domenica 13 febbraio 2022

IL POTERE DEL CANE Thomas Savage


 

IL POTERE DEL CANE

Thomas Savage

[...] Un giorno, Phil aveva sbalordito il figlio piccolo di un mercante di bestiame che si era presentato come «campione nel gioco delle biglie» tirando fuori un sacchetto di pelle scamosciata pieno di biglie cinesi, d’agata e di selce e di quelle piú comuni, d’argilla cotta e smaltata. Un bimbo grasso e avido, aveva pensato Phil, mentre quello passava il suo prezioso sacchetto da una mano all’altra, per far sentire il rumore allettante. George e il mercante – uno nuovo – discutevano seduti sul predellino della sua auto di lusso. Phil era accovacciato e guardava in lontananza quando il bambino lo raggiunse e gli rivolse la parola. «Vuole vedere le mie biglie?» domandò a Phil sfrontatamente. «Come no» rispose Phil, con un sorriso divertito. Come un vecchio avaro, guardando di qua e di là prima di aprire il sacchetto, il bambino si inginocchiò e rovesciò a terra le sue preziose biglie. «Sono duecento» disse in un sussurro. «Non mi dire!» esclamò Phil, prestando orecchio nello stesso tempo alle chiacchiere di George con il mercante. Il bambino prese una manciata di biglie e le lasciò ricadere una sull’altra: «Ha mai giocato a biglie quando era piccolo?». «Ogni tanto». «La sa una cosa?». «No. Cosa?». «Quest’anno a scuola ho vinto il campionato di biglie». E guardò Phil con un’espressione di sfida. «Non mi dire!». George e l’acquirente continuavano a parlottare. Phil capí che non erano ancora arrivati al dunque, quindi poteva tranquillamente lasciarsi distrarre. Il sole batteva impietoso sul prato dove i capi che avevano portato da mostrare al mercante si tenevano a distanza – è curioso come si comportano le bestie – valutando con sospetto la mole dell’automobile. «Ho vinto il campionato due volte di seguito». Il bambino era grasso, cosí grasso che aveva caldo; avrebbe avuto bisogno di un bel po’ di esercizio per buttar giú tutto quel grasso. Era un bambino di città, Phil lo aveva capito, ma agghindato in stivali e cappello da cowboy come suo padre. Strano abbigliamento, per un campione di biglie. «Puoi andarne fiero» disse Phil senza trasporto. Sí, il sole scottava. A quanto pareva George e l’acquirente sarebbero andati avanti ancora per un bel po’. Il mercante aveva tirato fuori un taccuino e stava facendo i suoi conti. «Vuole fare una partita a biglie, signore?». Che faccia tosta, pensò Phil. «Mi dispiace, ma io non ho biglie». «Potrei prestargliene qualcuna delle mie». «No, non si prestano le cose. Facciamo cosí. Te ne compro un paio». Il bambino grasso abbassò le palpebre. Si vedeva che nella sua pingue testolina le rotelle si erano messe a girare per calcolare. Come il padre scriveva sul taccuino, cosí lui faceva girare le rotelle: c’erano quelle biglie d’argilla, poteva venderle, vincerle di nuovo e guadagnarci pulita pulita la somma che fosse riuscito a estorcere a Phil. Come previsto, il bambino spostò da una parte qualche biglia d’argilla. «Quanto vuoi per quelle, piccolo?». Il padre era stato un buon maestro. «Valgono un quarto di dollaro». Non valevano dieci centesimi, Phil lo sapeva. «D’accordo, piccolo». E Phil tirò fuori il borsellino che teneva in tasca con qualche pezzo d’argento e qualche moneta da venti dollari sul fondo. «Cominci lei, signore» lo invitò il bambino. «Oh, no» disse Phil. «Non lascerei mai la seconda mano a un ospite. Comincia tu, piccolo». Il bambino era piuttosto bravo. Prima che arrivasse il turno di Phil vinse quattro delle biglie che gli aveva appena venduto. Phil raccolse uno stecco e lo passò attorno al cerchio che il bambino aveva tracciato sulla terra. «Adesso tocca a me, d’accordo?». «Tocca a lei, signore» disse il bambino, e si leccò via il sudore dal labbro superiore. «Va bene cosí la biglia, per tirare?». «Piú o meno, signore» disse il bambino. «Oh» fece Phil. Poi si mise su un ginocchio, come faceva un tempo. Ah, fu davvero come ritornare bambino sentire il sole, la vecchia stella, sulla schiena, i granelli di terra sulle nocche, il fiato represso prima di colpire la biglia per mandarla dentro il cerchio. «Andata!». E mandò a segno dieci biglie d’argilla. «Vuoi scambiare queste dieci con una di selce e ci giochiamo quelle di selce?». Con gli occhi spalancati, stupefatto, il bambino annuí. Ebbene, signori miei, Phil vinse al bambino tutte le biglie e, quando le ebbe tutte davanti a sé, le raccolse a manciate e le depositò nel sacchetto. «Riprenditi le tue biglie» disse. «Il tuo vecchio ti avrà anche insegnato qualche trucco per fare il furbo, ma non ti ha spiegato fino in fondo come vanno le cose». Adesso il bambino reggeva il sacchetto senza passarlo da una mano all’altra, lo stringeva semplicemente con forza. A Phil piaceva dare lezioni.[...]

Recensione 

Montana, 1924. Tra le pianure selvagge del vecchio West, a cui fa da sfondo una collina rocciosa che ha la forma di un cane in corsa, sorge il ranch piú grande dell’intera valle, il ranch dei fratelli Burbank. Phil e George Burbank, pur condividendo tutto da piú di quaranta anni, non potrebbero essere piú diversi. Alto e spigoloso, Phil ha la mente acuta, le mani svelte e la spietata sfrontatezza di chi può permettersi di essere sé stesso. George, al contrario, è massiccio e taciturno, del tutto privo di senso dell’umorismo. Insieme si occupano di mandare avanti la tenuta, consumano i pasti nella grande sala padronale e continuano a dormire nella stanza che avevano da ragazzi, negli stessi letti di ottone, che adesso cigolano nella grande casa di tronchi.

Chi conosce bene Phil ritiene uno spreco che un uomo tanto brillante, uno che avrebbe potuto fare il medico, l’insegnante o l’artista, si accontenti di mandare avanti un ranch. Nonostante i soldi e il prestigio della famiglia, Phil veste come un qualsiasi bracciante, in salopette e camicia di cotone azzurra, usa la stessa sella da vent’anni e vive nel mito di Bronco Henry, il migliore di tutti, colui che, anni addietro, gli ha insegnato l’arte di intrecciare corde di cuoio grezzo. George, riservato e insicuro, si accontenta di esistere all’ombra di Phil senza mai contraddirlo, senza mai mettere in dubbio la sua autorità.

Ogni autunno i due fratelli conducono un migliaio di manzi per venticinque miglia, fino ai recinti del piccolo insediamento di Beech, dove si fermano a pranzare al Mulino Rosso, una modesta locanda gestita dalla vedova di un medico morto suicida anni prima. Rose Gordon, si vocifera a Beech, ha avuto coraggio a mandare avanti l’attività dopo la tragica morte del marito. Ad aiutarla c’è il figlio adolescente Peter, un ragazzo delicato e sensibile che, con il suo atteggiamento effeminato, suscita un’immediata repulsione in Phil. George, invece, resta incantato da Rose, al punto da lasciare tutti stupefatti chiedendole di sposarlo e portandola a vivere al ranch, inconsapevole di aver appena creato i presupposti per un dramma che li coinvolgerà tutti. Perché Phil vive il matrimonio del fratello come un tradimento e, proprio come il «cane sulla collina» lanciato all’inseguimento della preda, non darà tregua a Rose, a Peter e anche al suo amato George, animato dall’odio nella sua forma piú pura: l’odio di chi invidia.

Pubblicato per la prima volta nel 1967, Il potere del cane è un’opera che depone i fronzoli della retorica e, con una prosa essenziale ma efficace, tratteggia con tinte livide una torbida vicenda familiare, capace di confermare la posizione centrale di Thomas Savage nella grande letteratura americana.


IL POTERE DEL CANE 

1.

Era sempre Phil a occuparsi della castrazione; prima tagliava via la sacca dello scroto e la buttava da parte; poi strizzava fuori uno dopo l’altro i testicoli, incideva la guaina che li racchiudeva, li strappava e li gettava nel fuoco, dove erano pronti i ferri incandescenti per la marchiatura. Sorprendentemente, il sangue sparso era poco. Dopo qualche istante i testicoli scoppiavano come enormi popcorn. Certi uomini, si diceva, se li mangiavano conditi con sale e pepe. «Ostriche di montagna» li chiamava Phil con un sorriso d’intesa, poi consigliava ai giovani braccianti del ranch di mangiarne un po’ anche loro, prima di fare gli stupidi con le ragazze.

George, il fratello di Phil, che aveva il compito di prendere al lazo le bestie, arrossiva a sentire quei discorsi, specie se rivolti ai dipendenti. George era un uomo massiccio, riservato e privo di senso dell’umorismo, e Phil si divertiva a farlo uscire dai gangheri. Dio, che gusto ci provava Phil a esasperare la gente!

Nessuno usava i guanti per un lavoro delicato come la castrazione, ma erano necessari in quasi tutti gli altri lavori per non spellarsi le mani con le corde e per proteggersi da schegge, tagli e vesciche. Si usavano i guanti per prendere le bestie al lazo, per lavorare alle staccionate, per marchiare, per gettare col forcone il fieno al bestiame o semplicemente per cavalcare, muovere i cavalli o condurre la mandria. Tutti li usavano, tranne Phil. Lui non si curava di vesciche, tagli o schegge e disprezzava quelli che indossavano i guanti per proteggersi. Le sue mani erano ruvide, forti, ossute.

I braccianti e i cowboy utilizzavano guanti di cuoio di cavallo che ordinavano dai cataloghi di Sears, Roebuck e Montgomery Ward. Dopo il lavoro o la domenica, quando l’edificio del dormitorio era invaso dai vapori del bucato e dell’acqua calda per radersi, e la fragranza delle lozioni all’alloro si sprigionava dagli uomini pronti per andare in città, tutti si davano da fare a compilare gli ordini, si incurvavano sopra il foglio come enormi bambini, rosicchiavano la matita, aggrottavano la fronte sulla grafia incerta, esitavano sull’indicazione del peso e del recapito postale. Il piú delle volte si davano per vinti e con un sospiro cedevano l’incombenza a qualcuno che aveva piú familiarità con lettere e numeri, qualcuno che aveva fatto qualche anno di scuola in piú e che di solito scriveva per loro anche le lettere ai padri e alle madri o a qualche sorella rimasta nel cuore.

Era una bellezza ricevere l’ordinazione con la posta, una delizia e un tormento aspettare da Seattle o da Portland il pacco che poteva contenere, oltre ai guanti nuovi, un paio di scarpe da città, dei dischi per il grammofono, uno strumento musicale per addolcire la solitudine delle sere invernali, quando il vento ululava come un branco di lupi dalle cime delle montagne.

La nostra migliore chitarra. Per musica e accompagnamento in stile spagnolo. Tastiera larga in ebano, tavola in abete rosso con raggiere a ventaglio, fasce e fondo in palissandro, filetto in corno naturale. Articolo di finissima fattura.

In attesa che l’ordinazione raggiungesse l’ufficio postale a quindici miglia di distanza, leggevano e rileggevano la descrizione, riandavano al momento in cui avevano compilato il modulo, pregustavano tutti i particolari. Filetto in corno naturale!

«Salve ragazzi, state consultando il Libro dei Desideri?» domandava Phil, avvicinandosi alla stufa e pestando i piedi per liberarli dalla neve. Si guardava attorno a gambe divaricate, con le mani nude intrecciate dietro la schiena. Nel corso degli anni alcuni degli uomini piú giovani avevano cercato di imitarlo in quell’abitudine di fare tutto a mani nude, magari sperando in un sorriso di approvazione o un cenno di compiacimento, ma i loro tentativi erano passati inosservati e alla fine erano tornati a usare i guanti. «Consultate il vecchio Libro dei Desideri?».

«L’hai detto, Phil» rispondevano, fieri di chiamarlo per nome, poi richiudevano in fretta il catalogo con la scusa della conversazione, per non farsi vedere a spasimare sulle modelle che presentavano corsetti e biancheria intima. Come ammiravano il suo distacco! Possedeva metà del ranch piú grande della valle, e avrebbe potuto permettersi tutto quello che voleva, qualsiasi automobile, una Lozier o una Pierce-Arrow, per esempio, eppure se ne infischiava delle automobili. Suo fratello George una volta aveva espresso il desiderio di comperare una Pierce, e Phil gli aveva detto: «Vuoi passare per un ebreo?». E con questo l’argomento era stato liquidato. No, Phil non guidava. La sua sella, appesa per una staffa a un piolo nella lunga stalla fatta di tronchi, aveva i suoi buoni vent’anni; gli speroni erano di semplice acciaio, non avevano applicazioni in argento, non erano quel genere di speroni che affollavano i sogni degli altri; invece degli stivali usava scarpe normali, disprezzava i fronzoli e le guarnizioni dei cowboy, anche se in gioventú era stato un ottimo cavallerizzo e ancor piú abile di George col lazo. Nonostante i soldi e il prestigio della famiglia, era una persona semplice, si vestiva come un qualsiasi bracciante, in salopette e camicia di cotone azzurra; tre volte all’anno George lo accompagnava in macchina a Herndon a tagliare i capelli; sedeva davanti sulla vecchia Reo, impalato come un pellerossa dentro l’abito da città altrettanto rigido, il naso aquilino imperioso sotto la tesa di feltro antracite, la mascella serrata. Allo stesso modo sedeva sulla sedia da barbiere di Whitey Judd, con le lunghe mani segnate e sottili, immobili sui braccioli freddi, mentre i capelli cadevano a mucchi sul pavimento di piastrelle bianche.

Una volta un commesso viaggiatore, un damerino con la spilla da cravatta luccicante, ridacchiando aveva domandato a Whitey chi fosse.

«Fossi in lei non riderei, signore» lo aveva redarguito Whitey. «Quello se lo può comprare e vendere cinquanta volte, uno come lei. Lei, e chiunque altro nella valle, a parte il fratello. Io sono orgoglioso di averlo qui da me, molto orgoglioso». Zic, zic, zic. «Lui e il fratello sono soci».

Lo erano, e piú che soci, piú che fratelli. Cavalcavano insieme quando bisognava radunare il bestiame, parlavano tra loro come se si vedessero per la prima volta, discorrevano dei vecchi tempi alle scuole superiori e all’università della California, dove George, a dire la verità, era stato respinto lo stesso anno in cui Phil si era laureato. Phil ricordava gli scherzi che faceva agli studenti, le vecchie amicizie... la baldoria. Phil era uno brillante, George uno sgobbone.

Era sempre di comune accordo che decidevano la vendita dei manzi in autunno o l’acquisto di uno stallone Morgan per incrementare i capi da sella. Ogni anno Phil aspettava con ansia il momento della caccia che arrivava in ottobre, quando i salici lungo i torrenti diventavano rosso ruggine e le nebbioline dei fuochi lontani tra i boschi rimanevano sospese come veli sulle cime dei monti. Allora li si vedeva cavalcare insieme nella prateria in direzione della montagna, con i cavalli da soma al seguito, Phil con la carabina a canna corta o con la calibro trenta. Era insolito trovare un legame cosí tra fratelli, Phil alto e spigoloso, che con gli occhi azzurro cielo guardava lontano o scrutava il terreno circostante; George corpulento e imperturbabile, che gli trottava al fianco su un baio anch’esso corpulento e imperturbabile. Scommettevano: chi avrebbe visto e colpito il primo alce? Phil andava matto per il fegato d’alce. La notte si accampavano ai margini del bosco e sedevano a gambe incrociate di fronte al fuoco a parlare dei tempi andati e del progetto per la nuova stalla, che non si concretizzò mai perché comportava l’abbattimento della vecchia; srotolavano i sacchi a pelo sistemandoli vicini, e insieme ascoltavano nel buio la canzone di un minuscolo ruscello, non piú largo del passo di un uomo, alla sorgente del fiume Missouri. Dormivano, e quando si svegliavano trovavano la brina.

Era cosí da anni, e Phil aveva appena compiuto i quaranta. E cosí continuavano a dormire nella stanza che avevano da ragazzi, negli stessi letti di ottone, che adesso cigolavano nella grande casa di tronchi, da quando quelli che Phil chiamava i vecchi se n’erano andati a passare l’autunno della vita in una suite del migliore albergo di Salt Lake City. Là il Vecchio Signore giocava in borsa e la Vecchia Signora giocava a mah-jong e si cambiava per la cena, come aveva sempre fatto. Definitivamente chiusa, la camera dei vecchi era rimasta ad accumulare la polvere sollevata dalle automobili – ogni giorno piú numerose – che arrancavano tossicchiando sulla strada di fronte a casa. In quella stanza l’aria si era fatta stantia, i gerani della Vecchia Signora erano morti, la pendola di marmo nero si era fermata.

I fratelli tenevano ancora la signora Lewis, la cuoca, che era alloggiata in un annesso sul retro e che trovava il tempo per ripulire la casa alla meglio lamentandosi a ogni colpo di scopa. Non c’era piú la ragazza, l’ultima di una lunga serie, che serviva a tavola e dormiva in una stanzetta al piano di sopra. La sua presenza sarebbe sembrata inopportuna in una casa di scapoli, anche se i fratelli continuavano a comportarsi con un pudore quasi incredibile, come se le mura domestiche ospitassero ancora delle donne. George si faceva il bagno una volta alla settimana, scompariva dietro la porta ancora vestito di tutto punto e la chiudeva a chiave; si lavava in silenzio, senza agitare l’acqua e senza cantare; usciva perfettamente rivestito, ma seguito da un’eloquente nuvola di vapore. Phil non usava mai la vasca, non gli piaceva far sapere quando faceva il bagno. Una volta al mese andava a lavarsi in una pozza profonda del ruscello che solo lui e George, e un tempo anche un altro, conoscevano. Prima di andarci si guardava intorno per essere sicuro che nessuno lo spiasse, poi si asciugava al sole perché portando l’asciugamano avrebbe rivelato a tutti le sue intenzioni. In autunno e in primavera a volte doveva spaccare la crosta di ghiaccio. Nei mesi invernali rinunciava al bagno. Nessuno dei due fratelli si era mai mostrato nudo all’altro; la sera, prima di spogliarsi, spegnevano la luce elettrica, la prima di tutta la valle.

Al mattino facevano colazione insieme ai mandriani nella sala sul retro, però pranzavano e cenavano come un tempo nella sala da pranzo padronale sul davanti della casa, con la tovaglia di lino bianca e le posate d’argento. Non è facile né auspicabile rinunciare alle vecchie abitudini, o dimenticare chi si è, un Burbank con ottime relazioni all’Est, a Boston, nel Massachusetts.

Phil si preoccupava quando vedeva George con lo sguardo perso nel vuoto a dondolarsi sulla sedia, perché poi si metteva a fissare dalla finestra verso la montagna soprannominata Old Tom, lontana una trentina di miglia e alta tremila e seicento metri, una montagna amatissima, e non la smetteva piú di dondolarsi e di guardare lontano.

«Che ti succede, vecchio mio?» gli domandava. «La mente ricomincia a vagare?».

«Come dici?».

«Ti ho chiesto se stai di nuovo vagando con la mente».

«No, no». E George accavallava lentamente le grosse gambe.

«Che ne dici di giocare a carte? Una partita a cribbage?». Tenevano conto con scrupolo dei punti accumulati nel corso degli anni.

Secondo Phil il guaio di George era che non teneva impegnata la mente. George non era un grande lettore come Phil. Non andava oltre il Saturday Evening Post, si faceva catturare come un bambino dalle storie sugli animali e la natura. Phil leggeva AsiaMentorScientific American e i libri di viaggi e di filosofia che i parenti raffinati dell’Est inviavano a decine per Natale. Aveva una mente vivace, acuta e curiosa – una mente impegnata – che disorientava gli acquirenti di bestiame e i venditori, sempre propensi a credere che uno che si vestiva come si vestiva Phil e che parlava come parlava Phil non potesse essere che un sempliciotto illetterato, con quei capelli e quelle mani. Ma i suoi modi e il suo aspetto costringevano gli estranei a modificare la loro idea di aristocratico in quella di qualcuno che può permettersi di essere se stesso.

George non aveva hobby o veri interessi. Phil lavorava col legno. Aveva costruito i marchingegni con cui ammucchiavano i foraggi – la coda di topo, l’erba medica, il trifoglio – sbozzando le grandi travi con ascia e pialla. Con le sue abili mani nude aveva scolpito delle minuscole sedie alte pochi centimetri in stile Sheraton o Adam; le sue dita si muovevano come zampe di ragno, fermandosi ogni tanto come per riflettere, perché le dita di Phil erano dotate di un’intelligenza autonoma, localizzata forse nei polpastrelli. Era raro che il coltello gli sfuggisse, e quando ciò accadeva lui disdegnava lo iodio o il fenolo sodico, due dei pochi medicinali tenuti in casa, dato che nella famiglia Burbank nessuno credeva nella medicina. Le sue piccole ferite guarivano subito, gli bastava tamponarle col fazzoletto bianco e blu che teneva nella tasca posteriore dei pantaloni.

Chi conosceva bene Phil diceva: «Che spreco!», perché mandare avanti un ranch non era particolarmente difficile né stimolante, se già lo possedevi, e richiedeva piú muscoli che cervello. Phil, si meravigliava la gente, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa: il medico, l’insegnante, l’artigiano, l’artista. Aveva ammazzato spellato e impagliato una lince con l’abilità di un imbalsamatore. Risolveva con facilità i quesiti matematici del Scientific American; la sua penna volava. Aveva imparato a giocare a scacchi dall’enciclopedia e spesso passava un’ora a risolvere i problemi del Boston Evening Transcript che arrivava con due settimane di ritardo. Nella fucina ideava e forgiava pezzi in ferro battuto molto elaborati, alari e attizzatoi a forma di spada o di tridente; gli sarebbe piaciuto condividere queste attività con George, che invece non si infiammava mai per niente, al massimo si intiepidiva, se cosí si può dire. Neppure le uscite con la Reo fino a Herndon, dove andava per la riunione dei direttori di banca e il pranzo conclusivo al Sugar Bowl Café, lo allettavano piú.

«E se ti insegnassi a giocare a scacchi, mangione?» gli propose una volta Phil, pregustando le serate di fronte al camino. Quel nomignolo indispettiva George.

«No, non credo che ne valga la pena, Phil».

«Perché no, mangione? Hai paura che sia troppo difficile per te?».

«I giochi non sono mai stati il mio forte».

«Un tempo giocavi a cribbage. Anche a ramino, qualche volta».

«Sí, è vero, un tempo giocavo». E a quel punto prendeva il Saturday Evening Post e si perdeva in qualche fantasticheria.

Phil era un fischiatore, e anche molto bravo, aveva un tono modulato come quello di un flauto; cominciava a fischiare un motivo allegro, poi andava in camera da letto, tirava fuori il banjo e strimpellava Red Wing o Hot Time In The Old Town. Aveva imparato a suonare da solo ed era un piacere vedere le sue dita che saltavano sulle corde. In passato poteva succedere che, quando si metteva a suonare, George lo raggiungesse in silenzio nella stanza e si sdraiasse sull’altro letto di ottone ad ascoltare. Ma negli ultimi tempi non era piú successo.

Negli ultimi tempi, dopo un paio di canzoni, Phil si alzava dal bordo del letto su cui si era seduto a suonare, posava il banjo e tagliando per il campo di segale frusciante raggiungeva il dormitorio.

«Salve, ragazzi» diceva, sbattendo gli occhi colpiti dal bagliore della lampada a gas.

In passato c’era sempre un bracciante che si alzava per procurargli una sedia, una di quelle scartate nella grande casa.

«Oh... non ti disturbare» diceva sempre Phil, ma sempre c’era qualcuno che si disturbava, e inutilmente, perché Phil non accettava mai sedie né regali dagli altri. Il suo arrivo interrompeva qualche discussione sulle puttane, la politica, i cavalli o l’amore, e produceva un silenzio che si prolungava fino a che il tonfo di un ceppo dentro la stufa non lo enfatizzava e uno degli uomini, terrorizzato dal silenzio, si sentiva in obbligo di dire qualcosa.

«Che ne pensi di questo Coolidge1?» poteva domandare, perché alla fine il Transcript arrivava fino al dormitorio, dove veniva utilizzato per accendere il fuoco, e incidentalmente anche per leggere.

A quel punto Phil corrugava la fronte e con una mano sola si arrotolava una sigaretta perfetta. Sapeva sfruttare le pause in modo magistrale. «Be’, vi dirò una cosa». Accendeva la sigaretta. «Se non altro ha il buon senso di tenere chiuso il becco». E si metteva a ridere, allora aveva inizio una conversazione stentata, magari su Coolidge. Poi poteva capitare che uno dei giovani, con l’intento di lusingarlo, gli chiedesse qualche consiglio per ordinare una sella. Phil pensava che fosse meglio una sellatura centrale o a tre quarti? Le Visalia erano davvero quel portento che si diceva?

Alla fine Phil assumeva un’espressione malinconica. «Bene, immagino che abbiate tutti voglia di infilarvi a letto».

«Ma no, diavolo, Phil». Cosí seguivano altre chiacchiere, sul lavoro del giorno dopo, sulla potenza delle falciatrici, se era primavera, o sugli spostamenti di un branco di cavalli bradi, oppure Phil raccontava un aneddoto su Bronco Henry, il migliore di tutti i cavallerizzi, il migliore di tutti i cowboy, colui che aveva insegnato a Phil l’arte di intrecciare corde di cuoio grezzo. Di recente, dopo aver raccontato una storia, Phil lanciò un’occhiata fuori dalla finestra, oltre la distesa di segale frusciante, e fissò la finestra illuminata della camera da letto della grande casa. E mentre guardava, la finestra all’improvviso diventò buia. George non l’aveva aspettato!

«Bene, ragazzi» disse allora con un sorriso triste, «me ne vado a cuccia».

Come se ne fu andato, un nuovo mandriano chiacchierone non si risparmiò il commento. «È una specie di eremita balordo, non trovate? Tornando ai discorsi di prima, secondo voi qualcuno gli avrà mai voluto bene? E lui avrà mai voluto bene a qualcuno?».

L’uomo piú anziano del dormitorio fissò il giovane. Quello che aveva detto era fuori luogo, per non dire sgradevole. Cosa c’entrava l’amore con Phil? Il vecchio allungò la mano e accarezzò la testa alla cagnetta marrone che dormiva lí accanto. «Meglio non tirare in ballo l’amore, quando si parla di lui. E fossi in te, non gli darei del balordo. È mancanza di rispetto».

«Va bene, va bene» rispose il giovane arrossendo.

«Devi imparare a portare rispetto. Hai molto da imparare, sull’amore».

In autunno i due fratelli e i mandriani conducevano un migliaio di manzi per venticinque miglia, fino ai recinti del piccolo insediamento di Beech. A meno che il tempo fosse pessimo, con la pioggia che batteva da nord, o il nevischio che tagliava la faccia, o il gelo che bloccava la circolazione del sangue, l’evento assumeva il sapore di una gita o di un picnic; i giovani pensavano allo spuntino che la signora Lewis, la cuoca, aveva preparato per la sosta di mezzogiorno, quando l’ombra andava a nascondersi sotto i cespugli di artemisia; pensavano al saloon sulla strada di fronte ai recinti e alle stanze sopra il saloon, dove vivevano le puttane.

Quando il sole sorgeva rosso e la brina svaniva dall’erba rasa e inaridita, la mandria era già allineata su un tratto di oltre mezzo miglio; catturati dalla malia del buio e dalla spiritualità dell’alba che riporta gli uomini a se stessi, i mandriani e i due fratelli restavano in silenzio, ascoltavano il clop-clop del bestiame e lo scricchiolio degli arbusti calpestati dagli zoccoli ferrati; lo squish-squish del cuoio delle selle e il tintinnio delle catenelle d’argento sul morso delle briglie. Il sole che sorgeva oltre le colline mostrava un mondo cosí vasto e ostile alle speranze future che i giovani mandriani si aggrappavano ai ricordi di casa: la cucina con la stufa, la voce della madre, l’atrio della scuola e gli strilli dei bambini durante l’intervallo. Poi, alzando il mento, fissavano lo sguardo su una casupola di tronchi abbandonata, esposta alle intemperie, dove i cavalli bradi andavano a cercare un po’ d’ombra d’estate, dove anni prima un uomo come loro aveva fallito; nel punto in cui la strada costeggiava una recinzione di filo spinato, un’insegna arrugginita sforacchiata dalle pallottole li invitava a masticare una marca di tabacco che non esisteva piú; in testa, incurvato sopra il pomo della sella, cavalcava l’uomo piú anziano del dormitorio, grigio, col viso segnato di rughe, uno che come loro doveva aver sognato una casetta, qualche ettaro di terra, un campo, un po’ di bestiame, un pascolo verde, una donna che gli facesse da moglie e, chissà, forse un figlio.

Poi il sole saliva piú in alto sopra le colline, e un nuovo tepore nutriva le speranze, e loro prendevano a parlare, a ridere, a scherzare; i progetti si sarebbero realizzati; quando fossero stati vecchi come quell’uomo, là in testa, chino sopra la sella, avrebbero avuto una casetta tutta loro, un po’ di denaro, la possibilità di fare altri progetti. Intanto il muso dei cavalli puntava in direzione dei recinti, del saloon, delle donne al piano di sopra.

Anche i fratelli erano rimasti zitti finché c’era il buio, riconoscibili uno all’altro dalle rispettive sagome, quella sottile e quella massiccia, dalle sagome e dal cigolio familiare delle selle. Sí, pensava Phil confortato, rimanevano sempre zitti all’inizio del cammino, i pensieri diventavano piú intimi, si rivolgevano al passato, e ora il silenzio gli diceva che il passato non era cambiato, non molto. Certo, non gli andava a genio la nuova epoca, quella Stearns-Knight verde scuro che adesso si faceva strada a testa bassa nella mandria, troppo in fretta a suo parere. Il conducente osò dare un colpo di clacson e il rumore spaventò tanto il bestiame che Phil raggiunse in fretta l’auto incuneata tra le bestie e dall’alto del suo cavallo sauro apostrofò l’autista. Avreste dovuto vedere i passeggeri sul sedile posteriore farsi piccoli per la vergogna!

«Maledetti bastardi» borbottò. «George, hai sentito quel figlio di puttana come suonava il clacson? Gesú mio, a quelli non importa niente se le bestie perdono peso. Mi piacerebbe vederle saltare in aria, tutte queste dannate macchine».

Ma George, fedele alla sua Reo (com’era fedele a tutto ciò che possedeva), continuò a guardare avanti, sopra le schiene delle vacche. «Al diavolo, Phil» disse. «Bisogna stare al passo coi tempi».

«I tempi!» esclamò Phil, e sputò. Dieci anni prima c’era una diligenza come si deve, con un bel tiro a quattro e un postiglione in carne e ossa. «Come si chiamava, mangione?» domandò Phil a George. Di rado si scordava un nome, ma questo era un buon pretesto per dare inizio alle chiacchiere del primo mattino.

«Harmon» rispose George.

«Per Dio, sí, hai ragione». Questo li riportò ancora una volta al passato, a quando erano ragazzi, ai tempi di Bronco Henry, degli ultimi indiani puzzolenti, prima che il governo una volta tanto si decidesse a fare qualcosa e li spedisse tutti nelle riserve. Phil ricordava ancora i vecchi cavalli con le groppe incavate montati dagli indiani, i vecchi calessi male in arnese su cui si stipavano. Per un’intera settimana gli indiani erano sfilati di fronte al ranch diretti alla riserva nel sud dell’Idaho, sollevando polvere e facendo abbaiare i cani del ranch. Solo il capo non era con loro, quel vecchio malfido. Era morto.

A Phil piaceva ricordare a George le volte in cui, conducendo il bestiame, con lo sguardo aguzzo scovava le punte di freccia che poi raccoglieva per la sua notevole collezione. Non ricordava che George ne avesse mai trovata una. Phil sorrise tra sé e sé. E come sarebbe stato possibile? George guardava sempre avanti, come stava facendo adesso, sopra le groppe impolverate delle vacche.

Adesso per l’appunto, si domandò Phil, da dove cominciare la conversazione quotidiana? Era un giorno speciale, quello. Doveva cominciare con Bronco Henry? O con l’incidente dell’anno prima, quando un’automobile che cercava di sorpassare il fiume della mandria era finita nel fosso? Due uomini e una donna, tutti e tre in calzoni alla zuava – mai vista una cosa piú assurda – erano rimasti come allocchi a guardare l’auto quasi adagiata sul fianco. Phil aveva ringraziato il cielo che George fosse in testa a condurre la mandria, altrimenti avrebbe agganciato il lazo alla vettura e li avrebbe tirati fuori, e cosí non avrebbero imparato la lezione.

Oppure cominciare dal fatto piú importante, cioè che quello era il venticinquesimo anno che conducevano insieme la mandria. Venticinque anni! Come si erano sentiti orgogliosi, quella volta, e maturi! Secondo Phil aveva qualche importanza anche il fatto che il primo viaggio fosse stato proprio nel 1900, nell’anno zero del nuovo secolo. Cristo Santo, Bronco Henry allora aveva la stessa età che avevano loro adesso, anzi, a dire la verità, non era piú vecchio dei ragazzi che in quel momento avevano con loro, vestiti di tutto punto nei loro abiti migliori. Ragazzi che non sapevano piú chi diavolo fossero: se mandriani o personaggi di un film. Phil non era mai andato al cinema e, per Dio, mai ci sarebbe andato, ma quei ragazzi avevano delle riviste di cinema nel loro dormitorio, e un certo W.S. Hart era diventato il loro idolo. E adesso anche loro facevano una piega particolare sul cappello, si annodavano al collo bandane di seta, facevano gli elegantoni! Aveva saputo che uno di loro aveva ordinato un paio di stivali su misura con vistose decorazioni, si era speso un mese di paga per una cosa da mettersi ai piedi. E poi si stupivano di essere in bolletta! Già, si disse Phil, proprio cosí. Piú ignorante era la gente, e piú sentiva il bisogno di fare la ruota con le piume sul sedere.

George si era spostato sulla destra e Phil attraversò in diagonale la massa lenta delle vacche, mugolando con tono suadente per non farle innervosire. «Bene, George, ragazzo mio» sorrise, «direi che ci siamo».

Per essere fratelli cavalcavano in modo molto diverso: uno comodamente abbandonato, con le redini lasche nelle mani nude; l’altro dritto e rigido, con la pancia in dentro e lo sguardo fisso davanti a sé. «Ci siamo?» domandò George voltando la testa. «Ci siamo cosa, Phil?».

«Cosa? Tu che ne dici, mangione? Oggi fanno venticinque anni. 1900 tondo tondo. Non ti ricordi?».

«Ah, certo. Me n’ero dimenticato» disse George.

Ma come poteva essersene dimenticato? si meravigliò Phil. A cosa aveva pensato tutto l’anno? «Venticinque anni. Fa il paio con le nozze d’argento, mi pare. Mica vero?» disse Phil. Quando scherzava o si arrabbiava, Phil parlava sempre sgrammaticato, per far risaltare quello che voleva dire.

«È passato tanto tempo» osservò George.

«Be’» disse Phil, «mica poi tanto». Non aveva tirato in ballo l’argomento solo per sottolineare che era passato del tempo da quando erano stati ragazzi. Per quel che lo riguardava, Phil non si sentiva un anno piú vecchio di quando aveva dodici anni e George ne aveva dieci. Solo un bel po’ piú sveglio. «Ma ti dirò una cosa, George, ce la siamo spassata».

«Credo di sí». George infilò la mano nel taschino della camicia e tirò fuori il pacchetto di Bull Dirham; passò le briglie attorno al corno della sella, si sfilò i guanti e arrotolò una sigaretta, grossa e a forma di imbuto.

Phil la guardò e grugní. Dannazione, non era certo disposto ad accollarsi tutto il peso della conversazione sull’anniversario. Cosa angustiava George? Aveva il mal di pancia? Sai che divertimento, andare a caccia in autunno con uno cosí! Si comportava in modo strano da tutta l’estate. «Ehi, mangione» osservò. «Non hai ancora imparato a rollarti la sigaretta con una mano sola». E con questo Phil cavalcò senza complimenti attraverso la mandria per andare a parlare con i ragazzi, cominciò a muovere le labbra per prepararsi a raccontare di Bronco Henry che, malato e con la febbre, aveva fatto la piú bella cavalcata che si fosse mai vista all’età di quarantotto anni. Dannazione, certe volte moriva dalla voglia di raccontare quella storia per intero. Anche per questo non sopportava le sbronze: aveva paura, paura di quello che gli poteva sfuggire.

In quella un uccellino grigio svolazzò dai cespugli. Il sauro di Phil scartò e incespicò. Phil provò una collera improvvisa e un’angoscia che gli montarono dentro come un conato. «Maledetto scemo!» gridò strattonando il cavallo e dando un colpo secco con gli speroni. Erano passati venticinque anni da quando aveva cavalcato fianco a fianco con Bronco Henry.

Ormai il sole era alto, le ombre piú corte, li aspettavano ore lunghe e calde. Sí, anche gli anni erano lunghi, pensò Phil, e lunghe le ombre che proiettavano.

Se c’era il vento giusto e avevi il naso fino, potevi sentire l’odore dei recinti di Beech molto prima di vederli; si trovavano vicino al fiume, che in quel periodo dell’anno era quasi in secca, ritirato dagli argini e tanto placido che la superficie rifletteva la volta vuota del cielo e ogni tanto una gazza che l’attraversava svolazzando in cerca di carogne, scoiattoli e conigli morti di tularemia o un vitello rigonfio, ucciso da quella che in zona chiamavano «la gamba nera». Sí, se c’era il vento giusto e avevi il naso fino, riuscivi a sentire l’odore dell’acqua e la puzza di alcali e zolfo del rigagnolo che dai recinti entrava nel fiume e lo inquinava.

E se c’era il sole giusto e avevi una vista aguzza, certe volte vedevi l’abitato apparire dapprima come un miraggio sospeso poco sopra l’orizzonte, i recinti, i carri bestiame piazzati agli scivoli, i due saloon con le false facciate e le camere al piano di sopra, la scuola bianca e malandata con la piccola torre campanaria, il tutto circondato dagli arbusti di artemisia, con uno spiazzo libero dove i bambini giocavano a pallone e le bambine saltavano alla corda. Di fronte allo spiazzo sorgeva l’edificio della Locanda e alle sue spalle una collina brulla, sulle cui pendici brucavano scarni cavalli bradi con le criniere e le code arruffate dal vento costante. Quel vento fischiava estate e inverno, scendeva urlando giú dalla collina e spazzava il cimitero ai suoi piedi. Un filo spinato rugginoso e paletti di legno fradicio impedivano agli animali randagi di calpestare le tombe e rovesciare i barattoli di vetro che a volte contenevano dei fiori, giacinti a primavera e cardi a stagione avanzata. Ma solo i morti piú recenti potevano contare sui fiori. Con quel sole, appassivano subito e il loro messaggio era effimero, poi restavano gli steli a marcire nei barattoli.

Qualcuno aveva avuto la saggia idea di decorare una tomba recente con fiori di carta e per proteggerli dalla pioggia li aveva sistemati sotto il barattolo rovesciato.

A Beech i cuori battevano un po’ piú fretta, quando si diffondeva la voce che qualcuno aveva visto la polvere sollevarsi dalla pianura, che stava per arrivare una mandria condotta da un nutrito gruppo di mandriani spendaccioni; nei due saloon i baristi controllavano il livello dei liquori a buon mercato nelle bottiglie dietro il banco e tiravano fuori del vero whisky del Canada per i piú danarosi, i rancher che volevano farsi notare.

«Se vuoi un consiglio» stava dicendo un barista a un commesso viaggiatore arrivato la sera prima in treno da Salt Lake City, «quando arrivano, tieniti lontano dalla strada e non metterti a guardare il bestiame come un ebete, altrimenti i manzi si impauriscono e i mandriani non riusciranno a farli entrare nei recinti. Un paio d’anni fa hanno sparato a un pelo dalla testa a un babbalone che se ne stava là impalato a spaventare la mandria. Cristo, dovevi vederlo, è filato come il vento in cerca di un riparo».

«Sembra proprio il Selvaggio West» disse il commesso viaggiatore con sarcasmo. Era venuto con l’intenzione di vendere piccoli impianti elettrici ai due saloon, alla scuola e alla vecchia locanda, ma gli era andata male.

«Ma questo è il Selvaggio West, caro mio!» disse il barista. «Per quel che ne so, l’unico posto della valle con la luce elettrica è il ranch dei Burbank. Il resto di noi usa le lampade».

«Il ranch dei Burbank» ripeté il commesso viaggiatore fissando il calendario con la bella ragazza appeso dietro il banco. Si vedeva la giarrettiera.

«Questo pomeriggio arriva la squadra al completo. Mille capi. Otto, dieci mandriani. E i fratelli. Dai retta a me, stai dentro, cosí eviti un fuggifuggi generale. Cosa c’è, Dolly?». domandò rivolto a una bionda. «Caspita, che buon profumo».

«Grazie» rispose lei. «È acqua di Florida, e io bevo gin, come tu ben sai».

«È in arrivo la squadra dei Burbank».

«Li ho visti dal piano di sopra» disse Dolly. «Come li detesto!».

«E perché? Adesso hai la tua amica che ti aiuta».

«Buona quella. È malata».

«Davvero? Ha la stessa cosa che aveva la vecchia Alma?».

«La tubercolosi? Ma neanche per idea! Ha il marchese, come al solito».

I cuori battevano un po’ piú forte anche nell’unico ristorante della città, dentro il piccolo albergo che si chiamava semplicemente Locanda. I tavoli erano apparecchiati e le camere al piano di sopra pronte. Il registro al banco dell’accettazione era aperto su una pagina nuova e accanto aspettava una matita che odorava di legno di cedro, con la punta appena rifatta.

1 Presidente degli Stati Uniti dal 1923 al 1929 (N.d.T.).