pensano tutti uguale. Per qualcuno portano male”.
Tom disse: “Casy dice che non è più un predicatore.”
Nonno agitò la mano. “Se uno è un predicatore, resta un predicatore. Non è roba che te la togli di dosso. C’è pure chi dice che portarsi appresso un predicatore fa comodo. Se muore qualcuno, il predicatore lo sotterra. Se due si vogliono sposare, magari in ritardo, c’è lì pronto il predicatore. Nasce un bambino, e in casa c’è già chi te lo battezza. Io dico che ci sono predicatori e predicatori. L’importante è scegliere. A me quello lì mi piace. Non è uno tosto.”
Pa’ infilò il legnetto nella polvere e lo ruotò tra le dita fino a scavare un piccolo buco. “L’importante non è se porta fortuna o se è un brav’uomo,” disse Pa’. “Tocca fare i conti. È brutto fare i conti. Vediamo un po’. Ci sono Nonno e Nonna, e fa due. Poi io e John e Ma’, e fa cinque. Poi Noah e Tommy e Al, e fa otto. Rosasharn e Connie fanno dieci, e Ruthie e Winfield fanno dodici. I cani tocca che ce li portiamo, sennò che facciamo? I cani buoni non puoi ammazzarli, e non c’è nessuno per darli via. E fanno quattordici.”
“Senza contare i polli che ci restano, e i due maiali,” disse Noah.
Pa’ disse: “I maiali li voglio salare per mangiarceli in viaggio. La carne ci vuole. Ci portiamo i barilotti per la carne salata. Ma voglio capire se sul camion possiamo starci tutti, se viene il predicatore. E se una bocca in più possiamo sfamarla.” Senza voltare la testa, domandò: “Ma’, possiamo?”.
Ma’ si schiarì la voce. “Non è se possiamo, è se vogliamo.” disse con fermezza. “Perché se è ‘possiamo’, allora non possiamo niente, manco andare in California né niente; ma se è ‘vogliamo’, be’, allora facciamo come vogliamo. E se è ‘vogliamo’, è da un pezzo che le nostre famiglie vivono qui e all’Est, e non ho mai sentito dire che un Joad o un Hazlett hanno rifiutato un pezzo di pane o un tetto o un passaggio a qualcuno che glielo domandava. Di Joad cattivi ce n’è stati tanti, ma mai così cattivi.”
Pa’ intervenne: “E se non c’è posto?”. Aveva storto il collo all’insù per guardarla, e adesso si vergognava. Il tono di Ma’ l’aveva fatto vergognare. “Se sul camion non ci stiamo tutti quanti?”
“Posto non ce n’è già per quelli che siamo,” disse Ma’. “Posto ce n’è solo per sei, e siamo già dodici a partire. Uno in più non fa danno; e un uomo sano e robusto fa sempre comodo. E quando hai due maiali e più di cento dollari, domandarti se puoi sfamare qualcuno…” Ma’ s’interruppe, e Pa’ si voltò dall’altra parte, e il suo animo era ferito per quella lezione.
Nonna disse: “È bello se viene pure un predicatore. Stamattina ha fatto una bella preghiera.”
Pa’ guardò gli altri per vedere se ci fossero obiezioni, poi disse: “Ti va’ di chiamarlo, Tommy? Se deve venire con noi è meglio che sta qui.”
Tom si alzò e andò verso la casa, chiamando: “Casy… ehi, Casy!”.
Una voce soffocata rispose da dietro la casa. Tom svoltò l’angolo e vide il predicatore seduto per terra, addossato alla parete, con gli occhi fissi sulla stella della sera che brillava nel cielo pallido. “M’hai chiamato?” chiese Casy.
“Sì. Visto che vieni con noi, è meglio che ci aiuti a capire che dobbiamo fare.”
Casy si alzò in piedi. Conosceva le assemblee di famiglia e capì che l’avevano accolto nella famiglia. E la sua era una posizione di rilievo, poiché Zio John si spostò di lato, lasciandogli il posto tra lui e Pa’. Casy si accoccolò come gli altri di fronte a Nonno, che sedeva sul predellino come se fosse un trono.
Ma’ rientrò di nuovo in casa. Ci fu il cigolio di un cappuccio di lanterna, e una luce gialla guizzò nell’oscurità della cucina. Quando Ma’ alzò il coperchio della marmitta, dalla porta di casa arrivò l’odore del maiale bollito con le foglie di barbabietola. Aspettarono tutti che tornasse nell’aia semibuia, perché Ma’ era determinante nel gruppo.
Pa’ disse: “Tocca decidere quando partiamo. Prima è, meglio è. Per prima cosa tocca scannare i maiali e salarli, poi carichiamo la roba e ce n’andiamo. Più in fretta facciamo, meglio è.”
Noah approvò: “Se ci diamo sotto, possiamo preparare tutto domani e andarcene dopodomani all’alba.”
Zio John obiettò: “Con questo caldo la carne non si fredda. Non è la stagione giusta per scannare. Se la carne non si fredda resta molle”.
“Allora scanniamoli stasera. Così hanno tutta la notte per freddarsi. Li scanniamo dopo che mangiamo. Sale ce n’è?”
Ma’ disse: “Sì. Sale ce n’è quanto ti pare. E ci sono pure due barilotti per la carne salata”.
“Allora è tutt’a posto,” disse Tom.
Nonno cominciò ad agitarsi, cercando un sostegno per sollevarsi. “S’è fatto buio,” disse. “M’è venuta fame. Quand’arriviamo in California me ne starò sempre con in mano un grappolo d’uva grosso così, e starò tutt’il tempo a sgranocchiarlo, perdio!” Riuscì a sollevarsi, e tutti gli uomini si alzarono.
Ruthie e Winfield, eccitatissimi, si misero a saltellare nella polvere come due folletti. Ruthie bisbigliò a Winfield con voce roca: “Ammazziamo i maiali e andiamo in California. Ammazziamo i maiali e andiamo… tutt’in una volta”.
E Winfield cominciò a fare il pazzo. Si piantò un dito sulla gola, fece un’orribile smorfia e si mise a saltellare strillando: “Sono un maiale! Guarda! Sono un maiale! Guarda il sangue, Ruthie!”. Poi barcollò e si lasciò cadere a terra, agitando fiaccamente le braccia e le gambe.
Ma Ruthie era più grande, e capiva l’eccezionalità del momento. “E andiamo in California,” ripeté. E capiva che quello era il momento più importante della sua vita.
Gli adulti si avviarono nella penombra verso la cucina illuminata, e Ma’ servì a tutti la carne e la verdura nei piatti di stagno. Ma prima di mettersi a mangiare anche lei, sistemò sul fuoco il grosso mastello del bucato e alzò la fiamma. Vi versò secchi d’acqua fino a riempirlo, poi mise tutt’intorno i secchi, colmi d’acqua. La cucina diventò un forno, e tutti mangiarono in fretta e andarono a sedersi sulla soglia in attesa che l’acqua bollisse. Rimasero seduti con lo sguardo nel buio, sul riquadro di luce che la lanterna proiettava a terra attraverso la porta aperta, con al centro l’ombra ingobbita di Nonno. Noah si nettava con cura i denti con una pagliuzza di scopa. Ma’ e Rose of Sharon lavarono i piatti e li impilarono sul tavolo.
Poi, d’improvviso, la famiglia si mise in azione all’unisono. Pa’ si alzò in piedi e accese un’altra lanterna. Noah prese da una cassa in cucina il coltello da scanno a lama curva e lo affilò su una consunta pietra da mola. Poi lo posò sul ciocco da legna, con accanto il raschietto. Pa’ portò due robusti pezzi di legno di un metro ciascuno, e con l’ascia fece la punta a entrambi, poi legò a nodo doppio due grosse corde al centro dei bastoni.
Borbottò: “Quei bilancini… peccato che l’abbiamo venduti tutti”.
L’acqua nelle pentole fumava e gorgogliava.
Noah chiese: “Portiamo l’acqua giù o portiamo i maiali qui?”.
“I maiali qui,” disse Pa’. “L’acqua capace che la versi e ti scotti, i maiali no. Ma’, è pronta l’acqua?”
“A momenti,” disse Ma’.
“Bene. Noah… tu, Tom e Al venite con me. Io porto la lanterna. Li scanniamo giù e li portiamo qui.”
Noah prese il coltello, e Al l’ascia, e i quattro uomini si avviarono verso la stia, con le gambe che guizzavano nella luce della lanterna. Ruthie e Winfield gli andavano dietro saltellando in mezzo alla polvere. Giunti alla stia, Pa’ si sporse sul recinto e alzò la lanterna. I due maialini insonnoliti si drizzarono a fatica, grugnendo sospettosi. Zio John e il predicatore si avvicinarono per dare una mano.
“Forza,” disse Pa’, “scannateli. Poi li portiamo a casa per cavargli il sangue e bruscarli.” Noah e Tom scavalcarono il recinto. Agirono con precisione e rapidità. Tom colpì due volte con il dorso dell’ascia; e Noah, chino sui maiali abbattuti, frugò le carni con il coltello ricurvo fino a trovare la grande arteria, facendo zampillare i fiotti pulsanti di sangue. Poi si passarono i maiali strepitanti da un lato all’altro del recinto. Il predicatore e Zio John ne afferrarono uno per le zampe posteriori e cominciarono a trascinarlo, e Tom e Noah fecero lo stesso con l’altro. Pa’ li accompagnava con la lanterna, e il sangue nero lasciava due strisce nella polvere.
Appena a casa, Noah infilò il coltello tra tendine e osso delle zampe posteriori; i bastoni appuntiti mantennero le zampe discoste, e le due carcasse furono appese alle teste di trave che sbucavano da sotto il tetto. Poi gli uomini portarono l’acqua bollente e la versarono sui corpi neri. Noah squarciò i corpi da un capo all’altro e lasciò scivolare a terra le interiora. Pa’ fece la punta ad altri due bastoni per mantenere aperti i due corpi appesi, mentre Tom e Ma’, l’uno con il raschietto e l’altra con un coltello smussato, raspavano la cotenna per togliere le setole. Al prese un secchio, vi ammucchiò le interiora e andò a gettarle lontano dalla casa, e due gatti lo seguirono miagolando sonoramente, e i cani lo seguirono ringhiando piano ai gatti.
Pa’ sedette sulla soglia e si mise a guardare i maiali appesi, illuminati dalla lanterna. La raschiatura era finita, e solo poche gocce di sangue cadevano ancora dalle carcasse nella pozza nera per terra. Pa’ si alzò, si accostò ai maiali e li palpò con la mano, poi tornò a sedersi. Nonna e Nonno si avviarono verso il fienile per coricarsi, e Nonno reggeva con la mano un lume a candela. Il resto della famiglia si era raccolto in silenzio sulla soglia di casa: Connie, Al e Tom seduti per terra, addossati alla parete, Zio John su una cassa, Pa’ ai piedi della porta. Soltanto Ma’ e Rose of Sharon continuavano a trafficare. Ora Ruthie e Winfield avevano sonno, ma cercavano di resistere. Litigavano sonnacchiosi nel buio dell’aia. Noah e il predicatore, accoccolati uno accanto all’altro, guardavano la casa. Pa’ si grattò nervosamente, poi si tolse il cappello e si passò le dita tra i capelli. “Domattina presto saliamo i maiali, poi carichiamo la roba sul camion, tutta salvo i letti, e dopodomani ce n’andiamo. Manco una giornata di lavoro in tutto,” disse con un certo disappunto.
Tom intervenne: “Così stiamo tutt’il giorno a girarci i pollici senza sapere che fare.” Il gruppo si agitò, a disagio. “Per me possiamo sbrigare tutto entro l’alba e partire,” disse Tom. Pa’ si sfregò un ginocchio con la mano. E il suo nervosismo contagiò tutti.
Noah disse: “Magari alla carne non gli fa male se la saliamo subito. Quando la tagli a pezzi si fredda prima”.
Fu Zio John ad andare al sodo, non riuscendo più a trattenersi. “Ma che aspettiamo? Facciamola finita. Se abbiamo deciso di partire, perché non partiamo?”
E la smania contagiò gli altri. “Perché non partiamo? Possiamo dormire in viaggio.” E un senso di premura li prese tutti.
Pa’ disse: “Dice che sono duemila miglia. È un sacco di strada. Tocca sbrigarci. Noah, tu e io tagliamo la carne, poi carichiamo la roba sul camion.”
Ma’ si affacciò dalla porta. “E se ci scordiamo qualcosa, col buio che c’è?”
“Basta che diamo un’occhiata in giro quando fa giorno,” disse Noah. E rimasero in silenzio, assorti. Ma dopo qualche istante Noah si alzò e cominciò ad affilare il coltello ricurvo sulla piccola pietra da mola. “Ma’,” disse, “sgombrami il tavolo.” Poi si avvicinò a un maiale, fece un taglio lungo la spina dorsale e cominciò a staccare la carne dal costato.
Pa’ si alzò in piedi, agitato. “Tocca raccogliere la roba,” disse. “Forza, sbrighiamoci.”
Ora che avevano deciso di partire, la fretta contagiava tutti. Noah portava i pezzi di carne in cucina e li affettava per la salatura, e Ma’ copriva di sale grosso le fette e le disponeva a una a una nei barilotti, badando che non si toccassero tra loro. Disponeva le fette come mattoni, e riempiva di sale gli interstizi. Poi Noah staccò le spalle e tagliò le zampe. Ma’ alimentava il fuoco, e man mano che Noah staccava dal costato e dalla spina dorsale e dalle zampe tutta la carne che poteva, lei metteva gli ossi ad arrostire nel forno per farne spuntini da rosicchiare.
Nell’aia e nel fienile gli anelli di luce delle lanterne si muovevano qua e là. Gli uomini stavano radunando tutte le cose che andavano caricate, le mettevano a mucchio accanto al camion. Rose of Sharon portò fuori tutti gli indumenti della famiglia: le tute, le scarpe a suola grossa, gli stivali di gomma, i logori abiti della domenica, le maglie e i giacconi di montone. Li imballò fitti in una cassa, vi salì sopra e li pressò ben bene coi piedi. Poi andò a prendere i vestiti di tessuto stampato e gli scialli, le calze di cotone nero e gli indumenti dei bambini – piccole tute e vestitini a buon mercato – e mise anche questi nella cassa e li pressò coi piedi.
Tom andò al capanno e prese i pochi attrezzi rimasti: una sega a mano, una batteria di chiavi inglesi, un martello e una scatola di chiodi assortiti, un paio di pinze, una lima piatta e una batteria di lime tonde.
E Rose of Sharon portò fuori un grosso pezzo di tela cerata e lo distese per terra dietro il camion. Faticò per far passare dalla porta i materassi, tre doppi e uno singolo, e li accatastò sul telone. Poi portò fuori bracciate di vecchie coperte piegate e accatastò anche quelle.
Ma’ e Noah si davano da fare con le carcasse, e dal forno arrivava l’odore degli ossi di maiale messi ad arrostire. I bambini si erano arresi al sonno. Winfield giaceva raggomitolato nella polvere davanti alla porta; Ruthie, seduta su una cassa in cucina, dov’era andata per assistere allo squartamento dei maiali, aveva reclinato la testa contro la parete. Respirava serena nel sonno, e le sue labbra erano dischiuse sui denti.
Tom finì con gli attrezzi ed entrò in cucina con la lanterna, e il predicatore lo seguiva. “Buon Dio,” disse Tom, “senti come profuma! E senti come sfrigola!”
Ma’ stava disponendo i mattoni di carne in un barilotto, vi spargeva il sale tutt’attorno, copriva di sale lo strato e pressava il tutto. Alzò lo sguardo su Tom e gli sorrise un po’, ma i suoi occhi erano seri e stanchi. “La mattina è bello sgranocchiarsi un osso di maiale,” disse.
Il predicatore le si mise accanto. “Ci penso io alla carne,” disse. “Posso salarla io. Lei ha altro da fare.”
Allora Ma’ smise di affaccendarsi e guardò il predicatore con un’espressione sorpresa, come se avesse suggerito qualcosa di strano. E le sue mani erano ricoperte di una crosta di sale, appena arrossate dall’umore della carne fresca. “È lavoro da donne,” disse infine.
“Il lavoro è lavoro,” ribatté il predicatore. “C’è troppo da fare per spartirlo in lavoro da donne e lavoro da uomini. Colla carne me la sbrigo io. Lei ha altro da fare.”
Ma’ lo guardò ancora per qualche istante, poi versò l’acqua di un secchio nel bacile e si lavò le mani. Il predicatore prese le fette di maiale e le ricoprì di sale mentre lei lo guardava. E le dispose nel barilotto come aveva fatto lei. Fu solo quando ebbe completato uno strato, ricoprendolo di sale e pressandolo per bene, che Ma’ si sentì tranquilla. Si asciugò le mani gonfie e snervate.
Tom disse: “Ma’, da qui che ci dobbiamo portare?”.
Ma’ lanciò una rapida occhiata alla cucina. “Il secchio,” disse. “Tutta la roba per mangiare: i piatti e le tazze, i cucchiai e i coltelli e le forchette. Mettili tutti in quel cassetto, e portati il cassetto. La padella grande e la marmitta grande, la caffettiera. Quando si fredda, piglia la graticola dal forno. Sul fuoco è comoda. Mi porterei pure il mastello, ma mi sa che non c’è spazio. I panni li laverò nel secchio. Non serve pigliare la roba piccola. Nella marmitta la roba piccola ce la puoi cuocere, ma in un pentolino non ci puoi cuocere la roba grande. Piglia gli stampi per il pane, tutti quanti. Stanno uno dentro l’altro.”
Si guardò intorno un’ultima volta. “Piglia solo la roba che t’ho detto, Tom. Il resto lo piglio io: il barattolo col pepe, il sale, la noce moscata e la grattugia… li piglio tutti io all’ultimo.” Prese una lanterna e si avviò pesantemente verso la stanza da letto, e i suoi piedi nudi non facevano rumore sul pavimento.
Il predicatore disse: “Ha l’aria stanca”.
“Le donne sono sempre stanche,” disse Tom. “Sono fatte così, salvo qualche volta ai riti.”
“Sì, ma lei è più stanca. Stanca sul serio, come se non ce la fa più.”
Ma’ stava entrando nella stanza da letto, e udì quelle parole. Lentamente i suoi lineamenti infiacchiti si tesero, e le rughe scomparvero dal suo viso gagliardo. Gli occhi si ravvivarono e le spalle si drizzarono. Si guardò intorno nella stanza ormai spoglia. Non c’era più niente, solo ciarpame. I materassi che avevano messo sul pavimento non c’erano più. I canterani erano stati venduti. Sul pavimento c’erano un pettine rotto, un barattolo di talco vuoto, qualche batuffolo di polvere. Ma’ posò la lanterna sul pavimento. Infilò la mano dietro una delle casse che avevano usato come sedie e tirò fuori una vecchia scatola di cartone, sudicia e con gli spigoli rincagnati. Si sedette per terra e aprì la scatola. Dentro c’erano lettere, ritagli, fotografie, un paio di orecchini, un piccolo anello d’oro, e una catena da orologio fatta di crini intrecciati stretti tra due puntali d’oro. Toccò le lettere con la punta delle dita, le toccò piano, e lisciò un ritaglio di giornale in cui si dava conto del processo di Tom. Guardò a lungo la scatola che teneva tra le mani, e le sue dita scompigliarono le lettere, poi le rimisero in ordine. Si morse il labbro inferiore, pensando, ricordando. Infine prese una decisione. Raccolse l’anello, la catena, gli orecchini, frugò sotto il mucchio e trovò un singolo gemello d’oro. Sfilò una lettera da una busta e ripose i ninnoli nella busta. Ripiegò la busta e la infilò nella tasca del vestito. Poi chiuse piano e con tenerezza la scatola, lisciò con cura il coperchio. Le sue labbra si schiusero. Allora si alzò in piedi, prese la lanterna e tornò in cucina. Tolse il coperchio del fornetto e posò con delicatezza la scatola tra le braci. Il calore annerì rapidamente il cartone. Una fiamma guizzò e lambì la scatola. Ma’ rimise il coperchio sul fornetto, e subito il fuoco mugghiò all’insù e inghiottì nel proprio fiato la scatola.
Fuori, nell’aia scura, lavorando al lume della lanterna, Pa’ e Al caricarono il camion. Gli attrezzi tutti sul fondo, ma a portata di mano in caso di guasti. Poi le casse col vestiario, e gli utensili della cucina in un sacco di iuta; piatti e posate nel loro cassetto. Poi il secchio, attaccato dietro. Fecero in modo che il tutto fosse più livellato possibile, e colmarono gli interstizi tra le casse con delle coperte arrotolate. Sopra poggiarono i materassi, ottenendo così una superficie perfettamente piana. Infine stesero sul carico il grande telone cerato; Al fece dei buchi lungo tutt’il perimetro, l’uno a mezzo metro dall’altro, vi passò delle corde e le legò ben strette alle sponde del camion.
“Ecco,” disse, “ora se piove lo leghiamo alla stanga, e lì sotto ci stanno all’asciutto. Davanti è difficile che ci bagniamo.”
E Pa’ approvò. “Bell’idea.”
“Non è tutto,” disse Al. “Alla prima occasione mi trovo un’asse lunga per farci una traversa, e ci passo su il telone. Così copre tutto, e uno si ripara pure dal sole.”
E Pa’ sorrise: “Bell’idea. Come mai non ci hai pensato prima, Al?”.
“Non c’era tempo,” disse Al.
“Non c’era tempo? Ma per andare in giro a fare il caprone il tempo c’era. Lo sa Iddio dove sei stato queste due settimane.”
“Uno ha un sacco di roba da fare quando deve andarsene da un posto,” disse Al. Poi perse un po’ della sua spavalderia. “Pa’,” domandò, “tu sei contento di partire?”
“Eh? Be’… sì. Mi sa di sì. Qui ce la passavamo male. Laggiù è tutto diverso… lavoro ce n’è quanto ti pare, e tutto è bello e verde, con delle piccole case bianche cogli aranci intorno.”
“Ci sono aranci dappertutto?”
“Be’, magari non dappertutto, ma in un sacco di posti.”
Il primo grigiore dell’alba affiorava nel cielo. E il lavoro era ultimato: i barilotti di maiale erano pronti, la gabbia con i polli era pronta per essere sistemata in cima. Ma’ aprì il forno e tirò fuori gli ossi abbrustoliti, croccanti e dorati, con attaccata un bel po’ di carne da rosicchiare. Ruthie si svegliò a metà, scivolò giù dalla cassa, si riaddormentò. Ma gli adulti indugiavano davanti alla porta, rabbrividendo un po’ e sgranocchiando il maiale croccante.
“Mi sa che tocca svegliare Nonna e Nonno,” disse Tom. “Tra un po’ fa giorno.”
Ma’ disse: “No, aspettiamo all’ultimo. Meglio che dormono un altro po’. Pure Ruthie e Winfield non hanno dormito quasi per niente”.
“Possono dormire sdraiati sul carico,” disse Pa’. “Lì si sta belli comodi.”
All’improvviso i cani balzarono su dalla polvere e drizzarono le orecchie. Poi, con un ringhio, si lanciarono abbaiando nell’oscurità. “Che diavolo è?” chiese Pa’. Dopo qualche istante udirono una voce parlare in tono rassicurante ai cani, e il latrato si fece meno rabbioso. Poi si udirono dei passi, e venne avanti un uomo. Era Muley Graves, con il cappello calato sugli occhi.
Si avvicinò timidamente. “Salve,” disse.
“Ehi, Muley.” Pa’ agitò l’osso di prosciutto che aveva in mano. “Entra e pigliati un po’ di maiale, Muley.”
“No, grazie,” disse. “Non ho tanta fame.”
“Dai, Muley, su. Te lo piglio io!” Pa’ entrò in casa e portò fuori una manciata di costine.
“Mica volevo mangiare la vostra roba,” disse. “È che passavo di qui, allora ho pensato che partivate e che magari venivo a salutarvi.”
“Partiamo tra un po’,” disse Pa’. “Se venivi tra un’ora non ci trovavi più. È tutto pronto… vedi?”
“Tutto pronto.” Muley guardò il camion carico. “Certe volte mi viene d’andare a cercare i miei.”
Ma’ chiese: “Nessuna notizia dalla California?”.
“No,” disse Muley. “Nessuna notizia. Ma non sono passato alla posta. Prima o poi ci devo passare.”
Pa’ disse: “Al, va’ a svegliare Nonna e Nonno. Digli di venire a mangiare. Tra un po’ ce n’andiamo”. Poi, mentre Al si avviava verso il fienile: “Muley, ti va di venire con noi? Magari ci stringiamo un po’ per farti posto”.
Muley staccò un pezzo di carne dal dorso di una costina e cominciò a masticare. “Certe volte penso che lo posso fare. Ma poi so che non lo faccio,” disse. “So che all’ultimo momento scappo e mi vado a nascondere come un maledetto fantasma di cimitero.”
Noah disse: “Va a finire che crepi in mezzo ai campi, Muley”.
“Lo so. Certe volte ci penso. Magari mi sento solo, magari mi sento un po’ così, magari mi sento bene. Non fa nessuna differenza. Ma se vi capita d’incontrare i miei – è proprio questo ch’ero venuto a dirvi – se vi capita d’incontrare qualcuno dei miei in California, ditegli che sto bene. Ditegli ch’è tutt’a posto. Non lo devono sapere che faccio questa vita. Ditegli che appena metto insieme i soldi ci vado.”
Ma’ chiese: “E ci vai?”.
“No,” disse piano Muley. “No, non ci vado. Non me ne posso andare. Ora devo restare. Prima magari ci potevo andare. Ma ora no. Se uno ci pensa, alla fine capisce. Io non me n’andrò mai.”
La luce dell’alba era diventata più netta. Faceva impallidire le lanterne. Al tornò con Nonno che arrancava e zoppicava accanto a lui. “Non dormiva,” disse Al. “Era seduto dietro al fienile. Gli è pigliato qualcosa.”
Gli occhi di Nonno si erano appannati, e non vi era più traccia di cattiveria. “Non m’è pigliato niente,” disse. “È solo che io da qui non me ne vado.”
“Non te ne vai?” chiese Pa’. “Che vuole dire che non te ne vai? Abbiamo caricato tutto, siamo pronti. Ce ne dobbiamo andare per forza. Qui non c’è più posto per noi.”
“Mica vi dico che dovete restare,” disse Nonno. “Per me ve ne potete andare. Ma io resto. Me la sono pensata quasi tutta la notte. Questa è la mia terra. Io qui ci sono nato. E non me ne frega niente se in California hanno l’arance e l’uva che gli crescono magari dentro al letto. Io non me ne vado. Questa terra non vale niente ma è la mia terra. No, voi andateci. Io me ne resto qui dove sono nato.”
Gli si strinsero intorno. Pa’ disse: “Non puoi, Nonno. Qui ora ci vengono i trattori. Chi ti fa da mangiare? Come campi? Non puoi restare qui. Senza nessuno che t’aiuta crepi di fame”.
Nonno urlò: “Perdio, sono vecchio ma me la so cavare ancora. Quel Muley lì come fa a campare? Camperò come campa lui. Io da qui non me ne vado, poco ma sicuro. Se volete portatevi Nonna, ma a me non mi portate, fine della discussione”.
Pa’ disse, sconcertato: “Nonno, dammi retta un minuto. Solo un minuto”.
“Non se ne parla. Te l’ho già detto.”
Tom toccò il padre su una spalla. “Pa’, andiamo dentro. Ti devo dire una cosa.” E, mentre si dirigevano verso la casa, chiamò: “Ma’… vieni un minuto?”.
In cucina ardeva una lanterna, e il piatto con gli ossi di maiale era ancora colmo. Tom disse: “Sentite, Nonno ha il diritto di dire che non viene, ma qui non ci può restare”.
“No che non ci può restare,” disse Pa’.
“Allora vediamo. Se lo pigliamo e lo leghiamo, capace che gli facciamo male, o magari s’imbestialisce così tanto che si fa male da solo. E parlarci non serve a niente. Se riusciamo a farlo sbronzare sistemiamo tutto. Whisky n’avete?”
“No,” disse Pa’. “In casa non c’è manco un goccio di whisky. E John non ce l’ha. Non ce l’ha mai quando smette di bere.”
Ma’ disse: “Tom, io ho mezza bottiglia di sciroppo calmante che avevo comprato quando Winfield aveva il mal d’orecchi. Dici che può servire? Winfield s’addormentava pure se il dolore era tanto”.
“Capace che serve,” disse Tom. “Piglialo, Ma’. Facciamo la prova.”
“L’avevo buttato colla robaccia,” disse Ma’. Prese la lanterna e uscì, e dopo un istante tornò con una bottiglia piena a metà di sciroppo nero.
Tom lo prese e lo assaggiò. “Non è cattivo,” disse. “Fagli una tazza di caffè bello forte. Allora… qui dice un cucchiaio. Meglio due, o magari tre.”
Ma’ aprì il fornetto, poggiò un pentolino direttamente sulla carbonella e vi mise l’acqua e il caffè. “Tocca darglielo in un barattolo,” disse. “Le tazze l’abbiamo caricate tutte.”
Tom e il padre tornarono nell’aia. “Uno ce l’ha il diritto di dire che gli va di fare, no? Ehi, chi è che mangia costine?” disse Nonno.
“Noi abbiamo mangiato,” disse Tom. “Ma’ t’ha fatto una tazza di caffè e un po’ di maiale.”
Nonno entrò in casa, e bevve il caffè e mangiò il maiale. Fuori, nella luce crescente dell’alba, gli altri lo guardavano in silenzio dal vano della porta. Lo videro sbadigliare e vacillare, e lo videro mettere le braccia sul tavolo, poggiare la testa sulle braccia e addormentarsi di schianto.
“Era già bello stanco,” disse Tom. “Lasciamolo dormire.”
Adesso erano pronti. Nonna, stordita e confusa, ripeteva: “Che c’è? Perché così presto?”. Però era vestita e di buon umore. E Ruthie e Winfield erano svegli, ma lenti sotto il peso del sonno e ancora un po’ trasognati. La terra andava rapidamente impregnandosi di luce. E l’attività della famiglia cessò. Rimasero tutti immobili, restii a fare il gesto che desse avvio alla partenza. Ora ch’era arrivato il momento, avevano paura – la stessa paura che aveva Nonno. Videro il capanno prendere forma nella luce, e videro le lanterne impallidire fino a smorzare gli aloni di luce gialla. Le stelle andarono spegnendosi, a poco a poco, verso ponente. E la famiglia era sempre lì, gruppo immobile come di sonnambuli, con gli occhi che abbracciavano l’insieme del paesaggio, senza vedere i dettagli e vedendo invece l’intera alba, l’intera campagna, l’intera struttura del paese in un solo sguardo.
Solo Muley Graves si aggirava senza posa, guardando nel camion attraverso le stanghe, tastando le ruote di scorta appese sul retro. E infine Muley si avvicinò a Tom. “Passi il confine?” gli domandò. “Manchi alla parola?”
E Tom si scosse dal torpore. “Cristo santo, è quasi giorno,” disse alzando la voce. “Tocca sbrigarci.” E gli altri uscirono dal torpore e si mossero verso il camion.
“Forza,” disse Tom. “Carichiamo Nonno.” Pa’, Zio John, Tom e Al andarono nella cucina, dove Nonno dormiva con la fronte sulle braccia, e un rivoletto di caffè quasi asciutto sul tavolo. Lo presero sotto i gomiti e lo misero in piedi, e lui farfugliò e imprecò con voce impastata, come un ubriaco. Usciti nell’aia lo spinsero, e, quando arrivarono al camion, Tom e Al montarono sul cassone, agguantarono Nonno sotto le ascelle, lo sollevarono con delicatezza e lo distesero in cima al carico. Al slegò il telone e lo tenne sollevato, e gli altri fecero rotolare Nonno sotto il telone e gli misero accanto una cassa, in modo che il peso della tela non gli gravasse addosso.
“Devo montare quella traversa,” disse Al. “Lo faccio stasera quando ci fermiamo.” Nonno grugniva e cercava fiaccamente di contrastare il risveglio, e quando infine fu sistemato a dovere si riaddormentò profondamente.
Pa’ disse: “Ma’, tu e Nonna sedetevi dentro con Al per un po’. Poi facciamo a turno, così va bene per tutti, ma cominciate voi”. Ma’ e Nonna montarono in cabina, e gli altri si arrampicarono in cima al carico: Connie e Rose of Sharon, Pa’ e Zio John, Ruthie e Winfield, Tom e il predicatore. Noah rimase a terra, a guardarli tutti appollaiati lassù.
Al girò intorno al camion, guardando sotto il telaio per controllare le balestre. “Cristo,” disse, “le balestre sono a terra. Fortuna che l’ho bloccate da sotto.”
Noah disse: “E i cani, Pa’?”.
“M’ero scordato i cani,” disse Pa’. Fece un fischio acuto, e subito arrivò saltellando un cane, ma uno soltanto. Noah lo agguantò e lo lanciò in cima al carico, dove la bestiola si accucciò, rigida e tremante per l’altezza. “Gli altri due tocca lasciarli qui,” gridò Pa’. “Muley, ti va di badarci tu? Giusto per non farli morire di fame?”
“Sì,” disse Muley. “Sarò contento d’avere due cani. Sì! Me li piglio io.”
“Pigliati pure quei polli,” disse Pa’.
Al si sedette al volante. L’avviamento ronzò e s’innestò, ronzò daccapo. Poi fu il rombo dei sei cilindri, fu lo sbuffo di fumo azzurrino. “Statti bene, Muley,” gridò Al.
E la famiglia gridò: “Addio, Muley”.
Al ingranò la prima e staccò la frizione. Il camion sussultò e si mosse pesantemente nell’aia. Al ingranò la seconda. Arrancarono su per il lieve pendio, e intorno a loro si alzò la polvere rossa. “Cristo, che carico!” disse Al. “Sarà tosta.”
Ma’ cercò di guardare indietro, ma la massa del carico le bloccava la visuale. Tornò a voltarsi e fissò la strada sterrata che aveva davanti.
Quelli seduti in cima al carico riuscirono a guardare indietro. Videro la casa, il fienile, il filo di fumo che ancora usciva dal comignolo. Videro le finestre avvampare ai primi raggi del sole. Videro Muley mestamente fermo sulla soglia, che li seguiva con lo sguardo. Poi la collina li tagliò fuori. I campi di cotone fiancheggiavano la strada. E il camion avanzava lento in mezzo alla polvere, verso la nazionale e verso l’Ovest.
Capitolo 11