venerdì 11 febbraio 2022

LA MANO Georges Simenon



 LA MANO

Georges Simenon 

Recensione

Se Donald Dodd ha sposato Isabel anziché, come il suo amico Ray, una di quelle donne che fanno «pensare a un letto», se vive a Brentwood, Connecticut, anziché a New York, è perché ha sempre voluto che le cose, attorno a lui, «fossero solide, ordinate». Isabel è dolce, serena, indulgente, e in diciassette anni non gli ha mai rivolto un rimprovero. Eppure basta uno sguardo a fargli capire che lei intuisce, e non di rado disapprova, le sue azioni – perfino i suoi pensieri. Forse Isabel intuisce anche che gli capita di desiderarle, le donne di quel genere, «al punto da stringere i pugni per la rabbia». E quando, una notte che è ospite da loro, Ray scompare durante una terribile bufera di neve e Donald, che è andato a cercarlo, torna annunciando a lei e a Mona, la moglie dell’amico, di non essere riuscito a trovarlo, le ci vuole poco a intuire che mente, e a scoprire, poi, che in realtà è rimasto tutto il tempo nel fienile, a fumare una sigaretta dopo l’altra: perché era sbronzo, perché è vile – e perché cova un odio purissimo per quelli che al pari di Ray hanno avuto dalla vita ciò che a lui è stato negato. Isabel non dirà niente neanche quando Ray verrà trovato cadavere: si limiterà, ancora una volta, a rivolgere al marito uno di quei suoi sguardi acuminati e pieni di indulgenza. Né gli impedirà, pur non ignorando quanto sia attratto da Mona, di occuparsi, in veste di avvocato, della successione di Ray, e di far visita alla vedova più spesso del necessario. Ma Donald comincerà a non sopportare più quello sguardo che, giorno dopo giorno, lo spia, lo giudica – e quasi lo sbeffeggia.


LA MANO

Parte prima

1

Ero seduto sulla panchina, nel fienile. Non solo ero consapevole di trovarmi lì, di fronte alla porta sgangherata che, sbattendo di continuo, lasciava entrare raffiche di vento e neve, ma mi vedevo chiaramente come in uno specchio, e mi rendevo conto di quanto fosse incongrua la mia posizione.

La panchina era una panchina da giardino dipinta di rosso. Ne avevamo tre, che durante l’inverno mettevamo dentro, insieme al tagliaerba, agli attrezzi da giardinaggio e alle zanzariere delle finestre.

Cent’anni prima il fienile, anch’esso di legno dipinto di rosso, era stato un fienile a tutti gli effetti, ma ormai era adibito a spaziosa rimessa.

Se comincio da quel momento è perché è stato una specie di risveglio. Non avevo dormito, eppure emergevo di colpo nella realtà. O forse era l’inizio di una nuova realtà?

Ma allora quand’è che un uomo inizia a... No! Mi rifiuto di lasciarmi scivolare lungo questa china. Sono un giurista e ho l’abitudine, anzi – sostiene chi mi conosce – la mania della precisione.

Eppure non so neanche che ore fossero. Le due del mattino? Le tre?

Ai miei piedi, sul pavimento di terra battuta, si vedevano ancora i filamenti rosa della piccola torcia elettrica che emetteva l’ultimo bagliore senza rischiarare più niente. Con le dita intirizzite, tentavo di sfregare un fiammifero per accendermi una sigaretta. Avevo bisogno di fumare. Era come un segno di ritrovata realtà.

L’odore del tabacco mi sembrò rassicurante, e rimasi lì, chino, con i gomiti sulle ginocchia, a fissare l’immensa porta che sbatteva e rischiava di schiantarsi da un momento all’altro sotto la furia della tormenta.

Fino a poco prima ero stato sbronzo. Probabilmente lo ero ancora, cosa che mi sarà capitata un paio di volte nella vita. Eppure ricordavo tutto, come ci si ricorda di un sogno ricomponendone i brandelli.

I Sanders, di ritorno da un viaggio in Canada, erano venuti a passare il week-end da noi. Ray è uno dei miei più vecchi amici. Abbiamo studiato legge insieme a Yale e in seguito, entrambi sposati, abbiamo continuato a frequentarci.

Dunque, quella sera, sabato 15 gennaio, aveva già cominciato a nevicare quando ho chiesto a Ray:

«Non ti dispiace venire a bere qualcosa con noi dal vecchio Ashbridge?».

«Harold Ashbridge, di Boston?».

«Sì».

«Credevo che l’inverno lo passasse nella sua proprietà in Florida...».

«Una decina d’anni fa ha comprato una tenuta a una ventina di miglia da qui, e si atteggia a gentiluomo di campagna... Per Natale e Capodanno c’è sempre, torna in Florida solo verso la metà di gennaio, dopo aver dato un grande party...».

Ashbridge è uno dei pochi uomini che mi intimidiscono. Anche Ray. Ce ne sono altri. A ben vedere, non sono poi così pochi. Per non parlare delle donne. Mona, per esempio, la moglie di Ray, la vedo sempre come un animaletto esotico, benché di esotico abbia giusto un quarto di sangue italiano nelle vene.

«Ma non mi conosce...».

«Dagli Ashbridge non c’è bisogno di conoscersi...».

Isabel ascoltava senza dire niente. In casi simili Isabel non interviene mai. È la moglie remissiva per eccellenza. Non protesta. Si limita a guardarti e a giudicare.

In quella circostanza non c’era niente da criticare nel mio comportamento. Andiamo tutti gli anni al party degli Ashbridge, è una specie di dovere professionale. Lei non ha obiettato che nevicava fitto e la strada per North Hillsdale è disagevole. A ogni buon conto, erano senz’altro passati gli spazzaneve.

«Che macchina prendiamo?».

«La mia...» ho risposto.

Soltanto adesso capisco di aver avuto un pensiero recondito. Ray lavora in Madison Avenue. È socio di una delle più grosse agenzie pubblicitarie di New York. Lo vedo praticamente ogni volta che vado in città, e conosco le sue abitudini.

Senza essere un alcolizzato, come quasi tutti quelli che fanno il suo mestiere e stanno su a forza di nervi ha bisogno di un paio di martini doppi prima di ogni pasto.

«Metti che dagli Ashbridge beva un po’ troppo...».

È comico – o tragico – ricordarsi di questi piccoli particolari a distanza di poche ore. Per timore che Ray esagerasse col bere prendevo le debite precauzioni in modo da guidare io al ritorno. E invece quello che si è sbronzato sono stato io!

Siamo arrivati che c’era almeno una cinquantina di persone, se non di più. Il buffet, sontuoso, era stato allestito al pianterreno, ma tutte le porte erano spalancate, c’era un gran viavai di gente, anche nelle stanze al primo piano, bottiglie e bicchieri erano sparsi ovunque.

«Ti presento la signora Ashbridge... Patricia... Il mio amico Ray...».

Patricia ha solo trent’anni. È la terza moglie di Ashbridge. È molto bella. Non bella come... Non dirò come Isabel... Mia moglie non è mai stata una vera bellezza... Ma siccome mi riesce sempre difficile descrivere una donna, faccio automaticamente il confronto con mia moglie...

Isabel è alta, ben proporzionata, con lineamenti regolari e un sorriso un po’ accondiscendente, come se i suoi interlocutori avessero qualcosa da farsi perdonare.

Be’, Patricia è tutto il contrario. Piccolina, come Mona. E ancora più scura di capelli, ma con gli occhi verdi. Ha un modo di guardarti, incantata, come se non desiderasse altro che introdursi nella tua intimità o schiuderti la sua.

Isabel non fa mai pensare a una camera da letto. Patricia, invece, la associo sempre all’immagine di un letto.

Dicono... Ma io non do peso a quello che dice la gente. Tanto per cominciare, diffido dei pettegolezzi. E poi nutro un’istintiva ripugnanza per l’indiscrezione, e a maggior ragione per la calunnia.

Al party c’erano i Russel, i Dyer, i Collins, i Greene, gli Hassberger, i...

«Hello, Ted!...».

«Hello, Dan!...».

Tutti chiacchierano, bevono, vanno, vengono, piluccano stuzzichini che sanno di pesce, di tacchino o di manzo... Ricordo di essermi appartato in un angolo del salottino a parlare di lavoro con Bill Hassberger, che ha intenzione di spedirmi a Chicago per sistemare una controversia...

È gente ricca. Per la maggior parte dell’anno vive, vai a sapere perché, nel nostro angolino del Connecticut, ma ha interessi un po’ in tutto il paese.

In confronto, io sono un poveraccio. E anche il dottor Warren, con il quale ho scambiato due parole. Non ero sbronzo, tutt’altro. Non saprei quand’è che è cominciata.

O meglio, lo so da pochi secondi, giacché all’improvviso, seduto su questa panchina, e alla quinta sigaretta almeno, mi scopro stranamente lucido.

Senza un motivo, sono salito al piano di sopra, come altri prima e dopo di me. Ho spinto una porta e l’ho richiusa immediatamente, ma ho fatto in tempo a scorgere Ray e Patricia. Non era neanche una camera, ma un bagno, e stavano facendo l’amore tutti vestiti.

Ho quarantacinque anni suonati, eppure quell’immagine mi è rimasta così impressa che la ricordo nei minimi particolari. Patricia mi ha visto, ne sono sicuro. Sarei perfino pronto a giurare che nel suo sguardo non c’era imbarazzo, ma una sorta di divertita spavalderia.

È molto importante. Quell’immagine ha un’importanza capitale per me. Seduto sulla panchina, nel fienile, ho avvertito come un presentimento, ma in seguito ho avuto tutto il tempo di rifletterci sopra.

Non dico che sia stato quell’episodio a spingermi a bere, fatto sta che più o meno da quel momento ho attaccato a vuotare tutti i bicchieri che mi capitavano a tiro. Isabel mi ha sorpreso e ovviamente sono arrossito.

«Fa caldo...» ho bofonchiato.

Lei non mi ha raccomandato di andarci piano. Non ha detto niente. Ha sorriso, con quel suo terribile sorriso che perdona o che...

Che cosa? Non adesso. Ci devo ancora arrivare. Prima ci sono tante altre cose da mettere a fuoco!

Un’estate mi ero deciso a dare una sistemata al fienile, con l’intenzione di fare una bella cernita, buttare quello che andava buttato e mettere in ordine quello che andava tenuto. Dopo qualche ora, sopraffatto dall’impresa, ho vigliaccamente gettato la spugna.

Un po’ come succede con un altro inventario, quello che ho iniziato a fare quella notte, nel medesimo fienile. Stavolta, però, costi quel che costi, e qualsiasi cosa scopra, andrò fino in fondo.

Il posto d’onore spetta all’immagine di Ray e Patricia. Poi, a un certo punto, c’è stato lo sguardo del vecchio Ashbridge. Neanche lui beve molto, anzi, è uno che i suoi drink li sorseggia, e non prima delle cinque del pomeriggio. È un uomo corpulento, ma non grasso, con gli occhi chiari e sporgenti sempre umidi.

«Allora, Donald?».

Eravamo entrambi poco lontano dal buffet, circondati da chiassosi gruppetti. Tutt’intorno si intrecciavano le varie conversazioni.

Perché dunque avevo la sensazione che all’improvviso io e lui fossimo isolati? O meglio, che ci fronteggiassimo. Erano passati appena cinque minuti dalla scena del bagno.

Ashbridge mi guardava con aria serafica, ma mi guardava. So perfettamente quello che dico. Per lo più, soprattutto in serate simili, nessuno guarda mai veramente in faccia il proprio interlocutore. Sai di avercelo davanti. Parli. Ascolti. Rispondi. Lasci scorrere lo sguardo su un viso, su una spalla...

Lui invece mi guardava e le due parole che mi aveva appena rivolto assumevano il valore di una domanda:

«Allora, Donald?».

Allora cosa? Aveva visto anche lui? Sapeva che io avevo visto?

Non era né torvo né minaccioso. Ma neanche sorrideva. Era geloso? Chissà se sapeva che Patricia aveva l’abitudine... Fatto sta che ero io a sentirmi in colpa mentre lui continuava:

«Ragazzo notevole, il suo amico Sanders...».

Alcuni ospiti sono andati via. Li si vedeva, nell’ingresso, infilarsi i cappotti e gli stivali di gomma disposti ordinatamente in fila su uno scaffale. E ogni volta che la porta si apriva entrava una folata d’aria gelida.

A un certo punto si è levato il vento, dapprima sommesso, poi a raffiche violente, e gli ospiti hanno preso a scambiarsi sguardi interrogativi.

«Continua a nevicare?».

«Sì».

«In tal caso ci aspetta una tormenta».

Ancora non mi spiego perché, contrariamente alle mie abitudini, continuassi a bere. Passavo da un gruppo all’altro e volti che mi erano familiari assumevano ai miei occhi un aspetto nuovo. Credo di essermi messo perfino a ridacchiare e Isabel mi ha sorpreso.

Ha cominciato a serpeggiare una discreta preoccupazione. Alcuni abitavano piuttosto lontano, chi nello Stato di New York, chi nel Massachusetts, e avevano anche quaranta miglia di strada da fare per tornare a casa.

Io sono rimasto tra gli ultimi. Sentivo gli scoppi di voci e le esclamazioni ogni volta che un gruppo usciva e una folata più impetuosa si infilava in casa.

«Tempo un’ora e ci sarà un metro di neve...».

Non so chi l’abbia detto. Isabel mi ha preso per il braccio, con la naturalezza di una brava moglie, senza la minima ostentazione. Ma bastava a farmi capire che anche per noi era ora di rientrare.

«Mona dov’è?».

«È andata a prendere il visone in camera di Pat...».

«E Ray?».

Ray era di fronte a me, il solito Ray, il Ray che conoscevo da venticinque anni.

«Ce ne andiamo?» chiese.

«Sì, direi di sì...».

«Sembra che non ci si veda a un palmo dal naso...».

Non ho salutato Patricia stringendole la mano come le altre volte. Ammetto di averlo fatto con una certa insistenza e di aver provato un piacere ambiguo. Chissà se il vecchio Ashbridge se n’è accorto...

«In macchina, ragazzi...».

Fuori, davanti alla scala, erano rimaste solo tre o quattro auto. Ormai il vento infuriava al punto che bisognava camminare curvi per proteggersi dalla neve ghiacciata che sferzava il viso.

Le due donne si sistemarono sul sedile posteriore. Io mi misi al volante, senza che Isabel mi chiedesse se ero in condizione di guidare. Non ero né depresso né demoralizzato né stanco. Provavo, anzi, una piacevole euforia, e il fragore della tormenta mi faceva venire voglia di mettermi a cantare.

«E anche questo è andato!...».

«Questo che?».

«Party... Ne resta uno la settimana prossima, dai Russel, dopodiché potremo starcene in pace fino a primavera...».

I tergicristalli funzionavano a singhiozzo, si bloccavano e ripartivano a fatica. Davanti ai fari la neve tracciava delle righe bianche, quasi orizzontali, il ciglio della strada non si vedeva e io tenevo come riferimento la linea scura degli alberi.

Dietro, nel tepore dell’abitacolo e delle pellicce, sentivo le due donne scambiarsi frasi banali.

«Non ti sei annoiata troppo, Mona?».

«Per niente... Patricia è deliziosa... Erano tutti simpatici, d’altronde...».

«Fra tre giorni saranno sulle spiagge della Florida...».

«Io e Ray pensiamo di passare qualche giorno a Miami il prossimo mese...».

Per riuscire a vedere qualcosa dovevo sporgermi in avanti, e più di una volta sono dovuto scendere a raschiare via il ghiaccio dal parabrezza. La terza volta ho temuto di essere trascinato via dalla bufera.

Ne avevamo ogni inverno, più o meno forti. Conoscevamo i punti difficili, quelli in cui si formavano cumuli di neve, le strade da evitare.

Siamo tornati a Brentwood passando per Copake o per Great Barrington? Sarei incapace di dirlo.

«Questa è la più bella, Ray, vecchio mio...».

La bufera di neve più bella. Un vero e proprio blizzard. Ho acceso la radio e quello era il termine che utilizzavano. Verso Albany il vento soffiava già a più di sessanta miglia all’ora e centinaia di auto erano rimaste bloccate lungo le strade del Nord.

Invece di preoccuparmi, quelle notizie mi davano una sferzata, come se quel po’ di eccezionale che irrompeva nella mia vita mi arrecasse sollievo.

Parlavamo poco, io e Ray. Lui teneva lo sguardo fisso sulla strada, aggrottando le sopracciglia ogni volta che la visibilità si riduceva quasi a zero. Allora io schiacciavo apposta sull’acceleratore.

Non avevo nessun conto in sospeso con Ray. Era mio amico. Non aveva commesso alcun torto nei miei confronti facendo l’amore con Patricia Ashbridge. Non ero innamorato di lei. Non ero innamorato di nessuna donna. Mi accontentavo di Isabel. Quale conto in sospeso avrei dovuto avere?

Un cumulo di neve mi ha costretto per alcuni minuti a una serie di manovre e ho usato uno dei sacchi di sabbia che d’inverno teniamo sempre nel baule. Avevo neve dappertutto, negli occhi, nel naso, nelle orecchie, si infilava persino nelle cuciture dei vestiti.

«Dove siamo?».

«Mancano tre miglia...».

Diventava sempre più difficile andare avanti. Sebbene avessimo incrociato ben tre spazzaneve, l’asfalto tornava a coprirsi subito dopo il loro passaggio, e ormai i tergicristalli erano inutili. Dovevo scendere di continuo dall’auto per raschiare il parabrezza.

«Siamo ancora sulla strada?».

La voce di Isabel era calma. Si limitava a fare una domanda.

«Presumo di sì!» risposi in tono scanzonato.

Per la verità non ne avevo la minima idea. Mi orientai soltanto dopo aver raggiunto il ponticello di pietra a un miglio da casa nostra. Oltre il ponte, però, l’auto si incagliò contro un vero e proprio muro di neve.

«Capolinea, gente... Fuori tutti...».

«Ma che dici?».

«Fuori tutti... La Chrysler non è un bulldozer, tocca continuare a piedi...».

Ray mi guardò con l’aria di chiedersi se stavo scherzando. Isabel aveva capito, dato che ci era successo già un paio di volte.

«Prendi la torcia?».

Tirai fuori la torcia dal vano del cruscotto e premetti il pulsante. Erano passati mesi, forse addirittura un paio di anni, dall’ultima volta che l’avevamo usata e, come c’era da aspettarsi, mandava solo una flebile luce giallognola.

«Su, in marcia...».

In quel momento l’atmosfera era ancora allegra. Rivedo le donne tenersi sottobraccio e, piegate in due, avanzare davanti a noi affondando i passi nella neve. Io le seguivo con la torcia e Ray mi camminava a fianco senza dire nulla. Del resto, nessuno apriva bocca. Era già abbastanza difficoltoso respirare nella tormenta e non era il caso di sprecare il fiato.

Isabel incespicò, si rialzò prontamente. Ogni tanto le due donne svanivano nell’oscurità. Allora, con la mano davanti alla bocca per proteggermi dall’aria gelida, gridavo:

«Iu-hu!... Iu-hu!...».

E giungeva un vago «Iu-hu!...» di rimando.

La luce della torcia si affievoliva sempre di più. Poi, a tre o quattrocento metri al massimo da casa, si spense del tutto.

«Iu-hu!...».

«Iu-hu!...».

Dovevo essere molto vicino alle due donne perché sentivo scricchiolare la neve. Alla mia destra, sentivo anche i passi di Ray.

Cominciava a girarmi la testa. L’energia che mi aveva dato l’alcol mi stava abbandonando e avanzavo sempre più a stento. Avvertivo al petto, all’altezza del cuore, mi sembrava, un dolore che mi impensieriva.

Era già successo, no, che uomini della mia età, anche prestanti, fossero morti nel freddo e nella neve fulminati da un infarto?

«Iu-hu!...».

Avevo le vertigini. Faticavo ad alzare i piedi. Non vedevo più niente. Sentivo solo il fragore aggressivo della bufera ed ero ricoperto di neve dalla testa ai piedi.

Non so quanto sia durata. Non badavo più agli altri. Stupidamente, continuavo a impugnare la torcia scarica, e ogni due o tre passi facevo una sosta per riprendere fiato.

Finalmente trovai un muro, una porta si schiuse.

«Forza, entrate...».

Dall’interno buio della casa arrivò un’ondata di calore.

«E Ray?».

Non capivo. Perché non avevano acceso le luci? Allungai la mano verso l’interruttore.

«Non c’è corrente... Dov’è Ray?...».

«Era accanto a me...».

Chiamai sulla porta:

«Ray!... Ehi!... Ray...».

Mi sembrò di udire una voce, ma è facile sentire voci nella bufera.

«Ray...».

«Prendi la torcia nel comodino...».

Per via delle saltuarie interruzioni di corrente tenevamo una piccola torcia elettrica nel comodino. Attraversai le stanze a tentoni, sbattendo contro mobili che non riconoscevo. Poi alle mie spalle apparve un chiarore: quello di una delle candele rosse della sala da pranzo.

Era strano veder affiorare nell’oscurità la sagoma indistinta di Isabel che brandiva uno dei candelabri d’argento.

«L’hai trovata?».

«Sì...».

Avevo in mano la torcia, ma non faceva molta più luce di quella della macchina.

«Non abbiamo pile di ricambio?».

«Non le hai trovate nel cassetto?».

«No...».

Avevo voglia di farmi un goccetto per tirarmi su, ma non osavo. Isabel e Mona non mi dissero nulla, non mi sollecitarono. Ciò non toglie che ebbi comunque l’impressione che mi mandassero allo sbaraglio, armato di una torcia mezzo scarica, a cercare Ray nella bufera.

 

 

Dirò tutto, va da sé, altrimenti non valeva neanche la pena di iniziare. E sia chiaro, in primo luogo, che mai, in nessun momento della serata, sono stato completamente ubriaco.

A voler definire il mio stato con la maggior precisione possibile, direi che avevo una lucidità distorta. Intorno a me la realtà esisteva e io ero in contatto con essa. Avevo piena consapevolezza delle mie azioni. Datemi carta e penna: sarei in grado di stilare un elenco pressoché esatto delle frasi che ho detto dagli Ashbridge, in macchina e poi a casa.

Eppure, seduto su quella panchina, a patire il freddo e a fumare una sigaretta dopo l’altra, mi sembrava di accedere a una lucidità ignota, che mi metteva a disagio e cominciava a spaventarmi.

Si poteva riassumere in una parola, o meglio in quattro, che sentivo risuonarmi nelle orecchie:

«L’hai ucciso tu...».

Forse non nel senso legale del termine. Anche se, a ben guardare... L’omissione di soccorso non è forse assimilabile a un omicidio?

Quando ero uscito, spedito dalle due donne alla ricerca di Ray, mi ero subito diretto verso destra. Più esattamente, per confondere le acque, in caso mi avessero osservato dalla finestra e avessero scorto il bagliore della torcia, avevo prima proseguito dritto davanti a me per qualche metro e poi, approfittando del buio, avevo piegato a destra, sapendo che il fienile si trovava a una trentina di metri.

Ero fisicamente stremato, e mi sento di aggiungere che lo ero anche psicologicamente. Quell’immane tempesta, la furia degli elementi che ancora un attimo prima mi esaltava fino all’ilarità isterica, all’improvviso mi spaventava.

Perché loro erano rimaste in casa? Perché non erano venute con me a cercarlo? Rivedevo Isabel, impassibile, sembrava una statua con quel candelabro d’argento che reggeva un po’ più in alto della spalla. E Mona, in penombra, aveva un’aria sconvolta, ma non aveva detto niente.

Nessuna delle due sembrava aver capito che si stava consumando un autentico dramma e che mandandomi fuori allo sbaraglio mettevano in pericolo anche me. Il cuore mi batteva troppo forte, a colpi irregolari. Mi sentivo mancare il fiato di continuo.

Come ho detto, avevo paura... Ho urlato di nuovo un paio di volte:

«Ray...».

Sarebbe stato un miracolo se mi avesse sentito, così come sarebbe stato un miracolo se avesse visto il fascio di luce, troppo fievole, della torcia elettrica sotto la neve che cadeva quasi parallela al suolo. Più che cadere, sferzava, arrivava a cumuli, che ti colpivano in piena faccia mozzandoti il respiro.

Ho sentito cigolare la porta del fienile e mi sono precipitato dentro, lasciandomi cadere sulla panchina.

Una panchina rossa. Una panchina da giardino. Mi rendevo conto che la situazione aveva del grottesco: in piena notte, nel bel mezzo di una bufera di neve, un uomo di quarantacinque anni, un avvocato, un cittadino rispettabile, seduto su una panchina rossa che si accendeva la prima sigaretta con mano tremante, come se sperasse di scaldarsi.

«L’ho ucciso io...».

Forse non ancora. Probabilmente Ray era ancora vivo, ma agonizzava, rischiava di morire. Al contrario di me, non aveva dimestichezza con i dintorni della casa: bastava che prendesse a destra, che si allontanasse di pochi metri, e sarebbe ruzzolato giù fino al torrente gelato.

Non poteva importarmene di meno. Non avevo il coraggio di andare a cercarlo né di correre il minimo rischio. Anzi.

Ed ecco dove voglio arrivare, ecco dove mi vedo costretto ad arrivare. Questa era la conclusione a cui ero giunto a poco a poco quella notte, la notte tra il 15 e il 16 gennaio, seduto sulla panchina nel fienile: quello che stava succedendo a Ray non mi dispiaceva affatto.

Mi sarei trovato nello stesso stato d’animo se non avessi bevuto dagli Ashbridge? Problema di difficile soluzione, ma in fondo non cambia granché. Avrei provato la stessa torbida soddisfazione se non avessi aperto la porta del bagno e sorpreso Ray a fare l’amore con Patricia?

Questa è un’altra faccenda. Qui sta il nocciolo del mio rimuginare. Perché, su quella panchina, più che a riflettere con ponderazione, mi ero messo a rimuginare.

Ne avevo tutto il tempo. Ufficialmente stavo cercando Ray. Più a lungo mi trattenevo fuori e più mi sarebbero state riconoscenti.

Quello che Ray aveva fatto nel bagno degli Ashbridge con una donna che aveva conosciuto neanche due ore prima, bella e desiderabile come Patricia, io avevo sognato di farlo cento, mille volte.

Lui ha sposato Mona che, come Patricia, fa pensare a un letto.

Io invece ho sposato Isabel.

«Tutto qui...» potrei quasi dire.

Ma non è tutto. Avevo iniziato, chissà perché, a strappare un angolo della verità di tutti i giorni, a vedermi riflesso in uno specchio diverso, e adesso tutto l’impianto più o meno rassicurante della vecchia verità cadeva a pezzi.

Era così dai tempi di Yale. Anzi, da prima di Yale, da prima che conoscessi Ray. In fondo era così sin dalla mia infanzia. Avrei voluto... Vai a trovare le parole!... Avrei voluto fare tutto, essere tutto, osare tutto, guardare la gente in faccia e dire...

Guardare la gente come faceva il vecchio Ashbridge, per esempio, di fronte al quale, poco prima, mi ero sentito un ragazzino.

Lui non si prendeva neanche la briga di parlare, di darsi un contegno. Non si sforzava di fare conversazione. Eppure gli stavo davanti. Forse mi attraversava con lo sguardo. Io non contavo niente.

Aveva settant’anni e non era mai stato bello. L’alcol che sorseggiava gli intorbidiva gli occhi e intanto decine di ospiti gli avevano invaso la casa.

Dava forse peso a quello che gli altri pensavano di lui? C’era da bere, da mangiare, poltrone, stanze a disposizione, compreso il bagno dove Patricia...

Era al corrente che sua moglie lo tradiva? Gli rodeva? O invece disprezzava il povero Ray, che era solo uno dei tanti e che, tempo cinque minuti, non avrebbe contato più niente, che già non contava più niente, e forse, quella sera stessa, Patricia avrebbe soppiantato con un altro, in un’altra stanza o nello stesso bagno?

Se ammiravo Ashbridge non dipendeva solo dal fatto che era ricco e i suoi interessi spaziavano in una cinquantina di settori diversi, dalle navi da carico alle emittenti televisive.

Quando, dieci anni prima, si era stabilito nella regione, mi sarebbe piaciuto averlo come cliente e occuparmi anche solo di una piccolissima parte dei suoi affari.

«Dobbiamo fare due chiacchiere, uno di questi giorni» mi aveva detto.

Erano passati gli anni e non era mai accaduto. Ma non gli portavo rancore.

Con Ray era diverso: noi due eravamo coetanei, quasi della stessa estrazione sociale, avevamo fatto gli stessi studi, a Yale ero io il più brillante, eppure lui era diventato un pezzo grosso di Madison Avenue, e io un modesto avvocato di Brentwood, Connecticut.

Ray era più alto di me, e più tosto di me. A vent’anni poteva già guardare in faccia la gente come faceva il vecchio Ashbridge.

Ho conosciuto altri uomini della loro specie. Alcuni sono miei clienti. E ciò che provo nei loro confronti varia a seconda dei giorni e dell’umore. A volte sono convinto che sia ammirazione. Altre volte, lo ammetto, una certa invidia.

Ebbene, adesso lo sapevo, lo avevo appena scoperto seduto su quella panchina: era odio.

Mi facevano paura. Erano troppo tosti per me, oppure ero io troppo debole per loro.

Ricordo la sera in cui Ray mi ha presentato Mona, fasciata in un abitino di seta nera sotto il quale si percepiva il suo corpo vivere sin nei minimi recessi.

«Perché io no?».

Per me, Isabel. Per lui, Mona.

E se io ho scelto Isabel non è forse proprio perché non ho mai osato avvicinare una come Mona, una come Patricia, o tutte le donne che desideravo al punto da stringere i pugni per la rabbia?

Il vento soffiava con una tale furia che mi aspettavo di veder volar via il tetto del fienile. Si era spaccato il cardine superiore della porta, che adesso pendeva sghemba, il che non le impediva di picchiare colpi sordi contro il muro.

La neve che si infilava all’interno mi arrivava quasi ai piedi e io continuavo a pensare, in una specie di delirio, un delirio freddo, lucido.

«Ti ho ucciso, Ray...».

E se fossi andato a dirlo alle due donne che se ne stavano al calduccio dentro casa, al chiarore di una candela?

«Ho ucciso Ray...».

Non mi avrebbero creduto. Non ero certo il genere di uomo capace di uccidere Ray, né chiunque altro.

Eppure lo avevo appena fatto e provavo una gioia diffusa, fisica, come se avessi mandato giù qualcosa di molto forte.

Mi alzai in piedi. Non potevo mica restare fuori per ore. E poi ero gelato e temevo per il cuore. Ho sempre avuto paura che il mio cuore smettesse di battere all’improvviso.

Sprofondai nella neve che mi sferzava il viso, il petto e mi inghiottiva le gambe. Dovevo fare uno sforzo tremendo per avanzare, trascinando un passo dopo l’altro.

«Ray!...».

Dovevo stare attento a non sbagliarmi, a non allontanarmi dal sentiero. La casa non si vedeva. Uscendo dal fienile mi ero orientato. Non dovevo fare altro che camminare sempre dritto.

E se avessi trovato Ray in compagnia delle due donne davanti al camino del living room? Me li immaginavo guardarmi entrare come fossi un fantasma e chiedermi sorridendo:

«Come mai sei rimasto fuori così tanto?».

Mi venne una paura tale che trovai la forza di affrettare il passo, tanto che finii per andare a sbattere contro il muro di casa e mi misi a cercare la porta a tastoni. Non mi avevano sentito arrivare. Girai la maniglia e per prima cosa vidi dei ceppi ardere nel camino, poi qualcuno sprofondato in poltrona con addosso la vestaglia celeste di Isabel. Ma non era Isabel. Era Mona.

«Lei dov’è?».

«Isabel?... È andata a preparare qualcosa da mangiare... Ma... Donald!».

Fu quasi un grido:

«Donald!».

Non si alzò dalla poltrona. Non mi guardò. Rimase a fissare le fiamme nel camino. Il suo viso non rifletteva nessuna emozione, se non ebetudine.

Con un filo di voce aggiunse:

«Non l’ha trovato?».

«No...».

«Quando ho visto che il tempo passava...».

Già, vedendo che il tempo passava aveva cominciato a capire.

«Ma è robusto,» dissi «molto più di me... Forse...».

«Forse cosa?».

Come facevo a mentire? E come avrebbe fatto Ray a orientarsi in quell’oceano di neve e ghiaccio?

Isabel entrò nella stanza con il candelabro in una mano e un piatto di panini nell’altra. Mi guardò, impallidì, le si indurirono i lineamenti.

«Mangia, Mona...».

Quanto tempo ci mette a morire un uomo sepolto nella neve? In capo a tre o quattro ore sarebbe spuntato il giorno.

«Hai provato a telefonare?» ho chiesto.

«È saltato tutto...».

Mi indicò con lo sguardo una radiolina a transistor.

«Ascoltiamo le notizie ogni quarto d’ora... Pare che sia interessata tutta la zona dalla frontiera canadese a New York... Nelle campagne, elettricità e linee telefoniche sono interrotte quasi ovunque...».

E con una voce meccanica aggiunse:

«Ray avrebbe dovuto tenerti a braccetto, come facevamo noi due...».

«Camminava alla mia destra, poco lontano da me...».

Mona non piangeva. Finì per addentare il panino che aveva in mano.

«Hai qualcosa da bere, Isabel?».

«Birra? Qualcosa di forte? Purtroppo non posso prepararti niente di caldo, la cucina è elettrica».

«Un whisky...».

«Anche tu dovresti farti un bagno, Donald... Tra un po’ non ci sarà più acqua calda...».

È vero, il bruciatore a nafta scatta. In casa funziona tutto a elettricità, compresi gli orologi, tranne la piccola pendola nella nostra camera da letto.

Adesso capivo perché Mona indossava una vestaglia di Isabel. Mia moglie le aveva fatto fare un bagno: per rilassarsi, oltre che per scaldarsi.

«Sei arrivato fino alla macchina?».

«Sì...».

Mi assaliva di nuovo la paura. E se, zigzagando in mezzo alla neve, Ray si era ritrovato dalle parti della macchina? In tal caso la cosa più saggia sarebbe stata rifugiarsi a bordo, tapparsi dentro alla meno peggio e aspettare che facesse giorno.

La nostra casa, Yellow Rock Farm, è discosta dalla strada. Abbiamo un vialetto privato lungo più di mezzo miglio. I vicini sono a circa un miglio di distanza.

«Se conosco Ray...» iniziò a dire mia moglie.

Aspettai il seguito con curiosità.

«... se la sarà cavata...».

Io no, ma lui sì. Perché lui è Ray. Perché lui è diverso da Donald Dodd.

«Non vai a farti un bagno?... Prendi la candela... Meglio non sprecarle e accenderne una alla volta... Qui ci basta la luce del fuoco...».

Presto i radiatori si sarebbero raffreddati. Erano già tiepidi. Nel giro di qualche ora il living room sarebbe stato l’unico ambiente riscaldato e noi tre saremmo stati costretti a stringerci l’un l’altro, il più vicino possibile al camino.

Adesso ero io a brandire il candelabro, avviandomi verso la nostra camera da letto. Mi venne di nuovo voglia di bere. Tornai sui miei passi e trovai Isabel che versava del whisky a Mona.

Presi un bicchiere dal mobile bar, afferrai a mia volta la bottiglia e colsi lo sguardo di mia moglie. Come sempre, non un’ombra di rimprovero. Nemmeno un muto ammonimento. Era qualcosa di diverso. Durava da anni, forse da quando ci conoscevamo. Come una specie di verbalizzazione.

Isabel registrava, senza fare commenti né giudicare, astenendosi dal formulare giudizi. I fatti, però, parlavano da soli, incolonnati in bell’ordine, uno appresso all’altro.

Dovevano essercene migliaia, decine di migliaia! Diciassette anni di vita in comune, senza contare un anno di fidanzamento!

Mi servii generosamente, di proposito, versandomi il doppio, se non addirittura il triplo di quello che bevevo di solito.

«Alla sua salute, Mona...».

Era una cosa ridicola da dire, ma sembrò che non avesse sentito. Bevvi avidamente. Mi si diffuse in tutto il corpo una sensazione di calore e solo allora mi resi conto di quanto fossi intirizzito.

Entrando in bagno ripensai a quello degli Ashbridge e mi venne un pensiero la cui volgarità mi mortifica.

«Almeno si è concesso un ultimo piacere...».

Perché ero così sicuro che Ray fosse morto? L’ipotesi che si fosse rifugiato in macchina era plausibile. Forse Isabel aveva ragione. Lei non sapeva che non mi ero spinto fin là. Era anche possibile, seppure meno probabile, che Ray avesse raggiunto una delle case nei dintorni. Il telefono non funzionava e perciò non aveva potuto avvisarci.

«L’ho ucciso io...».

Mona aveva la mia stessa sensazione, lo avevo capito dal suo atteggiamento. Amava davvero Ray? Esistono coppie che continuano ad amarsi anche dopo un certo numero di anni?

Ray e Mona non hanno figli. Noi ne abbiamo due, due femmine, entrambe al collegio Adams, a Litchfield, uno dei migliori del Connecticut, diretto da Miss Jenkins.

Chissà se anche a Litchfield erano rimasti senza luce...

Mildred ha quindici anni, Cecilia dodici, e ogni due settimane passano il week-end a casa. Per fortuna non era capitato quel week-end.

Intanto l’acqua scorreva. Misi la mano sotto il rubinetto in tempo per rendermi conto che era fredda e dovetti accontentarmi di una vasca riempita per un terzo.

Faceva uno strano effetto, quella notte, essere un uomo rispettabile, uno dei due soci dello studio Higgins e Dodd, sposato, padre di due figlie, proprietario di Yellow Rock Farm, una delle case più antiche e più belle di Brentwood, e pensare di avere appena ucciso un uomo.

Per omissione di soccorso, d’accordo! Per non essere andato a cercarlo.

Chissà, anche se avessi passato ore a vagare in mezzo alla neve, con la torcia elettrica che si affievoliva, è possibile, se non probabile, che non l’avrei trovato comunque.

Con il pensiero allora? Così era più esatto. Non l’avevo cercato. Quando ero sparito dalla vista di chi stava in casa, ero andato a rifugiarmi nel fienile.

Mona si sarebbe disperata? Sapeva o no che Ray la tradiva con altre donne appena se ne presentava l’occasione?

O non era anche lei come Patricia? Forse Mona e Ray non erano gelosi l’uno dell’altro e si raccontavano le rispettive avventure...

Mi ripromisi di accertarmene. Se qualcuno doveva approfittarne, quello ero io...

Fui lì lì per assopirmi nell’acqua, e uscendo dalla vasca mi sentivo così poco sicuro dei miei movimenti che prestai molta attenzione per non scivolare.

Che cosa avremmo fatto, noi tre? Di andare a dormire non era il caso. Mica vai a dormire quando il marito della tua ospite...

No, non saremmo andati a dormire. Del resto le camere erano gelide e in accappatoio battevo i denti. Scelsi un paio di pantaloni di flanella grigia e un pullover di lana grossa che di solito mettevo per andare a spalare la neve sul vialetto.

Una delle due candele si era consumata, così accesi la seconda, mi infilai le pantofole e tornai nel living room.

«Sai se in cantina è rimasta della legna?».

Non la usavamo quasi mai. Accendevamo il fuoco solo quando avevamo ospiti e alla cantina si accedeva tramite una botola e una scaletta, il che rendeva complicato rifornirsi di ceppi.

«Sì, credo che ce ne sia ancora...».

Lanciai istintivamente un’occhiata alla bottiglia di scotch. Quando ero uscito, la bottiglia era piena fino a metà. Adesso restava solo un fondo.

Ovviamente Isabel aveva seguito il mio sguardo e, altrettanto ovviamente, aveva capito.

Con un altro sguardo, rivolto al viso di Mona, mi fornì la risposta. Mona, con il viso congestionato, si era addormentata sulla poltrona e la vestaglia, scostandosi, lasciava scorgere un ginocchio nudo.

2

Quando aprii gli occhi ero sdraiato sul divano del living room e qualcuno mi aveva coperto con un plaid a scacchi rossi, gialli e blu. Era giorno fatto, ma dalle finestre, schermate da uno spesso strato di neve ghiacciata, filtrava solo una debole luce.

La prima cosa che mi colpì, e che probabilmente mi aveva svegliato, era un odore familiare, quello di ogni mattina: l’odore del caffè. Mi tornarono alla mente i ricordi del giorno precedente e della notte. Chissà se la corrente elettrica era stata ripristinata. Poi, girando appena il capo, vidi Isabel in ginocchio davanti al camino.

Avevo un gran mal di testa e non mi andava di affrontare la realtà di una nuova giornata. Avrei voluto riaddormentarmi, ma prima che avessi il tempo di richiudere gli occhi, mia moglie mi chiese:

«Ti sei riposato un po’?».

«Credo di sì... Sì...».

Mi alzai e mi resi conto che avevo bevuto più di quel che pensavo. Mi sentivo tutto il corpo indolenzito e mi girava la testa.

«Tra un attimo ti porto il caffè...».

«E tu, hai dormito?» chiesi a mia volta.

«Ho sonnecchiato...».

Figurarsi! Era rimasta a vegliare su noi due, su me e Mona. Era stata magnifica, come sempre. Era nel suo carattere comportarsi in modo impeccabile, in qualsiasi circostanza.

Me la immaginavo, seduta composta in poltrona, a osservare ora me, ora Mona, alzandosi ogni tanto senza far rumore per riattizzare il fuoco.

Poi, alle prime luci dell’alba, aveva spento la preziosa candela ed era andata in cucina a cercare una pentola con il manico più lungo possibile. Mentre noi dormivamo, lei aveva provveduto a fare il caffè.

«Mona dov’è?».

«È andata a vestirsi...».

Nella stanza degli ospiti, in fondo al corridoio, con le finestre che si affacciavano sullo stagno. Mi ricordai delle due valigie di cuoio blu che Ray aveva portato il giorno precedente, prima della serata dagli Ashbridge.

«Come sta?».

«Ancora non se ne rende conto...».

Ascoltavo il frastuono della bufera, che continuava con la stessa intensità di quando mi ero addormentato. Isabel mi versò il caffè nella mia solita tazza. Ciascuno infatti aveva la sua: la mia era un po’ più grande, perché io bevo molto caffè.

«Bisognerà portar su la legna...».

Non c’erano più ceppi nella cesta a destra del camino e quelli che ardevano presto si sarebbero ridotti in cenere.

«Vado io...».

«Non vuoi che ti aiuti?».

«Ma no...».

Ovvio. Mi aveva guardato due o tre volte di sottecchi e aveva capito che avevo i postumi della sbornia. Non le sfuggiva mai niente. Inutile tentare di nasconderle la verità.

Finii di bere il caffè, mi accesi una sigaretta e andai nella stanzetta adiacente al living room che chiamiamo la biblioteca perché una delle pareti è ricoperta di libri. Ripiegai il tappeto ovale e scoprii la botola, la sollevai e soltanto a quel punto mi venne in mente che mi serviva una candela.

Era tutto confuso, irreale.

«Quante candele restano?».

«Cinque. Poco fa ho sintonizzato la radio su Hartford...».

Hartford è la città di grandi dimensioni più vicina.

«La maggior parte delle campagne è nella nostra stessa situazione. Dappertutto si stanno dando da fare per ripristinare le linee, ma certe zone restano ancora irraggiungibili...».

Immaginai gli uomini, là fuori, che si arrampicavano sui pali in mezzo alla bufera, i carri attrezzi che si aprivano la strada tra cumuli di neve sempre più alti.

Scesi la scaletta con la candela in mano e mi diressi verso il fondo della cantina scavata nella roccia, quella roccia gialla da cui aveva preso il nome l’antica fattoria. Mi venne la tentazione di sedermi lì e starmene per conto mio a pensare.

Ma pensare a che cosa? Ormai era finita. Non serviva più pensare.

Non restava che portar su la legna...

 

 

Di quella mattina conservo un ricordo cupo, come il ricordo di certe domeniche della mia infanzia in cui la pioggia mi impediva di uscire e non sapevo cosa fare di me. Mi sembrava che le persone e le cose non fossero al proprio posto, che i rumori, quelli della strada e quelli di casa, fossero diversi. Mi sentivo smarrito, con una punta di angoscia in fondo al cuore.

Mi torna in mente un particolare insignificante. Mio padre si alzava più tardi degli altri giorni e a volte lo vedevo mentre si faceva la barba. Girava per casa con indosso una vecchia veste da camera, e anche il suo odore era diverso, come pure quello della camera da letto dei miei genitori, forse perché veniva rassettata più tardi durante la giornata.

«Buongiorno, Donald... È riuscito a dormire un po’?...».

«Sì, grazie... E lei?».

«Io, sa...».

Indossava un paio di pantaloni neri e un maglione giallo. Pettinata, truccata, fumava una sigaretta con aria stanca, rigirando il cucchiaino nella tazza.

«Che cosa facciamo?».

Parlava tanto per parlare, senza convinzione, guardando il fuoco.

«Credo che al massimo potrei farvi delle uova fritte... Ce ne sono in frigo...».

«Io non ho fame...».

«Neanch’io... Piuttosto, se c’è ancora un po’ di caffè...».

Caffè e sigarette, non avevo voglia di nient’altro. Andai ad aprire uno spiraglio della porta, che dovetti tenere forte perché la furia della burrasca non la spalancasse, e stentai a riconoscere il paesaggio circostante.

La neve formava onde alte più di un metro. Continuava a scendere fitta come durante la notte, e la massa rossa del fienile si vedeva a malapena.

«Dici che possiamo provarci?» mi chiese Isabel.

Provare a fare che? Andare alla ricerca di Ray?

«Vado a mettermi gli stivali e il montone...».

«Vengo con te...».

«Anch’io...».

Tutto ciò era insensato, me ne rendevo conto. Avevo voglia di dichiarare tranquillamente:

«È inutile andare a cercare Ray... L’ho ucciso io...».

Perché mi ricordavo di averlo ucciso. Ricordavo tutto quello che era successo sulla panchina, tutto quello che avevo pensato. Perché mia moglie continuava a guardarmi di sottecchi?

Per lei avevo bevuto, certo. Non era un reato. Un uomo ha pur il diritto di sbronzarsi una o due volte nella vita. Io avevo scelto la sera sbagliata, ma mica potevo prevederlo.

E per giunta era tutta colpa di Ray. Se non avesse portato Patricia nel bagno del primo piano...

Pazienza! Avrei continuato a fingere. Calzai gli stivali. Infilai il montone. Isabel fece altrettanto e disse a Mona:

«No, tu resta qui. Qualcuno deve badare al fuoco...».

Abbiamo camminato l’uno accanto all’altro, addentrandoci alla bell’e meglio in mezzo alla neve che si accumulava davanti a noi via via che ci sforzavamo di avanzare. Il freddo ci intirizziva la faccia. Mi girava la testa e a ogni passo temevo di crollare, stremato. Non volevo essere io il primo a gettare la spugna.

«È inutile...» decretò infine Isabel.

Prima di rientrare in casa abbiamo raschiato i vetri di una delle finestre per riuscire, dall’interno, a vedere qualcosa. Mona aveva ripreso il suo posto davanti al fuoco e non fece domande.

Ascoltava la radio. A Hartford diversi tetti erano stati divelti e alcune centinaia di automobilisti erano rimasti bloccati sulle strade. Si menzionavano le zone maggiormente colpite, ma non si fece parola di Brentwood.

«Dovremo pur mangiare qualcosa...».

Isabel si decise, andò in cucina e io e Mona restammo vicini. Mi domando se fosse davvero la prima volta che ci trovavamo da soli in una stanza. A ogni modo, quella fu la mia impressione e mi procurò un piacere ambiguo.

Quanti anni aveva? Trentacinque? Di più? In passato aveva fatto teatro e anche un po’ di televisione. Suo padre era un drammaturgo. Scriveva commedie musicali di successo e aveva condotto una vita piuttosto movimentata fino alla sua morte, avvenuta tre o quattro anni prima.

Che cos’aveva di misterioso Mona? Niente. Era una donna come le altre. Prima di sposare Ray, doveva aver avuto qualche avventura.

«Mi sembra tutto così irreale, Donald...».

La guardai e la trovai commovente. Avrei voluto prenderla tra le braccia, stringerla al petto, accarezzarle i capelli. Erano i gesti di un Donald Dodd?

«Anche a me...».

«Stanotte lei ha messo a repentaglio la sua vita, andando a cercarlo...».

Non dissi niente. Non mi vergognavo. In fondo me lo godevo, quel momento di intimità.

«Ray era una gran brava persona...» mormorò poco dopo.

Ne parlava come di qualcuno già molto lontano, con una specie di distacco, o almeno così mi pareva.

Dopo una pausa piuttosto lunga, aggiunse:

«Eravamo molto affiatati, noi due...».

Isabel tornò con un tegame e delle uova.

«È la cosa più facile da preparare. C’è del prosciutto in frigo, se qualcuno ne vuole...».

Come aveva fatto la mattina, si inginocchiò davanti al camino e posò il tegame in equilibrio sul fuoco.

Che cosa faceva la gente nelle altre case? La stessa cosa, probabilmente. Solo che non tutti avevano un camino o della legna a disposizione. Gli Ashbridge sarebbero stati costretti a rimandare la partenza per la Florida.

 

 

E le ragazze, in collegio? Avevano di che scaldarsi? Mi tranquillizzai dicendomi che Litchfield era una cittadina abbastanza importante e non si segnalavano blackout nelle città.

«La tempesta più violenta degli ultimi settantadue anni...».

Dopo il notiziario, la radio riprese a trasmettere della musica e allora la spensi.

Eravamo costretti a mangiare vicinissimi al fuoco, dato che già a tre metri di distanza il freddo era pungente.

Perché Isabel...? Come ho già detto, è da quando ci conosciamo che mi guarda in un certo modo, ma quella mattina mi sembrava che nel suo sguardo ci fosse qualcosa di diverso.

Ad un tratto ebbi addirittura l’impressione che quello sguardo significasse:

«Lo so».

Senza sdegno. Non un’accusa. Una semplice constatazione.

«Ti conosco, e lo so».

Vero è che i postumi della sbornia continuavano a farsi sentire e almeno un paio di volte sono stato sul punto di vomitare la colazione. Avevo una gran voglia di bere qualcosa per rimettermi in sesto. Ma non osavo.

Perché? Quante domande... Ho passato la vita a farmi domande, non molte, ma qualcuna sì, certe abbastanza stupide, senza mai trovare risposte soddisfacenti.

Sono un uomo. La sera precedente Isabel aveva trovato normale che una cinquantina di uomini e di donne bevessero smodatamente. Eppure poco ci mancava che io dovessi nascondermi per fare incetta di bicchieri sui tavoli e vuotarli alla chetichella.

Perché?

Lei per prima, appena rientrati, aveva versato uno scotch a Mona, che pure era una donna, mentre io avevo osato riempirmi un bicchiere solo dopo una lunga attesa.

Che cosa mi impediva adesso di aprire il mobile bar, tirare fuori una bottiglia e andare a prendere un bicchiere in cucina? Ne avevo bisogno. Vacillavo letteralmente. Non avevo la minima intenzione di sbronzarmi; giusto un goccio per rimettermi in sesto.

Mi ci è voluta una mezz’ora buona e per di più sono ricorso a un sotterfugio.

«Non ha voglia di uno scotch, Mona?».

Guardò Isabel come per chiederle il permesso, come se la mia offerta non contasse.

«Ma sì, forse mi farà bene...».

«E tu, Isabel?».

«No, grazie...».

In genere, a parte le feste a cui siamo invitati o che diamo noi, mi limito a un bicchiere di whisky al giorno, prima di cena, di ritorno dall’ufficio. Spesso Isabel prende un drink con me, anche se, va detto, molto allungato.

Non è una puritana. Non critica quelli che bevono o chi tra i nostri amici conduce una vita più o meno sregolata.

Allora perché quella paura, santo Dio? Qualcuno, infatti, avrebbe potuto pensare che avevo paura di lei. Ma paura di che cosa? Di un rimprovero? Isabel non me ne aveva mai rivolti. E dunque? Paura di uno sguardo? Come, da bambino, avevo paura dello sguardo di mia madre?

Isabel non è mia madre. Io sono suo marito e abbiamo avuto due figlie. Lei non fa mai niente senza prima consultarsi con me.

Non ha nulla della moglie forte e autoritaria di cui tanti mariti si lamentano, e quando siamo in compagnia mi lascia sempre la parola.

Molto semplicemente, è una donna calma. Serena. Forse questa parola spiega tutto...

«Alla sua salute, Mona...».

«Alla sua, Donald... Alla tua, Isabel...».

Mona non si atteggiava a vedova inconsolabile. Forse soffriva, ma la sua non doveva essere una sofferenza straziante.

«Ray era una gran brava persona...» aveva detto, come se le venisse dal profondo del cuore.

Non era significativo? Parlava di lui come di un amico, un vecchio compagno con cui si è fatto un tratto di strada insieme nella vita nel modo più piacevole possibile.

Anche questo mi attraeva. Da un pezzo avevo avvertito tra loro due questa intesa pacifica e indulgente.

Ray aveva avuto voglia di Patricia Ashbridge e l’aveva presa, senza che gli importasse, adesso ne ho la certezza, che sua moglie venisse a saperlo o meno.

«Mi sembra che il vento si sia un po’ placato...».

Le nostre orecchie si erano talmente abituate al frastuono della bufera che la minima variazione ci colpiva. Aveva ragione. Eravamo ancora lontani dal silenzio, ma il rumore era diminuito di intensità e, guardando fuori dalla finestra che avevamo ripulito alla bell’e meglio, mi sembrò che adesso i fiocchi, pur continuando a essere fitti, cadessero quasi verticalmente.

In tutto il paese c’erano squadre al lavoro per ripulire le strade. Si segnalavano decine di morti e feriti e le ambulanze facevano fatica ad aprirsi un varco.

«Mi chiedo che cosa succederà...».

Mona aveva parlato come rivolta a se stessa. La neve non si sarebbe sciolta prima di svariate settimane. Una volta che la viabilità fosse stata ripristinata, avrebbero provveduto a sgombrare il vialetto di casa. Dopodiché, probabilmente, avrebbero mandato delle squadre di soccorso a cercare il corpo di Ray.

E poi? Mona e Ray abitavano in un lussuoso appartamento in uno dei quartieri più belli ed eleganti di New York, a Sutton Place, lungo l’East River.

Mona sarebbe tornata a viverci da sola? Avrebbe ripreso a fare teatro o televisione?

Aveva detto bene, poco prima. Era tutto irreale, assurdo. Mentre riflettevo sulla panchina nel fienile, non mi aveva neanche sfiorato il pensiero del futuro di Mona.

Avevo ucciso Ray, d’accordo; mi ero vendicato, in un modo piuttosto ignobile, da vero vigliacco, senza preoccuparmi delle conseguenze.

In realtà non avevo ucciso nessuno. Inutile che mi vantassi. Anche se avessi vagato nella neve per il resto della notte non avrei avuto la minima possibilità di trovarlo.

Lo avevo ucciso con il pensiero. Nelle intenzioni. Ma poi nemmeno, perché ciò avrebbe richiesto una freddezza che in quel momento non avevo.

«Forse è il caso di portare dei materassi davanti al fuoco e cercare di dormire un po’» propose Isabel. «Stai, Mona. Ci pensiamo io e Donald...».

Siamo andati di sopra a prendere i materassi delle ragazze, più stretti e più leggeri, poi quello della camera degli ospiti.

Mi domandavo un po’ scioccamente se avremmo messo i materassi uno accanto all’altro, in modo da formare una specie di lettone per tutti e tre, e sono sicuro che Isabel ha intuito i miei pensieri.

Ha disposto i materassi in modo da lasciare più o meno lo stesso spazio che c’è di solito tra i letti gemelli, dopodiché è andata a prendere le coperte.

Mi sbaglierò. È probabile. Ma in quei pochi secondi in cui siamo rimasti di nuovo soli, Mona ha guardato me, poi ha guardato i materassi.

Si chiedeva quale sarebbe stato il suo e quale il mio? È stata sfiorata, non dico dalla tentazione, ma da una sorta di pensiero recondito?

Quando Isabel è tornata e ha sistemato le coperte abbiamo avuto un attimo di esitazione. E stavolta sono sicuro di quel che affermo. Isabel ha scelto di proposito il materasso di destra, lasciando a me quello in mezzo e riservando a Mona quello di sinistra.

Mi metteva tra loro due. Il che voleva dire:

«Vedi? Mi fido...».

Di me o di Mona?

Vero è che poteva anche significare:

«Ti lascio libero... Ti ho sempre lasciato libero...».

Oppure:

«Non oserai certo...».

Era mezzogiorno appena passato e tutti e tre ci sforzavamo di prendere sonno. L’ultima cosa che ricordo è la mano di Mona, sul parquet, tra i nostri due materassi. Quella mano, nel mio dormiveglia, assumeva un significato speciale. Per un po’ mi sono chiesto se avrei osato allungare la mano per sfiorarla, come inavvertitamente.

Non ero innamorato. Contava il gesto, l’audacia del gesto. Mi sembrava che sarebbe stato un atto liberatorio. Ma è possibile che mi si fosse già annebbiata la mente, perché l’immagine della mano si trasformò in quella, familiare, di un cane, il cane di uno dei nostri vicini quando avevo dodici anni.

Dovevo essermi addormentato.

 

 

La corrente è tornata poco dopo le dieci di sera, e ci ha fatto una strana impressione vedere tutte le luci di casa accendersi da sole all’improvviso, mentre la candela continuava a bruciare, quasi ridicola con la sua fiamma rossastra.

Ci siamo guardati con sollievo, come se quell’evento segnasse la fine di tutti i nostri problemi, di tutti i nostri crucci.

Sono sceso in cantina a riavviare la caldaia e quando sono risalito Isabel stava cercando di telefonare.

«Funziona?».

«Ancorano...».

Di nuovo mi sono immaginato gli uomini, là fuori, aggrappati ai pali con ai piedi quegli strani semicerchi di metallo che permettono di arrampicarsi come scimmie. Quante volte ho sognato di salire sui pali in quel modo.

«Dove dormiamo?» chiese Mona.

«Le camere ci metteranno un bel po’ a scaldarsi. Bisognerà aspettare almeno due o tre ore...».

Non abbiamo parlato molto quella domenica, né durante il giorno né la sera. Se trascrivessi in sequenza tutte le frasi che ci siamo scambiati riempirei a malapena tre pagine.

Nessuno ha provato a leggere. E tanto meno ci siamo messi a giocare a qualcosa. Per fortuna c’era il fuoco acceso nel camino, cosicché la maggior parte del tempo l’abbiamo trascorsa a contemplare la danza delle fiamme.

Ci siamo coricati completamente vestiti, nello stesso ordine del pomeriggio, ma stavolta non ho visto la mano di Mona sul pavimento. A un certo punto, ho avvertito dei movimenti intorno a me. Isabel, in piedi davanti al camino, era intenta a ripiegare una coperta.

Non c’è stato bisogno di chiederle che cosa succedeva. Mi aveva letto la domanda negli occhi.

«Sono le sei. Le camere sono calde. Tanto vale spostarci nei nostri letti».

Mona era ancora in ginocchio sul materasso, rossa in viso e con gli occhi velati di sonno.

Ho aiutato Isabel a riportare il materasso di Mona nella camera degli ospiti e mentre loro due rifacevano il letto io sono andato in camera nostra a svestirmi e mettermi il pigiama, e quando mia moglie è arrivata ero già sotto le coperte.

«La sta prendendo con molta calma» ha detto Isabel.

Anche lei parlava con calma, come per constatare un fatto insignificante. Più tardi mi ha toccato la spalla.

«Il telefono, Donald...».

Lì per lì ho creduto che qualcuno ci avesse chiamato, che il telefono avesse squillato, e ho pensato subito a Ray. Ma Isabel voleva soltanto dire che il telefono aveva ripreso a funzionare. Il vecchio orologio sul cassettone segnava le sette e mezzo. Mi sono alzato. Sono andato in bagno a bere un bicchier d’acqua e ne ho approfittato per darmi una pettinata. Poi, seduto sulla sponda del letto, ho composto il numero della polizia, a Canaan.

Occupato... Ancora occupato... Dieci, venti volte, il segnale di occupato... Finalmente una voce stanca...

«Parla Donald Dodd, di Brentwood... Dodd, sì... L’avvocato...».

«La conosco, signor Dodd...».

«Chi parla?».

«Il sergente Tomasi... Che problemi ci sono da voi?...».

«Il tenente Olsen c’è?».

«Ha passato la notte qui, come tutti... Vuole che glielo chiami?...».

«Sì, Tomasi, per favore... Pronto!... Tenente Olsen?...».

«Parla Olsen, sì...».

«Sono Dodd...».

«Come sta?».

Dal momento che le davo le spalle, Isabel non poteva vedermi in viso, ma ero certo che il suo sguardo mi fissava la nuca, la schiena, e che lei mi leggeva in faccia come se le stessi di fronte.

«Devo denunciare una scomparsa... Ieri sera... No, due sere fa...».

La nozione del tempo aveva cominciato ad alterarsi.

«Sabato sera siamo andati a un party dagli Ashbridge con una coppia di amici di New York...».

«Sì, sono al corrente...».

Olsen era un tipo alto e biondo dall’espressione impassibile, il colorito acceso e i capelli a spazzola. Non gli ho mai visto un granello di polvere o una grinza sulla divisa. E neppure l’ho mai visto stanco o esasperato.

«Al ritorno, a tarda notte, siamo rimasti bloccati dalla neve a qualche centinaio di metri da casa... La torcia elettrica era quasi scarica... Eravamo in quattro e ci siamo sforzati di raggiungere la casa a piedi, le nostre mogli davanti, io e il mio amico dietro...».

Silenzio all’altro capo del filo, come se la linea si fosse di nuovo interrotta. Era imbarazzante, e per di più continuavo a sentirmi addosso lo sguardo di Isabel.

«Mi sente?».

«Certo, signor Dodd».

«Le signore sono arrivate sane e salve. Anch’io alla fine ho raggiunto la casa, e soltanto in quel momento mi sono accorto che il mio amico non era più al mio fianco...».

«Chi è il suo amico?...».

«Ray Sanders, della Miller, Miller e Sanders, l’agenzia pubblicitaria di Madison Avenue...».

«Non l’avete ritrovato?».

«Io sono tornato a cercarlo, praticamente senza luce... Ho vagato nella neve chiamandolo a gran voce...».

«Con quel vento avrebbe dovuto essere molto vicino per sentirla...».

«Già... Quando non ce l’ho più fatta, sono rientrato... Ieri mattina... Sì, ieri, domenica, io e mia moglie abbiamo provato a uscire, ma la neve era troppo alta...».

«Avete telefonato ai vicini?».

«Non ancora... Immagino che se si trovasse da uno dei vicini mi avrebbe già chiamato...».

«È probabile... Ascolti, cercherò di mandarvi una squadra... Altro che spazzaneve, ci vorrebbero dei bulldozer... Finora siamo riusciti a ripulire soltanto una parte della strada... Mi richiami se ci sono novità...».

Insomma, avevamo fatto quello che potevamo. Ero in regola con le autorità.

«Vengono?» domandò la voce neutra di mia moglie.

«Solo una parte della strada è sgombra. Dice che ci vorrebbero dei bulldozer, altro che spazzaneve... Cercherà di mandarci una squadra, ma non sa quando...».

Lei è andata in cucina a mettere su il caffè, e intanto io ho fatto la doccia e mi sono infilato gli stessi vestiti del giorno prima, i pantaloni di flanella grigia e il mio vecchio maglione scuro.

Isabel aveva preparato uova al bacon per noi due e, dato che il posto di Mona era vuoto, ha detto:

«Dorme...».

Credo che fosse anche lei un po’ stupita della reazione, o meglio, dell’assenza di reazione da parte di Mona. Se fossi stato io a perdermi nella neve, Isabel si sarebbe comportata in modo diverso?

Di colpo ho capito il motivo di quella specie di vuoto che avvertivo da quando mia moglie mi aveva svegliato toccandomi la spalla: il vento si era calmato. L’universo era avvolto dal silenzio, un silenzio che sembrava innaturale dopo le ore assordanti che avevamo vissuto.

Ho acceso la televisione. Ho visto tetti sfondati, auto sepolte sotto la neve, alberi abbattuti, un autobus rovesciato in mezzo alla strada, a Hartford. Ho visto anche le strade di New York che venivano faticosamente ripulite e sui marciapiedi la sagoma scura di qualche passante che si impantanava nella neve.

Non si avevano notizie di un certo numero di imbarcazioni disperse in mare. Una casa era stata spazzata via dal vento. Un’altra era in bilico, tenuta su da un cumulo di neve.

Davanti alla nostra porta la neve superava il metro e non potevamo fare altro che aspettare.

Ho fatto tre telefonate: a Lancaster, l’elettricista, la cui casa dista mezzo miglio in linea d’aria dalla nostra; a Glendale, il commercialista; e infine a un tizio che non mi piace, un certo Cameron, che si occupa di questioni immobiliari in generale.

«Pronto, sono Donald Dodd... Mi scusi se la disturbo... Non è che per caso un mio amico si è rifugiato da lei?...».

Nessuno dei tre aveva visto Ray. Solo Cameron, prima di rispondere, aveva chiesto:

«Che aspetto ha?».

«Alto, bruno, sulla quarantina...».

«Come si chiama?».

«Ray Sanders... L’ha visto?...».

«No... Non ho visto nessuno...».

Quando sono tornato in cucina Mona stava facendo colazione. Al contrario di Isabel, non si era ancora lavata e aveva i capelli in disordine. Sapeva di letto. Isabel non sa mai di letto, anzi, come diceva mia madre, sa di pulito.

L’incuria di Mona, quella trasandatezza un po’ animale mi turbavano, e così pure l’occhiata interrogativa, pacata, che mi lanciò prima di sussurrare a fior di labbra:

«Quando vengono?».

«Non appena sarà possibile. Sono già partiti, ma devono aspettare che le strade vengano sgombrate...».

Isabel guardava ora me ora Mona e non saprei dire che cosa pensasse. Se lei riusciva a intuire i pensieri altrui, intuire i suoi era impossibile.

Eppure aveva un viso che più aperto non si poteva. Ispirava fiducia a tutti. Nelle opere di carità in cui era coinvolta affidavano a lei i compiti più delicati o noiosi e lei li accettava di buon grado con quel suo immutabile sorriso.

«Isabel non si tira mai indietro quando c’è bisogno di lei...».

Per consigliare, per consolare, per dare una mano... A parte la donna di servizio che veniva tre ore al giorno e l’intera giornata una volta alla settimana, era lei a occuparsi della casa e a cucinare. Ed era stata lei a occuparsi delle nostre figlie finché, in mancanza di una buona scuola a Brentwood, non erano entrate al collegio Adams.

Forse c’entrava un pizzico di snobismo. Anche Isabel è andata al collegio Adams di Litchfield, che è considerato uno degli istituti più esclusivi del Connecticut.

Eppure Isabel non era snob. Ho vissuto diciassette anni con lei. Per diciassette anni abbiamo dormito nella stessa camera. Avremo fatto l’amore migliaia di volte, suppongo. Ciononostante, non riesco ancora a farmi di lei un’immagine precisa.

Conosco i suoi lineamenti, la tonalità della pelle, i riflessi biondo ramato dei suoi capelli, le spalle larghe un po’ appesantite, i suoi gesti calmi, il suo portamento.

Si veste spesso di azzurro, ma il suo colore preferito è il malva.

Conosco il suo sorriso, mai troppo pronunciato, un sorriso appena accennato, che però le rischiara il viso già luminoso per natura.

Ma, per esempio, a che cosa pensa tutta la giornata? Che cosa pensa di me, che sono suo marito e il padre delle sue figlie? Quali sono i suoi veri sentimenti nei miei confronti?

E, in questo momento, che cosa pensa di Mona che ha appena finito di mangiare le sue uova?

Non può piacerle una come Mona, troppo diversa da lei, l’incarnazione della trascuratezza, del disordine e di chissà che altro ancora.

Il passato di Mona è tutt’altro che semplice e lineare come il suo. Esiste una parte più o meno equivoca, le notti di Broadway, le quinte dei teatri, i camerini di attori e attrici, e un padre che non si faceva scrupoli ad affidare la figlia all’una o all’altra delle sue amanti.

Mona non aveva pianto. Non era prostrata. Dava piuttosto l’impressione di qualcuno che comincia a trovare che le cose vanno per le lunghe.

Suo marito era sepolto da qualche parte sotto la neve, a cento o duecento metri da casa, una casa che le era estranea, dove non si ritrovava e doveva sentirsi come prigioniera.

Ormai la tormenta si era placata, aveva smesso di nevicare, la corrente era tornata, la linea telefonica era stata ripristinata e sullo schermo della televisione il mondo si rianimava, ma bisognava aspettare che da Canaan arrivasse una squadra di soccorso e si mettesse a rivoltare migliaia di metri cubi di neve.

«Ho finito le sigarette...» dichiarò Mona allontanando il piatto.

Andai a prendergliene un pacchetto nel mobile bar. E mi resi conto con stupore che avevamo fatto colazione in cucina: di solito, quando avevamo ospiti, consumavamo tutti i pasti, compresa la colazione, in sala da pranzo.

Anche quando eravamo noi due soli, io e Isabel pranzavamo e cenavamo lì.

Avevamo riportato i materassi delle ragazze nelle camere al primo piano e i bicchieri sporchi erano stati fatti sparire.

«Ti do una mano...».

Mona, vestita con i pantaloni neri e il maglione giallo canarino, aiutava mia moglie a lavare i piatti. Io non sapevo dove mettermi. Pensavo troppo. Mi facevo troppe domande che mi mettevano a disagio.

Certo, non tutte risalivano al tempo che avevo trascorso seduto sulla panchina nel fienile. In diciassette anni qualche domanda me l’ero pur fatta.

Come mai, però, fino a questo momento non mi avevano messo in crisi? Dovevo essermi dato automaticamente delle risposte adeguate, quelle che ti insegnano fin dalla scuola. Il padre. La madre. I figli. L’amore. Il matrimonio. La fedeltà. La bontà. L’altruismo...

E così avevo vissuto. Anche come cittadino prendevo sul serio i miei doveri non meno di Isabel.

Possibile che non mi fossi mai reso conto che mentivo a me stesso e che in fondo non credevo affatto a quelle immagini edificanti?

Nel nostro studio, chi si occupa della compravendita di proprietà, delle ipoteche, della costituzione di società e, in generale, di tutte le questioni tecniche è il mio socio Higgins, il vecchio Higgins, come lo chiamo io, benché abbia solo sessant’anni.

È un ometto grassoccio e scaltro che, in altri tempi, avrebbe potuto vendere elisir di lunga vita nelle fiere. È sudicio, trasandato, e ho il sospetto che esageri di proposito la sguaiatezza dei suoi atteggiamenti per abbindolare meglio il prossimo.

Non crede in niente e in nessuno e il suo cinismo mi lascia spesso interdetto.

Il mio ambito, invece, riguarda più la sfera personale, giacché mi occupo di testamenti, successioni e divorzi. Ho seguito centinaia di pratiche, dato che la cerchia della nostra clientela si allarga ben oltre Brentwood e da queste parti abita molta gente ricca.

E non parlo di processi penali. Mi sarà capitato sì e no una decina di volte di appellarmi a una giuria.

Dovrei conoscerli, gli uomini. Gli uomini e le donne. Credevo di conoscerli e ciononostante, nella mia vita privata, mi comportavo e pensavo proprio come nei cosiddetti buoni libri.

In fondo ero rimasto un boy-scout.

E poi, sulla panchina...

Non so dove siano Isabel e Mona, probabilmente nella camera degli ospiti. Io ciondolo, per conto mio, tra il living room e la biblioteca, a rimuginare pensieri di cui mi vergogno.

E sì che mi ero sempre considerato un uomo razionale! Invece mi era bastato lo spettacolo di un uomo e di una donna che facevano l’amore in un bagno...

Perché era stato quello il punto di partenza. Quantomeno il punto di partenza apparente. Dovevano esserci anche altre cause, più remote, che avrei scoperto solo in seguito.

Su quella panchina rossa, nel fienile, con la porta che sbatteva, mi si è manifestata una verità che ha cambiato tutto:

«Lo odio...».

Lo odio e lo lascio morire. Lo odio e lo uccido. Lo odio perché è più tosto di me, perché ha una moglie più desiderabile della mia, perché fa la vita che avrei voluto fare io, perché va per la sua strada senza curarsi di quelli che travolge...

Non sono un debole. E neppure un fallito. La mia vita me la sono scelta, così come ho scelto Isabel.

Non mi sarebbe mai passato per la mente di sposare Mona, per esempio, se l’avessi conosciuta allora. Né di lavorare in un’agenzia pubblicitaria di Madison Avenue.

La mia scelta non è stata dettata da vigliaccheria o da pigrizia.

Qui le cose si fanno molto più complicate. Mi addentro in un territorio in cui ho il sospetto che farò scoperte spiacevoli.

Prendiamo il caso di Isabel. L’ho conosciuta a un ballo, a Litchfield, appunto, dove abitava con i suoi genitori. Suo padre era il chirurgo Irving Whitaker, che chiamavano spesso da Boston e da altre parti nei casi difficili. Sua madre era una Clayburne, dei Clayburne sbarcati dal Mayflower.

Non sono state né la reputazione del padre né le ascendenze della madre a influenzarmi. E neppure la bellezza di Isabel, o il suo fascino.

C’erano altre ragazze che desideravo molto più di lei.

Forse è stata la sua calma, quella particolare serenità che aveva già allora? La sua dolcezza? La sua indulgenza?

Ma perché mai avrei dovuto cercare indulgenza, se non facevo niente di male?

Insomma, avevo bisogno che le cose intorno a me fossero solide, ordinate.

E adesso ho una voglia pazza di una donna come Mona, che è tutto il contrario!

«L’importante» diceva mio padre «è partire con il piede giusto...».

E non si riferiva soltanto al fatto di scegliere una moglie, ma di scegliere una professione, un modo di vivere, un modo di pensare.

Io credevo di aver scelto. Ho fatto del mio meglio. Mi sono sfinito a forza di fare del mio meglio.

E a poco a poco mi sono ridotto a cercare una qualche approvazione nello sguardo di Isabel.

Quello che avevo scelto, in definitiva, era un testimone, un testimone benevolo, qualcuno che con un’occhiata mi facesse capire che mi mantenevo sulla retta via.

Tutto questo era crollato in una notte. Quello che invidiavo a Ray, come ad Ashbridge, era proprio il fatto di non aver bisogno di nessuno, di non cercare l’approvazione di nessuno.

Ad Ashbridge non importava granché di essere lo zimbello di tutti perché, l’una dopo l’altra, le sue tre mogli lo avevano tradito. Se le sceglieva giovani, belle, sensuali e sapeva fin dall’inizio cosa aspettarsi.

Ma davvero non gliene importava?

E Ray amava Mona? E gli era indifferente che, prima di incontrarlo, lei fosse passata tra le braccia di tanti uomini?

Erano loro quelli tosti, e io ero un debole perché avevo scelto di vivere in pace con me stesso?

Be’, quella pace non l’avevo trovata. Avevo fatto finta. Avevo passato diciassette anni della mia vita a far finta.

Tesi l’orecchio verso un rombo ancora lontano e, quando aprii la porta, il rombo si amplificò. Capii allora che gli spazzaneve si stavano avvicinando, e mi sembrò anche di avvertire una vaga eco di voci maschili.

Chissà se avrebbero ritrovato Ray quel giorno stesso. Era poco probabile. Mona avrebbe passato almeno un’altra notte da noi, mi dispiaceva solo che, a differenza della notte precedente, non avremmo dormito su un materasso nel living room.

Rivedevo la sua mano sul pavimento, quella mano che morivo dalla voglia di toccare, quasi fosse diventata un simbolo.

Tentavo di sottrarmi. Ma sottrarmi a che cosa?

Da poco più di ventiquattr’ore avevo scoperto che in realtà ero crudele, capace di gioire della morte di un uomo che avevo sempre considerato il mio migliore amico e, per giunta, capace di provocarla.

«Ci farai gelare...».

Richiusi bruscamente la porta e tornai dalle due donne, che nel frattempo si erano cambiate. Mona indossava un vestito rosso, mia moglie un vestito azzurro pallido. Sembrava che si sforzassero di riprendere la vita di tutti i giorni.

Ciò non toglie che era tutto falso.

3

Verso le quattro abbiamo scorto dalla finestra gli spazzaneve che attaccavano lentamente la neve scavando una trincea dalle pareti lisce come muraglie di roccia. Uno spettacolo affascinante. Nessuno di noi tre parlava. Guardavamo senza pensare a niente. Io, almeno, non pensavo a niente. Da sabato sera mi sentivo estraneo alla mia vita normale, ed estraneo alla vita in generale.

La cosa che ricordo meglio è la presenza di una femmina in casa. Sembrava quasi che la fiutassi, come un cane, che la cercassi non appena la perdevo di vista, che le gironzolassi attorno aspettando il momento buono per toccarla.

Avevo una voglia pazza, irragionevole, animale di toccarla. Mona se ne rendeva conto? Fuorché in un paio di occasioni, non parlava di Ray. Mi chiedo se anche lei non sentisse il bisogno di sfogarsi fisicamente.

E poi c’era Isabel, che ci teneva d’occhio entrambi, senza ansia, con solo una punta di stupore. Era talmente abituata all’uomo che ero stato per tanti anni che non aveva quasi più bisogno di guardarmi.

Adesso, però, sentiva che qualcosa era cambiato. Non poteva non sentirlo. Ma non poteva neppure capire di colpo.

Rivedo l’enorme spazzaneve emergere a pochi metri da casa nostra e continuare ad avanzare come se avesse intenzione di attraversare il living room. Ma il bestione si è fermato in tempo. Ho aperto la porta.

«Entrate a bere qualcosa...».

Erano in tre. E altri due sono scesi da un secondo spazzaneve. I cinque uomini sono entrati, in montone e stivaloni, tutti intirizziti, uno addirittura con i baffi ghiacciati. Bastò la loro presenza a raffreddare l’ambiente.

Isabel era andata a prendere dei bicchieri e una bottiglia di whisky. Gli uomini si guardavano intorno, stupiti dalla tranquilla intimità della casa. Poi guardarono Mona. Non Isabel, ma Mona. Chissà se anche loro, usciti dalla silenziosa battaglia con la neve, percepivano il calore della femmina...

«Alla vostra salute... E grazie per averci liberato...».

«Il tenente è in arrivo... È stato avvisato che la strada è sgombra...».

Erano persone che capita di vedere esclusivamente in circostanze particolari, come gli spazzacamini, e che per il resto del tempo vivono chissà dove. Solo un volto mi era familiare, ma non riuscivo a ricordare dove lo avessi già visto.

«Grazie a voi. Questo riscalda...».

«Un altro goccio?».

«Accetteremmo volentieri, ma abbiamo da fare...».

I mostri ripartirono pesantemente, avvolti in un pulviscolo bianco, e poco dopo, quando cominciava già a fare buio, vedemmo spuntare i pallidi fari di un’automobile in fondo alla trincea.

Dall’auto scesero due uomini in divisa, il tenente Olsen e un agente che non conoscevo. Andai io ad aprire la porta, mentre le due donne rimanevano sedute in poltrona.

«Buongiorno, tenente. Mi dispiace averla disturbata...».

«Nessuna notizia del suo amico?».

Andò a fare un piccolo inchino a Isabel, che aveva già incontrato varie volte. Gli presentai Mona.

«La moglie del mio amico Ray Sanders...».

Si accomodò sulla sedia che gli era stata avvicinata. Il suo compagno, giovanissimo, fece altrettanto.

«Permette, signora Sanders?...».

Tirò fuori dalla tasca una penna e un taccuino.

«Dunque, Ray Sanders... Indirizzo?...».

«Abitiamo a Sutton Place, a Manhattan».

«Che mestiere fa suo marito?».

«Dirige un’agenzia pubblicitaria di Madison Avenue, la Miller, Miller e Sanders...».

«Da molto?».

«Ha cominciato come consulente legale dei Miller e da tre anni è loro socio...».

«Consulente legale...» ripeté Olsen come per se stesso.

«Io e Ray abbiamo studiato insieme a Yale... Era il mio più vecchio amico...» precisai.

Intervento del tutto inutile.

«Eravate di passaggio?» domandò a Mona.

Fui io a rispondere:

«Ray e sua moglie sono passati a trovarci di ritorno dal Canada. Dovevano fermarsi da noi per il week-end...».

«Vengono spesso?».

Rimasi spiazzato da quella domanda, perché non ne capivo il senso. Al mio posto rispose Mona:

«Due o tre volte all’anno...».

Olsen la guardò con attenzione, come se il suo aspetto avesse importanza.

«Quando siete arrivati?».

«Sabato, verso le due del pomeriggio...».

«Non avete avuto problemi con la neve lungo la strada?».

«Un po’. Andavamo piano...».

«Signor Dodd, mi ha detto che ha portato i suoi amici dagli Ashbridge?».

«È esatto».

«Si conoscevano?».

«No. Come senz’altro saprà, quando il vecchio Ashbridge dà un party non sta certo a guardare se c’è una persona in più o in meno...».

Un mezzo sorriso affiorò sulle labbra del tenente, che sembrava saperla lunga sulle serate a casa degli Ashbridge.

«Suo marito ha bevuto parecchio?» domandò a Mona.

«Non sono stata sempre con lui... Comunque, sì, mi sembra che avesse bevuto molto...».

Ebbi l’impressione che Olsen avesse già preso informazioni, probabilmente facendo un giro di telefonate.

«E lei, signor Dodd?...».

«Ho bevuto, sì...».

Isabel mi guardava, con le mani incrociate sulle ginocchia.

«Più del solito?».

«Molto più del solito, lo ammetto...».

«Era ubriaco?».

«Non proprio, ma non ero neppure in condizioni normali...».

Chissà perché sentii il bisogno di aggiungere:

«Mi sarò ubriacato al massimo due volte in vita mia...».

Per esigenza di sincerità? Per sfida?

«Due volte!» esclamò Olsen. «In effetti non è molto».

«No».

«Aveva un motivo per bere tanto?».

«No... Ho cominciato con due o tre whisky, per mettermi al passo con gli altri, poi ho preso a vuotare tutti i bicchieri che mi capitavano a tiro... Sa come succede...».

Ero di nuovo me stesso, molto avvocatesco, e pesavo ogni parola.

«Il suo amico Ray ha bevuto con lei?».

«Ci siamo incrociati più volte... Abbiamo scambiato qualche frase, ci siamo ritrovati nello stesso gruppo e poi ci siamo separati di nuovo. La casa degli Ashbridge è grande e c’era un sacco di gente...».

«E lei, signora Sanders?».

Mona mi guardò come per chiedermi consiglio, poi guardò Isabel.

«Anch’io ho bevuto...» ammise.

«Molto?».

«Credo di sì... Sono rimasta con Isabel per un po’...».

«E con suo marito?».

«L’ho giusto intravisto due o tre volte...».

«Con chi era?».

«Con svariate persone che non conosco... Si è intrattenuto abbastanza a lungo con il signor Ashbridge, questo me lo ricordo, si erano appartati in un angolo a discutere...».

«Insomma, suo marito si è comportato come fa di solito in simili occasioni?».

«Sì... Perché?...».

Mi guardò di nuovo, stupita.

«Sono tenuto a farle queste domande. È la prassi in caso di scomparsa...».

«Ma è stato un incidente...».

«Non lo metto in dubbio, signora... Suo marito non aveva nessun motivo per suicidarsi, vero?...».

«Nessuno...».

Mona sgranò gli occhi.

«E neanche per sparire senza lasciare tracce?...».

«Perché mai avrebbe voluto sparire?».

«Avete figli?».

«No».

«Siete sposati da molto?».

«Dodici anni...».

«Per caso suo marito ha incontrato qualche vecchia conoscenza dagli Ashbridge?».

Cominciavo a sentirmi a disagio.

«Non che io sappia».

«Una donna?».

«L’ho visto in compagnia di diverse donne... È sempre molto corteggiato...».

«Nessun alterco? Non le viene in mente nessun fatto particolare?».

Mona è arrossita leggermente e sono convinto che sia al corrente di quello che è successo tra Ray e Patricia. Forse anche lei, come me, ha aperto un attimo la porta del bagno. O magari li ha visti uscire insieme...

«Siete stati tra gli ultimi ad andarvene?».

A questo punto era evidente che il tenente si era già informato.

«Dopo di noi sarà rimasta una mezza dozzina di persone...».

«Chi si è messo al volante?».

«Io».

«Devo riconoscere che, date le condizioni del tempo, se l’è cavata piuttosto bene. Quattrocento metri ancora ed eravate arrivati a casa...».

«Dopo il ponticello si formano sempre dei cumuli di neve...».

«Lo so...».

Da alcuni minuti avvertivo di nuovo un rombo all’esterno. Mi voltai verso la finestra e, nell’oscurità più completa, scorsi una ruspa in azione alla luce di un riflettore.

Olsen intuì la mia domanda inespressa.

«Per ogni evenienza, ho dato ordine di cominciare le ricerche nonostante il buio... Non si sa mai...».

Sapere cosa? Se Ray era ancora vivo?

«Dunque, siete scesi dall’auto e avete camminato al buio...».

«La torcia elettrica era quasi del tutto scarica. Ho preferito tenere le due donne davanti a noi...».

«È stato prudente».

Immobile sulla sua sedia, Isabel osservava ora l’uno ora l’altro, seguendo le battute sulle labbra di ciascuno: era un po’ come se sferruzzasse con gli occhi. Tesseva immagini che un giorno, forse, avrebbero formato un tutto perfettamente ordinato.

«Ci tenevamo strette...» disse.

«Gli uomini erano molto indietro rispetto a voi?».

«No, vicinissimi... Il rumore del vento era così forte che li sentivamo a stento quando ci chiamavano...».

«Non avete avuto difficoltà a trovare la casa?».

«In realtà non sapevo bene dov’ero... Credo di essermi diretta qui d’istinto...».

«E, voltandosi, riusciva a vedere la luce?».

«Un po’, all’inizio... Poi si è affievolita ed è scomparsa del tutto...».

«Suo marito dopo quanto tempo è arrivato?».

Isabel mi guardò come per consultarmi. Non era nervosa. E neppure sembrava trovare un po’ bizzarre quelle domande, date le circostanze.

«Forse un minuto? Ho fatto per accendere la luce e mi sono accorta che la corrente era saltata. Ho chiesto a Mona se aveva dei fiammiferi. Sono andata in sala da pranzo per accendere la candela di uno dei candelabri e in quel momento è entrato Donald...».

Chissà cosa annotava il tenente sul suo taccuino, e a che scopo? Adesso era a me che si rivolgeva.

«Ha trovato facilmente la casa?».

«Ci sono andato letteralmente a sbattere contro. Credevo di essere ancora a una certa distanza e cominciavo a temere di essermi perso...».

«E il suo amico?».

«Pensavo che fosse accanto a me... Insomma, a pochi metri... Ogni tanto facevo “He!, He!”...».

«E lui rispondeva?».

«Mi è sembrato di sentirlo varie volte, ma c’era un tale frastuono...».

«E dopo?».

«Quando ho visto che Ray non arrivava...».

«Quanto tempo ha aspettato?».

«Cinque minuti, direi».

«Avevate un’altra torcia elettrica in casa?».

«In camera nostra, sì... Ma non la usiamo praticamente mai, per cui non controlliamo lo stato delle pile e infatti anche quelle erano scariche...».

«È uscito da solo?».

«Mia moglie e Mona erano esauste...».

«E lei?».

«Anch’io...».

«Come si è orientato?».

«Come ho potuto. Ho pensato di girare in tondo, descrivendo cerchi sempre più ampi...».

«Non temeva di scivolare nella scarpata?».

«Pensavo di essere in grado di evitarla... Quando abiti in un posto da quindici anni... Sono caduto più volte in ginocchio...».

«È arrivato fino alla macchina?».

Guardai le due donne. Non ricordavo più che cosa gli avevo detto a riguardo. Avevo come un vuoto di memoria. Tentai il tutto per tutto.

«L’ho raggiunta per puro caso...».

«E naturalmente era vuota».

«Sì. Ne ho approfittato per riposarmi un attimo all’asciutto...».

«E il fienile?... Ha controllato che il suo amico non si fosse rifugiato nel fienile?».

Per la prima volta dall’inizio di quell’inatteso interrogatorio ho avuto paura. Sembrava quasi che Olsen sapesse qualcosa, qualcosa che io stesso non sapevo, e che cercasse di tendermi una trappola continuando a scarabocchiare sul suo taccuino con aria innocente.

«L’ho trovato per via della porta che sbatteva... Ho chiamato Ray a gran voce ma non ho avuto risposta...».

«È entrato?».

«Avrò fatto due o tre passi...».

«Capisco...».

Finalmente chiuse il taccuino e scattò in piedi in stile molto militaresco.

«Vi ringrazio tutti e tre e mi scuso del disturbo arrecato. Le ricerche andranno avanti tutta la notte, tempo permettendo...».

Poi, a Mona:

«Presumo che rimarrà qui, signora?».

«Be’... sì, certo...».

Dove altro poteva andare mentre cercavano il corpo del marito sepolto sotto cumuli di neve?

Abbiamo cenato. Mi ricordo che Isabel ha riscaldato degli spaghetti in scatola con polpette di carne.

Che giorno era? Lunedì. Non avevo fatto altro che ciondolare per l’intera giornata. Non ero andato in ufficio, anche volendo sarebbe stato impossibile, ciò non toglie che mi sentivo in colpa. Di solito la mattina andavo io a ritirare la posta. Le mie giornate si svolgevano secondo una routine ben precisa e alla quale ero affezionato. C’era un’ora per ogni cosa, quasi per ogni gesto.

Continuavo a percepire la presenza di Mona e mi domandavo se sarebbe successo. Non qui, probabilmente...

Perché no? Aveva appena perso il marito, e quelle sagome scure là fuori stavano cercando il suo corpo con le ruspe.

«Ray era una gran brava persona...».

Da sabato sera avevamo tutti e tre i nervi a fior di pelle, lei in particolare. Non sono proprio quelli i momenti in cui si prova il bisogno di gettarsi contro il petto di qualcuno?

Gli uomini, in guerra, si liberano delle loro paure mediante esplosioni di sessualità.

Se ci fossimo trovati soli in una stanza abbastanza a lungo e con la certezza di non essere disturbati da Isabel...

Non è successo niente. Ci siamo messi a guardare le ruspe alla finestra ed è già tanto se ho trovato il modo di sfiorarle il gomito.

Siamo andati a dormire, Mona per conto suo, io e Isabel in camera nostra.

«Che ne pensi di Olsen?».

La domanda mi sorprese, dal momento che indicava quale fosse il corso dei pensieri di mia moglie. Il fatto è che anch’io stavo pensando a Olsen.

«È un tipo in gamba. Passa per uno che conosce il suo mestiere».

Mi aspettavo che la conversazione proseguisse, ma Isabel tacque, senza svelare nient’altro di quello che le passava per la testa.

Solo più tardi, poco prima che spegnessimo la luce, ha mormorato:

«Non credo che Mona soffra molto...».

Risposi evasivamente:

«Chi può dirlo...».

«Sembravano così legati...».

Quella parola mi colpì. Legati! So che è un’espressione corrente, ma immagino che a forza di usarla non si faccia più caso al significato. Degli esseri, due esseri «legati»...

Non sarebbe più giusto dire «incatenati»?

«Buonanotte, Isabel».

«Buonanotte, Donald».

Come tutte le sere, mandò un sospiro che decretava la fine della giornata e il passaggio al riposo notturno. Un attimo dopo dormiva già, mentre io spesso faticavo un’ora buona a prendere sonno.

Mona era sola nella stanza degli ospiti. Chissà a che cosa pensava... Che cosa indossava? Sentivo lo sferragliare delle ruspe e immaginavo gli uomini intenti, per così dire, a passare al setaccio la neve.

Mi svegliai di soprassalto nel cuore della notte e, non sentendo più nulla, mi domandai se avessero trovato Ray. In tal caso sarebbero venuti ad avvertirci, no?

Restai immobile. Chissà se Isabel, nel dormiveglia, si era accorta che ero sveglio e se anche lei era in ascolto. Non si è mossa, ma il suo respiro si è fatto più silenzioso. Tutto era silenzio, tranne il ronzio di un motore in lontananza, in direzione dell’ufficio postale.

Ero in ansia, senza un motivo. Quella quiete improvvisa mi appariva come una minaccia e avvertii con sollievo il rumore della ruspa che si rimetteva bruscamente in moto.

Aveva avuto un guasto? Avevano dovuto aggiustarla o ingrassarla? Oppure gli uomini avevano semplicemente avuto bisogno di bere un goccio?

Mi sono riaddormentato, e quando ho aperto di nuovo gli occhi era giorno fatto. In casa regnava già l’odore del caffè, ma non ancora quello delle uova al bacon.

Mi sono alzato. Mi sono infilato la vestaglia, lavato i denti, dato una pettinata e, in pantofole, sono sceso in cucina, che era deserta. Deserti anche la sala da pranzo e il living room.

Immaginai che Isabel fosse da Mona e restai a guardare la ruspa che aveva girato intorno alla scarpata e adesso era in azione ai suoi piedi.

Dalla parte del fienile vidi spuntare una sagoma e fui stupefatto nel riconoscere mia moglie. In stivali di gomma e con il mio montone addosso, avanzava alla bell’e meglio nella neve alta.

Mi chiesi se mi avesse scorto dietro il vetro. Il living room era piuttosto buio, e io non avevo acceso la luce. Non so perché, ho preferito non farmi trovare lì al suo ritorno. Quella puntata al fienile aveva un che di furtivo e probabilmente era da ricollegare alle domande del tenente o alle mie risposte.

Battei in ritirata, tornai in camera nostra e feci scorrere l’acqua nella vasca.

 

 

Speravo, senza crederci troppo, che Isabel mi raggiungesse, perché ero impaziente di riprendere contatto con lei, di vedere se era cambiato qualcosa nel suo sguardo.

Lei aveva sentito scrosciare l’acqua. Ed evidentemente aveva anche sentito che Mona si era alzata, perché, quando entrai in cucina, sul fuoco c’erano le uova al bacon per tutti e tre e in sala da pranzo la tavola era apparecchiata.

«Buongiorno, Mona...».

Quella mattina indossava un abitino nero molto attillato e, forse perché aveva il viso stanco, si era truccata più del solito, in particolare gli occhi, il che le conferiva uno sguardo diverso.

«Buongiorno, Donald».

Baciai mia moglie sulla guancia.

«Buongiorno, Isabel».

Lei non ricambiava il bacio. Era una consuetudine – non ricordo più quando e come si è instaurata. Mi ricordava mia madre, che non mi baciava mai e mi porgeva distrattamente la guancia o la fronte.

Seppi immediatamente che Isabel aveva capito, così come sapevo, sin dal giorno prima, dall’interrogatorio del tenente Olsen, quale errore avevo commesso.

Per tutto il tempo che ero rimasto nel fienile, sulla panchina dipinta di rosso, avevo fumato una sigaretta dopo l’altra, accendendole con il mozzicone della precedente, che poi gettavo sulla terra battuta e spegnevo con la punta della scarpa. Ne avevo fumate almeno una decina.

Ecco cos’era andata a cercare nel fienile Isabel mentre io dormivo: la prova del mio passaggio, la prova che invece di andare alla ricerca di Ray ero rimasto lì per tutto il tempo.

Lei sapeva. Nei suoi occhi azzurri, però, non c’era nessuna accusa, nessuna durezza nuova. Solo stupore, curiosità.

E neppure mi guardava come se non mi riconoscesse più dopo quello che avevo fatto, eppure io ero diventato un altro, qualcuno che lei conosceva da tanto tempo senza essere mai riuscita a comprenderne la vera personalità.

Facendo colazione, sentivamo gli uomini al lavoro sotto la scarpata. Intrigata dalla qualità del nostro silenzio, Mona guardava ora me ora Isabel, e forse si chiedeva se mia moglie fosse gelosa.

Una piccola frase tradì il suo pensiero:

«Mi vergogno di disturbare così a lungo...».

«Non dica sciocchezze, Mona... Sa bene che consideriamo lei e Ray di famiglia...».

Ho mangiato in fretta, sulle spine. Alzandomi ho annunciato:

«Vado a vedere se riesco a mettere la macchina in garage...».

Mi sono infilato gli stivali, il montone e il cappello di pelliccia. Ho avuto l’impressione che Mona fosse lì lì per offrirsi di accompagnarmi, tanto per cambiare aria, ma non osò.

In basso, gli uomini lavoravano con maggiore riguardo dato che avevano raggiunto il punto in cui era più probabile trovare il corpo.

Imboccai la trincea che il terreno ghiacciato rendeva scivolosa, e provai un senso di liberazione nell’essere all’aria aperta, nel ritrovare un paesaggio che, per quanto mutato, mi era familiare.

Avevano addossato la mia auto alla parete di ghiaccio. Era ancora coperta di neve e dovetti ripulire il parabrezza. Chissà se il motore si sarebbe messo in moto. Mi sembrava che fosse trascorso un tempo lunghissimo e che si fossero prodotti sconvolgimenti di portata capitale.

La Chrysler ripartì subito, invece, e io la guidai con estrema cautela fin davanti al garage – un piccolo capanno di legno, dipinto di bianco, di fronte al fienile.

Per aprire la porta dovetti prima liberare un certo spazio con la pala e fu allora che vidi parcheggiata all’interno la Lincoln decapottabile con cui di Ray e Mona erano arrivati dal Canada sabato pomeriggio.

Qualche istante dopo entrai nel fienile, la cui grande porta giaceva a terra, divelta. Una larga striscia di neve si allargava all’interno, ma non raggiungeva i dintorni della panchina. Guardai a terra.

I mozziconi di sigaretta erano spariti.

 

 

Come entrai in casa cercai subito il suo sguardo e lei, anziché voltare la testa dall’altra parte, mi rivolse tranquillamente i suoi occhi. Cosa ci leggevo?

«Ma sì!... Lo so!... Mi era venuto il sospetto... Quando hai risposto a Olsen a proposito del fienile, ho capito... Sono andata a vedere e ho fatto in modo che nessun altro sapesse...».

Che nessun altro sapesse che ero un vigliacco? Credeva che mi fossi rifugiato nel fienile per viltà, perché avevo paura di perdermi in mezzo alla bufera?

Allora perché non c’era traccia di disprezzo nel suo sguardo? Non c’era neanche pietà. Né collera. Niente di niente.

Anzi no, qualcosa c’era. Curiosità.

«Hai avuto problemi con la macchina?» chiese a fior di labbra.

«No...».

«Non passi in ufficio?».

«Telefonerò a Helen per dirle di andare a ritirare la posta... Tanto non ce ne sarà, dubito che i furgoni abbiano circolato...».

Parlavamo a vuoto. Mi aveva visto entrare nel fienile. Non potevo non essermi accorto che aveva fatto sparire i mozziconi.

I piatti erano già stati lavati. Ci guardavamo, tutti e tre, senza sapere dove metterci e cosa fare. Mona avvertiva più che mai che stava succedendo qualcosa e, imbarazzata, annunciò:

«Vado a mettere in ordine la stanza...».

La donna di servizio non era venuta. Abitava dall’altra parte della collina e probabilmente la strada che arrivava in paese attraverso il bosco non era praticabile.

«Quasi quasi faccio un salto in ufficio...».

Era insopportabile starsene chiusi in casa ad aspettare che gli uomini rinvenissero il corpo. Cosicché tirai fuori la macchina che avevo appena messo in garage.

Una volta uscito dalla nostra proprietà trovai la strada più sgombra e con le tracce delle auto che erano già passate. A parte i grossi cumuli di neve ai lati della carreggiata, la strada principale aveva un aspetto pressoché normale.

Quasi tutti i commercianti si davano da fare con la pala per scavare un passaggio fino all’ingresso dei negozi. L’ufficio postale era aperto ed entrai rivolgendo all’impiegato il solito cenno di saluto, come se non fosse successo niente.

Nella nostra casella postale trovai qualche lettera e una manciata di volantini pubblicitari. Dopodiché mi avviai verso lo studio.

Anche lì era tutto come al solito. Higgins era nel suo ufficio e mi guardò con un certo stupore.

«Allora, l’hanno trovato?».

Aggrottai le sopracciglia.

«Il suo amico Sanders... Lo stanno ancora cercando in mezzo alla neve?...».

Cinque anni prima, al posto dei vecchi uffici, avevamo fatto costruire un grazioso edificio di mattoni rossi con le cornici delle finestre in pietra bianca. Anche la porta era bianca. Tutt’intorno c’era un prato ben curato che adesso, ovviamente, non si vedeva, ma in cui ogni anno, a cominciare dalla metà o dalla fine di marzo, spuntava l’erba.

Helen, la nostra segretaria, era intenta a battere a macchina nel suo ufficio e mi salutò senza interrompere il lavoro.

Tutto era calmo, in ordine, i miei volumi di diritto al loro posto nelle librerie di mogano. Le lancette dell’orologio elettrico avanzavano senza fare rumore.

Mi accomodai sulla mia poltroncina e aprii le lettere l’una dopo l’altra.

«Helen...».

«Sì, signor Dodd...».

Aveva venticinque anni ed era piuttosto carina. Era la figlia di un nostro cliente, un imprenditore edile, ed era sposata da sei mesi.

Sarebbe rimasta con noi se avesse avuto un bambino? Lei diceva di sì, ma io non ne ero tanto sicuro e prevedevo di dovermi mettere a cercare una sostituta.

Dettai tre lettere senza importanza.

«Le altre sono per Higgins...».

Chissà se Isabel era rimasta scossa. La nostra vita sarebbe stata scombussolata? Me lo chiedevo senza sapere se augurarmelo o no. L’esaltazione di quella notte nel fienile era scemata, ma ne restava ancora qualche traccia.

Mia moglie aveva ragione a guardarmi con curiosità. Non ero più lo stesso uomo. Higgins non se n’era accorto. E neppure la mia segretaria. Prima o poi, però, si sarebbero resi conto della trasformazione.

Continuavo a guardare l’ora come se avessi un appuntamento. E in effetti era così. Solo che l’orario non era stato fissato. Ero impaziente che le ricerche intorno a Yellow Rock Farm terminassero e che il corpo di Ray fosse rinvenuto. Ero impaziente di liberarmene.

E quando finalmente lo avessero trovato, che cosa ne avrebbero fatto? Non mi riguardava. Toccava a Mona decidere. E lei era occupata a rifare il letto e rassettare la sua camera.

Non c’erano giornali. Il treno da New York non era arrivato. Helen mi portò le tre lettere da firmare molto più in fretta di quanto mi aspettassi.

«Torno a casa... Per qualsiasi cosa, basta che mi telefoni...».

Passai da Higgins a stringergli la mano.

Una volta fuori pensai che sarebbe stata una buona idea comprare un po’ di carne ed entrai al supermercato.

«Lo hanno trovato il suo amico, signor Dodd?».

«Non ancora...».

«Pensare che cose del genere capitano vicino a casa nostra senza che nemmeno ce ne accorgiamo!... Avete avuto danni?...».

«Solo la porta del fienile...».

«A Cresthill una casa è stata spazzata via... È un miracolo che non sia morto nessuno...».

La nostra donna di servizio abitava a Cresthill.

Chiacchieravo, mi guardavo intorno, facevo i gesti di tutti i giorni, e intanto non riuscivo a non chiedermi:

«Che cosa pensa?».

Per come la conoscevo, non ne avrebbe fatto parola. La vita sarebbe continuata come al solito, con quel segreto tra noi. Ogni tanto avrei sentito il suo sguardo posarsi su di me, e probabilmente vi avrei letto lo stesso stupore.

Svoltando a sinistra per imboccare il vialetto notai che le ruspe non erano più in azione e poco dopo scorsi in lontananza le due donne che uscivano di casa in stivali e montone. Ai piedi della scarpata alcuni uomini attorniavano una sagoma distesa.

Avevano trovato Ray. Parcheggiai la macchina in garage. Ero calmo. Non avevo il minimo rimorso. Al contrario, provavo un immenso sollievo.

Le donne mi aspettarono per scendere la china. Presi entrambe per mano, il che però non ci impedì di cadere e quelli delle ruspe dovettero tirarci su.

Ray sembrava sorridere sotto il sottile velo di neve che gli ricopriva ancora il viso e gli imbiancava i capelli. La gamba destra era piegata e uno degli uomini ci disse che era fratturata.

Mi chiedevo come avrebbe reagito Mona. Non si gettò sul corpo. Forse per un attimo ne aveva avuto l’impulso, perché fece due o tre passi avanti. Poi però si fermò e restò a guardare, rabbrividendo. Mia moglie era alla sua destra, io alla sua sinistra.

Fu verso di me che si inclinò leggermente, appoggiandomisi appena appena alla spalla e al fianco, come se cercasse il mio calore. Allora, lanciando un’occhiata a Isabel, le passai un braccio intorno alle spalle.

«Coraggio, Mona...».

Era un gesto del tutto naturale. Lei era la moglie del mio migliore amico. Gli uomini intorno a noi non ci trovarono nulla di sconveniente. E neppure Mona che, al contrario, si strinse a me ancora di più.

Solo io ritenni necessario lanciare a Isabel un’occhiata di sfida.

Si trattava di una tappa ulteriore, come se, con quel gesto apparentemente semplice, le dichiarassi di essermi affrancato.

Isabel non si scompose, si voltò di nuovo verso il corpo e lo contemplò a mani giunte, come quando, al cimitero, si resta a guardare la bara che viene calata nella fossa.

«Volete trasportarlo in casa?».

Il caposquadra si fece avanti.

«Il tenente si è raccomandato di non fare niente finché non arriva lui...».

«Gli ha telefonato?».

«Sì. Avevo precise istruzioni».

Non potevamo starcene lì al freddo, mezzo sprofondati nella neve, in attesa che arrivasse il tenente da Canaan.

«Venga, Mona...».

Mi aspettavo che protestasse, invece si lasciò condurre via e dovemmo aiutarci a vicenda per risalire la china. Non le cingevo più le spalle con il braccio, ma l’avevo fatto. Era già una vittoria.

«Immagino che sia scivolato» disse Mona una volta in cima. «Povero Ray...».

Avanzavamo tutti e tre, tre sagome scure su quello sfondo bianco, e pensai che doveva essere una scena grottesca. Intanto, in basso, gli uomini facevano ripartire la ruspa per riportarla sulla strada e spostarsi presumibilmente a lavorare da un’altra parte.

«Ti dispiace preparare un po’ di caffè, Isabel?».

La seguimmo in cucina dove mise a bollire l’acqua. Fu lei a domandare:

«Che cosa farai, Mona?».

«Non lo so».

«Ha dei parenti?».

«Un fratello diplomatico in Germania...».

«Non ti ha mai detto niente?».

«A che riguardo?».

«Alle disposizioni da prendere in caso di...».

Con calma cercò le parole e le trovò.

«... in caso di incidente...».

«Non parlava mai di queste cose...».

«È per decidere che disposizioni prendere» continuò Isabel, facendosi carico del compito più ingrato. «Credi che abbia lasciato un testamento?».

Io e Mona rispondemmo di no nello stesso istante.

«Se Ray avesse fatto testamento,» spiegai «si sarebbe rivolto a me e me l’avrebbe affidato...».

«Pensi che avrebbe preferito essere cremato, Mona?».

«Non lo so...».

Ci spostammo nel living room, ciascuno con la propria tazza di caffè in mano, e dalla finestra vedemmo arrivare l’auto della polizia. Il tenente Olsen e un altro agente in divisa scesero ai piedi dello sperone di roccia.

Meno di dieci minuti dopo il tenente si presentò alla porta di casa e si tolse il berretto.

«Le faccio le mie condoglianze, signora Sanders...».

«Grazie...».

«È andata proprio come ha ipotizzato lei, signor Dodd... Ha deviato verso la scarpata ed è scivolato, fratturandosi una gamba nella caduta...».

Gli avevo detto così? Non me lo ricordavo più. Mi sembrava che anche lui mi guardasse in un modo diverso.

«Farò portare il corpo direttamente all’agenzia di pompe funebri. Lei, signora, dovrà solo dare istruzioni...».

«Sì...» mormorò Mona, che non sembrava capire che cosa ci si aspettasse da lei.

«Dove intende farlo seppellire?».

«Non lo so...».

«A Pleasantville...» suggerii.

Era il grande cimitero di New York.

«Forse...».

«Suo marito ha dei parenti?».

«Un fratello, in Germania...».

E rieccoci daccapo. Parole. Labbra che si muovevano. Io, però, non ascoltavo le parole. Guardavo gli occhi. Credo di aver sempre guardato gli occhi. O meglio, credo di averne sempre avuto un po’ paura.

A cominciare dagli occhi di Isabel. Quelli li conoscevo bene. E, già dalla mattina, ero consapevole dello stupore che esprimevano.

Eppure era lei a spiare il tenente. Si era accorta che ogni tanto mi lanciava delle occhiate di sottecchi, come se qualcosa in quella storia lo lasciasse perplesso.

Sono convinto che se il tenente mi avesse attaccato lei sarebbe intervenuta in mia difesa. Si sarebbe detto che non aspettasse altro.

Quanto a Mona, ogni volta che il tenente le faceva una domanda si voltava verso di me, come se fosse naturale per lei cercare il mio sostegno. Era talmente smaccato, c’era una tale fiducia, un tale abbandono nel suo atteggiamento che Olsen avrà certamente pensato che tra noi due dovesse esserci un rapporto di intimità.

Per questo era meno cordiale nei miei confronti? Un po’ sprezzante, avrei detto.

«La lascio provvedere al necessario. Per quanto mi riguarda la faccenda è chiusa. Sono davvero desolato che sia capitata una simile tragedia qui da noi...».

Si alzò, si inchinò davanti alle due donne e mi tese la mano. Non sono tanto sicuro, però, che lo facesse di buon grado.

C’è sotto un mistero. O i suoi uomini hanno trovato qualcosa di anomalo che mi mette in una posizione compromettente, oppure Olsen mi disprezza perché mi crede l’amante della moglie del mio migliore amico.

Sospetta forse che io abbia approfittato dell’occasione per spingere Ray giù dalla scarpata?

Non ci avevo ancora pensato. Eppure era così plausibile, così semplice! Perché, sennò, avrei mandato avanti le due donne, quando ero io a reggere l’unica torcia a disposizione, per quanto scarica?

Nessuno più di me ha dimestichezza con la scarpata, giacché si trova nella mia proprietà, di fronte alle finestre di casa. Avrei potuto tenere Ray per il braccio, farlo deviare verso destra e al momento buono dargli una spinta...

Mi spaventai al pensiero che Olsen avrebbe potuto scoprire i mozziconi di sigaretta davanti alla panchina nel fienile. Chissà se avrebbe tratto le stesse conclusioni di Isabel...

Ma a quali conclusioni era giunta Isabel? Che prove avevo che non pensasse, per l’appunto, che avevo spinto giù Ray?

In tal caso, il suo silenzio equivaleva a una sorta di complicità... La difesa della sua famiglia, delle nostre due figlie...

Mi seguì con lo sguardo quando andai ad aprire il mobile bar.

«Un bicchierino le farà bene, Mona... Ne vuoi uno anche tu, Isabel?...».

«No, grazie».

Andai in cucina a prendere del ghiaccio e due bicchieri. Porgendole il suo, dissi a Mona:

«Coraggio, Mona, mia cara...».

Come a impadronirmene. Stavolta se ne accorse ed ebbe un lieve moto di sorpresa. Era la prima volta che la chiamavo «mia cara».

«Vado a telefonare alle pompe funebri» annunciò Isabel avviandosi in biblioteca, dove si trovava uno dei due apparecchi di casa.

Aveva fatto apposta a lasciarci soli?

Dopo aver bevuto un sorso, Mona si voltò verso di me con un sorriso un po’ triste sulle labbra.

«Lei è molto gentile, Donald...».

Poi, dopo aver lanciato un’occhiata nella direzione in cui Isabel si era allontanata, fece per aggiungere qualcosa, ma ci rinunciò.

4

Il funerale si è tenuto giovedì mattina e non si è svolto come me l’ero immaginato quando eravamo ancora tutti e tre isolati in casa nostra.

Evidentemente le catastrofi funzionano come le malattie. All’inizio uno si aspetta che la guarigione sarà un processo lungo, che la vita non sarà più la stessa, poi si accorge che pian piano la routine riprende il sopravvento.

Alle dieci, davanti all’agenzia di pompe funebri Fred Dowling, a meno di cento metri dal mio studio, c’erano più di venti macchine, tra cui due cariche di giornalisti e fotografi di New York.

Il giorno prima si erano presentati a casa e avevano insistito perché Mona si mettesse in posa nel punto dove era stato rinvenuto il corpo di Ray.

Anche Bob Sanders era arrivato il giorno prima, da Bonn. Isabel lo aveva invitato a fermarsi a dormire da noi, nella camera di una delle ragazze, ma lui aveva già prenotato una stanza all’Hotel Turley.

Era più alto, più magro e più spigliato di Ray. Aveva un modo di fare ancora più disinvolto del fratello e non mi piaceva il suo sorriso di sufficienza.

Lo avevo incontrato varie volte ai tempi dell’università, ma era molto più giovane di noi e non gli avevo mai prestato attenzione.

Con Mona era andato piuttosto per le spicce.

«Com’è successo? Aveva bevuto?».

«Non più del solito...».

«Si era messo a bere molto?».

Ray aveva cinque anni più di lui e suo fratello ne parlava un po’ come un giudice che deve emettere un verdetto.

«No... Un paio di martini prima di mettersi a tavola...».

Era nato vicino a New Haven e conosceva il nostro clima. Doveva averne viste di tempeste di neve, certo meno violente di quella del sabato precedente, ma in grado comunque di paralizzare ogni attività.

«Come mai ci hanno messo tanto a trovarlo?».

«In certi punti c’erano oltre due metri di neve...».

«Che disposizioni avete preso?».

Neanche io gli piacevo. Ogni tanto mi lanciava uno sguardo accigliato, pensando probabilmente che ero stato molto solerte nel prendere Mona sotto la mia protezione.

Già, perché lo facevo apposta, e in modo ostentato. Le stavo accanto e rispondevo io alla maggior parte delle domande, cosa che, lo sentivo, esasperava Bob Sanders.

«Chi avete avvisato?».

«I suoi soci, naturalmente...».

«Siete stati voi a informare la stampa?».

«No... Dev’essere stato qualcuno in paese, forse uno dei poliziotti... Uno scotch?».

«No, grazie... Non bevo...».

All’aeroporto aveva noleggiato una macchina senza autista. Era sposato. La moglie e i tre figli vivevano con lui a Bonn. Era venuto da solo. Credo che lui e Ray non si vedessero da parecchi anni.

I fratelli Miller non si presero neanche la briga di passare da casa e solo nella camera mortuaria si avvicinarono a Mona per presentarle le condoglianze.

Io conoscevo uno dei due, Samuel. Una volta avevo pranzato con lui e Ray a New York. Un uomo sulla sessantina, calvo e gioviale.

Mi si avvicinò per chiedermi sottovoce:

«Sa chi si occuperà della successione?».

«La cosa riguarda Mona...».

«Non gliene ha parlato?».

«Non ancora...».

Interpellò anche il fratello di Ray, al quale fece evidentemente la stessa domanda, perché vidi Bob Sanders scuotere la testa.

Mona era al volante della sua macchina, dal momento che da Pleasantville sarebbe rientrata direttamente a New York. Io avevo suggerito che fosse Isabel a guidare, Mona non aveva voluto, ma aveva accettato che lei le stesse accanto.

Dietro di loro veniva l’auto del fratello, poi la mia e quindi la limousine con al volante l’autista dei fratelli Miller, che sembravano gemelli.

Seguivano altri di Madison Avenue, compresa la segretaria di Ray, una rossa statuaria che sembrava più affranta di Mona.

Molta gente che non conoscevo. Non erano state mandate partecipazioni, ma i giornali avevano pubblicato l’annuncio con l’ora e il luogo delle esequie.

Ai lati della strada, a me familiare, c’erano ancora grossi cumuli di neve e dopo qualche chilometro spuntò anche il sole.

Il giorno precedente, quando eravamo rimasti soli nel living room mentre Isabel era uscita per delle commissioni, Mona mi aveva fatto una strana confidenza.

«Lei è l’unico a cui possa parlarne, Donald... Mi domando se Ray non l’abbia fatto apposta...».

Non avrebbe potuto uscirsene con un’affermazione più sconcertante.

«Intende dire che si sarebbe suicidato?».

«Non mi piace quel termine... Diciamo che avrebbe potuto aiutare la sorte...».

«Aveva qualche preoccupazione?».

«Non sul lavoro... In quel campo aveva più successo di quanto avesse mai sperato...».

«Nella vita sentimentale?».

«Nemmeno... Eravamo buoni amici, noi due... Ray mi raccontava tutto... O quasi tutto... Non recitavamo la commedia tra noi...».

Quella frase mi colpì. Esistevano dunque persone che riuscivano a essere naturali l’una con l’altra? Era forse questo che Isabel cercava da tanti anni nel mio sguardo? Voleva che mi aprissi con lei? Che le confessassi una buona volta tutto quello che avevo sullo stomaco?

«Avventure ne aveva parecchie... A cominciare dalla sua segretaria, Hilda, una ragazzona con i capelli rossi...».

Era quella che avrei visto in una delle auto del corteo funebre.

«È difficile da spiegare, Donald... Mi chiedo se non fosse invidioso di lei...».

«Di me?».

«Avete fatto gli stessi studi... Ray avrebbe potuto diventare avvocato... Era la sua ambizione quando ha cominciato a lavorare a New York... Poi è entrato come consulente legale in quell’agenzia pubblicitaria... Ha cominciato a far soldi e ha capito che avrebbe guadagnato di più vendendo contratti...

«Capisce cosa voglio dire?... È diventato un uomo d’affari... Abbiamo affittato uno dei più begli appartamenti di Sutton Place e tutte le sere avevamo gente a cena oppure uscivamo...

«Alla fine Ray non ne poteva più...».

«Glielo ha detto lui?».

«Una sera che aveva bevuto mi ha confessato che un giorno o l’altro si sarebbe stufato di fare il fantoccio... Sa com’è finito suo padre...».

Eccome, se lo sapevo. Ai tempi di Yale mi capitava spesso di passare i week-end a casa di Herbert Sanders e lo conoscevo benissimo.

Il padre di Ray era libraio, un libraio molto particolare. Non aveva un negozio in città, ma abitava in una casa in puro stile New England lungo la strada per Ansonia, e le stanze al pianoterra erano interamente tappezzate di libri.

Arrivavano clienti non solo da New Haven, ma da Boston, da New York e da più lontano ancora, e inoltre riceveva numerosi ordinativi per corrispondenza.

Corrispondeva con la maggior parte dei paesi del mondo per tenersi aggiornato su tutto quel che si pubblicava nell’ambito della paleontologia, dell’archeologia e delle arti, in particolare le arti preistoriche.

Aveva altre due fissazioni: le opere su Venezia e i libri di gastronomia, di cui si vantava di avere sugli scaffali più di centosessanta titoli.

Uno strano personaggio, che ricordavo ancora: giovane, distinto, con un sorriso ironico e indulgente al tempo stesso.

La sua prima moglie, la madre di Ray e di Bob, l’aveva piantato per sposare un grande possidente texano. Per parecchi anni aveva vissuto da solo, guadagnandosi la fama di donnaiolo.

Poi, di punto in bianco, aveva sposato una polacca sbucata fuori dal nulla, una splendida ragazza di ventott’anni.

Lui ne aveva cinquantacinque. Tre mesi dopo il matrimonio, una sera che sua moglie era uscita, si è sparato un colpo in testa, circondato dai suoi libri, senza lasciare nessun biglietto, nessuna spiegazione.

Mona ripeté:

«Capisce adesso cosa voglio dire?».

Mi rifiutavo di ammettere quella verità. Ray doveva restare l’uomo che mi ero sempre immaginato, inflessibile con se stesso e con gli altri, freddo e ambizioso, l’uomo tosto sul quale mi ero vendicato di tutti gli uomini tosti della terra.

Non potevo accettare l’idea di un Ray disgustato dai soldi, dal successo.

«Ma no, Mona... Si sbaglia... Sono convinto che Ray era felice... Sa, dopo qualche bicchiere, si tende a diventare sentimentali...».

Lei mi osservava, incerta se credermi o no.

«Cominciava a non poterne più...» insisteva. «Per questo si è messo a bere... E io con lui...».

Dopo un attimo di esitazione, aggiunse:

«Qui non osavo, per via di Isabel...».

Si morse il labbro, come temendo di avermi offeso.

«Isabel le incute soggezione?».

«A lei no? Anche a Ray faceva lo stesso effetto. E per lei, Donald, provava ammirazione...».

«Ammirazione?».

«Diceva che lei si era scelto la sua vita in modo oculato, giudizioso, e non aveva bisogno di stordirsi, di uscire tutte le sere, di lasciarsi trascinare in avventure...».

«Non mi prendeva in giro?».

Ero sbigottito. Il capovolgimento era totale.

«Secondo lui, un uomo capace di sposare Isabel, di vivere con lei giorno dopo giorno...».

«Perché? Le ha detto perché?».

«Ma non capisce?».

Si stupiva della mia ingenuità e di colpo mi fu chiaro l’atteggiamento che Mona aveva avuto verso di me negli ultimi giorni. Per lei, quello tosto ero io, non Ray.

E, con assoluta naturalezza, aveva cercato la mia protezione. Quando mi guardava, sprofondata in poltrona, quando mi sfiorava con la spalla, non era solo un gesto animale.

«Vi ho osservati spesso, Donald... Con Isabel non si può barare... E non ci si può nemmeno abbassare al di sotto di se stessi, fosse anche per un istante... È una donna eccezionale e bisogna essere una persona eccezionale per starle accanto...».

Sono rimasto così scombussolato che ci ho messo più di due ore a prendere sonno.

«Ray aveva alti e bassi, come tutti... Non mi abbandonerà, vero, adesso che lui non c’è più?...».

«Ma, Mona, al contrario, mi chiedo...».

Sono stato lì lì per alzarmi e precipitarmi da lei, prenderla tra le braccia. Ero commosso, eccitato, euforico.

«Sst!... Eccola...».

In mezzo alla neve spuntò la piccola Volkswagen che avevo comprato a mia moglie per sbrigare commissioni nei dintorni. Guardai da lontano Isabel che usciva dal garage, con la sporta della spesa in mano, il viso liscio, la pelle chiara, gli zigomi sempre un po’ rosei e gli occhi azzurri, quegli occhi che non ammettevano inganno o menzogna.

Mi toccava rimettere tutto in discussione. Ray mi aveva ammirato. Era quella la notizia più sconvolgente.

Anche Mona mi ammirava, a modo suo lo aveva appena confessato. E io, razza di stupido, quella domenica pomeriggio non avevo osato allungare la mano sul parquet per toccare quella mano che mi tentava così tanto!

Mona parlava del mio rapporto con Isabel, ma non poteva sapere che io ormai ero libero. Anch’io avevo ammirato mia moglie. Avevo avuto finanche paura di lei, paura di uno sguardo accigliato, di un’ombra nei suoi occhi limpidi, di un giudizio sottaciuto.

Perché Isabel non mi ha mai fatto un appunto sgradevole. Non mi ha mai rivolto un rimprovero.

Mi sarà ben capitato di essere sgarbato, ingiusto, ridicolo o che so io, con lei o con le nostre figlie.

Neanche una parola. Il suo sorriso era indelebile. Non era che una questione di occhi. E nessuno se ne sarebbe accorto. I suoi occhi rimanevano limpidi e sereni.

Chissà cosa avrebbe pensato Mona se le avessi confessato:

«Non ho sposato una donna, ho sposato un giudice...».

Ray lo aveva capito e probabilmente, più che ammirarmi, mi compativa! A meno che non si fosse sbagliato su tutta la linea.

Credeva che avessi sposato Isabel perché ero uno tosto, capace di accettare il confronto.

Era il contrario. Accanto a lei continuavo a stare attaccato alle sottane di mia madre. Restavo uno scolaretto. Restavo un boy-scout.

Peggio per Ray. Non provavo alcun rammarico, mi sentivo solo un po’ defraudato del mio senso di colpa. Avrei voluto averlo ucciso sul serio, essermi augurato la sua morte, aver dato, per quanto possibile, una mano al destino.

Se Ray non aveva neanche cercato di reagire, se aveva accolto con sollievo la morte, il dramma che avevo vissuto quella notte nel fienile, seduto sulla panchina, non aveva più alcun senso.

Avevo bisogno che la mia ribellione fosse assoluta, intenzionale.

Nonostante quel che pensava la gente, non ero un pecorone. Ero un uomo crudele, cinico, capace di lasciar morire il mio migliore amico senza alzare un dito.

Mentre lui agonizzava lentamente in mezzo alla neve, con una gamba rotta, io fumavo una sigaretta dopo l’altra pensando a tutte le volte che, senza accorgersene, mi aveva umiliato... E non solo lui!... Anche Isabel!... Nella mia mente le loro due immagini tendevano un po’ a confondersi...

Il corteo funebre rallentò due o tre volte. Cercavo di individuare l’auto di Mona al di là di quelle che ci separavano.

Ero innamorato di lei? In quel momento ero in grado di interrogarmi con franchezza, senza mentire a me stesso, senza imbrogliare.

La risposta era no. Non ero innamorato. Se un domani ne avessi avuto la possibilità, non l’avrei sposata. E neppure avevo voglia di vivere con lei giorno e notte, di legare la mia vita alla sua.

Quello che volevo, quello che presto sarebbe successo, era fare l’amore con lei.

Non con tenerezza. E nemmeno in modo appassionato. Magari in piedi, come Ray e Patricia nel bagno del vecchio Ashbridge.

Volevo prendere una femmina, così, una botta e via, e per me Mona era una vera femmina.

Siamo arrivati al cimitero. Le auto hanno imboccato una serie di viali in quella metropoli per morti, e siamo approdati a un nuovo quartiere in cima alla collina.

C’era neve ovunque. Gli alberi avevano un aspetto natalizio. Nessuno portava gli stivali, e andammo dietro al feretro battendo i piedi per terra.

Il pastore fu stringato. Nessun altro prese la parola. I fratelli Miller andarono a mettersi in prima fila, per via dei fotografi, io mi avvicinai a Mona e la sostenni leggermente per il gomito.

Bob Sanders lo notò. Mi superava di tutta la testa e mi guardava dall’alto, con una punta, così mi parve, di sdegnoso disprezzo.

Soltanto qualche giorno prima mi sarei sentito sprofondare dalla vergogna. Oggi mi era indifferente. Così come mi era indifferente che mia moglie mi osservasse con un certo stupore, senz’altro sorpresa dall’audacia del mio gesto.

Tornammo alle auto. Io camminavo accanto a Mona, continuando a sorreggerla per il braccio come se ne avesse bisogno, anche se era calmissima. Bob Sanders la raggiunse a grandi passi, incurante della mia presenza.

«Sono costretto ad accomiatarmi, il mio aereo parte tra meno di due ore... Per qualsiasi necessità, per eventuali formalità da sbrigare, questo è il mio indirizzo a Bonn...».

Le porse un biglietto da visita che Mona infilò nella borsetta.

«Coraggio...».

Le strinse la mano con piglio quasi militare e si allontanò a passo spedito. La sua auto fu la prima a lasciare il cimitero.

«Si direbbe che lei non gli piaccia...».

Era andato via senza salutarmi.

«Già... Suppongo che si sia fatto strane idee...».

Isabel ci raggiunse.

«Tornerai a New York da sola, Mona?».

«Perché no?».

«Non sarà troppo duro stare in un appartamento vuoto?».

«C’è Janet, la cameriera, ad aspettarmi...».

Isabel mi guardò. Sembrava quasi che mi avesse dato l’imbeccata. Avrei potuto proporre a Mona di accompagnarla e tornare indietro la sera stessa in treno.

Invece non la invitai nemmeno a mangiare un boccone con noi. In compenso, nel momento in cui stava per salire sulla sua Lincoln la baciai su tutte e due le guance stringendole forte le braccia.

«Arrivederci, Mona...».

«Arrivederci, Donald... Grazie... Presumo che avrò bisogno di lei per le varie formalità, le pratiche di successione, o che so io?...».

«Non dovrà fare altro che chiamarmi in ufficio...».

«Arrivederci, Isabel... Grazie anche a te... Non so come avrei fatto senza di voi...».

Si baciarono. Non appena l’auto di Mona si fu allontanata, uno dei fratelli Miller mi si avvicinò.

«È lei il suo avvocato?».

«Suppongo di sì...».

«Ci saranno alcune faccende complicate da sistemare... Non le dispiace darmi il suo numero di telefono?».

Gli allungai un biglietto da visita.

Io e Isabel ci siamo ritrovati da soli nella Chrysler.

«Hai intenzione di fermarti a mangiare lungo la strada?».

«No, non ho fame».

«Nemmeno io».

Io ero al volante, lei mi era accanto, come al solito, e con la coda dell’occhio vedevo confusamente il suo profilo.

Dopo un buon quarto d’ora di silenzio, Isabel ha detto:

«Che pensi del modo in cui si è svolto?».

«Il funerale?».

«Sì... C’è stato qualcosa che mi ha messo a disagio... Ho avuto l’impressione che la cerimonia mancasse di armonia, di ordine... Non ho avvertito la minima commozione... Credo che nessuno fosse commosso, neanche Mona... È vero che ancora non se ne rende conto...».

Io non dissi niente, mi accesi una sigaretta.

«Il momento più difficile sarà il rientro a casa...».

Continuavo a stare zitto. Era lei, adesso, che provava il bisogno di rompere il silenzio.

«Mi sono chiesta se non fosse il caso che tu la accompagnassi...».

«Se la caverà benissimo da sola».

«Ti occuperai tu della successione?».

«Mi ha pregato lei di farlo. Anche i Miller si metteranno in contatto con me...».

«Credi che avrà di che vivere?».

«Agiatamente, ne sono convinto...».

Ero tosto? Ero debole? Ero furbo? Ero ingenuo? Ero crudele? Ero vigliacco? Questo cercavano di scoprire gli altri. Finanche Isabel, che non si raccapezzava più e probabilmente si chiedeva come mai dopo la faccenda dei mozziconi di sigaretta non mi mostrassi più umile, se non addirittura spaventato.

A casa ci siamo accontentati di un panino in cucina. Erano le tre.

«Esci?» ho chiesto.

«Tra poco vado a fare la spesa...».

Mi faceva uno strano effetto ritrovarci da soli a casa. In quei pochi giorni avevo perso l’abitudine e mi chiedevo come ci saremmo comportati a tu per tu.

Sono andato in ufficio. Higgins mi aspettava.

«Voglio sperare che si sia accaparrato la successione Sanders!».

«Fornirò sicuramente a Mona Sanders la mia consulenza, ma a titolo privato e gratuito».

Higgins fece una smorfia.

«Peccato... Deve trattarsi di una bella cifra...».

«Non ne ho la minima idea... È possibile, però, che i fratelli Miller si rivolgano a me per la liquidazione della quota societaria, e allora la cosa sarà diversa...».

«È andato tutto bene?».

«Come al solito...».

Non avrei saputo descrivere cos’era successo al cimitero, per la semplice ragione che avevo la testa altrove e pensavo solo a Mona.

Una volta nel mio ufficio fui lì lì per prendere il telefono e chiamarla per assicurarmi che fosse rientrata senza problemi, ma soprattutto per sentire la sua voce.

Eppure, lo ripeto, non ne ero innamorato. So che è difficile da capire, ma forse riuscirò a spiegarmi.

Per due ore buone mi sono occupato giustappunto di una successione. Il de cuius era stato così meticoloso nell’eludere il fisco che era quasi impossibile riuscire a fare una stima dei suoi beni e stabilirne la ripartizione tra gli eredi. Studiavo la pratica da diverse settimane.

Mentre dettavo alcune lettere a Helen mi chiesi come mai, prima che lei si sposasse, non mi fosse venuto in mente di farle la corte. Le guardavo eccome, le belle ragazze, comprese le mogli di certi amici. Mi capitava di averne voglia. Ma la cosa restava, per così dire, sul piano teorico.

Era proibito. Da cosa? Da chi? Non mi ponevo neppure la domanda.

Ero sposato. C’era Isabel, con i suoi occhi di un azzurro così limpido, con il suo portamento così calmo e disinvolto.

Isabel e le nostre figlie. Volevo bene alle nostre due figlie, Mildred e Cecilia, e quando Mildred, la maggiore, era entrata in collegio, mi era mancato, la sera, andarle a dare il bacio della buonanotte.

Adesso, tranne due week-end al mese, non avevo più motivo di salire al piano di sopra. Mildred aveva quindici anni.

Se si sposava giovane, entro tre, quattro, cinque anni al massimo, la sua stanza sarebbe stata la prima della casa a restare vuota.

Poi sarebbe toccato a Cecilia, giacché il tempo passava sempre più in fretta. Gli ultimi cinque anni, per esempio, mi sembravano più brevi di uno solo di quelli che avevo vissuto tra i dieci e i vent’anni.

Forse perché erano meno pieni?

Dettavo. Pensavo. Guardavo Helen domandandomi se fosse già incinta e, in tal caso, con chi l’avremmo sostituita. Ray si portava a letto la sua segretaria. Si portava a letto tutte le donne che gli capitavano a tiro.

Ed era lui che Mona compativa. Era depresso perché non trovava nella vita quello che aveva sperato. Allora beveva e correva dietro alle donne... Povero Ray!...

Chissà se Helen si rendeva conto di avere di fronte un uomo nuovo. E Higgins? Chissà se tutti quelli che avrei incontrato si sarebbero accorti di avere di fronte un altro Donald Dodd.

I miei gesti, i miei modi non erano cambiati. E neppure la mia voce, va da sé. Il mio sguardo, però... Possibile che il mio sguardo fosse rimasto uguale?

Andai a piazzarmi davanti allo specchio del bagno. Anche i miei occhi sono azzurri, di un azzurro più intenso di quelli di Isabel, con screziature brune, mentre i suoi sono davvero del colore di un cielo primaverile quando non c’è un filo di umidità nell’aria.

Mi feci beffe di me stesso.

«Bel risultato!... E adesso che farai?».

Niente, sarei andato avanti. Di sicuro avrei fatto l’amore con Mona, senza tante complicazioni.

Sabato mattina, o venerdì sera, io o Isabel, o tutti e due insieme, saremmo andati a prendere le ragazze a Litchfield. In macchina, avremmo formato il classico quadretto della famiglia unita.

Peccato che io, alla famiglia, non ci credevo più. Non credevo più a niente. Non credevo né in me né negli altri. Non avevo più fiducia nell’umanità, insomma, e cominciavo a capire perché il padre di Ray si era cacciato una pallottola in testa.

Magari un giorno sarebbe potuto succedere anche a me... Era confortante tenere una pistola nel cassetto del comodino.

Il giorno in cui non me la fossi più sentita di girare a vuoto, un gesto e fine.

Isabel se la sarebbe cavata benissimo con le ragazze e avrebbero potuto contare su una cospicua polizza di assicurazione...

Nessuno mi leggeva in faccia questi pensieri. Ci si abitua talmente alle persone che continuiamo a vederle come le abbiamo viste la prima volta.

Io stesso non mi rendevo conto che Isabel aveva passato la quarantina e che i suoi capelli cominciavano a ingrigire. Dovevo fare uno sforzo per convincermi che entrambi avevamo superato la mezza età e presto saremmo diventati due vecchi.

Del resto non ero già un vecchio per le mie figlie? Chissà se avrebbero mai immaginato che avevo voglia di fare l’amore con una donna come Mona. Scommetto che erano convinte che io e la madre non facessimo più l’amore e si spiegavano così il fatto di non avere una sfilza di fratelli e sorelle.

Quando sono tornato a casa, Isabel stava cucinando. Aveva la testa piegata di lato e, come al solito, le ho sfiorato la guancia con le labbra, poi sono andato a infilarmi la mia vecchia giacca da camera in morbido tweed con i gomiti rinforzati da toppe di pelle.

Ho aperto il mobile bar e ho gridato:

«Ne vuoi uno?».

Sapeva che cosa voleva dire.

«No, grazie... Ma sì, va’, leggerissimo però...».

Preparai uno scotch leggero per lei e ne versai uno molto più robusto per me.

Isabel mi raggiunse nel living room. Aveva il vestito da casa a fiori che metteva quando sbrigava le faccende domestiche.

«Devo ancora cambiarmi...».

Le porsi il suo bicchiere.

«Alla tua salute...».

«Alla tua, Donald...».

Mi sembrò che la sua voce avesse una gravità particolare, che contenesse una specie di messaggio.

Evitai di guardarla negli occhi per timore di leggervi un’espressione diversa dal solito. Mi accomodai nella mia poltrona in biblioteca e lei tornò in cucina.

Che cosa aveva pensato nel trovare i mozziconi di sigaretta? Quando era andata nel fienile, non si aspettava forse di trovarli, o in ogni caso di trovare una traccia del mio passaggio?

Che cosa le aveva fatto sospettare che, uscendo alla ricerca di Ray, io non avessi la minima intenzione di avventurarmi nella tormenta?

Fuori era troppo buio e non poteva avermi visto deviare. E non poteva avermi sentito gridare per via del frastuono.

Io per primo, al momento di uscire, non sapevo cosa avrei fatto. Solo dopo qualche passo avevo cambiato direzione.

Sapeva che ero stato un vigliacco? Perché, all’origine, di questo si trattava. Di un’invincibile vigliaccheria fisica. Ero allo stremo delle forze e avrei fatto qualsiasi cosa pur di sfuggire alla bufera.

Possibile che lei lo avesse intuito? Solo mentre me ne stavo seduto su quella panchina avevo capito che ero contento che Ray fosse scomparso e che, se per miracolo non avesse ritrovato la strada, probabilmente sarebbe morto.

Lo aveva capito anche lei? In tal caso, che cosa provava nei miei confronti? Disprezzo? Pietà? Nei suoi occhi non avevo letto niente del genere. Solo curiosità.

Mi balenò un’altra idea, più strampalata. Era probabile che fosse venuta in mente anche a Olsen, il che spiegava alcune delle sue domande, ma Olsen mi conosceva poco e aveva la forma mentis del poliziotto.

Il tenente ci aveva guardati, me e Mona, e si era chiesto se avessimo una relazione. Ne ho la certezza. Scommetterei che si è informato discretamente. Ora, il caso ha voluto che, durante la serata dagli Ashbridge, non mi sia trovato quasi mai vicino a Mona.

Isabel immagina che io e Mona ci vediamo di nascosto?

Io vado a New York in media una volta alla settimana e ci passo l’intera giornata. A volte mi fermo per la notte. Ray è spesso in viaggio dato che la sua agenzia ha sedi anche a Los Angeles e a Las Vegas.

Quando mi ha visto rientrare in casa da solo, mia moglie è stata sfiorata dal sospetto, sia pure per una frazione di secondo, che avessi approfittato di quella notte da incubo per togliere di mezzo Ray?

Adesso che ci penso a mente fredda, non mi sembra impossibile. Sono anzi convinto che, se venisse a sapere che ho ucciso un uomo, Isabel non avrebbe nessuna reazione particolare, e continuerebbe a vivermi accanto e a guardarmi come fa lei, con curiosità, nella speranza di capire.

Abbiamo mangiato in sala da pranzo, l’uno di fronte all’altro, i due candelabri d’argento posati come al solito sulla tavola, ciascuno con le sue due belle candele rosse. Era una consuetudine, in casa sua. A suo padre, il chirurgo, piaceva una certa solennità.

In casa mia, sopra la tipografia e gli uffici del «Citizen», vivevamo in maniera molto più semplice.

A proposito, strano che mio padre non mi avesse telefonato per avere notizie dell’incidente di Ray. A Torrington continuava a pubblicare il settimanale locale, uno dei giornali storici del New England, che vantava più di cent’anni di esistenza.

Da quando mia madre era morta viveva da solo. Aveva ripreso le abitudini da scapolo e quando non andava al ristorante di fronte, dove aveva un tavolo riservato, gli piaceva prepararsi da mangiare. La donna di servizio che andava ogni mattina a fare le pulizie in ufficio saliva anche di sopra a rassettare la casa e rifargli il letto.

Sebbene vivessimo ad appena una trentina di miglia di distanza, andavo a trovarlo non più di una volta ogni due o tre mesi. Entravo nel suo ufficio vetrato, dov’era intento a lavorare in maniche di camicia. Lui alzava gli occhi dalle sue carte, come sorpreso di vedermi.

«Buongiorno, figliolo...».

«Buongiorno, papà...».

Poi riprendeva a scrivere, a correggere bozze, o faceva una telefonata. Io mi sedevo sull’unica poltrona della stanza, che era là sin da quando ero piccolo.

«Sei contento?» finiva per chiedermi.

«Va tutto bene, sì».

«E Isabel?».

Aveva un debole per lei, benché ne avesse un po’ soggezione. Più di una volta, scherzando, mi aveva detto:

«Non te la meritavi, una donna come quella...».

Ma subito, per scrupolo di coscienza, aggiungeva invariabilmente:

«Non più di quanto io meritassi tua madre...».

Era morta da tre anni.

«E le bambine?».

Non si ricordava mai la loro età e le faceva sempre molto più piccole di quel che erano.

Aveva settantanove anni. Era secco e lungo, con le spalle curve. Lo avevo sempre visto ingobbito, magro come un chiodo e con due occhietti grigi pieni di malizia.

«Gli affari?».

«Non mi lamento...».

Lanciava un’occhiata fuori.

«Ah! Hai una macchina nuova...».

Lui aveva la stessa macchina da più di dieci anni. È anche vero che la usava pochissimo. Curava il «Citizen» praticamente da solo e i pochi collaboratori si prestavano a titolo gratuito.

La signora Fuchs, anche lei una vecchia conoscenza, una donna sulla sessantina, si occupava di raccogliere la pubblicità.

Mio padre stampava biglietti da visita, partecipazioni, volantini pubblicitari, cataloghi per i commercianti locali. Non aveva mai fatto niente per allargare il suo giro d’affari che, al contrario, si contraeva gradualmente.

«A che pensi?».

Drizzai la testa di scatto, come fossi stato colto in fallo. L’abitudine!

«A mio padre... Mi chiedevo come mai non abbia telefonato...».

Isabel non aveva più né padre né madre, le erano rimasti solo due fratelli, che abitavano entrambi a Boston, e una sorella sposata in California.

«Bisognerà che io passi a trovarlo una di queste mattine...».

«È più di un mese che non ci vai...».

Mi ripromisi di fare un salto a Torrington. Ero curioso di rivedere mio padre, e la nostra casa, con i miei nuovi occhi.

Sono tornato in biblioteca, indeciso se mettermi a leggere il giornale o accendere la televisione. Ho finito per aprire il giornale e, un quarto d’ora dopo, ho sentito il ronzio della lavastoviglie e Isabel mi ha raggiunto.

«Non credi che dovresti telefonare a Mona?».

Era un trabocchetto? Sembrava sincera, come sempre. Sarebbe stata capace di insincerità?

«Perché?».

«Eri il migliore amico di suo marito. Non penso che a New York abbia dei veri amici, e Bob Sanders è ripartito senza nemmeno prendersi la briga di trattenersi un giorno di più...».

«Bob è fatto così...».

«Deve sentirsi sola in quell’appartamento immenso... Potrà permettersi di tenere un’abitazione così dispendiosa?...».

«Non lo so...».

«Ray aveva denaro?».

«Guadagnava parecchio...».

«Ma spendeva anche parecchio, no?...».

«Suppongo di sì... La sua quota societaria della Miller, Miller e Sanders deve ammontare a una discreta somma...».

«Quando pensi di andare a trovarla?».

Non era un interrogatorio. Parlava con naturalezza, come una moglie parla al proprio marito.

«Dammi retta, telefonale... Le farà piacere...».

Conoscevo a memoria il numero di Ray, dato che ci vedevamo ogni tanto durante le mie puntate a New York. Lo composi e ascoltai la suoneria squillare abbastanza a lungo.

«Mi sa che non c’è nessuno...».

«A meno che non sia già andata a letto...».

In quell’istante sentii la voce di Mona.

«Pronto... Chi parla?».

«Donald...».

«È gentile da parte sua telefonarmi, Donald... Sapesse quanto mi sento perduta in questa casa...».

«La chiamo proprio per questo. È stata un’idea di Isabel...».

«La ringrazi da parte mia...».

Mi sembrò di avvertire una nota di ironia nella sua voce.

«Se non fosse così lontano le chiederei di venire a passare la serata qui. La povera Janet fa quel che può... Io vago per le stanze senza sapere cosa fare di me... Non le è mai capitato?...».

«No...».

«Beato lei... Stamattina è stato un supplizio... Il corteo funebre che non avanzava mai... E poi quella gente, al cimitero... Se non fosse stato per lei...».

Dunque si era accorta che le avevo preso il braccio.

«Avrei potuto cadere a terra per la stanchezza... E quel pallone gonfiato di Bob che mi ha salutato tutto cerimonioso prima di filare all’aeroporto...».

«Lo so...».

«I Miller sono venuti a parlarle?».

«Mi hanno chiesto se mi occupavo io dei suoi affari...».

«E lei che cosa ha risposto?».

«Che la aiuterò per quanto mi sarà possibile... Non mi fraintenda, Mona, non intendo imporle nulla... Sono solo un avvocato di provincia...».

«Ray la considerava un giurista di prim’ordine...».

«A New York ce ne sono di molto più abili di me...».

«Ci terrei che fosse lei a occuparsene... Sempre che Isabel...».

«No... Lei non avrà obiezioni, anzi...».

«È libero lunedì?».

«A che ora?».

«Quando le fa più comodo... Avrà due ore di strada... Facciamo le undici?».

«Ci sarò...».

«E adesso farò quello che volevo fare già alle cinque del pomeriggio: manderò giù due pasticche di sonnifero e andrò a letto... Se solo potessi dormire per quarantott’ore di fila...».

«Buonanotte, Mona...».

«Buonanotte, Donald... A lunedì... Ringrazi ancora Isabel da parte mia...».

«Lo faccio subito...».

Riattaccai.

«Mona ti ringrazia...».

«Di cosa?».

«Intanto di tutto quello che hai fatto per lei... E poi di lasciare che sia io a occuparmi della successione...».

«Che motivo avrei di oppormi?... Quando mai ti ho impedito di assumere un caso?...».

Aveva ragione. Non potei fare a meno di ridere. Non era da lei. Isabel non si permetteva di esprimere giudizi. Tutt’al più, di tanto in tanto, in certi casi, uno sguardo di approvazione o, al contrario, uno sguardo un po’ assente, il che costituiva un monito sufficiente.

«Lunedì vai a New York?».

«Sì».

«In macchina?».

«Dipende dalle previsioni del tempo... Se si preannunciano altre nevicate prenderò il primo treno...».

Ecco fatto. Era facile. Parlavamo come un marito e una moglie qualsiasi, tranquillamente, con parole semplici. Chiunque ci avesse visto e avesse ascoltato i nostri discorsi avrebbe potuto scambiarci per una coppia modello.

Invece Isabel mi considerava un vigliacco, o un assassino, a seconda. E io avevo deciso che lunedì l’avrei tradita con Mona.

La casa aveva ripreso il suo ritmo consueto, giacché era una casa viva, forse perché era molto vecchia e aveva accolto tra le sue mura tante vite umane. Con gli anni le stanze erano state ingrandite e alcune finestre trasformate in porte. Certe pareti erano state abbattute e altre tirate su. Ad appena sei metri dalla camera da letto era stata scavata una piscina nella roccia.

La casa respirava. Ogni tanto si sentiva partire la caldaia in cantina. A volte un radiatore emetteva un rumore metallico, altre volte una trave o il rivestimento di legno di una delle stanze si metteva a scricchiolare. Fino a dicembre abbiamo avuto un grillo nel camino.

Isabel aprì il suo giornale e inforcò gli occhiali. Da diversi anni ormai aveva bisogno degli occhiali per leggere, e dietro le lenti i suoi occhi erano diversi, meno sicuri del fatto loro, meno limpidi, come spaventati.

«Higgins sta bene?».

«Benone...».

«Sua moglie si è ripresa dall’influenza?».

«Non gliel’ho chiesto...».

Andavamo lentamente sprofondando nella palude della serata – e così avevo vissuto per diciassette anni.

5

È successo, come mi aspettavo, e credo che per Mona non sia stata una sorpresa. Anzi, sono quasi certo che se lo aspettasse anche lei, che lo desiderasse, il che non significa che sia innamorata di me.

Prima avevamo passato il consueto week-end a casa con le ragazze. Io e Isabel siamo andati a prenderle a Litchfield, senza risparmiarci il quarto d’ora di convenevoli con Miss Jenkins, che ha due occhietti neri e brillanti e parla sputacchiando.

«Ah, se tutte le nostre allieve fossero come la vostra Mildred...».

In fondo detesto le scuole, e in particolare quei momenti in cui i genitori vi si ritrovano insieme ai figli. Tanto per cominciare, rivedi te stesso a tutte le età, il che è di per sé piuttosto imbarazzante. E tuo malgrado ripensi alla prima gravidanza, al primo vagito, al primo corredino, e infine al giorno in cui hai accompagnato tuo figlio all’asilo e te ne sei andato senza di lui.

Gli anni sono segnati, come fossero tappe, dalle cerimonie di fine anno scolastico e dalle vacanze. Si creano consuetudini che pensi immutabili. Ti nasce un altro figlio, che passa a sua volta attraverso gli stessi rituali, con gli stessi professori.

Ti ritrovi con una figlia di quindici anni e un’altra di dodici, e ormai sei al tramonto della vita.

Come nella canzone di Jimmy Brown: le campane della nascita, le campane delle nozze, le campane del funerale. E altri ricominciano da capo.

Appena saliti in macchina, la prima domanda di Mildred è stata:

«Posso andare a dormire da Sonia, mamma?».

Domandano sempre il permesso alla madre, come se io non contassi. Sonia è la figlia di Charles Brawton, un vicino con cui intratteniamo vaghi rapporti di amicizia.

«Ti ha invitata?».

«Sì. Domani sera c’è una festicciola, e Sonia ha insistito perché rimanga a dormire da lei...».

Mildred ha un viso che ti fa venire voglia di mangiarlo, tanto è appetitoso. Ha la pelle chiara come quella di sua madre, ma sotto gli occhi e sul naso è picchiettata di lentiggini. Lei se ne cruccia, ma in realtà è il motivo del suo fascino. Ha lineamenti ancora infantili, e anche il corpo, che sembra quello di una bambola.

«Tu che ne pensi, Donald?».

Devo riconoscere che Isabel non manca mai di chiedere il mio parere. Ma se avessi la malaugurata idea di dire di no mi metterei contro le ragazze, perciò dico sempre di sì.

«E io, allora,» ha protestato Cecilia «resterò a casa da sola?».

Eh sì, perché stare a casa con noi significa stare da sola! Alla faccia di chi osanna la famiglia, la confidenza tra genitori e figli. Cecilia ha dodici anni e parla già di solitudine.

È vero. Alla sua età io ero come lei. Mi ricordo la noia delle interminabili domeniche a casa con i miei genitori, soprattutto quando pioveva.

«Inviteremo una tua amica...».

Allora i genitori si telefonano, organizzano scambi.

«Possiamo dire a Mabel di venire a passare il week-end da noi?...».

La domenica mattina ci siamo ritrovati tutti e quattro alle undici per andare a messa. Altra occasione in cui vedi le persone invecchiare di anno in anno.

«È vero che il tuo amico Ray è morto nel nostro giardino?».

«È vero, tesoro».

«Poi mi fai vedere dove?».

Ovviamente non lo abbiamo fatto. Con i figli ci si comporta come se la morte non esistesse, come se a morire fossero solo gli altri, gli estranei, le persone che non appartengono alla famiglia o alla ristretta cerchia di amici.

Ma non importa. Tutto questo non ha importanza. La cosa più sconcertante è che Cecilia, la domenica a pranzo, abbia detto all’improvviso:

«Sei triste, mamma?».

«Ma no...».

«È per quello che è successo a Ray?».

«No, tesoro... Sono come sempre...».

Le nostre due figlie somigliano più alla madre che a me, ma Cecilia ha qualcosa di diverso. I suoi capelli sono quasi bruni, gli occhi nocciola e fin da piccolissima aveva delle uscite che ci lasciavano a bocca aperta.

Dev’essere una ragazza molto riflessiva e avere una vita interiore che neanche ci immaginiamo.

«Ci riaccompagnate tutti e due?».

«Chiedi a tuo padre...».

Ho risposto di sì. Domenica sera le abbiamo riaccompagnate in collegio. In definitiva le abbiamo viste ben poco.

Ho guardato la televisione. Non saprei dire che cosa ha fatto Isabel. È sempre affaccendata.

La donna di servizio è tornata al lavoro. Si chiama Dawling. Suo marito è l’ubriacone del paese, un vero alcolizzato che tutti i sabati sera fa a cazzotti nei bar e che ritrovi poi steso su un marciapiede o sul ciglio della strada.

Ha provato tutti i mestieri, facendosi cacciare via ovunque. Da poco si è messo ad allevare maiali in una casupola che si è costruito con delle assi di legno in fondo al suo terreno. A causa delle rimostranze generali, il comune sta cercando di impedirglielo.

Hanno otto figli, tutti maschi, tutti tali e quali al padre e che sono il terrore del paese. Li chiamano i Pel di carota senza fare distinzione tra l’uno e l’altro, e per lo più vanno a coppie, perché la madre partorisce quasi sempre gemelli.

I Dawling formano una banda, un clan, che vive ai margini della comunità, dove l’unica a essere ammessa è la povera signora Dawling, per fare le pulizie. Parla poco. Ha le labbra sottili e guarda tutti con aria sprezzante.

Si adatta a fare la serva, ciò non toglie che abbia le sue idee.

«Pensi di passare la notte a New York? Vuoi che ti prepari una valigia?».

«No... Quasi sicuramente finirò prima di sera...».

Il suo sguardo comincia a irritarmi. Non so più che cosa significhi esattamente. Non c’è traccia di ironia, eppure sembra dire:

«Ti conosco, va’ là!... So tutto... Lascia perdere, non mi puoi nascondere niente...».

Per assurdo, in quello sguardo c’è anche una punta di curiosità. Si direbbe che a ogni istante si domandi come reagirò, che cosa farò.

Ha un altro uomo davanti a sé e forse non è sicura di averne indagato tutte le potenzialità.

Sa che vado a New York per incontrare Mona. Non si è accorta forse, mentre Mona era qui in casa, che la desideravo? Non sospetta cosa sta per succedere?

Si guarda bene dal mostrare la minima gelosia. È stata lei, giovedì sera, a suggerirmi di telefonare a Sutton Place, e sempre lei, questa domenica sera, si è offerta di prepararmi la valigia, dando per scontato che avrei passato la notte a New York.

Mi viene il dubbio che mi stia addirittura incoraggiando. Ma perché? Per evitare che mi ribelli? Per salvare quel poco che resta da salvare?

Si rende perfettamente conto che da una settimana a questa parte siamo diventati due estranei. Due estranei che vivono insieme, mangiano alla stessa tavola, si spogliano l’uno davanti all’altro e dormono nella stessa camera. Due estranei che si parlano come marito e moglie.

Sarei ancora capace di fare l’amore con lei? Non credo.

Perché? Perché mentre ero seduto sulla panchina rossa nel fienile a fumare una sigaretta dopo l’altra qualcosa si è rotto.

Mona non c’entra niente, comunque la pensi Isabel.

Il cielo era scuro quella domenica sera. «Prenderò il treno...» ho annunciato.

Il lunedì mattina mi sono alzato alle sei. Il cielo si era rischiarato un po’, ma mi sembrava che ci fosse aria di neve.

«Vuoi che ti accompagni alla stazione?».

Mi ci ha accompagnato con la Chrysler. La stazione di Millerton è una stazioncina di legno dove non ci sono mai più di tre o quattro persone ad aspettare il treno, treno sul quale si conoscono tutti di vista. Il nostro calzolaio, anche lui diretto a New York, mi ha salutato.

«È inutile che stai qui ad aspettare... Torna a casa... Ti telefonerò per dirti con che treno rientro...».

Non ha nevicato. Anzi, via via che ci avvicinavamo a New York il tempo si è messo al bello e i grattacieli si sono stagliati su un cielo tersissimo punteggiato da qualche nuvola dorata.

Sono andato a bere un caffè. Era troppo presto per presentarmi da Mona e, uscendo dalla stazione, mi sono avviato lungo Park Avenue. Anch’io avrei potuto vivere a New York, avere un ufficio in uno di quei palazzoni di vetro, pranzare fuori con clienti o amici e, a fine giornata, prendere l’aperitivo in un bar dall’atmosfera intima e le luci soffuse. La sera, avremmo potuto andare a teatro o a ballare in un night club...

Avremmo potuto...

Che cos’aveva detto esattamente Mona a questo proposito? Che Ray mi invidiava, che tra i due ero io il più tosto, che io avevo fatto una scelta giudiziosa! Quel Ray che aveva sfondato nella vita e che diceva di volersi ficcare una pallottola in testa!

Fesserie!

I passanti mi stavano davvero guardando? Ho sempre l’impressione che gli altri mi osservino come se avessi una macchia in mezzo alla faccia o fossi vestito in modo ridicolo. Da piccolo, e poi da giovane, era una sensazione così forte che mi fermavo davanti alle vetrine per controllare che nel mio aspetto non ci fosse niente di anormale.

Alle dieci e mezzo ho fermato un taxi e mi sono fatto portare a Sutton Place. Conoscevo il palazzo, la pensilina arancione, l’usciere gallonato, l’atrio con le poltroncine di pelle e, a destra, il bancone della reception.

Anche il portiere mi conosceva.

«È qui per la signora Sanders, signor Dodd?... Vuole che la avverta?...».

«Non importa... Mi aspetta...».

Il ragazzo dell’ascensore portava guanti di filo bianco. Mi ha fatto salire al ventunesimo piano e sapevo a quale delle tre porte di mogano suonare.

È venuta ad aprire Janet. È una ragazza attraente con la sua uniforme di seta nera e il grazioso grembiulino ricamato, e di solito ha una faccia allegra.

Suppongo che avesse ritenuto opportuno assumere un’espressione di circostanza e ha mormorato qualcosa del tipo:

«Chi avrebbe mai immaginato...».

Dopo avermi preso cappotto e cappello, Janet mi ha accompagnato nel salone, dove ogni volta provo una specie di vertigine. È una grande stanza tutta bianca con due vetrate che danno sull’East River. Conoscevo Ray da abbastanza tempo per sapere che l’arredamento non era stato scelto in base al suo gusto.

Quel salone era una sfida. Aveva voluto farne un’ostentazione di ricchezza, di modernità, un motivo di stupore. Tutto – i mobili, i quadri appesi alle pareti, le sculture sui piedistalli – faceva pensare allo scenario di un film più che a una casa in cui vivere e le dimensioni dell’ambiente escludevano qualsiasi idea di intimità.

Si è aperta una porta, quella di un salottino che chiamavano il boudoir e, da lontano, Mona mi ha invitato a gran voce:

«Venga, Donald...».

Ero indeciso se portarmi dietro la cartella. Alla fine l’ho lasciata sulla poltrona dove l’avevo posata.

Le sono andato incontro. Dovevo percorrere una decina di metri. Lei si teneva nel vano della porta, vestita di blu scuro. Mi guardava avanzare, in attesa.

Mi ha fatto entrare senza tendermi la mano, dopodiché ha richiuso la porta.

Soltanto in quel momento, l’uno di fronte all’altro, ci siamo guardati negli occhi, indecisi.

Le ho messo le mani sulle spalle e l’ho baciata sulle guance, come quando c’era Ray. Poi, di colpo, senza perdere altro tempo, ho premuto avidamente le mie labbra sulle sue, stringendo il suo corpo contro di me.

Lei non ha protestato, non si è irrigidita. Vedevo i suoi occhi fissarmi con un certo stupore.

Non era forse quello che si aspettava? Era sorpresa che fosse successo così in fretta? Oppure a sconcertarla erano la mia emozione, la mia goffaggine?

Tremavo in tutto il corpo. Non riuscivo a staccare la mia bocca dalla sua, i miei occhi dai suoi occhi.

Dentro di me, avevo voglia di piangere, credo.

In realtà, quello che aveva addosso era una vestaglia di seta morbidissima, e io sentivo che sotto non portava niente.

Lo aveva fatto apposta? O non aveva avuto il tempo di vestirsi perché ero arrivato con dieci minuti di anticipo?

Ho mormorato:

«Mona...».

E lei ha detto:

«Vieni...».

Senza staccarsi da me, mi ha trascinato verso un divano sul quale ci siamo lasciati cadere nello stesso momento.

Sono letteralmente affondato in lei, di colpo, con violenza, quasi con cattiveria, e per un attimo nei suoi occhi è passata un’ombra di paura.

Quando mi sono tirato su, lei si è subito rialzata, riallacciandosi la cintura della vestaglia.

«Ti chiedo scusa, Mona...».

«Non hai niente di cui scusarti...».

Mi sorrideva, con la gioia ancora negli occhi, ma un che di malinconico sulle labbra ben disegnate.

«Morivo dalla voglia!» confessai.

«Lo so... Che cosa bevi, Donald?...».

Un mobile Luigi XV celava un piccolo bar. L’immenso bar del salone, invece, non si nascondeva affatto.

«Quello che prendi tu...».

«Scotch, allora... Ghiaccio?...».

«Sì, grazie...».

«Isabel non ha detto niente?».

«A che proposito?».

«A proposito di questo viaggio e del nostro appuntamento...».

«Anzi... È stata lei a suggerirmi di telefonarti...».

Provavo una strana sensazione, del tutto nuova per me. Avevamo appena fatto l’amore selvaggiamente e il viso di Mona ne conservava ancora qualche traccia. E forse anche il mio.

Nondimeno, dall’istante in cui entrambi ci eravamo rimessi in piedi, avevamo adottato, nel parlare, il tono di due vecchi amici. Ci sentivamo a nostro agio, nel corpo e nell’anima. Mi ridevano gli occhi, ne sono sicuro.

«Alla nostra salute, Donald...».

«Alla nostra...».

«È una strana donna... Mi mette sempre una gran soggezione... Vero è che per molto tempo anche tu mi hai messo soggezione...».

«Io?».

«Ti stupisce?... La maggior parte delle persone sai da che parte prenderle... Scopri subito qual è il loro punto debole... Tu, invece, non ne hai...».

«Hai appena avuto la prova del contrario...».

«E questo lo chiami un punto debole?...».

«Forse sì... Sai che il pomeriggio in cui abbiamo dormito per terra ero ipnotizzato dalla tua mano abbandonata sul parquet?... Avevo una voglia matta di toccarla, di afferrarla... Chissà che cosa sarebbe successo se l’avessi fatto...».

«Davanti a Isabel?».

«Davanti al mondo intero, se necessario... E questa non la chiami una debolezza?...».

Lei si sedette su una bergère, pensandoci su. La vestaglia scivolò scoprendo quasi per intero una coscia, ma la cosa non ci creò il minimo imbarazzo. Non ci facevamo caso.

«No...» dichiarò alla fine.

«La mia brutalità non ti ha turbata?».

«Ammetto di essere stata presa alla sprovvista...».

Potevamo parlarne tranquillamente, senza sentimentalismi, da buoni amici, da complici che si confessano le proprie debolezze.

«Era necessario, altrimenti avremmo passato una giornata assurda in cui io non avrei pensato ad altro...».

«Mi vuoi un po’ di bene, Donald?».

«Molto».

«Ne avrò bisogno... Non voglio fare la parte della vedova inconsolabile e in questo momento d’altronde sarebbe di cattivo gusto... Provavo molto affetto per Ray, questo lo sai... Eravamo diventati una coppia di veri amici...».

Ero seduto di fronte a lei, e anche qui la finestra dava sull’East River inondato di sole.

«Giovedì, appena arrivata a casa, stavo per chiamarti... L’appartamento mi sembrava dieci volte più grande di quanto non sia in realtà e mi sentivo perduta... Andavo avanti e indietro, toccavo i mobili, gli oggetti come per accertarmi che fossero reali... Mi sono messa a bere... Quando mi hai chiamato, la sera, non si sentiva dalla mia voce che avevo bevuto?...».

«Ero troppo emozionato per notare alcunché... Isabel mi guardava...».

Anche lei mi guardò, dapprima in silenzio, poi disse:

«Non la capirò mai...».

Fumava con aria pensierosa.

«E lei, ti capisce?».

«No...».

«Credi che sia capace di soffrire? Che qualcosa possa ferirla?...».

«Non lo so, Mona... Ho vissuto diciassette anni senza domandarmelo...».

«E adesso?».

«Da una settimana me lo domando...».

«Non ti fa un po’ paura?».

«Ci ero abituato... Credevo che non ci fosse niente di complicato...».

«E ora non lo credi più?».

«Lei mi guarda vivere, conosce ogni mia minima reazione e probabilmente ogni mio singolo pensiero... Eppure non dice mai una parola che possa lasciarlo supporre... Resta sempre calma e serena...».

«Anche adesso?».

«Perché mi fai questa domanda?».

«Perché lei ha capito... Una donna non si sbaglia su cose del genere...».

«Ha capito cosa?».

«Che quello che è appena successo prima o poi doveva succedere... Il pomeriggio in cui abbiamo dormito sui materassi... Ha fatto apposta a metterti accanto a me...».

«Per non sembrare gelosa?».

«No... Per fare una prova... Anzi, è stata una mossa anche più sottile, ci giurerei... Per tentarti... Per turbarti...».

Mi sforzavo di capire, di vedere Isabel in questo ruolo inedito.

«Almeno un paio di volte ha fatto in modo di lasciarci soli, e sapeva quanto avessi voglia di rannicchiarmi tra le tue braccia... Avevo bisogno di conforto, di sentire qualcuno di solido contro di me...».

«Non ti sono stato di aiuto...».

«No... All’inizio ho creduto che avessi paura di lei...».

Non è esatto. Non ho mai avuto paura di Isabel, solo paura di darle un dispiacere, di deluderla, di non dimostrarmi all’altezza dell’idea che si era fatta di me.

Finché mia madre è vissuta ho avuto paura di darle un dolore e, ancora adesso, se mi sento a disagio nella tipografia di mio padre a Torrington è perché non vorrei che si accorgesse che mi fa pena.

È diventato, come si dice, l’ombra di se stesso. Si impunta, per spavalderia, si ostina a pubblicare un giornale che non ha più neanche un migliaio di lettori.

Continua a ostentare un’ironia che per tutta la vita è stata il suo marchio di fabbrica, ma sa perfettamente che prima o poi dovranno trasportarlo all’ospedale, sempre che non stramazzi di colpo in camera sua o in ufficio.

Non posso certo fargli capire i miei timori. E che ogni volta che lo saluto mi chiedo se sarà l’ultima che lo vedo vivo.

Mona guardò l’ora su una sveglietta dorata.

«Scommetterei che in questo momento lei sa esattamente quello che è successo...».

Continuava a preoccuparsi di Isabel, e mi domandavo perché.

Se si fosse trattato di un’altra, avrei pensato che sperava divorziassi per sposarla. A quell’idea mi venne un nodo in gola e mi alzai per riempire i bicchieri.

«Non ti ho scandalizzato, Donald?...».

«No».

«La ami ancora, vero?».

«No».

«Ma l’hai amata molto?».

«Non credo».

Sorseggiava il suo scotch più lentamente del primo senza smettere di osservarmi.

«Ho voglia di baciarti» mormorò alla fine, alzandosi.

Mi alzai anch’io. La cinsi alla vita e invece di porgerle le labbra appoggiai la guancia contro la sua e restai così per un pezzo a guardare il paesaggio oltre le vetrate.

Ero profondamente triste.

 

 

Poi la tristezza si stemperò in un sentimento più pacato, in cui restava solo una traccia di amarezza. Sciogliendosi dalla stretta, lei disse:

«È il caso che mi vesta prima di pranzo, comunque...».

La guardai dirigersi verso quella che sapevo essere la camera da letto. Ero rassegnato a sedermi e leggere un giornale, nell’attesa, e la delusione doveva trapelare dalla mia faccia perché lei aggiunse in tutta naturalezza:

«Se preferisci venire con me...».

La seguii in camera, dove uno dei letti era disfatto. La porta del bagno era aperta e dall’acqua sulle piastrelle capii che si era fatta il bagno poco prima che arrivassi. Si sedette davanti alla toeletta, si spazzolò i capelli e poi cominciò a truccarsi.

Seguivo incantato i suoi gesti, i riflessi della luce sulla sua pelle. Lo so, avevamo appena fatto l’amore, ma era quasi più prezioso essere ammesso nella sua intimità femminile.

«Tu mi diverti, Donald...».

«Perché?».

«Sembra quasi la prima volta che vedi una donna farsi bella...».

«È vero...».

«Ma Isabel...».

«Non è la stessa cosa...».

Ho visto di rado Isabel seduta davanti alla toeletta e sulla sua c’è il minimo indispensabile, non certo tutti i vasetti e i flaconi che vedevo su quella di Mona.

«Non ti secca pranzare qui con me? Ho chiesto a Janet di prepararci qualcosa di buono...».

Mi ricordo di due leoncini, allo zoo, che si rotolavano beatamente con una totale fiducia. Più o meno è la sensazione che provavo in quel momento con Mona.

Alla fine si alzò per andare a prendere la biancheria in un armadio. Non si nascose per togliersi la vestaglia, e anche nuda non era provocante. Si vestiva con la stessa naturalezza che se fosse stata da sola e io non mi perdevo il mimino gesto, la minima movenza.

Era sempre vero che non ero innamorato? Credo di sì. Non mi sfiorava neanche l’idea di vivere con lei, di legare il mio destino al suo come avevo fatto con Isabel.

Vedevo il letto di Ray intatto e la cosa non mi disturbava, non evocava alcuna immagine spiacevole.

Nell’appartamento c’erano altre due camere da letto. Una sera mi ero fermato a dormire in una perché era troppo tardi per il mio treno. Janet occupava l’altra, più piccola e più vicina alla cucina.

Stranamente, non c’era una sala da pranzo, forse perché tutto lo spazio possibile era stato riservato al salone.

«Come sto? Non sono troppo elegante?».

Aveva scelto un abito in lanetta nera che aveva ravvivato con una cintura di argento intrecciato. Doveva sapere che il nero le donava.

«Sei perfetta, Mona...».

«Tra un po’ bisognerà che parliamo seriamente... Mi chiedo cosa farei se non ci fossi tu, con tutti i problemi che si prospettano...».

Janet aveva apparecchiato un tavolino davanti a una delle grandi vetrate e in un secchiello era al fresco una bottiglia a collo lungo di vino del Reno.

«Devo traslocare, trovare un appartamento più piccolo... In fondo questo non piaceva a nessuno dei due... Per Ray, serviva solo a gettare fumo negli occhi... A impressionare i clienti... Credo anche che lo divertisse dare feste, circondarsi di gente, vedere le tresche che si formavano, le persone che perdevano a poco a poco la dignità...».

Di colpo mi guardò seria.

«Ora che ci penso, non ti ho mai visto ubriaco, Donald...».

«Eppure lo sono stato in tua presenza... Sabato sera, dagli Ashbridge...».

«Eri ubriaco?».

«Non te ne sei accorta?».

Ebbe un attimo di esitazione.

«Non in quel momento...».

«E quando?».

«Non so... Non ne sono sicura... Non avertene a male se mi sbaglio... Quando sei tornato dopo essere andato a cercare Ray mi sei parso diverso...».

Su un carrellino erano posati un astice e della carne fredda, in modo che potessimo servirci. Mi sentii avvampare.

«Non era per la sbronza» dissi.

«E allora cos’era?».

Pazienza. Ormai ero deciso.

«La verità è che non sono andato a cercare Ray. Ero allo stremo delle forze. In mezzo alla tormenta mi sentivo mancare il respiro e temevo che il cuore mi si fermasse da un momento all’altro. Non avevo nessuna speranza di ritrovarlo al buio, con gli occhi semichiusi per la neve che mi sferzava la faccia.

«Allora mi sono diretto verso il fienile...».

Mona aveva smesso di mangiare e mi guardava con un tale stupore che quasi mi pentii della mia franchezza.

«Lì, mi sono seduto su una panchina che d’inverno tiriamo dentro e mi sono acceso una sigaretta...».

«E ci sei rimasto per tutto il tempo?».

«Sì... Per terra, ai miei piedi, si accumulavano i mozziconi di sigaretta... Ne ho fumate almeno dieci...».

Era scossa, ma non provava rancore. Alla fine allungò il braccio per prendermi la mano e disse:

«Grazie, Donald...».

«Grazie di che?».

«Di fidarti di me... Di dirmi la verità... Ho intuito che era successo qualcosa, ma non sapevo cosa... A un certo punto mi sono chiesta se non avessi litigato con Ray...».

«Perché avrei dovuto litigare con lui?».

«Per via di quella donna...».

«Di che donna parli?».

«Della signora Ashbridge... Patricia... Quando Ray si è allontanato con Patricia, mi è sembrato che tu fossi geloso...».

Allora lo sapeva! Non potevo crederci.

«Li hai sorpresi?» domandai.

«Nel momento in cui uscivano... Non li avevo seguiti... Li ho visti per puro caso... Tu non eri geloso di Ray?...».

«Non a causa di Patricia...».

«A causa mia?».

Non lo chiedeva per civetteria. Tutti e due parlavamo davvero a cuore aperto. Non era, come con Isabel, una lotta di sguardi.

«A causa di tutto... Quella porta da cui li hai visti uscire, io l’avevo aperta... Non pensavo a niente... Avevo bevuto più del solito... E li ho sorpresi... Allora, di colpo, come una vampata che ti sale alla testa, ho provato una tremenda gelosia nei confronti di Ray...

«Non dovrei essere io a dirlo, ma a Yale ero un ottimo studente, mi consideravano tutti molto più brillante di lui. Quando Ray ha deciso di trasferirsi a New York, gli ho detto che rischiava di arrabattarsi per un pezzo...

«Io mi sono rintanato a Brentwood, ad appena trenta miglia dalla casa paterna, come se avessi paura di restare senza protezione... E quasi subito, come per proteggermi ulteriormente, ho sposato Isabel...».

Mona mi ascoltava, attonita. Alzò il bicchiere e mi indicò il mio.

«Bevi...».

«Ti ho detto tutto... Puoi ben immaginare il resto, gli altri pensieri che ho avuto quel sabato... Ray si è preso te, Mona, è diventato socio della Miller & Miller... E, strada facendo, poteva approfittare con nonchalance di donne come Patricia...».

Lei disse lentamente:

«Ed era lui a invidiare te!...».

«Ti ho delusa, Mona?».

«Al contrario...».

Era commossa. Le tremava il labbro superiore.

«Dove hai trovato il coraggio di raccontarmi tutto questo?».

«Tu sei l’unica persona con cui posso parlare...».

«Odiavi Ray, vero?».

«Quella notte, sulla panchina, sì...».

«E prima?».

«Lo consideravo il mio migliore amico... Ma, sempre su quella panchina, ho scoperto che mentivo a me stesso...».

«E se tu avessi potuto salvarlo?...».

«Non lo so... Probabilmente l’avrei fatto, sia pure a malincuore... Non sono più sicuro di niente, Mona... Vedi, nel giro di una notte sono molto cambiato...».

«Me n’ero accorta... E anche Isabel...».

«Subodorava qualcosa, tant’è che è andata nel fienile e ha trovato i mozziconi di sigaretta...».

«Te lo ha detto?».

«No... Li ha tolti di mezzo... Per paura, ne sono certo, che li scoprisse il tenente Olsen...».

«Isabel non crederà mica che tu abbia... che abbia fatto qualcos’altro?...».

Ho preferito parlare fuori dai denti.

«Che io abbia spinto Ray giù dalla scarpata?... Non lo so... Da una settimana mi guarda come se non mi riconoscesse più, come se si sforzasse di capire... E tu, capisci?...».

«Credo di sì...».

«E non sei delusa?».

«Al contrario, Donald...».

Era la prima volta che mi sentivo come avvolto da un caldo sguardo femminile.

«Mi chiedevo se me ne avresti parlato... Ci sarei rimasta un po’ male se non l’avessi fatto... Ci voleva coraggio...».

«Al punto in cui sono, sai...».

«A che punto sei?».

«Ho messo una croce sopra diciassette anni, anzi, sopra quarantacinque anni di vita... Tutto appartiene al passato ormai... Ieri, davanti alle mie figlie, mi sono vergognato perché mi sentivo un estraneo... Eppure continuerò a fare gli stessi gesti, a dire le stesse parole...».

«È necessario?».

L’ho guardata. Ho avuto un attimo di esitazione. Sarebbe stato facile. Visto che avevo passato un colpo di spugna, non avrei potuto ricominciare da capo? Mona era di fronte a me, seria, trepidante.

Quell’istante è stato decisivo. Mangiavamo, bevevamo vino del Reno e avevamo la vista dell’East River che scorreva sotto di noi.

«Sì» ho mormorato. «È necessario...».

Non so perché. Ho pronunciato quel sì con la gola stretta, guardando Mona intensamente. Ero sul punto di... No, non ancora, ma avrei potuto, molto presto, cominciare ad amarla... Avrei potuto trasferirmi a New York anch’io... Avremmo potuto...

Non so se l’ho ferita. Non lo ha dato a vedere.

«Grazie, Donald...».

Si alzò, scuotendo le briciole dal vestito.

«Prendi un caffè?».

«Sì, grazie...».

Suonò per chiamare Janet.

«Dove preferisci che ci mettiamo?... Qui o nel boudoir?».

«Nel boudoir...».

Stavolta presi con me la cartella. Poi mi avviai accanto a lei, lentamente, posandole una mano sulla spalla.

«Mi capisci, Mona, vero? Ti rendi conto anche tu che non potrebbe funzionare...».

Allungò la mano per stringere la mia e rividi quella mano sul parquet del nostro living room, rischiarata dalle fiamme del camino.

Mi sentivo rilassato. Poco dopo mi sono seduto a un tavolino antico su cui ho posato dei fogli di carta e una matita.

«Innanzitutto, sai come sei messa?».

«Non so niente... Ray non mi parlava dei suoi affari...».

«Hai del denaro a disposizione?».

«Abbiamo un conto in banca intestato a tutti e due...».

«Sai quanto c’è su questo conto?».

«No...».

«Ray aveva un’assicurazione sulla vita?...».

«Sì...».

«Sai quali erano gli accordi con i Miller?...».

«Era socio, ma non un socio a tutti gli effetti, se ho capito bene... La sua quota di partecipazione aumentava di anno in anno...».

«Non ha lasciato un testamento?».

«Non che io sappia».

«Hai guardato tra le sue carte?».

«Sì...».

L’ho seguita nello studio che Ray si era sistemato e abbiamo esaminato insieme le sue carte. Tra noi non c’era nessun imbarazzo, nessun pensiero recondito.

La polizza sulla vita, a beneficio di Mona, ammontava a duecentomila dollari.

«Hai avvisato la compagnia?...».

«Non ancora».

«Nemmeno la banca?».

«No. Da giovedì non sono praticamente mai uscita. Solo domenica mattina sono scesa a fare due passi lungo il marciapiede per prendere un po’ d’aria».

«Permetti che faccia qualche telefonata?».

Avevo assunto le mie funzioni di avvocato e notaio. Mona mi ascoltava telefonare, meravigliandosi della facilità con cui tutto si sistemava.

«Vuoi che vada a parlare con i fratelli Miller da parte tua?».

«Sì, per favore. Non ti dispiace?».

Ho telefonato ai Miller e gli ho annunciato che sarei passato.

«Tornerò più tardi...» ho detto a Mona.

Mi portai dietro la cartella. Nel salone mi voltai verso di lei e, come mi aspettavo, venne con tutta naturalezza a rannicchiarsi tra le mie braccia per baciarmi.

Gli uffici dei fratelli Miller occupano due interi piani di uno dei nuovi building di Madison Avenue, vicino agli edifici grigiastri dell’arcivescovado. Oltre una cinquantina di impiegati lavoravano in un unico grande ambiente, ciascuno alla propria scrivania, con uno o due telefoni a disposizione, e passando avevo visto un’identica folla di addetti nella tipografia.

Mi aspettavano insieme, Samuel e Bill, bassi e grassi, così simili tra loro che chi non li conosceva bene li confondeva.

«Siamo lieti che la signora Sanders l’abbia scelta per rappresentarla, signor Dodd. Come le ho detto al cimitero, se non gliel’avesse chiesto lei, lo avremmo fatto noi...».

L’ufficio era ampio, ovattato, solenne quanto bastava per una società di quell’importanza.

«Cosa le posso offrire? Uno scotch?...».

Dietro un pannello di mogano c’era un bar.

«Suppongo che grosso modo lei sia al corrente della situazione... Ecco il contratto societario stipulato cinque anni fa...».

La scrittura consisteva in una decina di pagine che mi limitai a sfogliare. A occhio e croce, la quota di Ray si aggirava intorno al mezzo milione di dollari.

«Ed ecco gli ultimi estratti conto... Avrà tutto il tempo di studiarsi questi documenti con comodo e di ricontattarci... Quando riparte per Brentwood?».

«Domani, probabilmente...».

«Potremmo pranzare insieme».

«Vi telefonerò in mattinata...».

«Prima che se ne vada, vorrei che desse un’occhiata all’ufficio del nostro povero amico e controllasse se ci sono carte o effetti personali da portare via...».

L’ufficio di Ray era quasi altrettanto sontuoso di quello da cui ero appena uscito e a una scrivania era al lavoro la sua bella segretaria dai capelli rossi. Si alzò per stringermi la mano, benché avessi l’impressione che non gradisse la mia visita.

Ci eravamo già incontrati dato che ero passato varie volte a prendere Ray in ufficio.

«Sa se Ray teneva qui documenti personali, Miss Tyler?».

«Dipende da cosa intende per personale... Veda un po’ lei...».

Aprì i cassetti, lasciando a me il compito di sfogliare i fascicoli. Sulla scrivania, in una cornice d’argento, c’era una fotografia di Mona.

«Meglio che questa la porti via, no?».

«Suppongo di sì...».

«Tornerò domani... Se fosse così gentile da radunare i suoi effetti personali...».

«C’è anche un cappotto nell’armadio...».

«La ringrazio...».

Mi feci portare prima in banca, poi alla sede della compagnia di assicurazioni. Non stavo solo liquidando il passato di un uomo, ma l’uomo stesso. Lo stavo cancellando sotto il profilo legale, come i fratelli Miller lo cancellavano dalla loro ragione sociale.

Erano le sei quando feci ritorno a Sutton Place. Mona mi ha aperto la porta e ci siamo baciati come se ormai fosse un rito.

«Non troppo stanco?».

«No... Mi resta ancora parecchio da fare domani... Sarebbe meglio se tu venissi con me dai Miller...».

Senza chiedermi niente, riempì di scotch due bicchieri.

«Dove vuoi che...».

Stava per chiedermi di nuovo se preferivo il salone o il boudoir.

«Lo sai bene...».

Tutti e due ci siamo messi a bere, senza parlare molto.

«Sei ricca, mia cara... Compreso il premio dell’assicurazione, ti troverai con un capitale di settecentomila dollari...».

«Così tanto?».

La cifra la stupiva, ma si capiva che per lei non aveva un significato preciso.

«Permetti che telefoni a casa?».

Isabel rispose subito.

«Avevi ragione... Non riesco a tornare a Brentwood stasera... Sì, ho visto i Miller, e per domani devo studiarmi i documenti che mi hanno consegnato...».

«Sei da Mona?».

«Sono appena tornato da lei...».

«Pensi di passare la notte all’Algonquin?».

È il vecchio hotel dove alloggiamo di solito quando pernottiamo a New York. Si trova nel quartiere dei teatri e ci sono stato per la prima volta con mio padre quando avevo otto anni.

«Ancora non lo so...».

«Capisco...».

«Tutto bene a casa?».

«Nessuna novità...».

«Buonanotte, Isabel...».

«Buonanotte, Donald... Salutami Mona...».

Mi voltai verso di lei e ripetei a voce alta:

«Mia moglie le manda i suoi saluti».

«La ringrazi e saluti da parte mia...».

Quando ho riattaccato, Mona mi ha guardato con una domanda negli occhi.

Ho capito che pensava all’Algonquin.

«Per via di Janet...» ho mormorato.

«Credi che Janet non abbia già capito?».

Rivolse lo sguardo al divano.

«Potremmo andare a cena in un ristorantino poco noto e poi tornare a dormire qui...».

Ha riempito di nuovo i bicchieri.

«Dovrò abituarmi a bere meno. Bevo troppo, Donald...».

Poi, dopo un attimo di riflessione, come colpita da un pensiero improvviso:

«Non hai paura che Isabel ti chiami all’Algonquin?».

Ho risposto sorridendo:

«Credi che non abbia già capito anche lei?».

Mi chiedevo se mi sarebbe toccato dormire nel letto di Ray. Alla fine ci siamo stretti tutti e due nel letto di Mona, accanto al letto rimasto vuoto.


Parte seconda

1

Isabel continua a guardarmi. Nient’altro. Non mi fa domande. Non mi rivolge alcun rimprovero. Non piange. Non si atteggia a vittima.

La vita continua come prima. Dormiamo sempre nella stessa camera, usiamo la stessa vasca, mangiamo l’uno di fronte all’altro e, la sera, quando non ho del lavoro da sbrigare, leggiamo o guardiamo la televisione.

Ogni due settimane le ragazze vengono a passare il week-end da noi e non si accorgono di nulla, credo. Vero è che sono prese più dalla loro vita personale che dalla nostra.

In fondo a loro non interessiamo più, almeno non a Mildred. Nei suoi pensieri occupa uno spazio molto maggiore il fratello ventenne di una delle sue amiche.

Tutti i giorni, mattino, mezzogiorno e sera, Isabel mi guarda con i suoi occhi azzurro pallido contro i quali ho l’impressione di andare a sbattere e alla fine non so più che cosa dicono quegli occhi.

Racchiudono forse un messaggio?

«Attento, mio povero Donald...».

No. Sono troppo freddi per comunicare una cosa del genere.

«Se credi che non capisca cosa succede...».

Di sicuro vuole mostrarmi che è lucida, che non le sfugge niente, che non le è mai sfuggito niente.

«Stai attraversando una crisi, ci passano praticamente tutti gli uomini della tua età...».

Se è questo che pensa, si sbaglia di grosso. Mi conosco. Non sono tipo da subire gli sbandamenti della mezza età. D’altronde, non sono innamorato. E tanto meno mi abbandono a una sessualità morbosa.

Non perdo il controllo, rimango attento a quello che succede in me e intorno a me, e con ogni probabilità sono l’unico a sapere che non c’è niente di nuovo nei miei pensieri oscuri, li ho solo lasciati affiorare alla luce del sole e finalmente oso guardarli in faccia.

Ma allora che cosa vogliono dire quegli occhi? «Ti compatisco...».

Questo è già più plausibile. C’è sempre stato in lei un bisogno di proteggermi, o di dare l’impressione di proteggermi, allo stesso modo in cui si illude di proteggere le nostre figlie e di dare impulso a tutte le opere di carità a cui è dedita.

Con quell’aria modesta, schiva, in realtà è la donna più orgogliosa che abbia mai conosciuto. Non mostra nessun cedimento, nessuna delle piccole debolezze umane.

«Io ci sarò sempre, Donald...».

C’è anche questo nei suoi occhi: la fedele consorte pronta a sacrificarsi fino alla fine!

Ma sotto sotto c’è dell’altro.

«Tu ti illudi di esserti liberato... Ti credi diverso... In realtà resti il ragazzino che ha bisogno di me e non ti libererai mai...».

Non sono più sicuro di niente. Ora propendo per un’ipotesi, ora per un’altra. Vivo sotto il suo sguardo come un microbo al microscopio, e arrivo a odiarla.

Sono passati tre mesi dalla notte nel fienile. Adesso la panchina ha ripreso il suo posto in giardino, proprio vicino alla scarpata in cui è precipitato Ray. Le ultime chiazze di neve sono state assorbite dal terreno scaldato dal sole e un po’ ovunque spuntano le macchie gialle delle giunchiglie.

Il primo mese sono andato a New York anche due volte alla settimana, fermandomi quasi sempre a dormire, giacché le formalità relative alla successione di Ray richiedono un bel po’ di tempo e di procedure.

«Dove devo chiamarti se avessi urgenza di contattarti la sera?».

«Da Mona».

Non mi nascondo. Conτεnuto rubαto al sito εurεκαddΙ. Anzi, lo sbandiero, e quando torno da New York sono contento di sentire l’odore di Mona sulla mia pelle.

Non ho più dovuto prendere il treno a causa del maltempo. Faccio la strada in macchina. Di fronte all’appartamento di Mona c’è un parcheggio. O meglio, c’era, dato che da quindici giorni Mona non abita più a Sutton Place.

Grazie a certi amici ha trovato un appartamento sulla Cinquantaseiesima, tra la Quinta Avenue e Madison, in una di quelle case strette in stile olandese così piene di fascino.

Al pianoterra c’è un ristorante francese dove preparano un gustoso coq au vin. L’appartamento si trova al terzo piano e ovviamente è molto più piccolo di quello di Sutton Place.

E anche più intimo, più accogliente. Per arredare il living room, Mona ha tenuto i mobili del boudoir, compreso il divano tappezzato di seta giallo oro.

Il letto è nuovo, un ampio letto a due piazze, piuttosto basso, ma la toeletta e la bergère sono le stesse.

In sala da pranzo si può mangiare al massimo in sei o in otto, ma in compenso Janet dispone di una cucina abbastanza grande e di una graziosa camera.

Non so chi siano gli amici che le hanno trovato questo appartamento. Ai tempi di Ray erano molto mondani, avevano gente a cena o uscivano quasi tutte le sere.

Io rimango estraneo a quell’ambiente. Come per un tacito accordo, non ne parliamo. Non so chi veda Mona quando io non sono a New York, o se abbia uno o più amanti.

È possibile. Le piace fare l’amore, senza sentimentalismi, direi quasi senza passione, da buoni amici.

Ogni volta che arrivo mi riceve in vestaglia e, con grande naturalezza, la spingo sul divano dove l’ho penetrata la prima volta.

Dopo lei riempie di scotch due bicchieri, li porta in camera da letto e si fa bella.

«Come sta Isabel?».

Mi chiede di lei ogni volta.

«Continua a non dire niente?».

«Mi guarda...».

«È una tattica».

«Che cosa intendi?».

«A furia di guardarti in silenzio, senza rivolgerti il minimo rimprovero, finirà per farti sentire in colpa».

«No».

«Lei ci conta».

«Forse, ma in tal caso si sbaglia».

Mona è incuriosita da Isabel e la sua personalità la intimidisce.

Per me è uno dei momenti più belli della giornata, della settimana. Mentre lei si prepara io sprofondo beato in quell’intimità come in un bagno caldo.

Conosco ogni gesto, ogni smorfia, il modo che ha di sporgere le labbra per mettersi il rossetto.

Quando si fa il bagno, seguo le goccioline d’acqua che scorrono a zig-zag sulla sua pelle ambrata. Al contrario di Isabel, che ha la pelle di un bianco rosato, la sua ha riflessi dorati.

È veramente minuta. Pesa pochissimo.

«Lowenstein si è deciso?».

Perché continuiamo comunque a parlare dei suoi affari. Anzi, ce ne occupiamo molto. Lowenstein è l’arredatore che si è offerto di comprare in blocco tutti i mobili di Sutton Place, tranne quei pochi che Mona ha deciso di tenere.

Bisognava solo accordarsi sul prezzo. Ormai la faccenda è sistemata e nell’appartamento di Sutton Place è subentrato un attore arrivato di recente da Hollywood per recitare a Broadway.

Le trattative con i fratelli Miller stanno per concludersi e già da un pezzo il nome di Sanders è stato raschiato dalle vetrate dove figurava dopo quelli di Miller & Miller. Restano solo da definire gli ultimi dettagli.

Non ho mai chiesto a Mona che cosa ne ha fatto dei vestiti di Ray, delle sue mazze da golf e di una serie di effetti personali che non vedo più in giro.

Spesso scendiamo a mangiare al ristorantino al pianoterra, e occupiamo sempre lo stesso tavolo d’angolo. Il proprietario viene a stringerci la mano. Ci trattano come se fossimo marito e moglie, e la cosa ci diverte.

Nel pomeriggio ho sempre qualche giro da fare, sia per gli affari di Mona, sia per i miei. Ci diamo appuntamento in un bar e beviamo qualche martini, giacché abbiamo adottato il martini dry come aperitivo serale.

Beviamo parecchio, forse troppo, ma senza mai sbronzarci.

«Dove andiamo a cena?».

Ci avviamo senza meta, a piedi e spesso Mona, arrampicata sui tacchi alti, mi si aggrappa al braccio. Una volta abbiamo incontrato Justin Greene, di Canaan, uno degli ospiti del vecchio Ashbridge presenti al famigerato party. Era indeciso se salutarci o no. Mi sono voltato e nello stesso istante si è voltato anche lui e mi è parso imbarazzato.

Adesso tutta Brentwood e dintorni saprà che ho un’amante a New York. Chissà se ha riconosciuto Mona. È possibile, anche se improbabile, giacché era la prima volta che lei metteva piede dagli Ashbridge e non ha fatto niente per farsi notare.

«È un tuo cliente?».

«Un conoscente... Abita a Canaan...».

«Non ti secca che ci abbia visto?».

«No...».

Tutt’altro! Avevo chiuso con quella gente. Un giorno si sarebbero resi conto che, seppure fingevo ancora di stare al gioco, in realtà non ci credevo più.

Un sabato sono andato a Torrington. È una cittadina tranquilla con due vie di negozi circondate da quartieri residenziali.

A ovest c’è qualche industria, ma quasi artigianale, una fabbrica di orologi, per esempio, e un’altra, sorta di recente, dove si producono minuscole parti di strumenti elettronici.

La casa in cui sono nato si trova sulla via principale, all’angolo di un vicolo cieco, con la scritta «The Citizen» in caratteri gotici. La maggior parte degli operai della tipografia lavora con mio padre da più di trent’anni. Tutto è vecchiotto, comprese le macchine che quando ero piccolo mi incantavano tanto.

Poiché era sabato, la tipografia era chiusa. Mio padre, però, era ugualmente nella sua gabbia vetrata e dalla strada lo si vedeva, come al solito in maniche di camicia.

Era sempre stata la sua postazione, sin dall’inizio, quasi a proclamare che il giornale non aveva niente da nascondere.

La porta non era chiusa a chiave. Sono entrato, mi sono seduto davanti alla grande scrivania e ho aspettato che mio padre alzasse la testa.

«Sei tu?».

«Scusami se non sono venuto ultimamente...».

«Vuol dire che avevi altro da fare. Quindi non hai motivo di scusarti...».

È lo stile di mio padre. Non credo che mi abbia mai dato un bacio, neanche nei miei primi anni di vita. La sera, si limitava a porgermi la fronte, come Isabel. E neppure l’ho mai visto baciare mia madre.

«La salute va bene?».

Nell’istante in cui rispondevo di sì mi resi conto che dall’ultima volta mio padre era parecchio invecchiato. Il collo era così magro che si vedevano come delle corde sottopelle e gli occhi apparivano sbiaditi.

«Qualche giorno fa è passata tua moglie...».

Isabel non mi aveva detto niente.

«È venuta a fare spese, a comprare qualche piatto, credo, da quel vecchio farabutto di Tibbits...».

Un negozio che esisteva già ai miei tempi e dove si vendevano ceramiche e argenteria. Avevo conosciuto il vecchio Tibbits e poi suo figlio, ormai vecchio anche lui.

All’epoca del nostro matrimonio avevamo comprato da Tibbits il servizio da tavola, e quando i pezzi rotti diventavano troppi Isabel andava a Torrington per comprarne di nuovi.

«Sei sempre contento?».

I rapporti tra me e mio padre erano talmente pudichi che non sapevo mai come interpretare le sue domande. Mi chiedeva spesso se ero contento, così come mi chiedeva della salute di Isabel e delle ragazze.

Stavolta, però, quella domanda sembrava spingersi oltre. Mia moglie gli aveva detto qualcosa? Le voci erano giunte fino a Torrington?

Continuava a scorrere le bozze, a cancellare una parola con un tratto di penna e sostituirla con un’altra a margine.

Abbiamo mai avuto qualcosa da dirci? Restavo lì a guardarlo, voltandomi ogni tanto verso la strada, che era molto più animata rispetto ai tempi della mia infanzia. Una volta le macchine si contavano ed era possibile parcheggiare ovunque.

«Quanti anni hai, a proposito?».

«Quarantacinque...».

Scosse la testa, mormorò come tra sé:

«Certo, sei giovane...».

Lui ne avrebbe compiuti ottanta. Si era sposato tardi, dopo la morte di suo padre, che era stato il direttore del «Citizen» prima di lui. Si era fatto le ossa a Hartford e, per alcuni mesi, in un quotidiano di New York.

Avevo un fratello, Stuart, che se non fosse stato ucciso in guerra avrebbe verosimilmente rilevato la tipografia. Lui era quello più simile a mio padre e ho l’impressione che loro due andassero molto d’accordo.

Anche noi andavamo d’accordo, ma non c’era intimità tra noi.

«In fondo è la tua vita...».

Parlava tra i denti. Potevo anche fingere di non aver sentito. Meglio lasciar cadere la conversazione, cambiare argomento?

«Alludi a Mona?».

Mio padre si aggiustò gli occhiali sul naso e mi guardò.

«Non sapevo che si chiamasse Mona...».

«Isabel non te l’ha detto?».

«Isabel non mi ha detto niente... Non è una donna che va in giro a raccontare gli affari suoi, foss’anche a suo suocero...».

C’era una palese ammirazione nella sua voce. Si sarebbe detto che lui e Isabel fossero della stessa razza.

«Allora da chi hai saputo che ho un’amante?».

«Se ne parla... Ne parlano un po’ tutti... Pare che sia la vedova del tuo amico Ray...».

«Esatto».

«Quello che ha avuto un incidente a casa tua la notte della tormenta, giusto?».

Arrossii, avvertendo una vaga accusa dietro le sue parole.

«Non sono io ad associare i fatti, ragazzo mio... È la gente...».

«Che gente?».

«I tuoi amici di Brentwood, di Canaan, di Lakeville... Alcuni si chiedono se hai intenzione di divorziare e di trasferirti a New York...».

«Non ci penso neanche...».

«Non è una domanda, ma l’hanno chiesto a me e io ho risposto che la faccenda non mi riguardava...».

Nemmeno lui mi rivolgeva rimproveri. Sembrava che non avesse intenzioni recondite, proprio come Isabel. Riempì la sua vecchia pipa ricurva con il fornello bruciato e la accese lentamente.

«Sei venuto per dirmi qualcosa?».

«No...».

«Avevi da fare a Torrington?».

«Nemmeno... Avevo voglia di vederti, tutto qui...».

«Vuoi salire di sopra?».

Aveva capito che non ero venuto solo per rivedere lui, ma anche la casa, che ero lì, insomma, per misurarmi con la mia giovinezza.

È vero, mi sarebbe piaciuto salire, visitare l’appartamento di una volta, dove avevo gattonato quando ancora non mi reggevo sulle gambe e mia madre mi appariva un essere immenso.

Mi ricordo il suo eterno grembiule a quadretti, come si portavano ancora all’epoca.

E invece no. Non potevo più salire di sopra. Non dopo quello che mi aveva appena detto mio padre.

E non potevo più nemmeno entrare in contatto con lui, come avevo segretamente sperato.

In sostanza, che cosa ero venuto a fare?

«Di sopra dev’esserci un po’ di disordine, perché il sabato e la domenica la donna di servizio non viene...».

Immaginavo quel vecchio da solo nell’appartamento in cui avevamo vissuto in quattro. Aspirava lente boccate dalla pipa che faceva un gorgoglio familiare.

«Il tempo passa, figlio mio... Per tutti, sai... Tu sei arrivato a metà strada... Io comincio a intravedere la fine...».

Non si autocommiserava, non sarebbe stato nel suo carattere. Sentivo che parlava per me, che si sforzava di trasmettermi il suo pensiero.

«Isabel era seduta proprio dove ti trovi tu in questo momento... Quando ce l’hai presentata, a me e a tua madre non piaceva per niente...».

Non riuscii a trattenere un sorriso. Isabel era di Litchfield e, nel circondario, quelli di Litchfield passano per essere degli snob che si credono di una razza a parte.

Ampi viali, molto verde, case armoniose e, soprattutto il mattino, cavallerizzi e cavallerizze a passeggio.

Isabel aveva il suo cavallo.

«Ti puoi sbagliare sul conto delle persone, sai, anche quando credi di conoscerle. Isabel è una donna a modo».

Dire di qualcuno che era una persona a modo era il complimento più grande che mio padre potesse fare.

«Come ho già detto, sono affari tuoi...».

«Non sono innamorato di Mona e non abbiamo nessun progetto per il futuro».

Tossì. Da qualche anno soffriva di bronchite cronica e ogni tanto aveva tremendi accessi di tosse.

«Ti chiedo scusa...».

La sua decadenza fisica lo umiliava. Aborriva infliggere al prossimo un tale spettacolo. Credo fosse quello il motivo per cui avrebbe preferito che non andassimo più a trovarlo.

«Cosa dicevi?... Ah, sì!...».

Riaccese la pipa e, tra una tirata e l’altra, disse scandendo le sillabe:

«Allora è anche peggio...».

 

 

Ho sbagliato ad andare a trovare mio padre. Sono sicuro di averlo deluso. E sono deluso anch’io. Non c’è stato nessun contatto tra noi, mentre, da quel poco che mi ha detto, mi rendo conto che lui e Isabel sono riusciti a stabilire un contatto.

Quando sono risalito in macchina, dal finestrino ho visto che mi guardava partire, probabilmente pensando, come me, che forse quello sarebbe stato il nostro ultimo incontro.

Per tutto il tragitto ho avuto davanti agli occhi il suo viso sciupato, la sua dignità malinconica, e mi sono fatto delle domande. Ha davvero conservato una fede incrollabile e, al momento di andarsene, si fa ancora delle illusioni?

Crede sul serio all’utilità di quel piccolo giornale che cent’anni, e ancora sessant’anni fa, protestava contro le ingiustizie e oggi è ridotto a compiacere la vanità della gente, notificando fidanzamenti, matrimoni, ricevimenti e altri eventi locali senza importanza?

Ha dedicato la vita a quel giornale, mettendoci lo stesso impegno che se si fosse battuto per una grande causa, e ci si aggrappa fino al suo ultimo respiro.

Lo stesso avrebbe fatto mio fratello, se non fosse caduto al fronte. E non è forse, con qualche piccola differenza, quello che ho fatto anch’io, finché non ho acceso la prima sigaretta seduto sulla panchina nel fienile?

A un certo punto ho rallentato. Ultimamente mi capita, all’improvviso, di avere una sensazione di vertigine. Non sono malato. E non è neppure stanchezza, dato che non sto lavorando più del solito.

Sarà l’età? È vero che adesso ho la cognizione della mia età, mentre prima non ci pensavo, e che la vista di mio padre me l’ha rafforzata.

Avrei voluto spiegargli la faccenda di Mona. Ho tentato. Ma avrebbe capito che lei per me è soprattutto un simbolo?

Non siamo innamorati. Non sono neanche sicuro di credere nell’amore, in ogni caso non nell’amore che dura tutta la vita.

Ci accoppiamo perché ci conforta sentirci pelle contro pelle, vivere allo stesso ritmo. È il massimo a cui si possa ambire nell’unione di due esseri.

Abbiamo tutti bisogno di qualcuno. Io ho avuto bisogno di Isabel, anche se non nello stesso modo. Di lei ho avuto bisogno come testimone, come salvaguardia, non lo so di preciso. Sono andato talmente oltre che io stesso non capisco più che cosa cercavo in lei, e comincio a odiarla.

Il suo sguardo mi esaspera. È diventato un’ossessione. Quando sono tornato, benché non le avessi detto niente di Torrington o di mio padre, mi ha chiesto:

«Come sta?».

Vero è che non era difficile intuirlo. Non mancavano gli indizi. Ciò non toglie che mi sento sempre attaccato a un filo. Ovunque io sia, qualsiasi cosa io faccia, è un po’ come se avessi sempre i suoi occhi addosso.

Ormai vado a New York solo una volta alla settimana, dal momento che la pratica della successione si è conclusa e, anche nei riguardi di Mona, avevo bisogno di una scusa. Non devo tornare a essere quello di prima. Non potrei più sopportarlo. Se hai fatto certe scoperte laceranti, dopo è impossibile tornare indietro.

Lo ammetto, ho bisogno di Mona, della sua presenza, di un’intimità animale. Mi piace quando, nuda o seminuda, si fa bella senza badare a me. Mi piace, a letto, sentire la sua pelle contro la mia.

Per il resto, però, il nostro è un esperimento fallito. Ho parlato dei ristoranti dove andavamo a pranzo o a cena, dei baretti dove, nel tardo pomeriggio, prendevamo i nostri martini.

Certo, continuavamo a essere buoni amici. Stavamo bene insieme. Ma, a dire la verità, sentivo di non essere in contatto con lei e a volte dovevo sforzarmi per trovare un argomento di conversazione. Lo stesso valeva per lei.

Eppure lei rappresenta tutto ciò che per quarantacinque anni non ho avuto, tutto ciò da cui, per paura, mi sono tenuto lontano.

Le ragazze sono tornate a casa. Ho osservato con attenzione Mildred. Mi piace il suo incarnato, che ha il colore caldo del pane, e il modo che ha di arricciare il naso quando sorride. Ha cominciato a truccarsi, certo non a scuola, dove sarà sicuramente proibito, ma a casa sì.

Crede che non ce ne accorgiamo? Ha passato la domenica pomeriggio dalla sua amica, quella che ha un fratello di vent’anni. Scommetto che un giorno se lo ricorderà come il suo primo amore. Non immagina neanche lontanamente che il ricordo di quegli sguardi furtivi, di quei rossori, delle mani che si sfiorano come per caso, la perseguiterà per il resto della vita.

Non diventerà carina nel senso abituale del termine. Non è neppure bella. Chissà che tipo di uomo incontrerà e che genere di esistenza condurrà con lui.

La vedo bene nel ruolo di madre di famiglia, una di quelle donne che profumano di pasticcini, come dico io.

Quanto a Cecilia, non saprei. Resta un enigma per me, e non mi stupirei se possedesse una personalità molto spiccata. Ci guarda vivere e sono quasi sicuro che non ci approva, che per noi nutre solo disprezzo.

Che strano! Per anni ti dedichi ai figli, tanto che diventano il fulcro intorno a cui ruota tutto il resto. In funzione loro adatti la casa, le domeniche, le vacanze. Poi, un bel giorno, ci si ritrova tra perfetti estranei, come succede tra me e mio padre.

Mi ripeto che ho sbagliato ad andare a trovarlo. Quella visita ha accentuato un pessimismo a cui tendo sin troppo facilmente ad abbandonarmi quando non sono a New York.

E anche quando ci sono, in fondo, tranne che in certi momenti che si riducono a pochi minuti.

Mi azzarderei a parlare addirittura di cospirazione. Tra Isabel e mio padre, per cominciare!

Perché è andata a Torrington? Era così urgente comprare dei piatti nuovi, visto che per lo più a tavola siamo solo noi due? Da sei mesi non abbiamo ospiti.

Mio padre sostiene che lei non gli ha parlato né di me né di Mona. E sia. Non ho motivo per non credergli. Ma lui? Non poteva essere stato lui a tirare fuori l’argomento? Anche ammesso che non abbia detto niente, è bastato che si guardassero.

«Allora, che combina Donald?».

Probabilmente lei ha sorriso, un sorriso pallido come un sole dopo la pioggia.

«Non si preoccupi per lui...».

C’è lei a vegliare su di me, no? Non veglia su di me ogni giorno, in ogni momento?

E la gente del paese che si impiccia dei fatti miei e bisbiglia quando mi vede. Finalmente un pettegolezzo da far girare... Donald Dodd, ha presente? L’avvocato che ha lo studio quasi di fronte all’ufficio postale... il socio del vecchio Higgins, sì... quello con la moglie così gentile, così dolce, così devota... be’, ha un’amante a New York!...

Ci si mette anche Higgins. Quando gli annuncio che l’indomani vado a New York, mi chiede:

«Si trattiene due giorni?».

«No, stavolta no...».

Eppure dovrebbe essere contento, visto che i fratelli Miller ci hanno versato un onorario più che sostanzioso per il lavoro che ho svolto. Io l’avrei fatto anche gratis, per aiutare Mona. Sono stati loro a insistere.

Warren, il nostro medico di famiglia, è venuto in ufficio da me per sottopormi una questione relativa alla sua dichiarazione dei redditi, dato che gli faccio da commercialista. Mi ha osservato a lungo mentre chiacchieravamo, e ho il sospetto che la faccenda delle tasse sia stato un mero pretesto.

Isabel era capacissima di avergli telefonato, e di avergli detto, che so:

«Senta, dottor Warren... Sono preoccupata... Da un po’ di tempo Donald non è più lo stesso... Ha cambiato umore... È strano».

Di colpo ho guardato Warren dritto negli occhi. È un vecchio amico. Era tra gli ospiti degli Ashbridge, il 15 gennaio.

«Anche lei mi trova strano?».

È trasalito al punto che stavano per cadergli gli occhiali.

«Che cosa vuole dire?».

«Quello che ho detto... Negli ultimi tempi la gente si volta e mormora alle mie spalle... Isabel mi guarda come se si chiedesse che cosa mi stia succedendo e ho il forte sospetto che sia stata lei a mandarla qui...».

«Le assicuro, Donald...».

«Insomma, sono strano sì o no?... Le sembro un uomo nel pieno possesso delle sue facoltà?...».

«Sta scherzando, vero?».

«Niente affatto... Pensi che a New York mi capita di vedere un’amica con cui ho rapporti sessuali...».

Ho pronunciato le ultime parole con enfasi beffarda.

«La sorprende?».

«Perché dovrebbe?».

«Lo sapeva già?».

«L’avevo sentito dire...».

«Visto?... E che altro le hanno detto?...».

Era imbarazzatissimo. Probabilmente si pentiva di essere venuto.

«Non lo so... Che potrebbe prendere certe decisioni...».

«Per esempio?».

«Di trasferirsi a New York...».

«E divorziare?».

«Forse».

«Glielo ha detto anche Isabel?».

«No...».

«L’ha vista di recente?».

«Dipende da che cosa intende per recente...».

«Un mese fa?...».

«Mi sembra...».

«È venuta nel suo ambulatorio?».

«Dimentica il segreto professionale, Donald...».

Si sforzava di sorridere e di parlare con il tono più noncurante possibile. Si alzò, ma io non intendevo ancora lasciarlo andare.

«Se è venuta da lei non è stato per problemi di salute... È venuta a parlarle di me, a dirle che è preoccupata, che non sono più lo stesso...».

«Non mi piace la piega che sta prendendo la conversazione...».

«Neanche a me, ma comincio a non sopportare di essere motivo di curiosità... Non sono stato io a cercarla, è venuto lei da me, con una misera scusa, per guardarmi in faccia, tastarmi il polso...

«Vorrebbe prescrivermi qualche esame?... Ha visto a sufficienza per tranquillizzare mia moglie?... Sembro strano anche a lei perché parlo fuori dai denti?...

«Lei è molto più amico di Isabel che mio... È così per tutti i nostri amici... Isabel è una donna eccezionale, di una devozione esemplare, di una bontà sconfinata...

«Be’, mio caro Warren, non si va a letto con la devozione e la bontà... L’ho fatto per troppo tempo e ne ho abbastanza... Andrò a New York o da un’altra parte quando ne avrò voglia, alla faccia degli onesti abitanti del paese...

«Quanto a Isabel, se è preoccupata la tranquillizzi pure... Non ho intenzione di divorziare e di rifarmi una vita altrove... Continuerò a lavorare in questo ufficio e la sera tornerò buono buono a casa...

«Allora, trova ancora che io sia strano?».

Ha scosso la testa con aria sconsolata.

«Non so proprio che cosa le prenda, Donald... Ha bevuto?...».

«Non ancora... Ma lo farò tra poco...».

Ero fuori di me. Non so perché, all’improvviso mi è salita una gran rabbia. E per di più davanti al povero Warren, che è l’ultima persona al mondo con cui dovrei prendermela.

Il dottor Pillole, lo chiamano i bambini. Alle visite a domicilio si presenta con una borsa che ricorda la valigetta di un commesso viaggiatore. Un intero lato è pieno di boccette e tubetti e lui, dopo aver auscultato il malato, scorre con lo sguardo la sua collezione, sceglie una boccetta e, a seconda dei casi, prende due, quattro o sei pillole e le infila in una bustina.

Ci sono pillole di tutti i colori: rosse, verdi, gialle e arcobaleno – le preferite in assoluto dalle mie figlie quando erano piccole.

«Ecco qui... Ne prenda una un quarto d’ora prima di cena e un’altra prima di andare a dormire... Domattina...».

Povero Warren! L’avevo completamente spiazzato, e la mia rabbia stava già svanendo, in modo repentino, così com’era arrivata.

«Le chiedo scusa, amico mio... Se fosse al mio posto capirebbe... Per quanto riguarda la mia salute mentale, credo che non sia ancora arrivato il momento di preoccuparsi... Ne conviene?...».

«Non ho pensato neanche per un istante...».

«Può darsi, ma in compenso ci ha pensato qualcun altro... Tranquillizzi Isabel... Non le dica che glielo mando a dire io...».

«Non mi porta rancore, vero?».

«No...».

Non gli portavo rancore, ma ero scosso, perché sospettavo di aver appena scoperto il motivo dell’inquietudine negli occhi di mia moglie.

Isabel era sempre stata così sicura di me, così sicura di quello che riteneva essere il mio equilibrio, da non poter credere che fossi deliberatamente cambiato.

Ripensai, ancora una volta, ai mozziconi di sigaretta che aveva fatto sparire. Forse credeva davvero che avessi spinto Ray...

E, ai suoi occhi, i miei viaggi a New York e la mia intimità con Mona, che dalla morte del mio amico ostentavo quasi con cinismo, ne erano la prova.

In tal caso, doveva avermi dato di volta il cervello. Per lei non c’era altro modo di spiegare il mio comportamento...

Avevo appena parlato di bere. Infatti attraversai la strada per andare a prendere uno scotch al bar di fronte, frequentato soprattutto da camionisti, in cui non metto praticamente mai piede.

«Un altro, per favore...».

Pure lì mi guardavano, neanche a dirlo, e se mai fosse entrato il tenente Olsen il mio comportamento gli avrebbe dato da pensare.

Un altro che aveva dei dubbi. Mi stupiva che non fosse tornato alla carica. Era davvero convinto che la morte di Ray fosse dovuta a un semplice incidente?

Gli era certamente arrivato all’orecchio che ero l’amante di Mona e che ci avevano visto a braccetto in giro per New York.

Pur avendone voglia, rinunciai a ordinare un terzo scotch. Ho riattraversato la strada e sono tornato in ufficio.

«Va a New York questa settimana?».

«Perché me lo chiede?».

«Perché se ci va le chiederei di sbrigare una pratica per me... In quale quartiere alloggerà?».

«Sulla Cinquantaseiesima...».

«Si tratta di registrare un documento al consolato del Belgio, al Rockefeller Center...».

«Forse ci andrò giovedì...».

«L’ha strapazzato per bene, il povero Warren, eh?... Mio malgrado non ho potuto fare a meno di sentire...».

«Anche lei mi trova strano?».

«Strano no, ma cambiato sì. Mi sono addirittura chiesto se rimarrà qui o se dovrò cercarmi un altro socio... Per me sarebbe un disastro... Mi ci vede, alla mia età, mettermi a tirar su un giovane?... I Miller non le hanno proposto di entrare in società?...».

«No...».

«Mi sorprende da parte loro...».

Non dicevo la verità. Certo, non mi avevano fatto nessuna proposta esplicita, ma si erano informati sui miei progetti, sulla mia vita a Brentwood, e avevo capito dove volevano andare a parare.

Anche loro hanno frainteso la natura dei miei rapporti con Mona. Hanno creduto al grande amore e si sono immaginati che nel giro di qualche settimana mi sarei stabilito a New York per vivere con lei e sposarla.

Così mi sarei messo davvero nei panni di Ray!

«In ogni caso, sono contento che lei resti...».

Dal suo ufficio, che dà sulla strada, mi aveva visto attraversare ed entrare al bar di fronte, cosa che non appartiene alle mie abitudini.

Chissà cosa pensa quella vecchia volpe, che sembra più uno scaltro mercante di bestiame che un avvocato.

Al diavolo! Pensino pure quel che vogliono, tutti quanti, compresa Isabel, naturalmente, Isabel prima di tutti!

Quando sono tornato a casa, mi ha accolto con un sorriso mieloso, come se fossi infelice o malato.

È un giochino che mal sopporto, eppure mi toccherà abituarmici. Dovrei decidermi una volta per tutte a non badare ai suoi sguardi.

Lo fa apposta. È la sua arma segreta. Sa che mi sforzo di capire, che il suo atteggiamento mi mette a disagio, mi rende insicuro.

Dispone di un’intera gamma di sguardi di cui si serve come di strumenti di precisione. Alle parole potrei rispondere, ma agli occhi rispondere è impossibile.

Se le chiedessi:

«Perché mi guardi così?».

Lei ribatterebbe con un’altra domanda:

«E come ti guardo?».

Nei modi più diversi. A seconda dei giorni, delle ore. A volte ha gli occhi vacui, ed è forse la cosa più sconcertante. Lei è presente. Mangiamo. Io dico qualcosa, per risparmiarci un silenzio penoso.

E lei mi guarda con occhi assenti. Guarda le mie labbra muoversi come si guarda un pesce aprire e chiudere la bocca nella sua boccia di vetro.

Altre volte, invece, mi fissa con le pupille ridotte a un puntino, come angosciata da una domanda.

Quale domanda? Dopo diciassette anni di matrimonio si faceva ancora delle domande?

I suoi atteggiamenti, i suoi gesti, il modo che aveva di inclinare la testa sulla sinistra, il mezzo sorriso che le aleggiava perennemente sulle labbra, tutto questo non cambiava mai, restava immutabile. Era una statua.

Purtroppo quella statua era mia moglie, e aveva occhi.

La cosa più strana era quando, al mattino e alla sera, mi chinavo a sfiorarle con le labbra la fronte o la guancia. Lei non si muoveva, non batteva ciglio.

«Buongiorno, Isabel...».

«Buongiorno, Donald...».

Era come infilare una moneta da dieci cents nella fessura della cassetta delle elemosine in chiesa.

Cercavo di non spogliarmi più davanti a lei. Mi imbarazzava, così come mi imbarazzava vederla seminuda.

Lei invece continuava a farlo. Di proposito. Non in maniera spudorata. Era sempre stata molto pudica. Ma come fosse un diritto acquisito.

Esistevano solo due uomini al mondo davanti ai quali le era concesso spogliarsi: suo marito e il suo medico.

Chissà se, dopo la nostra scenata, Warren le aveva telefonato. L’aveva tranquillizzata? Le aveva raccontato cos’era successo?

In certi momenti mi veniva voglia di perdere le staffe. Ma mi trattenevo. Non volevo darle quella soddisfazione. Perché ne avrebbe gongolato.

Non solo era una donna intelligente, buona, devota, indulgente, e non so che altro ancora – le avrei fornito in aggiunta la palma del martirio!

La odiavo veramente. E mi rendevo conto che in fondo non era colpa sua. E tanto meno mia. In fin dei conti lei rappresentava tutto quello che avevo subìto, l’oppressione di tutta una vita, l’umiltà che mi ero imposto.

«Non ti mettere le dita nel naso...».

«Bisogna portare rispetto agli anziani...».

«Va’ a lavarti le mani, Donald...».

«Non si appoggiano i gomiti sul tavolo...».

Quelle frasi non le pronunciava Isabel, ma mia madre. Eppure, per diciassette anni, gli sguardi di Isabel mi avevano detto esattamente la stessa cosa.

So che potevo prendermela solo con me stesso, dal momento che l’avevo scelta io.

E il bello è che l’avevo scelta apposta.

Perché mi tenesse d’occhio? Mi giudicasse? Mi impedisse di commettere sciocchezze irreparabili?

Può darsi. Mi è difficile rimettermi nei panni del me stesso di quando l’ho conosciuta. A quei tempi ero tentato di raggiungere Ray a New York. Mi avevano anche parlato di un posto a Los Angeles ed ero stato sul punto di accettare.

Che uomo avrei potuto essere? Che uomo sarei diventato senza Isabel?

Avrei sposato una come Mona?

Avrei guadagnato anch’io soldi a palate, arrivando a disprezzare me stesso al punto di pensare al suicidio?

Non lo so. Preferisco non saperlo, non farmi più domande. Avrei voluto mettere insieme un fascicolo preciso, ordinato, senza sbavature.

Obiettivo mancato.

E continuo, alla mia età, a spiare gli sguardi di mia moglie!

2

Le vacanze di Pasqua sono state terribili. Il tempo era radioso, ogni giorno splendeva lo stesso sole ancora giovane e in cielo vagava qualche nuvola dorata. Sotto le finestre del living room, l’aiuola brulicava di fiori e di api.

Benché facesse ancora freddo, le ragazze hanno approfittato della piscina e anche la madre ci si è tuffata due o tre volte. Siamo andati in gita a Cape Cod e abbiamo fatto una lunga passeggiata a piedi nudi sulla sabbia, in riva a un mare appena increspato.

Dentro di me non mi sentivo più né un marito né un padre. Non ero più niente. Una carcassa vuota. Un automa. Non mi interessava più neanche la professione di avvocato e vedevo sin troppo chiaramente la cialtroneria dei miei clienti.

Io non ero certo meglio di loro. Non avevo alzato un dito per impedire che Ray morisse in mezzo alla neve, ai piedi della scarpata. Il punto non è stabilire se il mio intervento avrebbe cambiato qualcosa. Il fatto nudo e crudo è che io ero andato a sedermi sulla panchina rossa nel fienile.

E a poco a poco, fumando una sigaretta dopo l’altra al riparo dalla tormenta, avevo provato una soddisfazione fisica, un calore nel petto, all’idea che lui fosse morto o sul punto di morire.

Quella notte avevo scoperto che per tutto il tempo che l’avevo conosciuto non avevo smesso di invidiarlo e di detestarlo.

Non ero più l’amico e neppure più il marito, il padre, il cittadino di cui avevo recitato la parte. Era solo una facciata. Il sepolcro imbiancato delle Sacre Scritture.

Che cosa restava?

Per l’intero periodo delle vacanze, che non mi consentiva nessuna scappatoia, Isabel ne ha approfittato per osservarmi con più attenzione che mai.

Sembra bearsi del mio smarrimento. Non ci pensa neanche a venirmi in aiuto. Anzi, fa in modo, perfidamente, di tenermi la testa sott’acqua.

Ho tentato due o tre volte, per esempio, di intavolare una conversazione con Mildred. Comincia ad avere l’età per affrontare discorsi seri. Ogni volta lo sguardo di Isabel mi ha impietrito.

Quello sguardo sembrava dire:

«Povero Donald... Non lo vedi che non otterrai nulla, che tra te e le tue figlie non c’è nessuna intesa?...».

Eppure quell’intesa c’era, quando erano piccole. Era al padre che ricorrevano, più che alla madre.

E adesso chissà che idea si fanno di me. Io non conto più niente. Le rare volte che vengo interpellato non aspettano neppure la mia risposta.

Io sono quello che passa le giornate in un ufficio per guadagnare il denaro necessario, uno che invecchia, che inizia ad avere il viso segnato e non sa più né giocare né ridere.

Isabel si rende conto del pericolo che corre? Può darsi. Ammetto che non sono più sicuro di niente. Comincio a essere stanco di interpretare i suoi sguardi, di osservare i suoi occhi fissi su di me.

Con le ragazze è allegra, piena di iniziative. Ogni mattina si inventa qualcosa per impiegare la giornata in modo piacevole. Piacevole per lei e le ragazze, beninteso.

Abbiamo fatto varie gite, di cui due in montagna. Io detesto le gite, i picnic, le lunghe camminate in fila indiana durante le quali si raccolgono distrattamente fiori di campo ai bordi del sentiero.

Isabel è raggiante. Per lo meno quando parla con le nostre figlie. Le basta guardare me o rivolgere la parola a me e ridiventa un muro.

Ha intenzione di provocarmi? Mi pare che voglia tirare la corda al limite, e allora forse mi tenderà la mano mormorando:

«Povero Donald...».

Io non sono il povero Donald. Sono un uomo, un uomo a tutti gli effetti, ma questo lei non lo ammetterà mai.

Le ragazze devono aver percepito la tensione tra noi. Ho avvertito una certa diffidenza, una certa disapprovazione da parte delle mie figlie, in particolare quando mi verso da bere.

Adesso, guarda caso, ogni volta che le propongo uno scotch, Isabel risponde pudicamente:

«No, grazie...».

Sono costretto a bere da solo. Ma non ho mai esagerato. Non ci sono stati sbalzi nel mio comportamento. Non ho mai farfugliato, non mi sono mai scaldato.

Eppure, quando ho un bicchiere in mano, le mie figlie mi guardano come se commettessi un peccato.

Questa è una novità. Ci hanno visto spesso bere insieme un paio di scotch. Isabel gli avrà detto qualcosa?

Esiste una specie di complicità tra loro, la stessa complicità che c’è tra Isabel e mio padre. Lei ha il dono di essere simpatica, di ispirare ammirazione e fiducia.

Lei è così buona, così comprensiva!

Farebbe meglio a stare attenta, perché un giorno o l’altro potrei stufarmi. Mi sono prefisso una linea di condotta. Mi ci attengo, ma inizio a stringere i denti.

Non ho riaccompagnato le ragazze a Litchfield, ho lasciato l’incombenza a mia moglie. L’ho fatto apposta. Perché possa cucinarle a suo piacimento. Per sfida, insomma.

«Non fate caso alle stranezze di vostro padre, ragazze... Sta attraversando un periodo difficile... L’incidente di Ray l’ha molto scosso e ha ancora i nervi a pezzi...».

«Perché beve, mamma?».

Potrebbe rispondere che non bevo più di qualsiasi nostro amico. Ma figuriamoci se lo farà.

«Appunto perché ha i nervi scossi... Per rimettersi in sesto...».

«Certe volte ci guarda come se a stento ci conoscesse...».

«Lo so... Si chiude in se stesso... Ne ho parlato con il dottor Warren, e lui è andato a fargli visita...».

«Dad è malato?».

«Non è una vera e propria malattia... È nella sua testa... Si immagina chissà cosa...».

«Ha un esaurimento nervoso?».

«Forse... Sembrerebbe... Non è raro alla sua età...».

È così che parlano di me fra loro? Ci giurerei. Mi sembra quasi di sentirle. E la voce soave, indulgente di Isabel mentre rivolge alle ragazze il suo sguardo limpido.

Com’è rincuorante essere guardati così! Hai l’impressione di tuffarti in un’anima fresca e generosa, immune al passare degli anni.

Sono furibondo. In ufficio, anche la mia segretaria comincia a osservarmi preoccupata. Di questo passo, finirò per far pena a tutti.

Pena o paura?

Mi accorgo che Higgins è disorientato. Per quel vecchio marpione la vita è semplice. Ognuno per sé. Nessun colpo è escluso, a patto di rispettare la legge. E ci sono mille modi leciti per aggirare la legge.

È il suo mestiere, e lui lo pratica con tranquilla spudoratezza, senza il minimo scrupolo di coscienza.

Mentre andavo in posta, il tenente Olsen, alla guida dell’auto della polizia, mi è passato vicino e mi ha rivolto un vago saluto con la mano. Chissà se si arrovella ancora su Ray. Quando quelli come lui hanno un’idea in testa...

Be’, pazienza! Ho telefonato a Mona dall’ufficio. Spudoratamente. La mia segretaria e persino Higgins potevano sentire tutto quello che dicevo, dato che, tranne quando siamo con un cliente, lasciamo sempre le porte aperte.

Il telefono ha squillato a lungo e all’inizio ho temuto che non fosse ancora tornata da Long Island, dov’era andata a passare qualche giorno da certi amici che hanno una tenuta, con tanto di cavalli e yacht. Non so chi siano. Mona non mi ha detto come si chiamano e io non gliel’ho chiesto.

Avevano molti amici, lei e Ray. Mona ne aveva già parecchi prima di conoscere Ray. Quando andiamo a spasso, incrociamo di frequente qualcuno che la saluta in modo più o meno cameratesco. Alcuni le gridano:

«Hello, Mona!...».

Dato che sono con lei, saluto anch’io, goffamente, senza farle domande. A volte, come se spiegasse tutto, è lei a dirmi:

«È Harris...».

Oppure:

«È Helen...».

Harris chi? Helen chi? Probabilmente persone che aveva conosciuto nel mondo del teatro, del cinema o della televisione. Dai Miller, Ray si occupava spesso del budget di produzioni televisive. Era diventata la sua specialità e quasi sicuramente è stato il motivo per cui ha chiesto alla moglie di smettere di fare televisione: lui si sarebbe trovato in una posizione delicata.

Ma adesso? Forse Mona avrà voglia di tornare a lavorare. Non me ne ha parlato, ma questo è un ambito in cui non entro. Esiste tutta una parte della sua vita che mi è ignota.

«Pronto, Mona?... Donald, sì...».

«Come hai passato le feste?».

«Male... E tu?... A Long Island?...».

«Un po’ frastornata... Non ho avuto un momento per me stessa... Ogni giorno arrivava sempre qualche amico, anche una decina o una ventina alla volta...».

«Sei andata a cavallo?...».

«Sono persino caduta, per fortuna senza farmi male...».

«Sei uscita in barca?».

«Due volte... Sono tutta abbronzata...».

«Sei libera domani?...».

«Aspetta... Che giorno è?...».

«Mercoledì».

«Alle undici?».

«Sarò da te alle undici...».

Era la nostra ora, quella in cui si faceva bella, quella che assaporavo di più, con una sensazione di abbandono, di completa intimità.

Il giorno dopo il cielo era terso, di un blu lavanda e, al di sopra delle montagne, le nuvole dorate sembravano essere state fissate una volta per tutte come in un quadro. Solo in certe sere quelle nuvole scompaiono o si stirano in lunghe strisce quasi rosse.

Ho guidato di buon umore.

«Torni stasera?».

«È probabile...».

Chissà se Isabel si chiede come mai mi fermo sempre più di rado a New York. Immagina che sia cambiato qualcosa tra me e Mona? Oppure che io cominci a rinsavire, a evitare di compromettermi ulteriormente?

La odio.

Ho girato un po’ prima di trovare parcheggio, sono entrato nel palazzo della Cinquantaseiesima e mi sono precipitato verso l’ascensore. Ho suonato. La porta si è aperta subito e mi sono trovato di fronte Mona in tailleur leggero, verde smeraldo, con un cappellino bianco inclinato sull’orecchio sinistro.

Sono rimasto interdetto. Lei ha mostrato sorpresa, come se non si aspettasse quella reazione.

«Povero Donald...».

Non mi piace essere il povero Donald, neanche per lei! Non potevo prenderla tra le braccia come quando mi riceveva in vestaglia.

«Deluso?».

Ci siamo baciati lo stesso. È vero che ha il viso abbronzato, il che contribuisce a darle un aspetto diverso.

«Stamattina mi è venuta voglia di fare una passeggiata con te a Central Park... Ti secca?...».

Mi sono rasserenato. Era un’idea carina. Il tempo si prestava, e non avevamo ancora festeggiato insieme la primavera.

«Non vuoi bere qualcosa prima di uscire?».

«No...».

Si è voltata verso la cucina.

«Non tornerò per pranzo, Janet...».

«Bene, signora...».

«Se telefona qualcuno, sarò di ritorno verso le due o le tre...».

Non era la prima volta che andavamo a spasso insieme, ma l’aria era più leggera del solito, la luce radiosa e il cielo di una purezza incredibile sullo sfondo dei grattacieli.

Davanti all’Hotel Plaza abbiamo visto la sfilza di carrozze in attesa dei turisti e delle coppie di innamorati. Per un attimo ho pensato di prenderne una. Mona non ci ha fatto caso. Teneva la mano posata sul mio braccio, con leggerezza, senza insistenza.

«Come stanno Mildred e Cecilia?».

«Benone... Hanno passato le vacanze con noi... Abbiamo fatto varie gite, siamo andati persino a Cape Cod...».

Ci dirigevamo lentamente verso il laghetto dove io e Ray, in inverno, avevamo pattinato qualche volta quando eravamo studenti e ci concedevamo una notte a New York.

Ho sentito sul braccio una pressione più forte della mano guantata di bianco.

«Devo parlarti, Donald...».

Che strano. Mi ha attraversato una corrente fredda, ma alla testa, non alla schiena, e con una voce che stentavo a riconoscere ho detto:

«Sì?».

«Siamo vecchi amici noi due, vero?... Sei il migliore amico che abbia mai avuto...».

Alcune mamme tenevano d’occhio i loro bambini dall’andatura traballante. Su una panchina dormiva un uomo vestito di stracci, che non aveva più niente in cui sperare. Una scena talmente penosa da costringerci a distogliere lo sguardo.

Camminavamo lentamente. A testa china, guardavo la ghiaia sgranarsi sotto la suola delle scarpe.

«Conosci John Falk?».

Avevo letto quel nome da qualche parte. Mi suonava familiare, ma sul momento non riuscivo a situarlo in alcun contesto. Non ci provai neanche. Restai in attesa del verdetto. Perché il verdetto stava per arrivare, era inevitabile.

«È il produttore delle tre serie migliori della CBS...».

Non avevo niente da dire. Ascoltavo i rumori del parco, il cinguettio degli uccelli, le voci dei bambini, il traffico lungo la Quinta Avenue. Vedevo le anatre lisciarsi le penne sul prato e altre che sguazzavano lasciandosi dietro una scia triangolare.

«Io e lui ci conosciamo da un pezzo... Ha quarant’anni... È divorziato da tre anni e ha una bambina...».

Si affrettò ad aggiungere, come per togliersi il pensiero:

«Abbiamo intenzione di sposarci, Donald...».

Non ho detto niente. Non sarei riuscito a dire niente.

«Sei triste?».

A quella parola per poco non scoppiai a ridere. Triste? Ero sconvolto. Ero... Impossibile spiegarlo. Non c’era più niente, ecco...

Fino a quel momento mi era rimasto ancora qualcosa, mi era rimasta Mona, anche se la nostra non era una vera e propria relazione, anche se non era amore quello che c’era tra noi.

Rivedevo il boudoir, il tendersi delle sue labbra verso il rossetto, la vestaglia che si lasciava cadere alle spalle.

«Ti chiedo perdono...».

«Di cosa?».

«Di farti soffrire... Sento che ti faccio soffrire...».

«Un po’» dissi alla fine, utilizzando anch’io una parola ridicolmente vaga.

«Avrei dovuto parlartene prima... Ci penso da un mese... Non riuscivo a decidermi... Ho addirittura immaginato di presentarti John e chiederti consiglio...».

Non ci guardavamo in faccia. L’aveva fatto di proposito. Ecco perché mi aveva portato al parco. Passeggiando in mezzo alla gente è giocoforza darsi un contegno.

«Quando avete intenzione...?».

«Oh, non subito... Ci sono i tempi legali da rispettare... Bisognerà anche che ci troviamo un altro appartamento, dato che Monique vivrà con noi...».

Dunque la bambina si chiamava Monique.

«Suo padre ha ottenuto la custodia... Adora la figlia...».

Ma sì, ma sì! E intanto quel John Falk, visto che questo era il suo nome, dormiva già nel grande letto della Cinquantaseiesima?

Era probabile. Da buoni amici, come diceva Mona. No, loro non erano buoni amici, dato che stavano per sposarsi.

«Mi dispiace tanto, Donald... Resteremo amici, vero?...».

E poi?

«Ho parlato di te a John...».

«Gli hai detto la verità?».

«Perché no? Non mi prende certo per una vergine...».

Pronunciata così, di punto in bianco, nel bel mezzo del parco assolato, quella parola mi ha lasciato sgomento. Non sono innamorato di Mona, lo giuro. Nessuno mi crederà, eppure è la verità.

Per me lei non rappresenta solo la donna, lei è...

Lei è tutto, insomma! E non è niente! Non è proprio niente, visto che per lei era così facile troncare.

Avrebbe ricominciato a lavorare in televisione. L’avrei vista sul mio schermo, a Brentwood, nella biblioteca, seduto accanto a Isabel.

«Ho pensato che potevamo pranzare insieme da qualche parte, dove vorrai...».

«È lui che deve telefonare tra le due e le tre?».

«Sì...».

«Sa che sono qui?...».

«Sì...».

«Sa anche che mi hai portato a Central Park?».

«No... È un’idea che mi è venuta mentre mi vestivo...».

Non mentre si vestiva davanti a me, con la sua tranquilla impudicizia. No, mentre si vestiva da sola. O meglio, in presenza di Janet.

«Non sarà facile, Janet...».

«Lui capirà, signora...».

«Certo che capirà, ma lo farò comunque soffrire...».

«Se dovessimo rinunciare a tutto quello che fa soffrire gli altri...».

Mona si accese una sigaretta sbirciandomi con la coda dell’occhio, e io le sorrisi. O meglio, le rivolsi una parvenza di sorriso.

«Verrai a trovarmi?».

«Non lo so...».

Era un no. Non avevo niente a che spartire con il signore e la signora Falk. E tanto meno con la piccola Monique.

Io di figlie ne avevo già due.

Mi sembrava che il sole picchiasse più forte che nei giorni precedenti. Siamo entrati al bar del Plaza.

«Due martini doppi...».

Non le avevo chiesto che cosa prendeva. Forse con Falk beveva qualcos’altro? Osservai per l’ultima volta il nostro rito.

«Alla tua salute, Donald...».

«Alla tua, Mona...».

Fu il momento più difficile. Nel pronunciare il suo nome per poco non scoppiai in singhiozzi come uno sciocco. Quelle due sillabe...

A che sarebbe servito cercare di spiegare? Mi vedevo riflesso allo specchio, tra le bottiglie.

«Dove vuoi che pranziamo?».

Lasciava a me la scelta. Era il mio giorno. Il mio ultimo giorno. Dunque era importante che tutto si svolgesse nel migliore dei modi.

«Possiamo andare al nostro ristorantino francese...».

Feci segno di no con la testa. Preferivo la folla, un posto privo di ricordi.

Abbiamo pranzato al Plaza e la grande sala era piena. Ho suggerito di ordinare del foie gras, quasi per ironia, e lei ha accettato. Poi astice. Un pranzo di gala!

«Gradite delle crêpe Suzette?».

«Perché no?».

Mi assecondava credendo di farmi piacere. Sapevo che di tanto in tanto gettava un’occhiata all’orologio.

Non provavo rancore. Mi aveva dato quello che poteva darmi, affettuosamente, con calda tenerezza animale, ed ero io a essere in debito.

A un certo punto ho visto la sua mano aperta posata sulla tovaglia proprio come l’avevo vista sul parquet quella notte di gennaio, e mi ha assalito la stessa voglia di allungare il braccio, di afferrare quella mano...

«Coraggio, Donald...».

Aveva intuito.

«Sapessi quanto mi duole...» sospirò.

Poi abbiamo camminato fino a casa sua. Avevo voglia di balbettare:

«Un’ultima volta, sì?...».

Mi sembrava che dopo sarebbe stato più facile.

Lanciai un’occhiata alle finestre del terzo piano ed entrai nell’androne.

«Arrivederci, Donald...».

«Addio, Mona...».

Si è gettata tra le mie braccia e, incurante di rovinarsi il trucco, mi ha dato un bacio, lungo e profondo.

«Non dimenticherò mai...» ha ansimato.

Poi, in gran fretta, febbrilmente, ha aperto la porta dell’ascensore.

3

È passato un mese e il mio odio per Isabel non ha fatto che aumentare. Come c’era da aspettarsi, lei ha capito non appena mi ha visto tornare. Non ero nemmeno brillo. Non avevo sentito il bisogno di bere.

Mentre percorrevo la Taconic Parkway al volante della mia auto mi raffiguravo mentalmente la vita che mi aspettava, dal risveglio fino al momento di andare a dormire, i gesti, gli andirivieni da una stanza all’altra, il passaggio in posta, l’ufficio, la mia segretaria che presto se ne sarebbe andata, il pranzo, l’ufficio, i clienti, le lettere da dettare, il bicchiere di scotch a fine giornata, la cena a tu per tu, la televisione, un giornale o un libro...

Non tralasciavo nessun dettaglio, anzi li delineavo finemente come in un disegno a china.

Era un’acquaforte, un album di acqueforti, la giornata di un uomo chiamato Donald Dodd.

Isabel non ha detto niente, ma questo lo sapevo già. Prevedevo anche che da parte sua non ci sarebbe stata pietà, e del resto non ne avrei voluta. Riuscì nondimeno a celare il suo trionfo, a mantenere uno sguardo impassibile.

I giorni seguenti ha ripreso a osservarmi, come si osserva un malato chiedendosi se morirà o guarirà.

Io non morivo. I miei ingranaggi continuavano a funzionare senza perdere un colpo. Ero ben addestrato. I miei gesti, le parole che dicevo, i miei modi a tavola, in ufficio, la sera seduto in poltrona, tutto era rimasto uguale.

Perché continuava a spiarmi? Che cosa sperava?

Sentivo che non era soddisfatta. Voleva ancora qualcosa. Il mio totale annientamento?

Io non ero annientato. La settimana seguente Higgins si è stupito di non vedermi andare a New York. E anche la mia segretaria.

La settimana dopo lui ha tirato un sospiro di sollievo, avendo capito che quella che probabilmente chiamava la mia relazione era finita.

Sarei dunque rientrato nel mondo della gente perbene, delle persone normali. Avevo sofferto di una specie di infermità morale da cui mi stavo lentamente ristabilendo.

Con me Higgins era affabile, incoraggiante, veniva più volte al giorno nel mio ufficio a parlarmi di faccende che una volta si sarebbe limitato ad accennarmi di sfuggita.

Bisognava pur spronarmi a ritrovare interesse nella vita! Ho incontrato anche Warren, all’ufficio postale, dove in molti vanno a ritirare la posta del mattino. Memore dell’accoglienza che gli avevo riservato l’ultima volta, ci ha pensato su un attimo ma poi si è deciso a venirmi incontro.

«La trovo bene, Donald...».

Come no!

Evitavo di andare a New York, anche quando sarebbe servito, e cercavo di sistemare tutto al telefono o per corrispondenza. Una volta che la mia presenza era imprescindibile ho pregato Higgins di andarci al mio posto e lui ha prontamente accettato.

Questo significava che ero guarito, o comunque in via di guarigione.

Se solo avessero saputo, tutti quanti, dal primo all’ultimo, quanto la odiavo! Ma l’unica a saperlo era lei.

Finalmente avevo capito. Per un pezzo mi ero sforzato di interpretare il suo sguardo. Avevo fatto le supposizioni più diverse, senza pensare alla verità pura e semplice.

Mi ero staccato da lei. Avevo spezzato il cerchio. Ero fuori dalla sua portata.

E lei non me lo avrebbe mai perdonato. Io le appartenevo, come la casa, come le nostre figlie, come Brentwood e la nostra routine quotidiana.

Io mi ero sottratto e la guardavo dal di fuori, la guardavo con odio, perché per troppo tempo ero stato in suo potere, perché mi aveva soffocato, perché mi aveva impedito di vivere.

D’accordo, l’avevo scelta io! L’ho ammesso e lo confermo. Ma non era una buona ragione. Lei era pur sempre l’immagine vivente, proprio lì, al mio fianco, nel letto accanto al mio, di tutto quello che avevo iniziato a detestare.

Non potevo prendermela con il mondo intero e le sue istituzioni. Non potevo sbattere in faccia a milioni di esseri umani le loro verità e le mie.

C’era lei.

Come c’era stata Mona, per un attimo, a rappresentare al meglio la vita.

Tutto questo, Isabel lo sapeva. Vere o false che fossero le doti che gli altri le attribuivano, ce n’è una che aveva al sommo grado: quella di frugare nell’animo altrui, in particolare nel mio.

Ormai aveva perso ogni ritegno, non faceva altro tutto il giorno, sentiva che si era salvata solo la facciata e, una volta crollata anche questa, non sarebbe rimasto più niente.

Annientarmi! Che sensazione meravigliosa! Che vendetta impareggiabile!

«Isabel è stata davvero ammirevole...».

Per riuscire a vivere con un uomo come me, ovviamente. Per riuscire a sopportare tutto quello che aveva sopportato negli ultimi mesi.

«Lui neanche si preoccupava di tenerglielo nascosto...».

La sera facevo sempre più fatica ad addormentarmi e, dopo essere rimasto un’ora immobile, andavo in bagno a mandar giù un sonnifero.

Lei lo sapeva. Sono convinto che evitasse apposta di addormentarsi prima di me, per godere della mia insonnia, per sentire il brusio occulto dei miei pensieri.

A ossessionarmi non era tanto il viso di Mona, e non sono sicuro che Isabel questo l’avesse intuito. Era la panchina. La panchina dipinta di rosso. Il fragore della tormenta e della porta che sbatteva a un ritmo regolare, la neve che penetrava sempre di più nel fienile.

Ray nel bagno con Patricia. Avrei voluto essere al suo posto. Avevo voglia di Patricia. Un giorno, quando gli Ashbridge fossero tornati dalla Florida...

Ray era morto. L’appartamento di Sutton Place, che gli era costato un occhio della testa e di cui ostentava ironicamente il lusso aggressivo, era stato sbaraccato e adesso ci abitava una star del cinema.

Sua moglie, Mona, stava per diventare la signora Falk. Un suo amico. Un produttore con cui era stato in affari.

Aveva pensato al suicidio e la morte era sopraggiunta senza che lui avesse bisogno di fare un gesto.

Che fortuna!

E mio padre continuava a pubblicare il suo «Citizen» e a scrivere articoli letti da non più di venti o trenta persone anziane.

Chissà se Isabel lo aveva informato che con Mona era finita. Anche lui, come gli altri, se n’era rallegrato, dicendosi che ero finalmente tornato sulla retta via?

Non potevo più sopportare i suoi occhi. Arrivavo al punto di voltare la testa dall’altra parte. Avevo smesso di sfiorarle la guancia con le labbra la mattina e la sera. Lei non me l’aveva fatto notare. Sbaglierò, ma mi sembra che nei suoi occhi si fosse acceso un barlume di speranza.

Se reagivo così significava che ero turbato, no? Fossi stato indifferente, avrei continuato il solito tran tran senza angustiarmi, senza neanche farci caso.

Era quasi una dichiarazione di guerra. Ero diventato un nemico, un nemico che viveva sotto lo stesso tetto, accanto a lei, che mangiava alla stessa tavola e dormiva nella stessa camera.

Il mese di maggio era cominciato in modo strepitoso, con giornate calde come giornate estive. Io portavo già il completo di cotone e la paglietta. In ufficio era in funzione l’aria condizionata. La mattina, prima di uscire, facevo un tuffo in piscina e la sera, tornato a casa, mi tuffavo di nuovo.

«Hai molto lavoro?».

«Abbastanza per tenermi occupato e pagare le bollette...».

La casa, di nostra proprietà, valeva sui sessantamila dollari. Parecchi anni prima avevo stipulato una polizza di assicurazione di centomila dollari che all’epoca, essendo agli inizi, mi era sembrata enorme.

Ogni anno compravo qualche azione.

Se me ne fossi andato via, solo, senza dire niente a nessuno, mescolandomi al brulichio anonimo della folla, né mia moglie né le mie figlie si sarebbero trovate in difficoltà economiche.

Ma andare dove? Qualche volta, la sera, a letto, mi veniva da pensare all’uomo di Central Park, quello che a mezzogiorno dormiva su una panchina, con la bocca aperta, sotto gli occhi dei passanti.

Non aveva bisogno di nessuno, lui. Nemmeno di fingere. Non si preoccupava più di quello che pensavano gli altri, delle buone maniere, di quello che si deve o non si deve fare.

E se lo fermava la polizia, poteva rimettersi a dormire in cella...

Io non ero costretto a cadere così in basso. Avrei potuto...

Ma perché? In un certo senso, anche senza andarmene, ero già fuggito. Avevo tagliato i fili. La marionetta gesticolava ancora ma non la manovrava più nessuno.

Tranne Isabel... Lei era lì, distesa supina nel suo letto, ad ascoltare in silenzio il mio respiro, a indovinare i miei fantasmi. Aspettava il momento in cui, non potendone più, mi sarei alzato per andare a prendere le mie due pillole di sonnifero. Perché adesso me ne occorrevano due. E presto sarebbero diventate tre. Era più grave che bere?

Avevo avuto la tentazione di bere. A volte guardavo il mobile bar con la voglia di afferrare una bottiglia qualunque e bere a canna, come sicuramente faceva l’uomo di Central Park.

Che cosa aspettava esattamente? Che mi mettessi a urlare di rabbia? O di dolore? O...

Io non urlavo e allora lei mi provocava. Quando mi alzavo per andare a prendere le pillole, a volte mi chiedeva con voce pacata, come ci si rivolge a un bambino o a un malato:

«Non dormi, Donald?».

Lo vedeva bene che non dormivo, no? Non ero mica sonnambulo. Allora perché me lo domandava?

«Forse dovresti farti vedere da Warren...».

Ma certo! Cercava di convincermi che nella mia testa c’era qualcosa che non andava. Probabilmente cercava di convincere anche gli altri.

«Sta attraversando un brutto periodo... Non so perché... Il dottor Warren non sa spiegarlo... È convinto che si tratti di un problema psichico...».

Quello che ha problemi psichici...

Mi immaginavo già l’idea che si sarebbe fatta la gente, le facce compassionevoli. Prima ero stato quello che aveva un’amante e avrebbe potuto divorziare da un momento all’altro.

E adesso ero il marito che si comporta in modo strano.

«Anche ieri l’ho incontrato per strada e non mi ha riconosciuto...».

Come se mi preoccupassi di identificare le sagome che mi passavano accanto!

Era perversa. Non ero io quello che cercava di mettere insieme un fascicolo. Era lei. Pazientemente, a piccoli tocchi, come si tesse una tappezzeria. E infatti lei tesse, ogni tanto. Due sedie del living room sono rivestite di tappezzerie realizzate da lei.

Lei tesse... tesse...

Mi guarda con ferocia in attesa di vedermi crollare.


Ma non ha paura?

4

Sono calmo, lucido come credo pochi lo siano mai stati. Questa non è un’arringa a mia difesa. Non cerco di discolparmi. Non scrivo per nessuno di preciso.

Sono le tre del mattino. È il 27 maggio e la giornata è stata afosa. Non è successo niente di particolare. In ufficio ho avuto molto lavoro da sbrigare e mi ci sono applicato coscienziosamente. A proposito, adesso so per certo che la mia segretaria è incinta, ma è decisa a riprendere il lavoro dopo qualche mese di maternità.

Per me non ha più importanza, ma ne avrà per Higgins.

Ieri sera non ho fatto in tempo a infilarmi a letto che le lenzuola erano giù umide, perché non abbiamo l’aria condizionata. La disposizione complicata delle stanze di casa rende pressoché impossibile installarla.

A mezzanotte e mezzo ero ancora sveglio e sono andato a prendere le mie due pillole.

Lei non ha detto niente ma mi ha seguito con gli occhi spalancati. Mi ha letteralmente acchiappato nell’istante in cui mi alzavo dal letto, mi ha guardato mentre mi dirigevo verso il bagno e, quando sono uscito, ho ritrovato il suo sguardo che aspettava di riaccompagnarmi a letto.

Il sonno non è arrivato. Il sonnifero non fa più effetto. Non mi arrischio ad aumentare le dosi senza aver prima consultato Warren e in questo momento non ho voglia di vederlo.

Lei è distesa supina. Io pure. Ho gli occhi aperti perché se li chiudo è ancora più angoscioso, e sento il battito del mio cuore.

Tendendo l’orecchio potrei sentire anche il suo.

Sono passate due ore. È incredibile la quantità di immagini che possono sfilare in un cervello per due ore. Ho rivisto soprattutto la mano sul parquet del living room.

Mi domando come mai quella mano abbia assunto una tale importanza. Ho stretto tra le braccia l’intero corpo. Lo conosco nei minimi dettagli e sotto ogni luce.

E invece a tornarmi in mente è la mano, sul pavimento, accanto al mio materasso.

Ho acceso la lampada sul comodino, mi sono alzato e mi sono diretto verso il bagno.

«Non ti senti bene, Donald?».

E già, perché non ho l’abitudine di alzarmi due volte.

Ho mandato giù un’altra pillola, e poi ancora un’altra, per farla finita con quell’insonnia. Quando sono tornato in camera, lei si era messa a sedere sul letto e mi guardava.

Ecco, aveva raggiunto il suo scopo. Aveva appena avvertito il primo cedimento.

Non ci ho riflettuto su. È stato un gesto spontaneo e ho agito con calma. Ho aperto il cassetto del comodino tra i nostri due letti e ho tirato fuori la pistola.

Lei è rimasta a guardarmi senza battere ciglio. Continuava a sfidarmi.

Forse, in un primo momento, ho pensato di rivolgere l’arma verso di me, come Ray era stato tentato di fare.

È probabile. Non potrei giurarci.

Lei ha guardato la canna corta, poi il mio viso. Quello di cui sono sicuro è che un sorriso le è affiorato sul volto e nei suoi occhi azzurri si è 

acceso un lampo di trionfo.

Ho sparato mirando al petto senza provare la minima emozione. Gli occhi continuavano a fissarmi, immobili, e allora ho premuto il grilletto altre due volte.

Puntando a quegli occhi.

Adesso telefonerò al tenente Olsen per dirgli cos’è successo. Lo definiranno un delitto passionale e tireranno sicuramente in ballo Mona, che non c’entra niente.

Mi sottoporranno a una visita psichiatrica.

Che m’importa di essere rinchiuso, dal momento che lo sono stato per tutta la vita?

 

 

Ho appena telefonato a Olsen. Non mi è sembrato troppo sorpreso. Ha detto:

«Arrivo subito...».

E ha aggiunto:

«Mi raccomando, non faccia sciocchezze...».

 

Épalinges (Vaud), 29 aprile 1968