venerdì 14 febbraio 2025

PADRI E FIGLI Ivan Turgenev


 PADRI E FIGLI

Ivan Turgenev 

PREFAZIONE

Fausto Malcovati

Padri e figli, al suo apparire, suscitò, come si è detto, polemiche a non finire: evidentemente aveva toccato una questione nevralgica, quella appunto del cambio generazionale. Tutti si sentirono coinvolti, tutti reagirono, tutti si dichiararono insoddisfatti: i conservatori perché dei «padri» veniva data un’immagine riduttiva, caricaturale, i progressisti perché i «figli» dallo scontro con i padri uscivano in sostanza sconfitti. D’altra parte Turgenev non voleva stare dalla parte di nessuno: secondo un atteggiamento ormai abituale alla sua prassi di scrittore, egli rivolse il suo sguardo attento e imparziale alle generazioni che gli stavano di fronte, ne colse le contraddizioni, le ambiguità, le inquietudini. Non volle scrivere un romanzo «a tesi»: aborriva le posizioni prefissate, i manifesti, i proclami. Voleva offrire al lettore le sue osservazioni di letterato sui frammenti di realtà che egli stesso aveva vissuto: si chiudeva un decennio dominato dall’idealismo, da prospettive in qualche modo consolanti, se ne apriva un altro difficile da decifrare, ma le cui premesse erano piene di minaccia.

Nelle prime righe c’è una data: 12 maggio 1859. Di precisi eventi politici non si parla nel romanzo: ma l’indicazione cronologica serve all’autore per situare gli avvenimenti in un contesto chiaro al lettore.

I «figli»

Il romanzo si apre con l’arrivo dei «figli» dalla capitale: conclusi gli studi, tornano alla casa dei «padri». Lo scontro è immediato: Evgenij Bazarov e Arkadij Kirsanov non fanno mistero delle proprie convinzioni. E si autodefiniscono «nichilisti»: da nihil, nulla, dice subito il padre, Nikolaj Kirsanov, che evidentemente sa di latino. Sì, si parte dal nulla. Alla scienza, all’arte, ai valori, ai principi si comincia a dire un «no» categorico, drastico. Ma i «padri», che invece credono ai valori, vivono di principi, chiedono per che cosa si vivrà, una volta negata la fisica e la medicina, la poesia e la pittura, la fede e la famiglia. L’importante, rispondono in modo troppo arrogante e sicuro i «figli», è cominciare a vivere «senza». Senza illusioni, senza palliativi, senza falsi idoli. Ma sono poi proprio falsi gli idoli contro cui si scagliano i figli? Ecco la questione che percorre tutto il romanzo senza trovare una risposta. Qual è infatti l’esito dei figli? Bazarov, il vero ideologo, il «duro», scopre ben presto una falla nel proprio solido universo al negativo: l’amore. L’amore per Anna Sergeevna Odincova, bella, ricca, intelligente, irraggiungibile. Con l’amore, respinto, scopre la sofferenza. E con la sofferenza scompare l’aggressività, l’arroganza, la certezza che il mondo, con un semplice «no», sia sotto controllo. Così, Bazarov non sopravvive alla scoperta che un «sentimento», residuo detestato, disprezzato d’un romanticismo d’altri tempi, può avere il sopravvento, può dominarlo, può sfuggire a qualsiasi negazione. E si lascia morire, contagiato da un’infezione che avrebbe potuto curare.

Arkadij Kirsanov è personaggio più semplice. Nichilista per simpatia più che per convinzione, è totalmente plagiato da Bazarov: lo ammira incondizionatamente, lo imita, lo asseconda. Ma la sua ideologia tentenna, è fragile, regge solo se sostenuta dalla cupa, scontrosa presenza dell’amico. In realtà Arkadij è fatto della stessa pasta del padre e finisce per mutuarne scelte e comportamenti: il doppio matrimonio delle ultime pagine sancisce in modo fin troppo esplicito l’avvenuta, improrogabile identificazione.

I «padri»

Rimangono i padri. Nikolaj Kirsanov è, come il figlio, un personaggio un po’ pallido, molto insicuro, tendenzialmente conciliante, poco propenso ai conflitti, pronto al compromesso. Non sa come dire al figlio del legame con la serva Fenička, del neonato avuto da lei: si confonde, è tormentato dai sensi di colpa, vorrebbe avere l’amore di tutti evitando qualsiasi complicazione.

Molto più complesso, inquietante il personaggio del fratello di Nikolaj, Pavel. È lui il vero deuteragonista di Bazarov: è lui che lo affronta in campo aperto, che si espone in tutto il suo «arcaico» idealismo. Crede nei «principi» (pronunciato in modo volutamente ricercato), crede nella poesia di Goethe, nelle «Stanze» di Raffaello e non ha paura di dichiararlo. Sempre elegantissimo (Turgenev si sofferma con gusto sui particolari raffinati del suo abbigliamento: i gemelli con gli opali, le pantofole cinesi, il fez rosso, gli abiti inglesi ben distinti per la mattina e per la sera), inappuntabile, imperturbabile, sembrerebbe personaggio ad una sola direzione. In realtà ha anche lui la sua ferita profonda che non si risana, come avviene per Bazarov: e l’origine è la stessa. Il suo amore disperato per la principessa R., che non gli si è mai concessa fino in fondo, lo ha distrutto, lo ha condannato ad una angoscia solitaria, segreta, mai confessata a nessuno. Con quell’angoscia si accompagna per tutto il romanzo, con quell’angoscia esce di scena: e se la porta dietro nel volontario esilio a Dresda, dove si prepara con malinconica desolazione a incontrare la morte.

Gli altri due personaggi di «padri», i coniugi Bazarov, sono più tradizionali. Si sente nei loro tratti, in quella loro serenità, in quella loro capacità di accettare la vita così come viene, l’eco dei «proprietari d’antico stampo» gogoliani. La loro forza sta nell’affetto profondo, autentico, esclusivo che li lega e che fa loro superare tutte le prove, l’abbandono del figlio e poi la sua morte. Forse Turgenev crede in loro più che in qualsiasi altro personaggio: non a caso il romanzo si chiude sull’immagine di questi due vecchi malfermi, teneramente abbracciati, in cammino verso la tomba del figlio.

La Odincova

Un discorso a parte merita la Odincova. Chiave di volta dell’intera vicenda (senza di lei non ci sarebbero la crisi e il crollo di Bazarov), nella tipologia dei personaggi femminili di Turgenev ha una fisionomia ben riconoscibile e forse parzialmente autobiografica (il discorso verte, evidentemente, sulla Viardot). Cosciente del suo fascino, lo amministra con attenzione, è cauta, astuta, intelligente interlocutrice, soprattutto ordinata. L’ordine la difende dai turbamenti, dagli imprevisti, dalle angosce. La vita le ha insegnato quale pericolo si annidi nella passione, nel libero corso dei sentimenti: e quando Bazarov, con violenza, le dichiara il suo amore, si ritrae, ha paura. Paura non di Bazarov, ma del proprio coinvolgimento. Preferisce i binari su cui ha organizzato tutta la sua vita: e l’amore di Bazarov la condurrebbe in un terreno sconosciuto, minaccioso. Anche lei, come Pavel Kirsanov, ha un’antica ferita: la povertà di un tempo, il matrimonio senza amore le hanno tolto per sempre la gioia di vivere. In lei, nel profondo, c’è una pulsione di morte che non viene mai lasciata affiorare, ma che devasta la sua apparente armonia. Dietro la sua calma, dietro la sua statuaria bellezza, dietro i suoi movimenti lenti, calcolati, c’è una disperazione assoluta. E contro la disperazione, non c’è che l’ordine, il controllo, il freddo calcolo, a cui appunto si ispira il matrimonio finale con un anonimo ma ricco possidente.

Il mondo dei padri, così come quello dei figli, è un mondo lacerato, pieno di insolubili conflitti. Per Turgenev non ci sono prospettive lontane, consolatorie: né quelle fideistiche che abbraccia Dostoevskij, né quelle etiche su cui si muove Tolstoj. Resta per ciascun personaggio la sua pena segreta, e il confronto con la morte, interiore (per Pavel Kirsanov, per la Odincova) o reale (per Bazarov).


PADRI E FIGLI

I

«Allora, Pëtr, non si vedono ancora?» domandava il 20 maggio 1859 uscendo senza cappello sui gradini dell’albergo di posta sulla strada di *** un signore sui quarant’anni con un cappotto stretto e impolverato e dei pantaloni a scacchi, rivolto al suo cameriere, un ragazzo dalla peluria bionda sul mento e dagli occhi piccoli e ottusi.

Il cameriere, nel quale tutto, l’orecchino di turchese, i capelli tinti e impomatati, il modo di muoversi aggraziato, tutto indicava la sua appartenenza alla nuova generazione dei camerieri evoluti, guardò compiacente la strada e rispose:

«Nossignore, non si vedono».

«Non si vedono?» ripeté il signore.

«Non si vedono», rispose per la seconda volta il cameriere. Il signore sospirò e si sedette su una panchina. Presentiamolo ai lettori, mentre sta seduto, con una gamba ripiegata sotto di sé, guardando pensieroso la strada.

Si chiama Nikolaj Petrovič Kirsanov. A quindici verste dall’albergo possiede una bella tenuta di duecento anime, oppure, come dice lui stesso da quando ha diviso la sua proprietà con i contadini e ha avviato una «masseria», di duemila ettari. Suo padre, generale nella guerra del 1812, era un russo semianalfabeta, rozzo, ma non cattivo; aveva faticato tutta la vita, prima al comando di una brigata poi di una divisione, e aveva sempre vissuto in provincia, dove, in virtù del suo grado, rivestiva un ruolo di una certa importanza. Nikolaj Petrovič era nato nel sud della Russia, come il fratello maggiore, Pavel, di cui si parlerà più avanti, ed era stato educato fino ai quattordici anni in casa, circondato da istitutori di scarso valore e da aiutanti disinvolti e servili al tempo stesso. Sua madre, della famiglia Koljazin, si chiamava da ragazza Agathe e da generalessa Agafokleja Kuz’minišna Kirsanova e apparteneva al numero delle «madri-comandanti». Portava cuffie ridondanti di nastri e abiti di seta frusciante, in chiesa si avvicinava per prima alla croce, parlava ad alta voce e molto, la mattina si faceva fare il baciamano dai bambini e la sera li benediceva; in una parola, faceva i suoi comodi. In qualità di figlio di un generale Nikolaj Petrovič, benché non solo non si distinguesse per l’audacia e si fosse, anzi, guadagnato il soprannome di vigliacchetto, avrebbe dovuto, come il fratello, intraprendere la carriera militare, ma proprio il giorno in cui arrivò la notizia della sua destinazione, si ruppe una gamba e, dopo aver passato due mesi a letto, rimase leggermente zoppo per tutta la vita. Il padre rinunciò per lui alla carriera militare e lo avviò a quella civile. A diciott’anni lo portò a Pietroburgo e lo iscrisse all’università. Il fratello, a quell’epoca, divenne ufficiale della guardia. I due giovani andarono ad abitare nello stesso appartamento sorvegliati a distanza da uno zio di secondo grado della madre. Il padre tornò alla sua divisione e alla sua consorte e solo ogni tanto mandava ai figli grandi «in-quarto» di carta grigia coperti di svolazzi da scrivano e firmati «Pëtr Kirsanov, generale-maggiore» tra eleganti ghirigori. Nel 1835 Nikolaj Petrovič si laureò e nello stesso anno il generale Kirsanov, messo a riposo per una rivista mal riuscita, venne a vivere a Pietroburgo con la moglie. Affittò una casa vicino al giardino di Tauride e si iscrisse a un club inglese, ma improvvisamente morì di mal di cuore. Agafokleja Kuz’minišna lo seguì poco dopo: non era riuscita ad abituarsi al ritmo della capitale; la nostalgia della vita di campagna l’aveva consumata. Nel frattempo Nikolaj Petrovič si era innamorato, con non poco dispiacere dei genitori, della figlia dell’impiegato Prepolovenskij, un tempo suo padrone di casa. La ragazza era graziosa e, come si dice, istruita: leggeva sulle riviste le rubriche scientifiche. Nikolaj Petrovič la sposò non appena si fu concluso il periodo di lutto e, lasciato il ministero degli appannaggi, dove era entrato perché il padre lo aveva fatto raccomandare, cominciò un’esistenza di beatitudine con la sua Maša prima in una casetta vicino all’Istituto forestale, poi in città, in un piccolo e grazioso appartamento con una scala pulita e un salotto non ben riscaldato, e alla fine in campagna, dove si stabilirono definitivamente e dove, dopo poco, nacque il loro figlio Arkadij. Vivevano felici e in pace. Non si separavano quasi mai, leggevano insieme, suonavano a quattro mani, cantavano duetti; lei seminava fiori e curava il pollaio, lui solo di rado andava a caccia e in generale si occupava dell’azienda, intanto anche Arkadij cresceva, felice e in pace. Dieci anni passarono come un sogno. Nel 1847 la moglie di Kirsanov morì. Nikolaj Petrovič non riusciva a vincere il dolore, invecchiò in poche settimane, decise di andare all’estero per distrarsi un poco... ma era il 1848, e dovette, suo malgrado, tornare in campagna. Dopo un periodo di inattività, cominciò a occuparsi delle riforme agrarie. Nel 1855 iscrisse il figlio all’università e trascorse con lui tre inverni a Pietroburgo, senza mai uscire di casa e cercando invece di conoscere i compagni di Arkadij. L’ultimo inverno non aveva potuto lasciare la campagna ed ecco perché lo vediamo, nel mese di maggio del 1859, ormai decisamente invecchiato, più grasso e un po’ curvo, aspettare il figlio che, come lui una volta, si è appena laureato.

Il cameriere, per riservatezza o forse per non restare sotto gli occhi del padrone, andò a fumare la pipa nell’atrio dell’albergo. Nikolaj Petrovič abbassò la testa e cominciò a guardare i gradini consumati lungo i quali passeggiava con sussiego un grosso pulcino screziato pestando sul legno le sue grosse zampe gialle mentre una gatta tutta sporca lo fissava, ostile, restando accoccolata sul parapetto. Il sole era alto, dall’atrio semibuio dell’albergo veniva un profumo tiepido di pane di segala. Nikolaj Petrovič sognava: Mio figlio... laureato... Arkaša... queste parole continuavano a risuonare nella sua mente. Provava a pensare ad altro e di nuovo eccole ritornare. Ricordava la moglie... «Non ha aspettato!» sussurrò con tristezza... Un colombo grigioazzurro volò sopra la strada e andò a bere in una pozzanghera vicino al pozzo. Nikolaj Petrovič si mise a guardarlo, ma il suo udito coglieva già il fragore delle ruote che si avvicinavano.

«Forse arrivano», disse il cameriere, uscendo sul portone. Nikolaj Petrovič si alzò di scatto e strinse gli occhi per guardare meglio la strada. Apparve una carrozza tirata da tre cavalli di posta; nella carrozza intravvide la visiera di un berretto studentesco e i noti contorni del caro viso...

«Arkaša! Arkaša!» gridò Kirsanov, e corse agitando le braccia... Pochi istanti dopo premeva già le sue labbra contro la guancia imberbe, impolverata e accaldata del giovane laureato.

II

«Lascia che mi scuota di dosso la polvere, papaša», diceva Arkadij, con la voce resa rauca dal viaggio, ma giovane e sonora, rispondendo allegramente alle carezze di suo padre, «ti sporcherò tutto».


«Non fa niente, non importa», rispondeva Nikolaj Petrovič con un sorriso affettuoso e, con la mano, dava qualche colpetto leggero sul bavero del cappotto del figlio e sul proprio soprabito. Si scostò e aggiunse: «Fatti guardare!». Poi si diresse in fretta verso l’albergo. «Ecco», disse, «siamo qui... presto, i cavalli!»


Nikolaj Petrovič era molto più animato di suo figlio, sembrava confuso e quasi intimidito. Arkadij lo chiamò: «Papà, vorrei presentarti il mio carissimo amico Bazarov, ti ho parlato di lui tante volte per lettera. È stato così gentile da accettare di essere nostro ospite per un po’».


Nikolaj Petrovič tornò subito sui suoi passi e si avvicinò a un giovane molto alto, vestito con una lunga palandrana ornata di nappe, che era sceso in quel momento dalla carrozza, e strinse forte la mano arrossata, senza guanto, che non gli era stata tesa subito.


«Sono lietissimo di conoscerla», disse Nikolaj Petrovič, «e la ringrazio per la sua buona risoluzione di venirci a fare visita; spero che... posso chiederle il suo nome?»


«Evgenij Vasil’ev»,1 rispose Bazarov, con una voce indolente ma virile e, nell’abbassare il bavero della palandrana, mostrò a Nikolaj Petrovič il suo viso lungo e magro, con la fronte spaziosa, il naso largo alla radice e affilato sulla punta, gli occhi grandi e quasi verdi, le fedine lunghe color sabbia; un viso animato da un sorriso calmo che esprimeva intelligenza e fiducia in se stesso.


«Spero, carissimo Evgenij Vasil’evič, che non si annoierà da noi», disse Nikolaj Petrovič.


Bazarov mosse appena le labbra sottili, ma non rispose, si limitò a sollevare il berretto. Aveva capelli biondo scuro, folti e lunghi, che tuttavia non nascondevano la fronte, alta e sporgente.


«Che ne dici, Arkadij», rispose Nikolaj Petrovič, rivolto al figlio, «facciamo attaccare subito i cavalli, o prima volete riposare?»


«Ci riposeremo a casa, papà, fai attaccare i cavalli».


«Subito, subito», si affrettò a rispondere il padre e, rivolto al servo, aggiunse: «Hai sentito Pëtr? Dai gli ordini, fratello, presto!»


Pëtr, che nella sua qualità di servo evoluto non si era avvicinato a baciare la mano del giovane padrone, ma gli si era inchinato da lontano, sparì di nuovo nel portone.


«Sono venuto col calesse, ma c’è un tiro a tre anche per la tua carrozza», diceva, tutto affannato, Nikolaj Petrovič, mentre Arkadij beveva l’acqua da una piccola brocca di ferro che gli aveva portato il padrone dell’albergo; Bazarov, intanto, aveva acceso la pipa e si era avvicinato al postiglione che stava attaccando i cavalli. «Il calesse, però, ha solo due posti e non so come il tuo amico...»


«Verrà con la carrozza», lo interruppe, a bassa voce, Arkadij, «non preoccuparti per lui, è un buonissimo ragazzo, molto semplice, vedrai».


Il cocchiere di Nikolaj Petrovič condusse i cavalli.


«Svelto, barbaccia», disse Bazarov, rivolto al postiglione.


«Hai sentito, Mitjucha», osservò l’altro postiglione con le mani nelle tasche posteriori del cappotto di montone, «come ti ha chiamato il signore? Barbaccia! Ed è vero».


Mitjucha non rispose, scosse il berretto e tolse le redini al cavallo di testa, che era tutto sudato.


«Via, ragazzi, sbrigatevi, date una mano», esclamò Nikolaj Petrovič, «vi darò una mancia!»


In pochi minuti i cavalli vennero attaccati, padre e figlio sedettero sul calesse e Pëtr si mise a cassetta, Bazarov salì sulla carrozza, appoggiò la testa al cuscino di cuoio, e calesse e carrozza partirono.

III

«E così ormai sei laureato e torni a casa», disse Nikolaj Petrovič, e ora accarezzava una spalla ora un ginocchio di Arkadij. «Finalmente!»


«E lo zio? Sta bene?» chiese Arkadij che, nonostante provasse una gioia sincera e quasi puerile, avrebbe voluto che la conversazione fosse meno commossa e un po’ più usuale.


«Sta bene. Voleva venirti incontro anche lui, poi, non so perché, ha cambiato idea».


«Hai aspettato molto?»


«Eh sì, quasi cinque ore».


«Povero papaša».


Arkadij si voltò, con un gesto spontaneo e vivace, e baciò rumorosamente suo padre su una guancia. Nikolaj Petrovič sorrise.


«Vedrai che bel cavallo ti ho preparato! E ho fatto anche mettere la tappezzeria in camera tua».


«C’è una camera per Bazarov?»


«La troveremo».


«Ti prego, papà, trattalo con affetto, non so dirti quanto mi sia cara la sua amicizia».


«È da poco che lo conosci, vero?»


«Sì, da poco».


«Ecco perché non l’ho visto l’inverno scorso. Che cosa studia?»


«La sua materia sono le scienze naturali, ma sa tante altre cose. L’anno prossimo vuol dare gli esami per diventare medico».


«Ah, frequenta la facoltà di medicina», disse Nikolaj Petrovič, e poi tacque per un momento. «Pëtr, non sono i nostri contadini, quelli?» aggiunse indicando la campagna.


Pëtr diede un’occhiata nella direzione indicata dal padrone. Alcuni carri, trainati da cavalli a briglia sciolta correvano lungo una strada stretta. Su ogni carro c’erano uno o due contadini, col cappotto di montone sbottonato.


«Sì, signore», rispose Pëtr.


«Dove vanno? In città?»


«Sì, sembra che vadano proprio in città. All’osteria», disse Pëtr con disprezzo, e si chinò verso il cocchiere a cercare la sua approvazione, ma il cocchiere non si mosse, era un uomo all’antica, che non condivideva le idee nuove.


«Quest’anno i contadini mi danno molte noie», proseguì Nikolaj Petrovič, rivolto al figlio. «Non pagano il canone, ma che cosa ci posso fare?»


«E dei salariati sei contento?»


«Sì», rispose Nikolaj Petrovič, a denti stretti, «ma si fanno montare la testa, questo è il guaio, sono svogliati e rovinano gli attrezzi. Però hanno arato abbastanza bene. Ci vuol pazienza, miglioreranno col tempo. Ma, adesso, Arkadij, t’interessi della campagna?»


«Non c’è ombra, peccato!» osservò Arkadij, senza rispondere all’ultima domanda.


«Sul lato della casa che dà verso nord ho fatto mettere una tenda sul balcone, così ora si può pranzare all’aperto».


«Sembrerà troppo una villa... ma non è questo che importa. Che aria buona c’è! Che profumo! In nessun altro posto al mondo mi sembra che ci sia tanto profumo. Anche il cielo...»


Arkadij s’interruppe, si diede una rapida occhiata alle spalle e tacque.


«Sei nato qui», disse Nikolaj Petrovič, «ed è naturale che tutto ti sembri particolarmente bello».


«No, papà, non importa dove si è nati».


«Però...»


«Credimi, non importa dove si è nati».


Nikolaj Petrovič guardò il figlio con la coda dell’occhio e il calesse percorse mezza versta prima che riprendessero a parlare.


«Non mi ricordo se te l’ho scritto», disse infine Nikolaj Petrovič, «ma la tua cara njanja Egorovna è morta».


«Davvero? Poverina! E Prokof’ič è vivo?»


«Sì, ed è sempre lui. Brontola come prima. Non troverai molti cambiamenti a Mar’ino».


«Hai sempre lo stesso fattore?»


«No, il fattore l’ho sostituito. Ho deciso di non tenere più i servi affrancati che erano già con noi, o almeno di non affidargli lavori di responsabilità». (Arkadij indicò con gli occhi Pëtr.) «Il est libre en effet», osservò a bassa voce Nikolaj Petrovič, «ma è un cameriere. Ora ho un fattore che appartiene alla piccola borghesia, sembra abbastanza bravo. Gli ho assegnato uno stipendio di duecentocinquanta rubli all’anno. Del resto», concluse Nikolaj Petrovič passandosi una mano sulla fronte e sulle sopracciglia, come faceva quando era turbato da qualche preoccupazione, «ti ho detto che non troverai niente di cambiato a Mar’ino... ma, forse, non è del tutto esatto... credo che sia mio dovere avvertirti, anche se...», s’interruppe e proseguì in francese. «Credo che un rigido moralista giudicherebbe inopportuna la mia sincerità, ma prima di tutto non è una cosa che si possa tener nascosta e poi tu sai che ho sempre avuto i miei principi per quanto riguarda i rapporti tra padre e figlio. Tu hai, in ogni caso, il diritto di giudicarmi. Alla mia età... Insomma, quella ragazza della quale avrai forse già sentito parlare...»


«Fenečka?» disse Arkadij con disinvoltura.


Nikolaj Petrovič arrossì. «Non nominarla ad alta voce, per favore. Beh, sì... ora vive con me... l’ho sistemata in casa... c’erano due stanzette libere. Si può ancora cambiare...»


«Ma no, perché?»


«Avremo ospite il tuo amico... è imbarazzante...»


«Non devi preoccuparti per Bazarov, è al di sopra di queste cose».


«Ma anche, per te... purtroppo il padiglione è in cattive condizioni...»


«Ti prego, papà», l’interruppe Arkadij, «mi sembra che tu ti voglia giustificare, non ti vergogni?»


«È vero, mi devo vergognare», rispose Nikolaj Petrovič, arrossendo ancora di più.


«Basta, per carità, basta», Arkadij sorrise affettuosamente.


Di che cosa si vuol giustificare, pensò tra sé e provò una tenerezza indulgente per quel padre così mite e buono e, insieme, un oscuro senso di superiorità. «Basta, per piacere», ripeté, deliziandosi involontariamente del proprio spirito libero e spregiudicato.


Nikolaj Petrovič lo guardò attraverso le dita della mano, che seguitava a passarsi sulla fronte, e sentì una fitta al cuore, ma ne attribuì la responsabilità solo a se stesso.


«Ecco, si vedono già i nostri campi», disse, dopo un lungo silenzio.


«E quello davanti a noi non è il nostro bosco?»


«Sì, è il nostro, ma l’ho venduto. Quest’anno lo abbatteranno».


«Perché l’hai venduto?»


«Avevo bisogno di denaro, e poi questa terra tocca ai contadini».


«Che non ti pagano il canone».


«È un altro discorso. Prima o poi pagheranno».


«Peccato per il bosco», osservò Arkadij, guardandosi intorno.


I luoghi che attraversavano non si sarebbero potuti definire ameni. Una distesa sconfinata di campi si perdeva fino all’orizzonte, ora leggermente in salita ora in discesa, a tratti apparivano piccoli boschi o si aprivano burroni coperti di cespugli radi, bassi, così tipici che, guardandoli, si pensava subito alle antiche carte di Caterina II. S’incontravano anche brevi fiumi dalle sponde erbose; piccoli stagni con le chiuse malandate; villaggi di casupole basse con i tetti scuri, spesso semidistrutti dal vento; capannoni per la trebbiatura sbilenchi, con le pareti di rami secchi intrecciati e la porta come una bocca spalancata sulle aie deserte; chiesette di mattoni con l’intonaco scrostato, o di legno, con le croci storte e, accanto, il cimitero lasciato nell’abbandono. Arkadij si sentiva, a poco a poco, stringere il cuore.


I contadini che incontravano, quasi a confermare il suo stato d’animo, avevano abiti stracciati, i loro cavalli erano macilenti e i salici ai lati della strada, con i rami spezzati e la corteccia lacera, sembravano mendicanti cenciosi; mucche magre, denutrite, col pelo ispido, brucavano avidamente l’erba lungo i fossi e sembrava che fossero sfuggite in quel momento a micidiali, misteriosi artigli. Lo spettacolo miserando di quegli animali stremati richiamava alla mente, in quella bella giornata di primavera, il fantasma bianco, sconsolato, senza fine, dell’inverno, con le tormente, il gelo, la neve...


No, pensava Arkadij, non è ricca questa regione, non c’è abbondanza né operosità, non si deve lasciarla così, sono necessarie delle riforme... ma come fare, da dove cominciare? Intorno ad Arkadij, assorto in queste meditazioni, la primavera rivendicava i suoi diritti. Tutto, intorno, brillava di un verde dorato, ondeggiava mollemente a perdita d’occhio, riluceva sotto l’alitare tranquillo di un vento tiepido: gli alberi, i cespugli, l’erba. Le allodole diffondevano il loro interminabile trillo vibrante, i vanni ora gridavano, volando bassi sui prati, ora saltavano silenziosi da una zolla all’altra; le cornacchie grigie spiccavano, scure, nel verde tenero del grano ancora basso, sparivano nella segala che cominciava a diventare bianca e solo a tratti le loro testoline sbucavano tra i vapori di quelle onde.


Arkadij guardava, guardava, e a poco a poco i suoi pensieri si disperdevano e lo abbandonavano.


Si tolse il cappotto e si rivolse a suo padre con un’espressione così allegra e infantile che Nikolaj Petrovič l’abbracciò di nuovo.


«Siamo quasi arrivati», disse. «Dalla cima di quella collinetta si vedrà già la nostra casa. Staremo bene insieme io e te, Arkadij. Se vorrai, potrai aiutarmi a dirigere i lavori della campagna. Dovremo imparare a conoscerci, a capirci, vero?»


«Certo!» esclamò Arkadij. «Ma che bella giornata!»


«È per il tuo arrivo, anima mia, che la primavera si mostra in tutto il suo splendore. Io penso come Puškin. Ti ricordi dell’Evgenij Onegin?


Com’è triste per me la tua comparsa


Primavera, stagione dell’amore!


Quale...».


«Arkadij!» dalla carrozza arrivò la voce di Bazarov. «Mandami un fiammifero, devo accendere la pipa».


Nikolaj Petrovič tacque e Arkadij, che l’aveva ascoltato stupito, ma compiaciuto, si affrettò a togliersi di tasca una scatoletta d’argento con i fiammiferi e la diede a Pëtr perché la portasse a Bazarov.


«Vuoi un sigaro?» gridò di nuovo Bazarov.


«Sì, dammelo», rispose Arkadij.


Pëtr tornò e gli diede, insieme alla scatoletta, un grosso sigaro nero che Arkadij accese subito, diffondendo attorno a sé un odore acre di tabacco forte e stagionato. Nikolaj Petrovič, che non aveva mai fumato in vita sua, fu costretto, con discrezione per non mortificare il figlio, a voltare la testa dall’altra parte.


Un quarto d’ora più tardi le due vetture si fermavano davanti alla scala di una casa di legno, nuova, dipinta di grigio, con il tetto di ferro rosso. Era Mar’ino, detta anche Novaja Slobodka, villaggio nuovo, oppure, come dicevano i contadini, Pobilij Chutor, La Masseria dei Diseredati.

IV

Non fu una folla di servi ad andare incontro ai signori sulla scala, ma una bambina di dodici anni, seguita da un ragazzo che somigliava molto a Pëtr e indossava una giacca da cameriere grigia, con i bottoni bianchi che portavano impresso lo stemma della casa. Era il servo di Pavel Petrovič Kirsanov.


In silenzio, aprì lo sportello del calesse e staccò la coperta di cuoio della carrozza.


Nikolaj Petrovič, il figlio e Bazarov attraversarono una sala buia e quasi vuota, mentre da una porta si intravvedeva per un attimo il viso di una giovane donna, e si diressero nel salotto, arredato secondo un gusto moderno.


Nikolaj Petrovič si tolse il cappello e si passò una mano tra i capelli.


«Eccoci finalmente a casa, ora l’essenziale è cenare e andare a riposare».


«L’idea di una cena non è sbagliata», disse Bazarov e, stiracchiandosi, si mise a sedere sul divano.


«Certo, certo, ceneremo subito», Nikolaj Petrovič, senza una ragione apparente, si mise a battere i piedi per terra. «Ecco Prokof’ič».


Era entrato un uomo sulla sessantina, con i capelli bianchi, la carnagione scura, che portava una finanziera marrone coi bottoni di rame e un fazzoletto rosa al collo. Sorrise, scoprendo i denti, accostò le labbra alla mano di Arkadij, s’inchinò all’ospite e si ritirò accanto alla porta, con le mani incrociate dietro la schiena.


«Finalmente è arrivato, eh, Prokof’ič», disse Nikolaj Petrovič. «Come lo trovi?»


«Benissimo», rispose il vecchio e sorrise di nuovo, poi aggrottò le sopracciglia folte e disse in tono invitante: «Devo dare ordine di apparecchiare?».


«Sì, sì, ti prego. Non vuole prima andare in camera sua, Evgenij Vasil’evič?»


«No, grazie, non è necessario», rispose Bazarov. «Basta che qualcuno porti di là la mia valigia e questa gabbanella», concluse, togliendosi la palandrana.


«Molto bene. Prokof’ič, prendi il soprabito del signore», disse Nikolaj Petrovič. (Prokof’ič, perplesso, prese con entrambe le mani «la gabbanella» di Bazarov e, tenendola alta sopra la testa, si allontanò in punta di piedi.) «E tu, Arkadij, non vuoi andare un momento in camera tua?»


«Sì, devo rimettermi un po’ in ordine». Arkadij si avviò alla porta, ma in quel momento entrò in salotto un uomo di statura media, vestito di un completo scuro, all’inglese, con una cravatta sottile, alla moda, e stivaletti di vernice nera: era Pavel Petrovič Kirsanov. Dimostrava circa quarantacinque anni, i suoi capelli grigi, tagliati corti, avevano i riflessi scuri dell’argento nuovo e il suo viso nervoso ma senza rughe, estremamente regolare e nitido, come se fosse stato modellato con un bulino sottile e leggero, portava le tracce di una straordinaria bellezza. Soprattutto gli occhi erano belli, luminosi, neri, a mandorla. Tutta la figura dello zio di Arkadij, elegante e aristocratica, aveva mantenuto una snellezza giovanile e quel particolare slancio che di solito si perde dopo i vent’anni.


Pavel Petrovič si tolse dalla tasca dei calzoni la bella mano dalle unghie lunghe e rosee, resa ancora più bella dal candore del polsino abbottonato con un unico grosso opale, e la porse al nipote.


Dopo lo shake-hands europeo, lo baciò tre volte, alla russa, gli sfiorò per tre volte la guancia con i suoi baffi profumati.


«Bentornato!» disse.


Nikolaj Petrovič gli presentò Bazarov. Pavel Petrovič inchinò leggermente la sua figura snella e gli sorrise, ma non gli diede la mano, anzi se la rimise in tasca.


«Pensavo già che per oggi non sareste arrivati», disse con voce gradevole, mostrando i suoi bellissimi denti e dondolandosi impercettibilmente sui tacchi, con le spalle inclinate, in un atteggiamento garbato. «C’è stato qualche incidente lungo la strada?»


«No, nessun incidente», rispose Arkadij, «abbiamo solo impiegato più tempo del previsto e così ora abbiamo una gran fame. Di’ a Prokof’ič di far presto, papaša; io torno subito».


«Aspettami, vengo anch’io!» esclamò Bazarov, alzandosi improvvisamente dal divano.


Uscirono.


«Chi è?» chiese Pavel Petrovič.


«Un amico di Arkaša, che lo giudica molto intelligente».


«Sarà nostro ospite?»


«Sì».


«Un giovanotto con tutti quei capelli?»


«Ma sì...»


Pavel Petrovič tamburellò con le dita sul tavolo. «Arkadij s’est dégourdi», osservò. «Sono contento che sia tornato».


A cena parlarono poco. Bazarov soprattutto restò quasi sempre zitto e, in compenso, mangiò molto. Nikolaj Petrovič raccontò qualche episodio di quella che chiamava la sua vita di masseria, discusse delle riforme che il governo avrebbe presto emanato, dei comitati, dei deputati, della necessità di introdurre l’uso delle macchine agricole e così via. Pavel Petrovič camminava su e giù per la sala da pranzo (non cenava mai), beveva qualche sorso di vino rosso e interveniva ogni tanto con una parola, o meglio con una esclamazione, «ah», «oh», «ehm». Arkadij raccontò le novità di Pietroburgo, ma si sentiva a disagio, come può capitare a un giovane che torna dove fino a poco prima era considerato un bambino. Allungava senza necessità il proprio discorso, evitava la parola «papà» e arrivò perfino a sostituirla con un «padre», sia pure pronunciato tra i denti, si versava con troppa disinvoltura più vino di quanto desiderasse e lo beveva tutto. Prokof’ič non smetteva di osservarlo, muovendo appena le labbra. Dopo cena tutti si separarono subito.


«È un eccentrico tuo zio», disse Bazarov. Era seduto vicino al letto di Arkadij e mordicchiava una pipa corta. «Con che eleganza si veste in campagna! E che unghie! Unghie da esposizione!»


«È vero, ma tu non puoi sapere», rispose Arkadij, «che ai suoi tempi è stato un rubacuori. Un giorno o l’altro ti racconterò la sua storia. Era molto bello, faceva perder la testa alle donne».


«Ah, ecco! Allora è un’abitudine. Peccato che qui non ci sia da conquistare nessuno. L’ho guardato bene, ha dei colletti eccezionali, sembrano di marmo, e con che cura si tiene rasato il mento! Non ti sembra, nell’insieme, molto ridicolo?»


«Forse, ma ti assicuro che è una brava persona».


«Un reperto archeologico. Tuo padre, invece, è molto simpatico. Potrebbe fare a meno di recitare versi e credo che capisca ben poco dei lavori dei campi, ma è un buon uomo».


«È un uomo d’oro».


«Ti sei accorto che è un po’ timido?»


Arkadij fece segno di sì con la testa, come se non sapesse di essere timido anche lui.


«Sono straordinari questi vecchi romantici, assecondano il loro sistema nervoso fino a rendersi irritanti... e a quel punto l’equilibrio non si recupera più. Ora però ti saluto, in camera mia la porta non si chiude, ma c’è un lavabo all’inglese. È un’iniziativa da incoraggiare, questa dei lavabi all’inglese... rappresentano il progresso».


Bazarov se ne andò e Arkadij si sentì pervadere da un senso di gioia. Era bello addormentarsi nella casa paterna, in un letto ben noto, sotto una coperta lavorata da mani amate, forse le mani della njanja, carezzevoli, buone instancabili. Arkadij ripensò alla Egorovna, sospirò e pregò che fosse in cielo. Per sé non pregava mai.


Lui e Bazarov si addormentarono presto, ma gli altri, in casa, restarono svegli ancora a lungo. Il ritorno del figlio aveva reso inquieto Nikolaj Petrovič. Andò a letto, ma non spense le candele e, con la testa appoggiata al palmo della mano, rimase a lungo assorto nei suoi pensieri. Suo fratello si trattenne fin dopo la mezzanotte nello studio, seduto su un’ampia, comoda poltrona di Gambs davanti al caminetto nel quale bruciava lentamente il carbon fossile. Non si era tolto i vestiti, aveva solo sostituito gli stivaletti di vernice con un paio di pantofole cinesi rosse. Teneva in mano l’ultimo numero del «Galignani’s Messenger»,2 ma non leggeva, guardava nel camino una tremula fiamma azzurrognola che, a tratti, si affievoliva o avvampava... Dio sa dove vagassero i suoi pensieri, certo non solo nel passato: il suo viso aveva un’espressione intensa e triste, diversa da quella di chi si è abbandonato ai ricordi.


In una stanzetta in fondo alla casa, seduta su un baule, una giovane donna, Fenečka, vestita con un corpetto azzurro e un fazzoletto bianco sui capelli scuri, riposava, assorta e, di quando in quando, tendeva l’orecchio e guardava la porta aperta, di là dalla quale si vedeva un lettino e si sentiva il respiro tranquillo di un bambino addormentato.

V

La mattina dopo, Bazarov si svegliò prima degli altri e uscì di casa. Eh, pensò, guardandosi intorno, non si può dire che sia un bel posticino...


Quando Nikolaj Petrovič aveva diviso la terra con i suoi contadini aveva dovuto assegnare alla nuova casa padronale quattro ettari di terra nuda e piatta. Aveva costruito la casa, i depositi e la masseria, tracciato i confini del giardino, scavato uno stagno e due pozzi, ma gli alberi giovani attecchivano male, l’acqua raccolta nello stagno era poca e quella dei pozzi aveva un sapore salmastro. Solo il pergolato di serenelle e acacie, dove qualche volta venivano serviti il tè o il pranzo, era cresciuto abbastanza bene.


Bazarov percorse in pochi minuti tutti i vialetti del giardino, entrò nel cortile e nella scuderia, chiacchierò con due ragazzetti che facevano parte della servitù e andò con loro a caccia di ranocchi in uno stagno distante una versta da casa.


«Mi dici che cosa te ne fai dei ranocchi, signore?» chiese uno dei due ragazzi.


«Sì», rispose Bazarov, che aveva il dono di conquistare la fiducia delle persone semplici sebbene non le trattasse con benevolenza ma con indifferenza. «Le squarto e guardo che cosa hanno dentro e così, poiché anche io e te siamo dei ranocchi, con l’unica differenza che camminiamo su due gambe, vengo anche a sapere che cosa c’è dentro di noi».


«Perché lo vuoi sapere?»


«Per non sbagliarmi se ti ammalerai e dovrò curarti».


«Allora sei un dottore?»


«Sì».


«Vas’ka, hai sentito? Il signore dice che io e te siamo uguali ai ranocchi. Bello, eh?»


«Io ho paura dei ranocchi», rispose Vas’ka, che era scalzo, aveva sette anni, la testa bianca come il lino e una casacchina grigia col colletto rigido.


«Perché? Mordono?»


«Su, entrate in acqua, filosofi!» esclamò Bazarov.


Intanto anche Nikolaj Petrovič si era alzato ed era andato da Arkadij. L’aveva trovato già pronto e, insieme, erano usciti sulla terrazza; all’ombra della tenda, vicino alla balaustra, sul tavolo, tra grandi mazzi di serenelle, bolliva il samovar. Subito comparve la bambina che il giorno prima era scesa incontro ai nuovi arrivati.


«Fedos’ja Nikolaevna», disse, con una voce sottile, «non si sente bene e non può venire, mi ha ordinato di chiedervi se desiderate versarvi il tè da soli o se deve mandarvi Dunjaša».


«Lo verserò io», rispose in fretta Nikolaj Petrovič. «Tu, Arkadij, come lo prendi il tè, con la panna o col limone?»


«Con la panna», rispose Arkadij e, dopo un attimo di silenzio, aggiunse in tono interrogativo: «Papà...?».


Nikolaj Petrovič lo guardò, incerto. «Dimmi».


Arkadij abbassò gli occhi.


«Forse ti sembrerò indiscreto, ma la sincerità con la quale mi hai parlato ieri mi incoraggia a essere altrettanto sincero. Non te ne avrai a male?»


«Ti ascolto».


«Ecco, tu mi dai il coraggio di chiederti se... se Fen... se lei non viene a versare il tè perché ci sono io».


Nikolaj Petrovič voltò appena appena la testa.


«Forse sì», disse infine. «Pensa che... sì, si vergogna».


Arkadij rivolse a suo padre un rapido sguardo.


«Non deve vergognarsi. Prima di tutto tu sai come la penso io», Arkadij provò un gran piacere nel pronunciare queste parole, «e inoltre non vorrei mai che, a causa mia, cambiassero la tua vita e le tue abitudini. Sono sicuro che non puoi aver fatto una scelta sbagliata; se le hai permesso di vivere con te, sotto lo stesso tetto, è perché lo merita; in ogni caso un figlio non può giudicare il padre e tanto meno io potrei giudicare un padre che non ha mai ostacolato la mia libertà». Arkadij aveva cominciato a parlare con voce tremante, si sentiva generoso e, nello stesso tempo, capiva che stava impartendo una lezione di morale a suo padre, ma poiché ci si rincuora sempre nell’ascoltare se stessi, riuscì a trovare alla fine un accento fermo e quasi enfatico.


«Grazie, Arkaša», rispose Nikolaj Petrovič con voce atona e si passò di nuovo la mano sulle sopracciglia e sulla fronte. «Le tue supposizioni sono giuste. Certo, se questa ragazza non avesse meritato... Non si tratta di un capriccio. Mi è difficile parlarne con te, ma puoi capire che non sarebbe stato semplice per lei venire qui ora che ci sei tu, soprattutto il giorno del tuo arrivo».


«Allora andrò io da lei!» esclamò Arkadij e, tutto pervaso da sentimenti generosi, si alzò di scatto. «Le spiegherò che non ha nessun motivo di vergognarsi di me».


Anche Nikolaj Petrovič si alzò in piedi.


«Arkadij», disse, «ti prego... Non puoi... La... Non ti ho ancora avvertito che...».


Ma Arkadij non l’ascoltava più e si allontanò di corsa. Nikolaj Petrovič lo seguì con lo sguardo, poi si lasciò cadere su una sedia, in preda all’angoscia. Il cuore gli batteva forte... Sarebbe impossibile dire se in quel momento pensasse alla inevitabile particolarità dei suoi futuri rapporti con il figlio o se ritenesse che sarebbe stato più rispettoso, da parte di Arkadij, non interessarsi affatto a quell’argomento o se, infine, non si rimproverasse la propria debolezza; tutti questi sentimenti si agitavano in lui come impressioni confuse, ma il rossore non spariva dal suo viso e il cuore seguitava a battergli forte.


Si udirono dei passi affrettati e Arkadij tornò sulla terrazza.


«Abbiamo fatto conoscenza, padre!» esclamò e aveva in viso una dolce e affettuosa espressione di trionfo. «Fedos’ja Nikolaevna si sente davvero poco bene oggi e verrà solo più tardi. Ma perché non mi hai detto che ho un fratello? Sarei andato a baciarlo ieri sera, come ho fatto ora».


Nikolaj Petrovič avrebbe voluto rispondergli, alzarsi, stringerlo a sé... Arkadij gli buttò le braccia al collo.


Si udì alle loro spalle la voce di Pavel Petrovič.


«Ma che cosa vedo, vi abbracciate di nuovo!»


Padre e figlio furono entrambi contenti di vederlo comparire proprio in quel momento: ci sono situazioni commoventi dalle quali si vorrebbe uscire il più presto possibile.


«Ti pare strano?» disse allegramente Nikolaj Petrovič. «Erano secoli che aspettavo che Arkaša tornasse. Da ieri non smetto di guardarlo e ancora non mi basta».


«Non mi pare strano», osservò Pavel Petrovič, «anzi, vorrei riabbracciarlo anch’io».


Arkadij si avvicinò allo zio e sentì ancora i suoi baffi profumati sfiorargli le guance. Pavel Petrovič si sedette a tavola. Indossava un elegante completo da mattina di stile inglese e sulla testa gli spiccava un piccolo fez. Quel fez e la cravatta sottile, annodata con negligenza, erano concessioni alla libertà della vita di campagna, ma il colletto duro della camicia, sia pure non bianca ma colorata, come si usa la mattina, bloccava, con la consueta rigidezza, il suo mento ben rasato.


«Dov’è il tuo nuovo amico?» chiese ad Arkadij.


«Non è in casa, è abituato ad alzarsi presto la mattina e a uscire. Meglio non badargli molto, non gli piacciono le cerimonie».


«Già, si vede subito». Pavel Petrovič si mise, senza fretta, a spalmare il burro sul pane. «Sarà nostro ospite per molto tempo?»


«Non so. Si è fermato da noi prima di andare da suo padre».


«Dove abita suo padre?»


«Nel nostro governatorato. Ha una piccola proprietà a circa ottanta verste da qui. Era un medico militare».


«Ah, ecco perché mi chiedevo dove avevo già sentito questo cognome. Non c’era, Nikolaj, un medico che si chiamava Bazarov nella divisione di nostro padre?»


«Mi pare di sì».


«E quel medico è il padre dell’amico di Arkadij. Ma», Pavel Petrovič storse le labbra, «il signor Bazarov che cosa fa, che cos’è?»


«Che cos’è Bazarov?» Arkadij sorrise. «Vuole che glielo dica, zio?»


«Sì, mi piacerebbe saperlo, mio caro nipote».


«Bazarov è un nichilista».


«Come?» chiese Nikolaj Petrovič, mentre Pavel Petrovič rimaneva immobile, con in mano il coltello sul quale aveva infilato un pezzetto di burro.


«È un nichilista», ripeté Arkadij.


«Nichilista», rifletté Nikolaj Petrovič, «viene dal latino nihil, cioè niente, per quanto ne so io, quindi un nichilista... non crede a niente?»


«O piuttosto non rispetta niente», disse Pavel Petrovič e tornò a occuparsi del suo burro.


«Un nichilista si pone di fronte a ogni cosa con un atteggiamento critico», osservò Arkadij.


«E non è lo stesso?» chiese Pavel Petrovič.


«No, non è lo stesso. Il nichilista non s’inchina davanti all’autorità di nessuno e non accetta nessun principio, anche se si tratta di un principio cui tutti obbediscono».


«E ti sembra che sia un bene?» lo interruppe Pavel Petrovič.


«Per alcuni sì e per altri no, zio».


«Ah, è così! Vedo che non si tratta di una questione di nostra competenza. Noi siamo all’antica e crediamo che senza principi» (Pavel Petrovič dava a questa parola un suono dolce, alla francese, mentre Arkadij la pronunciava con durezza, calcando la voce), «senza principi in cui credere non si può muovere un passo, non si può nemmeno respirare... Vous avez changé tout cela, che Dio vi conceda la salute e magari anche il grado di generale e noi ci limiteremo ad ammirarvi, signori... come si dice?»


«Nichilisti», rispose Arkadij, scandendo le sillabe.


«Sì, prima c’erano gli hegeliani e adesso ci sono i nichilisti. Vedremo se riuscirete a vivere nel nulla, nel vuoto. Ma adesso, Nikolaj Petrovič, fratello, è ora che io beva il mio cacao. Suona il campanello».


Nikolaj Petrovič suonò il campanello e gridò: «Dunjaša!».


Ma invece di Dunjaša uscì sulla terrazza Fenečka. Aveva ventitré anni, la carnagione bianca e morbida, gli occhi e i capelli scuri, la bocca fresca, piena, come quella di un bambino, le mani piccole e delicate. Portava un vestitino di cotone, molto in ordine, e sulle spalle rotonde un fazzoletto nuovo, azzurro. Aveva in mano una tazza di cacao, la posò davanti a Pavel Petrovič e, intimidita, arrossì; il sangue giovanile diffuse un’ondata scarlatta sotto la pelle sottile del suo bel viso. Con gli occhi bassi, restò ferma vicino alla tavola, tenendovi appoggiate le punte delle dita. Sembrava che si vergognasse di trovarsi lì, ma che nello stesso tempo sentisse di averne il diritto.


Pavel Petrovič aggrottò le sopracciglia. Nikolaj Petrovič era imbarazzato.


«Buongiorno, Fenečka», mormorò, con le labbra strette.


«Buongiorno», rispose lei, con voce leggera ma ferma, diede un’occhiata in tralice ad Arkadij, che le sorrideva amichevolmente, e uscì in silenzio. Camminava dondolandosi un po’, ma le si addiceva.


Per qualche minuto sulla terrazza regnò il silenzio. Pavel Petrovič beveva il suo cacao, poi, improvvisamente alzò la testa.


«Ecco il signor nichilista», disse sottovoce.


Bazarov, infatti, si avvicinava, attraverso il giardino, calpestando le aiuole. Aveva il soprabito e i calzoni inzaccherati, una pianta di palude attorcigliata attorno al suo cappello tondo e, in una mano, un sacchetto nel quale si agitava qualcosa di vivo. Si avvicinò alla terrazza e, con un cenno del capo, disse:


«Buongiorno, signori, chiedo scusa se ho fatto tardi per il tè. Vi raggiungo subito, prima devo sistemare queste prigioniere».


«Che cos’ha lì dentro, sanguisughe?» chiese Pavel Petrovič.


«No, rane».


«Le mangia o le alleva?»


«Mi servono per fare degli esperimenti», rispose Bazarov con indifferenza, ed entrò in casa.


«Adesso si metterà a sezionarle», disse Pavel Petrovič. «Non crede nei principi, ma crede nelle rane».


Arkadij guardò lo zio con commiserazione e Nikolaj Petrovič scrollò le spalle di nascosto. Pavel Petrovič capì che la sua osservazione era stata inopportuna e si mise a parlare della masseria e del nuovo fattore che, il giorno prima, era venuto a lamentarsi del bracciante Fomà che «svicolava» ed era troppo indisciplinato. «È un Esopo», gli aveva detto tra l’altro, «ha fatto brutte figure dappertutto, si ferma ora qua ora là e improvvisamente, senza ragione, se ne va».

VI

Bazarov ritornò, si sedette a tavola e cominciò a bere in fretta il tè. Tutti e due i fratelli lo guardavano in silenzio, mentre Arkadij sbirciava ora il padre ora lo zio.


«È andato lontano?» chiese finalmente Nikolaj Petrovič.


«C’è una piccola palude vicino al boschetto delle tremule. Ho fatto alzare almeno cinque beccaccini. Potresti ucciderli, Arkadij».


«Lei non va a caccia?»


«No».


«Si occupa di fisica, esattamente?» domandò a sua volta Pavel Petrovič.


«Di fisica, sì, e, in generale, di scienze naturali».


«Dicono che i germanici abbiano fatto grandi progressi in questo campo negli ultimi tempi».


«Sì, i tedeschi sono i nostri maestri», rispose con noncuranza Bazarov.


Pavel Petrovič aveva usato la parola germanici, invece di tedeschi, con ironia, ma nessuno se n’era accorto.


«Ha un’opinione così alta dei tedeschi?» domandò ancora con studiata gentilezza. Cominciava a provare una segreta irritazione. La sua natura aristocratica era turbata dalla perfetta disinvoltura di Bazarov. Il figlio del medico non solo non arrossiva, ma rispondeva a scatti e svogliatamente, e nel tono della sua voce c’era qualcosa di rozzo, quasi di insolente.


«I loro scienziati sono bravi».


«Sì, sì. E degli scienziati russi, probabilmente, lei non ha un’opinione così lusinghiera?»


«Credo di no».


«Lodevolissimo esempio di abnegazione», commentò Pavel Petrovič, con il busto eretto e buttando indietro la testa. «Ma perché Arkadij Nicolaič ci ha appena detto che lei non riconosce nessuna autorità? Non crede nel valore dell’autorità?»


«Ma perché dovrei riconoscere un’autorità? E in quale valore dovrei credere? Se mi parlano di fatti concreti io mi trovo d’accordo. Ecco tutto».


«E i tedeschi parlano solo di cose concrete?» domandò Pavel Petrovič e il suo viso assunse un’espressione così indifferente e distaccata come se si fosse innalzato al di sopra dei presenti e si trovasse ora oltre le nuvole.


«Non tutti», rispose Bazarov con un breve sbadiglio. Era chiaro che non aveva voglia di continuare a discutere.


Pavel Petrovič lanciò un’occhiata ad Arkadij come per dirgli, gentile il tuo amico, bisogna ammetterlo.


«Per quanto mi riguarda», riprese, non senza sforzo, «io sono un peccatore e ai tedeschi non voglio bene. Non parliamo dei tedeschi russi: si sa che gente sono, ma anche i tedeschi tedeschi non mi sono simpatici. Una volta ancora ancora, quando avevano Šiller o Ghette...3 A mio fratello piacciono molto... Ma adesso ci sono solo chimici e materialisti...».


«Un bravo chimico è venti volte più utile di qualsiasi poeta», lo interruppe Bazarov.


«Ah, ecco», proseguì Pavel Petrovič, sollevando appena le sopracciglia come se si stesse addormentando, «lei, quindi, non riconosce il valore dell’arte?»


«L’arte di far soldi e far scomparire le emorroidi!» esclamò Bazarov con un risolino sprezzante.


«Va bene. Va bene. Se le piace fare questi scherzi... Insomma lei rinnega tutto, ammettiamolo. Crede solo nella scienza?»


«Le ho già detto che non credo in niente; e che cos’è la scienza, la scienza in generale? Esistono le scienze come esistono i mestieri e i diversi gradi nella società; ma la scienza in generale non esiste affatto».


«Molto bene. E nei confronti delle altre convinzioni comuni al genere umano ha lo stesso atteggiamento negativo?»


«Che cos’è, un interrogatorio?»


Pavel Petrovič impallidì leggermente... Nikolaj Petrovič ritenne doveroso intromettersi nella conversazione.


«Un giorno approfondiremo insieme questo argomento, caro Evgenij Vasil’ič, lei ci dirà la sua opinione e noi le diremo la nostra. Per quanto mi riguarda, sono molto contento che lei si occupi di scienze naturali. Ho sentito che Liebig ha fatto straordinarie scoperte sulla concimazione dei campi. Lei mi potrà aiutare nei miei lavori di agronomia. Potrà darmi qualche buon consiglio».


«Sono ai suoi ordini, Nikolaj Petrovič, ma abbiamo molta strada da fare prima di arrivare a Liebig; bisogna imparare l’alfabeto prima di prender in mano il libro, e noi siamo solo all’inizio».


Sei proprio un nichilista, tu, pensò Nikolaj Petrovič. «Mi permetta, però, di ricorrere a lei se si presenterà l’occasione», aggiunse a voce alta. «E adesso, fratello, penso che per noi sia venuto il momento di andare a fare una chiacchierata con il fattore».


Pavel Petrovič si alzò.


«Sì», disse senza guardare nessuno, «è una disgrazia essere vissuti cinque anni così, in campagna, lontano dalle grandi menti. Si diventa proprio stupidi. Cerchi di non dimenticare quel che ti hanno insegnato, e poi, guarda! Scopri che sono tutte sciocchezze e ti senti dire che le persone serie non se ne occupano più e che tu sei uno sciocco arretrato. Che fare! È evidente che i giovani sono molto più intelligenti di noi».


Pavel Petrovič girò lentamente sui tacchi e lentamente uscì; Nikolaj Petrovič si avviò dietro a lui.


«Ma è sempre così?» domandò freddamente Bazarov ad Arkadij appena la porta si chiuse alla spalle dei due fratelli.


«Evgenij, sei stato troppo aspro con lui. L’hai offeso».


«Ma sì, adesso dovrei anche viziarli questi aristocratici di provincia! Non hanno che amor proprio, abitudini da rubacuori, fatuità. Che tuo zio continui le sue imprese a Pietroburgo se questa è la sua vocazione... Mah, dopotutto, che Dio sia con lui! Ho trovato un esemplare abbastanza raro di scarabeo acquatico, un Dytiscus marginatus, sai? Te lo farò vedere».


«Avevo promesso di raccontarti la sua storia», cominciò Arkadij.


«La storia dello scarabeo?»


«Basta, Evgenij. La storia di mio zio. Capiresti che non è la persona che credi e che merita di essere compatito, più che deriso».


«Non discuto; ma perché ti sta tanto a cuore?»


«Bisogna essere giusti, Evgenij».


«Da che cosa lo deduci?»


«Ascolta...»


E Arkadij gli raccontò la storia dello zio. Il lettore la troverà nel capitolo che segue.

VII

Pavel Petrovič Kirsanov era stato educato dapprima in casa, come il fratello minore Nikolaj, e poi al Corpo dei paggi. Fin da piccolo si era distinto per la sua bellezza eccezionale; in più era sicuro di sé, un po’ sprezzante e collerico, ma in maniera divertente: non poteva non piacere. Appena fu promosso ufficiale cominciò a farsi vedere ovunque. Lo portavano tutti in palmo di mano e lui stesso si viziava, posava perfino, ma anche questo gli si addiceva. Le donne perdevano la testa, gli uomini lo definivano fatuo e segretamente lo invidiavano. Abitava nello stesso appartamento con il fratello cui voleva sinceramente bene, per quanto non gli somigliasse affatto. Nikolaj Petrovič zoppicava leggermente, aveva lineamenti minuti, gradevoli, ma un po’ tristi, occhi neri piccoli e capelli morbidi e radi; era pigro, ma amava la lettura e temeva la vita di società. Pavel Petrovič non passava mai la sera in casa, era celebre per il suo coraggio e la sua agilità (aveva diffuso la moda della ginnastica tra la gioventù elegante), e aveva letto in tutto cinque o sei libri francesi. A ventotto anni era già capitano e lo attendeva una brillante carriera. Poi, d’un tratto, cambiò tutto.


A quel tempo nella società pietroburghese appariva ogni tanto una donna, che tuttora non è stata dimenticata, la principessa R. Aveva un marito beneducato e istruito, ma un po’ stupido, e non aveva bambini. Improvvisamente se ne andava all’estero e improvvisamente tornava in Russia, conduceva insomma una vita strana. Aveva fama di essere una spensierata civetta e si abbandonava con slancio a ogni tipo di divertimento, ballava fino all’esaurimento delle forze, rideva e scherzava con i giovani che riceveva prima di pranzo nella penombra del suo salotto, ma di notte piangeva e pregava senza trovare pace e spesso fino alla mattina si aggirava nella stanza torcendosi le mani tormentosamente, oppure se ne stava seduta, pallida e fredda, al salterio. Il giorno sorgeva e lei di nuovo si trasformava in una dama mondana, di nuovo usciva in carrozza, rideva, chiacchierava e si gettava letteralmente incontro a tutto quello che poteva procurarle il seppur minimo sollievo. Era straordinariamente ben fatta, una treccia color oro, pesante come l’oro, le arrivava fin oltre le ginocchia; ma nessuno l’avrebbe definita una bellezza, in tutto il suo viso non c’era niente di eccezionale all’infuori degli occhi, anzi non gli occhi che erano piccoli e grigi, ma lo sguardo, rapido e profondo, spensierato fino all’ardimento, pensoso fino alla malinconia, uno sguardo enigmatico. Una luce speciale lo illuminava anche quando la lingua balbettava le più vuote sciocchezze. Si vestiva con ricercatezza. Pavel Petrovič la conobbe a un ballo, ballarono una mazurca, durante la quale lei non disse una sola parola sensata, e se ne innamorò appassionatamente.


Abituato alle vittorie, anche in quel caso raggiunse subito il suo scopo, ma la facilità di quel trionfo non lo raffreddò. Al contrario il suo attaccamento divenne ancora più torturante e più forte, c’era in lei, anche quando si dava incondizionatamente, un segreto sospirato e irraggiungibile che nessuno riusciva a penetrare. Che cosa si annidasse nella sua anima, Dio solo sapeva. Sembrava che fosse in potere di forze misteriose a lei stessa sconosciute, che facevano di lei quel che volevano e alla capricciosa volontà delle quali la sua limitata intelligenza non poteva opporsi. La sua condotta presentava una serie di incongruenze; le uniche lettere che avrebbero potuto destare i legittimi sospetti di suo marito, le aveva scritte a un uomo che le era quasi estraneo, il suo amore suscitava tristezza, non appena aveva fatto la sua scelta smetteva di ridere e di scherzare e guardava e ascoltava il suo innamorato come se non lo comprendesse. Talvolta, quasi sempre all’improvviso, questa perplessità si trasformava in un freddo orrore; il suo volto assumeva un’espressione morta e folle; si chiudeva in camera e la cameriera poteva sentire, mettendo l’orecchio contro la serratura, i suoi sordi singhiozzi. Più volte, tornando a casa dopo un convegno d’amore, Kirsanov sentiva quella collera amara e lacerante che invade il cuore dopo un definitivo insuccesso. Che cosa voglio ancora? Si domandava e il cuore gli si stringeva. Un giorno le regalò un anello con una sfinge incisa su una pietra.


«Che cos’è?» domandò lei. «Una sfinge?»


«Sì, è una sfinge, come lei».


«Come me?» chiese e levò lentamente su di lui il suo sguardo enigmatico. «Lo sa che è molto lusinghiero?» soggiunse con un sorriso impercettibile mentre i suoi occhi continuavano a guardarlo con la stessa espressione strana.


Se Pavel Petrovič era stato infelice quando la principessa lo amava, quando si raffreddò nei suoi confronti, e accadde abbastanza presto, per poco non impazzì. Si tormentava, era geloso e non le dava tregua, si trascinava dietro a lei dappertutto. Esasperata da quella persecuzione continua, la principessa partì per l’estero. Pavel Petrovič, senza ascoltare le preghiere degli amici, e le esortazioni dei superiori, chiese il congedo e la seguì; per quattro anni visse in diversi paesi per rincorrerla o per cercare di perderla di vista; si vergognava di se stesso, sdegnato dalla propria pusillanimità... ma niente poteva aiutarlo. L’immagine della principessa, incomprensibile, quasi insensata, ma affascinante, era penetrata troppo profondamente nella sua anima. A Baden, non si sa come, rinnovò con lei il legame di un tempo. Sembrava che non lo avesse mai amato tanto... ma dopo un mese era già tutto finito: il fuoco si era acceso per l’ultima volta e si era spento per sempre. Presentendo l’inevitabile separazione, Pavel Petrovič cercò di conservare almeno un legame di amicizia, come se l’amicizia con una donna del genere fosse possibile... Di nascosto lei partì da Baden e da allora continuò a sfuggirlo. Pavel Petrovič tornò in Russia e tentò di riprendere la vita di una volta, ma non riusciva a ritrovare il proprio equilibrio. Come intossicato, vagava da un luogo all’altro, usciva e manteneva tutte le abitudini della vita mondana; poté gloriarsi ancora di due o tre conquiste, ma non si aspettava ormai niente di particolare da se stesso e nemmeno dagli altri e aveva perso completamente la passata intraprendenza. Cominciò a invecchiare, gli vennero i capelli grigi; passare le serate al club, annoiandosi e lagnandosi, o discutendo senza partecipazione insieme ad altri scapoli, diventò per lui un’esigenza, che è, come si sa, un cattivo segno. Al matrimonio naturalmente non pensava. Passarono così dieci anni, improduttivi, infruttuosi e veloci, paurosamente veloci. Da nessuna parte il tempo passa in fretta come in Russia; in prigione, si dice, passa più in fretta. Un giorno, mentre pranzava al club, Pavel Petrovič, fu informato della morte delle principessa R. Era morta a Parigi, quasi pazza. Pavel Petrovič si alzò da tavola e si mise a camminare nelle stanze del club, fermandosi come inebetito vicino ai tavoli da gioco, ma non tornò a casa prima del solito. Dopo qualche tempo ricevette un pacchetto indirizzato a suo nome, che conteneva l’anello che aveva regalato alla principessa. Lei aveva tracciato sulla sfinge un segno a forma di croce e aveva lasciato scritto che nella croce c’era la soluzione dell’enigma.


Questo accadeva al principio del 1848, quando Nikolaj Petrovič, rimasto vedovo, era arrivato a Pietroburgo. Pavel Petrovič non vedeva il fratello quasi dal tempo in cui si era trasferito in campagna. Il matrimonio di Nikolaj Petrovič aveva coinciso con i primissimi giorni della sua conoscenza con la principessa. Tornato dall’estero, Pavel Petrovič era andato dal fratello con l’intenzione di fermarsi un paio di mesi e rallegrarsi della sua felicità ma dopo una settimana era ripartito. La differenza della condizione dei due fratelli era troppo grande. Nel ‘48 questa differenza si attenuò: Nikolaj Petrovič aveva perso la moglie, Pavel Petrovič i suoi ricordi perché dopo la morte della principessa aveva cercato di non pensare più a lei. Ma, mentre a Nikolaj rimaneva il senso di una vita giusta e un figlio che diventava grande vicino a lui, Pavel Petrovič, al contrario, scapolo e solo, era entrato in quell’età confusa di rimpianti simili a speranze e di speranze simili a rimpianti, quando la giovinezza è passata e la vecchiaia non c’è ancora.


Quell’età era più difficile per Pavel Petrovič che per chiunque altro; aver perso il suo passato, per lui, era stato come perdere tutto.


«Non ti chiedo di venire adesso a Mar’ino», gli disse una volta Nikolaj Petrovič (aveva chiamato la sua proprietà così in onore della moglie), «perché ti annoiavi anche quando era viva la mia povera moglie e adesso penso che moriresti d’angoscia».


«Ero ancora sciocco e irrequieto allora», rispose Pavel Petrovič. «Adesso sono più calmo, se non più savio e sono pronto, se tu vuoi, a trasferirmi da te per sempre».


Invece di rispondere Nikolaj Petrovič lo abbracciò, ma passò un anno e mezzo prima che Pavel Petrovič decidesse di attuare il suo progetto. Una volta poi stabilitosi in campagna, non se ne allontanò nemmeno in quei tre inverni che Nikolaj trascorse a Pietroburgo con il figlio. Leggeva molto, soprattutto in inglese, in generale tutta la sua vita era improntata al gusto anglosassone, si incontrava raramente con i vicini e lasciava la proprietà solo per le riunioni elettorali durante le quali stava quasi sempre in silenzio, limitandosi, ma soltanto di rado, a provocare e spaventare i vecchi proprietari con le sue uscite da liberale, senza mescolarsi con quelli della nuova generazione. Gli uni e gli altri ritenevano che fosse troppo altezzoso, ma lo rispettavano per l’impeccabilità dei suoi modi aristocratici e per gli echi delle sue conquiste: perché si vestiva con eleganza e perché sceglieva sempre la camera più bella nell’albergo migliore; perché amava la buona tavola e una volta aveva pranzato con Wellington da Luigi Filippo; lo rispettavano perché portava sempre con sé un nécessaire di vero argento e una vasca da bagno portatile; perché da lui emanavano sempre profumi speciali, di una eccezionale «bontà»; perché giocava magistralmente al whist e perdeva sempre; infine lo rispettavano per la sua irreprensibile rettitudine. Le signore lo giudicavano affascinante e malinconico, ma Pavel Petrovič non frequentava le signore.


«Vedi, Evgenij», disse Arkadij concludendo il suo racconto, «come giudichi ingiustamente lo zio! E non parlo di quante volte ha aiutato papà, affidandogli tutti i suoi soldi. La proprietà, forse non lo sai, non è divisa tra loro, ma lui è contento di aiutare chiunque e intercede sempre a favore dei contadini; è vero che quando parla con loro storce la bocca e annusa l’acqua di Colonia...»


«È un problema noto, una reazione nervosa», lo interruppe Bazarov.


«Può darsi, ma ha un cuore buonissimo! E non è affatto stupido. Mi ha dato molti consigli utili... soprattutto... soprattutto sulle donne».


«Ah! Si è scottato e adesso soffia sul piatto degli altri, chiaro!»


«Insomma», proseguì Arkadij, «è profondamente infelice, credimi, è un errore disprezzarlo».


«Ma chi lo disprezza? Io dico, però, che un uomo che punta tutta la sua vita sulla carta dell’amore femminile e, quando perde questa carta, si inacidisce e si lascia andare al punto da non essere più capace di fare niente, non è più un uomo, ma solo un essere di sesso maschile. Dici che è infelice e lo saprai meglio di me, ma è chiaro che non si è ancora liberato completamente della sua follia. Sono convinto che si consideri intelligente perché legge il “Galignani” e una volta al mese salva un contadino da una punizione».


«Ma pensa a come è stato educato, al tempo in cui è vissuto...».


«L’educazione? Un uomo deve sapersi educare da solo, come me per esempio... E il tempo? Perché io dovrei dipendere dal tempo in cui vivo? Meglio che sia il tempo a dipendere da me. No, fratello, è solo dissolutezza, vanità! E quali sono queste misteriose relazioni che esistono tra l’uomo e la donna? Noi fisiologi sappiamo quali sono. Studia l’anatomia dell’occhio, e vedrai da che cosa dipende quello che tu definisci uno sguardo enigmatico! Romanticismo, sciocchezze, marciume, arte. Andiamo piuttosto a guardare lo scarabeo».


I due amici andarono nella stanza di Bazarov, dove aveva già fatto in tempo a diffondersi un odore da sala operatoria misto a quello di un tabacco scadente.

VIII

Pavel Petrovič non partecipò a lungo alla conversazione del fratello con il fattore, un uomo alto e magro con una voce dolce da tisico e con uno sguardo furbo, che a tutte le osservazioni di Nikolaj Petrovič rispondeva: «Per carità, naturalmente», e cercava di presentare i contadini come ladri e ubriaconi. L’azienda, che era stata da poco organizzata secondo i sistemi moderni, cigolava come una ruota senz’olio, scricchiolava come un mobile fatto in casa con del legno giovane. Nikolaj Petrovič non si affliggeva, ma sospirava e diventava pensieroso, capiva che senza denaro l’impresa non sarebbe andata avanti, ma di denaro non ne aveva quasi più. Arkadij aveva detto la verità, Pavel Petrovič aveva aiutato più di una volta il fratello; vedendolo che si dava da fare, che si rompeva la testa cercando una soluzione ai suoi problemi, si avvicinava lentamente alla finestra e infilate le mani nelle tasche, borbottava tra i denti: «Mais je puis vous donner de l’argent», e gli dava del denaro; ma quel giorno anche lui non ne aveva e preferì allontanarsi. Quelle discussioni lo intristivano, gli sembrava sempre che Nikolaj Petrovič, nonostante il suo zelo e il suo amore per il lavoro, non si comportasse come doveva, anche se non avrebbe saputo dire in che cosa consistesse il suo errore. Non ha sufficiente senso pratico, ragionava tra sé, si lascia imbrogliare. Al contrario, Nikolaj Petrovič aveva un’altissima opinione del senso pratico di suo fratello e si consigliava sempre con lui.


«Io sono una persona mite, debole», diceva, «sono sempre stato in quest’angolo sperduto, mentre tu hai vissuto in mezzo alla gente, la conosci, hai lo sguardo del falco». Pavel Petrovič invece di rispondere gli voltava le spalle ma non lo contraddiceva.


Lasciato Nikolaj Petrovič nello studio, si diresse lungo il corridoio che divideva la parte anteriore della casa da quella posteriore, arrivò davanti a una porticina bassa, si fermò a riflettere un attimo, si tirò i baffi e bussò.


«Chi è? Avanti», risuonò la voce di Fenečka.


«Sono io», disse Pavel Petrovič e aprì la porta.


Fenečka, che era seduta con il bambino in braccio, saltò subito su dalla seggiola, diede il bambino a una ragazza perché lo portasse in un’altra stanza e si aggiustò in fretta il fazzoletto che aveva al collo.


«Mi scusi se la disturbo», cominciò Pavel Petrovič senza guardarla, «volevo soltanto chiederle... oggi mi pare che mandino qualcuno in città... mi faccia comperare del tè verde».


«Va bene, quanto vuole che ne comperiamo?»


«Mezza libbra sarà sufficiente, credo. Sono stati fatti dei cambiamenti», aggiunse, gettando intorno uno sguardo rapido che sfiorò anche il viso di Fenečka. «Le tende», disse vedendo che lei non capiva.


«Sì, le tende; Nikolaj Petrovič me le ha favorite; ma è tanto che ci sono».


«Ma anch’io è da molto tempo che non vengo da lei. Adesso si sta molto bene qui».


«Grazie alla bontà di Nikolaj Petrovič», sussurrò Fenečka.


«Sta meglio qui che nel piccolo padiglione di prima?» domandò Pavel Petrovič educatamente, ma senza un sorriso.


«Certo, meglio».


«Chi hanno messo al suo posto?»


«Adesso ci sono le lavandaie».


«Ah!»


Tacque. Adesso se ne andrà, pensava Fenečka, ma Pavel Petrovič non usciva e lei gli stava davanti, immobile, muovendo solo debolmente le dita.


«Perché ha fatto portar via il bambino?» disse alla fine Pavel Petrovič. «Mi piacciono i bambini: me lo faccia vedere».


Fenečka arrossì tutta per l’imbarazzo e la gioia. Aveva paura di Pavel Petrovič che non parlava quasi mai con lei.


«Dunjaša», chiamò, «porti Mitja». (Fenečka dava del lei a tutti in casa.) «Anzi no, aspetti; bisogna mettergli il vestitino». Fenečka si diresse verso la porta.


«Ma è lo stesso», osservò Pavel Petrovič.


«Torno subito», rispose Fenečka e uscì in fretta.


Pavel Petrovič rimase solo e questa volta si guardò intorno con molta attenzione. La stanzetta piccola e bassa dove si trovava era molto pulita e accogliente. Si sentiva un odore di pavimento verniciato di fresco, di camomilla e di melissa. Lungo le pareti c’erano delle sedie con lo schienale a forma di lira che erano state comperate dal defunto generale, al tempo della campagna di Polonia, in un angolo c’era un lettino sotto un baldacchino di velo, di fianco a un baule con i rinforzi di ferro e il coperchio a volta. Nell’angolo opposto ardeva una piccola lampada davanti a una grande immagine scura di Nicola il Taumaturgo; un piccolo uovo di porcellana dipinta era appeso a un nastro rosso sul petto del santo, agganciato all’aureola. Sulle finestre, i barattoli con la marmellata dell’anno prima riflettevano, accuratamente sigillati, una luce verde. Sui coperchi di carta la stessa Fenečka aveva scritto a grandi lettere «uvaspina». A Nikolaj Petrovič piaceva molto quella marmellata.


La gabbietta di un lucherino dalla coda corta era appesa al soffitto con una lunga funicella; l’uccellino cinguettava e saltava senza sosta e la gabbia dondolava e tremava: sul pavimento cadevano i semi di canapa con un leggero picchiettio. Sulla parete, sopra un piccolo cassettone, erano appese delle fotografie piuttosto brutte di Nikolaj Petrovič in diversi atteggiamenti, che erano state fatte da un artista di passaggio, e una fotografia decisamente mal riuscita di Fenečka: un viso senz’occhi che sorrideva forzatamente in una cornicetta scura, non si distingueva altro; sopra Fenečka, il generale Ermolov, con un corto mantello, guardava in lontananza, accigliato e minaccioso, le montagne del Caucaso, sulla fronte gli pendeva una scarpetta di seta portaspilli.


Erano passati circa cinque minuti, dalla camera accanto si sentivano fruscii e mormorii.


Pavel Petrovič prese dal cassettone un libro macchiato di unto, un volume scompagnato degli Strel’zy di Masalskij e ne sfogliò alcune pagine... La porta si aprì ed entrò Fenečka con Mitja in braccio. Gli aveva messo una camicina rossa con il collo orlato di passamaneria, gli aveva pettinato i capelli sottili e gli aveva pulito la faccia: il bambino respirava rumorosamente, si slanciava e protendeva le braccine come fanno tutti i bambini sani; ma la camicina elegante, evidentemente, lo aveva colpito e tutto il suo corpicino paffuto esprimeva soddisfazione. Anche Fenečka si era pettinata e si era sistemata meglio il fazzoletto, ma avrebbe potuto rimanere com’era. Perché non c’è niente di più incantevole al mondo di una giovane e bella madre con in braccio un bambino sano.


«Che bambinone», disse compiacente Pavel Petrovič, e con l’unghia lunga dell’indice fece il solletico sul doppio mento di Mitja, il bambino guardò il lucherino e rise.


«È lo zio», disse Fenečka, chinandosi verso di lui e scuotendolo leggermente; Dunjaša intanto, silenziosamente, posava sulla finestra una candela mangiafumo mettendovi sotto una moneta.


«Quanti mesi ha?» chiese Pavel Petrovič.


«Sei mesi, tra poco sette, il giorno undici».


«Non sono otto, Fedos’ja Nikolaevna?» si intromise, arrossendo Dunjaša.


«Ma no, sette; non posso sbagliarmi!» Il bambino si mise di nuovo a ridere, fissò il baule e improvvisamente afferrò il naso e la bocca della mamma con tutte e cinque le dita.


«Birichino», disse Fenečka, senza allontanare il viso.


«Somiglia a mio fratello».


E a chi deve assomigliare, pensò Fenečka.


«Sì, c’è un’indubbia somiglianza», continuò come tra sé Pavel Petrovič e guardò Fenečka attentamente, quasi con tristezza.


«È lo zio», ripeté lei, ormai in un sussurro.


«Ah, Pavel! Eccoti!» risuonò improvvisamente la voce di Nikolaj Petrovič.


Pavel Petrovič si voltò in fretta e corrugò la fronte, ma il fratello lo guardò così allegramente e con tanta gratitudine che non poté fare a meno di rispondergli con un sorriso.


«Hai proprio un bel ragazzetto», disse e guardò l’orologio. «Sono passato di qui per via del tè...», e con un’espressione improvvisamente indifferente uscì subito dalla stanza.


«È venuto lui da solo?» domandò a Fenečka Nikolaj Petrovič.


«Da solo; ha bussato ed è entrato».


«E Arkadij non è più venuto?»


«No. Non devo trasferirmi nel padiglione, Nikolaj Petrovič?»


«Perché?»


«Penso che forse sarebbe meglio, per un primo tempo».


«No... no», disse Nikolaj Petrovič, esitando, e si passò una mano sulla fronte. «Bisognava farlo prima... Ciao piccolino», disse poi animandosi improvvisamente e, avvicinatosi al bambino, lo baciò su una guancia; poi si piegò un poco e avvicinò le labbra alla mano di Fenečka, bianca come il latte sulla camicina rossa di Mitja.


«Nikolaj Petrovič! Che cosa fa?» balbettò lei e abbassò gli occhi, poi piano li alzò... Aveva un’espressione deliziosa quando guardava di sottecchi, ridendo piano, affettuosamente, e un po’ scioccamente.


Nikolaj Petrovič aveva conosciuto Fenečka un giorno, circa tre anni prima, quando aveva dovuto trascorrere la notte nell’albergo di posta di una lontana città del distretto ed era stato piacevolmente colpito dalla pulizia della stanza che gli avevano assegnato, e dalla fresca biancheria del letto. Che la padrona sia tedesca? gli era venuto in mente, ma la padrona era russa, una donna di circa cinquant’anni, accurata nel vestire, con un bel viso intelligente e un modo di parlare posato. Aveva chiacchierato con lei mentre beveva il tè e gli era piaciuta molto. Le aveva detto che si era appena trasferito nella nuova casa e che, non volendo tenere presso di sé dei servi, cercava personale salariato; la padrona dell’albergo, dal canto suo, si era lamentata che i viaggiatori che si fermavano in città erano pochi e che i tempi erano difficili. Nikolaj Petrovič le aveva proposto allora di andare a lavorare da lui in qualità di governante e lei aveva accettato.


Il marito era morto da molto tempo e l’aveva lasciata sola con una figlia, Fenečka. Dopo due settimane Arina Savišna (così si chiamava la nuova governante) arrivò con la figlia a Mar’ino, e si stabilì nel piccolo padiglione. La scelta di Nikolaj Petrovič risultò felice. Arina portò l’ordine in casa. Di Fenečka, che aveva allora compiuto diciassette anni, nessuno parlava e pochi la vedevano: viveva tranquillamente, modestamente, e solo la domenica, in chiesa, Nikolaj Petrovič vedeva, un po’ in disparte, il suo piccolo profilo bianco e sottile. Passò così più di un anno.


Una mattina Arina comparve nel suo studio e, inchinandosi profondamente, come d’abitudine, gli chiese se poteva soccorrere la figlia alla quale una scintilla della stufa era finita in un occhio. Nikolaj Petrovič, come tutti coloro che amano la vita domestica, si interessava di medicina e si era procurato una piccola farmacia omeopatica, e ordinò subito ad Arina di portargli l’infortunata. Quando seppe che il padrone la chiamava, Fenečka si spaventò, ma seguì la madre. Nikolaj Petrovič la condusse vicino alla finestra e le prese la testa con entrambe le mani. Esaminato con cura l’occhio arrossato e infiammato le prescrisse un impacco che le preparò subito lui stesso e, strappato a strisce il proprio fazzoletto, le mostrò come doveva applicarlo. Fenečka lo ascoltò e stava per uscire, quando la madre le disse: «Bacia la mano al padrone, sciocchina». Nikolaj Petrovič non le porse la mano e, turbato, le baciò la testa china, sulla scriminatura. L’occhio di Fenečka guarì in fretta ma l’impressione che lei aveva prodotto in Nikolaj Petrovič non passò così presto. Aveva sempre in mente quel viso puro e soave timorosamente levato verso di lui; sentiva sotto le palme delle mani i capelli morbidi, vedeva le labbra innocenti, leggermente socchiuse e i denti umidi che splendevano al sole come perle. Cominciò a guardarla con maggiore attenzione in chiesa, provò a parlarle.


Da principio lei lo evitava, e una volta, prima di sera, avendolo incontrato in un campo di grano, lungo uno stretto sentiero che si era formato perché vi si passava spesso, saltò nelle alte e folte messi invase dalla gramigna e dai fiordalisi, per non farsi vedere. Nikolaj Petrovič vide la sua testina attraverso una rete dorata di spighe, da dove lei lo spiava, come un animaletto, e con tono affettuoso le gridò:


«Ehi, Fenečka! Io non mordo».


«Buongiorno», mormorò lei senza uscire dal suo rifugio.


A poco a poco cominciò ad abituarsi a lui, ma arrossiva sempre in sua presenza, quando all’improvviso Arina morì di colera. Che cosa sarebbe successo di Fenečka? Aveva ereditato da sua madre l’amore per l’ordine, la ragionevolezza e la serietà, ma era molto giovane, molto sola, e anche Nikolaj Petrovič per parte sua era così buono e così modesto... Non c’è bisogno di raccontare altro...


«Così, mio fratello è venuto a trovarti?» domandò Nikolaj Petrovič. «Ha bussato ed è entrato?»


«Sì».


«Bene. Dammi Mitja, lo faccio volare un po’».


E Nikolaj Petrovič cominciò a lanciare in aria il bambino fin quasi al soffitto, con grande divertimento del piccolo e con non poca apprensione della madre che a ogni volo tendeva le braccia verso le gambine tutte scoperte. Pavel Petrovič, invece, tornò nel suo elegante studio con le pareti rivestite di una bella tappezzeria dal colore ricercato, le pistole e le armi appese sullo sfondo di un tappeto persiano variopinto, i mobili di noce ricoperti di velluto verde scuro, l’antica libreria renaissance di quercia, le statuette di bronzo sul magnifico scrittoio, il camino... Si buttò sul divano, incrociò le braccia sotto la testa e restò immobile guardando il soffitto quasi con disperazione.


Forse perché voleva nascondere anche ai muri quel che esprimeva il suo viso o forse per qualche altra ragione, si alzò, tirò le pesanti tende delle finestre e di nuovo si distese sul divano.

IX

Quel giorno anche Bazarov conobbe Fenečka. Passeggiava in giardino con Arkadij e gli spiegava perché certi alberi, soprattutto delle piccole querce, non avessero attecchito.


«Bisogna piantare altri piccoli pioppi argentei e abeti e aggiungere terra grassa. Il pergolato ha preso bene perché l’acacia e la tremula sono brave persone e non hanno bisogno di cure. Ma qui c’è qualcuno».


Sotto il pergolato c’era Fenečka con Dunjaša e Mitja. Bazarov si fermò, mentre Arkadij faceva un cenno di saluto a Fenečka, come un vecchio amico.


«Chi è?» domandò Bazarov, quando furono più lontani. «Com’è bellina!»


«Ma chi?»


«È ovvio: ce n’è una sola bellina».


Arkadij, non senza imbarazzo, gli spiegò in poche parole chi fosse Fenečka.


«Ah, tuo padre non ha cattivo gusto! Mi piace, tuo padre, eh sì! Bravo bravo! Comunque devo conoscerla», e così dicendo, Bazarov tornò verso il pergolato.


«Evgenij!» gli gridò dietro, spaventato, Arkadij. «Stai attento, per piacere».


«Non ti preoccupare, siamo gente aperta noi, gente che ha vissuto in città».


Avvicinandosi a Fenečka si tolse il berretto.


«Permetta che mi presenti», cominciò inchinandosi educatamente. «Sono un amico di Arkadij Nikolaič e un uomo pacifico».


Fenečka si alzò dalla panchina e lo guardò in silenzio.


«Che bambino stupendo!» continuò Bazarov. «Non si preoccupi, non ho ancora fatto il malocchio a nessuno. Perché ha le guance così rosse? Gli stanno spuntando i dentini?»


«Sì», rispose Fenečka, «ne ha già quattro e adesso le gengive sono di nuovo gonfie».


«Mi faccia vedere... no, non abbia paura, sono un dottore».


Bazarov prese in braccio il bambino che, con meraviglia di Fenečka e di Dunjaša, non mostrò di essere né contrariato né spaventato.


«Sì, sì... niente, è tutto a posto: avrà dei denti forti! Se ci fosse qualcosa di nuovo, me lo dica. E lei, sta bene?»


«Sto bene, grazie a Dio».


«Grazie a Dio, la salute prima di tutto. E lei?» aggiunse Bazarov rivolto a Dunjaša.


Dunjaša, che era austera in casa e ridanciana fuori, gli sbuffò in faccia invece di rispondergli.


«Benissimo. Eccole il suo piccolo Ercole».


Fenečka si prese in braccio il bambino.


«Com’è stato tranquillo con lei», disse a mezza voce.


«Tutti i bambini stanno buoni con me, conosco il trucco».


«I bambini sentono chi gli vuol bene», osservò Dunjaša.


«Questo è certo», confermò Fenečka, «Mitja non va volentieri in braccio a chiunque».


«E in braccio a me?» domandò Arkadij che, dopo esser rimasto per un po’ in disparte, si era avvicinato al pergolato. Fece per attirare a sé Mitja che buttò la testa indietro e cominciò a pigolare con grande imbarazzo di Fenečka.


«Un’altra volta, quando mi conoscerà meglio», disse con condiscendenza Arkadij e i due amici si allontanarono.


«Come si chiama?» domandò Bazarov.


«Fenečka... Fedos’ja».


«Ma il patronimico? Bisogna sapere anche il patronimico».


«Nikolaevna».


«Bene. Mi piace perché non si è mostrata a disagio. Un altro forse la giudicherebbe male proprio per questo. Ma è una sciocchezza. Per che cosa dovrebbe essere a disagio. È una madre, ha ragione lei».


«Lei sì», osservò Arkadij, «ma mio padre...».


«Anche lui ha ragione», lo interruppe Bazarov.


«No, secondo me no».


«Forse non ti fa piacere che ci sia un nuovo erede».


«Non ti vergogni di attribuirmi questi pensieri!» si accalorò Arkadij. «Non è da questo punto di vista che trovo papà ingiusto; penso che dovrebbe sposarla».


«Ehi! Che generosità!» disse calmo Bazarov. «Per te il matrimonio ha ancora un significato, non me l’aspettavo».


Fecero qualche passo in silenzio.


«Ho visto tutta la tenuta di tuo padre», riprese Bazarov. «Il bestiame è in cattive condizioni, i cavalli sono stremati, le costruzioni malandate, i lavoranti smidollati e il fattore o è un cretino o un mascalzone, non ho ancora capito bene».


«Sei severo oggi, Evgenij Vasil’evič».


«E i bravi contadini continuano a imbrogliare tuo padre. Hai mai sentito quel proverbio: “Il contadino russo, se vuole, si pappa anche Dio”?»


«Comincio a dar ragione allo zio: hai una pessima opinione dei russi».


«E allora? Il solo merito dei russi è di avere un orribile concetto di sé. Quel che importa è che due volte due fa quattro. Tutto il resto sono sciocchezze».


«Anche la natura è una sciocchezza?» disse Arkadij guardando pensoso in lontananza i campi variopinti illuminati dolcemente dal sole che cominciava a calare.


«Anche la natura è una sciocchezza nel senso in cui tu la intendi. La natura non è un tempio, ma un laboratorio, e l’uomo è un operaio».


Proprio in quel momento volarono fino a loro dalla casa le note lente di un violoncello. Qualcuno suonava con sentimento, ma con mano inesperta, L’attesa di Schubert e la melodia si riversava come miele nell’aria.


«Che cos’è?» chiese stupito Bazarov.


«È papà».


«Tuo padre suona il violoncello?»


«Sì».


«Ma quanti anni ha tuo padre?»


«Quarantaquattro».


Bazarov improvvisamente scoppiò a ridere.


«E perché ridi?»


«Ma ti prego! Un uomo di quarantaquattro anni, un pater familias nel distretto di..., suona il violoncello».


Bazarov continuò a sghignazzare, ma Arkadij che pure venerava il suo maestro, questa volta non sorrise neppure.

X

Passarono circa due settimane. La vita a Mar’ino seguiva il suo corso: Arkadij oziava, Bazarov lavorava. Tutti in casa si erano abituati alle sue maniere noncuranti, al suo modo di parlare laconico e frammentario. Fenečka in particolare aveva acquistato familiarità con lui al punto che una notte lo aveva fatto svegliare perché Mitja aveva le convulsioni, lui era andato e, secondo la sua abitudine, un po’ scherzando un po’ sbadigliando, era rimasto da lei due ore e aveva curato il bambino. Pavel Petrovič odiava Bazarov con tutta l’anima: lo considerava superbo, sfrontato, cinico e plebeo; sospettava che Bazarov non gli portasse rispetto e che addirittura lo disprezzasse, lui, Pavel Kirsanov! Nikolaj Petrovič aveva un po’ paura del giovane «nichilista» e dubitava che la sua influenza potesse essere utile ad Arkadij, ma lo ascoltava volentieri e spesso rimaneva a osservare i suoi esperimenti fisici e chimici. Bazarov passava intere ore al microscopio che aveva portato con sé. La servitù gli si era affezionata nonostante i suoi scherzi: sentivano che era un loro fratello, non un signore. Dunjaša gli lanciava risolini e occhiate significative passandogli vicino di corsa come una piccola quaglia; anche Pëtr, vanitoso e stupido, con la fronte sempre corrugata, e l’unico merito di avere maniere garbate, saper leggere sillabando, e spazzolare con cura la giacca, sorrideva e si illuminava quando Bazarov gli si rivolgeva; i bambini poi correvano dietro al «dottore» come cagnolini. Solo a Prokof’ič, che non si sentiva meno aristocratico di Pavel Petrovič, non piaceva Bazarov, a tavola gli porgeva le vivande con un’espressione torva, lo chiamava «scorticatore di ranocchi» e «farabutto» e insisteva nel dire che, con quelle basette, la sua faccia somigliava al muso di un maiale dentro un cespuglio.


Arrivarono i più bei giorni dell’anno, i primi giorni di giugno. Il tempo era meraviglioso; per la verità da lontano si sentivano ancora gli echi minacciosi del colera, ma gli abitanti di quel governatorato si erano ormai abituati alle sue visite. Bazarov si alzava presto e camminava per due o tre verste, non passeggiava, non poteva tollerare le passeggiate senza scopo, ma raccoglieva erbe e insetti. Qualche volta portava con sé Arkadij. Sulla via del ritorno di solito tra di loro si accendeva una discussione, e, di solito, Arkadij ne usciva sconfitto per quanto parlasse di più del suo compagno.


Un giorno si attardarono più del solito. Nikolaj Petrovič uscì in giardino per andar loro incontro e, vicino al pergolato, udì i passi veloci e le voci dei due giovani, che camminavano dall’altro lato e non potevano vederlo.


«Tu non conosci abbastanza mio padre», diceva Arkadij.


Nikolaj Petrovič si nascose.


«Tuo padre è un bravo ragazzo», ribatté Bazarov, «ma ha una mentalità arretrata. La sua canzoncina l’ha già cantata».


Nikolaj Petrovič tese l’orecchio...


Arkadij non diceva niente. Il «bravo ragazzo dalla mentalità arretrata» rimase due minuti immobile e poi si diresse lentamente verso casa.


«L’altro giorno, l’ho visto che leggeva Puškin», continuò nel frattempo Bazarov. «Spiegagli, per piacere, che non va bene. Non è un bambino: è tempo che abbandoni certe stupidaggini. Come si può desiderare di essere dei romantici ai nostri giorni! Dagli qualcosa di serio da leggere».


«Che cosa?»


«Mah, penso, Stoff und Kraft di Büchner, per cominciare».


«Sì, lo penso anch’io», approvò Arkadij, «Stoff und Kraft è scritto in una forma divulgativa».


Quel giorno, dopo pranzo, Nikolaj Petrovič era seduto nello studio del fratello:


«E così, noi due», gli diceva, «siamo persone arretrate, che hanno già cantato la loro canzone. E allora? Forse Bazarov ha ragione, ma lo confesso, una cosa mi dispiace: io speravo di poter stare adesso insieme ad Arkadij come a un amico, essergli vicino, invece pare che io sia rimasto indietro, e lui sia andato avanti e che non possiamo capirci».


«Perché è andato avanti? E in che cosa è così diverso da noi adesso?» esclamò insofferente Pavel Petrovič. «Tutte cose che gli ha messo in testa il signor nichilista. Non lo sopporto, il dottorino; per me è solo un ciarlatano. Sono sicuro che con tutte le sue rane non è andato molto lontano nemmeno in fisica».


«No, questo non puoi dirlo: Bazarov è intelligente e sa molte cose».


«Ha una presunzione disgustosa», ribatté Pavel Petrovič.


«Sì, è presuntuoso. Ma non se ne può fare a meno, sembra; solo non riesco a capire una cosa. Io faccio di tutto per non rimanere indietro: ho sistemato i contadini e per il mio modo di condurre l’azienda in tutto il governatorato mi chiamano “rosso”, leggo, studio, cerco in tutto di adeguarmi alle esigenze moderne, e loro dicono che la mia canzoncina è finita. E purtroppo comincio a pensare che sia vero».


«Perché?»


«Ecco perché: oggi stavo leggendo Puškin... Gli zingari. Tutt’a un tratto Arkadij mi si è avvicinato e, in silenzio, con aria compassionevole, piano piano, come a un bambino, mi ha tolto di mano il libro e me ne ha messo davanti un altro, tedesco... mi ha sorriso e se n’è andato. E si è portato via Puškin».


«Ah! E che libro ti ha dato?»


«Questo».


E Nikolaj Petrovič tirò fuori dalla tasca della giacca la nona edizione del famigerato opuscolo di Büchner.


Pavel Petrovič se lo rigirò tra le mani.


«Hm! Arkadij Nikolaevič si preoccupa della tua istruzione. Allora, hai provato a leggerlo?»


«Ho provato».


«Ebbene?»


«O io sono stupido o sono tutte sciocchezze. Probabilmente io sono stupido».


«Ma il tedesco te lo ricordi?»


«Sì, lo capisco».


Pavel Petrovič si rigirò ancora il libretto tra le mani e guardò di sottecchi il fratello. Tacquero entrambi.


«A proposito», riprese Nikolaj Petrovič, volendo evidentemente cambiare discorso, «ho ricevuto una lettera da Koljazin».


«Da Matvej Il’ič?»


«Sì. È arrivato a *** per fare un’ispezione del governatorato. È diventato importante adesso e siccome siamo suoi parenti ci vuole vedere e ci invita con Arkadij in città».


«Ci vai?» chiese Pavel Petrovič.


«No, e tu?»


«No, non ci vado. Non ho nessuna voglia di fare cinquanta verste per arrivare fin là. Mathieu si vuol mostrare a noi in tutta la sua gloria. Vada al diavolo! Riceverà gli onori di tutto il governatorato, potrà cavarsela anche senza di noi. E poi, consigliere segreto, capirai! Se io avessi continuato la carriera militare, con stupida perseveranza, adesso sarei sicuramente generale. E poi noi siamo arretrati».


«Sì, è ora di ordinare la tomba e di incrociare la mani sul petto», disse con un sospiro Nikolaj Petrovič.


«Io non mi arrenderò così in fretta», borbottò suo fratello. «Ci sarà un altro scontro con il giovane medico, lo sento».


Lo scontro avvenne quella stessa sera, all’ora del tè.


Pavel Petrovič scese in salotto già pronto alla battaglia, irritato e deciso. Aspettava solo un pretesto per slanciarsi sul nemico; ma il pretesto per molto non si presentò. Bazarov parlava sempre poco in presenza dei due «vecchi Kirsanov» (li chiamava così), quella sera poi non si sentiva nello spirito giusto e beveva in silenzio una tazza di tè dietro l’altra. Pavel Petrovič ardeva per l’impazienza e i suoi desideri alla fine si avverarono.


Il discorso cadde su uno dei possidenti vicini.


«Una carogna, un aristocraticuccio», disse con indifferenza Bazarov, che lo aveva conosciuto a Pietroburgo.


«Permetta che le domandi», cominciò Pavel Petrovič con le labbra tremanti, «se secondo il suo modo di vedere, le parole “carogna” e “aristocratico” hanno lo stesso significato».


«Io ho detto: “aristocraticuccio”», ribatté Bazarov, inghiottendo pigramente un sorso di tè.


«Infatti. Ma io ritengo che lei abbia la stessa opinione degli aristocratici e degli aristocraticucci, e giudico mio dovere informarla che non condivido quest’opinione. Ho l’ardire di affermare che tutti conoscono le mie idee liberali e il mio amore per il progresso, ma proprio per questo io rispetto gli aristocratici, quelli autentici. Si ricordi, egregio signore» (a queste parole Bazarov alzò gli occhi su Pavel Petrovič), «si ricordi, egregio signore», ripeté con accanimento, «che gli aristocratici inglesi non vengono mai meno ai loro diritti e per questo rispettano quelli degli altri; pretendono che vengano osservati i doveri nei propri confronti e osservano, per questo, i doveri propri. L’aristocrazia ha reso l’Inghilterra libera e libera la mantiene».


«È una storia che ho già sentita molte volte», replicò Bazarov, «ma che cosa vuole dimostrare?»


«Con qvesto voglio dimostrare, egregio signore» (Pavel Petrovič quando si arrabbiava diceva intenzionalmente «qvesto» e «qvello», anche se sapeva benissimo che non era la pronuncia corretta. Questa stravaganza era un ricordo dei tempi di Alessandro, quando le persone importanti, nelle rare occasioni in cui parlavano la lingua materna, dicevano «qvesto» oppure «chesto» come per dimostrare che erano veri russi, ma che avevano il diritto di trasgredire le regole della scuola), «con qvesto voglio dimostrare che senza il senso della propria dignità, senza il rispetto verso se stessi, e nell’aristocratico questi sentimenti sono molto sviluppati, non ci può essere un solido fondamento per il bene sociale... le bien public... l’edificio sociale. La personalità, egregio signore, ecco quel che conta; la personalità umana deve essere forte come la roccia, perché deve sorreggere tutto. So perfettamente, per esempio, che lei si compiace di trovare ridicole le mie abitudini, il mio abbigliamento, la mia accuratezza insomma, ma anche queste cose derivano dal rispetto verso di sé, dal senso del dovere, sì, sì, dal dovere. Io vivo in campagna, lontano dal mondo, ma non mi lascio andare perché rispetto in me l’uomo».


«Mi scusi, Pavel Petrovič», intervenne Bazarov, «lei rispetta se stesso e intanto sta seduto con le braccia incrociate; che vantaggio ne ricava il bien public? Se lei non rispettasse se stesso, sarebbe la stessa cosa».


Pavel Petrovič impallidì.


«È un’altra questione, io non ho nessun dovere di spiegarle perché sto seduto con le braccia incrociate come lei si è degnato di esprimersi. Io voglio solo dire che lo spirito aristocratico è un principio e adesso possono vivere senza principi solo persone vuote e immorali. L’ho detto ad Arkadij il giorno dopo il suo arrivo e lo ripeto a lei oggi. Non è vero, Nikolaj?»


Nikolaj Petrovič fece cenno di sì con la testa.


«Aristocrazia, liberalismo, progresso, principi», diceva, intanto Bazarov, «quante parole straniere e inutili! All’uomo russo non servono nemmeno se gliele regalano».


«E che cosa gli serve, secondo la sua opinione? A sentir lei noi ci troviamo fuori dall’umanità, fuori dalle sue leggi. Ma, mi scusi, la logica della storia esige...».


«E a che cosa ci serve la logica! Possiamo farne a meno».


«Come?»


«Così. Io spero che lei non abbia bisogno della logica per mettersi in bocca un pezzo di pane, quando ha fame. Siamo molto lontani da queste astrazioni!»


Pavel Petrovič agitò le braccia.


«Non la capisco più. Lei offende il popolo russo. Non capisco come sia possibile non riconoscere i principi, le regole! In forza di che cosa agite, allora?»


«Le ho già detto, caro zio, che noi non riconosciamo l’autorità», intervenne Arkadij.


«Noi agiamo in forza di ciò che riteniamo utile», disse Bazarov. «Adesso più utile di ogni altra cosa è la negazione, e noi neghiamo».


«Tutto?»


«Tutto».


«Come? Non solo l’arte, la poesia... ma... fa paura dirlo...».


«Tutto», ripeté Bazarov con una calma assoluta.


Pavel Petrovič lo fissò, non si aspettava tanto, Arkadij quasi arrossì per la soddisfazione.


«Ma, mi permetta», intervenne Nikolaj Petrovič, «voi negate tutto o, per usare una parola più esatta, distruggete tutto... Invece, bisogna anche costruire».


«Non è compito nostro... Prima bisogna sgombrare lo spazio».


«La condizione attuale del popolo lo esige», aggiunse con sussiego Arkadij, «dobbiamo rispondere a queste esigenze, non abbiamo diritto di assecondare il nostro personale egoismo».


Quest’ultima frase, evidentemente, non piacque a Bazarov. Era filosofica, romantica, perché Bazarov chiamava romanticismo anche la filosofia: ma non ritenne necessario correggere il giovane discepolo.


«No, no!» esclamò con impeto improvviso Pavel Petrovič, «io non voglio credere che voi, signori, conosciate bene il popolo russo, che voi siate gli esponenti delle sue necessità, delle sue aspirazioni! No, il popolo russo non è come voi immaginate. Ha un sacro rispetto delle tradizioni, è un popolo patriarcale che non può vivere senza la fede...».


«Non discuto», lo interruppe Bazarov, «mi dichiaro anzi d’accordo. In questo lei ha ragione».


«E se ho ragione...».


«Questo però non dimostra niente lo stesso».


«Non dimostra proprio niente», ripeté Arkadij con la convinzione di un esperto giocatore di scacchi che ha prevenuto una pericolosa mossa dell’avversario e quindi si sente tranquillo.


«Come non dimostra niente?» borbottò stupito Pavel Petrovič. «Allora andate contro il vostro popolo?»


«E se anche fosse?» proruppe Bazarov. «Se il popolo pensa che quando c’è il temporale il profeta Elia passa in cielo con il suo carro, io devo essere d’accordo? E poi, se il popolo è russo, non sono russo anch’io?»


«No, lei non lo è, dopo quel che ha detto adesso».


«Mio nonno arava la terra», rispose con fierezza Bazarov. «Chieda a uno dei vostri contadini, chi di noi, me o lei, sente di più come un connazionale. Lei non sa nemmeno come parlare a un contadino».


«Lei gli parla e lo disprezza, però».


«Sì, se merita il disprezzo! Lei critica il mio modo di pensare, ma chi le ha detto che sia casuale, e che invece non sia stato provocato esattamente da quello spirito nazionale per il quale lei si batte tanto?»


«Ma allora, i nichilisti sarebbero indispensabili?»


«Indispensabili o no, non sta a noi dirlo. Anche lei non si considera inutile».


Nikolaj Petrovič si alzò in piedi: «Signori, signori, niente riferimenti personali, per piacere!».


Pavel Petrovič sorrise e, posatagli una mano sulla spalla, lo fece sedere di nuovo.


«Non aver paura», disse, «non mi lascerò trascinare, proprio grazie a quella dignità che il signor... il signor dottore deride così duramente. Mi scusi, lei», continuò rivolto a Bazarov, «lei, forse, pensa che il vostro insegnamento sia una novità? Si sbaglia. Il materialismo che propagandate è stato già più volte di moda e si è sempre rivelato privo di sostanza...»


«Materialismo. Di nuovo una parola che non ci appartiene!» lo interruppe Bazarov. Cominciava a perdere la calma e il suo viso era diventato color rame, volgare. «Prima di tutto noi non propagandiamo niente; non è nelle nostre abitudini».


«Che cosa fate allora?»


«Prima, fino a poco tempo fa, dicevamo che i nostri funzionari sono corrotti, che non abbiamo strade, scambi commerciali, tribunali giusti».


«Ma sì, siete degli smascheratori, mi sembra che si dica così, e con molte delle vostre denunce concordo anch’io, ma...».


«E poi abbiamo scoperto che chiacchierare, chiacchierare sempre delle nostre piaghe non serve a niente, porta solo alla banalità e al dogmatismo, abbiamo visto che anche coloro che fanno professione di intelligenza, i progressisti e i pubblici accusatori, non riescono in niente, abbiamo capito che ci stavamo occupando di cose assurde, parlavamo di arte e di creazione incosciente, del parlamentarismo e dell’avvocatura, e il diavolo sa di cos’altro, quando è solo questione di pane quotidiano, quando la superstizione più elementare ci soffoca, quando tutte le nostre società per azioni falliscono soltanto perché mancano gli uomini onesti, quando la stessa libertà per la quale il governo si dà tanto da fare non ci sarà utile, perché i nostri contadini sono contenti di derubare se stessi pur di andare ad annebbiarsi la mente all’osteria».


«Così, vi siete convinti e avete deciso di non dedicarvi a niente nemmeno voi».


«E abbiamo deciso di non dedicarci a niente», ripeté Bazarov e si incupì; era indispettito con se stesso per aver parlato tanto davanti a quel signore.


«E di ingiuriare soltanto».


«Sì, di ingiuriare».


«E questo si chiama nichilismo?»


«E questo si chiama nichilismo», ripeté di nuovo Bazarov, questa volta con particolare arroganza.


Pavel Petrovič socchiuse leggermente gli occhi.


«Ah, è così!» disse con voce stranamente calma. «Il nichilismo deve porre rimedio a tutti i mali e voi siete i nostri liberatori e i nostri eroi. Ma allora, perché insultate gli altri, anche gli smascheratori? Non sono chiacchiere anche le vostre come quelle di tutti?»


«Possiamo essere colpevoli di tutto, ma non di questo», disse tra i denti Bazarov.


«E allora? Agite, forse? Vi preparate ad agire?»


Bazarov non rispose. Pavel Petrovič trasalì ma si riprese subito.


«Hm...! Agire, distruggere...», continuò. «Ma come si può distruggere, senza sapere nemmeno il perché».


«Noi distruggiamo perché siamo una forza», disse Arkadij.


Pavel Petrovič guardò suo nipote e sorrise.


«Sì, la forza non rende conto a nessuno», continuò Arkadij sporgendo il petto in fuori.


«Disgraziato!» gridò Pavel Petrovič, che non era assolutamente più in grado di contenersi, «se almeno capissi quello di cui ti fai sostenitore in Russia con la tua squallida sentenza! È una cosa che farebbe perdere la pazienza a un santo! La forza! Il selvaggio calmucco e il mongolo hanno la forza, e a che serve? A noi sta a cuore la civiltà, sì, sì, egregio signore, la civiltà e i suoi frutti. E non mi venite a dire che sono cose senza significato. Il più misero degli artisti, un barbouilleur qualsiasi, un suonatore ambulante che prende cinque copeche per sera sono più utili di voi, perché rappresentano la civiltà e non la rozza forza mongola! Pensate di essere all’avanguardia, ma il vostro posto è una tenda calmucca! La forza! Ricordatevi, miei forti signori, che siete quattro in tutto, gli altri sono milioni e vi impediranno di calpestare le loro santissime convinzioni, e vi sconfiggeranno!»


«Peggio per loro», disse Bazarov. «Ma non è poi tanto sicuro che siamo così pochi come pensa lei».


«Davvero? Pensate sul serio di farcela con un intero popolo?»


«Una candela da una copeca ha incendiato Mosca», rispose Bazarov.


«Ah, è così. Prima un orgoglio quasi satanico e poi lo scherno. Ecco che cosa attira la gioventù, ecco come si conquista il cuore inesperto dei ragazzini. Uno di loro è seduto vicino a lei, l’adora quasi. Lo guardi!» (Arkadij si voltò dall’altra parte, accigliato). «E questo contagio si è già diffuso. Mi hanno detto che a Roma i nostri pittori non entrano in Vaticano. Giudicano Raffaello un idiota, perché è un’autorità, e mentre loro sono tristemente privi di energia e di creatività la loro fantasia non va oltre la Fanciulla alla fontana, e anche la fanciulla è dipinta malissimo. Ma secondo lei sono bravi, no?»


«Secondo me», ribatté Bazarov, «Raffaello non vale un soldo e gli altri non sono meglio di lui».


«Bravo! Bravo! Ascolta, Arkadij..., ecco come si devono esprimere i giovani moderni! E perché non dovrebbero ascoltarvi? Prima dovevano studiare, non volevano sembrare ignoranti e così si davano da fare controvoglia. Invece adesso basta che dicano: “Tutto è assurdo!”. E il gioco è fatto. I giovani sono felici perché prima erano semplicemente imbecilli e adesso sono nichilisti».


«Il lodevole sentimento della propria dignità l’ha tradita», osservò imperturbabile Bazarov mentre Arkadij li guardava con le guance in fiamme e gli occhi scintillanti. «La nostra discussione è andata troppo lontano... È meglio troncarla. Mi troverò d’accordo con lei», aggiunse alzandosi, «quando mi citerà almeno una istituzione della vita contemporanea, familiare o sociale, che non meriti una totale e spietata negazione».


«Milioni di queste istituzioni posso citarle», esclamò Pavel Petrovič, «milioni! Per esempio, la comunità contadina».


Un sorriso freddo increspò le labbra di Bazarov.


«Della comunità contadina è meglio che parli con suo fratello che sta sperimentando adesso che cosa siano la comunità contadina, la responsabilità collettiva, la lotta contro l’alcolismo e cosette del genere».


«Allora la famiglia, quella dei contadini!» gridò Pavel Petrovič.


«Ritengo che sia meglio per lei non approfondire questo problema. Non ha mai sentito parlare di incesto? Mi ascolti, Pavel Petrovič, si prenda due giorni di tempo, è difficile che possa trovare qualcosa subito. Esamini tutti i nostri strati sociali, ci rifletta per bene, intanto io e Arkadij...»


«Disprezzerete tutto», continuò Pavel Petrovič.


«No, sezioneremo le rane. Andiamo Arkadij; arrivederci signori».


Uscirono e i due fratelli rimasero soli: dapprima si guardarono semplicemente l’un l’altro.


«Ecco», esordì alla fine Pavel Petrovič, «ecco la gioventù d’oggi! Eccoli, i nostri eredi!»


«Eredi», ripeté con un sorriso triste Nikolaj Petrovič. Aveva ascoltato tutta la conversazione sulle spine e solo di sfuggita, penosamente, aveva guardato Arkadij. «Sai, mi ricordo che una volta avevo litigato con la mamma: lei gridava e non mi voleva ascoltare... Alla fine io le ho detto che non mi poteva capire perché appartenevamo a due generazioni diverse. Lei si era offesa moltissimo e io avevo pensato che non c’era niente da fare, la pillola era amara ma andava ingoiata. Ecco, adesso è il nostro turno, i nostri eredi ci possono dire che non siamo della loro generazione e noi dobbiamo ingoiare l’amara pillola».


«Tu sei esageratamente buono e modesto», obiettò Pavel Petrovič, «io, invece, sono sicuro che io e te siamo molto più nel giusto di questi signorini, anche se, forse, ci esprimiamo con un linguaggio antiquato, vieilli, e non abbiamo la loro arrogante sicurezza. E come sono musoni questi giovani d’oggi! Se gli domandi che vino preferiscono, bianco o rosso, “d’abitudine bevo solo il rosso!”, ti rispondono con voce di basso e con un’aria d’importanza come se tutto il mondo li stesse guardando».


«Ancora tè?» disse Fenečka, facendo capolino dalla porta: non aveva voluto entrare in salotto finché si erano sentite le voci che discutevano.


«No, puoi far portar via il samovar», rispose Nikolaj Petrovič e si alzò per andarle incontro. Pavel Petrovič gli disse bruscamente: «Bon soir», e andò nel suo studio.

XI

Mezz’ora dopo Nikolaj Petrovič uscì per andare in giardino sotto il suo caro pergolato. Lo assalirono pensieri tristi. Per la prima volta aveva sentito con chiarezza la sua distanza dal figlio e aveva il presentimento che sarebbe diventata ogni giorno più grande. Erano stati quindi inutili quelle intere giornate d’inverno che aveva trascorso a Pietroburgo leggendo gli ultimissimi libri; inutilmente aveva ascoltato le conversazioni dei giovani, inutilmente si era rallegrato quando era riuscito a dire anche la sua parola nei loro animati discorsi. Mio fratello dice che ho ragione, pensava, e, al di là di qualsiasi amor proprio, anche a me sembra che loro siano più lontani di noi dalla verità, e nello stesso tempo sento che hanno qualcosa che a noi manca, un senso di superiorità... La giovinezza, forse? No, non è solo la giovinezza. La loro superiorità, forse, consiste nel non aver tutti quei modi e quelle abitudini da signori che abbiamo noi.


Nikolaj Petrovič abbassò la testa e si passò una mano sul viso. Ma rifiutare la poesia, pensò di nuovo, non sentire l’arte, la natura...


Si guardò intorno, come se volesse capire come si poteva non amare la natura. Era già sera; il sole si nascondeva dietro il boschetto di tremule, a mezza versta dal giardino, l’ombra si stendeva senza fine attraverso i campi immobili. Un contadino cavalcava al trotto un cavallino bianco, lungo il sentiero stretto e buio che costeggiava il bosco; nonostante fosse nell’ombra, era ben visibile, fino alla toppa che aveva sulla spalla, e le zampe del cavallino balenavano graziose nel buio. I raggi del sole penetravano nel bosco e, attraverso il folto, circondavano i tronchi delle tremule di una luce così calda che sembravano quasi tronchi di pino e le foglie diventavano azzurre, mentre il cielo blu chiaro si innalzava appena imporporato dal tramonto. In alto volavano le rondini, il vento si era completamente quietato; api ritardatarie ronzavano pigre e sonnolente tra i fiori delle serenelle; moscerini in colonna affollavano un ramo che si protendeva solitario. Che bellezza, Dio mio! pensò Nikolaj Petrovič e gli salirono alle labbra i versi che amava tanto, gli tornò in mente Arkadij e Stoff und Kraft e tacque, ma rimase seduto, abbandonandosi ancora al gioco triste e consolatorio dei pensieri solitari. Gli piaceva sognare un po’; la vita di campagna aveva sviluppato in lui questa propensione. Molto tempo prima aveva vagato con la mente allo stesso modo, aspettando il figlio all’albergo di posta, e da allora c’era già stato un cambiamento, si erano già chiariti dei rapporti allora ancora confusi, eh sì!


Gli tornò di nuovo in mente la moglie morta, ma non come l’aveva conosciuta nel corso di tutti quegli anni, non come una brava e buona padrona di casa, ma come quand’era una ragazza giovane con la vita sottile e lo sguardo innocente e interrogativo, con la treccia saldamente fissata sul collo infantile. Si ricordò di quando l’aveva vista la prima volta. Era ancora studente. L’aveva incontrata sulle scale della casa dove abitava e l’aveva urtata senza accorgersi, si era voltato per scusarsi, ma era stato soltanto capace di borbottare: «Pardon, monsieur», lei aveva chinato la testa, aveva riso piano, e, d’un tratto, come se si fosse spaventata, era scappata via, ma alla svolta della scala gli aveva lanciato una occhiata veloce, aveva assunto un contegno serio ed era arrossita. Poi le prime timide visite, le mezze parole e i mezzi sorrisi, l’incertezza, la malinconia e gli slanci e alla fine quella gioia anelante... Dov’era fuggito tutto questo? Era diventata sua moglie, lui era felice come pochi sulla terra... Ma, pensò, quei dolci primi momenti, perché non vivono una vita eterna, immortale?


Non cercava di chiarire a se stesso il proprio pensiero, ma sentiva che avrebbe voluto trattenere quel tempo beato con qualcosa di più forte che non la memoria; avrebbe voluto sentire ancora la vicinanza della sua Marija, sentire il suo calore e il suo respiro e gli sembrava già...


«Nikolaj Petrovič», si udì lì vicino la voce di Fenečka, «Nikolaj Petrovič, non la vedo, dov’è?»


Trasalì. Non provò dolore né vergogna... Non ammetteva nemmeno la possibilità di un confronto tra la moglie e Fenečka. Gli dispiacque soltanto che lei lo avesse cercato. La sua voce gli aveva di colpo ricordato i suo capelli grigi, la sua vecchiaia, il suo presente...


Il mondo incantato che lo aveva appena accolto sorgendo dalle nebbiose onde del passato, oscillò e scomparve.


«Sono qui», rispose, «adesso arrivo, vai». Eccoli i modi da signore, pensò un attimo. Fenečka guardò verso di lui sotto il pergolato e scomparve, mentre Nikolaj Petrovič notava con stupore che la notte era arrivata mentre lui fantasticava. Era tutto buio e silenzioso intorno e il viso di Fenečka gli era scivolato vicino, piccolo e pallido. Si alzò e avrebbe voluto rientrare in casa; ma non riusciva a calmare il suo cuore commosso e cominciò a camminare piano per il giardino, guardando pensosamente la terra sotto i suoi piedi o levando lo sguardo al cielo dove già brulicavano e ammiccavano le stelle. Camminò molto fin quasi a stancarsi, ma non riuscì a placare quell’inquietudine confusa, malinconica e piena di interrogativi. Come avrebbe riso di lui Bazarov se avesse saputo quel che gli accadeva! Anche Arkadij lo avrebbe condannato. Un uomo di quarantaquattro anni, un agronomo, un proprietario terriero, con le lacrime agli occhi, lacrime senza ragione, era cento volte peggio del violoncello.


Nikolaj Petrovič continuava a camminare e non si decideva a rientrare in casa, in quel nido quieto e accogliente che così amichevolmente guardava verso di lui da tutte le finestre illuminate; non aveva la forza di separarsi dal buio, dal giardino, dalla sensazione dell’aria fresca sul viso e da quella tristezza, da quell’inquietudine...


Dove il sentiero svoltava gli venne incontro Pavel Petrovič.


«Che cosa c’è?» domandò a Nikolaj Petrovič. «Sei pallido come un fantasma; non stai bene; perché non vai a dormire?»


Nikolaj Petrovič gli spiegò con poche parole il suo stato d’animo e si allontanò. Arrivato in fondo al giardino anche Pavel Petrovič diventò pensieroso e levò gli occhi al cielo. Ma i suoi bellissimi occhi scuri non riflettevano niente fuorché la luce delle stelle. Non era un romantico e la sua anima squisitamente arida e ostinata di misantropo alla francese, non sapeva sognare...


«Sai cosa?» disse quella stessa sera Bazarov ad Arkadij. «Mi è venuta in mente un’idea magnifica. Tuo padre oggi ha detto di aver ricevuto un invito da quel vostro parente così importante. Lui non ci va, andiamoci noi a ***; quel signore ha invitato anche te. Hai visto qui che aria tira, così invece ci divertiamo, vediamo la città. Stiamo via cinque o sei giorni, e basta».


«E poi torni qui?»


«No, devo passare da mio padre. Sai che sta solo a trenta verste da *** e non lo vedo da molto, anche mia madre; bisogna consolare i vecchietti, sono buoni, soprattutto mio padre: è divertentissimo. Hanno solo me».


«E starai molto da loro?»


«Non credo. Mi annoierò».


«Ti fermerai da noi al ritorno?»


«Non so... vedrò. Allora? Si va?»


«Vediamo», rispose pigramente Arkadij.


Era contentissimo della proposta di Bazarov ma pensò di dover nascondere il suo entusiasmo. Non per niente era un nichilista! Il giorno dopo partirono per ***. La gioventù di Mar’ino si rattristò per la loro partenza; Dunjaša pianse perfino un po’... ma i vecchi si sentirono sollevati.

XII

La città dove erano diretti i nostri amici era sotto la giurisdizione di un governatore giovane, progressista e dispotico come succede molto spesso in Russia. Durante il primo anno della sua carica era riuscito a litigare non solo con il maresciallo della nobiltà, un capitano in seconda di cavalleria a riposo, allevatore di cavalli e molto ospitale, ma anche con i propri funzionari. Alla fine c’erano state discordie di proporzioni tali che il ministero a Pietroburgo aveva ritenuto necessario mandare una persona di fiducia con il compito di esaminare la questione. La scelta delle autorità era caduta su Matvej Il’ič Koljazin, il figlio di quel Koljazin che aveva fatto un tempo da tutore ai fratelli Kirsanov. Anche Matvej Il’ič apparteneva al gruppo dei «giovani», cioè aveva da poco compiuto quarant’anni, ma mirava già a diventare un uomo di stato e a entrambi i lati del petto portava una stella. Una, veramente, era di un paese straniero e poco importante. Come il governatore che era venuto a giudicare, si considerava un progressista e, pur essendo già importante, non somigliava alla maggior parte delle persone importanti. Aveva un’altissima opinione di sé, la sua ambizione non conosceva limiti, ma si comportava con semplicità, guardava gli altri con aria di approvazione, li ascoltava con condiscendenza e rideva così bonariamente che, sulle prime, poteva parere perfino un «bravo ragazzo». Nelle occasioni importanti sapeva, tuttavia, come si dice, gettar polvere negli occhi. «L’energia è necessaria», diceva allora, «l’énergie est la première qualité d’un homme d’état», ma con tutto questo, di solito, si lasciava intrappolare e bastava che un funzionario fosse un po’ esperto che già faceva di lui quel che voleva. Matvej Il’ič citava con grande rispetto Guizot e cercava di convincere tutti che lui non apparteneva al numero dei burocrati abitudinari e arretrati, che non privava della sua attenzione nessun avvenimento sociale... Tutte le espressioni di questo genere gli erano ben note. Seguiva perfino, seppur con negligente superiorità, lo sviluppo della letteratura moderna: con l’atteggiamento di un uomo adulto che, incontrando per la strada un corteo di ragazzi, si unisce per un po’ a loro. In sostanza Matvej Il’ič non era molto diverso da quegli uomini di stato del tempo di Alessandro che prima di prender parte a una serata dalla signora Svečina, che viveva allora a Pietroburgo, leggevano la mattina una pagina di Condillac. Solo i modi erano diversi in lui, più moderni. Era un abile cortigiano, un gran furbacchione e niente altro; di questioni burocratiche non si intendeva, intelligente non era, ma sapeva manovrare i suoi affari e nessuno poteva più fermarlo: questo era l’essenziale.


Matvej Il’ič accolse Arkadij con la benevolenza di un dignitario illuminato, anzi con giocosità. Tuttavia si stupì che i parenti che aveva invitato fossero rimasti invece in campagna. «È sempre stato un tipo strano il tuo papà», osservò, giocherellando con i nastri della sua magnifica veste da camera e, all’improvviso, rivolgendosi a un giovane funzionario con un’uniforme severissimamente abbottonata, esclamò preoccupato: «Come?». Il giovane, al quale per il prolungato silenzio si erano incollate le labbra, si alzò e guardò perplesso il proprio superiore. Ma, essendo riuscito a mettere in imbarazzo un sottoposto, Matvej Il’ič non gli prestava già più attenzione. I nostri dignitari amano mettere in imbarazzo i loro sottoposti, e i mezzi che usano per raggiungere questo scopo sono vari. Il sistema seguente è molto diffuso, is quite a favourite, come dicono gli inglesi: il dignitario improvvisamente smette di capire le parole più semplici, finge di essere sordo. Domanda per esempio: «Che giorno è oggi?». Rispettosissimamente gli rispondono: «Oggi è venerdì, vostra ec...c...c...cellenza». E lui ripete nervosamente: «Ah? Cosa? Che cos’è? Che cosa dice?». «Oggi è venerdì, vostra ec...c...c...cellenza». E ancora: «Come? Cosa? Venerdì? Quale venerdì?». Allora il sottoposto: «Venerdì, vostra ec...c...c...cellenza, il giorno della settimana». E il dignitario: «Pensi di dover insegnare a me quali sono i giorni della settimana?».


Matvej Il’ič era pur sempre un dignitario, anche se si considerava un liberale.


«Ti consiglio, amico mio, di andare a far visita al governatore», disse ad Arkadij, «capisci, se lo consiglio non è perché condivida le antiche concezioni che imponevano di ossequiare le autorità, ma solo perché il governatore è una persona perbene, e poi tu, probabilmente, desideri conoscere la società di qui... non sei un orso, spero? Il governatore dopodomani darà un grande ballo».


«Lei ci sarà?» domandò Arkadij.


«Il ballo è per me», disse Matvej Il’ič quasi come se gli dispiacesse. «Tu balli?»


«Ballo, ma male».


«Peccato. Qui ci sono ragazze molto graziose e per un uomo giovane è una vergogna non ballare. Di nuovo dico questo non in forza delle antiche concezioni; non penso che l’intelligenza debba trovarsi nei piedi, ma anche il byronismo è ridicolo, il a fait son temps».


«Ma zio, non è affatto per byronismo...»


«Ti farò conoscere le signore di qui, ti terrò sotto la mia ala», lo interruppe Matvej Il’ič e rise soddisfatto. «Ci starai caldo, sai».


Entrò un servitore e annunziò l’arrivo del presidente del demanio, un vecchio dagli occhi dolci e dalle labbra grinzose che amava terribilmente la natura, soprattutto nei giorni d’estate quando, secondo le sue parole, «le apine prendono dai fiorellini le loro piccole mance quotidiane...». Arkadij se ne andò.


Trovò Bazarov alla locanda dove si erano fermati e cercò a lungo di convincerlo ad andare dal governatore.


«Non c’è niente da fare», disse Bazarov alla fine. «Quando si è in ballo bisogna ballare. Siamo venuti per vedere i possidenti e allora guardiamoli!»


Il governatore accolse i due giovani gentilmente, ma non li fece sedere e lui stesso non si sedette. Era sempre indaffarato e aveva sempre fretta; fin dal mattino indossava una uniforme attillata e una cravatta straordinariamente rigida, non riusciva mai a finire di mangiare o di bere per dare ordini in tutte le direzioni. Nel governatorato gli avevano dato il soprannome di Bourdaloue, non volendo alludere al famoso predicatore francese, ma a quel torbido intruglio detto burdà. Invitò Kirsanov e Bazarov al ballo e dopo due minuti li invitò una seconda volta prendendoli per fratelli e chiamandoli Kajsarov.


I due amici stavano tornando all’albergo quando d’un tratto da una delle carrozze scoperte che passavano di lì saltò giù un uomo piccolo di statura con una giubba ungherese da slavofilo che gridando: «Evgenij Vasil’evič!» si slanciò su Bazarov.


«Ah è lei, Herr Sitnikov», disse Bazarov continuando a camminare lungo il marciapiede, «come mai qui?»


«S’immagini, per puro caso», rispose Sitnikov, e, voltandosi verso la carrozza, agitò quattro o cinque volte la mano e gridò: «Vieni dietro a noi, vieni! Mio padre ha degli affari qui», continuò superando con un salto un fossatello, «e così mi ha chiesto... Ho saputo oggi del suo arrivo e sono già stato da lei». (E infatti, tornando nella loro stanza all’albergo, trovarono un biglietto con gli angoli ripiegati e con il nome di Sitnikov, da un lato in francese e dall’altro in caratteri slavi.) «Spero che non siate stati dal governatore!»


«Non lo speri, stiamo uscendo adesso da casa sua».


«Ah! In questo caso ci andrò anch’io... Evgenij Vasil’evič mi presenti il suo... il...».


«Sitnikov, Kirsanov», farfugliò Bazarov senza fermarsi.


«Molto lusingato», cominciò Sitnikov, avanzando al loro fianco, sorridendo e togliendosi i guanti eccessivamente eleganti. Ho sentito molto... Sono un vecchio amico di Evgenij Vasil’evič, posso dire di essere un suo discepolo. Gli sono debitore della mia rinascita...».


Arkadij guardò il discepolo di Bazarov.


Il suo viso curato, dai tratti minuti ma gradevoli, aveva un’espressione inquieta e ottusa, gli occhi piccoli e infossati avevano uno sguardo fisso e inquieto e anche la sua risata era inquieta, spezzata, legnosa.


«Lei non mi crederà», continuò, «ma quando davanti a me Evgenij Vasil’evič, per la prima volta, ha detto che non bisogna riconoscere l’autorità, io ho provato un tale entusiasmo... come se mi si fossero aperti gli occhi! Ecco, ho pensato, finalmente ho trovato un uomo! A proposito, Evgenij Vasil’evič, deve assolutamente andare da una signora che vive qui e che è sicuramente in grado di capire le sue idee e che gradirebbe la sua visita come un’autentica festa; forse ne ha sentito parlare?»


«Chi è?» chiese controvoglia Bazarov.


«La Kukšina, Eudoxie, Evdoksija Kukšina. Una natura meravigliosa, emancipée nel vero senso della parola, una donna all’avanguardia. Anzi, andiamoci adesso tutti insieme. Abita qui a due passi. Faremo colazione da lei. Non avete ancora fatto colazione?»


«Non ancora».


«Benissimo. Lei, vede, si è separata dal marito e non dipende da nessuno».


«È bella?» lo interruppe Bazarov.


«N...no, non si può dir bella».


«E allora perché diavolo ci vuol portare da lei?»


«Sempre spiritoso... Ci offrirà una bottiglia di champagne».


«Ah ecco! Adesso si vede la persona pratica. A proposito, suo padre è sempre negli appalti?»


«Sì negli appalti», rispose in fretta Sitnikov con una risata stridula. «Allora si va?»


«Non so, davvero».


«Volevi guardare la gente, vai», osservò a mezzavoce Arkadij.


«E lei, signor Kirsanov?» insisté Sitnikov. «Venga anche lei, senza di lei non andremo».


«Ma come facciamo ad arrivare all’improvviso tutti insieme?»


«Non fa niente! La Kukšina è una persona straordinaria».


«Ci sarà la bottiglia di champagne?»


«Tre!» esclamò Sitnikov. «Garantisco io!»


«Con che cosa?»


«Con la mia testa».


«Sarebbe meglio con la borsa del papà. Comunque andiamo».

XIII

La piccola casa padronale, di stile moscovita, nella quale viveva Avdot’ja Nikitišna (o Evdoksija) Kukšina, si trovava in una delle strade che erano bruciate nell’ultimo incendio della città. Si sa che le città dei nostri governatorati bruciano ogni cinque anni. Sulla porta, sopra un biglietto da visita appeso storto, sporgeva un campanello. In anticamera, i visitatori furono accolti da una via di mezzo tra una cameriera e una dama di compagnia con la cuffia, chiaro indizio delle aspirazioni progressiste della padrona di casa.


Sitnikov domandò se Avdot’ja Nikitišna fosse in casa.


«È lei, Victor?» disse una voce sottile dalla stanza accanto. «Entri».


La signora con la cuffia sparì immediatamente.


«Non sono solo», disse Sitnikov, buttando spavaldamente a terra la sua giubba ungherese, sotto la quale indossava qualcosa di simile a uno spolverino o a un soprabito a sacco.


I tre giovani entrarono. La stanza somigliava più a uno studio che a un salotto. Carte, lettere, voluminose riviste russe, per la maggior parte intonse, giacevano sui tavoli impolverati; dappertutto spuntavano mozziconi di sigarette. Su un divano di pelle nera era semisdraiata una signora ancora giovane, bionda e un po’ scapigliata, con un vestito di seta non molto in ordine, grossi braccialetti intorno alle braccia corte e un fazzolettino di pizzo sulla testa. Si alzò dal divano e, tirandosi con noncuranza sulle spalle una cappa di velluto foderata di ermellino ingiallito, disse pigramente: «Buongiorno, Victor», e strinse la mano di Sitnikov.


«Bazarov, Kirsanov», Sitnikov presentò gli amici parlando a scatti, per imitare Bazarov.


«Benvenuti», rispose la Kukšina e, fissando Bazarov con i suoi occhi rotondi, in mezzo ai quali spuntava, isolato e rosso, un minuscolo nasino all’insù, aggiunse: «Io la conosco», e strinse la mano anche a lui.


Bazarov corrugò la fronte. Nella piccola e scialba figura della donna emancipata non c’era niente di brutto, ma il suo sguardo suscitava un’impressione sgradevole. Veniva voglia di chiederle: «Che cos’hai? Hai fame? Ti annoi? Oppure ti vergogni?». Anche lei, come Sitnikov, si rodeva eternamente nell’anima. Parlava e si muoveva con disinvoltura e, nello stesso tempo, in modo impacciato; inoltre, qualunque cosa facesse, sembrava che non fosse quello che veramente voleva fare, ma che, come dicono i bambini, lo facesse «apposta», cioè senza semplicità, senza naturalezza.


«Sì, sì, la conosco, Bazarov», ripeté. (Aveva l’abitudine, propria a molte signore sia provinciali sia moscovite, di chiamare gli uomini per cognome fin dal primo incontro.) «Volete un sigaro?»


«Sì, un bel sigaro», rispose Sitnikov, che si era già sdraiato su una poltrona, con le gambe accavallate. «Ci dia anche qualcosa da mangiare. Abbiamo una fame terribile, ci faccia portare anche un bottiglia di champagne».


«Sibarita!» disse Evdoksija e rise. (Quando rideva le si scoprivano le gengive.) «Non è vero, Bazarov, che è un sibarita?»


«Io amo le comodità della vita», ribatté con sussiego Sitnikov «ma questo non mi vieta di essere un liberale».


«Non è vero, lo vieta, lo vieta!» esclamò Evdoksija e, tuttavia, ordinò alla cameriera di preparare la colazione e lo champagne.


«Che cosa ne pensa?» aggiunse, rivolta a Bazarov. «Sono certa che lei condivide la mia opinione».


«Ma no», rispose Bazarov, «un pezzo di carne vale più di un pezzo di pane anche dal punto di vista chimico».


«Lei si occupa di chimica? È la mia passione, ho anche inventato un mastice».


«Un mastice? Lei?»


«Sì, io. E sa a quale scopo? Per aggiustare le testine delle bambole. Anch’io sono una persona pratica. Ma non ho ancora perfezionato la mia invenzione, devo consultare ancora il Liebig. A proposito, ha letto l’articolo di Kisljakov sul lavoro femminile, pubblicato sulle “Moskovskie vedomosti”? Lo legga, la prego. La interessa la questione femminile? E il problema della scuola? Di che cosa si occupa il suo amico? Come si chiama?»


La signora Kukšina lasciava cadere le sue domande una dietro l’altra con molle noncuranza, senza aspettare le risposte, come fanno i bambini viziati con le loro balie.


«Mi chiamo Arkadij Nikolaič Kirsanov», disse Arkadij, «e non mi occupo di niente».


Evdoksija scoppiò a ridere.


«Questa è carina! Non fuma? Victor, sa che sono arrabbiata con lei?»


«Perché?»


«Lei, ho sentito dire, ha cominciato di nuovo a tessere le lodi di George Sand. Una donna superata e niente di più! Come la si può paragonare a Emerson? Non ha nessuna idea sul problema dell’educazione, né sulla fisiologia né su nient’altro. Sono sicura che non ha nemmeno mai sentito parlare dell’embriologia, e invece oggi come si può farne a meno?» (Evdoksija allargò le braccia in un gesto enfatico.) «Ah, Elisevič ha scritto un articolo straordinario su questo argomento! È un signore geniale». (Evdoksija usava sempre la parola «signore» invece di «uomo».) «Bazarov, si sieda vicino a me, sul divano. Lo sa o no che ho una terribile paura di lei?»


«Perché? Mi permetta di essere curioso».


«Lei è un signore pericoloso, ha uno spirito molto critico. Ah, Dio mio! Che divertimento, io parlo come una qualsiasi proprietaria della steppa! Ma, in effetti, io sono una proprietaria e, si immagini, lo starosta del mio villaggio si chiama Erofej ed è un tipo eccezionale, proprio come il Pathfinder4 di Cooper: ha qualcosa di estremamente naturale, immediato. Mi sono definitivamente stabilita qui, ormai; è una città insopportabile, vero? Ma che fare?»


«È una città come un’altra», osservò freddamente Bazarov.


«Dappertutto interessi meschini, ecco quel che è terribile! Prima passavo gli inverni a Mosca... ma adesso ci abita il mio caro monsieur Kukšin. E anche Mosca... non so, ormai... ormai non è più quella. Penso di andare all’estero; l’anno scorso mi ero già decisa».


«A Parigi, naturalmente?» domandò Bazarov.


«A Parigi e a Heidelberg».


«Perché a Heidelberg?»


«Ma la prego, perché c’è Bunsen!»


Bazarov non seppe che cosa rispondere.


«Pierre Sapožnikov... lo conosce?»


«No».


«Ma per piacere! Pierre Sapožnikov... va sempre da Lidia Chostatova».


«Non conosco nemmeno lei».


«Bene... si era incaricato di accompagnarmi. Grazie a Dio io sono libera, non ho figli... Chissà perché ho detto “grazie a Dio”, comunque è lo stesso».


Evdoksija arrotolò una sigaretta con le dita ingiallite dal tabacco, fece scorrere la lingua sulla carta, succhiò un po’ la sigaretta e l’accese.


Entrò la cameriera con un vassoio.


«Ah, ecco la colazione! Volete mangiare qualcosa? Victor, stappi la bottiglia, tocca a lei».


«A me, a me», borbottò Sitnikov, e scoppiò di nuovo in una risata stridula.


«Ci sono belle donne qui?» domandò Bazarov, finendo di bere il terzo bicchiere.


«Ce ne sono», rispose Evdoksija, «ma sono tutte così vuote! Per esempio, mon amie Odincova non è brutta. Peccato che la sua reputazione non sia... Comunque non avrebbe importanza, è che non ha nessuna libertà né larghezza di vedute, niente... di tutto questo. Bisogna cambiare il sistema di educazione, ci ho già pensato: le nostre donne sono educate molto male».


«Non ne ricaverà niente», la interruppe Sitnikov. «Conviene disprezzarle e io le disprezzo totalmente!» La possibilità di esprimere il proprio disprezzo procurava a Sitnikov una piacevolissima sensazione; se la prendeva soprattutto con le donne, non sospettando che, qualche mese più tardi, avrebbe dovuto umiliarsi davanti alla propria moglie solo perché era nata principessa Durdoleosova.) «Nessuna di loro sarebbe in grado di seguire la nostra conversazione e di nessuna di loro vale la pena che noi, uomini seri, parliamo!»


«Ma a loro non serve affatto capire la nostra conversazione», disse Bazarov.


«Di chi parla?» s’intromise Evdoksija.


«Delle belle donne».


«Come! Lei, quindi, condivide l’opinione di Proudhon?»


Bazarov si raddrizzò sulla seggiola. «Io non condivido le opinioni di nessuno. Ho le mie», disse orgogliosamente.


«Abbasso le autorità!» gridò Sitnikov, felice di potersi esprimere con sicurezza in presenza di un uomo che lo faceva sentire in una posizione di inferiorità.


«Però Macaulay...», riprese la Kukšina.


«Abbasso Macaulay!»5 tuonò Sitnikov. «Lei difende quelle donnette?»


«Non le donnette, ma i diritti delle donne, che ho giurato di difendere fino all’ultima goccia del mio sangue».


«Abbasso!» A questo punto, Sitnikov si fermò. «Ma io non li nego», disse.


«No, io l’ho capito, lei è uno slavofilo».


«Non sono uno slavofilo, però, naturalmente...»


«No, no, no! Lei è uno slavofilo, un seguace del Domostroj.6 Starebbe bene con in mano una frusta».


«La frusta va bene», osservò Bazarov, «solo che siamo arrivati all’ultima goccia...».


«Di che cosa?» lo interruppe Evdoksija.


«Di champagne, onorevolissima Avdot’ja Nikitišna, di champagne, non del suo sangue».


«Io non posso rimanere indifferente quando sento accusare le donne», proseguì Evdoksija. «È terribile, terribile. Invece che prendervela con le donne, fareste meglio a leggere il libro di Michelet, De l’amour.7 È una meraviglia! Signori, parliamo dell’amore», aggiunse, lasciando cadere languidamente una mano sul cuscino sgualcito del divano.


Ci fu un improvviso silenzio.


«No, perché dovremmo parlare dell’amore?» disse Bazarov. «Lei, invece, ha nominato la Odincova... Si chiama così, vero? Chi è questa signora?»


«Una delizia! Una delizia!» pigolò Sitnikov. «Gliela presenterò. Intelligente, ricca, vedova. Purtroppo non è ancora abbastanza evoluta, dovrebbe conoscere meglio la nostra Evdoksija! Bevo alla salute, Eudoxie! Brindiamo! Et toc, et toc, et tin-tin-tin. Et toc, et toc, et tin-tin-tin!»


«Victor, birichino!»


La colazione durò a lungo. Alla prima bottiglia di champagne ne seguì una seconda, una terza e poi anche una quarta! Evdoksija chiacchierava senza tregua. Sitnikov le faceva eco. Discussero molto sul significato del matrimonio, se fosse un pregiudizio o un crimine, e su come nascono le persone, uguali oppure no, e in che cosa consista propriamente l’individualità. Alla fine Evdoksija, tutta rossa per il vino che aveva bevuto, pestando con le unghie piatte sui tasti di un pianoforte scordato, cominciò a cantare con voce rauca prima canzoni zigane e poi una romanza di Seymour-Schiff, Nel sopor giace Granada, mentre Sitnikov si era avvolto la testa in una sciarpa e impersonava l’amante morente che cantava:


Le mie braccia con le tue


in un bacio ardente unir


Arkadij non poté sopportare oltre: «Signori, adesso sembra di essere a Bedlam»,8 disse ad alta voce.


Bazarov che soltanto raramente era intervenuto nella conversazione con qualche parola sprezzante e si era interessato di più allo champagne, sbadigliò rumorosamente, si alzò e, senza salutare la padrona di casa, uscì con Arkadij. Sitnikov si alzò di scatto e li seguì.


«Allora, allora?» domandò correndo servilmente ora a destra ora a sinistra. «Ve l’avevo detto: ha una personalità straordinaria! Dovrebbero essercene tante di donne così! Nel suo genere è un esempio altamente morale».


«E anche questa istituzione di tuo padre è un esempio altamente morale?» disse Bazarov indicando una bettola davanti alla quale stavano passando in quel momento.


Sitnikov scoppiò di nuovo in una risata stridula. Si vergognava molto delle sue origini e non sapeva se sentirsi lusingato o offeso dal tu inaspettato di Bazarov.

XIV

Qualche giorno più tardi si tenne il ballo del governatore. Matvej Il’ič fu il vero «protagonista della festa», il maresciallo della nobiltà del governatorato dichiarava a tutti e a ciascuno che era venuto proprio in segno di rispetto verso di lui, e il governatore, perfino lì al ballo, anche rimanendo immobile, continuava a «dare disposizioni». La dolcezza dei modi di Matvej Il’ič era pari solo alla sua magnificenza. Blandiva tutti, alcuni, però, con una sfumatura di disprezzo, altri con una sfumatura di rispetto; si prodigava en vrai chevalier français con le signore e rideva continuamente di un riso forte, sonoro e uniforme, come si addice a un dignitario.


Batté sulla schiena di Arkadij e lo chiamò ad alta voce «nipotino», degnò Bazarov che indossava un vecchio frac di uno sguardo distratto, ma condiscendente, che gli scivolò lungo la guancia, e di un confuso, ma gentile, mugolio nel quale si poteva distinguere solo «io» e «issimo»; porse un dito a Sitnikov e gli sorrise tenendo la testa già voltata da un’altra parte; perfino alla Kukšina, che era apparsa al ballo senza il minimo accenno di crinolina e con i guanti sporchi, ma con un uccello del paradiso tra i capelli, disse: «Enchanté». C’era moltissima gente e non mancavano i cavalieri, i funzionari statali si affollavano soprattutto lungo le pareti, mentre i militari ballavano con zelo, specialmente uno di loro che aveva vissuto a Parigi per sei settimane circa, dove aveva imparato diverse esclamazioni audaci come «Zut», «Ah fichtrrre», «Pst, pst, mon bibi», e così via. Le pronunciava alla perfezione con autentico chic parigino, e nello stesso tempo diceva «si j’aurais», invece di «si j’avais», e «absolument» nel senso di «immancabilmente», insomma si esprimeva in quel francese-granderusso, del quale ridono tanto i francesi, quando non si sentono in dovere di assicurarci che parliamo la loro lingua come degli angeli, «comme des anges».


Arkadij ballava male, come sappiamo, e Bazarov non ballava affatto: si erano rifugiati in un angolo dove erano stati raggiunti da Sitnikov che, con il suo sorrisino sprezzante, si guardava intorno in maniera arrogante facendo osservazioni velenose e provando, a quanto sembrava, un autentico piacere. Improvvisamente cambiò espressione e, imbarazzato, si rivolse ad Arkadij. «È arrivata la Odincova», disse.


Arkadij si voltò e vide una donna alta, con un vestito nero, ferma sulla porta della sala. Fu colpito dalla dignità del suo portamento. Le sue braccia nude si allungavano con grazia lungo la figura sottile; dai capelli lucenti cadevano delicatamente sulla curva dolce delle spalle leggeri rametti di fucsia; gli occhi chiari guardavano intelligenti e calmi - calmi non pensosi - da sotto alla fronte bianca sporgente, e le labbra sorridevano in modo appena percettibile. Una forza serena, soave, emanava dal suo viso.


«La conosce?» domandò Arkadij a Sitnikov.


«Molto bene. Vuole esserle presentato?»


«Sì... dopo questa quadriglia».


Anche l’attenzione di Bazarov fu attratta dalla Odincova.


«Chi è quella? Non somiglia alle altre donne», disse.


Alla fine della quadriglia, Sitnikov condusse Arkadij dalla Odincova; benché si conoscessero molto bene, si confuse nel parlarle e lei lo guardò con un certo stupore. Ma il suo viso assunse un’espressione cordiale quando sentì il cognome di Arkadij. Gli domandò se fosse figlio di Nikolaj Petrovič.


«Proprio così».


«Ho visto suo padre due volte e ho sentito molto parlare di lui», continuò lei, «sono molto contenta di conoscerla».


In quel momento un aiutante di campo si precipitò da lei e la invitò per la quadriglia. Lei accettò.


«Balla?» domandò rispettosamente Arkadij.


«Ballo. Perché pensava che non ballassi? Le sembro troppo vecchia?»


«Ma la prego... Mi permetta invece di invitarla per la mazurca».


La Odincova rise. «Volentieri», e guardò Arkadij, non dall’alto in basso, ma come le sorelle sposate guardano di solito i fratelli più giovani.


La Odincova era di poco più vecchia di Arkadij, aveva ventotto anni, ma davanti a lei Arkadij si sentiva come uno scolaro, uno studentino, come se tra di loro ci fosse una differenza di età molto maggiore. Quando Matvej Il’ič le si avvicinò, con aria maestosa e parole ossequiose, si fece di lato, ma continuò a osservarla e non le tolse gli occhi di dosso anche durante la quadriglia. Lei conversava con il suo ballerino con la stessa disinvoltura con cui aveva parlato al dignitario, muoveva piano la testa e gli occhi, e un paio di volte rise sommessamente. Aveva un naso un po’ grosso, come quasi tutti i russi, e il colore della sua pelle non era perfettamente puro; ma Arkadij decise che non aveva ancora mai incontrato una donna così deliziosa. Il suono della sua voce risuonava nelle sue orecchie. Le stesse pieghe del suo vestito sembravano cadere su di lei in modo diverso che sulle altre, più armoniose e più ampie, e i suoi movimenti erano aggraziati e naturali al tempo stesso. Arkadij si sentiva in cuore una specie di timidezza mentre, alle prime note della mazurca, prendeva posto accanto alla sua dama; cercò di dare inizio alla conversazione, ma fu capace soltanto di passarsi una mano sui capelli e non riuscì a dire una parola. Ma non si vergognò e non si agitò a lungo; la calma della Odincova si comunicò anche a lui: non era ancora passato un quarto d’ora e già chiacchierava con disinvoltura di suo padre, dello zio, della vita a Pietroburgo e della vita in campagna. La Odincova lo ascoltava con gentilezza, aprendo e chiudendo leggermente il ventaglio; le chiacchiere di Arkadij si interrompevano quando lei veniva scelta da un cavaliere. Sitnikov la invitò due volte. Lei ritornava, si sedeva di nuovo, prendeva il ventaglio, ma il suo respiro non si era fatto più affannoso, e Arkadij ricominciava a chiacchierare, pervaso dalla felicità di trovarsi vicino a lei, di parlarle guardando i suoi occhi, la sua bellissima fronte, il suo caro viso serio e intelligente. Lei parlava poco, ma dalle sue parole e da alcune sue osservazioni Arkadij capì che conosceva la vita e concluse che quella giovane donna aveva già fatto in tempo a provare molti sentimenti e a riflettere molto.


«Chi era con lei», gli domandò la Odincova, «quando il signor Sitnikov l’ha accompagnata da me?»


«L’ha notato?» domandò a sua volta Arkadij. «È vero che ha una bella faccia? Si chiama Bazarov, è un mio amico».


Arkadij si mise a parlare del «suo amico». Lo descrisse con tanti particolari e con tanto entusiasmo, che la Odincova si voltò verso Bazarov e lo guardò. La mazurca stava per concludersi. Arkadij divenne triste all’idea di doversi separare dalla sua dama. Aveva passato con lei un’ora così piacevole! Veramente per tutto quel tempo aveva avuto la sensazione che lei lo trattasse con condiscendenza e che lui dovesse avere per lei della gratitudine... ma i cuori giovani non si lasciano tormentare da queste sensazioni.


La musica tacque.


«Merci», disse la Odincova alzandosi. «Ha promesso di venirmi a trovare, porti anche il suo amico. Sarò molto curiosa di vedere una persona che ha il coraggio di non credere in niente».


Il governatore si avvicinò alla Odincova, la informò che la cena era pronta e le porse con sussiego il braccio. Uscendo lei si voltò per fare un ultimo sorriso e un cenno ad Arkadij.


Arkadij si inchinò profondamente e seguitò a guardarla mentre si allontanava (come gli parve aggraziata la sua figura avvolta nel riflesso grigiastro della seta nera!), e mentre pensava “in questo momento si sarà già dimenticata della mia esistenza”, provò una specie di raffinata rassegnazione.


«E allora?» domandò Bazarov appena Arkadij lo raggiunse, «ti sei divertito? Un signore mi ha appena detto che quella signora è ahi-ahi-ahi, ma quel signore mi sembra un cretino. Secondo te è davvero ahi-ahi-ahi?»


«Non capisco bene questa definizione», rispose Arkadij.


«Eccolo ancora, l’innocente!»


«Se è così non capisco quel signore. La Odincova è molto simpatica, indiscutibilmente, ma si comporta così freddamente e severamente che...»


«Ma sai che le acque chete... », disse Bazarov. «Dici che è fredda. Anche questo ha il suo sapore. Ti piace il gelato?»


«Forse», borbottò Arkadij, «non posso giudicare. Vuole conoscerti e mi ha chiesto di portarti da lei».


«Immagino come mi hai descritto! Ma hai fatto bene. Portamici. Non so se è una semplice bellezza di provincia o una emancipée sul tipo della Kukšina, ma non vedevo spalle così da molto tempo».


Arkadij rimase disgustato dal cinismo di Bazarov, ma, come succede spesso, rimproverò al suo amico non esattamente quello che in lui non gli piaceva.


«Perché non vuoi concedere la libertà di pensiero alle donne?» disse a mezza voce.


«Perché ho capito che tra le donne la libertà di pensiero è appannaggio dei mostri».


La conversazione a questo punto s’interruppe. I due giovani uscirono subito dopo cena. La Kukšina rise alle loro spalle nervosamente e malignamente, ma non senza vergogna: il suo amor proprio era rimasto profondamente ferito perché né l’uno né l’altro le aveva prestato attenzione. Rimase al ballo più a lungo di tutti e alle quattro della mattina ballava con Sitnikov una polka-mazurca alla maniera francese. Con questo spettacolo esemplare si concluse anche la festa del governatore.

XV

«Adesso vedremo a quale tipo di mammifero appartiene», disse il giorno seguente Bazarov ad Arkadij mentre insieme salivano le scale dell’albergo della Odincova. «Il mio fiuto mi dice che qui c’è qualcosa di sbagliato».


«Mi meraviglio di te!» esclamò Arkadij. «Come? Tu, tu, Bazarov, ti attieni a quella morale meschina, che...».


«Come sei ridicolo!» lo interruppe Bazarov con noncuranza. «Nel nostro gergo e per quelli come noi “sbagliavo” vuol dire “giusto”. Vuol dire che c’è del buono. Non hai detto anche tu oggi che ha fatto uno strano matrimonio? Secondo me, sposare un vecchio ricco non è una cosa affatto strana, ma, al contrario, ragionevole. Io non credo alle chiacchiere della città, ma mi piace pensare, come dice il nostro dotto governatore, che siano vere».


Arkadij non rispose e bussò alla porta. Un giovane cameriere accompagnò i due amici in una grande stanza, ammobiliata male come le stanze di tutti gli alberghi russi, ma piena di fiori. La Odincova comparve poco dopo in un semplice abito da mattina. Sembrava ancora più giovane alla luce del sole primaverile. Arkadij le presentò Bazarov e, con segreta meraviglia, notò che sembrava imbarazzato, mentre la Odincova rimaneva calma come la sera precedente. Anche Bazarov si accorse di essere imbarazzato e si irritò con se stesso. Ecco, mi sono fatto spaventare da una donna!, pensò e, buttandosi su una poltrona, non diversamente da Sitnikov, si mise a parlare con esagerata disinvoltura mentre la Odincova non distoglieva da lui i suoi occhi chiari.


Anna Sergeevna Odincova era figlia di Sergej Nikolaevič Loktev, che, celebre per la sua bellezza, la sua passione per gli affari e per il gioco, aveva vissuto quindici anni tra Pietroburgo e Mosca finché, dopo aver perso tutto al gioco, si era trasferito in campagna e, dopo poco, era morto lasciando un esiguo patrimonio alle sue due figlie, Anna di vent’anni e Katerina di dodici. La loro madre che discendeva dalle stirpe impoveritasi dei principi Ch..., era morta a Pietroburgo quando il marito era ancora nel pieno delle sue forze. La situazione di Anna, dopo la morte del padre, era molto difficile. L’educazione brillante che aveva ricevuto a Pietroburgo non l’aveva preparata a sopportare le preoccupazioni economiche e domestiche e la vita solitaria della campagna. Non conosceva nessuno e non aveva nessuno con cui consigliarsi. Il padre aveva cercato di fuggire i rapporti con i vicini; li disprezzava e loro disprezzavano lui, per motivi diversi. Anna, tuttavia, non perse la testa e chiamò subito presso di sé la sorella di sua madre, la principessina Avdot’ja Stepanovna Ch..., una vecchia malvagia e prepotente che si stabilì in casa della nipote occupando le stanze migliori. Brontolava dalla mattina alla sera e perfino in giardino passeggiava solo in compagnia del suo unico servitore, un tetro cameriere con una logora livrea color pisello con i galloni azzurri e con un tricorno in testa. Anna sopportava pazientemente tutte le bizzarrie della zia; si dedicava all’educazione della sorella e sembrava che si fosse rassegnata all’idea di sfiorire in campagna... Ma il destino aveva disposto diversamente. Per un caso la vide un certo Odincov, un ricco originale di quarantasei anni, ipocondriaco, grasso, pesante e avido, ma non stupido e non cattivo; Odincov si innamorò di Anna e le chiese di sposarla. Lei acconsentì. Vissero insieme sei anni e quando Odincov morì, lasciò alla moglie tutte le sue sostanze. Anna Sergeevna per circa un anno dopo la morte del marito non lasciò la campagna, poi andò con la sorella all’estero, ma si fermò solo in Germania; provò nostalgia e tornò a vivere nella sua casa di Nikol’skoe, a una quarantina di verste dalla città di ***. Aveva una magnifica casa arredata in maniera perfetta, un giardino con bellissime serre: il defunto Odincov non si era fatto mancare niente. Anna Sergeevna si mostrava di rado e per poco tempo in città, il più delle volte per affari. Non era amata nel governatorato, il suo matrimonio con Odincov aveva suscitato grida e strepiti, su di lei si faceva ogni tipo di pettegolezzo, si diceva che aveva aiutato il padre nelle sue truffe, che non era andata all’estero senza motivo ma per nascondere le infauste conseguenze... «Lei capisce di che cosa!» concludevano le voci indignate. Ne ha combinate delle belle», dicevano di lei e il solito spiritoso di provincia aggiungeva: «e di tutti i colori». Tutte queste chiacchiere arrivavano fino a lei, che se ne lasciava appena sfiorare: aveva un carattere libero e risoluto. Stava seduta, appoggiandosi allo schienale della poltrona, con le mani una sull’altra, e ascoltava Bazarov. Lui parlava molto, contrariamente al solito, e cercava chiaramente di interessare la sua interlocutrice, cosa che di nuovo meravigliò Arkadij. Non riusciva a capire se Bazarov avesse raggiunto il suo scopo. Dal viso di Anna Sergeevna era difficile stabilire quali fossero le sue sensazioni: conservava sempre la stessa espressione gentile, sensibile; i suoi bellissimi occhi si illuminavano di attenzione, ma era un’attenzione imperturbata. Durante la prima parte della visita l’atteggiamento di Bazarov l’aveva colpita sgradevolmente come un odore cattivo o un rumore stridente; ma aveva capito subito che era imbarazzato e ne era stata quasi lusingata. Provava repulsione solo per la volgarità e nessuno avrebbe potuto rimproverare a Bazarov di essere volgare. Era destino che quel giorno Arkadij dovesse continuare a meravigliarsi. Pensava che Bazarov avrebbe parlato alla Odincova, come a una donna intelligente, delle sue convinzioni e delle sue idee. Lei stessa aveva manifestato il desiderio di conoscere una persona «che ha il coraggio di non credere in niente», invece Bazarov chiacchierò di medicina, di botanica, di omeopatia. La Odincova non aveva perso tempo nella solitudine: aveva letto dei buoni libri e si esprimeva in un russo corretto. Portò il discorso sulla musica, ma avendo capito che Bazarov non riconosceva il valore dell’arte, ritorno un po’ per volta alla botanica, benché Arkadij si fosse messo a parlare del significato delle melodie popolari. La Odincova continuava a rivolgerglisi come a un fratello minore, evidentemente apprezzava in lui la bontà e l’ingenuità della giovinezza, e basta. La conversazione si protrasse per più di tre ore, tranquilla, varia e vivace. I due amici alla fine si alzarono per congedarsi. Anna Sergeevna rivolse loro uno sguardo pieno di gentilezza, tese a entrambi la sua mano bianca e dopo aver riflettuto un attimo, con un sorriso incerto ma buono, disse:


«Se non temete la noia, signori, venite a trovarmi a Nikol’skoe».


«Ma la prego, Anna Sergeevna», esclamò Arkadij, «io la considero una fortuna eccezionale».


«E lei, monsieur Bazarov?»


Bazarov si inchinò solamente e ad Arkadij toccò di meravigliarsi per l’ultima volta, notando che il suo amico era arrossito.


«Allora?» gli disse in strada, «pensi sempre che sia ahi-ahi-ahi?»


«Ma chi la conosce? Hai visto com’è gelida!» ribatté Bazarov e dopo un attimo di silenzio, aggiunse: «È un’aristocratica, la discendente di una nobile stirpe. Le mancano lo strascico e la corona sulla testa».


«Le nostre aristocratiche non si esprimono così in russo», osservò Arkadij.


«Ha avuto momenti difficili, mio caro, ha mangiato il nostro pane».


«Però è deliziosa».


«Un corpo magnifico!» continuò Bazarov, «da sala di anatomia».


«Smettila, per l’amor del cielo, Evgenij! Che modi sono?!»


«Via, non ti arrabbiare, come sei delicato. Diciamo che è di prima qualità. Dovremo andare a trovarla».


«Quando?»


«Anche dopodomani. Che altro abbiamo da fare qui! Bere champagne con la Kukšina? Stare ad ascoltare il tuo parente, il dignitario liberale? Dopodomani andiamo. A proposito, anche la piccola tenuta di mio padre non è lontano da lì. Nikol’skoe non è sulla strada di ***?»


«Sì».


«Optime. Non indugiamo; solo i cretini indugiano, e i saggi. Lasciamelo dire: un corpo straordinario!»


Tre giorni dopo i due amici viaggiavano sulla strada di Nikol’skoe. Era una giornata limpida e non troppo calda e i cavalli di posta ben nutriti correvano affiancati, agitando leggermente le code intrecciate e annodate. Arkadij guardava la strada e sorrideva, senza sapere a che cosa.

«Fammi gli auguri», esclamò d’un tratto Bazarov, «oggi è il 22 giugno, il mio onomastico. Vediamo se mi porta fortuna. Mi aspettano a casa», aggiunse abbassando la voce. «Aspetteranno, che importanza ha?»

XVI

La casa di campagna nella quale viveva Anna Sergeevna si trovava su un dolce e ampio declivio, non lontano da una chiesa di pietra gialla, con il tetto verde, le colonne bianche e sulla porta principale un affresco di «gusto italiano» che rappresentava la Resurrezione di Cristo. Colpiva in particolar modo, per il realismo dei suoi tratti, un guerriero bruno, con l’elmo, disteso in primo piano. Oltre la chiesa si stendeva un piccolo paese costituito da due file di case con qualche camino che occhieggiava sopra i tetti di paglia. La casa padronale era costruita nello stesso stile della chiesa che da noi è conosciuto come stile di Alessandro; la casa era dipinta dello stesso giallo, il tetto era verde, le colonne bianche, la facciata aveva un frontone con lo stemma. L’architetto del governatorato aveva costruito sia la casa che la chiesa secondo il volere del defunto Odincov che non tollerava nessuna inutile e immotivata, come diceva lui, innovazione.


La casa era fiancheggiata dagli alberi scuri di un giardino antico, un viale di abeti potati conduceva all’ingresso.


I nostri amici furono accolti nel vestibolo da due camerieri alti, in livrea; uno dei due corse subito a cercare il maggiordomo. Il maggiordomo, grasso, con un frac nero, comparve immediatamente e fece salire gli ospiti per una scala coperta da una passatoia fino a una stanza isolata dove si trovavano due letti e tutto l’occorrente per la toilette. Nella casa regnava l’ordine: tutto era pulito, dappertutto si sentiva un profumo discreto, come nelle anticamere dei ministri.


«Anna Sergeevna chiede che lor signori favoriscano da lei tra mezz’ora», proferì il maggiordomo. «Pensano nel frattempo di avere degli ordini?»


«Nessun ordine, onoratissimo», rispose Bazarov, «soltanto abbia la benevolenza di portarci un bicchierino di vodka».


«Bene signore», rispose il maggiordomo non senza stupore e si allontanò facendo scricchiolare gli stivali.


«Grand genre!» disse Bazarov. «E così che dite voi, no? Una granduchessa fino in fondo».


«Che brava granduchessa», ribatté Arkadij, «che invita fin dal primo incontro due aristocratici come noi».


«Soprattutto io, che sarò presto un medico e sono figlio di un medico, e sono nipote di un sagrestano... Lo sai che sono nipote di un sagrestano...? Come Speranskij», aggiunse Bazarov dopo un breve silenzio, con una smorfia. «Comunque sa come viziarsi questa signora, altroché, se lo sa! Non dovremmo metterci il frac?»


Arkadij si strinse nelle spalle... anche lui provava un leggero imbarazzo.


Mezz’ora dopo scesero in salotto. Era una stanza immensa con i soffitti alti, ammobiliata con un certo lusso, ma senza un gusto particolare. I mobili, pesanti e costosi, erano disposti lungo le pareti, rivestite di una tappezzeria marrone a fogliami verdi, in modo tradizionale e pretenzioso. Il defunto Odincov aveva ordinato quei mobili a Mosca attraverso un suo conoscente e commissionario, mercante di vino. Sul divano centrale era appeso il ritratto di un uomo con i capelli bianchi e le guance flosce che sembrava guardare gli ospiti con ostilità.


«Dev’essere lui», sussurrò Bazarov ad Arkadij e, arricciando il naso, aggiunse: «Se ce la filassimo?».


Ma in quel momento entrò la padrona di casa. Portava un vestito leggero di mussola di lana, i capelli tirati dietro le orecchie davano un’espressione fanciullesca al suo viso fresco e pulito.


«Vi ringrazio di aver mantenuto la parola», cominciò, «fermatevi un po’ da me: qui non si sta male. Vi farò conoscere mia sorella che suona bene il pianoforte. A lei, monsieur Bazarov, non interessa ma lei, monsieur Kirsanov, ama la musica; oltre a mia sorella, qui con me vive una nostra zia vecchierella, e poi c’è un vicino che viene ogni tanto a giocare a carte: la nostra comunità è tutta qui. Sediamoci adesso».


La Odincova aveva pronunciato questo discorsetto con grande precisione, come se l’avesse imparato a memoria; poi si era rivolta ad Arkadij. Si scoprì che sua madre aveva conosciuto la madre di Arkadij e che era stata addirittura la sua confidente ai tempi dell’amore con Nikolaj Petrovič. Arkadij si mise a parlare con calore della madre morta; mentre Bazarov sfogliava degli album. Come sono diventato assennato, pensava tra sé. Un bel levriero con il collare azzurro entrò correndo nel salotto con un rumore di unghie rapido e secco sul pavimento, dietro il cane entrò una ragazza di circa diciotto anni con i capelli neri, la carnagione bruna, un viso un po’ troppo tondo ma simpatico e occhi scuri non grandi. Aveva in mano un cesto carico di fiori.


«Eccovi anche la mia Katja», disse la Odincova indicandola con un movimento del capo. Katja fece una piccola riverenza, si sedette con leggerezza vicino alla sorella e cominciò a sistemare i fiori.


Il levriero, che si chiamava Fifì, si avvicinò scodinzolando a entrambi gli ospiti, a turno, e affondò nella mano di ciascuno la punta fresca del suo naso.


«Li hai raccolti tutti da sola?» domandò la Odincova.


«Sì», rispose Katja.


«E la zia viene a bere il tè?»


«Sì, viene».


Katja parlava e intanto sorrideva, aveva un bel sorriso timido e sincero, e guardava da sotto in su con un’espressione divertita e seria al tempo stesso. Tutto in lei era ancora giovane e acerbo, la voce, il volto cosparso di peluria leggera, le mani rosee con circoletti biancastri sulle palme, le spalle un po’ troppo strette... Arrossiva in continuazione e respirava in fretta.


La Odincova si rivolse a Bazarov.


«Evgenij Vasil’evič lei guarda quelle figure per buona educazione», cominciò. «Non sono cose che possano interessarle. Venga più vicino a noi e discutiamo di qualcosa».


Bazarov si avvicinò.


«Di che cosa vuole discutere?»


«Di quel che preferisce. L’avverto che nelle discussioni sono terribile».


«Lei?»


«Sì, io. Sembra sorpreso? Perché?»


«Perché, per quanto posso giudicare, lei ha un carattere calmo e freddo e nelle discussioni bisogna lasciarsi trascinare».


«Come può pensare di conoscermi dopo così poco tempo? Io, prima di tutto, sono impaziente e testarda, lo domandi a Katja; e poi mi lascio trascinare molto facilmente».


Bazarov guardò Anna Sergeevna.


«Forse. Lei lo saprà meglio di me! Se vuole una discussione, discutiamo. Stavo guardando quelle vedute della Svizzera Sassone nel suo album, quando lei mi ha fatto notare che non potevano interessarmi. L’ha detto perché ritiene che io non abbia senso artistico, e infatti non ne ho, ma quelle vedute potevano interessarmi dal punto di vista geologico; potevo, per esempio, desiderare di conoscere lo stadio della formazione di quelle montagne».


«Mi scusi ma per la geologia lei farebbe meglio a ricorrere a un libro, a un’opera specialistica e non a un disegno».


«Un disegno presenta al mio sguardo in un’unica immagine quello che un libro espone in dieci pagine».


Anna Sergeevna non rispose.


«E allora lei non avrebbe nemmeno una briciola di senso artistico», disse infine e appoggiò i gomiti sul tavolo avvicinando così il proprio viso a quello di Bazarov. «E come riesce a farne a meno?»


«Perché? A che cosa serve? Mi permetta di chiederglielo».


«Se non altro a saper riconoscere e studiare le persone».


Bazarov fece un risolino.


«In primo luogo per questo esiste l’esperienza della vita; e in secondo luogo, le dirò che non vale la pena di studiare le singole persone. Gli uomini si somigliano nel corpo e nell’anima. Tutti hanno il cervello, la milza, il cuore, i polmoni costruiti alla stessa maniera, anche le cosiddette qualità morali sono uguali in tutti; piccole variazioni nell’aspetto non significano nulla. È sufficiente un solo esemplare umano per giudicare tutti gli altri. Le persone sono come gli alberi in un bosco; non esiste un botanico che prenda in esame ogni singola betulla».


Katja, che stava scegliendo con cura i fiori per la sua composizione, levò stupita lo sguardo su Bazarov e incontrando il suo, rapido e incurante, avvampò tutta fino alle orecchie. Anna Sergeevna scosse la testa.


«Gli alberi in un bosco», ripeté. «Dunque per lei non esiste differenza tra una persona stupida e una intelligente, tra un uomo buono e uno malvagio».


«No, una differenza esiste: come tra l’ammalato e il sano. I polmoni di un tisico non si trovano nelle stesse condizioni dei miei e dei suoi, anche se sono fatti alla stessa maniera. Conosciamo solo approssimativamente le cause dei mali fisici, ma i mali morali derivano dalla cattiva educazione, da tutte le sciocchezze di cui la gente si riempie la testa fin dall’infanzia, dalla mostruosità delle condizioni sociali, insomma correggete la società e non esisteranno più malattie».


Sembrava che Bazarov avesse detto tutte queste cose pensando: che tu mi creda o no, per me è lo stesso! Si passava lentamente le lunghe dita sulle fedine e i suoi occhi erano in continuo movimento.


«Lei ritiene», disse Anna Sergeevna, «che quando saranno corretti gli errori sociali non ci saranno più né stupidi né malvagi?»


«Per lo meno in una società organizzata in modo giusto sarà completamente indifferente che una persona sia stupida o intelligente, cattiva o buona».


«Sì, ho capito. Tutti avranno la stessa milza».


«Proprio così, signora».


La Odincova si rivolse ad Arkadij:


«Qual è la sua opinione, Arkadij Nikolaevič?».


«Sono d’accordo con Evgenij».


Katja lo guardò da sotto in su.


«Signori, mi stupite», disse la Odincova, «ma voglio parlare ancora un po’ con voi. Adesso sembra però che stia arrivando la mia zietta per il tè; e bisogna aver pietà per le sue orecchie».


La zia di Anna Sergeevna, la principessina Ch..., una donnina magra con il viso ormai piccolo come un pugno e gli occhi fissi e cattivi sotto la parrucca grigia, entrò e, inchinandosi appena davanti agli ospiti, si lasciò cadere su una grande poltrona di velluto, sulla quale nessuno tranne lei aveva diritto di sedersi. Katja le mise una sgabello sotto i piedi, la vecchia non la ringraziò, non la guardò neppure, mosse soltanto le mani sotto lo scialle giallo che ricopriva quasi completamente il suo gracile corpo. La principessina amava il giallo: perfino i nastri della sua cuffia erano di un vivido giallo.


«Ha riposato bene, zia?» domandò la Odincova, alzando la voce.


«Ancora questo cane», borbottò la vecchietta invece di rispondere e vedendo che Fifì con aria incerta le si stava avvicinando strillò: «Va’ via, va’ via!».


Katja chiamò Fifì e le aprì la porta.


Fifì si slanciò fuori allegramente credendo che la portassero a fare una passeggiata, ma rimasta sola al di là della porta cominciò a grattare e a guaire. La principessina si accigliò. Katja avrebbe voluto uscire.


«Penso che il tè sia pronto», disse la Odincova. «Andiamo signori; zietta vuole accomodarsi di là per il tè?»


La principessina si alzò in silenzio dalla poltrona e per prima uscì dal salotto. Tutti la seguirono nella sala da pranzo. Un ragazzo in livrea scostò rumorosamente dalla tavola una poltrona, coperta di cuscini e riservata, come quella del salotto, alla principessina. Katja le servì subito il tè in una tazza con lo stemma. La vecchietta ci mise dentro del miele (riteneva che bere il tè con lo zucchero fosse una colpa e uno spreco, anche se lei non spendeva un soldo) e poi improvvisamente domandò con voce rauca:


«E che cosa scrive il prencipe Ivan?».


Nessuno le rispondeva. Bazarov e Arkadij capirono che anche se tutti si comportavano con lei educatamente, non le prestavano attenzione. La tengono in virtù del suo rango principesco, pensò Bazarov... Dopo il tè, Anna Sergeevna propose di andare a fare una passeggiata; ma cominciava a cadere una pioggia sottile e tutti, tranne la principessina, tornarono in salotto. Arrivò Porfirij Platonyč, il vicino cui piaceva giocare a carte. Grassoccio, con i capelli grigi e delle gambine corte e tornite, era cortese e divertente. Anna Sergeevna, che stava sempre chiacchierando con Bazarov, gli propose di misurarsi con loro secondo la moda di una volta in una partita di préference. Bazarov acconsentì dicendo che era contento di prepararsi alle sue future incombenze di medico distrettuale.


«Stia attento», disse Anna Sergeevna, «io e Porfirij Platonyč la batteremo. E tu Katja», aggiunse, «suona qualcosa ad Arkadij Nikolaevič che ama la musica, intanto ascolteremo anche noi».


Katja si avvicinò malvolentieri al pianoforte; e Arkadij, benché amasse veramente la musica, la seguì altrettanto malvolentieri: gli sembrò che la Odincova lo allontanasse proprio mentre nel suo cuore cresceva quella sensazione confusa e opprimente simile a un presentimento d’amore che conoscono tutti i giovani della sua età. Katja sollevò il coperchio del pianoforte e, senza guardare Arkadij, disse a bassa voce:


«Che cosa devo suonarle?».


«Quel che vuole», rispose Arkadij.


«Che musica le piace di più?» ripeté Katja senza cambiare posizione.


«La musica classica», rispose Arkadij con lo stesso indifferente tono di voce.


«Mozart le piace?»


«Mozart mi piace».


Katja prese la sonata Fantasia in do minore di Mozart. Suonava molto bene, anche se in modo troppo austero e asciutto. Senza distogliere lo sguardo dallo spartito, stringendo le labbra, stava seduta immobile e diritta e solo verso la fine della sonata le sue guance si accesero e una piccola ciocca di capelli le si sciolse e cadde sul sopracciglio bruno.


Arkadij fu colpito soprattutto dall’ultima parte della sonata nella quale improvvise e quasi tragiche note di dolore e tristezza interrompevano una melodia lieve, allegra e suggestiva... Ma i pensieri che gli aveva ispirato la musica di Mozart non riguardavano Katja. Guardandola, pensava soltanto: non suona male questa signorina, e non è nemmeno brutta.


Quando ebbe finito Katja, senza togliere le mani dalla tastiera, domandò: «Basta?». Arkadij dichiarò che non osava affaticarla ancora, e si misero a parlare di Mozart; le chiese se avesse scelto da sola quella sonata o se qualcuno gliel’aveva consigliata. Ma Katja gli rispondeva a monosillabi: si era chiusa in se stessa. Quando le succedeva, le era poi difficile tornare allo scoperto; anche il suo viso assumeva un’espressione ostinata, quasi ottusa. Non era timida, ma era diffidente e un po’ timorosa della sorella che l’aveva allevata, cosa che, naturalmente, Anna Sergeevna non sospettava affatto. Arkadij, alla fine, chiamò Fifì che era ritornata in salotto e, per darsi un contegno, cominciò ad accarezzarle la testa. Katja tornò a occuparsi dei suoi fiori.


Intanto Bazarov continuava a perdere al gioco. Anna Sergeevna giocava magistralmente a carte e anche Porfirij Platonyč sapeva difendersi.


La perdita di Bazarov era piccola ma per lui tutt’altro che gradevole. A cena Anna Sergeevna riportò la conversazione sulla botanica.


«Andiamo a fare una passeggiata domani mattina», disse a Bazarov, «voglio sapere da lei i nomi latini delle piante che crescono nei campi e le loro proprietà».


«A che cosa le serve sapere i nomi latini?» domandò Bazarov.


«In ogni cosa ci vuole ordine», rispose lei.


«Anna Sergeevna è meravigliosa», esclamò Arkadij rimasto solo con il suo amico nella stanza che era stata loro destinata.


«Sì, è una donna che ha cervello. E deve averne viste di tutti i colori».


«In che senso lo dici, Evgenij Vasil’evič?»


«In senso buono, gliel’assicuro, carissimo Arkadij Nikolaič! Sono sicuro che amministra molto bene anche la sua proprietà. Ma la meraviglia non è lei, è sua sorella».


«Ma come? Quella brunetta?»


«Sì, quella brunetta. Qualcosa di fresco, di non contaminato, un po’ impaurita, silenziosa, tutto quello che vuoi. Ecco di chi ci si può occupare. Puoi fare di lei quel che ti viene in mente, l’altra invece la sa lunga».


Arkadij non rispose a Bazarov. Andarono a dormire, ciascuno con i propri pensieri.


Anche Anna Sergeevna quella sera pensò ai suoi ospiti. Bazarov le era piaciuto per la sua mancanza di galanteria e per la stessa asprezza dei suoi giudizi. Per lei era una novità, qualcosa che non le era ancora capitato di incontrare e ne era incuriosita.


Anna Sergeevna era una strana creatura. Non avendo nessun pregiudizio non aveva nemmeno nessuna vera convinzione, non retrocedeva davanti a nulla e non mirava a nulla. Sapeva e vedeva molte cose con chiarezza, molte la interessavano e nessuna la soddisfaceva, ma forse non desiderava nemmeno di essere soddisfatta. La sua intelligenza era indagatrice e distaccata al tempo stesso: i suoi dubbi non si placavano mai, fino a essere dimenticati, ma non diventavano mai tormentosi. Se non fosse stata ricca e autosufficiente forse si sarebbe lanciata nella lotta, avrebbe conosciuto la passione... Ma per lei vivere era facile, anche se ogni tanto si annoiava. Lasciava che i giorni trascorressero senza fretta e solo di rado si lasciava prendere dall’inquietudine. Lo splendore dell’arcobaleno si illuminava qualche volta anche davanti ai suoi occhi, ma quando si spegneva lei cercava il riposo e non lo rimpiangeva. La sua immaginazione si spingeva perfino oltre i limiti di quello che la morale comune considera lecito, ma il sangue continuava a scorrere pacatamente nel suo corpo affascinante, sottile e quieto. A volte, dopo un bagno caldo e profumato, le capitava di sentirsi raddolcita e commossa e si lasciava andare a riflessioni sulla vanità, sul dolore, la fatica e il male dell’esistenza... La sua anima si faceva inaspettatamente audace e cominciava a ribollire di nobili sentimenti, ma bastava che un filo d’aria entrasse da una finestra semiaperta e Anna Sergeevna cominciava a rabbrividire, a lamentarsi, quasi ad arrabbiarsi e ormai non le importava d’altro se non di impedire a quel vento crudele di soffiare e di turbarla.


Come tutte le donne cui non è stato dato di amare, Anna Sergeevna desiderava qualcosa senza sapere esattamente che cosa. In realtà non voleva niente, ma le sembrava di volere tutto. Il defunto Odincov le era stato quasi intollerabile (l’aveva sposato per calcolo, benché non vi si sarebbe mai decisa se non l’avesse considerato anche buono, non solo ricco), e le era rimasta una segreta ripugnanza per tutti gli uomini. Riusciva a immaginarli solo come creature sgradevoli, pesanti e fiacche, deboli e fastidiose. Una volta, all’estero, aveva incontrato un giovane svedese molto bello e con l’espressione di chi ha un animo nobile. Quegli occhi azzurri, franchi e onesti, e quella fronte alta l’avevano colpita, ma non le avevano impedito di tornare in Russia.


È una strana persona questo medico, pensava, mentre stava distesa sotto una leggera coperta di seta, adagiata sui cuscini di pizzo del suo magnifico letto... Anna Sergeevna aveva ereditato dal padre una briciola del suo amore per il lusso. Aveva voluto molto bene al suo irresponsabile padre e lui l’adorava, scherzava con lei come con una coetanea, le chiedeva dei consigli e si fidava di lei completamente. Di sua madre si ricordava appena. È strano quel medico, disse ancora tra sé. Si stirò, sorrise, piegò le braccia dietro la testa, poi lesse distrattamente due pagine di uno stupido romanzo francese, lasciò cadere il libro e si addormentò, pulita e fredda nella sua biancheria pulita e profumata.


La mattina seguente, subito dopo colazione, Anna Sergeevna partì con Bazarov per la loro passeggiata botanica e tornò solo per il pranzo; Arkadij non andò da nessuna parte e trascorse quasi un’ora con Katja, che gli propose di fargli ascoltare ancora la sonata della sera prima. Arkadij non si annoiava con lei, ma quando finalmente la Odincova tornò, quando la vide, il suo cuore ebbe una stretta improvvisa... Camminava in giardino con passo un po’ stanco; aveva le guance rosse e gli occhi ancora più splendenti del solito sotto il cappello di paglia con l’ala larga. Rigirava tra le dita il gambo sottile di un fiore di campo, lo scialle leggero le era scivolato sulle braccia e i larghi nastri grigi del cappello le ricadevano sul petto. Bazarov camminava dietro a lei, sicuro e incurante come sempre, ma l’espressione del suo viso, per quanto allegra e quasi carezzevole, non piacque ad Arkadij. Borbottando tra i denti: «Buongiorno!» Bazarov se ne andò in camera, la Odincova strinse distrattamente la mano di Arkadij e si allontanò.


Buongiorno, pensò Arkadij, come se oggi non ci fossimo già visti.

XVII

Il tempo, si sa, vola a volte veloce come un uccello, a volte scivola lento come un verme, ma la sensazione migliore per l’uomo sta nel non accorgersi nemmeno se il tempo stia trascorrendo piano o in fretta. Proprio in questo modo Arkadij e Bazarov passarono quindici giorni a casa della Odincova. A creare questa speciale atmosfera, contribuiva in parte l’ordine che regolava la casa e la vita di Anna Sergeevna e che lei osservava rigidamente, facendo in modo che gli altri vi si sottomettessero. Tutto, durante la giornata, si compiva al momento stabilito. La mattina, alle otto in punto, ci si riuniva per il tè. Poi, fino all’ora della colazione, ognuno si dedicava a quello che preferiva; la padrona di casa si occupava, insieme all’amministratore, della proprietà che si reggeva sui tributi dei contadini, parlava con il maggiordomo e con la governante. Prima di cena si riunivano di nuovo tutti per conversare o leggere, la sera era consacrata alle passeggiate, alle partite a carte, alla musica; alle dieci e mezzo Anna Sergeevna si ritirava in camera sua, dava gli ordini per il giorno seguente e andava a dormire. A Bazarov non piaceva questa esattezza, questa misura che pareva solennizzare la vita quotidiana; «la vita scorre sui binari», diceva; i camerieri in livrea, i maggiordomi ossequiosi offendevano i suoi sentimenti democratici. Pensava che allora si sarebbe dovuto anche pranzare all’inglese, in frac e cravatta bianca. Una volta ne parlò con Anna Sergeevna. Davanti a lei, grazie al suo atteggiamento particolare, tutti erano portati a esprimere spontaneamente la propria opinione. La Odincova lo ascoltò e disse: «Lei ha ragione, dal suo punto di vista, e può darsi che io mi comporti da padrona, ma in campagna non si può vivere senza una regola, la noia prenderebbe il sopravvento», e continuò a fare a modo suo. Bazarov protestava, ma sia lui che Arkadij si trovavano bene dalla Odincova proprio perché tutto scorreva «sui binari». Fin dai primi tempi del loro soggiorno a Nikol’skoe si era prodotto nei due giovani un cambiamento.


In Bazarov, per il quale Anna Sergeevna provava un’evidente simpatia nonostante di rado si trovasse d’accordo con lui, cominciò a manifestarsi una strana inquietudine: si irritava facilmente, parlava malvolentieri, aveva un’espressione cupa e non riusciva a star fermo un momento; invece Arkadij, che aveva definitivamente concluso e confessato a se stesso di essere innamorato della Odincova, si abbandonò a una tranquilla malinconia. Questo stato d’animo, però, non gli impedì di avvicinarsi a Katja, anzi lo aiutò a creare con lei un legame affettuoso e amichevole. Lei non mi apprezza! Pazienza...! C’è questa buona creatura che non mi respinge, pensava e il suo cuore assaporava di nuovo la dolcezza dei sentimenti elevati. Katja capiva confusamente di rappresentare una specie di consolazione e non rifiutava né a lui né a se stessa il piacere innocente di quell’amicizia timida e fiduciosa al tempo stesso.


In presenza di Anna Sergeevna non chiacchieravano fra loro: Katja perdeva sempre la sua spontaneità di fronte alla sorella, e Arkadij, come qualsiasi innamorato, quand’era vicino all’oggetto del suo amore non poteva prestare attenzione a nient’altro; ma si trovava bene solo con Katja. Sentiva di non suscitare l’interesse della Odincova, s’intimidiva e si perdeva d’animo quando restavano soli e anche lei non sapeva che cosa dirgli, lo considerava troppo giovane. Invece con Katja, Arkadij si sentiva a suo agio; la trattava con condiscendenza, l’ascoltava parlare della musica, delle impressioni che suscitava in lei, dei romanzi e delle poesie che aveva letto, e di altre piccole cose, senza rendersi conto che quelle piccole cose interessavano anche a lui. Da parte sua Katja non gli impediva di essere triste.


Ad Arkadij piaceva la compagnia di Katja, alla Odincova quella di Bazarov, e quindi di solito, dopo esser stati un po’ tutti e quattro insieme, soprattutto durante le passeggiate, si dividevano e formavano due coppie separate. Katja adorava la natura, anche ad Arkadij piaceva molto benché non osasse riconoscerlo; invece alla Odincova le bellezze della natura non interessavano, proprio come a Bazarov. Arkadij e Bazarov non stavano quasi più insieme e i loro rapporti cominciarono a cambiare. Bazarov smise di parlare con Arkadij della Odincova, smise persino di rimproverarle le sue «maniere aristocratiche»; continuava però a lodare Katja limitandosi a osservare soltanto che le sue inclinazioni sentimentali andavano moderate, ma le sue lodi erano frettolose, i suoi consigli secchi e nell’insieme parlava con Arkadij molto meno di prima... come se lo evitasse, come se si vergognasse di lui! Arkadij notava tutto, ma teneva per sé le sue osservazioni. La vera ragione di questo cambiamento era il sentimento che Bazarov provava per la Odincova e che lo torturava e lo rendeva furioso, ma che avrebbe rinnegato con una risata sprezzante e un commento cinico se qualcuno vi avesse anche solo accennato. A Bazarov piacevano molto le donne, la bellezza femminile lo seduceva, ma definiva l’amore ideale o romantico, come gli piaceva chiamarlo, una sciocchezza imperdonabile, e i sentimenti cavallereschi mostruosi o patologici; più di una volta si era mostrato stupito che Toggenburg non fosse finito in manicomio con tutti i menestrelli e i trovatori.9 «Se ti piace una donna», diceva, «cerca di raggiungere il tuo scopo. Se non è possibile, non importa, voltale le spalle, il mondo non finisce lì». La Odincova gli piaceva e la sua reputazione, il suo spirito libero e indipendente, l’indiscutibile simpatia che gli dimostrava sembravano doverlo favorire. Capì invece, ben presto, che non avrebbe «raggiunto il suo scopo» e, nello stesso tempo, sentì con stupore di non avere la forza di voltarle le spalle. Se pensava a lei si emozionava, ma Bazarov poteva dominare facilmente le sue emozioni, invece c’era un altro sentimento, inammissibile e ridicolo, che si era impadronito di lui e di fronte al quale il suo orgoglio si ribellava.


Parlando con Anna Sergeevna, ancor più di prima esprimeva la sua sprezzante indifferenza verso ogni forma di romanticismo, ma, rimasto solo, scopriva, e si infuriava, di essere un romantico. Allora andava nel bosco e camminava a grandi passi, spezzando i rametti che si trovava davanti e inveendo a mezza voce contro di lei e contro se stesso; oppure si rifugiava nel fienile, chiudeva gli occhi e si sforzava di dormire, ma spesso, naturalmente, non riusciva. Immaginava che quelle braccia caste gli circondassero il collo, che quelle labbra superbe rispondessero a un suo bacio, che quegli occhi intelligenti guardassero nei suoi con dolcezza, sì con dolcezza. La testa gli girava e per un attimo, finché la collera non si riaccendeva in lui, dimenticava tutto. Si accorgeva di pensare le cose più «vergognose» come se un demonio l’avesse provocato. A volte gli sembrava che anche la Odincova fosse cambiata, che nell’espressione del suo viso ci fosse stata una strana trasformazione, che forse... ma in quei momenti Bazarov pestava un piede in terra, o digrignava i denti o alzava il pugno in segno di minaccia contro se stesso.


Eppure Bazarov non si sbagliava del tutto. Aveva colpito l’immaginazione dell’Odincova, aveva risvegliato il suo interesse e adesso occupava i suoi pensieri. In sua assenza lei non si annoiava, non lo aspettava, ma al suo arrivo si animava; rimaneva volentieri sola con lui a chiacchierare, anche quando lui la irritava o offendeva i suoi gusti, le sue abitudini raffinate. Era come se volesse metterlo alla prova, e intanto capire se stessa.


Un giorno, passeggiando con lei in giardino, Bazarov le aveva detto, all’improvviso e con aria cupa, che aveva intenzione di partire presto per andare da suo padre... Anna Sergeevna era impallidita, come se qualcosa l’avesse punta al cuore con una sensazione così acuta e stupefacente che in seguito per molto tempo si era interrogata sul suo significato. Bazarov non le aveva detto che partiva per metterla alla prova, per vedere che cosa sarebbe successo: Bazarov non fingeva mai. Quella mattina era stato da lui il fattore del padre Timofeič, che un tempo lo aveva accudito. Il vecchietto gracile e svelto, con i capelli ingialliti, il viso rosso asciugato dal vento e tante piccole lacrime sotto le palpebre rugose, si era presentato inaspettatamente davanti a Bazarov con una giubba di panno grigioazzurro legata in vita da un avanzo di cintura e con stivali incatramati.


«Ah, salve, vecchio!» aveva esclamato Bazarov.


«Buon giorno, caro Evgenij Vasil’ič», aveva risposto il vecchio, poi gli aveva sorriso, pieno di gioia, e tutta la faccia gli si era coperta di rughe.


«Perché sei qui? Ti hanno mandato a cercarmi, eh?»


«Per carità, caro, ci mancherebbe!» aveva balbettato Timofeič, che si ricordava della severa proibizione del suo padrone. «Andavo in città per gli affari del padrone e ho sentito di sua grazia, così ho voltato, cioè per venire a vedere sua grazia... se no non avrei disturbato!»


«Via, non dire bugie», lo aveva interrotto Bazarov, «non si fa questa strada per andare in città».


Timofeič era rimasto un po’ incerto e non aveva risposto niente.


«Mio padre sta bene?»


«Grazie a Dio».


«E mia madre?»


«Anche Arina Vlas’evna, grazie al Signore».


«E mi aspettano?»


Il vecchietto aveva piegato da un lato la sua testina.


«Come si può non aspettarla, Evgenij Vasil’ič! Com’è vero Dio, ho gli spasimi al cuore quando guardo i suoi genitori».


«Va bene, va bene! Non esagerare. Di’ che arriverò presto».


«Sissignore», aveva risposto con un sospiro Timofeič.


Uscendo dalla casa si era calcato sulla testa il cappello con tutte e due le mani, era salito sul misero carrozzino da corsa che aveva lasciato all’ingresso e se n’era andato al trotto, per la strada opposta a quella che portava in città.


Quella sera la Odincova era nella sua stanza con Bazarov, mentre Arkadij camminava su e giù in salotto, ascoltando Katja che suonava il pianoforte. La principessina se n’era andata di sopra in camera sua, non sopportava gli ospiti in generale e in particolare questi «nuovi giovani senza freno», come li definiva. Se nelle stanze di rappresentanza diventava di cattivo umore, nella sua camera, davanti alla sua cameriera, prorompeva in tali ingiurie che la cuffia e la parrucca le sobbalzavano sulla testa. La Odincova lo sapeva bene.


«Perché ha deciso di partire?» cominciò Anna Sergeevna. «Ha dimenticato la sua promessa?»


Bazarov trasalì.


«Quale?»


«L’ha dimenticata? Doveva darmi qualche lezione di chimica».


«Che cosa possa fare? Mio padre mi aspetta; non posso tardare troppo. Però lei può leggere Pélouse et Frémy, Notions générales de Chimie, è un buon libro, scritto in modo chiaro. C’è tutto quello che le serve».


«Ma non si ricorda di avermi detto che un libro non può sostituire... mi sono dimenticata le parole che aveva usato, ma lei lo sa... si ricorda?»


«Che cosa posso fare!» ripeté Bazarov.


«Perché partire?» disse la Odincova abbassando la voce.


Lui la guardò. Lei appoggiò la testa sullo schienale della poltrona e incrociò le braccia nude fino al gomito. Sembrava più pallida alla luce di quell’unica lampada, velata da una reticella di carta ritagliata. Il suo ampio vestito bianco la copriva tutta con le sue morbide pieghe; si vedevano solo le punte dei piedi, pure incrociati.


«E perché rimanere?» rispose Bazarov.


La Odincova voltò un po’ la testa.


«Come, perché? Non si diverte qui da me? Oppure pensa che nessuno la rimpiangerà?»


«Di questo sono certo».


La Odincova tacque.


«Si sbaglia», disse infine. «E poi non le credo. Non può averlo detto sul serio...».


Bazarov era immobile.


«Evgenij Vasil’ič perché non dice niente?»


«Che cosa devo dirle? Non vale la pena di rimpiangere nessuno e me ancor meno».


«Perché?»


«Sono una persona positiva, non interessante. Non so parlare».


«Lei sta cercando dei complimenti, Evgenij Vasil’ič».


«Non è mia abitudine. Lei dovrebbe sapere che l’aspetto elegante della vita che le è tanto caro per me è incomprensibile».


La Odincova mordicchiò l’angolo del fazzoletto.


«Pensi quel che vuole, ma mi annoierò quando partirà».


«Arkadij resterà», osservò Bazarov.


Lei si strinse nelle spalle.


«Mi annoierò», ripeté.


«Veramente? Ma non si annoierà per molto».


«Perché lo pensa?»


«Perché lei stessa mi ha detto che si annoia solo quando qualcosa spezza l’ordine perfetto della sua vita. È così impeccabile quest’organizzazione che non ci può essere posto per la noia né per la nostalgia... per nessun sentimento penoso».


«E lei trova che io sono impeccabile... cioè che io ho organizzato la mia vita in modo perfetto?»


«Certo! Ecco, per esempio, fra qualche minuto suonano le dieci e io so già in anticipo che lei mi scaccerà».


«No, non la scaccerò, Evgenij Vasil’ič. Può rimanere. Apra quella finestra... mi sento un po’ soffocare».


Bazarov si alzò e spinse la finestra che si spalancò di colpo... Le sue mani tremavano e lui non si aspettava che si sarebbe aperta così facilmente. Una notte scura e dolce entrò nella stanza. Il cielo era quasi nero, gli alberi mormoravano, l’aria era pura e leggera, aveva un profumo fresco.


«Abbassi la tenda e si sieda», disse la Odincova, «ho voglia di chiacchierare un po’ prima delle sua partenza. Mi racconti qualcosa della sua vita, non parla mai di sé».


«Io cerco di discutere con lei di argomenti utili, Anna Sergeevna».


«Lei è molto modesto... Ma mi piacerebbe sapere qualcosa di lei, della sua famiglia, di suo padre. È a causa sua che ci sta per lasciare».


Perché dice queste cose?, pensava Bazarov.


«Ma non c’è niente di interessante», disse a voce alta, «soprattutto per lei, noi siamo gente oscura...».


«E io, secondo lei, sono un’aristocratica?»


Bazarov alzò gli occhi e la guardò.


«Sì», disse con un’asprezza eccessiva.


Lei rise.


«Mi accorgo che mi conosce poco, anche se lei afferma che tutte le persone si somigliano e che non vale la pena di studiarle una per ciascuna. Un giorno le racconterò la mia vita... ma prima lei mi racconterà la sua».


«Io la conosco poco», ripeté Bazarov. «Forse ha ragione, ogni persona è un enigma. Lei, per esempio: evita la vita di società perché la annoia e invita a casa sua due studenti. Perché lei con la sua intelligenza, con la sua bellezza, vive in campagna?»


«Come? Come ha detto?» chiese con vivacità la Odincova. «Con la mia bellezza?»


Bazarov corrugò la fronte.


«È lo stesso», borbottò, «volevo dire che non riesco a capire perché si è trasferita in campagna».


«Non lo capisce... Ma se lo sarà spiegato in qualche modo...».


«Sì... penso che le piaccia stare sempre nello stesso posto perché è viziata, ama le comodità, gli agi e a tutto il resto è indifferente».


La Odincova rise di nuovo.


«Decisamente lei non vuol credere che esista qualcosa da cui io mi lasci trascinare?»


Bazarov la guardò senza alzare gli occhi.


«La curiosità, forse, ma nient’altro».


«Veramente? Adesso capisco perché andiamo d’accordo: lei è come me».


«Noi andiamo d’accordo...», ripeté Bazarov con voce sorda.


«Sì! Ecco mi ero dimenticata che lei vuole partire».


Bazarov si alzò. La lampada illuminava lievemente il centro della stanza buia, silenziosa e profumata; la tenda abbassata ogni tanto si gonfiava e lasciava entrare l’aria fresca e inquietante della notte con il suo misterioso sussurro.


La Odincova era perfettamente immobile, ma si impadroniva a poco a poco di lei un’agitazione segreta che si comunicava a Bazarov. Era solo con una donna giovane e bellissima. All’improvviso se ne rese conto.


«Dove va?» chiese piano lei. Bazarov non rispose e si lasciò cadere sulla seggiola.


«E così mi considera imperturbabile e viziata», continuò lei con la stessa voce e senza distogliere gli occhi dalla finestra. «Io invece so di essere molto infelice».


«Infelice? Perché? non vorrà attribuire importanza a degli ignobili pettegolezzi».


Anna Sergeevna si oscurò, irritata all’idea che Bazarov avesse frainteso le sue parole.


«Quei pettegolezzi non mi fanno nemmeno ridere, Evgenij Vasil’evič, e io sono troppo orgogliosa per lasciarmene turbare. Sono infelice perché... in me non c’è desiderio, voglia di vivere. Lei mi guarda e non mi crede, lei pensa che stia parlando una “aristocratica” tutta avvolta in pizzi e velluti. Io non lo nascondo: amo quelle che lei chiama comodità e, nello stesso tempo, ho poca voglia di vivere. Risolva questa contraddizione come può. Oppure se vuole può pensare che sia solo del romanticismo».


Bazarov scosse la testa.


«È sana, indipendente, ricca. Che cosa vuole?»


«Che cosa voglio», ripeté la Odincova e sospirò. «Sono molto stanca, vecchia, mi sembra di aver vissuto molto. Sì, sono vecchia», aggiunse, stendendo piano i lembi della mantiglia sulle braccia nude. Incontrò lo sguardo di Bazarov e arrossì leggermente. «Ho alle spalle già tanti ricordi: Pietroburgo, la ricchezza, poi la povertà, la morte di mio padre, il matrimonio, un viaggio all’estero... Molti ricordi e niente da ricordare, davanti a me c’è una lunga strada e nessuna meta... E io non ho voglia di proseguire».


«È così delusa?» domandò Bazarov.


«No», disse scandendo le parole Anna Sergeevna, «no, ma non sono soddisfatta. Forse se potessi legarmi con forza e qualcosa...».


«Lei vorrebbe amare», la interruppe Bazarov «ma non può amare: ecco la ragione della sua infelicità».


La Odincova abbassò gli occhi sul bordo della sua mantiglia.


«Allora io non posso amare?»


«Penso di no. Ma ho sbagliato a parlare di infelicità. È più degno di compassione, invece, chi incorre in quest’errore».


«Quale errore?»


«Amare».


«Come lo sa?»


«L’ho sentito dire», rispose Bazarov con rabbia.


Sta civettando, pensava, si annoia e vuol divertirsi a stuzzicare me, ma io... Il suo cuore si spezzava. «E poi lei, forse, è troppo esigente», disse a voce alta, protendendosi tutto in avanti e giocando con la guarnizione della poltrona.


«Forse. O tutto, o niente, per me è così. La vita per la vita. Hai preso la mia, dammi la tua, senza rimpianti e senza ritorno. Se no, è meglio niente».


«E allora?» disse Bazarov. «È una condizione giusta e mi meraviglio come fino ad ora non abbia trovato quel che desiderava».


«Perché, lei pensa che sia facile darsi completamente a qualcosa?»


«Non è facile se ci si mette a riflettere, ad aspettare, ad attribuire a se stessi un valore, cioè ad aver cari se stessi, ma se non si riflette, abbandonarsi è molto facile!»


«Come si può non aver cari se stessi? Se io non avessi alcun valore a chi servirebbe la mia dedizione?»


«È un problema che non deve riguardare me; è compito dell’altro valutare il mio valore. Quel che conta è sapersi dare con slancio».


La Odincova si scostò dallo schienale della poltrona.


«Lei parla come se avesse sperimentato tutte queste cose».


«Le ho sentite dire, Anna Sergeevna: come lei sa non sono di mia competenza».


«Ma lei saprebbe abbandonarsi?»


«Non lo so, non voglio vantarmene».


Anna Sergeevna non disse niente e anche Bazarov tacque. Le note del pianoforte arrivarono fino a loro dal salotto.


«Come mai Katja sta ancora suonando?» osservò Anna Sergeevna.


Bazarov si alzò.


«Sì, adesso è proprio tardi, per lei è ora di riposare».


«Aspetti, dove corre... devo dirle ancora una parola».


«Quale?»


«Aspetti», sussurrò lei. I suoi occhi si fermarono su di lui come se lo volesse esaminare. Bazarov fece qualche passo attraverso la stanza, poi le si avvicinò di scatto, le disse bruscamente: «Addio», stringendole con tanta forza la mano da farla quasi gridare e uscì subito. Anna Sergeevna si portò le dita indolenzite alle labbra, ci soffiò sopra e poi impulsivamente si alzò dalla poltrona e si diresse a passi veloci alla porta come per chiamarlo indietro... In quel momento entrava la cameriera portando una brocca su un vassoio d’argento. La Odincova si arrestò e le ordinò di uscire, poi tornò a sedersi e a riflettere. Una treccia le si era sciolta e ricadeva sulla spalla come uno scuro serpente. Quella sera la lampada rimase ancora a lungo accesa nella sua stanza. Lei se ne stava immobile e solo ogni tanto si passava le dita sulle braccia nude che il freddo della notte feriva leggermente.


Invece Bazarov due ore dopo tornò nella sua camera con gli stivali bagnati di rugiada, scarruffato e cupo. Trovò Arkadij alla scrivania con un libro in mano e la giacca abbottonata fino al collo.


«Non sei ancora andato a dormire?» disse quasi con rabbia.


«Sei stato molto con Anna Sergeevna oggi», osservò Arkadij senza rispondergli.


«Sì sono stato con lei tutto il tempo che tu e Katerina Sergeevna avete suonato il pianoforte».


«Io non ho suonato...», cominciò Arkadij, e poi tacque. Sentiva che le lacrime gli salivano agli occhi e non voleva scoppiare a piangere davanti al suo sprezzante amico.

XVIII

Il giorno seguente all’ora del tè quando comparve Anna Sergeevna, Bazarov fissò a lungo la propria tazza, senza alzare gli occhi, poi la guardò all’improvviso... e lei si voltò verso di lui come se le avesse dato uno spintone. Bazarov pensò che il suo viso si era fatto più pallido durante la notte. Lei tornò presto nella sua stanza e riapparve solo per la colazione. Fin dalla mattina il tempo era piovoso e non si poteva uscire. Tutti si riunirono in salotto. Arkadij prese l’ultimo numero di una rivista e cominciò a leggere. La principessina, come sua abitudine, dapprima assunse un’espressione di stupore, come se Arkadij avesse commesso una maleducazione, poi lo fissò con cattiveria; ma lui, non le badò.


«Evgenij Vasil’evič», disse Anna Sergeevna, «salga un momento da me... Vorrei chiederle... Ieri sera mi ha parlato di un manuale...». Si alzò e andò alla porta. La principessina assunse subito l’espressione di chi vuol dire: Guardate, guardate la mia meraviglia! E di nuovo fissò Arkadij, lui si schiarì la voce, scambiò un’occhiata con Katja che gli sedeva vicino e riprese a leggere.


La Odincova, a passi rapidi, arrivò al suo studio. Anche Bazarov camminava in fretta e la seguiva senza alzare gli occhi, cogliendo solo il sottile fruscio dell’abito di seta che scivolava davanti a lui. La Odincova si sedette sulla stessa poltrona della vigilia, e Bazarov sulla stessa seggiola.


«Allora come si chiama questo libro?» chiese lei dopo un breve silenzio.


«Pélouse et Frémy, Notions générales...», rispose Bazarov. «Ma potrei raccomandarle anche Ganot, Traité élémentaire de physique expérimentale. I disegni sono più precisi e nell’insieme è un manuale...».


Anna Sergeevna tese la mano.


«Evgenij Vasil’ič, mi scusi, ma io l’ho chiamata qui non per ragionare di manuali. Io volevo riprendere la conversazione di ieri. Lei se n’è andato così all’improvviso... Non si annoierà?»


«Sono al suo servizio, Anna Sergeevna. Ma di che cosa parlavamo ieri?»


Lei gli lanciò un’occhiata di sbieco.


«Parlavamo, mi sembra, della felicità. Io le raccontavo di me, e avevo menzionato la parola “felicità”. Mi dica perché, anche quando godiamo, per esempio, della musica, di una bella serata, di una conversazione con persone simpatiche, perché tutto sembra più un’allusione a una felicità smisurata che esiste altrove, che non la felicità vera alla nostra portata? Perché? Oppure lei non ha questa sensazione?»


«Conosce il proverbio: “Si sta bene dove non si è”?» disse Bazarov. «E poi lei stessa ieri ha detto di non essere soddisfatta. A me questi pensieri non passano neanche per la mente».


«Forse le sembrano ridicoli?»


«No, ma non mi vengono in mente».


«Veramente? Sa che io desidererei molto sapere quel che lei pensa?»


«Sì? Non la capisco».


«Ascolti, da molto volevo spiegarmi con lei. È inutile che glielo dica, perché anche lei sa di essere una persona non comune. È giovane, ha tutta la vita davanti a sé. A che cosa si sta preparando? Che futuro l’aspetta? Voglio dire, che scopi vuole raggiungere, dove sta andando, che cosa c’è nella sua anima? Insomma chi è lei, che cosa è?»


«Lei mi stupisce, Anna Sergeevna. Sa che io studio scienze naturali, e che sono...».


«Sì, chi è lei?»


«Le ho già dichiarato che sono un futuro medico distrettuale».


Anna Sergeevna fece un gesto impaziente.


«Perché mi dice queste cose? Non ci crede neanche lei. Così avrebbe potuto rispondermi Arkadij, non lei».


«Ma Arkadij è forse...».


«Basta! Possibile che lei possa trovare soddisfazione in una attività così squallida? Non ha sempre affermato lei stesso che la medicina non esiste? Lei, con il suo amor proprio, medico distrettuale. Mi risponde così per liberarsi di me, perché non ha nessuna fiducia in me. Non sa, invece, che io potrei capirla. Anche io sono stata povera e orgogliosa, come lei; ho dovuto, forse, affrontare le stesse prove».


«Va benissimo, Anna Sergeevna, ma mi scusi... io non sono abituato a esprimere i miei pensieri, e tra me e lei c’è una distanza così grande...».


«Quale distanza? Mi sta di nuovo dicendo che sono un’aristocratica? Basta, Evgenij Vasil’ič, mi sembra di averle dimostrato...».


«E poi», la interruppe Bazarov, «come si può aver voglia di parlare o di pensare all’avvenire se per la maggior parte non dipende da noi? Se c’è la possibilità di fare qualcosa, benissimo, se non c’è almeno non se ne sarà chiacchierato inutilmente».


«Lei definisce chiacchiere inutili una conversazione amichevole... Oppure, forse, non ritiene che una donna sia degna della sua fiducia? Le disprezza tutte, forse».


«Io non la disprezzo Anna Sergeevna, e lei lo sa».


«No, non so niente... ma supponiamo: io capisco che lei non desideri parlare del futuro del suo lavoro, ma di quel che le sta accadendo adesso...».


«Accadendo!» ripeté Bazarov, «come se io fossi uno stato, una specie di società! In ogni caso non c’è niente di interessante; e poi non è detto che una persona possa sempre esprimere ad alta voce tutto quello che le sta “accadendo”».


«Non capisco perché non si possa dire tutto quello che si ha nell’anima».


«Lei può?»


«Posso», rispose Anna Sergeevna dopo una piccola esitazione.


Bazarov abbassò la testa.


«Lei è più fortunata di me».


Anna Sergeevna gli rivolse uno sguardo interrogativo.


«Come vuole», disse, «eppure qualcosa mi dice che non ci siamo incontrati invano. Sono sicura che questa sua, come la si può chiamare, tensione, questa riservatezza alla fine sparirà».


«Lei ha notato in me della riservatezza... e poi, come ha detto... della tensione?»


«Sì».


Bazarov si alzò e andò alla finestra.


«E avrebbe voluto conoscere la causa di questa riservatezza, avrebbe voluto sapere che cosa sta accadendo dentro di me?»


«Sì», ripeté la Odincova con uno sgomento per lei stessa incomprensibile.


«E non si arrabbierà?»


«No».


«No?» Bazarov le volgeva le spalle. «Allora sappia che io l’amo, stupidamente, follemente... Ecco quello che ha ottenuto».


La Odincova protese in avanti le braccia, Bazarov premette la fronte contro il vetro della finestra. Soffocava, tutto il suo corpo tremava in modo evidente. Ma non era il fremito della timidezza giovanile, non era il dolce terrore della prima confessione che si era impossessato di lui, ma la passione, forte e opprimente, come la rabbia, forse affine alla rabbia... La Odincova ne provò paura e compassione.


«Evgenij Vasil’ič», disse, e una dolcezza involontaria risuonò nelle sue parole.


Lui si voltò di scatto, le gettò uno sguardo divorante, l’afferrò per le braccia e l’attirò a sé.


Anna Sergeevna non si liberò subito dal suo abbraccio, ma un attimo dopo era già lontana da lui e lo guardava. Bazarov si lanciò verso di lei...


«Lei non mi ha capito», bisbigliava Anna Sergeevna, concitata e impaurita. Sembrava che se Bazarov avesse fatto un altro passo, lei avrebbe lanciato un grido... Bazarov si morse le labbra e uscì.


Mezz’ora più tardi la cameriera consegnò ad Anna Sergeevna un suo biglietto, che consisteva di una sola riga:


Devo partire oggi, o posso rimanere fino a domani?


Perché partire? Io non avevo capito lei e lei non ha capito me, gli rispose Anna Sergeevna mentre pensava: io non avevo capito nemmeno me stessa.


Non comparve fino all’ora di pranzo e continuò a camminare avanti e indietro nella sua stanza, con le mani dietro la schiena, fermandosi solo ogni tanto alla finestra o davanti allo specchio, e passandosi lentamente il fazzoletto sul collo, dove le sembrava di avere una macchia bruciante. Si domandava che cosa l’avesse spinta a cercare di «ottenere», come aveva detto Bazarov, la sua sincerità, e se sospettava qualcosa anche prima. «La colpa è mia», disse a voce alta, «ma non potevo prevederlo». Restò soprappensiero e arrossì ricordando l’espressione quasi animalesca di Bazarov quando si era lanciato verso di lei...


«Oppure?» disse a un tratto a voce alta, si fermò, scosse i riccioli. Si vide nello specchio; la sua testa gettata all’indietro, con un sorriso misterioso negli occhi, e sulle labbra socchiuse, sembrava dirle in quell’istante qualcosa che la turbò...


No, decise alla fine, Dio sa che cosa succederebbe, non si può scherzare, la tranquillità è la cosa più importante del mondo. La sua tranquillità non era stata sconvolta, ma lei era diventata triste e aveva anche pianto senza sapere perché, non per l’offesa subita, non si sentiva offesa, ma colpevole. Sotto l’influenza di confusi e diversi sentimenti, della consapevolezza della vita che se ne va e del desiderio di novità, era arrivata fino a un limite conosciuto, e quando si era imposta di guardare oltre quel limite aveva visto non l’abisso, ma il vuoto... o il mostruoso.

XIX

Per quanto la Odincova sapesse controllarsi, per quanto fosse al disopra di ogni pregiudizio, tuttavia, quando scese in sala da pranzo, si sentì a disagio. Il pranzo, però, procedette abbastanza bene. Arrivò Porfirij Platonyč e raccontò storielle e aneddoti che aveva sentito in città. Tra l’altro disse che il governatore, Bourdaloue, aveva ordinato ai funzionari addetti agli affari speciali di indossare gli speroni, nel caso avesse dovuto mandarli da qualche parte a cavallo. Arkadij parlava a mezzavoce con Katja e diplomaticamente serviva la principessina. Bazarov manteneva un tetro e ostinato silenzio. La Odincova un paio di volte, apertamente e non di sfuggita, lo guardò in faccia. Lui aveva un’espressione severa e piena di amarezza, teneva gli occhi bassi e in ogni suo tratto c’era l’impronta di una volontà risoluta e orgogliosa. La Odincova pensò: no... no... no. Dopo pranzo andarono tutti in giardino e, vedendo che Bazarov voleva parlarle, Anna Sergeevna fece qualche passo in disparte e aspettò. Lui le si avvicinò, sempre senza alzare gli occhi, e le disse, con voce bassa e uniforme:


«Mi devo scusare, Anna Sergeevna, non può non essere adirata con me».


«No, non sono adirata, Evgenij Vasil’ič, sono amareggiata».


«Ancora peggio. In ogni caso sono stato sufficientemente punito. La mia posizione, e in questo sarà d’accordo con me, è stupida. Lei mi ha scritto: perché partire? Ma io non posso né voglio restare. Domani non ci sarò».


«Evgenij Vasil’ič, perché...».


«Perché parto?»


«No, non volevo dire questo».


«Il passato non torna indietro, Anna Sergeevna... e presto o tardi doveva succedere. Ecco perché devo partire. Esiste una sola condizione che mi farebbe rimanere, ma non ci sarà mai. Lei, scusi la mia insolenza, non mi ama e non mi amerà mai, non è vero?»


Gli occhi di Bazarov scintillarono sotto le ciglia scure.


Anna Sergeevna non gli rispose. Ho paura di lui, pensò per un attimo.


«Addio», disse Bazarov come se avesse indovinato il suo pensiero e tornò verso la casa.


Anna Sergeevna lo seguì lentamente, chiamò Katja, la prese sotto braccio e non si separò da lei fino a sera. Non giocò a carte e, in contrasto con il suo viso pallido e turbato, continuò a ridacchiare. Arkadij non capiva e la osservava come fanno le persone molto giovani, cioè continuando a domandarsi quale fosse la possibile spiegazione di tutto. Bazarov si era chiuso in camera, ma raggiunse gli altri per il tè. Anna Sergeevna avrebbe voluto dirgli una parola affettuosa, ma non sapeva come cominciare...


Un avvenimento la tolse dall’imbarazzo. Il maggiordomo annunciò l’arrivo di Sitnikov.


È difficile descrivere la goffaggine da quaglia svolazzante con la quale il giovane progressista irruppe nella stanza. Aveva deciso, inopportuno come sempre, di andare a far visita a una signora che conosceva appena e che non lo aveva mai invitato, ma dalla quale, si era informato, erano ospiti persone intelligenti e a lui vicine. Si vergognava però fino al midollo e, invece di declamare le scuse e i saluti che si era preparato, borbottò l’ignominiosa stupidaggine che Evdoksija, la Kukšina, lo aveva mandato a informarsi della salute di Anna Sergeevna e visto che Arkadij Nikolaevič gli aveva parlato di Anna Sergeevna tessendone le più alte lodi... Si ingarbugliò su queste ultime parole e si smarrì a tal punto che andò a sedersi sul suo cappello. Siccome tuttavia, nessuno lo scacciò e anzi Anna Sergeevna lo presentò alla zia e alla sorella, si rimise presto e cominciò a cicalare. L’apparizione della volgarità è spesso utile nella vita: smorza i toni troppo alti, modera i sentimenti di superbia e di umiltà, ricordando che alla volgarità sono entrambe affini. Con l’arrivo di Sitnikov l’atmosfera diventò più opaca e più semplice, tutti cenarono più abbondantemente del solito e andarono a dormire mezz’ora prima.


«Adesso posso ripetere», disse, sdraiato sul letto, Arkadij a Bazarov, che si stava svestendo, «quello che mi hai detto tu una volta: “Perché sei così triste? Hai forse compiuto qualche sacro dovere?”».


I due giovani da qualche tempo si parlavano usando quel tono falsamente scherzoso che nasconde sempre insoddisfazione e sospetti reciproci.


«Domani vado da mio padre».


Arkadij si alzò, appoggiandosi a un gomito. Si stupì e senza sapere perché si rallegrò.


«Ah», disse, «è per questo che sei triste?»


Bazarov sbadigliò.


«Chi sa troppo, invecchia presto».


«E Anna Sergeevna?»


«Che cosa c’entra Anna Sergeevna?»


«Voglio dire: pensi che ti lascerà partire?»


«Non sono qui in servizio».


Arkadij si soffermò a riflettere su quella risposta e Bazarov si distese nel letto e girò la faccia verso il muro.


Dopo qualche minuto di silenzio, improvvisamente, Arkadij esclamò:


«Evgenij!».


«Che cosa c’è?»


«Parto anch’io domani con te».


Bazarov non disse niente.


«Ma io vado a casa», continuò Arkadij. «Andiamo insieme fino alle cascine Chochlovski, lì tu puoi prendere dei cavalli da Fedòt. Verrei volentieri a conoscere i tuoi genitori ma ho paura di disturbarvi! Tu poi torni da noi, vero?»


«Ho lasciato a casa vostra la mia roba», disse Bazarov senza voltarsi.


Come mai non mi chiede perché parto anch’io, improvvisamente come lui? pensava Arkadij. Ma, in realtà, perché parto e perché parte lui? continuava a domandarsi, ma non trovava una risposta soddisfacente e il suo cuore si riempiva di rancore. Sentiva che gli dispiaceva allontanarsi da quella vita alla quale si era abituato così bene, ma restare lì da solo sarebbe sembrato strano. Qualcosa tra loro è successo, ragionava tra sé, perché dovrei impormi anche dopo la sua partenza? Finirei per annoiarla e perderei anche l’ultima possibilità. Pensò ad Anna Sergeevna, poi il contorno di un altro volto affiorò e si sovrappose ai bei tratti della giovane vedova.


«Mi dispiace anche per Katja!» bisbigliò nel cuscino già bagnato da una lacrima... Poi scosse la testa e disse a voce alta:


«Ma perché diavolo è venuto quell’idiota di Sitnikov?».


Bazarov prima si mosse nel letto e poi disse:


«Amico mio, tu sei ancora un ingenuo. Quelli come Sitnikov a noi servono. A me, tienilo a mente, sono indispensabili questi imbecilli. Non sono gli dei che si devono sporcare le mani».


Ehi, ehi...! pensò tra sé Arkadij. Per la prima volta davanti a lui si apriva l’abisso senza fondo dell’amor proprio di Bazarov.


«Io e te, quindi, saremmo degli dei? Cioè tu sei un dio, e io, forse, sono l’imbecille?»


«Sì», rispose tetro Bazarov, «tu sei ancora un ingenuo...».


Anna Sergeevna non manifestò un particolare stupore quando, il giorno seguente, Arkadij le disse che sarebbe partito con Bazarov; sembrava distratta e stanca. Katja lo guardò seria e silenziosa e la principessina fece il segno della croce sotto lo scialle ma in modo molto evidente; Sitnikov, invece, si allarmò. Era appena sceso per la colazione con un vestito nuovo ed elegante, per l’occasione non da slavofilo; la sera prima aveva stupito il cameriere per la quantità di biancheria che aveva portato con sé, e adesso i suoi amici lo abbandonavano. Si agitò, corse di qua e di là, come una lepre inseguita ai margini del bosco, e improvvisamente, quasi spaventato, quasi gridando, annunciò che sarebbe partito anche lui. La Odincova non lo trattenne.


«Ho un calesse molto sicuro», aggiunse l’infelice rivolto ad Arkadij, «posso accompagnarla, e Evgenij Vasil’ič può prendere la sua carrozza così starà più comodo».


«Ma per carità, la mia casa non è sulla sua strada e poi è lontana da qui».


«Non importa, non importa; ho molto tempo, e poi ho delle cose da fare da quelle parti».


«Per gli appalti?» domandò Arkadij, anche troppo sprezzante.


Ma Sitnikov era così disperato che, contrariamente al solito, non si mise nemmeno a ridere.


«Le assicuro, è un calesse estremamente sicuro», borbottò, «e ci sarà posto per tutti».


«Non rattristi monsieur Sitnikov con un rifiuto», disse Anna Sergeevna.


Arkadij le lanciò un’occhiata e chinò significativamente la testa.


Gli ospiti partirono dopo colazione. Nel salutare Bazarov, la Odincova gli tese la mano e disse:


«Ci vedremo ancora, vero?».


«Come desidera», rispose Bazarov.


«Allora ci rivedremo».


Arkadij uscì per primo sui gradini dell’ingresso e salì sul calesse di Sitnikov. Il maggiordomo lo aiutò rispettosamente, mentre lui lo avrebbe volentieri ucciso oppure si sarebbe messo a piangere. Bazarov si sedette nella carrozza. Quando arrivarono alle cascine Chochlovski, Arkadij aspettò che Fedòt, il gestore dell’albergo di posta, avesse attaccato i cavalli, e avvicinandosi alla carrozza, con il sorriso di una volta, disse a Bazarov:


«Evgenij, portami con te; voglio venire a casa tua».


«Siediti», disse tra i denti Bazarov.


Sitnikov che passeggiava, fischiettando spavaldamente intorno alla sua vettura, spalancò la bocca, sentendo queste parole; Arkadij, indifferente, tolse le sue cose dal calesse e si sedette vicino a Bazarov, poi inchinandosi cortesemente verso il suo precedente compagno di viaggio, gridò: «Via!».


La carrozza si mosse e presto scomparve... Sitnikov ormai completamente disorientato guardò il cocchiere che però era occupato a stuzzicare con la frusta la coda del bilancino. Allora salì sul calesse, si infuriò contro due contadini che passavano: «Mettetevi il cappello, cretini!» e si trascinò fino in città dove arrivò molto tardi e dove, il giorno seguente, a casa della Kukšina, coprì di aspri rimproveri «quei due presuntuosi, insopportabili maleducati».


Sedendosi in carrozza vicino a Bazarov, Arkadij gli strinse a lungo la mano senza dire niente. Forse Bazarov capì e apprezzò sia quella stretta di mano sia quel silenzio. Non aveva dormito tutta la notte e non aveva fumato; da qualche giorno non mangiava quasi niente. Portava il berretto calcato sulla fronte, era dimagrito e il suo profilo spiccava tagliente e scuro.


«Allora, amico mio», disse alla fine, «dammi un sigaro... Senti, guarda, ho la lingua gialla?»


«Sì», rispose Arkadij.


«Già... anche il sigaro non ha un buon sapore. L’ingranaggio è guasto».


«In effetti sei cambiato negli ultimi tempi», osservò Arkadij.


«Pazienza. Guarirò. Mi dispiace solo per mia madre, che è così buona: se non ti fai venire la pancia e non mangi dieci volte al giorno, lei non è contenta. Mio padre no, lui è stato dappertutto. Ha esperienza del mondo. No, non posso fumare», aggiunse e gettò il sigaro nella polvere della strada.


«Ci sono venticinque verste da qui a casa tua?» domandò Arkadij.


«Sì, ma chiedilo al vecchio saggio», e Bazarov indicò il contadino che sedeva a cassetta, un lavorante di Fedòt.


Ma il vecchio saggio rispose che «chi lo sa: qui le verste non sono segnate» e continuò a insultare a mezza voce il cavallo di testa per il suo «tirar calci con la zucca», che significava dare strappi con la testa.


«Sì, sì», cominciò a dire Bazarov, «che le sia di lezione, mio giovane amico! Un esempio istruttivo! È diabolico, assurdo! La vita dell’uomo è appesa a un filo con sotto una voragine che si può spalancare in ogni istante, e, nonostante tutto, è l’uomo che si procura da solo ogni sorta di dispiaceri, che si rovina con le proprie mani».


«A che cosa alludi?» domandò Arkadij.


«Non alludo a niente, ti dico solo che noi due ci siamo comportati in un modo molto stupido. È indiscutibile. Ma io l’ho già osservato in clinica medica: chi si arrabbia contro il proprio dolore, immancabilmente lo vince».


«Non sono sicuro di aver capito», disse Arkadij, «a me sembra che tu non abbia niente di cui lamentarti».


«Se non sei sicuro di aver capito, allora, ascoltami: per me è meglio spaccare le pietre per il selciato che permettere a una donna di dominare anche solo la punta del mio dito. Tutto il resto è...», Bazarov stava per pronunciare la sua parola preferita, «romanticismo», ma si trattenne e disse: «È assurdo. Tu non mi crederai, io e te siamo capitati in un ambiente femminile e siamo stati bene; ma abbandonare quella vita è stato come una doccia fredda in un giorno afoso. Un uomo non deve mai occuparsi di queste sciocchezze; un uomo deve essere feroce, dice un ottimo proverbio spagnolo. Ecco tu», aggiunse rivolgendosi al contadino a cassetta, «tu, vecchio sapiente, ce l’hai la moglie?».


Il contadino mostrò il suo volto piatto, dallo sguardo miope.


«La moglie? Ce l’ho. Non si può non averla».


«La bastoni?»


«Mia moglie? Capita. Senza ragione, però, non la bastono».


«Molto bene. E lei ti bastona?»


Il contadino tirò le redini.


«Che cosa dici signore? Hai sempre voglia di scherzare...», si era offeso.


«Ascolta, Arkadij Nikolaevič! Io e te, invece, siamo stati bastonati... ecco cosa significa l’istruzione».


Arkadij rise forzatamente, Bazarov si voltò e per tutta la strada non aprì la bocca.

Venticinque verste sembrarono ad Arkadij cinquanta. Ma finalmente, sul fianco digradante di una collina, apparve il piccolo villaggio dei genitori di Bazarov. Vicino al villaggio, in un boschetto di giovani betulle, si vedeva una piccola casa padronale con il tetto di paglia. Davanti alla prima isba, sulla strada, erano fermi due contadini con il cappello che litigavano e si insultavano. «Sei un grosso porco», urlava uno, «ma sei peggio di un porcellino!» «E tua moglie è una strega!» rispondeva l’altro.

«Vedendo questa spontaneità», fece notare Bazarov ad Arkadij, «questa vivacità di modi, ti puoi rendere conto che i contadini di mio padre non sono molto oppressi. Ma eccolo sulla scala di casa. Ha sentito il campanello della carrozza, forse. È lui, è lui, riconosco la sua figura. Eh, com’è invecchiato, poverino!»

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