venerdì 4 febbraio 2022

CROSSROAD Jonathan Franzen


 CROSSROADS

Jonathan Franzen


RECENSIONE  

“I went to the crossroad, fell down on my knees
I went to the crossroad, fell down on my knees
Asked the Lord above, "Have mercy, now, save poor Bob if you please" ”
Così inizia il testo di Crossroad Blues di Robert Johnson, cantante afroamericano, uno dei più grandi interpreti del blues, genere che trae origine e ispirazione dai canti degli schiavi neri dell’America coloniale.
 Crossroads è  il nome, nel romanzo, del gruppo giovanile della comunità di New Prospect, che si propone di superare e risolvere,  con aiuto reciproco, le tensioni e le ansie di ciascun membro. È sull'intreccio di esperienze che  rivelano i conflitti interiori più drammatici di ognuno,  che scoppiano i contrasti più aspri maturati all’interno della famiglia del Pastore Russ Hildebrandt. Ritorna, dunque,  abilità di Jonathan Franzen nell’ analizzare le crisi esistenziali e sociali della famiglia borghese americana, come già avvenuto in “Le correzioni” e successivamente in “Libertà” e “Purity”.

CROSSROAD 

Avvento

Il cielo spezzato dalle querce e dagli olmi spogli di New Prospect era pieno di una promessa umida, un paio di sistemi frontali che colludevano grigi per offrire un bianco Natale, mentre Russ Hildebrandt faceva il consueto giro di visite mattutine ai parrocchiani anziani e infermi con la sua Plymouth Fury station wagon. Una certa persona, la signora Frances Cottrell, appartenente alla chiesa, si era offerta di aiutarlo a portare giocattoli e scatolame alla Community of God nel pomeriggio, e benché sapesse che solo in qualità di suo pastore aveva il diritto di gioire di quell’atto di libero arbitrio, Russ non avrebbe potuto chiedere un dono natalizio piú bello di quattro ore da solo con lei.

    Dopo l’umiliazione di Russ tre anni prima, il ministro anziano della chiesa, Dwight Haefle, aveva aumentato la quota di visite pastorali del ministro associato. A Russ non era chiaro come Dwight impiegasse il tempo che lui gli faceva risparmiare, a parte prendersi vacanze piú frequenti e lavorare al suo tanto atteso volume di poesia lirica. Ma Russ apprezzava l’accoglienza civettuola riservatagli dalla signora O’Dwyer, un’amputata che un grave edema confinava in un letto d’ospedale nella sua ex sala da pranzo. E apprezzava la consuetudine di prestare servizio, soprattutto a persone che, al contrario di lui, non ricordavano nulla di quanto accaduto tre anni prima. Nella casa di riposo di Hinsdale, dove l’odore di ghirlande di pino natalizie mescolato a quello di feci geriatriche gli ricordava le latrine degli altipiani dell’Arizona, Russ porse al vecchio Jim Devereaux il nuovo annuario dei membri della chiesa che usavano per stimolare la conversazione e gli chiese se ricordasse la famiglia Pattison. Per un pastore reso incauto dallo spirito dell’Avvento, Jim era il confidente ideale, un pozzo dei desideri in cui una monetina non avrebbe mai toccato il fondo tintinnando.

    – Pattison, – disse Jim.

    – Avevano una figlia, Frances –. Russ si chinò sulla sedia a rotelle del parrocchiano e sfogliò l’annuario fino alla C. – Ora usa il cognome da sposata: Frances Cottrell.

    A casa non pronunciava mai quel nome, anche quando sarebbe stato naturale farlo, per paura di ciò che sua moglie avrebbe potuto sentirgli nella voce. Jim guardò da vicino la foto di Frances con i due figli. – Oh… Frannie? Me la ricordo, Frannie Pattison. Che fine ha fatto?

    – È tornata a New Prospect. Ha perso il marito un anno e mezzo fa… una cosa terribile. Era un pilota collaudatore della General Dynamics.

    – Dov’è adesso?

    – È tornata a New Prospect.

    – Oh, ah. Frannie Pattison. Dov’è adesso?

    – È tornata a casa. Adesso è la signora Frances Cottrell –. Russ indicò la foto e lo ripeté. – Frances Cottrell.

    Aveva appuntamento con lei nel parcheggio della First Reformed alle due e mezza. Come un bambino che aspetta con impazienza il Natale, Russ arrivò alle 12,45 e consumò il pranzo al sacco in macchina. Nelle brutte giornate, che negli ultimi tre anni erano state parecchie, faceva un giro largo piuttosto complicato – entrava in chiesa dal salone delle feste, saliva una scala e percorreva un corridoio con scaffali carichi di Inni del pellegrino ormai banditi, attraversava una stanza che conteneva leggii traballanti e un presepe esposto l’ultima volta undici Avventi prima, un’accozzaglia di pecore di legno con un bue mansueto, grigio di polvere, per il quale provava un triste senso di fratellanza, poi scendeva una scala stretta dove solo Dio poteva vederlo e giudicarlo, entrava nel tempio attraverso la porta «segreta» nel rivestimento a pannelli dietro l’altare, e infine usciva dall’ingresso laterale – per evitare di passare davanti all’ufficio di Rick Ambrose, il responsabile della pastorale giovanile. Gli adolescenti che si ammassavano nel corridoio davanti all’ufficio erano troppo giovani per avere assistito personalmente all’umiliazione di Russ, ma ne conoscevano senz’altro la storia, e lui non riusciva a guardare Ambrose senza tradire la propria incapacità di seguire l’esempio del Salvatore e perdonarlo.

    Quella, però, era una bellissima giornata, e i corridoi della First Reformed erano ancora vuoti. Russ andò dritto nel suo ufficio, infilò un foglio nella macchina per scrivere e meditò sul sermone che doveva scrivere per la domenica dopo Natale, quando Dwight Haefle sarebbe stato di nuovo in vacanza. Si stravaccò sulla sedia, si pettinò le sopracciglia con le unghie e si pizzicò la radice del naso, toccandosi la faccia dai contorni spigolosi che, come aveva scoperto troppo tardi, piaceva a molte donne e non solo a sua moglie, e immaginò un sermone sulla sua missione natalizia nel South Side. Predicava troppo spesso sul Vietnam, troppo spesso sui navajo. Dire audacemente dal pulpito le parole Io e Frances Cottrell abbiamo avuto il privilegio – pronunciare il suo nome mentre lei lo ascoltava dalla quarta fila e gli occhi della congregazione, forse colmi d’invidia, la collegavano a lui – era un piacere che, purtroppo, gli veniva precluso da sua moglie, che leggeva i suoi sermoni in anticipo e che pure sarebbe stata seduta in chiesa, e che non sapeva che quel giorno Frances lo avrebbe accompagnato.

    Sulle pareti dell’ufficio di Russ c’erano poster di Charlie Parker con il sax, di Dylan Thomas con la sigaretta; una fotografia piú piccola di Paul Robeson, incorniciata, accanto al volantino di quando aveva parlato alla Judson Church nel 1952; il suo diploma del Biblical Seminary di New York; e una sua foto ingrandita insieme a due amici navajo in Arizona nel 1946. Dieci anni prima, quando aveva assunto l’incarico di ministro associato a New Prospect, quelle rivendicazioni d’identità selezionate ad hoc avevano incontrato il favore degli adolescenti la cui crescita in Cristo rientrava nelle sue mansioni. Ma per i ragazzi in pantaloni a zampa, salopette e bandana che ora affollavano i corridoi della chiesa significavano solo obsolescenza. L’ufficio di Rick Ambrose, la star dai neri capelli lisci come spaghetti e dai neri baffi luccicanti alla Fu Manchu, aveva un’atmosfera da scuola materna, pareti e scaffali decorati con le dimostrazioni d’affetto rozzamente dipinte dei suoi giovani discepoli, con le pietre, le ossa sbiancate e le collane di fiori dal significato speciale che gli avevano regalato, con i poster serigrafati di concerti per raccolte fondi senza alcun legame apparente con una qualsiasi religione nota a Russ. Dopo l’umiliazione, Russ si era rintanato nel suo ufficio, a soffrire fra i totem scoloriti di una giovinezza che nessuno, a parte sua moglie, trovava piú interessante. E Marion non contava, perché era stata Marion a spingerlo verso New York, Marion a farlo interessare a Parker, Thomas e Robeson, Marion a entusiasmarsi per le sue storie sui navajo e a esortarlo a seguire la vocazione pastorale. Marion era inseparabile da un’identità che si era rivelata umiliante. Per riscattarla c’era voluta Frances Cottrell.

    – Oddio, ma quello è lei? – aveva detto la prima volta che era entrata nel suo ufficio, l’estate precedente, mentre osservava la foto scattata nella riserva navajo. – Sembra Charlton Heston da giovane.

    Era andata da lui per una sessione di terapia del lutto, un’altra delle mansioni di Russ e non la sua preferita, poiché fino a quel momento la perdita piú dolorosa che aveva subíto era quella di Skipper, il cane della sua infanzia. Aveva scoperto con sollievo che, un anno dopo la morte tra le fiamme del marito in Texas, la cosa peggiore di cui Frances aveva da lamentarsi era un senso di vuoto. Quando le suggerí di entrare in uno dei circoli femminili della First Reformed, lei scartò l’idea con un gesto della mano. – Non voglio prendere il caffè con le signore, – disse. – È vero che mio figlio va in prima superiore, ma ho solo trentasei anni –. In effetti era priva di cedimenti, di gonfiori, di ciccia e di rughe, un’apparizione di vitalità in un vestitino attillato senza maniche a motivi cachemire, i capelli biondi naturali corti come quelli di un ragazzino, le mani piccole e squadrate da ragazzino. Per Russ era ovvio che si sarebbe risposata presto – che probabilmente il suo senso di vuoto era poco piú della mancanza di un marito –, ma ricordò la propria rabbia quando la madre gli aveva chiesto, troppo presto dopo la morte di Skipper, se voleva un altro cane.

    C’era un particolare circolo femminile, le aveva spiegato, diverso dagli altri, guidato da lui stesso, che lavorava con i membri della Community of God, la chiesa dei quartieri poveri consociata alla First Reformed. – Lí le signore non prendono il caffè, – disse. – Imbianchiamo le case, estirpiamo le erbacce, portiamo via la spazzatura. Accompagniamo gli anziani dal medico, aiutiamo i bambini con i compiti. Lo facciamo un martedí sí e uno no, per tutto il giorno. E lasci che glielo dica, io non vedo l’ora che arrivino quei martedí. È uno dei paradossi della nostra fede: piú doniamo ai meno fortunati, piú ci sentiamo ricchi in Cristo.

    – Lei pronuncia quel nome con tanta facilità, – disse Frances. – Io sono tre mesi che vado alla funzione della domenica, e sto ancora aspettando di provare qualcosa.

    – Non l’hanno toccata neppure i miei sermoni.

    Arrossí un pochino, graziosamente. – Non volevo dire questo. Lei ha una bellissima voce. Solo che…

    – Francamente, è piú probabile che lei provi qualcosa il martedí che la domenica. Io stesso preferisco andare nel South Side che recitare sermoni.

    – È una chiesa di gente di colore?

    – Una chiesa nera, sí. La presidente del gruppo è Kitty Reynolds.

    – Mi è simpatica, Kitty. Era la mia insegnante di letteratura alle superiori.

    Anche Russ la trovava simpatica, malgrado la sentisse scettica nei confronti di un maschio della specie come lui; Marion lo aveva invitato a considerare che Kitty, che non si era mai sposata, era probabilmente lesbica. Per le loro trasferte quindicinali nel South Side si vestiva come una boscaiola, e aveva rivendicato subito il possesso di Frances, insistendo perché viaggiasse con lei sia all’andata che al ritorno, anziché sulla station wagon di Russ. E lui, consapevole del suo scetticismo, le aveva ceduto il campo, in attesa del giorno in cui fosse stata indisposta.

    Il martedí dopo il giorno del Ringraziamento, quando girava un raffreddore simil-influenzale, solo tre signore, tutte vedove, si presentarono al parcheggio della First Reformed. Frances, con un berretto da cacciatore di lana a quadri come quello che Russ portava da bambino, saltò sul sedile anteriore della Fury e non si tolse il berretto, forse per via del riscaldamento difettoso che appannava il parabrezza se non si teneva un finestrino abbassato. O forse perché sapeva che con quel berretto Russ la trovava androginamente adorabile, cosí adorabile da mozzargli il fiato e mettere alla prova la sua fede? Le due vedove piú anziane dovevano saperlo, perché per tutto il tragitto fino in città, oltre il Midway Airport e lungo Fifty-fifth Street, assillarono Russ dal sedile posteriore con domande verosimilmente mirate su sua moglie e i suoi quattro figli.

    La Community of God era una piccola chiesa di mattoni gialli senza campanile, costruita originariamente da immigrati tedeschi, con annesso un centro comunitario dal tetto incatramato. La congregazione, formata perlopiú da donne, era guidata da un pastore di mezza età, Theo Crenshaw, che faceva al circolo il favore di accettare senza ringraziamenti la sua carità suburbana. Ogni due martedí si limitava a consegnare a Russ e Kitty una lista di cose da fare in ordine di priorità; non venivano per officiare, ma per servire. Kitty aveva marciato insieme a Russ per i diritti civili, ma Russ aveva dovuto istruire le altre donne del circolo, spiegando che, se avevano difficoltà a comprendere l’inglese «urbano», non per questo dovevano parlare lentamente e a voce alta per farsi intendere dagli altri. Per quelle che avevano capito, e avevano superato la paura di camminare lungo l’isolato 6700 di South Morgan Street, il circolo era stato un’esperienza importante. A quelle che non avevano capito – alcune di loro erano entrate nel circolo per ragioni competitive, perché non volevano sentirsi escluse – Russ era stato costretto a infliggere la stessa umiliazione da lui subita per mano di Rick Ambrose, chiedendo loro di non tornare piú.

    Poiché Kitty l’aveva sempre tenuta incollata a sé, Frances non era stata ancora messa alla prova. All’arrivo in Morgan Street, scese riluttante dalla macchina e attese un’esplicita richiesta prima di aiutare Russ e le altre vedove a trasportare nel centro comunitario le cassette degli attrezzi e i sacchi di indumenti invernali usati. La sua esitazione scatenò un turbinio di dubbi in Russ – forse aveva confuso lo stile con la sostanza, un berretto con uno spirito avventuroso –, che però vennero dissolti da un fiotto di compassione quando Theo Crenshaw, ignorando Frances, ordinò alle due vedove piú anziane di catalogare una spedizione di libri di seconda mano per la scuola domenicale. I due uomini dovevano installare un nuovo scaldabagno nel seminterrato.

    – E Frances? – disse Russ.

    Lei indugiava accanto all’ingresso. Theo la squadrò con freddezza. – I libri sono tanti.

    – Perché non viene a dare una mano a noi? – le disse Russ.

    L’enfatico cenno di assenso di Frances confermò l’impulso compassionevole di Russ, dissipando in lui il sospetto di averle solo voluto mostrare la propria forza, la propria abilità con gli attrezzi. Nel seminterrato si tolse la camicia e, rimasto in canottiera, abbracciò vigorosamente il vecchio e brutto scaldabagno rivestito di amianto e lo tirò su, staccandolo dal suo alloggiamento. A quarantasette anni non era piú un alto alberello; si era allargato nel petto e nelle spalle come una quercia. Ma Frances non aveva nient’altro da fare che stare lí a guardarlo, e quando il tubo di aspirazione si spezzò a filo col muro, richiedendo un intervento con uno scalpello per pietra e una filiera per tubi, Russ tardò ad accorgersi che era uscita dal seminterrato.

    Quello che gli piaceva di piú di Theo era la sua riservatezza, che gli risparmiava la vanità di immaginare che fra loro potesse nascere un’amicizia interrazziale. Theo sapeva quel che c’era da sapere su Russ – che non rifuggiva dal lavoro pesante, che non aveva mai vissuto lontano dalla povertà, che credeva nella divinità di Gesú Cristo – e non faceva né gradiva domande piú esplicite. Per esempio, riguardo al bambino ritardato del quartiere, Ronnie, che gironzolava dentro e fuori dalla chiesa in tutte le stagioni e a volte si fermava a fare una strana danza dondolante a occhi chiusi o a scroccare un quarto di dollaro a una signora della First Reformed, Theo si limitava a dire: «Quel bambino è meglio lasciarlo stare». Quando Russ aveva provato lo stesso a interagire con lui, chiedendogli dove abitava e chi era sua madre, Ronnie aveva risposto: «Posso avere un quarto di dollaro?», e Theo aveva detto a Russ, in tono piú brusco: «È meglio che lo lasci in pace».

    Era un avvertimento che Frances non aveva ricevuto. Di sopra, all’ora di pranzo, trovarono lei e Ronnie sul pavimento della sala comunitaria con una scatola di pastelli. Ronnie, che indossava un parka usato senza dubbio proveniente da New Prospect, si dondolava in ginocchio mentre Frances disegnava un sole arancione su un foglio di giornale. Theo si bloccò, fece per dire qualcosa e scosse la testa. Frances offrí il pastello a Ronnie, alzando uno sguardo felice su Russ. Aveva trovato un modo tutto suo di servire la comunità e dedicarsi agli altri, e anche Russ era felice per lei.

    Theo, che lo seguí nel tempio, non lo era affatto. – Devi parlarle. Dille che non bisogna avvicinarsi a Ronnie.

    – Non ci vedo nulla di male.

    – Non è una questione di male.

    Theo andò a casa dalla moglie per consumare un pasto caldo, e Russ, non volendo scoraggiare il gesto caritatevole di Frances, si portò il pranzo al sacco su nella sala della scuola domenicale, dove le vedove piú anziane avevano intrapreso una riorganizzazione in grande stile. Chi era malato nel corpo consegnava se stesso nelle mani di sconosciuti, ma chi era malato di povertà consegnava il proprio ambiente. Senza chiedere il permesso, le vedove avevano riordinato tutti i libri per bambini e creato etichette vivaci e invitanti. Chi era povero a volte non riusciva a vedere cosa era necessario fare finché qualcuno non glielo mostrava. Non chiedere il permesso non era venuto naturale a Russ, ma senza aspettarsi ringraziamenti. Avventurandosi in un giardino invaso da rovi ed erbacce che gli arrivavano alle spalle, Russ non chiedeva all’anziana proprietaria quali cespugli e quali rottami arrugginiti valesse la pena di conservare, e di solito, al termine del lavoro, l’anziana signora non lo ringraziava. Diceva solo: «Ma guarda un po’ com’è migliorato».

    Russ stava chiacchierando con le due vedove quando sentirono una porta sbattere al piano di sotto e una voce femminile che gridava di rabbia. Saltò in piedi e corse giú nella sala comunitaria. Frances, stringendo un foglio di giornale, indietreggiava davanti a una giovane donna che Russ non aveva mai visto. Emaciata, i capelli sudici. Una puzza di alcol che si sentiva fin dall’altro lato della sala.

    – Questo è mio figlio, capito? Mio figlio.

    Ronnie, ancora in ginocchio, si dondolava con i pastelli in mano.

    – Ehi, calma, – disse Russ.

    La donna si voltò. – Sei suo marito?

    – No, sono il pastore.

    – Be’, di’ a quella di stare lontana da mio figlio –. Si rivolse di nuovo a Frances. – Sta’ lontana da mio figlio, stronza! Che cos’hai in mano?

    Russ si mise fra le due donne. – Signorina. Per favore.

    – Che cos’hai in mano?

    – Un disegno, – disse Frances. – Un bel disegno. L’ha fatto Ronnie. Vero, Ronnie?

    Il disegno in questione era uno scarabocchio rosso. La madre di Ronnie lo strappò di mano a Frances. – Non è mica tuo.

    – No, – disse Frances. – Credo che l’abbia fatto per lei.

    – Quella lí sta ancora parlando con me? Ho sentito bene?

    – Dobbiamo darci tutti una calmata, – disse Russ.

    – Lei deve togliermi quel culo bianco da sotto il naso e piantarla di stare addosso a mio figlio.

    – Mi dispiace, – disse Frances. – Ronnie è un bambino tanto dolce, io stavo solo…

    – Perché quella lí sta ancora parlando con me? – La madre strappò in quattro il disegno e strattonò Ronnie per farlo alzare. – Ti avevo detto di stare alla larga da questa gente. Non te l’avevo detto?

    – Non so, – rispose Ronnie.

    Lei lo schiaffeggiò. – Non lo sai?

    – Signorina, – disse Russ, – se lo picchia ancora finirà nei guai.

    – Sí, sí, sí –. Stava dirigendosi verso l’uscita. – Andiamo, Ronnie. Qui abbiamo finito.

    Dopo che furono usciti, dopo che Frances fu scoppiata in singhiozzi e lui l’ebbe abbracciata, sentendo la sua paura consumarsi in brividi, ma notando anche come la sua figura sottile gli stava bene fra le braccia, e la sua testa delicata nella mano, Russ si sentí a sua volta vicino alle lacrime. Avrebbero dovuto chiedere il permesso. Avrebbe dovuto tenerla sotto il suo sguardo protettivo. Avrebbe dovuto insistere perché aiutasse le altre signore con i libri.

    – Non so se sono tagliata per questo genere di cose, – disse Frances.

    – Ha avuto un po’ di sfortuna. È la prima volta che la vedo.

    – Ma io ho paura di loro. E quella donna lo sapeva. Invece rispettava lei, perché non ha paura.

    – Se continuerà a venire, diventerà piú facile.

    Lei scosse la testa, incredula.

    Quando Theo Crenshaw tornò dal pranzo, Russ era troppo mortificato per parlargli dell’incidente. Non aveva nessun progetto per sé e Frances, nessuna particolare fantasia, nulla piú del desiderio di starle vicino, e ora, nella sua vanità e nel suo errore, aveva mandato all’aria l’occasione di vederla due volte al mese. Era già abbastanza cattivo da desiderare una donna che non era sua moglie, ma non era neanche bravo a essere cattivo. Che tattica odiosamente passiva era stata, portarla giú nel seminterrato. Immaginare che guardarlo lavorare potesse spingerla a volerlo – proprio come guardarla fare qualunque cosa spingeva lui a volerla – significava essere il tipo di uomo che una donna come lei non avrebbe mai voluto. Guardarlo l’aveva annoiata, e lui era degno di biasimo per quel che era seguito.

    Sulla Fury, nel lento viaggio di ritorno verso New Prospect, Frances tacque finché una delle vedove piú anziane le chiese se suo figlio Larry, quello che faceva la prima superiore, si trovava bene in Crossroads. Russ non sapeva che il figlio di Frances fosse entrato nel gruppo giovanile della chiesa.

    – Rick Ambrose dev’essere una specie di genio, – disse Frances. – Quando avevo la sua età non c’erano neanche trenta ragazzi, in quel gruppo.

    – Ne faceva parte? – chiese la vedova piú anziana.

    – No. Non c’erano abbastanza bei ragazzi. Anzi, non ce n’era neanche uno.

    Detta da Frances, la parola genio agí come un acido sul cervello di Russ. Avrebbe dovuto sopportarla stoicamente, ma nelle giornate no era incapace di non fare cose di cui in seguito si sarebbe pentito. Era quasi come se le facesse proprio perché in seguito se ne sarebbe pentito. Fremere di vergogna retrospettiva, umiliarsi in solitudine, era il suo modo di ritrovare la misericordia di Dio.

    – Lo sa – disse – perché il gruppo si chiama Crossroads? Perché Rick Ambrose pensava che il titolo di una canzone rock potesse coinvolgere i ragazzi.

    Era una scabrosa mezza verità. Era stato lui stesso a proporre quel nome, all’inizio.

    – E allora gli ho chiesto, ho dovuto chiederglielo, se conosceva la versione originale di Robert Johnson. E Rick mi guarda allibito. Perché per lui, sa, la storia della musica comincia dai Beatles. Mi creda, ho sentito la versione di Crossroads dei Cream. So benissimo cos’è. Un gruppo di inglesi che fregano una canzone a un autentico maestro nero del blues e fanno finta che sia la loro musica.


    Frances, con il suo berretto da cacciatore, teneva gli occhi fissi sul camion davanti a loro. Le vedove piú anziane trattenevano il fiato mentre il ministro associato criticava il responsabile della pastorale giovanile.


    – Si dà il caso che io abbia la registrazione originale di Johnson che canta Cross Road Blues, – si vantò disgustosamente Russ. – Quando vivevo nel Greenwich Village… sa, un tempo abitavo a New York… andavo in cerca di vecchi 78 giri dai rigattieri. Durante la Depressione, le case discografiche mandavano gente sul campo a fare incredibili registrazioni dal vivo: Lead Belly, Charley Patton, Tommy Johnson. Io lavoravo in un doposcuola a Harlem, e la sera tornavo a casa e ascoltavo quei dischi e mi sentivo trasportato nel Sud degli anni Venti. C’era tanto dolore in quelle vecchie voci. Mi ha aiutato a capire il dolore con cui avevo a che fare a Harlem. Perché è di questo che parla il blues. Ed è questo che è andato perduto quando le band bianche hanno cominciato a scimmiottarne lo stile. Non sento alcun dolore nella nuova musica.


    Calò un silenzio imbarazzato. L’ultima luce di novembre si affievoliva in colori pastello sotto le nuvole all’orizzonte suburbano. Ora Russ aveva ragioni piú che sufficienti per vergognarsi in seguito, piú che sufficienti per essere certo di meritarsi di soffrire. Il senso di rettitudine che avvertiva in fondo alle giornate peggiori, la sensazione di ritorno del figliol prodigo che ricavava dalle umiliazioni, erano il suo modo di sapere che Dio esisteva. Mentre guidava verso la luce morente, pregustava già il momento in cui lo avrebbe ritrovato.


    Nel parcheggio della First Reformed, Frances indugiò in macchina dopo che le altre si erano congedate. – Perché mi odia? – chiese.


    – La madre di Ronnie?


    – Nessuno mi aveva mai parlato cosí.


    – Mi dispiace di quel che le è successo, – disse Russ. – Ma era questo che intendevo parlando di dolore. Immagini di essere cosí povera che i figli sono l’unica cosa davvero sua, le uniche persone che le vogliono bene e hanno bisogno di lei. Cosa farebbe se vedesse un’altra donna che li tratta meglio di quanto lei sia in grado di trattarli? Riesce a immaginare come si sentirebbe?


    – Mi verrebbe voglia di trattarli meglio anch’io.


    – Sí, ma perché lei non è povera. Quando siamo poveri, le cose ci succedono e basta. Ci sembra di non poter controllare niente. Siamo completamente alla mercé di Dio. Ecco perché Gesú ci dice che i poveri sono beati: perché non avere nulla ci avvicina a Dio.


    – Quella donna non mi sembrava particolarmente vicina a Dio.


    – A dire il vero, Frances, lei non può saperlo. Era evidentemente arrabbiata e agitata…


    – E sbronza marcia.


    – E sbronza marcia a mezzogiorno. Ma se c’è una cosa che dovremmo imparare da questi martedí è che io e lei non siamo nella posizione di giudicare i poveri. Possiamo solo cercare di servirli.


    – Allora sta dicendo che è colpa mia.


    – Niente affatto. Lei ha ascoltato un impulso generoso del suo cuore. Questa non è mai una colpa.


    Anche lui stava sentendo un impulso generoso nel proprio cuore: poteva ancora essere un buon pastore per lei.


    – Quando siamo turbati è difficile vedere, – le disse dolcemente, – ma oggi lei ha subíto quello che la gente di quel quartiere subisce tutti i giorni. Insulti, pregiudizi razziali. E so che lei non è estranea al dolore: non riesco nemmeno a immaginare cosa ha passato. Se decide che ha sofferto abbastanza e preferisce non lavorare con noi in questo momento, non per questo la stimerò di meno. Ma lei ha un’occasione, se vuole, per trasformare il dolore in compassione. Quando Gesú ci dice di porgere l’altra guancia, cosa ci sta davvero dicendo? Che la persona che ci sta maltrattando è irrimediabilmente malvagia e non ci resta che sopportarla? Oppure ci sta ricordando che è una persona come noi, una persona che prova lo stesso dolore che proviamo noi? So che può essere difficile vederlo, ma quella prospettiva è sempre a portata di mano, e credo che dovremmo tutti sforzarci di adottarla.


    Frances rifletté un momento sulle sue parole. – Ha ragione, – disse. – In effetti faccio fatica a vederla cosí.


    E sembrava che fosse finita lí. Quando Russ le telefonò il giorno dopo, come avrebbe fatto qualunque buon pastore, Frances disse che sua figlia aveva la febbre e che in quel momento non poteva parlare. Per due domeniche non andò a messa, e saltò la successiva visita del circolo nel South Side. Russ pensò di richiamarla, anche solo per rifornirsi di vergogna, ma la purezza della sofferenza per averla persa si accordava bene con i pomeriggi bui e le notti lunghe della stagione. Prima o poi l’avrebbe persa comunque – al piú tardi quando uno dei due fosse morto, probabilmente molto prima –, e il suo bisogno di riconnettersi con Dio era cosí urgente che si gettò su quella sofferenza quasi con avidità.


    Ma poi, quattro giorni prima, Frances l’aveva chiamato. Aveva avuto un tremendo raffreddore, gli aveva spiegato, ma non riusciva a smettere di pensare a ciò che le aveva detto in macchina. Non credeva di avere la forza di essere come lui, ma sentiva di aver fatto un giro di boa, e Kitty Reynolds le aveva parlato di una consegna natalizia nel South Side. Poteva unirsi anche lei?


    Russ si sarebbe accontentato di gioire come suo pastore e incoraggiatore, se Frances non gli avesse chiesto anche di prestarle qualcuno dei suoi dischi di blues.


    – Il nostro giradischi suona i 78 giri, – disse. – Sto pensando, se voglio fare questa cosa, devo cercare di capire meglio la loro cultura.


    Russ trasalí per l’espressione la loro cultura, ma anche se non era bravo a essere cattivo sapeva bene cosa significava condividere musica con un’altra persona. Salí all’irriscaldabile secondo piano della mastodontica casa fornitagli dalla chiesa e passò un’ora buona in ginocchio, a selezionare e riselezionare 78 giri, cercando di indovinare quali fossero i dieci piú adatti a suscitare in Frances sentimenti analoghi a quelli che lui già provava per lei. La sua connessione con Dio era svanita, ma questo per il momento non lo preoccupava. A preoccuparlo era Kitty Reynolds. Era fondamentale avere Frances tutta per sé, ma Kitty era perspicace e lui non era bravo a mentire. Qualunque stratagemma avesse tentato, ad esempio darle appuntamento alle tre e poi partire con Frances alle due e mezza, avrebbe destato i suoi sospetti. Capí che l’unica possibilità era essere sincero, piú o meno, e dirle che Frances aveva subíto un piccolo trauma in città, ed era meglio che lui fosse solo con lei quando ne avrebbe coraggiosamente rivisitato la scena.


    – Ho l’impressione – aveva detto Kitty quando Russ l’aveva chiamata – che lei non abbia fatto bene il suo lavoro.


    – È vero. Ha ragione. E adesso devo cercare di riconquistare la sua fiducia. Il fatto che voglia tornarci è incoraggiante, ma rimane una situazione delicata.


    – E Frances è molto carina, e siamo sotto Natale. Se si trattasse di qualcun altro, Russ, potrei temere un secondo fine.


    Si chiese cosa avesse voluto insinuare: che lo considerava straordinariamente buono e degno di fiducia, oppure straordinariamente asessuato, poco virile e poco minaccioso? In ogni caso, le parole di Kitty ebbero l’effetto di intensificare il brivido dell’illecito per il suo imminente appuntamento con Frances. In previsione di quel momento, Russ aveva introdotto furtivamente in chiesa la sua selezione definitiva di dischi blues e una vecchia giacca sudicia, un affare di montone proveniente dall’Arizona che sperava gli conferisse un po’ di vigore. Quel vigore che aveva in Arizona, e che, a torto o a ragione, era convinto che il matrimonio gli avesse tolto. Quando Marion, dopo la sua umiliazione, si era lealmente impegnata a odiare Rick Ambrose, chiamandolo quel ciarlatano, Russ era sbottato – le aveva urlato contro – dichiarando che Rick era molte cose ma non un ciarlatano, e la semplice verità era che lui, Russ, aveva perso vigore e non riusciva piú a comunicare con i giovani. Fustigava se stesso e si arrabbiava con Marion perché interferiva con quel piacere. Da allora, la vergogna quotidiana provocata dal passaggio davanti all’ufficio di Ambrose o dalla vile scelta di fare il giro lungo per evitarlo lo aveva connesso alle sofferenze di Cristo. Era un tormento che lo nutriva nella fede, mentre la mano di Marion che gli toccava troppo dolcemente il braccio cercando di consolarlo era un tormento privo di vantaggi spirituali.


    Dall’ufficio, mentre finalmente si avvicinavano le due e mezza e il foglio nella macchina per scrivere rimaneva bianco, sentiva il flusso post-scolastico degli adolescenti di Crossroads che ronzavano intorno al miele di Ambrose, il calpestio di passi in corsa, le parolacce gridate che il signor Cazzo-Piscia-Merda incentivava usandole lui stesso senza sosta. Ora Crossroads contava piú di centoventi membri, fra cui due figli di Russ; e lui era cosí concentrato su Frances, cosí trepidante nell’attesa del loro appuntamento, che solo in quel momento, mentre si alzava dalla scrivania e si infilava la giacca di montone, si rese conto che avrebbero potuto incontrare suo figlio Perry.


    I cattivi criminali trascurano le cose ovvie. I rapporti con sua figlia, Becky, erano tesi da ottobre, quando era entrata in Crossroads senza alcun motivo apparente, ma lei almeno era consapevole di averlo profondamente ferito con quel gesto, e di rado si faceva vedere in chiesa dopo la scuola. Perry, invece, non aveva un briciolo di tatto. Perry, che aveva un qi di 160, vedeva troppo e sogghignava troppo delle cose che vedeva. Sarebbe stato capacissimo di attaccare bottone con Frances, con un atteggiamento che sembrava schietto e rispettoso ma in realtà non lo era affatto, e avrebbe senz’altro notato la giacca di montone.


    Russ avrebbe potuto fare il giro lungo per raggiungere il parcheggio, ma l’uomo che ricorreva a quei mezzucci non era l’uomo che lui voleva essere quel giorno. Raddrizzò le spalle, dimenticò volutamente di prendere i dischi di blues, in modo che lui e Frances avessero un motivo per tornare nel suo ufficio dopo il tramonto, ed entrò nel denso banco di fumo di sigaretta emanato da una decina di ragazzi accampati in corridoio. Al momento non c’era traccia di Perry. Una ragazza paffuta dalle guance rubiconde era allegramente stravaccata in braccio a tre ragazzi sul vecchio divano sfondato che qualcuno, malgrado le pacate obiezioni espresse da Russ a Dwight Haefle (il corridoio era una via di fuga antincendio), aveva trascinato lí per i ragazzi che aspettavano di venire affrontati da Ambrose, con brutale ma amorevole sincerità, nella privacy del suo ufficio.


    Russ avanzò a occhi bassi, schivando stinchi e piedi rivestiti di jeans e scarpe da ginnastica. Ma mentre si avvicinava all’ufficio del suo avversario vide, con la coda dell’occhio, che la porta era semiaperta; e poi sentí la voce.


    Si fermò senza averne avuta l’intenzione.


    – È fantastico, – stava dicendo Frances con enfasi. – Un anno fa dovevo praticamente puntargli una pistola alla tempia per farlo venire in chiesa.


    Di Ambrose, al di là della soglia, erano visibili solo i risvolti sfilacciati dei jeans e i malconci scarponi da lavoro. Ma la sedia su cui sedeva Frances era girata verso il corridoio. Vide Russ, lo salutò con la mano e disse: – Ci vediamo fuori?


    Dio solo sapeva che espressione aveva la sua faccia. Continuò a camminare, oltrepassò l’ingresso principale senza vederlo e si trovò davanti al salone delle feste. Stava imbarcando acqua scura attraverso grosse falle nello scafo. La stupidità di non avere mai minimamente immaginato che lei potesse andare da Ambrose. La profetica certezza che Ambrose gliel’avrebbe portata via. Il senso di colpa per avere indurito il cuore nei confronti della moglie che aveva promesso di amare. La vanità di credere che la giacca di montone lo facesse sembrare altro che un frivolo, obsoleto, repellente pagliaccio. Avrebbe voluto strapparsela di dosso e recuperare quella di lana che metteva sempre, ma era troppo vigliacco per ripercorrere il corridoio, e temeva che, nello stato in cui si trovava, se avesse fatto il giro lungo e visto il polveroso bue del presepe si sarebbe messo a piangere.


    Dio mio, pregò, da dentro la disgustosità della sua giacca. Per favore, aiutami.


    Se Dio rispose alla sua preghiera, lo fece ricordandogli che il modo per sopportare l’infelicità era umiliarsi, pensare ai poveri e rendersi utile. Andò alla segreteria della chiesa e trasportò nel parcheggio cartoni di giocattoli e scatolame. Di minuto in minuto, la sua tardiva sensazione che quella fosse una brutta giornata andava aumentando. Perché Frances era con Ambrose? Di cosa stavano discutendo, per metterci cosí tanto? I giocattoli sembravano tutti nuovi o abbastanza indistruttibili da passare per nuovi, ma Russ riuscí a tenere duro per qualche altro minuto rovistando nei cartoni della roba da mangiare, eliminando le donazioni pigre o sconsiderate (cipolline da cocktail, castagne d’acqua) e trovando conforto nel peso delle lattine formato gigante di maiale e fagioli, di Chef Boyardee e di pere sciroppate: nel pensiero di quanto sarebbero state gradite a chi era veramente affamato nel corpo, e non solo, come lui, nello spirito.


    Erano le 14,52 quando Frances lo raggiunse saltellando come un ragazzino, piena di vitalità. Indossava il berretto da cacciatore e, quel giorno, un giaccone di lana coordinato. – Dov’è Kitty? – disse allegra.


    – Kitty aveva paura di non starci, con tutti questi scatoloni.


    – Non viene?


    Russ, incapace di guardarla negli occhi, non riuscí a capire se fosse delusa o, peggio ancora, sospettosa. Scosse la testa.


    – Che sciocchezza, – disse Frances. – Potevo sedermi in braccio a lei.


    – Le dispiace?


    – Dispiacermi? È un privilegio! Oggi mi sento molto speciale. Ho fatto un giro di boa.


    Fece una piccola, delicata mossa di danza che suggeriva l’idea di un’inversione a U. Russ si domandò se quella sensazione avesse preceduto il suo incontro con Ambrose o ne fosse stata la conseguenza.


    – Bene, allora, – disse, sbattendo il portellone della Fury. – Forse sarebbe ora di mettersi in moto.


    Era una velata allusione al ritardo di Frances, l’unica che intendeva permettersi, e lei non la colse. – Devo portare qualcosa?


    – No. Solo se stessa.


    – L’unica cosa che non lascio mai a casa! Aspetti che controllo di aver chiuso la macchina.


    Russ la guardò avvicinarsi con passo elastico alla sua macchina, piú nuova della Fury. Lui non era cosí di buonumore, e forse non lo era mai stato in tutta la sua vita. E di certo neppure Marion.


    – Evviva! – esultò Frances in fondo al parcheggio. – Era chiusa!


    Lui rispose alzando due pollici. Era un gesto che non faceva mai. Gli sembrò cosí strano che si chiese se era cosí che si faceva. Si guardò intorno per vedere se qualcun altro, soprattutto Perry, se ne fosse accorto. Non c’era nessuno, a parte un paio di ragazzi che andavano verso la chiesa con due custodie per chitarra, senza guardare nella sua direzione, forse volutamente. Uno dei due lo conosceva da quando faceva la seconda elementare e frequentava la scuola domenicale.


    Come sarebbe stato vivere con una persona capace di gioia?


    Mentre Russ saliva sulla Fury, un unico, molle fiocco di neve, il primo della moltitudine che il cielo prometteva fin dal mattino, venne a posarsi sul suo avambraccio e si dissolse. Frances, salendo dall’altra parte, disse: – Che bella quella vecchia giacca. Dove l’ha presa?

Tema del dibattito: l’anima è indipendente dal corpo e immutabile. Primo oratore a favore: Perry Hildebrandt, New Prospect Township High School.


    Ehm.


    Non cadiamo nell’errore, per quanto facile, di fraintendere un’esperienza nota a ogni fattone degno di tale nome come quella di trovarsi in un tal posto a fare una tal cosa – per esempio, a sforzarsi di aprire un sacchetto di marshmallow nella cucina di Ansel Roder – per poi, subito dopo, scoprire il proprio sé corporeo intento a svolgere tutt’altro compito in un ambiente completamente diverso. Tali elisioni spazio-temporali, dette anche (con un termine comune benché fuorviante) «blackout», non indicano necessariamente una divisione tra anima e corpo; qualunque ragionevole teoria meccanicistica della mente può spiegarle. Cominciamo, invece, considerando una domanda che a prima vista potrebbe sembrare irrilevante, senza risposta o addirittura insensata: Perché io sono io e non un altro? Scrutiamo nei vertiginosi abissi di questa domanda…


    Era curioso come il tempo rallentava, quasi si fermava, quando lui stava bene: meraviglioso (ma anche no, per via della notte insonne che lasciava presagire) quanti giri di corsa la sua mente riusciva a compiere negli istanti che gli ci volevano per salire una rampa di scale. La pulsante sensazione di vivere nel presente, corpo e anima in sintonia, registrando con la pelle il graduale calo della temperatura man mano che si avvicinava al secondo piano della Canonica Piú Brutta, con il naso la corrente d’aria fredda e stantia che scendeva verso la porta in fondo alle scale, da lui lasciata aperta casomai sua madre fosse tornata a casa all’improvviso, con le orecchie la certezza che sua madre non era tornata, con le retine la luce dicembrina appena un po’ meno tetra nelle finestre piú vicine al cielo, meno schermate dagli alberi, e con l’anima il senso di familiarità, quasi il déjà vu, di salire quelle scale da solo.


    Una volta (una volta sola) aveva chiesto ai poteri superiori se poteva avere una delle stanze al secondo piano, anzi, piú che chiedere aveva razionalmente segnalato l’idoneità del secondo piano a ospitarlo, e quando la risposta era calata dalle altezze materne – no, tesoro, d’inverno fa troppo freddo, d’estate troppo caldo, e a Judson piace stare in camera con te – l’aveva accettata senza proteste né rinnovate suppliche, perché, secondo la sua stessa valutazione razionale, lui era l’unico figlio della famiglia a non avere il diritto di rivendicare una stanza tutta per sé, non essendo né il maggiore né il minore né il piú bello, ed era abituato a operare a un livello di razionalità inaccessibile agli altri.


    Tuttavia, nella sua mente, il secondo piano apparteneva a lui. Molte boccate di fumo svigorito erano state sbuffate fuori dalla finestra della soffitta, molti sbaffi di cenere si erano mescolati alla polvere pollinosa che ricopriva il davanzale esterno, e lo studio del Reverendo Padre, dove ora Perry entrò spavaldo, non aveva segreti per lui. Aveva letto, in parte per curiosità, in parte per sondare fino a che punto poteva sentirsi un verme miserabile, l’intera corrispondenza prematrimoniale di sua madre e suo padre, tranne due lettere che neppure suo padre aveva mai aperto. Cercando, con scarso ottimismo, qualche numero di «Playboy», aveva riesumato le collezioni paterne di «The Other Side» e «The Witness», frutto di menti cosí legnose che non se ne poteva estrarre neppure una goccia di dolcezza, insieme a un’annata di numeri di «Psychology Today», in uno dei quali aveva scovato le parole clitoride e orgasmo clitorideo, purtroppo non illustrate. (Il padre di Ansel Roder conservava la sua collezione di «Playboy» dentro scatole da archivio catalogate per annata, un sistema ammirevole che però scoraggiava i furti). I dischi jazz e blues del Reverendo erano un mucchio di plastica muta e copertine marcescenti, e le vecchie giacche nel ripostiglio dal soffitto inclinato non erano desiderabili, tagliate com’erano per un uomo molto piú grosso di Perry, il quale sentiva, letteralmente nelle ossa, che sarebbe rimasto il piú piccolo della nidiata degli Hildebrandt, dopo che il suo scatto di crescita, l’anno prima, era stato un po’ come un fuoco d’artificio che parte tutto storto e si spegne con un debole pop. Il ripostiglio gli interessava solo in dicembre, quando il pavimento si riempiva di regali.


    Un fatto degno di nota, che forse c’entrava con la questione dell’immutabilità dell’anima, era che una persona di nome Perry Hildebrandt fosse esistita sulla terra per nove Natali, per cinque dei quali dotata di una coscienza viva e funzionante, prima di rendersi conto che i regali che apparivano sotto l’albero alla vigilia di Natale dovevano trovarsi già in casa, non ancora incartati, da qualche giorno o addirittura settimana. La sua cecità non aveva niente a che fare con Babbo Natale, del quale gli Hildebrandt avevano sempre detto, Bah, sciocchezze. Tuttavia, chissà come, anche quando ormai era grande abbastanza per capire che i regali non si comprano e incartano da soli, Perry aveva continuato ad accettarne l’improvvisa apparizione annuale come se fossero, se non un intervento miracoloso, un fenomeno simile alla sua vescica che si riempiva di urina: parte del normale corso delle cose. Com’era possibile che a nove anni non avesse afferrato una verità che a dieci gli risultava cosí evidente? L’incongruenza epistemologica era assoluta. Il suo sé novenne gli sembrava un completo estraneo, e non in senso buono. Era una figura vagamente minacciosa per il Perry piú grande, il quale non riusciva a evitare il sospetto che, benché il volto angelico nelle foto del 1965 fosse identificabile come suo, i due Perry non avessero la stessa anima. Che in qualche modo ci fosse stato uno scambio. In tal caso, da dove era venuta la sua anima attuale? E dov’era andata a finire l’altra?


    Aprí la porta del ripostiglio e si inginocchiò. La nudità dei doni sul pavimento era una triste premonizione del loro nudo futuro, dopo la breve, falsa gloria della confezione regalo. Una camicia, un pullover di velours, calzini. Una scatola con fiocco dei grandi magazzini Marshall Field’s – che classe! Una scrollatina gli rivelò che conteneva un indumento leggero, sicuramente per Becky. Spingendosi piú avanti, Perry scartocciò libri e dischi. Fra questi ultimi c’era l’album degli Yes che aveva menzionato a sua madre in una di quelle conversazioni oblique che divertivano entrambi. (Trasmettere una lista di Natale senza fare riferimento al Natale era un gioco molto semplice, eppure il Reverendo Padre non sarebbe riuscito a giocarci senza ammiccare, e Becky lo avrebbe completamente rovinato: «Stai cercando di dirmi cosa vuoi per Natale?» Solo sua madre e suo fratello minore possedevano le facoltà ludiche adeguate). Col senno di poi, era un peccato che avesse alluso all’album degli Yes prima di formulare il suo nuovo proposito. Gli Yes si abbinavano benissimo agli spinelli, ma Perry temeva che la loro musica potesse perdere un po’ di lustro se ascoltata a mente inalterata.


    In fondo al ripostiglio c’erano articoli piú pesanti, una piccola valigia Samsonite gialla (per Becky, senza dubbio), un oggetto che sembrava un microscopio di seconda mano (doveva essere per Clem), un mangianastri portatile (al quale Perry aveva alluso, ma senza sperarci!) e, santo cielo, un Mini Football elettrico. Povero Judson. Era ancora abbastanza giovane da dover ricevere un gioco, ma Perry aveva già provato quel gioco a casa di Roder ed era quasi morto dal ridere per quanto faceva schifo. Il campo di lamiera vibrava elettricamente, con un suono da rasoio Norelco, sotto due squadre di minuscoli giocatori di plastica con zolle rettangolari di plastica incollate ai piedi, i quarterback eternamente bloccati nella maschia posizione del passaggio in avanti, gli halfback che portavano una «palla» molto simile a un grumo di lanugine e spesso la perdevano, oppure, disorientati da quella mischia ronzante, filavano verso la propria area di meta e realizzavano un safety per la squadra avversaria. Guardare lo stupido comportamento di uno sballato era la cosa piú divertente per chi era istupidito dallo sballo; ma Judson, naturalmente, non avrebbe giocato da sballato.


    Il lato positivo: nessuna traccia di una macchina fotografica. Perry era piuttosto sicuro di essere l’unico a conoscere il piú grande desiderio del fratellino, perché Judson era un essere superiore al quale non sarebbe mai venuto in mente di lanciare bramosi segnali alla madre, e lo stile paterno era cosí antimaterialistico che non contemplava la richiesta di liste natalizie. Tuttavia esistevano cose come la sfortuna, o le intuizioni, e cosí Perry dovette perquisire a fondo il ripostiglio – una piccola trasgressione, ancora piú piccola nel contesto di un bene superiore.


    Perché questo era il suo nuovo proposito: essere buono.


    O almeno, se non ci fosse riuscito, meno cattivo.


    Anche se i motivi all’origine di quel proposito indicavano che in lui c’era una cattiveria di fondo forse incurabile.


    Per esempio: la riluttanza che provava, mentre si alzava in piedi e ridiscendeva la scala piena di spifferi, all’idea di liquidare il capitale. La liquidazione era una condanna che aveva comminato a se stesso, una multa punitiva che si era inflitto al culmine del suo proposito, ma che ora si chiedeva se fosse davvero necessaria. Nel portafoglio aveva la banconota da venti dollari che sua madre gli aveva allungato per gli acquisti di Natale, piú undici dollari che era riuscito a non spendere per avvelenarsi il sistema nervoso centrale. La macchina fotografica che lui e Judson avevano ammirato nella vetrina del New Prospect Photo costava $24,99, tasse e pellicole escluse. Anche se fosse riuscito a trovare una cornice usata a buon mercato per il suo ritratto a guazzo della madre e avesse comprato dei libri tascabili per tutti gli altri – e la sua irritazione all’idea di dover comprare qualunque cosa per Becky, Clem e il Reverendo era già un’infausta violazione del proposito –, i soldi non gli sarebbero comunque bastati.


    E un modo per spendere meno c’era. A Judson sarebbe piaciuto anche ricevere un RisiKo!, che nuovo costava meno della metà della macchina fotografica, e giocarci con Perry nella loro stanza, cosa che Perry avrebbe fatto volentieri come ulteriore regalo a Judson, visto che anche lui era appassionato di quel gioco. Ma, al pari di qualunque altro gioco che prevedesse guerre o uccisioni, di ogni giocattolo che sparasse proiettili anche solo immaginari, di ogni rappresentazione di soldati, aerei da guerra, carri armati, eccetera – in breve, tutte le cose preferite da un ragazzino normale come Judson –, in casa loro il RisiKo! era proibito, a causa del violento pacifismo del Reverendo. Certo, Perry aveva a disposizione un arsenale di argomenti razionali: lo scopo di ogni gioco non era forse una specie di vittoria in guerra? Come mai gli eccidi virtuali di scacchi e dama non incorrevano nel divieto? Era davvero obbligatorio vedere le belle pedine smaltate del RisiKo! come «armate», anziché come contrassegni astratti in un gioco di dadi e strategia topologica? Se solo fosse stato possibile discutere con suo padre senza arrossire, strozzarsi con lacrime di rabbia e odiarsi perché era piú intelligente, ma anche meno buono, del vecchio! Sarebbe stato proprio un bel regalo per Judson, una lite la mattina di Natale.


    Concludendo a malincuore che non c’era modo di salvare il capitale, si chiuse la porta delle scale alle spalle e trovò Judson dove lo aveva lasciato, nella loro stanza, che leggeva un libro sotto la lampada da lettura fatta in casa che lui gli aveva montato sopra il letto con cassettiera come quelli delle navi. L’angolo di Judson ricordava la cabina dello Spray, il veliero con cui il suo eroe Joshua Slocum aveva circumnavigato il globo – ogni cosa al suo posto, vestiti piegati e sistemati nei cassetti sotto il letto, tascabili da cinquanta centesimi ordinati alfabeticamente per titolo, automobiline parcheggiate in diagonali parallele su una piccola mensola, sveglia sempre carica –, al di là del quale infuriava il mare di Perry, che considerava piegare i vestiti un irrazionale spreco di tempo e tenere in ordine i suoi averi una cosa superflua, visto che ricordava benissimo dove li aveva lasciati. Il capitale era sotto il letto, nella cassaforte di compensato con lucchetto che aveva fabbricato come progetto finale nell’ora di applicazioni tecniche di seconda media.


    – Ehi, ragazzo, scusa se ti disturbo, – disse Perry dalla soglia. – Ma ho bisogno che tu vada da un’altra parte.


    Judson stava leggendo Un viaggio incredibile. Aggrottò ostentatamente le sopracciglia. – Prima mi dici che devo restare qui e poi mi dici che devo andarmene.


    – Solo per un momento. A Natale si eseguono anche gli ordini piú strani.


    Judson, senza muoversi, disse: – Cosa hai voglia di fare oggi?


    Una domanda obliqua.


    – In questo momento, – disse Perry, – ho voglia di fare una cosa per cui è necessario che tu esca.


    – E piú tardi?


    – Devo andare in centro. Perché non vai da Kevin? O da Brett.


    – Sono tutti e due malati. Quanto starai via?


    – Fino all’ora di cena, credo.


    – Ho una nuova idea su come montare il gioco. Posso farlo mentre sei via e poi ci giochiamo dopo cena?


    – Non so, Jay. Forse.


    Un livido di delusione sulla faccia di Judson riportò Perry al suo proposito.


    – Cioè, sí, – disse. – Ma non tirarlo fuori prima, capito?


    Judson annuí e saltò giú dal letto con il libro. – Promesso?


    Perry promise e si chiuse la porta alle spalle. Da quando aveva fabbricato una copia di Stratego, piuttosto abilmente, con il cartone delle camicie, suo fratello moriva dalla voglia di giocarci con lui. Visto che teoricamente si trattava di un gioco con bombe e uccisioni, comportava il rischio di una confisca da parte dei poteri superiori, e non c’era stato bisogno di dire a Judson di tenerlo nascosto. C’erano molti fratellini peggiori di lui, a New Prospect. Non solo Judson rappresentava per Perry la prova migliore della realtà dell’amore, ma era anche un ragazzino cosí simpatico e ben regolato, quasi intelligente come lui e molto piú capace di dormire la notte, che a volte Perry avrebbe voluto essere lui il suo fratello minore.


    Ma questo cosa significava? Se l’anima era solo una creazione psichica del corpo, il motivo per cui l’anima di Perry si trovava in Perry e non in Judson era tautologicamente ovvio. Eppure non sembrava ovvio. La ragione per cui Perry si domandava se l’anima fosse indipendente e immutabile era la persistente sensazione di quanto fosse strano, di quanto fosse apparentemente casuale, che la sua anima fosse finita lí e non altrove. Per quanto ci provasse, da alterato o da lucido, non riusciva mai a risolvere del tutto – e neppure a esprimere adeguatamente – il mistero del suo essere Perry. Non gli era affatto chiaro, per esempio, cosa avesse fatto Becky per meritare di essere Becky, o quando di preciso (in una precedente incarnazione?) si fosse guadagnata quel privilegio. Si era semplicemente ritrovata a essere Becky, colei intorno alla quale ruotavano i cieli; e anche questo lo sconcertava.


    Un lieve, delizioso odore di cannabis si levò dal capitale quando Perry aprí la cassaforte. Il capitale consisteva di ottanta grammi di erba dentro doppie buste di plastica e di ventuno pillole di Quaalude, l’avanzo di un acquisto all’ingrosso che, come ogni acquisto precedente, gli era costato una dose quasi insopportabile di ansia e vergogna. Lo fissò, esitando a credere che se ne sarebbe separato per ricevere in cambio solo la gioia putativa di un dono natalizio. Com’era crudele, il suo proposito. Pensò che poteva anche amare lo sballo un po’ meno di quanto amasse suo fratello, ma quando la mente gli andava a mille, quando una notte a letto gli sembrava lunga un mese, non era sicuro di non amare di piú un paio di Quaalude. Sí, questo era il dilemma: se ficcarsi tutto il suo cazzo di capitale nella tasca del parka e liberarsene una volta per sempre, o se dormire quella notte. L’erba da sola gli avrebbe fruttato trenta dollari, piú di quanti gliene servivano. Perché non tenersi qualche ’lude? Anzi, perché non tenersele tutte?


    Undici giorni prima, in un misterioso correlativo della lotteria cosmica in cui la sua anima aveva estratto il suo nome, Perry aveva pescato il nome Becky H da un mucchio di foglietti piegati sul pavimento di linoleum del salone delle feste della First Reformed. (Quante probabilità c’erano? Circa una su cinquantacinque – cento milioni di volte piú alte della probabilità di essere Perry, ma comunque piuttosto basse). Appena aveva visto il nome della sorella, Perry era tornato furtivamente verso il mucchio, sperando di poter scambiare il suo foglietto con un altro, ma un assistente di Crossroads era appostato lí accanto per impedire quel genere di imbrogli. Di solito, al momento di cercarsi un partner per un esercizio in «diade», Rick Ambrose ordinava a tutti di scegliere una persona che non conoscevano bene o con la quale non c’erano state condivisioni recenti. Ma la domenica precedente Ike Isner, un membro della cerchia ristretta che frequentava l’ultimo anno delle superiori, si era alzato in piedi e si era lamentato con il gruppo perché la gente sceglieva troppi partner «sicuri» ed evitava quelli rischiosi. Come in un processo farsa stalinista, con grande sfoggio di emozioni forti, Isner aveva confessato che lui stesso si era macchiato di quella colpa. Il gruppo lo aveva subito inondato di approvazione per la sua coraggiosa sincerità. Allora qualcuno aveva proposto di estrarre a sorte, al che un altro membro della cerchia ristretta aveva ribattuto che dovevano prendersi la responsabilità delle loro scelte, anziché fare affidamento su un sistema meccanico, e tuttavia la proposta era stata approvata con un’ampia maggioranza – Perry, com’era sua abitudine, aveva aspettato di vedere da che parte tirava il vento prima di alzare la mano a favore.


    Becky era stata una dei pochi a votare contro. Ora, vedendo il suo nome sul foglietto, Perry si chiese se avesse previsto quell’eventualità; se fosse stata, per una volta, piú intelligente di lui. Nel salone delle feste tutti correvano verso i propri partner. Becky si guardava intorno con aria innocente per vedere chi fosse il suo. Mentre le si avvicinava, Perry la vide rendersi conto di cosa stava succedendo. L’espressione di Becky si uniformò alla sua. Oh, merda, diceva.


    – Va bene, statemi a sentire, – berciò Ambrose. – In questo esercizio, voglio che diciamo al nostro partner una cosa per cui lo ammiriamo molto. Ce lo diciamo a turno. E poi voglio che diciamo al nostro partner quale suo comportamento è una barriera che ci impedisce di conoscerlo meglio. Sto parlando di barriere, non di diffamazione. Avete capito tutti? È chiaro per tutti cosa viene prima?


    Le dimensioni del gruppo erano tali che Perry e Becky erano riusciti tranquillamente a evitarsi fin dalla sera in cui, sei settimane prima, lei aveva sconcertato tutti entrando in Crossroads. Perry, in particolare, era rimasto sconcertato perché Becky era fin troppo chiaramente la preferita del Reverendo e sapeva benissimo quanto il padre odiasse Rick Ambrose; la defezione di Perry aveva semplicemente intensificato il gelo esistente fra lui e il Reverendo, mentre quella di Becky rappresentava un brutale tradimento. Piú universalmente sconcertante era stata l’apparizione di Becky una domenica sera alla First Reformed. Perry c’era. Aveva visto le teste girarsi, aveva sentito i mormorii di stupore. Era come se Cleopatra si fosse presentata durante uno dei raduni di Gesú in Galilea, una regina col diadema che cerca di integrarsi con gli svitati e i lebbrosi che la circondano; perché anche Becky veniva da un altro mondo – l’élite sociale della scuola superiore di New Prospect.


    Perry, da bambino, non era stato un osservatore delle attività della sorella. Insieme a Clem, al quale era molto legata, Becky aveva formato una generica unità Fratello & Sorella Maggiori, degni di nota soprattutto perché erano sempre piú avanti di Perry, piú bravi con le forbici, piú bravi nel gioco della campana, piú bravi (molto piú bravi) a controllare le emozioni e l’umore. Solo quando aveva cominciato le medie, Perry si era accorto di percepire Becky come un individuo distinto, sul quale il mondo piú vasto aveva opinioni forti. Era la capitana della squadra di cheerleader della Lifton Central e avrebbe potuto vincere qualunque concorso di popolarità a cui avesse deciso di partecipare. Ogni tavolo a cui si sedeva per pranzare si riempiva subito delle ragazze piú carine, dei ragazzi piú spavaldi. Stranamente, lei stessa veniva considerata molto carina. Secondo Perry, la ragazza alta e ossuta con la quale condivideva impazientemente il bagno, e che storceva la faccia come una vecchia strega quando lui la correggeva su un dato di fatto o sulla grammatica, era invece vagamente disgustosa, ma i ragazzi della Lifton Central piú grandi di lui con cui aveva rapidamente stretto amicizia, fra i quali c’era Ansel Roder, gli assicuravano che si sbagliava. Non era mai riuscito a concordare con loro, anche se alla fine aveva ammesso che sua sorella aveva qualcosa – un alone di unicità, una forza al contempo attraente e inavvicinabile (nessuno aveva mai osato dichiararsi il suo ragazzo), una specie di costosità che non c’entrava niente con i soldi (si diceva che non fosse piena di sé come le altre cheerleader, come se non si accorgesse neppure degli sguardi che attirava senza alcuno sforzo) – perché lui stesso, Perry, l’insignificante fratello satellite, emanava un certo bagliore grazie al riflesso della sua supremazia.


    A New Prospect le parole Becky Hildebrandt erano magiche in senso stretto, visto che bastava pronunciarle per assicurare una massiccia partecipazione a una festa o per causare erezioni autoproclamate (con Perry purtroppo a portata d’orecchio) durante la lezione di applicazioni tecniche. Condividendo con lei metà del nome, anche Perry era stato subito notato alla Lifton Central, almeno dalla cricca di ragazzi di seconda e terza media che ricavavano un certo prestigio dall’alto reddito e dalle grandi case dei loro genitori. Aveva cominciato come mascottina, ma presto si era dimostrato pari a loro o anche migliore. Nessuno riusciva a trattenere piú a lungo nei polmoni un tiro di pipetta, nessuno riusciva a bere piú cicchetti senza mettersi a farfugliare, nessuno conosceva piú parole del vocabolario. Perfino i capelli lunghi fino alle spalle stavano meglio a lui, che li aveva biondi e ondulati, che ai suoi amici. Roder si era talmente stufato di scostarsi dagli occhi i capelli dritti e opachi che alla fine se li era rasati; era il piú svitato di tutti e ora sembrava un marine.


    Perry trovava giusto che i suoi amici fossero tutti piú grandi di lui. Becky poteva anche avergli garantito l’accesso alla cricca, e loro potevano anche non dimenticare chi era sua sorella, ma anche lui era unico, a modo suo. Era diventato evidente soprattutto in terza media, quando ormai tutti i suoi amici erano andati alle superiori. Circondato da coetanei di intelligenza piú limitata, e senza piú nessuno con cui sballarsi all’ora di pranzo, si sentiva come un astronauta che avesse passeggiato troppo a lungo sulla luna e perso il volo di ritorno. I problemi con il sonno erano cominciati allora. Durante un periodo di alcune settimane fra gennaio e marzo, ora per fortuna quasi completamente dimenticato, aveva sperimentato le prime notti di veglia totale fino all’alba, altre albe in cui si sentiva fisicamente incapace di alzare le palpebre, diverse mattine in cui era rientrato di nascosto nella Canonica Piú Brutta per salire al secondo piano e dormire sotto un vecchio tappetino fino all’ora di cena, molti episodi in cui si era addormentato durante una delle lezioni che frequentava senza trarne mai alcun profitto, un atroce incontro con il preside e i suoi genitori durante il quale si era pure brevemente addormentato, un’intensa, intermittente fobia di sua madre e varie pacate ramanzine di suo padre. Non era forse ammirevole che, malgrado tutto ciò, avesse ricevuto ottimi voti per l’intero trimestre? Per quello poteva ringraziare le notti in bianco. C’era anche il sollievo psicologico di vedere gli amici dopo la scuola e nel fine settimana, ma quei ritrovi erano offuscati, nei mesi bui, dal desiderio – dal bisogno – di maggiori quantità di qualunque cosa gli altri stessero fumando o trangugiando. Tutti i suoi amici, dal primo all’ultimo, potevano permettersi di comprare piú droga. Mentre lui, la cui brama di conforto raggiungeva il culmine quando rimaneva solo e doveva affrontare un’altra notte di tortura, era l’unico ad avere un padre povero in canna.


    Proprio quando aveva deciso che la sua unica possibilità era mettersi a spacciare droga, tre dei suoi migliori amici erano entrati in Crossroads. Per Bobby Jett era stato un modo per abbordare una ragazza che gli piaceva, per Keith Stratton il richiamo di nove giorni senza il controllo dei genitori durante il viaggio di primavera in Arizona, e per David Goya, la cui madre apparteneva alla First Reformed, un castigo non troppo punitivo per molteplici violazioni del coprifuoco. Sotto la direzione di Rick Ambrose, Crossroads aveva cominciato a sovvertire le tradizionali categorie sociali. Candidati apparentemente improbabili per un’associazione cristiana si erano avvicinati, avevano voluto vedere com’era. Fra quelli che erano rimasti, con grande sorpresa di Perry, c’erano tutti e tre i suoi amici. Si divertivano ancora insieme durante il fine settimana, ma il loro centro di gravità conversazionale si era spostato. Parlando con calore del viaggio in Arizona, o piú scherzosamente dell’allenamento alla sensibilità che facevano la domenica sera, o piú lascivamente di certe ragazze di prima qualità appartenenti a Crossroads, lo facevano sentire escluso da una cosa che sembrava divertente.


    Dopo una primavera straziante, seguita da un’estate passata a inalare i gas di scarico dei tosaerba, sballarsi e rileggere Tolkien, Perry aveva proposto a Ansel Roder di andare insieme a dare un’occhiata a Crossroads. Roder aveva rifiutato con enfasi («Non mi piacciono le sette»), e cosí Perry, la prima domenica sera della prima superiore, era entrato da solo nella stanza con il soffitto a volta di cui Crossroads si era appropriata al secondo piano della chiesa di suo padre. L’aria era azzurra per il fumo di tabacco, le pareti e le volte del soffitto erano coperte di citazioni dipinte a mano di e. e. cummings, John Lennon, Bob Dylan, perfino Gesú, e di frasi piú imperscrutabili di autori ignoti, tipo Perché supporre? Informatevi. la morte uccide. Prima che potesse rendersene conto, Perry veniva abbracciato da David Goya, con il quale fino a quel momento aveva naturalmente evitato ogni contatto fisico. Nei minuti successivi era stato toccato – stretto con forza, attirato contro eccitanti seni – da un numero di corpi femminili venti volte superiore a quanti ne avesse toccati cosí in tutta la vita. Molto piacevole! Dopo i saluti e le formalità, il gruppo, composto da un centinaio di persone, aveva marciato fin giú al salone delle feste, dove i toccamenti, maschili e femminili, erano continuati in varie modalità per altre due ore. L’unico momento imbarazzante era stato quando Perry, presentandosi al gruppo, aveva alluso al fatto che suo padre era il ministro associato «qui». Aveva lanciato un’occhiata a Rick Ambrose ed era stato trapassato da un paio di ardenti occhi scuri, leggermente socchiusi in un’espressione perplessa e sospettosa, come per chiedere, Tuo padre sa che sei qui?


    Il Reverendo non lo sapeva. Perry, essendo incapace di discutere con lui senza mettersi a piangere, si era abituato a nascondergli piú cose possibile il piú a lungo possibile. La domenica seguente, per prevenire qualunque domanda, aveva detto a sua madre che andava a cena da Roder, e in effetti si era fermato un po’ da lui, consumando una pizza surgelata e una quantità evidentemente notevole di gin e gazzosa all’uva davanti alla tv a colori nella confortevole tavernetta dei Roder. Benché fosse noto per reggere bene l’alcol, quando era arrivato a Crossroads gli avvenimenti si erano susseguiti cosí in fretta che piú tardi avrebbe fatto fatica a ricordarseli. Forse aveva barcollato o sbandato. E poi si era trovato davanti due assistenti piú grandi, ex membri del gruppo, i quali lo avevano informato che era ubriaco. Rick Ambrose era arrivato guadando la folla e lo aveva condotto fuori in un corridoio.


    – Puoi ubriacarti quanto ti pare, – gli aveva detto, – ma non qui.


    – Okay.


    – E comunque, si può sapere cosa ci fai qui? Perché sei venuto?


    – Non lo so. I miei amici…


    – Loro sono ubriachi?


    La paura del castigo stava uccidendo la sbornia di Perry. Aveva scosso la testa.


    – Ci puoi scommettere che non lo sono, – aveva proseguito Ambrose. – Dovrei mandarti a casa.


    – Mi dispiace.


    – Davvero? Vuoi parlarne? Vuoi far parte di questo gruppo?


    Perry non aveva ancora deciso. Ma era innegabilmente piacevole avere la piena attenzione del leader baffuto di cui i suoi irriverenti amici parlavano con ammirazione; essere coinvolto, per una volta, in una franca conversazione con un adulto. – Sí, – aveva risposto. – Lo voglio.


    Ambrose lo aveva riportato nella stanza piena di fumo e aveva interrotto il programma abituale per uno dei Confronti plenari che erano il cuore della prassi di Crossroads. Gli argomenti in discussione erano il consumo di alcol, il rispetto per i propri pari e il rispetto per se stessi. Ragazzi che Perry conosceva appena gli si erano rivolti come se lo conoscessero benissimo. David Goya gli aveva detto che era una bellissima persona ma che lui, David, a volte temeva che lui, Perry, usasse le droghe e l’alcol per sfuggire alle sue vere emozioni. Keith Stratton e Bobby Jett erano intervenuti sullo stesso tono. Era andata avanti cosí per un pezzo. Anche se sotto certi aspetti non aveva mai vissuto niente di piú orribile, Perry era anche elettrizzato dalla quantità e intensità dell’attenzione che stava ricevendo, lui, studente del primo anno e nuovo arrivato, solo per avere bevuto un po’ di gin. Quando era scoppiato in lacrime, un vero pianto di vergogna, il gruppo era entrato in una specie di estasi di sostegno morale, con assistenti che lo elogiavano per il suo coraggio e ragazze che gli si avvicinavano per abbracciarlo e accarezzargli i capelli. Un corso intensivo sui fondamenti dell’economia di Crossroads: la manifestazione pubblica delle proprie emozioni procurava un’immensa approvazione. Venire sostenuti e coccolati da una stanza piena di propri pari, fra cui parecchi ragazzi piú grandi e diverse ragazze carine, era estremamente piacevole. Era una droga, e Perry ne voleva ancora.


    Quando il gruppo era sceso per le attività nel salone delle feste, Rick Ambrose lo aveva trattenuto, acciuffandolo con una presa al collo che intendeva essere affettuosa. – Ben fatto, – gli aveva detto, lasciandolo andare.


    – A dire il vero, credevo che sarei stato severamente punito.


    – Non ti è sembrato un castigo severo? Ti hanno attaccato di brutto.


    – In effetti mi sono sentito un po’ messo sotto torchio.


    – C’è una cosa, però –. Ambrose aveva abbassato la voce. – Non so se lo sai, ma c’è stato del risentimento quando tuo padre ha lasciato il gruppo. Mi dispiace, e non so proprio cosa fare. Ma se vuoi stare qui, devo sapere che tuo padre è d’accordo. Devo sapere che sei qui per te stesso, non per qualcosa fra te e lui.


    – Mio padre non lo sa nemmeno. Non ci ho neppure pensato, a lui.


    – Be’, a questo devi porre rimedio. Tuo padre deve saperlo. Siamo d’accordo?


    La conversazione fra Perry e il Reverendo, quella sera, era stata misericordiosamente breve. Suo padre aveva unito la punta delle dita tremanti e le aveva osservate con tristezza. – Mentirei – aveva detto – se ti dicessi che io e tua madre non siamo preoccupati per te. Credo che tu abbia bisogno di un qualche scopo nella vita. Se questo è ciò che vuoi essere, non te lo impedirò –. Secondo l’interpretazione di Perry, per il padre lui contava cosí poco che non si prendeva neppure la briga di arrabbiarsi per il suo passaggio al campo nemico.


    Quando Becky era entrata in Crossroads, Perry era ormai diventato un esperto del gioco. Lo scopo era avvicinarsi al centro del gruppo, diventare un membro della cerchia ristretta, seguendo le regole esemplificate da Ambrose e dagli altri assistenti. Le regole richiedevano comportamenti controintuitivi. Invece di consolare un amico raccontandogli balle, gli dicevi verità sgradite. Invece di evitare i disadattati, i disperatamente sfigati, li cercavi e interagivi con loro (assicurandoti, naturalmente, di venire notato mentre lo facevi). Invece di scegliere i tuoi amici come partner negli esercizi, ti presentavi (ostentatamente) ai nuovi venuti ed esprimevi fiducia nel loro valore sconfinato. Invece di essere forte, frignavi. Mentre la sera del gin le lacrime di Perry erano state catartiche, quelle successive erano venute piú facilmente e si erano rivelate una valuta piú fungibile, scambiabile con un avanzamento verso la cerchia ristretta. Poiché era un gioco, Perry lo aveva imparato bene, e anche se i rapporti personali ottenuti grazie ai calcoli della teoria dei giochi non erano cosa di cui andare tanto fieri, sentiva che gli altri tenevano davvero in considerazione le sue opinioni ed erano davvero commossi dalle sue manifestazioni emotive.


    L’unica persona che Perry temeva di non riuscire a imbrogliare era quella di cui piú desiderava l’approvazione, Rick Ambrose. Di lui ammirava, fra l’altro, la fede intellettualmente plausibile in Dio. Perry non era stato ancora chiamato da Dio; forse la linea era interrotta, o forse non c’era nessuno all’altro capo del filo. Durante un noioso pomeriggio estivo, aveva sfogliato con una penna in mano una delle riviste religiose di suo padre sostituendo dappertutto la parola «Dio» con «Steve», cosí, per ridere. (Chi era Steve? Perché persone che sembravano sane di mente parlavano in continuazione di Steve?) Ma Ambrose aveva un’idea cosí elegante che Perry si chiedeva se non ci fosse qualcosa di vero. L’idea era che Dio andava cercato nelle relazioni, non nella liturgia e nei riti, e che il modo di venerarLo e accostarLo era emulare il modo in cui Cristo si relazionava con i suoi discepoli, esercitando la sincerità, il confronto e l’amore incondizionato. Ambrose riusciva a parlare di quella roba senza sembrare folle. Ispirandosi a lui, Perry aveva concepito una teoria su come funzionavano le religioni: arriva un leader sufficientemente disinibito da usare le parole piú comuni in un modo nuovo, potente e controintuitivo, e ciò incoraggia le persone intorno a lui a usare a loro volta quella retorica, e l’atto stesso di usarla crea sensazioni mai provate nella vita di tutti i giorni; ed è cosí che queste persone scoprono di sapere chi è Steve. Perry era profondamente affascinato da Ambrose, e sentiva che la propria unicità gli dava il diritto di stargli accanto, e cosí era rimasto deluso quando, dopo la sera del gin, gli era sembrato che lo evitasse. Era stato costretto a concludere che avesse percepito la disonestà con cui giocava al gioco di Crossroads e non si fidasse di lui. L’altra probabile spiegazione – che Ambrose preferisse evitare di interferire con la famiglia del Reverendo – era stata demolita dalla palese attenzione che prestava a Becky da quando era entrata nel gruppo.


    E ora il pericoloso sistema della lotteria, per il quale lui aveva incautamente votato, lo aveva messo insieme a sua sorella. Perry, vermetto furtivo e curioso, conosceva ogni angolino della First Reformed. Nel salone delle feste, dietro una porta che sembrava chiusa a chiave ma non lo era, c’era uno spazioso ripostiglio dentro il quale condusse Becky mentre le altre «diadi» si sparpagliavano al pianterreno della chiesa. Si sedettero a gambe incrociate sul pavimento di linoleum sotto file di attaccapanni di legno vuoti. Sopra di loro una lampadina nuda illuminava una polverosa ciotola per il punch, confezioni di bicchieri di carta, due ombrelli orfani.


    – Allora, – disse Perry, gli occhi puntati a terra.


    – Sí, allora.


    – Potremmo usare un sistema per segnare i foglietti, per evitare che succeda di nuovo.


    – D’accordo.


    Contento di trovarla d’accordo, Perry alzò lo sguardo. Becky non si era ancora fatta un guardaroba da Crossroads, niente salopette, pantaloni da imbianchino o giacca militare, ma portava un vecchio maglione che almeno aveva qualche buco. Perry non riusciva ancora a credere che fosse entrata in Crossroads; aveva sconvolto l’ordine naturale delle cose.


    – Ammiro molto la tua intelligenza, – disse Becky in tono un po’ meccanico, senza guardarlo.


    – Grazie, sorella. E io ammiro la tua sincerità, l’ammiro molto. Hai un sacco di amici ipocriti, ma tu non sei un’ipocrita. È davvero straordinario –. Vedendo la sua bocca indurirsi, Perry aggiunse: – Mi è uscita male. Non volevo criticare i tuoi amici. Stavo cercando di dire una cosa positiva su di te.


    Becky restò a bocca chiusa.


    – Forse dovremmo passare direttamente alle barriere, – disse Perry. – Ho l’impressione che sia un terreno piú fertile.


    Lei annuí. – Quale mio comportamento è una barriera che ti impedisce di conoscermi meglio.


    Perry si rese conto che la formulazione dell’esercizio lasciava qualcosa a desiderare. Presupponeva, per esempio, che lui e Becky volessero conoscersi meglio.


    – Direi – rispose – che il fatto che non dimostri alcuna simpatia per me, e che sembri sempre, anche adesso, vagamente incazzata con me, e che, almeno per quanto io ricordi, non provi a fare una vera conversazione con me da tre o quattro anni anche se abitiamo nella stessa casa, potrebbe essere considerato una sorta di barriera.


    Becky rise, ma in modo incerto, come se in alternativa avesse potuto piangere. – Mi dichiaro colpevole, – disse.


    – Non ti piaccio.


    – Intendevo, colpevole del fatto che non facciamo mai una vera conversazione.


    Il suo viso, che Perry aveva la rara occasione di osservare da vicino, era privo di qualunque pecca. L’occhio andava in cerca di un brufolo (lui ne aveva parecchi che lo affliggevano) o di qualche tratto fondamentale che la sminuisse, una sottigliezza del labbro, una squadratura della mandibola, un’imperfezione del naso, e non trovava niente. Lo stesso valeva per i lunghi capelli, lisci e luminosi, di un colore piú intenso del giallo un po’ fasullo di quelli di Perry: Becky aveva la platonica chioma adolescenziale alla quale le altre ragazze paragonavano invidiosamente la propria. Perry capiva perché il mondo la considerava bella, ma anche perché si sbagliava. Un’assenza di difetti non era necessariamente un pregio. Poteva essere semplicemente una cosa che non offriva resistenza allo sguardo, come un palloncino invisibile legato a un filo. La gente, esasperata da quel filo verticale che finiva nel nulla, lo seguiva e, dopo averlo seguito per un po’, concludeva che quel nulla doveva essere assai desiderabile.


    Neppure lei gli piaceva.


    – Allora dipende da me, – disse Becky. – È questa l’idea?


    – In questa metà dell’esercizio, sí. Sto descrivendo quella che io considero una barriera.


    – Be’, una cosa che per me è una specie di barriera è il tuo modo di parlare. Ti rendi conto dell’impressione che dai?


    – Che la diffamazione abbia inizio.


    – È proprio di questo che sto parlando. Il modo in cui l’hai detto. Come se fossi un aristocratico inglese.


    – Ma se ho l’accento del Midwest, Becky.


    L’imperfezione del rossore apparve sul suo viso. – Come credi che ci sentiamo noi, accanto a una persona che ci guarda sempre dall’alto in basso, come se ci trovasse ridicoli? Che ha sempre un sorrisetto dipinto in faccia, come se sapesse qualcosa che noi non sappiamo.


    Perry si accigliò. Obiettare che non guardava Judson dall’alto in basso, se non nel senso fisico, letterale dell’espressione, significava darle ragione sulla questione piú generale.


    – Che si comporta come se fossi una deficiente perché ho preso solo B in chimica.


    – Chimica non è una materia per tutti.


    – Ma tu prenderai A+, non è vero? Senza neanche impegnarti. Senza che neanche te ne freghi qualcosa.


    – Può darsi. Ma avresti potuto prendere A+ anche tu, se davvero avessi voluto. Non ti considero stupida, Becky. Questo è falso.


    Sentiva che stava diventando sentimentale, e ciò non gli avrebbe fruttato nessun punto lí dentro, nella solitudine del ripostiglio insieme a sua sorella.


    – Sto parlando dei miei sentimenti, – disse Becky. – Non puoi dire che un sentimento è falso.


    – Sí, hai ragione. Allora, stai dicendo che per te il fatto che io sia bravo a scuola è una barriera.


    – No, sto dicendo che non mi sembra nemmeno che tu ci sia. Come se ti trovassi a mille miglia da tutti noi. Sto dicendo che questo non mi fa venire voglia di conoscerti meglio.


    Anche se a scuola godeva di ogni possibile privilegio sociale, Becky non era entrata in Crossroads tanto per fare, per la curiosità di osservare gli sfigati: questo doveva concederglielo. Ci stava provando davvero, rivelando i suoi sentimenti, mettendo in pratica la sincerità e il confronto, anche se forse era un po’ carente sul fronte dell’amore incondizionato. Era nella fase del fervore iniziale. Perry aveva superato quella fase cosí in fretta che al primo fine settimana di ritiro del gruppo, in ottobre, in un centro conferenze cristiano in riva a un lago del Wisconsin, aveva provato una specie di nostalgica compassione per un suo coetaneo, Larry Cottrell, che gli si era solennemente avvicinato con un sasso rotto in mano. L’acqua ghiacciata aveva spezzato i ciottoli in riva al lago, e un membro della cerchia ristretta aveva avuto l’ispirazione di regalare a qualcuno mezzo ciottolo e tenersi l’altro mezzo, come simbolo del loro essere due metà di un intero, e ben presto quella pratica aveva preso piede. Perry, che non conosceva bene Cottrell, si era commosso nel ricevere da lui il mezzo ciottolo, seguito da un abbraccio, ma non per il gesto in sé. Ciò che l’aveva commosso era la sua ingenuità. Perry sapeva che era un gioco e Cottrell non lo sapeva ancora. Avrebbe potuto sentirsi altrettanto commosso dal fervore di Becky, se solo fosse riuscito a capire perché lei, l’indiscussa reginetta dell’ultimo anno, si fosse degnata di entrare in Crossroads.


    Era sul punto di chiederle perché – di confrontarsi con lei – quando Becky si lanciò in una straordinaria invettiva.


    – La barriera – disse – è il fatto che io in realtà non ti considero una brava persona. Hai idea della situazione assurda in cui mi sono trovata, entrando in Crossroads? Lo sai cosa mi dicevano tutti, la prima sera che sono venuta qui? Che mio fratello minore è un grande. Emotivamente aperto, facile al dialogo, solidale con tutti. E intanto io pensavo, stiamo parlando della stessa persona? A un certo punto mi sono chiesta se sono stata una cattiva sorella. Tipo, magari non ho mai cercato di conoscerti davvero. Magari ero troppo presa da me stessa per notare quanto sei emotivamente aperto. Ma la sai una cosa? Non credo che sia cosí. Credo di essere stata proprio la sorella che tu volevi che fossi. Ho mai detto una parola a papà e mamma su quello che tutti gli altri sanno di te? Avrei potuto. Avrei potuto dire, Ehi, papà, lo sai che Perry è il piú grande fattone della Lifton Central? Lo sai che dall’inizio dell’anno non ha passato neanche un giorno senza fumare? Che aspetta che tu vada a letto per salire al secondo piano a drogarsi? Che i suoi amici sono alcolizzati minorenni e a scuola lo sanno tutti? Ti ho protetto, Perry. E tu non fai altro che deridermi. Tu ci deridi tutti.


    – Non è vero, – ribatté Perry. – Anzi, penso che siate tutti migliori di me. Voglio dire… «vi derido»? Sul serio? Ti sembra che io derida Jay?


    – Judson è un po’ il tuo animaletto da compagnia. È cosí che lo tratti. Lo usi quando ti serve e lo ignori quando non ti serve piú. Usi i tuoi amici, usi le loro droghe, usi le loro case. E, giuro su Dio, stai usando anche Crossroads. Sei abbastanza furbo da non farti beccare, ma io vedo cosa stai facendo. Quella prima domenica, quando la gente mi diceva che eri un grande, credevo di essere impazzita. Ma lo sai chi altri la pensa come me? Rick Ambrose.


    Benché il pavimento di linoleum fosse freddo, a Perry il ripostiglio sembrava surriscaldato, privo di ossigeno, batisferico.


    – Pensa che porti guai, – proseguí Becky, implacabile. – Cosí mi ha detto.


    La mente di Perry si avviò a immaginare le circostanze in cui Becky glielo aveva sentito dire, ma si fermò e tornò indietro. Era come se, da quando era nato, sua sorella lo spossessasse di continuo. Appena aveva trovato un gioco in cui riusciva bene, un posto dove veniva apprezzato per la sua bravura nel giocarci, un adulto che poteva veramente ammirare, ecco che arrivava sua sorella e da un giorno all’altro gli metteva contro Ambrose e lo reclamava per sé.


    – Allora il punto non è che non ti piaccio, – disse Perry, con voce incerta. – Non è quella la barriera. La barriera è che mi odi.


    – No. È che…


    – Io non ti odio.


    – Ti conosco troppo poco per provare qualcosa per te. Non credo che qualcuno ti conosca davvero. Quelli che credono di conoscerti si sbagliano. E accidenti se sei bravo a usarli. Hai mai fatto qualcosa per qualcuno che ti sia costato uno sforzo? Io in te ho sempre visto solo egoismo, egocentrismo e ricerca egoistica del piacere.


    Perry si lasciò cadere in avanti e si arrese alle lacrime, sperando che potessero intenerirla, strapparle un abbraccio redentore. Ma non funzionò. Per spiegarsi il suo odio si sforzò di pensare a cosa potesse mai avere fatto per ferirla, qualcosa di piú visibile dei cattivi pensieri che ogni tanto aveva su di lei. Visto che non gli veniva in mente nulla, fu costretto a concludere che sua sorella lo odiava per principio, perché lui era un verme maligno ed egoista, e che glielo stava dichiarando semplicemente per riparare all’astratta ingiustizia delle lodi tributategli da altri.


    – Mi dispiace, – disse Becky. – Dev’essere difficile sentirselo dire. Insomma, sei mio fratello. Ma forse è un bene che tu stasera abbia pescato il mio nome, perché vivo con te da sempre. Riesco a leggerti dentro meglio degli altri. Io… io voglio davvero conoscerti meglio. Sei mio fratello. Ma prima devo vedere che lí c’è una persona degna di essere conosciuta.


    Si alzò e uscí, lasciandolo nel ripostiglio come una città rasa al suolo da una bomba all’idrogeno. Riemergendo dalle macerie, Perry ricostruí dolorosamente il succo di quanto gli aveva detto sua sorella. Era molto piú al corrente delle sue attività extrascolastiche di quanto lui immaginasse. (L’unica fortuna era che sembrava ignorare che vendeva droga ai ragazzini delle medie). Ambrose pensava che lui «portasse guai». (L’unica consolazione era la certezza che Ambrose si sarebbe arrabbiato se avesse saputo che Becky aveva tradito la sua fiducia). Le apparenti buone azioni da lui compiute in Crossroads non contavano nulla. (Ma almeno Becky gli aveva riferito che la gente pensava bene di lui). Era una cattiva persona. Usava Judson.


    Troppo pieno di vergogna e autocommiserazione per uscire dal ripostiglio, Perry sentí il gruppo radunarsi nel salone delle feste, il mormorio allegro dei partner delle varie diadi che avevano lavorato con successo sulle loro relazioni, il berciare di Ambrose, le chitarre suonate con abilità, il coro di All Good Gifts e You’ve Got a Friend. Si chiese se qualcuno avesse notato la sua assenza. Pur non facendo ancora parte della cerchia ristretta, era uno degli studenti del primo anno piú papabili per entrarci, una stella piuttosto brillante nel cielo di Crossroads, e lui si sarebbe sicuramente accorto se, per esempio, una delle stelle della Cintura di Orione si fosse spenta. Alla fine dell’incontro attese che qualcuno bussasse alla porta del ripostiglio – una Becky in preda al rimorso, un assistente preoccupato, un Ambrose rassicurante, un compagno che lo stimava, o anche solo qualcuno che aveva visto la striscia di luce sotto la porta quando si erano spente le luci della sala. Il fatto che nessuno andasse da lui, neanche una persona, gli sembrò una conferma schiacciante del giudizio di Becky. Non era degno di essere conosciuto.


    Era stato in parte per dimostrare che sua sorella aveva torto e in parte per diventare una persona che Ambrose potesse ritenere degna di fiducia (e magari preferire a Becky) che quella sera aveva formulato il suo proposito. Non era la piú pura delle motivazioni, certo; ma bisognava pur cominciare da qualche parte.


    Lasciando solo due Quaalude nella cassaforte, come piccolo regalo di Natale a se stesso, Perry riammise Judson nella stanza, e con il parka addosso, sotto un cielo che minacciava neve, si diresse di corsa verso la casa di Ansel Roder. Una particolarità della Canonica Piú Brutta era che, sebbene bisognosa di demolizione piú che di ristrutturazione, sorgeva in una parte della città molto piú elegante di quella dove abitava il ministro anziano. Tutti i vecchi compagni di droga di Perry vivevano nelle vicinanze. Nella sua riluttanza a liquidare il capitale aveva indugiato oltre l’inizio delle vacanze di Natale, e ora non poteva contare di trovare qualche cliente abituale dietro la rete di protezione del campo da baseball della Lifton Central, ma Roder era sempre Mister Liquidità. La magione dai muri a stucco dei Roder aveva una torretta circolare con tegole di terracotta. Dentro c’erano stanze con il soffitto dalle travi a vista, dove il mobile meno pregiato era piú pregiato dei mobili piú pregiati della famiglia di Perry. La situazione del riscaldamento era tale che Roder andò ad aprire scalzo e a torso nudo, come un marine in vacanza sulla spiaggia. – Proprio l’uomo che cercavo, – disse. – Le mie casse fanno uno strano rumore.


    Perry seguí l’amico su per una larga scalinata. – Tutte e due?


    – Sí, ma solo con il piatto, non con il mangianastri.


    – Informazione utile. Diamo un’occhiata.


    Non aveva né il tempo né la voglia di giocare al dottore degli stereo, ma uno dei modi in cui pareggiava i conti con gli amici era applicare la sua multiforme destrezza ai loro futili problemi, misteriosi guasti agli elettrodomestici, tubi dell’acquario intasati, calligrafia per cartelli, contraffazione della firma genitoriale, interpretazione dei sogni, qualunque cosa richiedesse colla o pinzette. Di sopra, nella sua stanza, Roder gli fece ascoltare qualche istante di Whiskey Train a tutto volume sul suo potente stereo, e Perry prontamente diagnosticò e sistemò la testa della puntina allentata. Senza troppe cerimonie tirò fuori il capitale dalla tasca del parka e lo lanciò sul letto di Roder.


    Roder spalancò gli occhi. – È un regalo di Natale principesco, Perry.


    – Veramente speravo di vendertelo.


    – Vendermelo.


    Fra di loro, non detta, la questione dell’abituale prodigalità di Roder, e del perché Perry l’avesse sempre accettata se poi aveva della droga sua e la teneva per sé.


    – Ho bisogno di fondi, – spiegò. – Voglio comprare un regalo di Natale a Jay.


    – Davvero. E cosí vendi… È come quella storia… Il dono dei maggi?


    – Magi.


    – Non sarebbe buffo se Jay vendesse qualcosa di suo per poterti comprare un narghilè? E cosí via.


    – Il dono dei Magi è una storia sull’ironia della vita, sí.


    Roder tastò il capitale, forse per contare le pillole. – Quanti soldi ti servono?


    – Quaranta dollari andrebbero bene.


    – Perché non te li presto e basta?


    – Perché siamo amici e non saprei come restituirteli.


    – L’estate prossima taglierai ancora l’erba?


    – Dovrei mettere via i soldi per il college. C’è un certo controllo sulle mie entrate.


    Roder chiuse gli occhi, sforzandosi di capire. – Allora come hai fatto a comprare ’sta roba? Ti sei messo a rubare?


    Cominciavano a sudargli le mani. – Questo non ha importanza.


    – Ma non credi che sarebbe un po’ strano se ti fumassi questa roba con me dopo che me l’hai fatta comprare?


    – Non succederà.


    Roder fece un verso scettico. Era il momento giusto perché Perry annunciasse, secondo i termini del suo proposito, che non avrebbe piú fumato niente con nessuno. Ma ecco di nuovo la riluttanza.


    – Senti, – disse, – so che non posso essere generoso come te. Ma se ci pensi razionalmente, non vedo perché dovrebbe importare da chi l’hai comprata, se la spesa è la stessa.


    – Importa, invece, e mi meraviglio che tu non ne capisca il motivo.


    – Non sono mica stupido. È solo che guardo la cosa razionalmente.


    – Sai, per un attimo ho davvero creduto che mi avessi fatto un regalo.


    Perry si rese conto che aveva ferito l’amico, che erano arrivati a un bivio. Sei disposto ad abbandonare la complicità passiva? La voce di Rick Ambrose gli risuonò nella testa. Hai il fegato di affrontare la testimonianza attiva di una vera relazione? Non era venuto da Roder con l’intenzione di porre fine alla loro (passiva, complice, tossica) amicizia. Ma era vero che ormai l’unica cosa che facevano insieme era sballarsi.


    – Allora che ne dici di trenta dollari? – Adesso gli sudava anche la faccia. – Cosí è in parte un regalo e in parte un… ehm…


    Roder gli aveva voltato le spalle per aprire un cassetto. Lasciò cadere sul letto due banconote da venti. – Potevi semplicemente chiedermi quaranta dollari. Te li avrei dati –. Raccolse il capitale e lo mise nel cassetto. – Da quando sei diventato uno spacciatore?


    Tornato fuori, mentre procedeva lungo Pirsig Avenue, Perry tentò di ricostruire perché, un quarto d’ora prima, non avesse semplicemente pensato di chiedere i soldi a Roder, magari come un «prestito» che entrambi sapevano a fondo perduto, per poi buttare il capitale nel cesso, ottenendo lo stesso risultato senza offendere l’amico: perché non avesse immaginato che Roder avrebbe reagito in quel modo, che adesso gli sembrava assolutamente sensato. Lasciamo perdere il Perry bambino di nove anni: anche il Perry di un quarto d’ora prima gli era sconosciuto! La sua anima cambiava ogni volta che imparava qualcosa di nuovo? L’anima era per definizione immutabile. Forse l’origine della sua confusione stava nella sovrapposizione di anima e conoscenza. Forse l’anima era uno di quegli strumenti costruiti per svolgere una sola funzione specifica, sapere che io sono io, ed era mutabile rispetto a tutte le altre forme di conoscenza?


    Che fosse per via dei limiti dell’intelletto davanti al mistero dell’anima, o della difficoltà di riconciliare il nuovo proposito con la sconsiderata mancanza di rispetto per i sentimenti di un vecchio amico, fatto sta che Perry avvertí un lieve strattone verso il basso, una frizione che slittava, la prima ombra della fine della serenità, mentre procedeva verso il quartiere dei negozi di New Prospect. Di solito adorava il bagliore del commercio in un buio pomeriggio d’inverno. Quasi ogni negozio conteneva qualcosa che lui desiderava, e in quel periodo ogni lampione era avvolto in ghirlande di pino e sormontato da un fiocco rosso che parlava ulteriormente di comprare, di ricevere, di cose nuovissime e utili. Ma adesso, benché non si sentisse ancora cosí, ricordò che a volte si era sentito indifferente ai negozi, li aveva guardati senza desiderio, e che in quei momenti le luci del commercio gli erano sembrate molto piú fioche, e le ghirlande di pino sui lampioni gli erano sembrate morte.


    Proseguí verso il New Prospect Photo, trotterellando come se potesse lasciarsi indietro quella sensazione. La macchina fotografica che aveva trovato per Judson era una Yashica reflex biottica in condizioni perfette. Era esposta in vetrina sopra un piccolo piedistallo bianco, in mezzo ad altre venti macchine usate e nuove, e anche a Judson era sembrata bellissima. Entrando nel negozio, Perry guardò appena la vetrina. Ma il bianco di un piedistallo vuoto attirò il suo sguardo.


    La Yashica non c’era piú.


    Dono dei Magi di ’sto cazzo.


    Il negozio odorava degli acidi della camera oscura sul retro. Il proprietario, un uomo dalla pelata lucida, aveva un’aria irritabilmente oppressa, comprensibile in un periodo in cui supermercati e centri commerciali gli stavano rovinando gli affari. Quando alzò gli occhi dalla lente che stava pulendo e vide Perry, un adolescente capellone, il suo primo pensiero fu visibilmente taccheggiatore o perdita di tempo. Perry lo tranquillizzò augurandogli, con l’intonazione che irritava Becky, un buon pomeriggio. – Volevo acquistare la Yashica reflex biottica che aveva in vetrina.


    – Mi spiace, – disse il proprietario. – Venduta stamattina.


    – È una notizia terribile.


    Il proprietario provò a interessarlo a una schifezza di Instamatic e poi ad alcune orribili macchine piú vecchie, mentre Perry cercava di non mostrare quanto si sentisse offeso da quei suggerimenti. Erano giunti a un’impasse quando il suo sguardo si posò su un bell’oggetto sotto il piano di vetro del banco. Una cinepresa compatta, di fabbricazione europea. Solido corpo brunito. Apertura regolabile. Ricordò il vecchio proiettore chiuso in soffitta, residuo di un’epoca piú ottimista in cui gli Hildebrandt avrebbero ancora potuto diventare una famiglia unita che guardava i filmini fatti in casa, prima che il Reverendo, aggredito dalle vespe, lasciasse cadere in acqua la cinepresa da una barca a remi.


    – Quella viene quaranta dollari, – disse il proprietario. – Negli anni Quaranta costava il doppio, nuova, nella valuta di allora. È una 8 millimetri, però. Devi caricarla dentro un sacco nero.


    – Posso vederla?


    – Viene quaranta dollari.


    – Posso vederla?


    Quando caricò la molla e sbirciò attraverso la seducente ottica del mirino, Perry desiderò ardentemente la cinepresa per sé. Magari Judson l’avrebbe condivisa con lui?


    Proprio il genere di pensiero che il suo proposito gli imponeva di scacciare.


    E cosí lo scacciò. Uscí dal negozio piú povero di quarantotto dollari ma tangibilmente piú ricco nello spirito. Immaginando la sorpresa di Judson nel ricevere non la macchina fotografica che avevano adocchiato, bensí un oggetto ancora piú raffinato e piú fico, provò la certezza, per una volta, di essere contento per un’altra persona. La neve aveva cominciato a cadere dal cielo dell’Illinois, bianche cristallizzazioni d’acqua di una purezza identica a quella che avvertiva dentro di sé per essersi separato dal capitale. I suoi pensieri avevano rallentato fino a una gradevole velocità media, non meno di cosí, non ancora. Rimase per qualche istante sul marciapiede, tra i fiocchi di neve che si scioglievano, e desiderò che il mondo potesse fermarsi.


    Dalla strada venne il rombo di un motore conosciuto. Perry si girò e vide la Fury di famiglia frenare allo stop di Maple Avenue. Il retro era carico di scatoloni. Al volante c’era suo padre, con addosso una vecchia giacca di cui Perry non aveva notato la mancanza nel ripostiglio del secondo piano. Sul sedile del passeggero, girata verso suo padre, un braccio appoggiato allo schienale, c’era la sensuale madre di Larry Cottrell. Salutò Perry tutta allegra, e in quel momento il Reverendo lo vide. Non ci fu nessun tentativo di sorriso. Perry ebbe la netta impressione di aver colto il vecchio in flagrante.

Quella lettera, riscritta e ricopiata tre volte prima di trovare il tono giusto, la terrorizzava. La sigillò dentro una busta, strappò la busta per rileggerla, poi la sigillò dentro un’altra busta che nascose nel comò. La lettera stava aspettando di venire consegnata a Tanner di persona, direttamente, in occasione del loro incontro successivo, quando Clem ritornò dal college per la festa del Ringraziamento.


    Becky era contenta che fosse stato suo padre a portare a casa Clem dalla stazione, cosí poté escluderlo platealmente quando invitò suo fratello a fare una passeggiata. Dall’ultima volta che l’aveva visto, l’estate prima, Clem si era lasciato crescere i capelli e una specie di barba, e si era procurato da qualche parte un caban nero. Sembrava invecchiato di ben piú di tre mesi. Mentre camminavano nella bassa luce post-scolastica, lui con il caban e lei con la giacca di velluto a coste che era stata sua, Becky provò l’esaltante sensazione di trovarsi sulla soglia dell’età adulta; della loro nuova formidabilità come coppia di fratelli maggiori. Erano la nuova generazione. Bisognava fare i conti con loro.


    Dalle lettere della madre, Clem aveva saputo che Becky era entrata in Crossroads. Approvava la sua scelta, ma si chiedeva perché lo avesse fatto.


    – Ero arrabbiata con papà, – disse Becky.


    – Come mai?


    – Mi interessa di piú sapere perché tu c’eri entrato. Cioè, adesso che ho visto com’è. Alcuni di quegli esercizi…


    – Gli esercizi non erano cosí in voga prima che papà se ne andasse. Io ci stavo per il lavoro e la musica. L’allenamento alla sensibilità era semplicemente un prezzo da pagare. C’erano altri ragazzi come me, cosí potevamo sceglierci come partner e parlare di libri e politica.


    – Hai mai fatto quell’esercizio in cui bisogna gridare?


    – Quello non mi dispiaceva. Era meglio degli abbracci. Dovevi girare per la stanza e abbracciare la gente. Il fatto era che: A, c’era gente che nessuno voleva abbracciare, e B, come facevi a sapere se una persona voleva un abbraccio? Dovevi chiedere il permesso, e in teoria l’altro doveva dirti di sí. Ricordo che una volta mi sono avvicinato a Laura Dobrinsky e le ho chiesto un abbraccio, e lei mi ha risposto di no. Mi ha detto che lei faceva solo le cose che aveva davvero voglia di fare. E io ho pensato, grazie Laura. Mi fa piacere che l’abbiamo chiarito. Mi angosciava non sapere se avessi voglia di abbracciarmi.


    – Cosa pensi di Laura?


    – Ha un vero talento per umiliare le persone. Non puoi immaginare come ha parlato a papà. C’era lei al centro di quel casino.


    – Non lo sapevo.


    – Non era la sola, ma era decisamente la capobanda.


    Benché all’epoca Clem glielo avesse spiegato, Becky aveva solo una vaga idea del perché suo padre fosse uscito da Crossroads. La sua impressione era che avesse predicato troppo, e che Rick Ambrose gli avesse chiesto di andarsene. Non provava una grande lealtà nei confronti del padre, ma la offendeva il pensiero che Laura l’avesse ferito. – Cos’ha fatto?


    – È stata una scena orribile. Non riesco neanche a raccontarla.


    – Ho parlato con Tanner Evans, al Grove. Lui e Laura suonano lí tutti i venerdí.


    – Il caro vecchio Tanner.


    – Già. È un po’ strano che stia con Laura.


    – In che senso?


    – Be’, ecco, sono entrambi musicisti. Ma lui è cosí carino, e alto, e lei è… una nanerottola. Capisci?


    Clem rispose in tono brusco. – Laura non può farci niente se è bassa, Becky.


    – No, certo che no.


    – Non devi fissarti sulle apparenze.


    Becky si sentí offesa. Aveva fatto, le sembrava, un’osservazione innocua: l’apparenza di Tanner era molto gradevole, quella di Laura meno. Voleva solo che Clem ammettesse che erano una strana coppia.


    Invece Clem si lanciò nel racconto di come Tanner e i suoi amici musicisti avevano raddoppiato le dimensioni di Crossroads. Becky apprezzò la conferma della posizione sociale di Tanner, ma Clem le parve cambiato non solo fisicamente. Non solo per la barba, i capelli, il caban. Era soprattutto perché sembrava piú interessato a parlare che ad ascoltare lei. Mentre sedevano a un tavolo da picnic in Scofield Park, guardando le ombre degli alberi allungarsi sull’erba ingiallita, Becky ne scoprí il motivo.


    Il motivo si chiamava Sharon. Era una studentessa del terzo anno all’Università dell’Illinois, e Clem l’aveva conosciuta al corso di filosofia. Mentre Clem raccontava che l’aveva audacemente invitata a uscire, e che, durante la loro uscita, avevano avuto un’accalorata discussione sul Vietnam, e che era straordinario trovare una donna che riusciva a tenergli testa in una discussione, Becky provò l’insolita sensazione di non voler conoscere i dettagli. Di essere, a sua volta, meno interessata ad ascoltare. L’antipatia per Sharon e il fastidio causatole dalla felicità di Clem erano sconvenienti. Sembravano confermare, col senno di poi, la sconvenienza di altri aspetti della loro amicizia. Quando Clem passò a decantare la grande rivelazione avuta sperimentando per la prima volta una potente attrazione animale, un intenso piacere animale, espressione con cui sembrava riferirsi al sesso completo, e la grande rivelazione che avrebbe avuto anche lei, un giorno, quando fosse stata pronta a collegarsi alla sua natura animale, Becky sentí un rombo nelle orecchie e dovette allontanarsi dal tavolo da picnic.


    Clem saltò in piedi e la seguí. – Sono proprio un idiota, – disse. – Non era il caso di raccontarti queste cose.


    – Non preoccuparti. Mi fa piacere che sei felice.


    – Volevo dirlo a qualcuno, e tu sei la persona a cui voglio sempre dire tutto. Sarai sempre quella persona, Becky. Lo sai, vero?


    Lei annuí.


    – Ho il permesso di abbracciarti?


    Becky ci mise qualche istante per capire la battuta. Scoppiò a ridere, e tutto tornò a posto, e cosí gli parlò dei soldi di Shirley e di quello che aveva detto il padre. La risposta di Clem fu: – ’Fanculo. Che vada a fare in culo.


    Tutto era tornato a posto.


    – Sul serio, Becky, che situazione di merda. Quei soldi sono tuoi. Te li sei guadagnati, Shirley ti adorava. Puoi farci quel cavolo che vuoi.


    – E se volessi darne la metà a te?


    – A me? Non darli a me. Vai in Europa, iscriviti a un college prestigioso.


    – Ma se volessi darteli? L’anno prossimo potresti trasferirti in un’università migliore.


    – Quella che frequento va benissimo.


    – Ma tu sei piú intelligente di me.


    – Non è vero. È solo che non ho mai avuto una vita sociale.


    – Ma se l’Università dell’Illinois va bene per te, perché non può andare bene per me?


    – Perché… a me non danno fastidio i ragazzi di campagna. Non m’importa com’è la mia stanza. Tu dovresti andare a Lawrence, o a Beloit. Io ti immagino in un posto cosí.


    Anche lei si immaginava in un posto cosí.


    – Ma con seimilacinquecento dollari – disse – potrei comunque andarci. E tu potresti tenere la tua parte per la specializzazione.


    Solo in quel momento Clem si rese conto che Becky gli stava offrendo migliaia di dollari. Con voce piú calma le spiegò che aveva due possibilità: tenersi tutti i soldi oppure distribuirli in parti uguali. Condividerli solo con lui avrebbe ferito Perry e Judson; era scorretto. E poiché tremila dollari non avrebbero cambiato la vita a nessuno, checché ne pensasse il vecchio, doveva tenersi l’intera somma.


    La sua analisi era del tutto sensata – Clem era davvero piú intelligente di lei, e anche piú attento ai sentimenti altrui, e meno avido –, e Becky era senza dubbio contenta di tenersi tutti i soldi. Ma la gratitudine la rendeva ancora piú propensa a condividerli con lui.


    – Non posso accettarli, – disse Clem. – Non capisci che sarebbe scorretto?


    – Ma papà mi ucciderà se li tengo tutti.


    – Gli parlo io.


    – Non sei obbligato a farlo.


    – No, voglio farlo. Sono stufo di queste stronzate da bigotti.


    Tornarono alla canonica che era ormai buio. Clem salí direttamente al secondo piano, e Becky si sentí strana a starsene seduta sul letto un piano piú in basso, a sentire Clem e suo padre che litigavano per lei. Non conosceva Sharon e non voleva conoscerla, ma le sembrava improbabile che comprendesse fino in fondo la bontà di suo fratello. Clem tornò di sotto e apparve sulla soglia della sua stanza.


    – L’ho fatto ragionare, – disse. – Avvisami se ti rompe ancora le scatole.


    Il libretto di risparmio, che era rimasto nel cassetto a emanare inquietudine, si acquietò non appena le cinque cifre vennero messe in salvo. Becky aveva i soldi, e le sembrava giusto, visto che era lei, tra la progenie degli Hildebrandt, quella che piú li voleva e che aveva le idee piú chiare su come usarli, e ora Clem, l’unico giudice che contava, aveva dichiarato che era giusto cosí. Suo padre non poteva diventare piú freddo con lei di quanto fosse già, e quando sua madre espresse il suo malcontento, Becky la destabilizzò invitandola ad andare con lei in Europa l’estate successiva, e promettendole di spendere il rimanente dei soldi per la propria istruzione. Benché non fosse un’idea sua, l’invito fu un colpo da maestro. Sua madre non era egoisticamente interessata a vedere l’Europa, ma la vita in famiglia era un microcosmo della scuola. Sua madre non godeva di grande popolarità, e l’invito di Becky era un gesto magnanimo.


    La sera dopo la festa del Ringraziamento, Becky andò al Grove con la lettera che la atterriva e se la infilò nella tasca del grembiule. Poi, nervosissima, fece confusione con le ordinazioni, portando due volte lo stesso condimento sbagliato allo stesso cliente, e si vide negare la mancia da un padre paonazzo che aveva dovuto inseguirla per avere il conto. Ma perché lavorava ancora al Grove? Aveva tredicimila dollari. Se fosse riuscita a consegnare la lettera, pensò, avrebbe potuto licenziarsi. Ma la sala sul retro era zeppa di amici e fan di Tanner tornati a casa dal college, e alla fine del primo set un’orda di sostenitori le sbarrò la strada.


    Dal suo lato cieco, mentre esitava ai margini della folla, le arrivò la voce di Laura Dobrinsky. – Ho sentito che sei entrata in Crossroads.


    Becky abbassò lo sguardo e avvampò. La tappetta dagli occhiali rosa che lei intendeva derubare stava accostando un fiammifero alla sigaretta.


    – Tanner ti ha convinta, devo dedurre?


    – Be’, è la mia chiesa.


    Laura scosse il fiammifero, aggrottando la fronte. – Tu vai in chiesa?


    – Vuoi dire, la domenica?


    – Non sapevo che andassi in chiesa.


    – Credo che tu non mi conosca.


    – È un sí?


    Becky non capiva che importanza avesse. – Sto dicendo che non mi conosci.


    – Già, e forse non conosco neanche Crossroads. Mi sa che ho fatto bene a uscirne.


    Becky avvampò di nuovo. – Scusa… ce l’hai con me?


    – Solo in linea generale. Ti auguro di avere una bella esperienza.


    Lasciandosi dietro una Becky tremante, Laura si tuffò nelle code di cavallo unte e nel denim ricamato che circondavano Tanner, dispensando un po’ degli abbracci che non aveva avuto voglia di dare a Clem. Solo in linea generale? Per il momento, almeno, Becky non aveva fatto niente di piú minaccioso che entrare in Crossroads. Era quasi come se la Natural Woman avesse fiutato la lettera che aveva in tasca.


    Visto che era impossibile beccare Tanner da solo, Becky tornò a casa con la lettera. Ora la busta era macchiata di olio di insalata, ma lei non aveva cuore di riaprirla. E neppure di tenerla per un’altra settimana. Pensò di imbucarla, ma non sapeva se Tanner vivesse ancora con i genitori; aveva solo una vaga idea della sua vita al di fuori del Grove. Era sul punto di cercare il suo nome sull’elenco telefonico quando ricordò le parole non sapevo che andassi in chiesa.


    Il mattino dopo domandò a sua madre se vedesse mai Tanner Evans alla funzione domenicale. La madre le comunicò, con un’occhiata e una pausa, che la sua curiosità su Tanner era stata notata. – Non a quella delle nove, – rispose. – Però mi sembra di averlo visto la domenica. Puoi chiederlo a tuo padre.


    Non erano affari di suo padre. La domenica mattina, mentre Clem e Perry dormivano e i suoi genitori e Judson erano alla prima funzione, Becky si mise un lungo abito castigato e andò alla First Reformed con la lettera nella borsetta. Se si eccettuava il rito natalizio della «mezzanotte» (che, come ogni cosa nel Midwest, si svolgeva con un’ora di anticipo), non partecipava a una funzione da quando aveva smesso di andare al catechismo. Le facce dei parrocchiani piú vecchi si illuminarono di piacere e sorpresa quando Becky attraversò il vestibolo moquettato della chiesa. Sua madre, in abito della domenica, e suo padre, con i paramenti sacri, chiacchieravano con alcuni fedeli delle nove che si erano fermati per la pausa caffè tra una funzione e l’altra. Judson sedeva in un angolo con un libro, in attesa che lo riportassero a casa. Dal sorriso malizioso che le rivolse sua madre, Becky comprese che sapeva perché era lí.


    Prese un programma dagli addetti all’accoglienza e si sedette nell’ultima fila di panche, aspettando di vedere se aveva indovinato il senso della strana domanda di Laura. Sarebbe venuta anche lei? Da come aveva detto non sapevo che andassi in chiesa, Becky ne dubitava. L’organista attaccò un brano di cui sua zia avrebbe saputo riconoscere il compositore, e i partecipanti alla seconda funzione cominciarono a riempire le panche. Ogni volta che arrivava qualcuno, Becky si girava a guardare se fosse Tanner, finché non si accorse con imbarazzo di girarsi troppo spesso. Si lisciò la gonna, piegò il programma fino a formare un triangolino e fissò lo sguardo sull’enorme croce di legno e ottone appesa dietro l’altare. Piú la guardava e piú le sembrava strana. Il fatto che fosse stata foggiata da qualche parte, con gli stessi attrezzi che costruivano utili mobili e armadietti. Fabbricante di croci: che lavoro bizzarro. E pagato come? Con i soldi che inspiegabilmente, in cambio di nulla, i fedeli lasciavano cadere nei piatti delle offerte di legno e ottone, forse foggiati dallo stesso artigiano.


    Il Tanner che entrò in chiesa, da solo, poco dopo le undici, assomigliava poco al Tanner che Becky conosceva. Indossava una stupida giacca sportiva a quadri e una vera e propria cravatta, anche se di stoffa a trama larga e annodata male. Si infilò nella panca di fianco alla sua, e lei riportò lo sguardo sull’altare, dove suo padre e il reverendo Haefle stavano entrando da una porta laterale, ma la sua pelle percepí, con una vampata di calore, il momento esatto in cui Tanner si girò e la vide. La musica si fermò, e Tanner, alzandosi a metà, attraversò il corridoio e si sedette accanto a lei.


    – Cosa ci fai qui? – sussurrò.


    Becky scosse la testa per zittirlo.


    – Padre Celeste, – intonò devotamente suo padre dal pulpito; e quelle furono le ultime parole che Becky sentí prima che le sue orecchie diventassero sorde. Era un uomo alto e bello, ma per lei la veste nera che indossava e la fervente sincerità con cui parlava annullavano completamente il suo stato di uomo nel mondo. Lo guardava impietrita ma dentro di sé si tormentava, contando i secondi mancanti al momento in cui avrebbe taciuto. Ora si rendeva conto, con una chiarezza dovuta al suo ritorno dopo una lunga assenza, che aveva sempre odiato essere la figlia di un pastore. I padri delle sue amiche progettavano edifici, curavano malattie, perseguivano criminali. Suo padre era come un fabbricante di croci, però peggio. La sua fede ardente, la sua santità, erano un odore che aveva sempre minacciato di aderire a lei, come la puzza delle Chesterfield, però peggio, perché non si poteva lavare via.


    Ma poi, quando i fedeli si alzarono per cantare il Gloria Patri, e Tanner, accanto a lei con quella ridicola giacca sportiva, intonò la preghiera con una voce chiara e forte, cosí diversa dal mormorio imbarazzato di lei, e quando allora provò ad alzare la voce, Come era nel principio e ora e sempre, Becky colse per un istante lo strano barlume lampeggiante del desiderio, sepolto da qualche parte dentro di lei, di appartenere e credere a qualcosa. Si chiese se quel desiderio fosse sempre stato lí; se fosse stato suo padre, la vergogna che le provocava, a impedirle di seguirlo. Se magari quella croce di ottone, il fatto che qualcuno l’avesse fabbricata, non fosse una cosa tanto stupida. Forse in realtà era straordinario che duemila anni dopo la crocifissione di Cristo la gente riempisse ancora i piatti delle offerte perché si fabbricassero croci in suo onore.


    In un altro lampo, Becky vide che Laura non approvava che Tanner andasse in chiesa; che quella poteva essere una frattura tra loro; che se lei, Becky, si fosse aperta alla possibilità della fede, avrebbe potuto ottenere un vantaggio imprevisto; e che perciò sarebbe stato piú saggio, dopotutto, non consegnare la lettera a Tanner, per non rivelare che era andata in chiesa solo per vederlo, e invece continuare ad andarci ogni domenica.


    Al momento di cantare For the Beauty of the Earth condivisero l’innario, cosí vicini che i capelli di Becky sfioravano la spalla di Tanner, e poi il reverendo Haefle pronunciò il sermone. Nell’anno in cui era stata obbligata ad assistere alle funzioni, Becky era sempre rimasta immobile durante i sermoni del padre, per paura che la sua irrequietudine rendesse irrequieti gli altri fedeli, cosa che sarebbe stata imbarazzante per una Hildebrandt, ma gli interminabili mattoni di astrazione lirica di Dwight Haefle l’avevano messa in difficoltà. Ascoltandolo ora, con la speranza che una maggiore maturità portasse una maggiore comprensione, lo seguí fino a quando si mise a citare Reinhold Niebuhr prima di perdersi nella contemplazione delle mani di Tanner. Dovette imporsi di non toccarle. Con quella giacca e quella cravatta sembrava un ragazzino vestito dalla mamma per andare in chiesa. Nel frattempo Haefle era passato a parlare dell’importanza dell’umiltà, non l’argomento preferito di Becky ma qualcosa su cui avrebbe dovuto lavorare se avesse deciso di affrontare seriamente la religione, e le venne in mente che, per Tanner, lasciare a casa la giacca con le frange e gli stivali Frye rappresentava proprio ciò di cui stava parlando Haefle. Tanner era indiscutibilmente un tipo «in», eppure per un’ora alla settimana si umiliava per andare in chiesa, e questo le sembrò tenerissimo.


    Alzandosi con lui per recitare il Padre Nostro, Becky avrebbe potuto già essere la sua ragazza, per non dire sua moglie da molti anni, e il debito che chiedeva al Padre di rimetterle era il furto di Tanner a Laura.


    – Sei qui, – disse Tanner, al termine della funzione.


    – Sí, tutto sta cambiando. Sto provando cose nuove.


    Tanner la guardava come se non riuscisse a inquadrarla. Ottimo.


    – Ho un grande debito di gratitudine nei tuoi confronti, – gli disse. – Per avermi fatto provare Crossroads. Sto imparando a essere piú aperta sui miei sentimenti. E… – Esitò, avvampando. Lui continuò a guardarla. – Ci sarai domenica prossima?


    – Ci sono sempre.


    Lei annuí, troppo vigorosamente, e si alzò. – Okay, allora ci vedremo.


    Mentre usciva, passando per il vestibolo, si fermò per farsi notare da suo padre, sperando di ottenere qualche elogio gratuito per essere venuta alla funzione, ma lui era impegnato con Kitty Reynolds e una biondina che Becky non riconobbe. Suo padre sorrideva, e la biondina sembrava una calamita per i suoi occhi. Quando li alzò verso Becky, il sorriso si spense. Quando li riportò sulla donna, il sorriso riprese vita.


    Il messaggio era inequivocabile. Suo padre l’aveva cancellata ed era passato oltre. Mentre usciva dalla chiesa le balenò nella mente la parola stronzo. Era stato Clem, blasfemo, a pronunciarla, ma per lei era nuova. A quanto pareva, il suo crescente interesse per la First Reformed, che avrebbe dovuto far piacere a suo padre, per lui era meno importante del risentimento nei confronti di Rick Ambrose. E meno male che era un pastore cristiano.


    – Sí, Tanner c’era, – annunciò alla madre appena entrata in casa, prima che lei la irritasse chiedendoglielo.


    – Ah, bene, – disse sua madre. – Per causa sua Rick Ambrose rischia di non vincere il premio per il maggior numero di giovani allontanati dalle funzioni religiose.


    Becky non abboccò. – Sono sicura che Tanner sarebbe entusiasta di avere la tua approvazione.


    – Immagino che preferirebbe avere la tua, – disse sua madre. – E mi sembra di capire che ce l’ha.


    – Non ho intenzione di parlarne, – ribatté Becky, uscendo dalla stanza.


    Qualche giorno dopo si buscò un raffreddore cosí forte che non poté andare a lavorare al Grove, né in chiesa la domenica. Appena guarita compí il nuovo passo di fermarsi alla First Reformed dopo la scuola e unirsi alle ragazze davanti all’ufficio di Ambrose, le quali le spiegarono gentilmente i vari pettegolezzi di Crossroads, aiutandola a capire cosa era divertente e cosa orribile. Quando si stancò di essere la novellina, scese nel salone delle feste e trovò una squadra di tre ragazzi, guidata da suo fratello, che serigrafava i poster per il concerto di Natale. In teoria avrebbe dovuto dare una mano, perché doveva cominciare ad accumulare «ore» in vista del viaggio in Arizona – per avere il diritto di partecipare bisognava compiere almeno quaranta ore di servizio o lavoro pagato per il gruppo –, ma Perry era l’unica cosa di Crossroads che non le piaceva. Perry era il fratello bravo in tutto, compresa l’arte (il design del poster recava il segno della sua mano), ma ultimamente le bastava vederlo per sentire un formicolio al cuoio capelluto, come un cane in presenza dell’occulto; come se abitasse insieme a uno psicopatico dietro la cui bravura si celavano imprese oscure di ogni tipo. Becky conosceva alcune di quelle imprese ma, sospettava, non tutte. Perry alzò lo sguardo dalla serigrafia, colto in flagrante con le mani rosse di inchiostro natalizio, e le rivolse un sorrisetto. Becky si voltò e scappò via.


    Quando infine venne ammessa nell’ufficio di Ambrose e lui le chiese com’era la situazione a casa, Becky si ritrovò a dirgli che era preoccupata per sua madre. Solo due settimane prima avrebbe considerato un tradimento passare informazioni di famiglia al nemico del padre. Ora le faceva decisamente piacere.


    – Mia mamma fa finta che vada tutto bene, – rispose. – Ma ho l’impressione che sotto sotto stia andando a pezzi, e nel frattempo Clem è convinto che mio padre stia per lasciarla. Forse è solo una sua idea, però continua a parlarne.


    – Clem è un ragazzo sveglio, – disse Ambrose.


    – Lo so. Gli voglio tanto bene. Ma sono preoccupata per la mamma. Dipende completamente da mio padre, e gli tiene testa solo quando critica Perry. Secondo lei Perry è un genio. Cioè, in effetti è una specie di genio. Ma combina un sacco di cazzate di cui lei non sa niente.


    – Ne sei sicura?


    – Da me non viene a sapere niente, questo è certo.


    – Tu lo proteggi.


    – Non è lui che proteggo. Mi dispiace per lei… sta già passando un brutto momento. Ma non voglio nemmeno che Perry la ferisca.


    – Secondo te possiamo aiutarlo?


    – Crossroads? Credo che ci sia entrato solo perché c’erano i suoi amici, e poi all’improvviso è diventato Mister Entusiasmo. Non so… forse è un bene?


    Ambrose attese, gli occhi scuri fissi su di lei.


    – Il fatto è – proseguí Becky – che una parte di me non ci crede.


    – Neanch’io ci credo, – disse Ambrose. – Appena l’ho visto entrare mi sono detto: «Quel ragazzo porta guai».


    Becky rimase senza fiato. Non riusciva a credere che Ambrose si fidasse di lei al punto da dirle una cosa del genere. Per un momento disorientante, il suo cuore lo confuse con Tanner. La sincerità di Ambrose era una versione a quaranta gradi della bevanda leggermente alcolica di Tanner. Sulla mano coperta di peli scuri non c’era la fede nuziale, ma Becky aveva sentito dire che aveva una ragazza al seminario dove nominalmente era ancora iscritto. Era stato un po’ come sentir dire che Gesú aveva una ragazza.


    Uno scoppio di risate femminili fuori dalla porta le ricordò che lei era una fra le tante. Come per prevenire un rifiuto, e salvaguardare la sua dignità, Becky si scusò frettolosamente e corse via dalla chiesa, riorientando il suo cuore nella giusta direzione.


    La domenica successiva, al termine della funzione, lei e Tanner rimasero a chiacchierare per piú di un’ora sulla panca in fondo al tempio. Quando qualcuno spense le luci e le ultime voci lontane si smorzarono, continuarono a parlare alla luce piú solenne delle vetrate istoriate. Becky scoprí con sollievo che, alla fine, non le era toccato fare quella cosa da Crossroads di dire a Tanner che voleva conoscerlo meglio.


    Da uno scambio di impressioni del passato emerse il fatto interessante che Becky, già al primo anno delle superiori, gli era sembrata impossibile da avvicinare. Quando Becky replicò che no, era lui quello inavvicinabile, Tanner negò ridendo, come si addiceva alla sua natura modesta, ma lei si accorse che era contento. Mentre giravano intorno all’argomento di Crossroads e degli amici di Tanner diventati assistenti del gruppo, il suo cervello lavorava furiosamente sotto la superficie. La conseguenza logica, se non incontestabile, avrebbe dovuto essere che due persone dall’aria cosí straordinariamente inavvicinabile fossero destinate a stare insieme. Ma se stare insieme voleva dire solo essere amici?


    Non le restava che rischiare. In tono volutamente disinvolto chiese a Tanner perché Laura non andasse in chiesa con lui.


    – Ha avuto un’educazione cattolica, – rispose Tanner, con un’alzata di spalle. – Detesta la religione istituzionale.


    Becky aspettò.


    – Laura è molto piú drastica di me. Alla fine delle superiori era già pronta a svignarsela a San Francisco. Dormire sul pulmino, fare parte della scena.


    – E tu perché non sei andato? – disse Becky, trattenendo il fiato.


    – Non so. Forse la scena non mi interessa piú di tanto… sai, accamparsi in casa d’altri e rimanere svegli tutta la notte. Va bene una volta alla settimana, o se ti droghi, ma io preferisco dormire e alzarmi presto per esercitarmi. Ho ancora tanta strada da fare come musicista.


    – Sei già fantastico.


    La guardò con gratitudine. – Non lo dici cosí per dire?


    – No! Adoro ascoltarti.


    Becky osservò la sua reazione, che le sembrò positiva. Tanner raddrizzò le spalle e disse: – Voglio incidere un demo. Questo è il mio obiettivo, al momento. Dodici canzoni da registrare prima di compiere ventun anni. Avevo paura che, se ci fossimo messi in viaggio, l’avrei perso di vista.


    – Ti capisco.


    – Davvero? Non sono sicuro che Laura mi capisca. È piena di talento, ma non le importa di diventare una professionista. Se fosse per me, suoneremmo tre o quattro volte alla settimana. Blues, jazz, pop, qualunque cosa. Dobbiamo darci dentro, cercare di farci un pubblico. Ai proprietari dei bar importa solo di guadagnare, e questo Laura non lo sopporta. Se qualcuno le chiedesse di fare Peggy Lee, gli riderebbe in faccia. Io invece…


    – Tu sei piú ambizioso, – suggerí Becky.


    – Può darsi. Laura ha tante cose in ballo, lavora per il telefono amico, ha il suo gruppo femminile. A me basta lavorare sulla mia musica e cercare di sentirmi piú vicino a Dio. Sai, mi piace molto andare in chiesa. Mi piace vederti qui.


    – Anche a me piace vederti.


    – Davvero? Cominciavo a temere il contrario.


    Becky lo guardò negli occhi, dicendogli silenziosamente che non aveva nulla di cui aver paura. Dio solo sapeva cosa sarebbe successo se non avessero sentito dei passi in sagrestia, un rimbombante frastuono metallico. Dwight Haefle, non piú in abito talare, aveva sbloccato una delle porte del tempio. – Restate pure, – disse. – Le porte si aprono dall’interno.


    Ma Tanner era già in piedi, e anche Becky si alzò. Il loro momento era stato troppo fragile per poterlo recuperare. Mentre uscivano, Tanner le raccontò che la sera prima del terzo viaggio in Arizona Danny Dickman, Toby Isner e Topper Morgan avevano fumato erba e bevuto whisky nel tempio, e che Ambrose, nel parcheggio della First Reformed, accanto ai pullman carichi con il motore acceso, aveva spinto il gruppo a rimproverare i malfattori e a dibattere se dovessero venire esclusi dalla gita. Il confronto era durato due ore. Topper Morgan aveva pianto cosí violentemente che gli era scoppiato un capillare nell’occhio. E da quel momento la chiesa aveva cominciato a chiudere a chiave le porte del tempio.


    Becky tornò a casa frustrata per non essere riuscita a fare chiarezza su Tanner e Laura. Non voleva che Tanner la considerasse solo un esperimento. Certo, era inesperta in amore, ma il suo orgoglio, i suoi principî e il suo fondamentale senso dell’ordine esigevano che, prima che lei acconsentisse a venire aggiunta, Laura venisse esplicitamente sottratta. L’unica informazione utile che aveva racimolato al riguardo era che Tanner abitava ancora con i genitori. Visto che non conviveva con Laura, non poteva fare nessun gesto plateale. Ma ciò rendeva ancora piú necessaria una rinuncia formale. Becky lo considerava un requisito irrinunciabile, e cosí fu con la sconcertante sensazione di tradire se stessa, di osservare una persona che non capiva e che disapprovava dal punto di vista morale ma che tuttavia era lei, che permise a Tanner di baciarla prima che quel requisito fosse stato soddisfatto.


    Al Grove, cinque sere dopo la loro conversazione apparentemente cruciale nel tempio, Becky vide Laura Dobrinsky mettersi in punta di piedi per strofinare la faccia contro quella di Tanner, mentre lui la lasciava fare con un sorriso appagato. Becky si sentí pugnalata al ventre. Corse in bagno e per la prima volta pianse per un uomo. Nei tristi giorni successivi saltò la funzione domenicale e anche Crossroads, che non l’aveva avvisata che correndo rischi si rischiava di provare quel dolore lancinante, e si trascinò faticosamente fino all’inizio delle vacanze natalizie.


    E poi, la sera prima, aveva fatto una sostituzione al Grove. Non era la sua solita sera. Quando era entrato al ristorante, da solo, Tanner non avrebbe dovuto aspettarsi di trovarla lí. Becky, pensando a un caso sfortunato, chiese a una cameriera esperta, Maria, di prendere il suo tavolo. Sentiva su di sé lo sguardo di Tanner, ma non lo guardò neppure una volta finché gli ultimi clienti non se ne furono andati. Era un po’ stravaccato sulla sedia, l’immagine stessa della flemma, con il piatto del dessert vuoto sul tavolo. Le fece cenno di avvicinarsi.


    – Cosa c’è, – disse Becky.


    – Va tutto bene? Ti ho cercata in chiesa, domenica.


    – Non ci sono andata. Non sono sicura che mi interessi ancora.


    Si sentiva in gola un sapore dell’infanzia, l’orribile sapore dell’autolesionismo che non poteva fare a meno di voler assaggiare ancora.


    – Becky, – disse Tanner. – Ti ho fatto qualcosa? Mi sembri incazzata con me.


    – No. Sono solo stanca.


    – Ho chiamato a casa tua. Tua mamma mi ha detto che eri qui.


    Nessuna legge le impediva di allontanarsi. Si allontanò.


    – Ehi, aspetta, – disse Tanner, saltando in piedi per seguirla. – Sono venuto qui per vederti. Credevo che fossimo amici. Se sei incazzata con me, potresti almeno dirmi il motivo.


    Maria li osservava dal tavolo che stava pulendo. Becky entrò in cucina, ma Tanner non aveva paura della cucina. Lei si voltò di scatto.


    – Prova a indovinare, – disse con asprezza.


    Sapeva quanto valeva. Tanner doveva dire che aveva chiuso con la Natural Woman. Non si sarebbe accontentata di niente di meno.


    – Qualunque sia il motivo, – disse Tanner, – ti chiedo scusa.


    – Grazie tante.


    – Becky…


    – Cosa.


    – Mi piaci davvero.


    Non era abbastanza. Becky prese uno straccio e tornò in sala da pranzo per pulire i tavoli. Non era abbastanza, e poi sentí il fracasso della porta sbattuta da Tanner. Sentí la sua amarezza per essere stato trattato cosí male dopo averle telefonato a casa ed essere venuto a cercarla, e all’improvviso la persona che lei era ma non comprendeva stava correndo fuori nella notte. Tanner, a testa bassa, se ne stava appoggiato contro la fiancata del suo pulmino Volkswagen. Sentendo i passi di Becky, che correvano piú forte del suo buonsenso, alzò lo sguardo. Lei gli corse dritta fra le braccia. Si era levata una brezza da sud, piú primaverile che autunnale. Le mani che Becky aveva sognato erano sulla sua testa, fra i suoi capelli. E poi, in un attimo, nel modo piú impensato e sconsiderato, era successo.


    Venne svegliata dal telefono. Si era addormentata supina, di traverso sul letto, e aprí gli occhi su un cielo grigio incorniciato dalla finestra e spezzato da rami neri. Sua madre stava bussando alla porta.


    – Becky? È Jeannie Cross.


    Andò al telefono nella stanza dei genitori e aspettò che sua madre riagganciasse al piano di sotto. Jeannie la chiamava per invitarla a una festa dai Carducci, quella sera. Becky era contenta che Jeannie la includesse ancora, e avrebbe voluto accettare l’invito per il bene della loro amicizia. Ma era decisa ad andare al concerto.


    – C’è un concerto?


    – Crossroads, – disse Becky.


    Silenzio.


    – Capisco, – disse Jeannie.


    – Ma la sai una cosa? Ci vado con Tanner.


    – Tanner Evans?


    – Sí, è il protagonista della serata, e mi ha invitata ad andarci con lui.


    – Bene, bene, bene.


    Becky era tentata di dire di piú, ma forse aveva già detto troppo. Tanner non sapeva ancora che l’avrebbe portata al concerto. Per lei il loro lunghissimo bacio era stato definitivo, ma erano rimaste molte cose non dette, e Becky non si sarebbe sentita al sicuro finché tutto il mondo non l’avesse vista entrare alla First Reformed al braccio di Tanner. Chiese a Jeannie se voleva accompagnarla a fare shopping. Trovò quasi buffo l’entusiasmo con cui acconsentí, dopo tante settimane di distacco. Ma Jeannie non era libera prima delle tre e mezza.


    – Accidenti, – disse Becky. – Vedo Tanner alle quattro.


    – Wow, Bex. Sei impegnata con un ragazzo.


    – Lo so, – disse allegra Becky. – È strano.


    – E domani? Io sono libera tutto il giorno.


    Becky fece una lunga doccia ed eseguí alcune delicate operazioni davanti allo specchio del bagno, applicandosi un trucco che sperava la valorizzasse senza risultare evidente. Perry bussò sgarbatamente alla porta, pronunciando qualche commento che lei ignorò, poi andò via. Anche nella scelta dei vestiti, Becky si sforzò di trovare un equilibrio fra eleganza e Crossroads. Doveva rimanere in ordine almeno per dieci ore, soprattutto a partire dalle quattro. Quando scese in cucina, sua madre si stava infagottando in un orribile cappotto vecchio.


    – Sono in ritardo per la lezione, – disse. – Ti ricordi che devi tornare per le sei?


    Becky si riempí la bocca con un biscotto. – Io non vengo alla festa degli Haefle.


    – La tua partecipazione non è negoziabile, temo.


    – Non sto negoziando.


    – Allora puoi discuterne con tuo padre.


    – Non c’è niente da discutere.


    Sua madre sospirò. – Lo sai, tesoro, fare aspettare un ragazzo non è la cosa peggiore del mondo. So che non la pensi cosí, ma c’è sempre un domani.


    – Grazie del contributo.


    – Allora ieri sera ti ha trovata.


    – Credevo che fossi in ritardo per la lezione di ginnastica.


    Sua madre sospirò piú forte e le voltò le spalle. Becky era spiacente di doverla escludere. La sua buona volontà era infinita, ma sua madre aveva torto. Domani era troppo tardi per quello che doveva fare. Tanner non era il protagonista della serata, era il coprotagonista insieme a Laura Dobrinsky. Becky aveva bisogno di ogni minuto che poteva trascorrere con lui prima che il concerto cominciasse.

Servizio di leva – Sezione locale


      Ufficio postale centrale


      Berwyn, Illinois


      Gentili signori,


      Vi informo che a partire da oggi non sarò piú iscritto all’Università dell’Illinois, e dunque non piú qualificato per il rinvio di leva che mi è stato accordato il 10 marzo 1971. Sono pronto a servire nelle Forze armate degli Stati Uniti se verrò chiamato a farlo. La mia data di nascita è 12 dicembre 1951. Il mio numero di registrazione è 29 4 13 88 403. Vi prego di notificarmi se/quando desiderate che mi presenti per il reclutamento.


      Distinti saluti,


      Clement R. Hildebrandt


      215 Highland Street,


      New Prospect, Illinois

    


    La lettera, a differenza della tesina, aveva la chiarezza delle cose a lungo ponderate. Ma scriverla costituiva un’azione? Le parole sulla carta erano poco piú concrete di quanto fossero state nella sua testa. Solo dopo essere state ricevute e avere ottenuto una risposta avrebbero esercitato un potere su di lui. A che punto, di preciso, si sarebbe potuto dire che aveva agito?


    Contemplò per un momento lo strato di nuvole sopra i campi di granturco in lontananza, la foschia che d’inverno l’agricoltura industriale sembrava generare a livello del suolo, uno smog fatto in parte di umidità e in parte di nitrati. Poi firmò la lettera, mise l’indirizzo su una busta e applicò uno dei francobolli che aveva comprato per scrivere ai genitori.


    – Questa è la decisione di vostro figlio, – disse. – È cosí che doveva andare.


    Sentire una voce, anche se era la sua, alleviò la sua solitudine e gli diede il coraggio di andare in bagno. Le luci eternamente accese sembravano ancora piú forti adesso che tutti erano tornati a casa. I peli facciali di qualche compagno di corridoio già partito aderivano ai lati del lavandino dove Clem si risciacquò la faccia. Prese in considerazione una doccia, ma aveva una temperatura corporea cosí bassa che temeva di avere un convulso di brividi se si fosse svestito.


    Mentre usciva dal bagno squillò il telefono in corridoio. Quel suono fragoroso lo fece sussultare di paura, perché sapeva che poteva essere solo Sharon; aveva già chiamato a mezzanotte per aggiornarsi sui suoi progressi e tenergli un discorsetto incoraggiante. Per quanto riguardava Sharon, l’avere messo per iscritto la lettera costituiva senza dubbio un’azione. Si fermò davanti al bagno, paralizzato dallo squillo, e aspettò che smettesse. Dopo la débâcle del lunedí sprecato, Clem non aveva piú la minima fiducia nella sua capacità di resistere al piacere che ricavava da lei. L’unico programma sicuro era fare le valigie, prendere il primo autobus in partenza per Chicago e informarla della sua azione da New Prospect, per lettera.


    Con sua sorpresa, una porta in fondo al corridoio si spalancò. Un compagno in pantaloncini da ginnastica uscí con passo pesante e rispose al telefono. Vide Clem e agitò il ricevitore verso di lui.


    – Scusa, – disse Clem, affrettandosi a prenderlo. – Credevo che non ci fosse piú nessuno.


    Il compagno si sbatté la porta alle spalle.


    – Hai finito? – disse Sharon in tono ansioso.


    – Sí. Dieci minuti fa.


    – Urrà! Scommetto che ti andrebbe una bella colazione.


    – Piú che altro ho bisogno di dormire.


    – Vieni a fare colazione. Voglio prendermi cura di te.


    Venne sommerso da un’ondata di vertigini. Era bastato il suono della sua voce per fargli affluire il sangue all’inguine. Cambio di programma.


    – Va bene, – disse. – Ma devo dirti una cosa.


    – Cosa?


    – Te la dico quando arrivo.


    La stanza, quando vi rientrò, sembrava un fuoco di carbonella sotto un coperchio. Aprí la finestra e si mise il caban che Sharon aveva scelto per lui. L’aumento della pressione sanguigna che gli inturgidiva i tessuti era sicuramente legato al sesso, ma forse anche a ciò che doveva dirle. La lettera che aveva scritto conteneva elementi di aggressività, ed era noto che l’aggressività provocava erezioni agli uomini. La lettera poteva condurre alla sua partenza per il Vietnam, dove, benché non ci fosse nulla di eccitante nel farsi uccidere, poteva essere chiamato a difendersi con un’arma. La sua mente razionale sapeva che uccidere era moralmente sbagliato e psicologicamente devastante, ma lui sospettava che il suo io animale avesse un’opinione diversa.


    Con la lettera e la tesina in mano, Clem uscí dall’edificio per la scala posteriore, che non aveva mai perso l’odore di cemento fresco. L’aria umida del mattino oltrepassò la giacca e gli penetrò fino al midollo, ma era un sollievo uscire dal tunnel fumoso in cui il sesso e le notti in bianco avevano trasformato la sua esistenza da quando le lezioni erano finite. Nel silenzio del campus svuotato riusciva vagamente a udire la potenza dell’Illinois, il rombo di un treno merci, il gemito dei tir, carbone trasportato dal Sud, pezzi di ricambio dal Nord, bestiame ingrassato e sbalorditivi raccolti di granturco dal centro – tutte le strade portavano alla città dalle spalle larghe in riva al lago. Gli faceva bene scoprire che il mondo esterno esisteva ancora; lo faceva sentire meno folle.


    In fondo al viale della facoltà di Lingue straniere, dopo avere infilato la tesina sotto la porta del dipartimento di Studi classici, si imbatté in una cassetta della posta. La prossima levata era alle undici, e quello non era un giorno festivo. Si piazzò davanti alla cassetta e rifletté sulla libertà esistenziale di agire o non agire. Il gesto da uomo forte sarebbe stato infilare la lettera nella cassetta. Forse si sarebbe maledetto in futuro – per quanto si sentisse infelice ora, la vita nell’esercito gli avrebbe portato di peggio –, ma se un’azione era moralmente giusta, un uomo forte era tenuto a compierla nel presente. Se non avesse imbucato la lettera ora, sarebbe arrivato da Sharon con la mera intenzione di imbucarla, e quella strada lastricata di buone intenzioni l’aveva già percorsa.


    Chiuse gli occhi e si addormentò all’istante, risvegliandosi appena in tempo per non cadere. Si trovò in mano una lettera per l’ufficio di leva. La gola della cassetta la ingoiò con un rumore di giunture arrugginite. Clem si girò e partí di corsa, come se potesse battere in velocità ciò che aveva fatto.


    Al corso di filosofia che aveva seguito la primavera precedente c’era una personcina schiva dai capelli ricci con un berretto di velluto pieghettato alla francese, che sedeva nella sua stessa fila e continuava a guardarlo. Un pomeriggio, mentre il professore con barba lunga e collane di perline pontificava sulla Nausea di Sartre, decantando l’idea che la nostra comprensione dell’esistenza non ha nulla a che vedere con l’esistenza allo stato puro, Clem aveva alzato la mano per dissentire. La realtà, aveva affermato, funzionava secondo leggi scopribili e verificabili con il metodo scientifico. Il professore era sembrato convinto che ciò dimostrasse la sua tesi generale, e cioè che noi imponiamo le nostre leggi scientifiche a una realtà ostinatamente inconoscibile. – E la matematica, allora? – aveva detto Clem. – Uno piú uno farà sempre due. Questa verità non l’abbiamo inventata noi. Abbiamo scoperto una verità che c’è sempre stata –. Il professore aveva detto, scherzando, che c’era un platonico fra loro, e gli hippy si erano girati a guardare il conformista che aveva sfidato il professore, e la personcina era andata a sedersi vicino a lui. Dopo la lezione aveva lodato la sua indipendenza di pensiero. Lei adorava Camus, mentre non riusciva a perdonare a Sartre il suo comunismo.


    Sharon si era diplomata con lode, ed era la prima persona della sua famiglia a frequentare il college. Era cresciuta in una fattoria nella zona rurale dello stato, nei pressi della cittadina di Eltonville, dove i comunisti godevano di ben poca stima. Per tutto il resto del semestre lei e Clem si erano seduti vicini a lezione, e quando lei gli aveva chiesto l’indirizzo di casa, lui glielo aveva dato volentieri. Non aveva mai avuto un’amica, a parte Becky. Nella lettera che gli aveva spedito, mentre lui era a New Prospect a lavorare di zappa per il vivaio locale, Sharon scriveva del caldo e della desolazione che regnavano d’estate nella fattoria di famiglia. Sua madre era morta quando lei aveva dodici anni, suo fratello Mike era in Vietnam, il padre e il fratello minore gestivano la fattoria, e una dipendente croata si occupava della cucina e delle faccende domestiche. Sharon, che il padre aveva sempre esonerato dai lavori di casa, aveva trovato rifugio nella lettura dalla sua noia di bambina e dalla sua tristezza di adolescente. Ambiva a diventare una scrittrice, oppure, come ripiego, a insegnare inglese in Europa. Aveva già giurato di non trascorrere un’altra estate a Eltonville.


    Clem le aveva risposto, dopodiché aveva ricevuto una seconda lettera, cosí lunga che Sharon aveva dovuto mettere tre francobolli sulla busta. Cominciava con una serie di domande, si trasformava in un flusso di coscienza povero di punteggiatura e privo di maiuscole, e terminava con un brano di Camus ricopiato in francese. Clem si riproponeva di prendersi una serata per risponderle, ma non trovava mai la serata giusta. Passava il tempo con il suo amico Lester o guardava la tv con Becky, che negli ultimi tempi aveva ridotto la sua vita sociale. Solo quando tornò all’università e vide Sharon che camminava da sola nel cortile centrale, Clem comprese la scorrettezza della propria inazione. Sharon gli lanciò uno sguardo ferito, e questo non era giusto, lui non era uno che feriva gli altri, e cosí la seguí. Lei accolse le sue scuse con un’alzata di spalle, dicendo: – Mi sa che mi ero fatta un’idea sbagliata di te –. Forse per via della sfida insita in quelle parole, o di ciò che la gente chiamava senso di colpa ma che in realtà era solo il desiderio egoistico di non venire considerati cattivi, Clem si sentí indotto a invitarla in pizzeria.


    La lite venne innescata dalla giacca verde militare che Clem si era messo per uscire. La primavera precedente, per una manifestazione contro la guerra, aveva applicato sul retro della giacca un simbolo della pace fatto con il nastro isolante, che a Sharon non piacque. Non sopportava i pacifisti del college. Ogni mattina, gli disse, si svegliava temendo di sentire che suo fratello era rimasto ucciso o mutilato in Vietnam. Mike non era un lettore, amava cacciare e pescare, e la sua unica ambizione era ereditare la fattoria, ma era la persona piú buona e onesta che lei avesse mai conosciuto, e i pacifisti lo disprezzavano. Chi erano loro, per sputare su una persona come suo fratello? Avevano ottenuto tutti il rinvio di leva, passavano il tempo a scopare e fumare marijuana mentre quelli come lui morivano, e non erano neppure riconoscenti. Si credevano moralmente superiori. Ragazzi bianchi fortunati dei quartieri residenziali che sfoggiavano il simbolo della pace mentre altri combattevano una guerra al posto loro: solo a pensarci le si rivoltava lo stomaco.


    All’inizio Clem ascoltò quella tirata con atteggiamento paternalistico. Sharon, essendo femmina e sentimentale, non sembrava consapevole della grottesca immoralità della guerra, né del fatto che suo fratello avrebbe potuto rifiutare di arruolarsi. Lui, Clem, al suo posto si sarebbe rifiutato. Ma Sharon era irremovibile. Suo fratello amava il suo paese ed era un vero uomo; quando il dovere chiamava, lui rispondeva. E che dire dei ragazzi dei ghetti neri e delle riserve indiane che combattevano insieme a lui? Loro non sapevano nemmeno che c’era la possibilità di non arruolarsi. Il risultato era che quelli come Clem restavano a casa e facevano pure la morale agli altri.


    – Che numero hai avuto alla lotteria? – gli chiese Sharon.


    – Terribile. Diciannove.


    – Cosí adesso qualcuno è nella giungla perché i tuoi genitori ti hanno mandato al college.


    – Ma non ci sarei andato comunque.


    – Non cambia niente. Qualcuno è laggiú perché tu non ci sei. Qualcuno come Mike. Parli tanto della «grottesca immoralità» della guerra. Cosa ne dici della grottesca immoralità di farla combattere solo ai ragazzi poveri, non istruiti o neri? Perché non lo trovi ugualmente grottesco? Perché non protesti per questo?


    – È sottinteso, non credi?


    – No. Non sento mai nessuno che ne parla. Sento solo disprezzo per i militari.


    Sharon era piccola, e femmina, ma le sue idee erano originali. In Arizona, durante il viaggio primaverile del gruppo della chiesa, Clem aveva lavorato per un navajo, Keith Durochie, che aveva perso un figlio in Vietnam. Appena diciassettenne, e a disagio davanti a un genitore in lutto, Clem aveva tentato di solidarizzare con lui lamentando quanto fosse ingiusto morire in quella guerra, e Durochie era diventato scontroso e taciturno. Clem aveva detto la cosa sbagliata, ma non sapeva perché. Ascoltando Sharon, comprese che, lungi dal consolare Durochie, aveva mancato di rispetto alla morte di suo figlio. Che idiota era stato.


    – Mi dispiace tanto di non avere risposto alla tua lettera, – disse.


    Sharon gli puntò addosso gli occhi scuri. – Mi accompagni a casa?


    Fin da quella prima sera si era reso conto, con un tuffo al cuore, che avrebbe dovuto agire; che ormai aveva visto una verità morale e non poteva piú tornare indietro facendo finta di non averla vista. Forse sarebbe stato risparmiato se avesse avuto un numero di leva piú alto, ma la pallina numero 19 aveva seguito una traiettoria incalcolabile («casuale») per associarsi alla data del suo compleanno, e ora lui provava compassione per il ragazzo non istruito che era andato in guerra al suo posto. Non voleva essere come suo padre, solidale con gli svantaggiati solo a parole. Rinunciare al rinvio di leva era un prezzo esorbitante da pagare per essere piú coerente di lui, ma quando arrivarono a casa di Sharon, in una delle vie piú scalcinate di Urbana, la sua intuizione morale gli stava dicendo di pagarlo.


    In cima ai gradini della veranda, Sharon si girò e lo baciò. Clem si trovava un gradino piú in basso, cosa che compensava la loro notevole differenza di statura. Il bacio fu l’inizio di una lunga sospensione della sentenza che aveva emesso contro di sé. Quando infine si staccò da lei, con la promessa di chiamarla il giorno dopo, il pensiero del Vietnam era stato scacciato dalla dolcezza della sua bocca, dal profumo accogliente della sua pelle, dalla piccola lingua audace che gli aveva schiuso le labbra, dalla grande sorpresa di quanto era accaduto.


    La casa di Sharon era una stamberga di legno con un negozio di biciclette gestito da hippy al pianterreno, sale comuni di hippy al primo piano, camere da letto di hippy al secondo piano, e Sharon, che detestava gli hippy, nell’unica stanza abitabile al terzo piano. Tutti la consideravano una creaturina innocua, ma lei sapeva come ottenere quello che voleva. L’anno prima, dopo che l’associazione studentesca l’aveva espulsa per aver violato il regolamento, gli hippy le avevano dato la stanza migliore della casa. Fra l’altro, era la stanza perfetta per fare sesso senza interruzioni. In seguito Clem sarebbe arrivato a comprendere perché all’università la frequentazione tra studenti maschi e femmine veniva limitata da norme che, per quanto antiquate, impedivano loro di cadere in un abisso di piacere e trascurare gli studi, ma in occasione della sua seconda visita salí nella stanza di Sharon in tutta innocenza. Dopo qualche ora che pomiciavano sul letto vestiti, Sharon andò in bagno e tornò indossando solo un accappatoio di spugna. Era successo che si era stufata di pomiciare, e aveva anche il naso e il mento irritati. Lo spinse indietro e gli slacciò la cintura. Lui disse: – Ehi, aspetta –. Lei gli rispose di non preoccuparsi, tanto prendeva la pillola. Aveva perso la verginità a diciassette anni, durante un programma di scambio studentesco a Lione, in Francia. Il figlio maggiore della famiglia ospitante andava all’università ma viveva a casa, ed era stato il suo amante per due mesi e mezzo, fino a quando erano stati scoperti. Nel casino che era seguito, Sharon era stata rimandata a Eltonville. Un monumentale imbarazzo, disse, ma ne era valsa la pena. Si erano scritti per un anno, poi il ragazzo ne aveva trovata un’altra e lei aveva avuto ulteriori avventure che non aveva voglia di raccontare. Clem, supino, con la cintura slacciata, stava ancora tentando di rallentare le cose, di prolungare una discussione che sembrava obbligatoria, quando lei si tolse l’accappatoio e si sdraiò sopra di lui. – È facile, – gli disse. – Ti faccio vedere –. Di lí a poco, Clem si trovò davanti agli occhi il corpo completamente nudo di una ragazza che si era aspettato di spogliare a poco a poco, chiedendo piú volte il permesso, nel corso di settimane o mesi. Quello spettacolo costituiva un tale sovraccarico visivo che dovette chiudere gli occhi. Sharon si mosse su e giú sulla sua erezione finché il tessuto dell’universo non si strappò. Ricadde in avanti, baciandolo con labbra effettivamente assai irritate. Clem voleva sapere se le era piaciuto. Sharon rispose che le era piaciuto molto. Ma, insistette lui, era…? – Ogni cosa a suo tempo, – disse lei. – Ti farò vedere.


    Per essere una campagnola ventenne dell’Illinois meridionale, Sharon sapeva un sacco di cose sul sesso. Alcune le aveva imparate in Francia, altre sui libri. Fra queste, la cosa che Clem trovava piú sconvolgente era che le piaceva tantissimo farsi leccare la vulva. L’idea di leccare una vulva non lo aveva mai sfiorato neppure da lontano; la parola latina per quell’azione, benché l’avesse vista su un dizionario, era sempre stata solo una parola. Se qualcuno glielo avesse chiesto, avrebbe ipotizzato che si trattasse di una tecnica per amanti esperti, una sorta di droga pesante a cui si arrivava attraverso il normale rapporto sessuale. Non avrebbe certo immaginato di farlo con una ragazza che confondeva ancora i nomi dei suoi due fratelli. Ancora meno avrebbe immaginato che gli sarebbe piaciuto cosí tanto. L’unica cosa che preferiva a vedere e annusare e assaggiare la vulva di Sharon era il momento in cui vi infilava dentro il pene; e lí stava il problema.


    Ora si rendeva conto che la sua presunta autodisciplina, la straordinaria attitudine allo studio che genitori e insegnanti avevano sempre elogiato, non era affatto disciplina. Clem era bravo a scuola perché gli piaceva imparare le cose, non perché avesse una forza di volontà superiore alla media. Appena Sharon lo introdusse a forme piú intense di piacere, Clem scoprí che i muscoli della sua volontà erano irrimediabilmente poco sviluppati. Si ritrovò a saltare il laboratorio di chimica organica solo per fare una passeggiata con lei, neanche per scopare, solo per starle vicino. Ebbe la sua prima esperienza di fellatio un mattino in cui avrebbe dovuto essere a storia romana. Non si preparò per l’esame di biologia cellulare di metà semestre perché infilare il pene nella vulva di Sharon gli aveva offerto un piacere maggiore, sul momento, di quello che gli offriva lo studio. Ciò che se ne poteva dedurre riguardo al suo autocontrollo era già abbastanza brutto. Peggio ancora era che indeboliva il suo migliore argomento morale per continuare a rinviare la leva: l’idea che potesse rendersi piú utile all’umanità studiando con diligenza, diventando un leader in campo scientifico, piuttosto che combattendo come soldato semplice in Vietnam. Sentiva che, se non fosse riuscito ad avere come minimo la media di 3,5 su 4, non avrebbe piú avuto diritto al rinvio.


    Sharon, dal canto suo, era meravigliosamente serena. Lei non poteva essere arruolata, e seguiva solo i corsi in cui una persona brava a scrivere prendeva automaticamente il massimo dei voti. Per abbozzare una tesina le bastava discuterne con Clem, mentre lui, per memorizzare i radicali organici, doveva studiare parecchio, e da solo. Sharon era una vera lettrice, abituata alla solitudine, e preferiva non avere amici piuttosto che avere amici meno eccezionali di lei. Clem non aveva ancora buoni amici all’Università dell’Illinois, ma un compagno del corso di scienze, Gus, gli aveva chiesto di dividere la stanza con lui, evidentemente sperando di approfondire l’amicizia, e ora Gus gli rivolgeva a malapena la parola, offeso perché Clem passava tutto il tempo con Sharon. Lei era affamata di piacere quanto Clem, ma questo non faceva deragliare la sua vita quanto quella di lui. Non aveva mai fretta di andare da nessuna parte, e Clem era arrivato a desiderare l’alterazione del senso del tempo causata dalla serena indifferenza di Sharon all’orologio quasi quanto desiderava il suo corpo. Finché poteva stare rannicchiato dentro la sua vita ben ordinata come se fosse la propria, senza mai uscire dalla sua stanza, si sentiva bene. Solo quando usciva da lí veniva travolto dall’ansia, e solo rientrandovi trovava sollievo.


    Anche se lo avrebbe negato con veemenza qualora Sharon glielo avesse chiesto, un altro motivo per cui preferiva rimanere nella sua stanza era che mostrarsi in pubblico con lei lo metteva a disagio. La difficoltà, per cosí dire, non stava in ciò che lei era. Clem era orgoglioso della sua intelligenza, orgoglioso del suo bel viso e del suo fisico ancora piú bello, orgoglioso dei suoi modi limpidamente privi di affettazione. La difficoltà stava in ciò che Sharon era in rapporto a lui, cioè piú bassa di trentacinque centimetri. Lei non aveva mai, nemmeno una volta, fatto cenno alla loro differenza di statura, e lui si odiava per il semplice fatto di esserne consapevole. Il modo in cui il mondo giudicava le persone in base al loro aspetto fisico, cioè a qualcosa che non potevano controllare e che non c’entrava nulla con il cervello e la personalità, era del tutto ingiusto. In teoria Clem era contento di essere tanto piú alto di Sharon, perché ciò dimostrava la sua dedizione all’uguaglianza e all’unione di due anime fedeli, a prescindere dagli impedimenti fisici. In pratica, poi, quando erano a letto, la quasi illecita piccolezza del corpo nudo di Sharon lo eccitava ancora di piú. Ma in pubblico, per quanto ci provasse, non poteva trattenersi dal pensare che tutti li fissassero e traessero conclusioni su di lui.


    Quando Clem era tornato a New Prospect per la festa del Ringraziamento e aveva visto Becky, ormai diventata donna, il suo disagio si era acuito. Becky e le sue amiche, soprattutto Jeannie Cross, erano cosí splendide che avrebbero potuto appartenere a un’altra specie, e Becky aveva fatto un commento insolitamente mordace sulla differenza di statura fra Tanner Evans e Laura Dobrinsky. Clem, che fino a quel momento non vedeva l’ora di dire alla sorella che stava con una ragazza, aveva intuito che lei non aveva alcun interesse per Sharon – non voleva conoscerla, non voleva sentirne parlare, non l’avrebbe approvata. Quando si era messo a elogiare la bella mente di Sharon, descrivendone il fascino straordinario e il profondo abisso sensuale in cui era precipitato, le sue parole erano suonate vuote e astratte. L’intera conversazione era stata molto imbarazzante. Ne era uscito vergognandosi della propria sessualità, vergognandosi per estensione anche di Sharon, e piú dolorosamente consapevole della loro incongruenza dimensionale. La loro relazione, che aveva sempre considerato senza limiti di tempo, ora gli sembrava passeggera, come se Sharon fosse solo la sua «prima ragazza», la persona dolce ma dimensionalmente inadatta con cui aveva perso la verginità. Becky, che lo volesse o no, lo aveva indotto a esaminare i suoi sentimenti per Sharon, e lui li aveva trovati carenti. Non erano abbastanza solidi perché potesse dichiarare a sua sorella: «Non mi interessa il tuo giudizio superficiale, lei è la persona che amo», e non erano abbastanza forti – non suggerivano abbastanza energicamente un lungo futuro insieme – per servire come argomento contro la rinuncia al rinvio di leva. Erano piú che altro una fuga, una tregua dal suo dovere morale.


    Era tornato all’università con un piano rigoroso. Avrebbe visto Sharon solo due sere alla settimana, e non sarebbe mai rimasto a dormire da lei, e avrebbe studiato dieci ore al giorno e cercato di prendere il massimo dei voti in ogni esame e tesina. Con una sfilza di A+ avrebbe ancora potuto mantenere la media del 3,5, la cifra che, per quanto fondamentalmente arbitraria, rappresentava l’ultima plausibile difesa contro l’azione che altrimenti sarebbe stato chiamato a compiere.


    Era un piano sensato ma, aveva scoperto, non realizzabile. Quando era andato da Sharon, gli era sembrato di non vederla da cinque mesi, anziché cinque giorni. Aveva mille cose da dirle, e sfilandole i pantaloni di velluto a coste si era sentito sciocco e meschino per essersi preoccupato della loro differenza di statura. Solo quando, il pomeriggio seguente, era tornato nella sua stanza, si era rammaricato della sua mancanza di volontà. Aveva ricalibrato il piano, assegnandosi undici ore di studio al giorno, e lo aveva seguito fino al venerdí, quando si era concesso un’altra serata con Sharon. Quando se n’era andato, la domenica pomeriggio, il numero di ore di studio necessarie a far quadrare i conti era salito a quindici al giorno. Si era detto che stava vivendo nel momento, come un esistenzialista, assaporando la loro unione finché durava, ma sentiva che c’era anche qualcosa di piú oscuro. Qualcosa di quasi maligno, come se, cedendo all’elastico senso del tempo di Sharon, e dunque facendo in modo che i suoi voti ne soffrissero, cosa che non gli avrebbe lasciato altra scelta morale che quella di abbandonare l’università, si stesse segretamente preparando a punirla. Sharon non aveva idea di cosa significasse per lui la media di 3,5, ma lo avrebbe capito presto, e si sarebbe pentita di non avere insistito perché studiasse.


    Ciò che rendeva piú crudele l’imminente castigo era il fatto che Sharon dava segni di provare per lui un amore all’antica, romantico e totalizzante. Malgrado si fosse presentata come uno spirito libero, un’avventuriera sessuale lettrice di Colette, e malgrado fosse troppo sofisticata per usare un linguaggio sdolcinato, sembrava che avesse una visione piú di lungo periodo della loro coppia. Appena Clem le aveva raccontato della conversazione con la sorella il giorno del Ringraziamento e del lascito della zia, Sharon si era fissata di voler andare in Europa con lui. Rispettava il suo rifiuto dell’offerta di Becky, ma perché non accettare almeno una vacanza gratis? Non sarebbe stato fantastico andare in Francia insieme? Visitando gli stessi posti che visitavano sua madre e sua sorella, ma stando per i fatti loro? Ogni volta che Sharon tornava su quell’idea, per aggiungere o sottrarre qualche tappa al loro mitico itinerario, Clem si limitava a chiudere gli occhi e sorridere. In fondo al cuore sapeva già che avrebbe scritto all’ufficio di leva. La ragione principale per farlo era che si trattava di un’azione moralmente corretta. Clem aveva altre importanti ragioni riguardanti suo padre e Sharon, alla quale voleva dimostrare di avere preso sul serio le sue idee, sperando che avrebbe ammirato la correttezza di quell’azione e lo avrebbe messo sullo stesso piano di Mike. Eppure, per quanto fosse assurdo, nei giorni finali del semestre, mentre la realtà del suo scarso rendimento diventava innegabile, la principale attrattiva della rinuncia al rinvio di leva era stata evitare di andare in Francia con la sua ragazza e sua sorella.


    Il cielo mattutino si stava scurendo, anziché schiarirsi, quando Clem arrivò a casa di Sharon. Aveva la chiave ma non la usava mai – malgrado un recente furto di biciclette, gli hippy si rifiutavano di chiudere la porta sul retro. Si introdusse nell’oscurità della cucina e passò rapidamente accanto alle stoviglie incrostate di formaggio ammucchiate dentro e intorno al lavandino in una specie di equilibrio hippy, uno stato stazionario in cui nuovi piatti sporchi venivano aggiunti alla stessa velocità con cui qualcuno si prendeva la briga di lavare quelli vecchi. In generale gli hippy erano troppo presi da se stessi anche solo per sapere come si chiamava, ma Clem aveva già ricevuto parecchi sorrisetti d’intesa, e fu lieto di non incontrare nessuno mentre andava di sopra. Sentiva che la sua identità, in quella casa, si riassumeva nell’essere il tizio che si scopava la tipetta del terzo piano, un sunto sgradevolmente appropriato.


    Sharon, in pigiama di flanella, stava mescolando qualcosa sul piano di compensato dell’angolo cottura improvvisato fuori dalla sua stanza. Clem si chinò a baciarle i riccioli e l’abbracciò da dietro. Nel suo disordine mentale si sentiva già per metà un soldato, arrivato per fare ciò che i soldati fanno con le donne, ma lei se lo scrollò di dosso con aria giocosa. – Sto facendo i toast con zucchero e cannella.


    – Non so se sono in grado di affrontare il cibo, in questo momento.


    – Quand’è stata l’ultima volta che hai mangiato?


    – Ieri, non so a che ora. Un panino con insalata di tonno.


    – Hai decisamente bisogno di cibo. Ma prima… – Sharon si accovacciò per aprire il piccolo frigorifero. – Ho comprato lo champagne.


    – Lo champagne.


    – Per festeggiare –. Gli passò la bottiglia fredda. – Tu non mi credevi, ma io sapevo che ce l’avresti fatta.


    Battere a macchina quindici pagine di una tesina mediocre in sessanta ore non gli sembrava una grande impresa. – Champaign, Urbana, – disse.


    – Esatto.


    Bere alcolici alle nove del mattino nelle sue condizioni era poco prudente, ma Sharon aveva le idee chiare su come andavano fatte le cose, e lui non voleva deluderla. Tolse la stagnola dal collo della bottiglia e la stappò.


    – A noi, – disse Sharon, dopo che Clem ebbe riempito due calici. – A Scipione l’Africano!


    – Non pronunciare quel nome. Ho passato tutta la notte a scrivere Scipone e poi cancellarlo.


    – Solo a noi, allora.


    Si alzò in punta di piedi per un bacio, che Clem si chinò a darle. Colse un’eccitante zaffata di cibo per gatti, l’odore di sperma vecchio dei vari depositi che aveva effettuato in lei il lunedí precedente. Sharon portò bicchiere e bottiglia in camera, e lui la seguí come un cagnolino. Si sedette sul letto appoggiandosi ai cuscini mentre Clem le brancicava i piedi, massaggiandole le piante con i pollici. Lo champagne la rendeva straordinariamente bella. Lungi dal facilitargli l’annuncio, lo stava spingendo a calcolare quando sarebbe dovuto uscire per intercettare il postino che svuotava le cassette e riprendersi la lettera. In base alla teoria che le cellule cerebrali necessitavano di glucosio prontamente assorbibile per ritrovare la piena funzionalità, Clem scolò il bicchiere.


    Sharon glielo riempí di nuovo. – Hai detto che volevi dirmi una cosa?


    Clem ricadde sul letto guardando il soffitto inclinato, e gli sembrò che tutto vorticasse. La luce che entrava dall’abbaino pareva avulsa da qualunque ora specifica, a causa del suo stesso grigiore e della confusione dell’orologio interno di Clem, per il quale oggi era ancora ieri e il mattino era seguito al pomeriggio senza una notte in mezzo.


    – Anch’io devo dirti una cosa, – disse Sharon.


    Gli venne in mente che non le aveva mai baciato i piedi. Erano minuscoli, con l’arco alto, le piante morbide e fresche, un balsamo per le sue guance febbricitanti. Sharon si mise a ridere e li tirò via.


    – Scusa, – disse. – Mi fai il solletico.


    Clem non aveva termini di paragone, ma era possibile temere che non tutte le ragazze – forse ben poche ragazze – fossero dolcemente esplicite come Sharon su quello che gradivano e quello che non gradivano. Possibile temere che poche ragazze sarebbero state piú generose, piú indulgenti con i suoi errori, piú comprensive con il suo incessante desiderio di sesso, piú direttamente interessate loro stesse al sesso, meno inclini al pianto e al broncio, meno emotivamente esigenti di Sharon. Possibile, anzi, temere che i tre mesi ormai giunti al termine fossero stati un piccolo Eden, un paradiso terrestre dove lui aveva avuto la cieca fortuna di approdare e che adesso era cosí idiota da voler distruggere. Pensò al mattino di novembre in cui l’aveva guardata zoppicare fino al bagno, come una vecchia, dolorosamente indolenzita a causa della sua ricerca di un ultimo, trascurabile orgasmo. Ricordò che era tornata zoppicando a letto, che lui si era rimproverato aspramente e l’aveva implorata di perdonarlo, e che lei ci aveva riso sopra, C’est l’amour. Aveva vissuto in un Eden al contrario, dove Eva aveva mangiato la mela e aveva condiviso con lui la sua deliziosa conoscenza. Perché, oh, perché doveva distruggerlo?


    Calcolò che gli sarebbe bastato uscire alle dieci e quarantacinque per raggiungere la cassetta prima che ci arrivasse il postino. Del resto poteva anche passare tutta la mattina con lei e scrivere un’altra lettera per dire che aveva cambiato idea e si teneva il rinvio.


    – Ti stai addormentando? – disse Sharon.


    – Niente affatto.


    – Ti preparo qualche toast.


    – No, sto bene cosí. Lo champagne è una bomba di glucosio.


    Le spinse la mano fra le gambe, saggiando l’elasticità dei riccioli sotto la flanella. Si avvicinò per vedere meglio mentre le abbassava i pantaloni del pigiama. Oh, la bellezza di quello che scoprí! L’inesauribilità del suo richiamo! Era vero che, se fosse stato esplicito quanto lei nell’esprimere le sue preferenze, forse le avrebbe chiesto di tenere la giacca del pigiama. Era in rapporti abbastanza amichevoli con i suoi seni, ma aveva potuto accedervi cosí presto che gli era mancato il tempo di restarne debitamente affascinato, come un tesoro da sognare di scoprire, e da quel momento gli erano parsi un po’ irrilevanti. Gli piacevano di piú nel reggiseno. La cosa migliore sarebbe stata averla vestita di sopra e nuda di sotto, una specie di fauno femmina, studentessa modello dalla vita in su, creatura dei suoi sogni piú bagnati dalla vita in giú. Ma non aveva mai trovato un modo non offensivo di esprimere quella preferenza, e Sharon sembrava preferire la nudità totale.


    Sharon si tolse la giacca del pigiama e gli strattonò la camicia per le spalle. Anche lui le piaceva nudo – considerava particolarmente maleducato che restasse con i calzini – ma quel mattino Clem non aveva voglia di svestirsi. Aveva avuto un assaggio di aggressività e voleva fare come gli pareva, anche se non poteva dire a lei cosa fare. Gli venne in mente l’immagine di un soldato che scopava con gli stivali ai piedi, difeso dai suoi vestiti. Quando Sharon gli strattonò ancora la camicia, lui resistette.


    – Hai freddo?


    – No.


    Si accinse all’unico lavoro al quale ambiva negli ultimi tempi. Spiegate davanti all’orizzonte della cassa toracica, inclinate verso la valle dell’ombelico fino a un boschetto di riccioli ispidi troppo vicini per metterli a fuoco, c’erano le mobili pianure bianche del ventre. Le mani di Sharon si afferravano ai lati del letto mentre lei regolava il contatto con la sua lingua. Clem era sbalordito dalle riserve di energia del proprio corpo: dimostravano il primato della funzione riproduttiva dell’organismo. Le cellule cerebrali esauste, per quanto sferzate dalle sigarette, non erano riuscite a fare la loro parte nelle ultime pagine su Scipione l’Africano, eppure ecco i muscoli del collo e della lingua, infaticabili, marciare verso la promessa di una ricompensa che non era neppure destinata a loro, bensí al pene. Il collo differiva il dolore, le tempie il martellamento da champagne, gli occhi il ritorno del bruciore, finché lui non avesse obbedito al piú profondo imperativo animale e ne avesse liberata la ribollente follia.


    Sharon strillò. Per un momento il suo corpo, scosso da un interiore galvanismo, parve smembrarsi. Clem si soffermò a spingere la lingua piú a fondo possibile, per gustare il sapore precluso al pene, e poi risalí per guardarla negli occhi. Luccicavano scurissimi; il sorriso era sghembo, come se lui lo avesse rotto. Le mise un cuscino sotto il sedere, come piaceva a lei, e si calò i pantaloni a metà. Il modo in cui la sua personcina lo accoglieva completamente rasentava il miracoloso. Si abbassò sopra di lei con tutto il peso e rimase immobile, cercando di imprimersi nella memoria la sensazione della penetrazione totale. Si chiese quanti mesi o anni sarebbero trascorsi prima di riprovarla ancora.


    – Stai bene? – disse Sharon.


    – Sí. Solo una pausa.


    – Lo sai cosa stavo immaginando? Che eravamo insieme a Parigi. Che ci sorprendeva un temporale e tornavamo in albergo bagnati fradici. Stavo immaginando che mi facevi venire mentre la pioggia scrosciava sui boulevard.


    Neppure la parola venire poteva riattizzargli la voglia che quell’immagine di Parigi gli aveva spento. Loro quattro in fila per entrare al Louvre. Becky alta e pulita e sprizzante amabilità, sua madre che studiava una guida e faceva qualche commento ironico: Clem odiava immaginare Sharon in quel quadro. Odiava immaginare se stesso condannato a svegliarsi ogni mattina in un letto francese consumato dalle scopate, con le lenzuola incrostate di sperma, dove tutto era caldo e rosso e gli toglieva il sonno; condannato a desiderare di essere invece con Becky, che si trovava magari al piano di sotto nella sala della colazione con tovaglioli puliti e baguette, impegnata in una vivace conversazione con la madre a cui anche lui avrebbe voluto partecipare. Becky alla quale non gli dispiaceva mai stare vicino, perché la vicinanza era tutto ciò che voleva da sua sorella. Quando immaginava se stesso e Sharon che entravano in quella sala della colazione parigina, puzzolenti di sigarette postcoitali, con gli occhi rossi e gonfi, la luminosa immagine di Becky si allontanava e sbiadiva come quella di un angelo. Anche nel mondo reale la stava perdendo – aveva cominciato a perderla la sera di settembre in cui Sharon si era tolta l’accappatoio. Piú Sharon rimaneva nel quadro e meno poteva starci Becky. Il suo pene si stava ammosciando.


    – Oh, tesoro, – disse Sharon. – Devi essere stanchissimo.


    Lui annuí, felice di lasciarglielo credere.


    – Ho un’idea, però, – proseguí lei. – Stavo pensando che potremmo tornare qui tutti e due subito dopo Natale. Ti va? Potremmo portarci avanti con lo studio di giorno e stare insieme di notte. Non devi pensare che stai rimanendo indietro con gli esami per colpa mia.


    Clem aveva ormai bruciato tutto il glucosio. L’imperativo si era ridotto a niente.


    – Ma non era questo che volevo dirti –. Sharon cambiò posizione per guardarlo negli occhi. – Posso dirti una cosa importante? È già da qualche settimana che voglio dirtela.


    Clem attese con un sordo timore.


    – Sono innamorata di te, – disse Sharon. – Mi è permesso dirlo?


    Era proprio quello che Clem aveva temuto.


    – Sono tanto innamorata di te, tesoro.


    Era proprio quello che Clem aveva temuto, ma per qualche motivo l’effetto fu l’opposto di quello che si sarebbe aspettato. Un’ondata di benessere virile stava investendo il suo corpo. La consapevolezza di possedere in pieno quella persona, il brivido della conquista, e qualcosa di piú selvaggio, l’improvviso accrescimento della sua capacità di infliggerle dolore: tutto questo lo colpí come un proiettile al testosterone. L’imperativo si risvegliò violentemente, e lui gli obbedí senza pensare, con un affondo. Era sbalorditivo quanto fosse diverso essere dentro una donna che aveva fatto innamorare di sé, quanto ora i suoi nervi genitali si sentissero completamente collegati a lei. Era quasi come se, fino a quel momento, non avesse mai scopato. Fece un altro affondo. Il piacere era straordinario.


    – Allora, cosa ne pensi? – disse Sharon.


    – Penso che sei fantastica, – rispose Clem, dandoci dentro.


    – Okay –. Sharon annuí debolmente, come a se stessa.


    Lui si fermò, abbassandosi per baciare la bocca che aveva pronunciato le parole magiche. Lei girò la faccia dall’altra parte.


    – Perché non hai voluto toglierti i vestiti?


    – Non so. Mi è sembrato eccitante.


    Di nuovo quel piccolo cenno dubbioso.


    – Sharon, – implorò. Sapeva che era necessaria una conversazione, e che non sarebbe stata una bella conversazione, ma la sua fortissima preferenza era per iniziarla appena un po’ piú tardi. Per esprimere quella preferenza chiuse gli occhi e ricominciò a muovere i fianchi. Il piacere era inalterato, ma lei ricominciò subito a parlare.


    – Voglio che mi dici che anche tu sei innamorato di me.


    Aprí gli occhi. Già in settembre, quando la puntina della sua mente si era bloccata nel solco di Sharon, Clem aveva provato l’impulso di dirle che era innamorato di lei. Lo aveva represso perché seguiva il suo esempio in tutto e gli sembrava di capire che le dichiarazioni d’amore non fossero comme il faut. Era vero che, dopo la crisi del giorno del Ringraziamento, era stato contento di avere tenuto la bocca chiusa. Ma ora capiva, se lo sentiva nei nervi, come sarebbe stato trasformativo per Sharon sentire da lui quelle parole magiche. Cosí trasformativo, in effetti, che pensò di poterle pronunciare con una certa sincerità.


    – Può anche non essere vero, – disse Sharon. – Sono solo curiosa di sentire che effetto fa.


    Clem, annuendo, disse: – Non sono innamorato di te.


    Ci mise qualche istante per accorgersi del lapsus. Non era affatto quello che voleva dire. Era sbigottito.


    – Ma dimmi che lo sei, – disse Sharon.


    – Ci stavo provando. Mi è uscito male.


    – A dir poco!


    Clem tese le braccia, abbassò lo sguardo verso il loro punto di contatto peloso e scosse la testa davanti all’amara verità. – Io… non so se lo sono. Non credo di poterlo dire.


    Sharon storse la faccia come se la verità l’avesse scottata.


    – Mi dispiace, – disse Clem.


    – Non fa niente –. Sharon abbozzò un sorrisetto ironico. – Ci ho provato.


    – Oddio, Sharon, mi dispiace tanto.


    – Non fa niente, davvero. Finisci pure.


    Era generosa fino all’ultimo, ma anche in quello stato di suprema eccitazione Clem comprese che sarebbe stato scorretto ricavare ancora piacere da lei. Cominciò ad arretrare.


    – No, continua, – disse Sharon, cercando di ritirarlo dentro. – Dimentica che ho detto quella cosa.


    – Non posso.


    Stava piangendo. – Ti prego, continua. Voglio che continui.


    Clem non ci riusciva. Ricordava il discorsetto sul sesso, o quello che per lei era un discorsetto sul sesso, che gli aveva fatto sua madre prima che partisse per il college. Malgrado quello che avrebbe sentito dire al campus, l’aveva avvertito, il sesso senza coinvolgimento era vuoto e dannoso. Quella era l’antica saggezza. Come nel caso delle regole restrittive sulla frequentazione tra studenti maschi e femmine, si stava rendendo conto troppo tardi che i vecchi non erano del tutto stupidi. Sotto di lui c’era una ragazza piangente a dimostrarlo.


    Alzarsi dal letto lo rese consapevole dell’oscenità della sua erezione. Mentre Sharon continuava a piangere, Clem si tirò su i jeans e indossò il caban. Nella camera degli hippy al piano di sotto partí una familiare linea di basso, lo stesso album degli Who che ascoltavano da settimane. Scosse il pacchetto di sigarette di Sharon, ne tirò fuori una con le labbra e accese un fiammifero. In settembre aveva provato una delle sue Parliament e gli era piaciuta. Quando aveva capito che di per sé il fumo, cosí come il sesso, non conferiva la virilità, era ormai tristemente caduto nella dipendenza.


    – Posso farti un toast? – disse.


    Nessuna risposta. Sharon si era tirata addosso il copriletto e si era girata verso la parete, il suo pianto percepibile solo come un lieve fremito dei riccioli. Il letto era un materasso matrimoniale sopra una base a molle, la scrivania una porta tamburata sopra due cavalletti, la libreria una serie di assi di pino sostenute da mattoni. Clem ripensò alla prima volta che aveva visto i suoi libri, la grande quantità di tascabili in francese, l’austera bianchezza e uniformità dei loro dorsi. Allora, tre mesi prima, non avrebbe potuto immaginare niente di piú sexy di una donna molto intelligente. Anche adesso, se fossero stati fatti solo di mente e genitali, avrebbe potuto immaginare un futuro insieme a lei.


    Si chiese se non fosse meglio andarsene subito, se sarebbe stato un gesto gentile o vigliacco. Aveva deciso di lasciarla per lettera perché voleva parlarle da mente a mente, in maniera razionale, alla larga dall’abisso della tentazione. Ma ora l’aveva ferita, e lei stava piangendo. Forse la situazione parlava da sé? Forse discuterne ulteriormente le avrebbe fatto ancora piú male? Si sedette sul bordo del letto, aspirò il fumo nei polmoni maltrattati e aspettò di capire cosa fare. Di nuovo la libertà esistenziale, parlare o non parlare. Sotto il pavimento, gli Who continuavano a martellare.


    – Il prossimo semestre non torno, – si sentí dire. – Mollo l’università.


    Sharon si girò immediatamente a guardarlo, le guance bagnate.


    – Rinuncio al rinvio, – proseguí Clem. – Farò quello che mi ordinano di fare, che probabilmente significa Vietnam.


    – È una follia!


    – Davvero? Sei stata tu a dirmi che era la cosa giusta da fare.


    – No, no, no –. Si mise a sedere, stringendosi al petto la coperta. – È già insopportabile il fatto che laggiú ci sia Mike. Non puoi farmi questo.


    – Non lo sto facendo a te. Lo sto facendo perché è giusto. Il mio numero della lotteria è diciannove. L’hai detto anche tu: avrei già dovuto essere là.


    – Dio, Clem, no. È una follia.


    Quando Perry, il suo fratellino genio, era abbastanza grande da saper giocare a scacchi e abbastanza piccolo da poter essere battuto, Clem gli chiedeva sempre, prima di dargli scacco matto, se era sicuro della sua ultima mossa. L’aveva considerata una domanda magnanima da parte di un fratello maggiore, finché un giorno Perry, con la voce strozzata dalle lacrime – da bambino piangeva sempre, per una cosa o per l’altra –, gli aveva detto di smetterla di girare il coltello nella piaga. Ora non capiva perché avesse immaginato che Sharon avrebbe reagito diversamente.


    – Il Vietnam non mi ucciderà, – disse. – Non combattiamo piú sul terreno.


    – Quando hai cominciato a pensarci? Perché non me l’hai detto?


    – Te lo sto dicendo adesso.


    – È perché ti ho detto che sono innamorata di te?


    – No.


    – Ho sbagliato a dirlo. Non so nemmeno se sia vero. È che queste parole esistono lí fuori nel mondo, e a un certo punto ti chiedi come ti sentiresti a pronunciarle. Le parole hanno potere: pronunciandole si crea il sentimento. Mi dispiace di aver cercato di fartele pronunciare. Amo la tua sincerità. Amo… oh, merda –. Si accasciò, rimettendosi a piangere. – Sono veramente innamorata di te.


    Clem diede un ultimo tiro alla sigaretta e la schiacciò con cura nel portacenere. – Non c’entra con quello che hai detto. La lettera l’ho già spedita.


    Sharon lo guardò senza capire.


    – L’ho imbucata mentre venivo qui.


    – No! No! – Si mise a picchiarlo con i piccoli pugni, senza fargli male. L’aroma di sesso che emanava da lei e l’aggressività del proprio discorso lo eccitarono di nuovo. Pensò a quella volta che aveva barcollato in giro per la stanza con Sharon impalata su di sé, una cosa fantastica resa possibile dalla sua piccola statura. Temendo di ricadere nell’abisso dopo essere quasi riuscito a liberarsi, le afferrò i polsi e la costrinse a guardarlo.


    – Sei una persona meravigliosa, – disse. – Mi hai completamente cambiato la vita.


    – Questo è un addio! – esclamò Sharon, piangendo. – Io non voglio un addio!


    – Ti scriverò. Ti racconterò tutto.


    – No, no, no.


    – Non vedi che non siamo pari? Io amo quello che sei, ma non sono innamorato di te.


    – Vorrei non averti mai conosciuto!


    Si buttò verso il fondo del letto. Clem provava una compassione che era infinitamente piú reale dell’idea di diventare un soldato. La compativa perché era cosí piccola e lo amava, e per l’impasse logica in cui l’aveva messa, e perché era stata lei, paradossalmente, a trasformarlo nella persona che l’avrebbe lasciata, introducendolo a forme di conoscenza piú esistenzialistiche. Avrebbe voluto rimanere e spiegare, parlare di Camus, ricordarle la necessità di compiere scelte morali, farle capire quanto le era debitore. Ma non si fidava del proprio io animale.


    Si chinò e le mise la faccia tra i capelli. – Ti amo, – le disse.


    – Se mi amassi non te ne andresti, – rispose Sharon con voce chiara e rabbiosa.


    Clem chiuse gli occhi e per poco non si addormentò. Si sforzò di riaprirli. – Devo andare a fare le valigie.


    – Mi stai spezzando il cuore. Spero che tu lo sappia.


    L’unico modo per uscire dall’abisso era alzarsi in piedi, farsi forza e andarsene. Quando aprí la porta e la sentí gridare «Aspetta!», anche il suo cuore per poco non si spezzò. Chiudendosi la porta alle spalle venne colto, con sorpresa, da un attacco di singhiozzi. Era del tutto involontario, incontrollabile come un conato di vomito, ma meno familiare: non piangeva dal giorno dell’assassinio di Martin Luther King. Immerso in una foschia salata, corse giú per una rampa di scale coperta di moquette umida, superando una rimbombante massa sonora di Who in cui ora si distinguevano anche le note alte, attraverso un pungente odore di marijuana mattutina fumata nelle stanze comuni, e fuori nella fredda, grigia Urbana.


    Cinque ore dopo, alla stazione degli autobus dove aveva cominciato a nevicare, consegnò la sacca da viaggio e la gigantesca valigia, che gli avevano fornito un assaggio dell’addestramento militare quando le aveva trascinate per tutto il campus, e occupò uno degli ultimi posti liberi sull’autobus per Chicago. Era un posto di corridoio in mezzo alla sezione fumatori, e dietro di lui c’era una bambina urlante. Clem avvertiva cosí tanto la mancanza di Sharon, soffriva cosí incessantemente per la perduta speranza di nuovi incontri con lei, si sentiva cosí persistentemente vicino a ulteriori lacrime, che avrebbe potuto anche essere innamorato. Per quanto fosse difficile ottenere una concentrazione di fumo maggiore di quella già presente sull’autobus, prese una sigaretta dal caban, alzò il coperchio del portacenere incorporato nel sedile e cercò di soffocare le emozioni con la nicotina. La mostruosa impresa di spezzare il cuore a Sharon era compiuta, ma quel giorno aveva ancora altre cose da fare.


    Camus era del tutto ammirevole, e il suo pensiero aveva senso quando Clem ne discuteva con Sharon. Quando era solo, però, trovava che in lui ci fosse un problema. Forse perché era francese, Camus era un criptocartesiano: assumeva l’esistenza di una coscienza unitaria che valutava razionalmente le scelte morali, quando in realtà le vere motivazioni di una persona erano complesse e ingovernabili. Clem, ispirandosi a Sharon, aveva trovato un buon argomento morale per rinunciare al rinvio. Ma se avesse avuto solo quello, forse non avrebbe scritto all’ufficio di leva. C’erano altre decisioni forti a disposizione. Per esempio, avrebbe potuto lavorare per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’immoralità dei rinvii; avrebbe potuto lasciare Sharon semplicemente perché la loro relazione gli impediva di studiare. La specifica decisione che aveva preso era mirata direttamente a suo padre.


    Per tantissimo tempo, piú di sedici anni, Clem aveva ammirato il padre proprio per la sua forza. Da principio, in Indiana, dove la canonica cadeva a pezzi cosí in fretta che suo padre era sempre indietro con le riparazioni, Clem rimaneva sbalordito, persino intimorito, dal tendersi e dal contrarsi dei suoi grossi muscoli quando maneggiava il piccone o piantava un chiodo; dai torrenti di sudore che gli scorrevano addosso quando falciava le erbacce in un torrido giorno d’agosto. Il suo sudore aveva un aroma unico, indefinibile – non puzzava, assomigliava piuttosto all’odore di un fungo fresco o della pioggia appena caduta, ma aveva comunque un’intensità che turbava Clem. (Era stata una rivelazione, molto piú tardi, quando lavorava nel vivaio di New Prospect, sentire lo stesso identico odore sulle proprie T-shirt madide. A quanto ne sapeva, nessuno al mondo eccetto lui e suo padre produceva quell’odore. Si chiedeva, anzi, se qualcun altro riuscisse a sentirlo). Una sua spinta all’altalena lo mandava cosí in alto che doveva afferrarsi alle catene per paura di cadere. Un lieve scatto del suo polso e la palla da baseball volava verso di lui con tanta forza da fargli male alla mano attraverso il guantone. E le grida. La sua voce, quando l’alzava per la rabbia (sempre contro Clem, mai contro Becky), era un suono cosí fragoroso che una sculacciata, una misura a cui suo padre era contrario, sarebbe stata quasi preferibile.


    A Chicago era arrivato ad apprezzare anche la forza morale del padre. Quando aveva letto Il buio oltre la siepe, alle medie, aveva orgogliosamente riconosciuto la somiglianza fra lui e Atticus Finch. Le sue opinioni politiche erano una replica perfetta di quelle paterne, e dovevano essere autentiche, visto che erano sopravvissute agli elogi di sua madre. Clem condivideva con lui la ripugnanza per la guerra del Vietnam, e la convinzione che la lotta per i diritti civili era la questione fondamentale del momento. Durante la campagna paterna per desegregare la piscina pubblica di New Prospect, Clem era andato a suonare i campanelli da solo, distribuendo volantini e ripetendo alla lettera le parole del padre sul pregiudizio razziale. Malgrado avesse un raggio d’azione inferiore, non disponesse di un pulpito da cui predicare e non fosse mai salito su un autobus per l’Alabama, Clem seguiva il suo esempio su scala ridotta. Gli atleti della Lifton Central che perseguitavano i finocchi, le femminucce, avevano imparato presto a tenersi alla larga da lui. Quando vedeva una persona debole che veniva presa di mira, Clem diventava cosí furioso e cosí indifferente al dolore che riusciva a tenere testa a qualunque aggressore. In genere non era amico dei ragazzi che difendeva – se erano paria sociali, c’era una ragione. Faceva solo quello che suo padre gli aveva insegnato.


    Gli unici punti dolenti fra loro erano la religione e Becky. Niente di metafisico aveva senso per Clem, né Dio Padre né, ancora meno, l’assurdo Spirito Santo, e riguardo a Becky qualcosa era andato storto fin dall’inizio, un eccesso di gelosia o atteggiamento protettivo da parte di suo padre. Quando era solo con Becky, Clem avvertiva uno strano dissidio interiore. Avrebbe preso a pugni chiunque dicesse una parola contro il padre, ma non riusciva a impedirsi di minare il rispetto della sorella per il cristianesimo paterno. Tutto questo era ancora piú strano perché la sua stessa etica era fondamentalmente cristiana. Clem ammirava tantissimo Gesú, come maestro di morale e paladino di poveri ed emarginati. Ma in lui c’era un diavoletto riottoso, un alter ego sarcasticamente discorde, che veniva fuori quando era con Becky. Le aveva spiegato passo per passo la mancanza di fondamento delle forze immateriali, la carenza di solide conferme per le storie della Bibbia, l’indimostrabilità dell’esistenza di Dio, la non verificabilità dei «miracoli» con il metodo scientifico; e aveva funzionato. Aveva trasformato Becky in una piccola atea, e questa era diventata un’altra cosa che li univa, un’altra cosa da amare in sua sorella: la sua smorfia di disprezzo ogni volta che a tavola si parlava di Dio.


    Se riguardo al proprio ateismo Clem era piú cauto, era in parte per rispetto nei confronti di Gesú e in parte perché lui e suo padre lavoravano cosí bene insieme. Suo padre era paziente nell’insegnargli a usare gli attrezzi, e Clem, anche quando era stanco, si rifiutava di mollare per primo quando scavavano, rastrellavano o imbiancavano. Voleva l’approvazione paterna, per la sua etica del lavoro non meno che per le sue idee politiche, ed era grato per la frequenza e il calore con cui gli veniva espressa: non avrebbe potuto desiderare un padre migliore, da quel punto di vista. Quando aveva cominciato le superiori, e suo padre aveva avuto l’ispirazione di reindirizzare l’associazione giovanile della chiesa verso un campo di lavoro in Arizona, Clem non aveva lasciato che la sua visione della metafisica gli impedisse di iscriversi.


    Rick Ambrose si era unito a loro in quello stesso periodo. Durante il primo anno, quando era un seminarista a tempo pieno e un assistente solo part-time dell’associazione, portava i capelli corti, si tagliava la barba e si rimetteva alle decisioni del ministro associato. Ma dopo i disordini politici dell’estate successiva – Clem aveva fatto campagna elettorale per Eugene McCarthy, lavorando al fianco del padre, che in agosto aveva avuto un labbro spaccato mentre cercava di frapporsi tra poliziotti e dimostranti a Grant Park – Ambrose era tornato all’associazione con i capelli lunghi e i baffi alla Fu Manchu. Alcuni ragazzi della chiesa, in particolare Tanner Evans, avevano adottato lo stesso look. C’era una nuova turbolenza, una nuova insofferenza all’autorità negli incontri della domenica sera, ai quali cominciavano a partecipare ragazzi coi capelli lunghi di altre chiese o di nessuna chiesa, ma Clem non si preoccupava per suo padre. Cosa importava se un ministro consacrato si presentava ancora con la Bibbia e cominciava ogni incontro con una preghiera metafisica? MLK era un uomo devoto, e nessuno lo aveva ammirato di meno per questo. Clem non conosceva nessuno che lavorasse per la giustizia sociale piú appassionatamente di suo padre, e quando si ama davvero una persona, l’intera persona, si accettano anche le piccole cose che magari si vorrebbero diverse. Clem vedeva come la gente strabuzzava gli occhi quando suo padre si dilungava sulla religione agli incontri dell’associazione, ma anche Becky strabuzzava gli occhi, e ciò non significava che non gli volesse bene.


    Nella primavera del 1969 il gruppo era ormai cosí numeroso che il primo pomeriggio delle vacanze di Pasqua c’erano due pullman a noleggio ad attendere i ragazzi nel parcheggio della chiesa. Erano stati organizzati due campi di lavoro distinti in Arizona, e cosí sarebbe stato logico dividere il gruppo a seconda della destinazione. Invece, come si era capito subito, si era creato un pullman «in» – identificato come tale quando Ambrose aveva posato i bagagli lí accanto, e subito assalito dalla cricca di Tanner Evans –, e un pullman «out», con Clem e suo padre e i ragazzi conformisti della First Reformed. Per Clem, il pullman rappresentava solo un mezzo di trasporto verso l’aria sottile della mesa, l’aroma di pini e frybread, la possibilità di trasportare pietre e piantare chiodi per un popolo che il suo paese aveva derubato e oppresso. La dicotomia in-out gli sembrava del tutto puerile. A New Prospect nessuno era piú socialmente desiderabile di sua sorella, e lui sapeva per certo, dai racconti di Becky, che i ragazzi popolari non avevano piú spessore di quelli impopolari. Poiché aveva Becky, Clem non si era mai scomodato troppo per farsi degli amici a scuola, e i pochi buoni amici che aveva non erano nell’associazione, però era in rapporti abbastanza amichevoli con molti ragazzi conformisti. Anche la cicciona bisbetica, il freddurista incallito, il gaffeur immaturo avevano qualcosa di interessante da dire, se li si metteva a loro agio e ci si prendeva un momento per ascoltarli. Era quello che avrebbe fatto Gesú, e Clem si sentiva bene quando lo faceva.


    Suo padre, tuttavia, sembrava inquieto e distratto sul pullman dei ragazzi conformisti. Il loro autista era un po’ piú lento dell’altro, e lui, seduto alle sue spalle, allungava il collo per scrutare la strada, come se temesse di rimanere indietro. Clem si addormentò presto. Quando si svegliò durante la notte e vide che suo padre stava ancora scrutando oltre il parabrezza, pensò che fosse impaziente di arrivare. La situazione si chiarí solo al mattino, quando il loro pullman raggiunse l’altro, in un’area di sosta nel Texas Panhandle, e suo padre volle scambiarsi di posto con Ambrose.


    In teoria non c’era niente di male. Suo padre era il capogruppo, e sembrava corretto che condividesse la sua presenza pastorale con l’altro pullman. Ma quando Clem vide con quanto entusiasmo saltò a bordo, senza nemmeno guardarsi indietro, qualcosa si mosse dentro di lui. Sentí, nel profondo delle viscere, che suo padre non si era spostato perché era giusto cosí. L’aveva fatto perché voleva egoisticamente trovarsi sull’altro pullman.


    Quella sera, quando entrarono nel paesino di Rough Rock, in Arizona, l’intuizione di Clem venne confermata nel piú orribile dei modi. Nel buio, in una nuvola di polvere illuminata dai fari, c’era un caos di bagagli mentre il gruppo si divideva tra la metà che sarebbe rimasta a Rough Rock, con suo padre, e la metà che avrebbe proseguito fino all’insediamento di Kitsillie, sulla mesa, insieme a Ambrose. Qualche settimana prima, quando tutti si erano iscritti all’uno o all’altro gruppo, Clem aveva scelto Kitsillie perché le condizioni primitive di quel luogo gli si confacevano, ma la maggior parte dei ragazzi a bordo del pullman per Kitsillie lo aveva scelto per via di Ambrose. Fra questi c’erano Tanner Evans e Laura Dobrinsky, i loro amici musicisti e le ragazze piú carine del gruppo. Il pullman era carico e pronto a partire, mancava solo Ambrose, quando il padre di Clem salí a bordo con la sacca da viaggio.


    C’era stato, disse, un cambio di programma. Era meglio, aveva deciso, che lui guidasse il contingente di Kitsillie e lasciasse Rick a Rough Rock, dove c’era un dormitorio. Dopo un istante di silenzio attonito, sul pullman esplosero le grida di protesta di Laura Dobrinsky e delle sue amiche, ma era troppo tardi. L’autista aveva già chiuso lo sportello. Il padre di Clem occupò il posto di corridoio accanto al figlio e gli diede una pacca sul ginocchio. – Fantastico, – disse. – Cosí io e te passeremo una settimana insieme. Meglio, non trovi?


    Clem non rispose. Dai sedili in fondo venivano insistenti, rabbiosi sussurri femminili. Suo padre lo aveva intrappolato nel posto accanto al finestrino, e lui sentiva che se non fosse riuscito a fuggire sarebbe morto. La vergogna di essere il figlio di quell’uomo era una sensazione nuova e dolorosissima. Non gli importava cosa pensavano di lui i ragazzi «in». Il problema era che suo padre si era mostrato debole davanti a loro, abusando della sua misera autorità per requisire il pullman. E ora stava usando lui, assumendo quell’atteggiamento paterno per fingere di non aver fatto niente di male.


    La finzione proseguí sulla mesa. Il vecchio sembrava ignorare volutamente che il gruppo di Kitsillie ce l’aveva con lui perché aveva preso il posto di Ambrose. Sembrava non volesse rendersi conto di avere quasi cinquant’anni, il doppio di Ambrose, e di non essere intercambiabile con lui. Sí, era piú forte e piú abile di Ambrose, e sí, era pieno di energia: tornare alla mesa, ritrovare i navajo, camminare sulla terra che amava, tutto questo lo accendeva di entusiasmo. Ma ogni mattina, quando organizzava le squadre di lavoro, nessuno si offriva volontario per stare nella sua. Quando infine selezionava lui la squadra, e metteva insieme gli attrezzi e il materiale per la giornata, succedeva una cosa strana: tutte le ragazze della sua squadra che erano amiche di Laura Dobrinsky si scambiavano di posto con qualcun altro. Non poteva non averlo notato, eppure non vi faceva mai cenno. Forse era troppo vigliacco per sollevare la questione. O forse non gli importava cosa pensavano di lui le ragazze. Forse voleva solo impedire loro di trascorrere la settimana con l’amato Ambrose.


    Anche Clem era un caposquadra, l’unico non adulto al quale suo padre aveva affidato quella responsabilità. Un anno prima, quella manifestazione di fiducia lo avrebbe entusiasmato, ma adesso era solo riconoscente di non dover stare nella squadra di suo padre. Durante il giorno, la fatica fisica attenuava la paura di tornare nell’edificio scolastico dove il gruppo si era accampato, ma la vergogna lo attendeva sempre all’ora di cena. Si sentiva obbligato dai suoi principî a mangiare con il padre, che veniva evitato dagli altri, e a subirne i discorsi falsamente esuberanti sullo scavo per la fossa biologica. Vedendo i compagni ridere e mangiare tutti insieme, Clem si sentiva particolarmente maledetto e isolato. Avrebbe voluto essere il figlio di qualcun altro, di chiunque altro.


    Nell’associazione c’era l’usanza di riunirsi intorno a una candela dopo cena per condividere i pensieri e le sensazioni della giornata. Tutte le sere, a Kitsillie, le ragazze «in» formavano un muro di silenzio. Qualche sera dopo il loro arrivo, suo padre si spinse fino a chiedere alla piú carina, Sally Perkins, se avesse qualcosa da dire al gruppo. Sally, lo sguardo fisso sulla candela, scosse la testa. Il suo rifiuto di parlare era cosí significativo, e la tensione intorno alla candela cosí alta, che un confronto aperto sembrava inevitabile, ma Tanner Evans sapeva benissimo quando era il momento di mettersi a suonare la chitarra e guidare il gruppo nel canto.


    Se il padre di Clem era stato contento di evitare il confronto, mal gliene incolse. L’esplosione che seguí dieci giorni dopo, al primo incontro domenicale dopo il viaggio in Arizona, fu piú violenta proprio perché era stata soffocata. Era una serata insolitamente calda per aprile, e la sala degli incontri odorava di chiuso e di travi come una soffitta. Tutti avevano fretta di scendere di sotto per le attività, e quando il padre di Clem si fece avanti per pronunciare la preghiera di apertura, in quasi tutta la sala scese il silenzio. Lanciò un’occhiata a Sally Perkins e alle sue amiche, che invece stavano continuando a parlare, e alzò la voce. – Padre Celeste, – disse.


    – In questa sala servirebbe proprio un condizionatore, – osservò Sally ad alta voce, rivolgendosi a Laura Dobrinsky.


    – Sally, – ringhiò Rick Ambrose da un angolo della sala.


    – Cosa c’è.


    – Sta’ zitta.


    Dopo una pausa, il padre di Clem ritentò. – Padre Celeste…


    – No! – esclamò Sally. – Mi dispiace, ma no. Sono stufa di queste stupide preghiere –. Saltò in piedi e si guardò intorno. – Qualcun altro è stufo come me? Quello lí mi ha già rovinato il viaggio di primavera. Se continua cosí, vomito.


    Il disprezzo nella sua voce era sconvolgente. Malgrado quello che stava succedendo in ogni angolo del paese, per quanto l’autorità venisse ovunque contestata con rabbia, nessuno poteva parlare cosí in chiesa.


    – Anch’io sono stufa, – disse Laura Dobrinsky, alzandosi. – Siamo in due. Qualcun altro?


    Le altre ragazze «in» si erano alzate in massa. Il calore della sala stava soffocando Clem. Laura Dobrinsky si rivolse direttamente a suo padre.


    – Lei non piace neanche ai giovani navajo, – disse. – Sono stufi di stare a sentire i suoi predicozzi. Non vogliono che un bianco li tratti dall’alto in basso e gli trasmetta gli ordini del suo Dio bianco. Ma si rende conto di come la vedono gli altri? Forse aveva un buon rapporto con gli anziani, ai suoi tempi. E magari per loro va ancora bene. Ma sono anziani. Le stronzate da missionario non funzionano piú.


    Rick Ambrose si guardava torvo gli stivali, con le braccia strettamente incrociate. Il padre di Clem era sbiancato. – Posso dire una cosa? – disse.


    – Perché non prova ad ascoltare, per una volta? – replicò Laura.


    – Se c’è una cosa che so fare, Laura, credo sia ascoltare. È il mio lavoro.


    – Perché non ascolta se stesso, allora? Non mi sembra che lo stia facendo.


    – Laura, – disse Ambrose.


    Laura si rivoltò contro di lui. – Lo difendi? Perché sarebbe, cosa, il ministro consacrato? Questo è un punto a suo sfavore, per quanto mi riguarda.


    – Se hai un problema con Russ, – disse Ambrose, – dovresti parlarne direttamente con lui.


    – È proprio quello che sto facendo.


    – Faccia a faccia.


    – ’Fanculo. Non sono interessata –. Laura si rivolse di nuovo al padre di Clem. – Non sono interessata a una relazione con lei.


    – Mi dispiace molto, Laura.


    – Ah, sí? Non credo proprio di essere l’unica che la pensa cosí, qui dentro.


    – Sono d’accordo, – disse Sally Perkins. – Neanch’io voglio avere una relazione con lei. Anzi, non voglio neppure stare in questo gruppo, se c’è anche lei.


    Adesso piú della metà del gruppo era in piedi. Sopra il tumulto delle voci si levò il grido di Ambrose. – SEDUTI. Mettetevi tutti SEDUTI e STATE ZITTI, CAZZO.


    La folla gli obbedí. Anche se tecnicamente Ambrose era subordinato al padre di Clem, tutti sapevano chi era il vero leader del gruppo: chi era forte e chi era debole.


    – Stasera salteremo la preghiera, – disse Ambrose. – Per te va bene, Russ?


    Il vecchio annuí docilmente. Era debole! debole!


    – Non ci stai ascoltando, – disse Laura Dobrinsky. – Non capisci. Ti stiamo dicendo che o se ne va lui o ce ne andiamo noi.


    Ci furono grida di consenso, e Clem non riuscí a sopportarlo. Per quanto si fosse vergognato di suo padre in Arizona, non sopportava che si infierisse sui deboli. Alzò la mano, agitandola. – Posso dire una cosa?


    Subito tutti gli occhi furono su di lui. Ambrose annuí con aria di approvazione, e Clem si alzò, un po’ malfermo sulle gambe, il volto in fiamme.


    – Non riesco a credere che siate cosí cattivi, – disse. – Volete andarvene perché non vi piace una preghiera di due minuti? Neppure a me interessa pregare, ma non sono qui per le preghiere. Sono qui perché siamo una comunità impegnata ad aiutare i poveri e gli oppressi. E sapete una cosa? Mio padre ha preso questo impegno molto prima che voi nasceste. E si impegna molto piú di chiunque altro in questa sala. Credo che questo dovrebbe contare qualcosa.


    Tornò a sedersi. Una ragazza accanto a lui gli toccò il braccio in segno di solidarietà.


    – Clem ha ragione, – disse Ambrose. – Dobbiamo rispettarci a vicenda. Se non abbiamo il fegato per affrontare questo problema tutti insieme, non meritiamo di definirci una comunità.


    Sally Perkins stava fissando il padre di Clem. Sembrava ricavare una crudele soddisfazione dalla sua incapacità di guardarla. – No, – disse.


    – Sally, – disse Ambrose.


    – Mettiamolo ai voti, – propose Sally. – Quanti vogliono restare nel gruppo se c’è anche lui?


    – Non se ne parla nemmeno, – disse Ambrose.


    – Allora me ne vado.


    Si alzò di nuovo. Piú della metà del gruppo la imitò. Il padre di Clem aveva gli occhi spalancati dal dolore. – Vorrei dire qualcosa, – disse. – Statemi a sentire, va bene? Non so da dove arrivi tutto questo…


    Laura Dobrinsky si mise a ridere e uscí dalla sala.


    – Mi dispiace di non essere quello che volete, – disse il vecchio. – Credo di avere ancora tanto da imparare da voi. Tengo molto a questo gruppo. Stiamo lavorando benissimo, e vorrei continuare a dare una mano. Se volete che Rick guidi le preghiere, o che Rick guidi il gruppo, per me va bene. Ma se vi interessa crescere come persone, vorrei avere la possibilità di farlo anch’io. Vi sto chiedendo di concedermi questa possibilità.


    Clem subí una pietrificazione cosí letterale che se qualcuno gli avesse dato una martellata sarebbe andato in mille pezzi. Suo padre stava implorando. E senza alcun risultato, fra l’altro. Sally Perkins era uscita, e metà del gruppo la stava seguendo, affollandosi sulla soglia nell’impazienza di schierarsi con lei. Il vecchio li guardava con muto sconcerto animalesco.


    Ambrose, che si trovava in una posizione poco invidiabile, suggerí che Russ conducesse un esercizio di respirazione mentre lui andava a ragionare con i defezionisti. Di nuovo il vecchio annuí obbediente. Fra i ragazzi rimasti dopo l’uscita di Ambrose, Clem si stupí di vedere Tanner Evans.


    – Cominciamo a respirare, – disse il vecchio, con un tremito nella voce. – Ora mi sdraierò… ora ci sdraieremo tutti e chiuderemo gli occhi. Va bene?


    Avrebbe dovuto continuare a parlare, per guidare il gruppo in una visualizzazione, ma l’unico suono era il mormorio dei defezionisti di sotto. Mentre Clem se ne stava sdraiato nel caldo e cercava di respirare, la sua mente tornò a Becky: suo padre aveva sempre voluto essere il migliore amico di Becky, e poiché lo infastidiva che anche Clem lo fosse, aveva cercato di dividerli e avere una relazione separata con entrambi, ed era strano che avesse scelto proprio loro, dato che Becky era cosí popolare e Clem sapeva badare a se stesso. Nessuno dei due aveva bisogno di attenzioni particolari, come invece, per esempio, il loro fratello minore. Perry era ricco di talento ma povero di spirito, e il loro padre, che in pubblico la metteva giú dura sulla necessità di aiutare i poveri, non faceva altro che criticarlo. E ora la stessa cosa era accaduta nell’associazione. Anziché provvedere ai socialmente bisognosi, suo padre aveva cercato di separare i ragazzi popolari da Ambrose e tenerli per sé. Non era solo debole. Era disgustoso, un impostore morale.


    Sentendo dei passi, Clem si mise a sedere e vide suo padre seguire Ambrose fuori dalla sala. Ormai nessuno fingeva piú di fare l’esercizio di respirazione. Tanner Evans guardò Clem e scosse la testa.


    – La sai una cosa? – disse Clem. – Non voglio parlarne. Possiamo non parlarne?


    Ci furono mormorii di sollievo. I suoi compagni capivano.


    – Non lascio il gruppo, – aggiunse. – Ma credo che adesso andrò a casa.


    Uscí dalla sala e scese le scale barcollando, come se si allontanasse per motivi di salute. Alla canonica andò dritto in camera sua e chiuse la porta a chiave, aprí un romanzo di Arthur C. Clarke che aveva preso in biblioteca e si immerse nel mondo di qualcun altro. Quando sentí bussare alla porta, due ore erano svanite nel nulla.


    – Clem? – disse suo padre.


    – Vai via.


    – Posso entrare?


    – No. Sto leggendo.


    – Volevo solo ringraziarti, Clem. Volevo ringraziarti di quello che hai detto stasera. Puoi aprire la porta?


    – No. Vai via.


    La sofferenza causata dalla debolezza di suo padre era come una malattia, e continuò nelle settimane seguenti. Al successivo incontro domenicale si sentí come Tim Schaeffer, un ragazzo del gruppo che era stato operato per un cancro al cervello ed era tornato agli incontri per due mesi prima di morire. Tutti volevano essere suoi partner negli esercizi di costruzione della fiducia, nessuno gli faceva il culo se non se la sentiva di aprirsi sui suoi sentimenti. Rick Ambrose gli disse, in privato, che la sua difesa del padre era stata uno dei gesti piú forti e coraggiosi a cui avesse mai assistito. Ambrose passò poi a confidarsi con lui, a chiedere il suo aiuto per decisioni logistiche e a scherzare affettuosamente sul suo ateismo. Mai menzionato, e tuttavia evidente per Clem, era il riconoscimento del suo bisogno di una nuova figura paterna.


    Clem non rispettava piú il vecchio. Dopo avere scoperto la sua fondamentale debolezza, ora la vedeva in continuazione. Lo vedeva approfittare della gentilezza di Becky per trascinarla nelle passeggiate domenicali, lo vedeva distanziarsi dalla loro madre durante le funzioni per chiacchierare con le mogli degli altri, lo sentiva screditare il nome di Rick Ambrose perché piaceva ai giovani, lo sentiva ricordare che aveva marciato con Stokely Carmichael e lottato per desegregare la piscina a gente che se lo ricordava benissimo, lo vedeva contemplarsi nello specchio del bagno, toccandosi le sopracciglia incolte con la punta delle dita. L’uomo che aveva ammirato per la sua forza ora gli sembrava un’oscena macchia di grossolanità. Non sopportava di trovarsi nella stessa stanza con lui. Avrebbe rinunciato al rinvio di leva per mostrare a suo padre come si comportava un uomo forte.


    Il fumo a bordo dell’autobus per Chicago e il tempo all’esterno stavano imponendo un crepuscolo anticipato. La neve che cadeva sui campi di granturco velava e imbrattava i solchi e le stoppie, i silos lontani. La bambina sul sedile dietro di lui aveva inventato una parola, buh, e se ne era innamorata. Ogni volta che la diceva – Buh! – strillava di gioia, a intervalli perfettamente calibrati per tenerlo sveglio. Senza nessuna azione da parte sua, l’autobus lo stava portando avanti, verso il compito di dire ai genitori che aveva scritto all’ufficio di leva, lontano dalla violenza di ciò che aveva fatto a Sharon. La profondità di quella violenza stava diventando sempre piú evidente, il suo dolore piú atroce. L’unico sollievo che riusciva a immaginare era l’approvazione di Becky.

Disgustata da se stessa, la persona sovrappeso che era Marion fuggí dalla canonica. A colazione aveva mangiato un uovo sodo e una fetta di pane tostato, molto adagio, a piccoli bocconi, seguendo il consiglio di un’autrice di «Redbook» che sosteneva di avere perso diciotto chili in dieci mesi, e che «Redbook» aveva fotografato con una tutina da Barbarella per metterne in risalto il futuristico girovita da insetto, e che inoltre consigliava di scolarsi, al posto del pranzo, una lattina di un beverone dimagrante pubblicizzato su scala nazionale, di praticare tre ore di vigoroso esercizio fisico alla settimana, di ripetere mantra come Un minuto in bocca, una vita sui fianchi, e di comprare e impacchettare un regalino per se stesse da aprire ogni volta che si riusciva a perdere un tot numero di chili. A parte una fornitura decennale di sonniferi, non c’era nessun regalo che Marion desiderasse tanto da poterlo considerare una ricompensa, ma frequentava puntualmente le lezioni di ginnastica del martedí e del giovedí mattina alla chiesa presbiteriana, e ci sarebbe andata anche quel giorno se Judson non fosse stato a casa. Privata del mezzo panino con maionese al quale le dava diritto un’ora di ginnastica presbiteriana brucia-calorie, aveva pranzato con due gambi di sedano ripieni di formaggio spalmabile. Grazie a quelli era quasi riuscita a uscire di casa pronta ad affrontare un pomeriggio privo di tentazioni, ma uno dei biscotti che aveva preparato con Judson si era rotto a metà. Le era dispiaciuto vederlo cosí, rotto sulla griglia di raffreddamento insieme ai suoi compagni interi. Lei era la sua Creatrice, e mangiarlo era una forma di misericordia. Ma la dolcezza del biscotto le aveva scatenato l’appetito. Quando infine il disgusto era tornato a farsi sentire, ne aveva ormai mangiati altri cinque.


    Con le scarpe da tennis e il cappotto di gabardine piú volte rammendato, Marion procedette oltre gli alberi con la corteccia scura di umidità congelata, oltre le facciate residenziali che non promettevano piú la stabilità coniugale che avevano promesso negli anni Quaranta, quando erano state costruite. La sua andatura era piú dondolante che veloce, ma almeno non doveva temere che qualcuno la notasse. Nessuno faceva caso alla moglie di un pastore che passeggiava da sola, se non per compatirla perché non possedeva una macchina. Appena le persone la incontravano e identificavano la sua posizione nella comunità, collocandola all’estremità Molto Cordiale nell’importantissimo spettro della cordialità, Marion diventava invisibile ai loro occhi. In termini sessuali, era da escludersi che un uomo, scorgendola da una qualunque angolazione, si sentisse curioso di vederla da un’angolazione diversa, perché nessuna prospettiva poteva alleviare ciò che lei stessa e il tempo le avevano fatto. In particolare era diventata invisibile a suo marito. Invisibile anche ai suoi figli, resa anonima dalla densa, tiepida nube di mammità attraverso cui la percepivano. Benché ritenesse possibile che nessun abitante di New Prospect la trovasse antipatica, non aveva nessuna amica intima. Perennemente a corto di soldi, Marion era ancora piú carente nella valuta dell’amicizia, quei piccoli segreti che le amiche condividevano per costruire la fiducia. Lei aveva un sacco di segreti, ma erano tutti troppo grandi perché la moglie di un pastore potesse rivelarli senza rischi.


    Ciò che aveva invece delle amiche, di nascosto, era una psichiatra, e quel giorno era in ritardo all’appuntamento con lei. Marion detestava il jogging, il tonfo carnoso delle sue parti pesanti che si abbattevano sul terreno, ma quando svoltò in Maple Avenue cominciò a correre a passetti brevi, che plausibilmente bruciavano piú calorie per unità di distanza di una normale camminata. Le case di Maple Avenue erano un guazzabuglio di decorazioni competitive, con siepi, ringhiere e bordi dei tetti infestati di rampicanti di plastica verde carichi di frutti dai colori spenti. Marion non era sicura che il fascino notturno delle luci natalizie bastasse a compensare la bruttezza delle installazioni nelle ore diurne, che erano lunghe. Né era sicura che l’esaltazione dei bambini per il Natale bastasse a ripagarli della fatica disincantata con cui lo avrebbero affrontato nell’età adulta, che era altrettanto lunga.


    In Pirsig Avenue rallentò, proseguendo a passo di marcia. L’unica persona di New Prospect a conoscenza del fatto che Marion vedeva una psichiatra era la segretaria del prospero studio dentistico di Costa Serafimides, che si trovava in un basso edificio di mattoni vicino alla stazione. La moglie del dottor Serafimides, Sophie, vedeva i suoi pazienti psichiatrici in una stanzetta senza contrassegni fra due altre stanze identiche in cui si raschiava la placca e si otturavano le carie. Chiunque avesse notato Marion nella sala d’attesa avrebbe pensato che era lí per qualcosa del genere. Dallo studio di Sophie si udivano il cigolio di scarpe comode dalla suola di gomma e il gemito di cordini che trasmettevano il movimento tramite pulegge, e si sentiva il gradevole odore di disinfettante tipico del dentista. Lo studio conteneva due poltrone di cuoio, scaffali di opere di consultazione, diplomi incorniciati (Sofia Serafimides, Dottore in Medicina), e una credenza dai profondi cassetti pieni di farmaci. Era una specie di confessionale modernizzato, un luogo non molto appartato dove farsi raschiare l’interno della testa, pagando non in future Ave Marie ma in contanti e subito.


    Marion, a ventuno, ventidue anni, era stata una fervente cattolica. All’epoca credeva che la Chiesa le avesse salvato la vita, o almeno la salute mentale, ma piú tardi, dopo aver conosciuto Russ ed essersi trasformata in un’equilibrata protestante, era arrivata a vedere il suo cattolicesimo giovanile come un’altra forma di pazzia, piú sostenibile di quella che l’aveva fatta finire in ospedale a vent’anni, ma comunque patologica. Era come se, nella sua fase cattolica, avesse vissuto sotto una cappa che oscurava anche la giornata piú luminosa. Era ossessionata dal peccato e dalla redenzione, incline a credere ciecamente al significato di cose insignificanti – una foglia che cadeva ai suoi piedi, una canzone che sentiva in due posti diversi nello stesso giorno –, una paranoica convinta che Dio osservasse ogni sua azione. Quando si era innamorata di Russ, e aveva ricevuto le benedizioni meravigliosamente concrete del matrimonio con lui e di un figlio sano dopo l’altro, ciascuno cosí prezioso che sarebbe bastato anche da solo, Marion aveva chiuso una porta mentale sugli anni in cui il sole era oscuro e il suo unico amico, se si poteva chiamare amico un Essere infinito, era Dio. La ventiduenne che pregava senza sosta rappresentava soprattutto la persona che Marion aveva la fortuna di non essere piú.


    Solo la primavera precedente, quando Perry aveva avuto difficoltà a dormire e problemi con la scuola, Marion aveva riaperto quella porta mentale, per confrontare i sintomi del figlio con ciò che ricordava dei propri, e solo durante la prima seduta con Sophie Serafimides, nella stanzetta dall’aroma clinico, aveva cominciato a provare una vera nostalgia per i suoi anni cattolici. Aveva ricordato la consolazione che le davano le transazioni del confessionale, e l’amore che provava per l’immensità dell’edificio della Chiesa e la maestosità della sua storia, che avevano reso i suoi peccati, per quanto gravi, simili a goccioline in un secchio enorme: ricchi di precedenti, piú gestibilmente antichi. La cristianità predicata e praticata da Russ metteva pochissima enfasi sul peccato. Per molto tempo Marion si era sentita ispirata, intellettualmente, dalla convinzione di Russ che un vangelo di amore e comunione fosse piú fedele agli insegnamenti di Cristo che un vangelo di colpa e dannazione. Ma negli ultimi tempi aveva cominciato a dubitare. Amava i suoi figli piú di quanto amasse Gesú, la cui divinità rimaneva un po’ un punto di domanda e alla cui resurrezione dai morti lei fondamentalmente non credeva, però credeva senz’altro in Dio. Sentiva la Sua presenza dentro e intorno a sé in ogni momento. Dio c’era, non meno adesso che Marion aveva cinquant’anni di quando ne aveva ventidue. E amare Dio anche solo un po’, anche solo quando le capitava di chiedersi se Lo amasse, voleva dire amarLo piú di quanto potesse amare qualunque persona, compresi i suoi figli, perché Dio era infinito. Si chiedeva se le buone chiese protestanti come la First Reformed non commettessero un errore nel mettere tanta enfasi sugli insegnamenti morali di Gesú, allontanandosi in tal modo dal concetto di peccato mortale. La dottrina della colpa della First Reformed non era poi tanto diversa da quella della Ethical Culture Society. Era una versione del senso di colpa progressista, un’emozione che spingeva le persone ad aiutare i meno fortunati. Per un cattolico, la colpa non era solo un sentimento. Era l’inevitabile conseguenza del peccato. Era una cosa oggettiva, chiaramente visibile a Dio. Lui l’aveva vista mangiare sei biscotti, e il nome del suo peccato era ingordigia.


    Mentre marciava attraverso la zona commerciale di Pirsig Avenue, Marion cercò di non guardare le vetrine dei negozi, che con la loro merce esposta la rimproveravano per i regali che aveva comprato ai suoi figli. Era vero che Russ si opponeva alla commercializzazione del Natale e aveva stanziato allo scopo un budget striminzito, ma per i ragazzi era dura, soprattutto per Judson, che stava crescendo in un quartiere molto agiato. Marion gli aveva comprato un football da tavolo che, le aveva assicurato il venditore di giocattoli, tutti i ragazzi volevano, ma che probabilmente Judson era troppo intelligente per godersi a lungo. Per Becky aveva comprato una valigia carina, venduta a prezzo scontato probabilmente perché le sue dimensioni la rendevano poco pratica. Per Clem, in segno di apprezzamento per le sue ambizioni scientifiche, aveva comprato un microscopio di seconda mano che era probabilmente obsoleto a confronto di quelli della scuola. E per Perry… oh, Perry voleva cosí tante cose, e le avrebbe usate tutte in modo creativo, ed era cosí premuroso nei suoi confronti, cosí in sintonia con lei, che aveva alluso solo a regali che lei poteva permettersi. Per lui aveva comprato il mangianastri piú economico, il genere di oggetto che i negozi di elettrodomestici esponevano per assicurare ai compratori di altri mangianastri che non avevano scelto il peggiore. E nel frattempo, in fondo al cassetto delle calze, nel frattempo Marion aveva una busta contenente gli ottocento dollari in contanti che non aveva ancora speso per le sedute con Sophie Serafimides, la donna che pagava perché fosse sua amica.


    Sotto quell’egoismo si trovavano i cerchi piú profondi delle sue colpe. Mentiva e rubava, e una volta aveva fatto una cosa ben peggiore. Aveva mentito al marito fin dal giorno in cui l’aveva conosciuto, e aveva mentito alla figlia meno di un quarto d’ora prima, mentre usciva dalla porta sul retro: «Sono in ritardo per la lezione di ginnastica». Era in ritardo, d’accordo. Due ore di ritardo per una lezione di un’ora! I dollari nella tasca del cappotto di gabardine erano venti dei millequattrocento che aveva ricevuto dal gioielliere di Wabash Avenue al quale aveva portato le perle e gli anelli di brillanti che aveva messo da parte quando aveva svuotato l’appartamento di sua sorella a Manhattan. All’epoca, come esecutrice, si era detta che stava riparando un’ingiustizia perpetrata dalla sorella; che Becky aveva già fin troppi soldi in arrivo e non aveva bisogno di gioielli costosi. Il furto sarebbe stato ancora perdonabile se Marion si fosse attenuta alla sua decisione di spendere quei soldi per Perry, Clem e Judson, ai quali Shirley non aveva lasciato niente. Ma dopo la prima «ora» con Sophie, in giugno, quando Sophie aveva suggerito che un ciclo di sedute settimanali sarebbe stato piú utile della ricetta per un sonnifero, e aveva spiegato come funzionava il suo tariffario a fasce differenziate, e le aveva chiesto se poteva permettersi, diciamo, venti dollari alla settimana, e Marion aveva risposto che in effetti aveva a disposizione un piccolo fondo, era diventato impossibile negare la malvagità di quel furto.


    Grazie a quella corsa in Maple Avenue arrivò allo studio dentistico con soli cinque minuti di ritardo. Il parcheggio era piú vuoto del solito, la sala d’attesa occupata solo da una madre con un bambino che leggeva «Highlights for Children», apparentemente noncurante delle sofferenze orali che lo attendevano. Il fatto che la madre e il figlio fossero neri era una dimostrazione delle idee progressiste dei Serafimides, la cui istruzione li aveva portati non solo nei quartieri residenziali, ma anche, Marion lo sapeva perché l’aveva chiesto, fuori dall’ortodossia greca della loro infanzia; ora appartenevano alla Ethical Culture Society. La segretaria, sulla sessantina e anche lei greca, un modello di discrezione, rivolse a Marion un cenno silenzioso per autorizzarla a entrare direttamente nello studio.


    Sophie Serafimides era una donna che riempiva la sedia, con un fisico da raviolo, una bella carnagione olivastra e una grande massa di bianchi capelli ricci. Benché, quando l’aveva trovata sulle pagine gialle, fosse rimasta colpita dal cognome angelico, Marion aveva scelto Sophie per il nome di battesimo. Gli psichiatri dell’ospedale che l’avevano curata a Los Angeles erano cosí pieni di intollerabile paternalismo maschile che c’era da stupirsi se aveva recuperato la salute mentale. Trovare un medico femmina a New Prospect era stato una specie di miracolo, e se aveva «trasferito» su Sophie i suoi problemi con la madre, una donna anaffettiva che evitava la realtà, morta di una malattia epatica nel 1961 dopo avere interrotto da tempo i rapporti con lei, Marion non se ne era ancora resa conto. Sophie Serafimides era un concentrato di realtà. Emanava – personificava – calore mediterraneo e buonsenso, cosa che a sua volta poteva risultare intollerabile, ma di cui Marion non poteva biasimarla.


    Nulla riusciva gradito al raviolo quanto un sogno fresco, ma quel giorno Marion non aveva sogni per lei, e comunque preferiva la confessione. Dopo aver appeso il cappotto si sedette e confessò che indossava la tuta da ginnastica perché aveva dovuto mentire a Becky su dove stava andando. Confessò di avere divorato – trangugiato, spazzolato – sei biscotti. Sophie sorrise amabilmente a quelle confessioni. – Il Natale viene solo una volta all’anno, – suggerí.


    – So che secondo lei sono troppo ossessionata dal peso, – disse Marion. – So che secondo lei non è questo il punto. Ma lo sa quanto pesavo stamattina? Sessantacinque chili! È da settembre che patisco la fame, faccio esercizi per gambe e addominali, evito i dolci, e ho perso meno di tre chili in tre mesi.


    – Abbiamo visto che vuol dire contare le cose. Usare i numeri per punire noi stessi.


    – Mi dispiace, ma per una persona della mia statura sessantacinque chili sono oggettivamente tanti.


    Sophie sorrise amabilmente con le mani giunte sul ventre, la cui ampiezza non sembrava imbarazzarla. – Mangiare biscotti è una reazione interessante al sentirsi in sovrappeso.


    – Be’, Becky mi stava scocciando… d’un tratto è diventata insopportabile. Se fosse solo irritabile e reticente saprei come gestirla, ma ieri sera Tanner Evans ha telefonato per chiedere dov’era, e poi l’ho sentita rientrare a casa a mezzanotte passata, e stamattina si è alzata di buon’ora, cosa che non succede mai. Non mi racconta niente, ma si vede che è felice. E stavo pensando a com’è dolce essere innamorati per la prima volta… non c’è niente di piú dolce al mondo.


    – Sí.


    – Tanner è un ragazzo fantastico. Ha talento, va in chiesa, è bellissimo. Quando penso alla mia adolescenza, al disastro che è stata… Becky è tutto il contrario. È un’ottima persona che prende ottime decisioni. Sono orgogliosa di lei… sono felice per lei.


    Sophie sorrise amabilmente. – Cosí orgogliosa e felice che ha dovuto mangiare sei biscotti.


    – Perché no? Anche se patissi la fame per un anno, non riavrei mai piú diciotto anni.


    – Sul serio vorrebbe avere di nuovo diciotto anni?


    – Se potessi tornare indietro ed essere come Becky? Cancellare la mia vita e rifarla da capo? Senza pensarci due volte.


    Il raviolo sembrò resistere all’impulso di contraddirla. – Okay, – disse. – C’è dell’altro?


    Sapeva già la risposta. «Dell’altro» era sempre Russ. Marion, nella sala d’attesa, aveva visto pazienti uscire dalla clinica con un’espressione sconvolta che difficilmente poteva essere l’esito di un appuntamento con il dentista, ed erano tutte donne di mezza età. Da ciò aveva dedotto che la clientela di Sophie consisteva specialmente di mogli, mogli depresse, mogli i cui mariti le avevano lasciate o erano sul punto di farlo, ora che l’epidemia di divorzi stava travolgendo New Prospect. Con una clientela del genere, era comprensibile che Sophie vedesse tutti i mariti come sospetti a priori. Al martello ogni cosa sembra un chiodo. Durante la loro prima «ora» insieme, Marion aveva intuito che Sophie trovava antipatico Russ senza averlo mai visto. Nelle «ore» successive aveva provato a spiegarle che il problema non era il suo matrimonio, che Russ non era come gli altri mariti, che era solo stato scosso da un’umiliante crisi lavorativa, mentre Sophie, con il suo sorriso amabile, le chiedeva perché, se non era preoccupata per il suo matrimonio, veniva da lei a parlarne ogni giovedí. Alla fine, in agosto, Marion aveva ammesso che qualcosa era cambiato in Russ – aveva un portamento piú eretto, si prendeva maggiormente cura di sé, mentre sembrava intensamente disgustato da lei e si arrabbiava per ogni minima cosa che diceva – e che non sapeva piú cosa avrebbe potuto fare. Sophie l’aveva considerata una «svolta» da parte di Marion, e aveva graziosamente concesso che forse valeva la pena di lottare per salvare il suo matrimonio. Le aveva suggerito di mettersi in gioco nel mondo, crearsi una vita indipendente, fornire a Russ un nuovo contesto in cui vederla. Magari, visto che i soldi erano comunque un problema, poteva trovarsi un lavoro part-time? O iscriversi a un’università per adulti? Il piano di Marion per salvare il suo matrimonio era perdere dieci chili entro Natale. Sophie, che pesava molto piú di lei e tuttavia sembrava piacere ancora al suo piccolo e segaligno marito dentista, aveva approvato quel piano con riluttanza. Se voleva perdere peso doveva farlo per se stessa, come modo per riprendere il controllo della sua vita.


    – Credo che oggi a colazione Russ mi abbia mentito, – disse ora Marion, per fare contenta la sua amica a pagamento, che prendeva ogni nuova lamentela su Russ come un segno di progresso verso… cosa? Il realistico riconoscimento che il suo matrimonio era morto? – Nel momento in cui è sceso di sotto, ho capito che era emozionato. Quando è contento continua a muovere le gambe, come un bambino. O come Elvis… non riesce a tenere fermi i fianchi. Portava la camicia che gli ho preso per il suo compleanno, che sapevo gli sarebbe stata bene perché è di un azzurro che riprende il colore dei suoi occhi, e mi è sembrato strano, visto che oggi deve fare solo delle visite pastorali e una consegna alla chiesa di Chicago e poi una festa casalinga, per la quale dovrà cambiarsi comunque. Cosí gli ho chiesto se avesse altri programmi, e lui ha detto di no, e allora mi è venuto un dubbio su quella consegna, perché Frances Cottrell fa parte del circolo femminile. Frances…


    – La giovane vedova, – disse Sophie.


    – Proprio lei. Finirà per distruggere qualche matrimonio, prima o poi, e adesso è nel circolo guidato da Russ che fa servizio nei quartieri poveri, e cosí gli ho chiesto chi lo accompagnava a fare la consegna. Ed è stato come se si aspettasse la domanda. Mi ha praticamente interrotta per rispondere. Ha detto: «Solo Kitty Reynolds». Anche Kitty fa parte del circolo. Adesso è in pensione… prima insegnava alle superiori. La cosa strana è stata la rapidità della risposta. E poi la camicia, e l’agitazione delle gambe, perciò.


    – Perciò.


    – Be’, non la nomina mai. Frances. L’ho vista per caso nel parcheggio, un giorno che stavano andando in città. L’unica volta che ha pronunciato il suo nome è stato quella sera, quando gli ho chiesto di lei.


    – È giovane.


    – Abbastanza giovane. Ha un figlio alle superiori.


    – Giovane è giovane, – disse Sophie. – Costa ama parlare del primo giorno tiepido di primavera, quando le giovani donne escono di casa in abiti estivi. Un uomo si tira su di morale quando è in mezzo a belle ragazze. Può anche non esserci niente di male. Anche a me piace vedere quegli abiti estivi.


    Era interessante notare come Sophie, la quale assumeva il ruolo dell’accusa quando Marion difendeva Russ, cambiasse idea e si schierasse a favore della tolleranza quando lei lo attaccava. Marion si chiese se fosse una sottile strategia terapeutica o semplicemente un modo per farla tornare ogni settimana con venti dollari.


    – Credo di non avere ancora raggiunto quel livello superiore, – disse con irritazione. – Lo sa cosa penso che mi abbia spinta a mangiare i biscotti? Penso che Becky fosse una persona felice di troppo da affrontare in una sola mattina.


    – Per lei era meglio quando Russ soffriva.


    – Può darsi. Sí. Abbiamo in qualche modo stabilito che non sono una cattiva persona? In tal caso non me ne sono accorta.


    – Lei si sente una cattiva persona.


    – Io so di essere una cattiva persona. Lei non ha idea di quanto sia cattiva.


    Il sorriso di Sophie lasciò il posto a un’espressione piú critica. La tempistica dei suoi cipigli terapeutici era comicamente prevedibile. Aveva un effetto infantilizzante su Marion.


    – Avrei potuto mangiarli tutti, quei biscotti, – disse. – Non l’ho fatto solo perché poi non ce ne sarebbero stati piú per Judson. Ma avrei potuto senz’altro mangiarli tutti. Ho perso meno di tre chili dopo tre mesi passati a patire la fame, e comunque nessuno l’ha notato. Io non mi merito di essere magra. Quel che mi merito è la cosa disgustosa che vedo allo specchio tutte le mattine.


    Sophie lanciò un’occhiata al blocchetto a spirale che teneva sul tavolino. Non ci scriveva niente dall’estate. In quell’occhiata c’era un accenno di minaccia.


    – Non solo io, tra parentesi, – disse Marion. – Credo che tutti siano cattivi. Credo che la cattiveria sia la condizione fondamentale dell’umanità. Se amassi davvero Russ, non mi rallegrerei di vederlo di nuovo felice? Anche se volesse dire che frequenta la giovane e bella vedova e me lo tiene nascosto? Io non voglio davvero che lui sia felice. Voglio solo che non mi lasci. Stamattina, quando l’ho visto con quella camicia, mi sono pentita di avergliela regalata. Se la sofferenza è ciò che occorre perché rimanga sposato con me, allora preferisco che soffra.


    – Lei dice cosí, – disse Sophie, – ma non sono sicura che ci creda.


    – Inoltre, per sua informazione, – disse Marion, alzando la voce, – io per venire qui le pago una cifra che non posso permettermi, perciò non mi interessa sapere quanto siete equilibrati lei e suo marito.


    – Deve avere frainteso quello che ho detto.


    – No, ho inteso benissimo.


    Sophie lanciò un’altra occhiata al blocchetto. – Cosa mi ha sentita dire?


    – Che lei non è depressa. Che ha un matrimonio felice. Che non ha idea di cosa significhi guardare una ragazza con un abito estivo e augurarle una vita terribile, una vita terribile quanto la sua. Che è cosí fortunata da non sapere quanto è fortunata. Che non le è mai toccato scoprire che tutto l’amore umano è egoista, che tutta la gente è cattiva, e che l’unico amore sicuramente non egoista è l’amore per Dio, il che non è un gran premio di consolazione, ma è tutto quello che abbiamo.


    Sophie trasse un lento respiro. – Mi sta dando parecchio, oggi, – disse. – Vorrei capire meglio da dove viene.


    – Odio il Natale. Non riesco a dimagrire.


    – Sí. Una bella delusione, non ne dubito. Ma sento che c’è qualcos’altro.


    Marion girò la faccia verso la porta. Pensò ai soldi nel cassetto delle calze e al brutto mangianastri a buon mercato che aveva comprato per Perry. Non era troppo tardi per andare a prendergli un bel set di componenti per lo stereo, o una macchina fotografica di buona qualità, qualcosa che gli sarebbe piaciuto davvero, qualcosa per espiare in qualche modo l’oscurità che gli aveva messo nella testa per il semplice fatto di essere sua madre. Gli altri figli se la sarebbero cavata bene, ma lei temeva che Perry non ci sarebbe riuscito, ed era insopportabile sapere che l’instabilità che avvertiva in lui era venuta da lei. Se avesse continuato a vedere Sophie, i soldi sarebbero finiti entro l’estate, e lei non ne avrebbe ricavato altro che quei momenti bisettimanali in cui Sophie, con uno strano movimento di rovescio, senza guardare, allungava il braccio dietro di sé e apriva un cassetto della credenza per tirare fuori un’altra manciata di campioni medici gratuiti di Sopor™, metaqualone, 300 mg. I campioni erano l’unica cosa indiscutibilmente utile che Marion riceveva in cambio dei venti dollari alla settimana. Una prescrizione le sarebbe costata meno, ma lei non voleva essere una donna con una prescrizione. Preferiva fingere che la sua depressione ansiosa fosse temporanea e che i campioni di farmaci fossero un modo mirato di trattarla. I sintomi piú preoccupanti di Perry si erano ridotti, e in autunno il ragazzo era entrato nell’associazione giovanile della chiesa e Marion si era concessa di credere che Sophie avesse ragione – che il problema fosse il suo matrimonio. Aveva creduto che Sophie potesse aiutarla a stare meglio. Ma non stava meglio. In effetti il Sopor riusciva a indurle un sonno profondo piú di quanto avesse fatto un tempo la confessione, ma almeno nel confessionale aveva potuto raccontare le peggiori verità su se stessa. Nel confessionale poteva essere pazza e infelice quanto voleva senza che le venisse richiesto di lottare per salvare il suo matrimonio, un matrimonio che ormai riteneva impossibile da salvare, perché tanto per cominciare non se lo era affatto meritato, visto che l’aveva ottenuto con l’inganno. Quel che meritava era un castigo.


    – Marion? – disse Sophie.


    – Non funziona.


    – Cosa non funziona?


    – Lei. Questo. Io. Tutto quanto.


    – Le vacanze sono molto difficili. La fine dell’anno è difficile. Ma i sentimenti che vengono a galla possono fornire materiale utile su cui lavorare.


    – Una svolta, – disse Marion in tono aspro. – Stiamo facendo un’altra svolta?


    – Lei si sente una cattiva persona, – la imbeccò Sophie. Venti dollari erano la fascia piú bassa del suo tariffario, ma evidentemente garantivano comunque a Marion il diritto di essere odiosa come non si permetteva mai di essere con nessun altro, ricevendo in cambio amabili sorrisi.


    – È un fatto, non una sensazione, – disse.


    – Cosa intende, di preciso?


    Marion chiuse gli occhi e non rispose. Dopo un po’ cominciò a domandarsi cosa sarebbe successo se avesse continuato a non dire niente, se fosse rimasta in silenzio per il resto dell’«ora» e poi fosse uscita dallo studio senza proferire parola. Aveva Sopor a sufficienza per una settimana, ed era molto tentata di non dare a Sophie nient’altro su cui lavorare, di lasciare il raviolo lí seduto a guardare una paziente con gli occhi chiusi, tentata di punirlo per non averla aiutata a stare meglio, di fargli ben capire che non stava affatto meglio, di essere la persona che taceva le cose anziché la moglie e la madre a cui le cose venivano taciute. Ogni minuto potenzialmente terapeutico in cui restava in silenzio erano altri quaranta centesimi sprecati, e il deliberato spreco di minuti la tentava con lo stesso autolesionismo che l’aveva spinta a mangiare i biscotti. L’unico spreco piú malignamente appagante di non dire nulla per il resto dell’«ora» sarebbe stato tacere fin dal momento in cui si era seduta. Si pentí di non averlo fatto.


    Dopo alcuni minuti di silenzio, contrassegnati solo dal ronzio delle attrezzature odontoiatriche in fondo al corridoio, Marion sbirciò Sophie di sottecchi e vide che anche lei aveva gli occhi chiusi, l’espressione neutra, le mani mollemente giunte in grembo, come per dimostrare le sue capacità di pazienza professionale. Bene, era un gioco a cui si poteva giocare in due.


    In estate, nell’impeto iniziale della loro amicizia a pagamento, Marion le aveva raccontato la verità riguardo a certe cose su cui aveva mentito a Russ, o che aveva omesso e ora non poteva piú dirgli. I fatti principali erano che nel 1941 aveva trascorso quattordici settimane in un ospedale psichiatrico di Los Angeles a seguito di un grave episodio psicotico, e che, al contrario di quanto aveva raccontato a Russ in Arizona poco dopo averlo conosciuto, non aveva avuto un breve matrimonio fallito con un uomo di Los Angeles inadatto a lei. Un uomo c’era stato davvero, ed era davvero sposato, ma con un’altra, e Marion si era sentita in obbligo di avvisare Russ che lei era merce usata. Aveva fatto la sua «confessione» in una legittima tempesta di lacrime, temendo che il suo essere stata «sposata» e «divorziata» avrebbe spinto il suo bravo e bel ragazzo mennonita ad allontanarsi inorridito e rifiutarsi di rivederla. Per fortuna la bontà di cuore di Russ e la sua attrazione fisica per Marion avevano trionfato. (Ad allontanarsi erano stati poi i suoi genitori, mennoniti piú intransigenti di lui). In Arizona Marion aveva creduto di essere diventata una persona nuova, solidamente ancorata alla realtà dalla conversione al cattolicesimo, come se i terribili fatti di Los Angeles non avessero piú importanza. Quando aveva rivelato a Russ metà della verità su metà della storia, aveva già smesso di andare a confessarsi.


    Solo quando era arrivata al confessionale di Sophie, piú di vent’anni dopo, si era resa conto di quanto avesse bisogno di alleggerirsi la coscienza. Poiché il segreto professionale era inviolabile quanto quello confessionale, avrebbe potuto tranquillamente raccontare tutto al raviolo, ma certe cose riguardavano solo lei e Dio (e un tempo, in Arizona, l’intercessore sacerdotale di Dio). L’assoluzione che le aveva impartito Sophie non era dai peccati, ma dalla paura di avere una sindrome maniaco-depressiva. A quanto pareva soffriva solo di depressione cronica, con tendenze ossessive e leggermente schizoidi. A paragone della sindrome maniaco-depressiva, quella diagnosi era una consolazione.


    Fino a un certo punto, la storia che quell’estate Marion aveva raccontato a Sophie, mentre lei prendeva appunti sul blocchetto, era la stessa che aveva raccontato al giovane Russ. Cominciava con suo padre, Ruben, il capace figlio di un vedovo ebreo tedesco con una bottega di calzolaio a San Francisco, che frequentava l’università a Berkeley all’epoca del grande terremoto. Ruben, tifoso della squadra di football di Berkeley, i Golden Bears, aveva avuto l’idea di avviare una manifattura di uniformi atletiche. La nazione impazziva per gli sport liceali e universitari, e Ruben, uscito dal college, aveva avuto un certo successo con la vendita di uniformi alle scuole superiori. Le università, tuttavia, erano controllate da uomini di vecchie famiglie californiane che conducevano i loro affari in un ambiente precluso agli ebrei. Marion supponeva che la sua decisione di corteggiare una ragazza «artistica» di quell’ambiente fosse dovuta in parte a un freddo calcolo affaristico e in parte ad ambizione sociale, oltre che, presumibilmente, a un pizzico di attrazione fisica. La madre di Marion, Isabel, era una californiana di quarta generazione, appartenente a una famiglia i cui possedimenti un tempo estesi, in città e nella contea di Sonoma, erano già stati in gran parte dilapidati – amministrati male, liquidati intempestivamente, donati in beneficenza per guadagnare punti in società, imprudentemente suddivisi fra eredi incapaci – quando lei e Ruben si erano conosciuti. Un fratello di Isabel gestiva col pugno di ferro quel che restava dei terreni di famiglia a Sonoma, l’altro era un pittore paesaggista, di mezzi limitati e scarsa notorietà. Isabel aveva vaghe aspirazioni musicali, ma a quanto pareva non faceva altro che partecipare alla vita culturale di San Francisco, andarsene in giro sulle auto di amici piú ricchi e trascorrere lunghi fine settimana nelle loro case di campagna. Come avesse fatto Ruben a infilarsi in una di quelle case, Marion non lo scoprí mai, ma nel giro di due anni aveva saputo sfruttare un matrimonio vantaggioso per ottenere contratti con i dipartimenti sportivi di Stanford e Berkeley. Quando era nata Marion, Ruben era il piú grande produttore di abbigliamento sportivo a ovest delle Montagne Rocciose. Aveva costruito per Isabel una casa di tre piani a Pacific Heights, ed era lí che Marion era cresciuta (per un po’) come una bambina ricca.


    Nei suoi ricordi, la casa era piú buia di un cielo cattolico. Spessi tendaggi affievolivano ulteriormente la luce indebolita dalla nebbia che cadeva sui pesanti mobili di rovere tinto allora tanto in voga. Sua madre sembrava considerare lei e Shirley come aberrazioni che il suo corpo aveva inspiegabilmente ospitato due volte per nove mesi, la loro nascita una deplorevole interruzione della sua vita sociale, ma per il resto un sollievo simile al passaggio di un calcolo renale. Il cuore di suo padre avrebbe potuto contenere due figlie se la prima, Shirley, non lo avesse già riempito troppo. L’ossessionabilità (come la definiva il raviolo) di Ruben serviva al successo della sua impresa, la Western All-Sport, alla quale dedicava sessanta o settanta ore alla settimana, ma a casa serviva solo a far sentire invisibile Marion. La prediletta di Ruben era Shirley. Quando gli capitava di guardare Marion, spesso era per chiederle: «Dov’è tua sorella?» Shirley era la piú carina, anche da piccola, e dava per scontata l’adorazione del padre. Il mattino di Natale non si buttava sul suo immenso bottino di regali con una normale avidità infantile. Li scartava con diffidenza da commerciante, esaminandoli a uno a uno in cerca di difetti di produzione, e li ordinava per categorie, come spuntandoli dalla lista che aveva in mente. Il trillo ripetuto della sua voce – «Grazie papà» – sembrava il tintinnio di un registratore di cassa. Marion cercava rifugio da quegli eccessi concentrandosi su una sola bambola, su un solo giocattolo, mentre sua madre sbadigliava di noia manifesta.


    Per sua madre il Natale rappresentava la separazione forzata dalle quattro amiche con cui faceva tutto. Le amiche appartenevano a vecchie famiglie con patrimoni meno dilapidati del suo, e benché tre di loro avessero marito e figli, tutte e cinque erano innamorate di sé come gruppo. Erano state il magnifico quintetto della classe del 1912 a Lowell, dove avevano unanimemente deciso che se il mondo non capiva la loro magnificenza erano affari del mondo e non loro, e da allora non si erano mai piú stancate di pranzare insieme, fare acquisti insieme, andare alle conferenze e a teatro insieme, leggere libri insieme, promuovere meritevoli cause sociali insieme. Marion era arrivata a capire che la posizione della madre nel quintetto era sempre stata la piú precaria – aveva cominciato con il patrimonio piú scarso e poi aveva sposato un ebreo – e perciò la piú fanaticamente difesa. Isabel viveva nella paura di essere la ruota di scorta, e a Natale si tormentava per le tre amiche i cui mariti erano a loro volta buoni amici, per i ritrovi non a cinque che potevano avvenire senza di lei.


    Viziare Shirley non era la sola cosa che suo padre non riusciva a smettere di fare. A cominciare da quando Marion aveva sei o sette anni, sembrava diventato incapace di dormire. Svegliandosi nel cuore della notte, Marion lo sentiva suonare il ragtime, da autodidatta, al pianoforte due piani piú in basso. Era anche un architetto autodidatta, e altre notti solitarie le passava con i suoi strumenti da disegno, eternamente impegnato a riprogettare una casa ancora piú imponente. Al lavoro comprava attività piú e meno fiorenti della sua – il suo obiettivo ossessivo era aprire una catena di negozi di articoli sportivi su scala nazionale – e faceva anche investimenti piú speculativi, impiegando il suo speciale intuito per la scelta delle azioni, il suo speciale talento per gli acquisti di margine proprio al momento giusto. Fumava sigari enormi e indossava un cappotto di procione per andare alle partite di football della squadra di Berkeley, a volte portando Marion con sé nei suoi posti riservati davanti alla linea delle cinquanta yard, perché Shirley e sua madre non erano interessate. Parlava senza sosta per tutta la partita, in un linguaggio tecnico perlopiú incomprensibile a una bambina di sette anni. Conosceva il nome di ogni giocatore dei Golden Bears e aveva un taccuino su cui disegnava X e O per mostrare a Marion come si era svolta un’azione, o per studiare nuove azioni che intendeva mostrare al capo allenatore della squadra, Nibs Price, del quale lui, le confidava, avrebbe saputo fare meglio. Non era mai maleducato, ma parlava a voce alta e accalorata, e Marion si accorgeva con imbarazzo che gli altri tifosi continuavano a guardarlo.


    Quanto assomigliava a una malattia mentale l’economia di una nazione! In seguito Marion si era chiesta per quanto tempo ancora, se il mercato azionario non fosse crollato, suo padre sarebbe rimasto nella fase maniacale, e se sarebbe riuscito, qualora la malattia fosse insorta piú tardi, a essere maniacale nel bel mezzo di una depressione. Erano ipotesi difficili da considerare, perché col senno di poi la coincidenza del crollo dei mercati e del crollo di suo padre sembrava inevitabile. Nelle settimane successive al Martedí nero, Ruben si era puntualmente precipitato a salvare quello che poteva delle sue proprietà cariche di debiti, ma la sua voce, al telefono dello studio da dove comunicava con New York prima di andare in ufficio, aveva lo stesso tono di quando aveva preso accordi per il funerale di suo padre. Marion tornava da scuola e lo trovava in salotto, in maniche di camicia e bretelle, lo sguardo fisso sulla griglia del camino spento. A volte le parlava della singolare sfortuna che l’aveva colpito, e quel poco che Marion capiva, a otto anni, di acquisti di margine e azioni minerarie era comunque piú di quanto la madre e la sorella maggiore volessero sapere. Sua madre era sempre piú assente, e Shirley era freddamente delusa dal flusso calante di regali, dalla povertà del Natale del 1929, dal dileguarsi della seconda casa a Larkspur nella cui piscina le avevano promesso che avrebbe nuotato l’estate seguente.


    Il fatto che suo padre, anche quando la luce nei suoi occhi si era ormai spenta, fosse riuscito non solo a salvare la casa ma anche a portare il cibo in tavola e a pagare le lezioni di danza e canto di Shirley, era una dimostrazione delle sue capacità. Adesso lavorava come direttore commerciale della Western All-Sport, che aveva venduto, per una cifra inferiore al suo valore contabile, per coprire le altre perdite. In uno stato mentale simile a quello che in seguito avrebbe fatto finire Marion in ospedale, e forse anche peggiore, si trascinava fuori dal letto tutte le mattine feriali, si trascinava un rasoio sulle guance, si trascinava fino al tram, si trascinava alle riunioni di una società che non aveva alcuna speranza di riacquisire, e poi si trascinava a casa da una moglie ostile, da una figlia preferita che lo torturava con la sua delusione, e da Marion, che si sentiva responsabile dell’accaduto. Lei, essendo invisibile, aveva notato certe cose che erano sfuggite agli altri tre. Aveva capito che qualcosa non andava.


    Mentre anche suo padre diventava invisibile – un fantasma dal colorito grigiastro che dormiva nello studio, parlava mormorando, scuoteva la testa quando gli veniva chiesto di ripetere qualcosa –, Marion si prendeva cura di lui come meglio poteva. La sera andava a prenderlo al tram e gli chiedeva notizie dei suoi Golden Bears. Bussava alla terribile porta chiusa dello studio e sfidava il cattivo odore per portargli un frutto tagliato a fette. Il suo cibo preferito era sempre stata la frutta, in tutta la sua freschezza e varietà californiana, e anche adesso una luce gli balenava negli occhi quando Marion insisteva per dargli una pera affettata. Non sorrideva quando la mangiava, però annuiva come a dire che, doveva ammetterlo, la pera era buona. E Marion, a dieci e undici e dodici anni, era già consapevole di quanto il bene e il male fossero inestricabilmente mescolati. Quando riusciva a convincere suo padre a godersi un frutto, era impossibile capire se il calore che sentiva era semplicemente amore o anche la soddisfazione di essere una figlia migliore di sua sorella.


    Come la Grande Depressione, anche gli anni bui sembravano non finire mai. Nella primavera del 1935, Shirley salí su una cuccetta Pullman diretta a est, felice di fuggire da San Francisco quanto Marion era felice di vederla partire. Con un residuo della sua antica magia finanziaria, suo padre aveva tirato fuori i soldi per pagarle un semestre al Vassar College, mantenendo cosí una sua vecchia promessa. Ma lo sforzo sembrava averlo prosciugato. Poche settimane dopo la partenza della sua prediletta, nulla poteva piú indurlo a vestirsi e andare al lavoro. Isabel, che per sei anni si era occupata solo di ciò che minacciava il suo stile di vita, come la mania del bridge contratto, un gioco al quale, cosa orribile, potevano giocare solo quattro donne per volta, venne finalmente costretta a riprendere contatto con la realtà. Ottenne un piccolo prestito dal fratello antisemita che viveva a Sonoma, e convinse i proprietari della Western All-Sport a concedere al marito un breve periodo di congedo non retribuito. Benché avesse sempre pensato che lei e Shirley fossero state sfortunate nella lotteria delle madri, Marion provò una riluttante ammirazione per l’intraprendenza di Isabel nel momento della necessità. Il suo istinto di conservazione, la sua battaglia in definitiva vincente per mantenere la posizione nel quintetto, erano lodevoli e meschini nello stesso tempo. E cosí, come sempre, Marion finí per accusare se stessa di ciò che fece suo padre.


    Il problema era che Marion aveva scoperto il teatro. Shirley era sempre stata il presunto talento della famiglia e Marion la figlia invisibile, ma appena sua sorella era partita per il Vassar, lei e la sua migliore amica avevano fatto un’audizione per la recita autunnale della scuola, The Five Little Peppers. Aiutata forse dalla sua bassa statura, Marion aveva ottenuto la parte della Pepper piú piccola e adorata, Phronsie, scoprendo che anche lei aveva talento. Con un familiare senso di ambiguità, senza sapere se stesse facendo qualcosa di buono o qualcosa di cattivo, durante le prove diventava una persona diversa, visibile agli altri attori, ed entrava in una specie di trance di alterità. Poiché tutto questo accadeva in un teatro, quello della scuola, lei si innamorò dei traballanti fondali odorosi di vernice, dello scatto dei grossi interruttori del quadro luci, del foglio di lamiera appeso dietro le quinte che tutti si divertivano a far rimbombare. Dopo la scuola, invece di tornare a casa a occuparsi del padre, restava in teatro a provare e a dipingere fondali.


    All’inizio di dicembre, durante la prima prova generale dello spettacolo, Marion si stava calando nel ruolo di Phronsie, preparandosi a incantare un pubblico vero, quando un’amministratrice scolastica dalle trecce grigie entrò nel teatro e la chiamò giú dal palco. Era un pomeriggio piovoso, già buio alle quattro e mezza. L’amministratrice l’accompagnò in silenzio fino a casa, dove le quattro amiche di sua madre erano già arrivate. Sua madre era seduta davanti al camino spento, con un’espressione vacua e un foglio di carta da lettere piegato in grembo. C’era stato, disse, un incidente. Forse vergognandosi di non parlare chiaro davanti alle sue amiche, scosse la testa e si corresse. Con la stessa espressione vacua disse a Marion che suo padre si era tolto la vita. Spalancò le braccia e la chiamò a sé, ma Marion corse via dalla stanza. Per raggiungere lo studio del padre, per trovarlo là e dimostrare che si sbagliavano, doveva salire di corsa due piani di scale, e invece le sembrava di scendere, precipitando verso il suo castigo in un tunnel di senso di colpa. Sentiva, stranamente lontano, il grido della bambina che veniva punita.


    Quel mattino il capitano di un’imbarcazione aveva visto un uomo che tirava un carretto giocattolo rosso su un molo sotto Fort Mason. Quando il capitano aveva guardato di nuovo, troppo presto perché l’uomo fosse già tornato indietro, il carretto era fermo all’estremità del molo. Due ore dopo, quando un corpo era stato ripescato dall’acqua, la polizia aveva dedotto che nel carretto c’era stata la pesante catena che l’uomo si era legato intorno al collo e alle spalle prima di saltare. Il carretto, un giocattolo ben fatto di solido acciaio, con lo smalto rosso ancora brillante, era stato un regalo di Natale per Shirley, e piú tardi un contenitore per vasi di gerani. Marion non lesse mai la lettera lasciata dal padre mentre la madre era fuori a colazione con le amiche, ma a quanto pareva non conteneva scuse né addii, bensí la confessione della situazione finanziaria che lui le aveva nascosto. I debiti della famiglia erano incolmabili, c’erano ipoteche su tutto, ipoteche multiple, un intreccio di truffa e bancarotta. Gli ultimi dollari disponibili erano stati usati per il primo semestre di Shirley a Vassar.


    Nel racconto di sé che Marion aveva fatto a Sophie, un racconto che aveva elaborato in ospedale e nei suoi anni di introspezione cattolica, il senso di colpa era inestricabile dalla capacità di dissociarsi. Due sere dopo la morte del padre, con lo scatto inappellabile di un interruttore della luce, si era trasformata in Phronsie Pepper, dicendosi che lo spettacolo doveva continuare, ed era stata adorabile sul palcoscenico per due ore. Dopo ciascuna delle tre repliche dello spettacolo era tornata al dolore e al senso di colpa. Ma ora sapeva di avere un interruttore interno che poteva azionare a piacimento. Poteva spegnere la consapevolezza di sé e fare cose cattive per la momentanea gratificazione che ne ricavava. Quel trucco della dissociazione era l’inizio della sua malattia, anche se non lo sapeva ancora.


    A Marion e Shirley venne concesso di terminare il semestre alle rispettive scuole, ma la casa stava per essere pignorata, i mobili venduti all’asta. Sua madre la informò in maniera sbrigativa che per un po’ lei, Isabel, sarebbe stata ospite della piú ricca delle sue amiche. Shirley, che non si era presa la briga di tornare a casa per il funerale, pagato da sconosciuti cugini del padre materializzatisi per l’occasione, intendeva cercare lavoro e alloggio a New York. Ma che fare di Marion? La nonna materna era molto avanti con gli anni, e a casa dell’amica della madre Marion sarebbe stata di troppo. Gli unici che potevano accoglierla erano i fratelli della madre. Se l’avessero mandata dallo zio James, il pittore paesaggista che viveva in Arizona, forse Marion si sarebbe salvata da se stessa. Ma Isabel pensava che Jimmy fosse un omosessuale, inadatto come tutore, e cosí il fratello minore, Roy, aveva accettato di ospitare Marion a Sonoma finché non avesse finito le superiori.


    Roy Collins era un uomo pieno di odio. Odiava i suoi progenitori perché avevano scialacquato i soldi che avrebbero dovuto essere suoi. Odiava Roosevelt, i sindacati, i messicani, gli artisti, le checche e gli ipocriti mondani. Soprattutto odiava gli ebrei e l’ipocrita sorella mondana che ne aveva sposato uno. Ma lui non era uno di quei deboli, come il fratello checca e il cognato suicida, che si sottraevano ai doveri familiari. Lui aveva quattro figli, e li manteneva sgobbando alla concessionaria di macchinari per l’agricoltura che aveva aperto con i due soldi ereditati dai nonni. Sua moglie e i suoi figli lo temevano troppo per contraddirlo, ma lui amava comunque ricordare loro, praticamente a ogni pasto, quanto sgobbava. Marion non lo trovava particolarmente adatto come tutore, però i soldi non gli mancavano. Era il contrario di suo padre, molto piú ricco di quanto si sarebbe potuto dedurre dalla semplicità della sua casa di Santa Rosa. Aveva mantenuto la ditta solvibile nel cuore della Depressione e, come amministratore fiduciario dei frutteti e dei vigneti di famiglia, aveva contratto prestiti cosí consistenti con se stesso, per conto del fondo, che il suo nome era finito sui diritti di proprietà dei terreni. Marion lo scoprí solo quando andò in Arizona, ma quella scoperta l’aiutò a capire perché Roy l’aveva nutrita e vestita per tre anni e mezzo, e perché odiava tanto la sorella e il fratello. Sarebbe stato piú difficile derubarli, se non li avesse odiati.


    Fino all’età di quindici anni Marion era stata la figlia mansueta, la figlia accomodante, ma vivere con Roy Collins azionò il suo interruttore interno. I due litigavano per le sigarette che Marion aveva cominciato a fumare. Litigavano per il modo in cui indossava le calze, per gli amici che portava a casa dalla Santa Rosa High, per il rossetto che lui l’accusava, senza prove, di avere rubato all’emporio. Una volta azionato l’interruttore, Marion non sapeva nemmeno cosa stesse gridando. Nella nuova scuola era attratta dalle teatranti, dalle ragazze precoci e dai ragazzi che le rincorrevano. Le sue credenziali di precocità erano a posto, perché veniva dalla città e suo padre si era ucciso. Fumava come un demonio e usava il suicidio per turbare la gente. Pensava che, se fosse stata abbastanza cattiva, abbastanza odiosa, forse Roy si sarebbe arreso e l’avrebbe mandata da un’altra parte. Ma lui sapeva cosa voleva Marion, e si rifiutava sadicamente di concederglielo. Molto piú tardi le sarebbe venuto in mente che forse era attratto da lei; la gente era crudele con ciò che aveva paura di amare.


    La sua migliore amica, Isabelle Washburn, era piú carina e piú alta di lei, una luminosa bionda con un nasino a punta che faceva impazzire i ragazzi, ma Marion era piú sveglia e audace e la faceva ridere. Isabelle si credeva un’attrice, ma non aveva voglia di entrare nella filodrammatica. Preferiva andare al cinema, dove le maschere, in onore del suo nasino, le lasciavano spesso entrare gratis. La Marion del passato era ormai quasi un ricordo, ma per lei il teatro era ancora il luogo che l’aveva distratta da suo padre, il luogo della colpa, e cosí, anche se avrebbe potuto primeggiare nella filodrammatica, non fece mai audizioni per altre recite. Invece si buttò nel dramma reale rappresentato dal discutere di ragazzi, dal provocare i ragazzi, e infine dall’innamorarsi di un ragazzo, Dick Stabler, che abitava nella stessa via dei Collins.


    Dick aveva le sopracciglia folte e la voce roca, con una leggera lisca congenita che le faceva tremare le ginocchia; era cosí che Marion si immaginava Heathcliff. I genitori di Dick diffidavano di lei, giustamente, e cosí l’ultimo anno di scuola fu un dramma seriale di sotterfugi e luoghi d’incontro segreti dove Marion poteva stare sola con lui e baciarlo e farsi toccare i seni. Era giunta alla conclusione che era «fissata con il sesso» – a volte il desiderio le annebbiava letteralmente la vista, la faceva star male, la uccideva. Sarebbe stata disposta a fare qualunque cosa Dick volesse, compreso sposarlo, ma lui era destinato al college e a una moglie di livello superiore. In primavera accadde che i genitori di Dick sentirono un rumore in salotto, parecchio dopo mezzanotte, e suo padre scese giú di soppiatto a indagare, accese la luce piú sfolgorante di tutta Santa Rosa e scoprí Marion e Dick sul divano, vestiti ma orizzontali. Dopo quel momento di imbarazzo, e sotto la costante pressione della disapprovazione genitoriale, la passione di Dick per Marion si affievolí. A lei rimase la sensazione di essere sporca e cattiva. Suo zio, in uno dei suoi accessi di rabbia, arrivò a usare la parola sgualdrina, e Marion, invece di rispondergli urlando come aveva fatto tante volte, crollò in un pianto pieno di rimorso.


    Sua madre, a San Francisco, era ancora ospite dell’amica. Nelle sue rare lettere a Marion sosteneva che la sua bambina le mancava tanto, ma non poteva disturbare i padroni di casa invitando la sua bambina a stare con lei, e non intendeva esporsi all’ostilità di Roy andando a Santa Rosa. Quando Marion salí su un autobus diretto in città per pranzare con lei da Tadich, un mese prima della fine delle superiori, erano passati otto mesi dall’ultima volta che l’aveva vista. Era lí per discutere del proprio futuro, ma la madre, che aveva i capelli bianchi e le guance arrossate dai cicchetti mattutini, aveva ricevuto notizie emozionanti da New York. Dopo qualche anno difficile al banco dei profumi di Gimbels, Shirley era approdata a Broadway – una piccola parte, certo, ma ormai era lanciata come attrice, con la prospettiva di parti piú importanti. L’orgoglio materno di Isabel, qualità finora assente in lei, avrebbe potuto apparire commovente a Marion, rivelandole una donna che cercava disperatamente di stare al passo con le amiche i cui figli erano entrati nelle università della Ivy League, se non si fosse sentita cancellata da quell’irritante notizia. Sentiva che qualcuno, probabilmente lei stessa, avrebbe dovuto ammazzare Shirley e sua madre per vendicare ciò che avevano fatto a suo padre. La sua «talentuosa» sorella, in particolare, andava ammazzata. Quando un cameriere le portò un piatto di sogliole fritte, una specialità di Tadich, lei ci scrollò sopra la cenere della sigaretta.


    A casa, a Santa Rosa, Roy Collins l’aveva assillata, approfittando della sua vergogna e del suo rimorso, fin quasi a convincerla che sarebbe stata davvero fortunatissima ad andare a lavorare nella sua concessionaria dopo il diploma. Il vecchio sogno di trasferirsi a Los Angeles con Isabelle Washburn e tentare di sfondare nel cinema era stato accantonato nei mesi dell’ossessione per Dick Stabler. Marion aveva visto meno Isabelle ed era diventata piú realista. Benché a furia di fumare fosse arrivata a pesare quarantasei chili sulla bilancia del medico, uno scrupoloso esame dei polpacci e delle caviglie esibiti sullo schermo del California Theatre l’aveva indotta a sospettare di avere gambe troppo contadinesche per Hollywood. Isabelle, tuttavia, che aveva gambe piú belle delle sue, voleva ancora trasferirsi a Los Angeles, e non aveva mai ritirato l’invito ad accompagnarla. Seduta da Tadich, con i mozziconi di sigaretta che assorbivano il burro al prezzemolo sciolto mentre sua madre blaterava delle attività del comitato musicale del Francisca Club, evidentemente troppo disgustata dal cipiglio della sua bambina per affrontare l’argomento del suo futuro, Marion provò una rabbia cosí omicida che la decisione si prese da sola. Sarebbe andata a Los Angeles e avrebbe azionato l’interruttore per vedere cosa sarebbe successo. Si sarebbe resa visibile, e avrebbe sicuramente ammazzato qualcuno. Solo non sapeva chi.


    Isabelle, per farsi scoprire da Hollywood, aveva un piano che comprendeva un cugino che era il medico di William Powell, e benché avesse coraggiosamente concesso a Marion di far parte del suo piano, non sembrava affatto entusiasta all’idea che l’accompagnasse. A Los Angeles, all’hotel Jericho, dove si erano ritirate dopo avere scoperto che tutte le residenze per aspiranti attrici avevano una lista d’attesa, Isabelle non rideva piú delle battute di Marion. Quando il cugino medico la invitò a pranzo, decise che dopotutto era meglio se lo incontrava da sola. Marion capí l’antifona e, dopo aver aggiunto Isabelle alla lista delle persone da ammazzare, si trasferí in una pensione per signore in Figueroa Street. Si presentò ad alcune delle agenzie che mettevano annunci sul giornale, ma c’erano milioni di ragazze come lei. Quando esaurí i trecento dollari che Roy Collins le aveva dato giurando rabbiosamente di non darle mai piú nulla, trovò lavoro come segretaria alla Lerner Motors, la piú grande concessionaria della General Motors di Los Angeles. Con il primo stipendio comprò una pila di vecchi copioni da cinque centesimi l’uno e li lesse ad alta voce nella sua stanza, cercando di ricatturare la sensazione di alterità, ma le serviva un teatro e non aveva idea di come entrarci. Come aveva fatto Shirley? Qualcuno l’aveva scoperta al banco dei profumi?


    Il primo Natale solitario non fu cosí brutto da non sembrarle bello in seguito. Una ragazza dell’ufficio l’aveva invitata a cena con la sua famiglia, ma Marion ne aveva abbastanza dei Natali delle famiglie altrui. Nel pomeriggio prese il tram fino al capolinea di Santa Monica e si sedette da sola su una panchina in riva all’oceano, razionando le sigarette e scrivendo il suo diario. Lesse la pagina di un anno prima, quando Dick Stabler le aveva regalato una catenina placcata argento e lei gli aveva regalato un volume di Khalil Gibran rilegato in pelle, e il desiderio che lui la toccasse aveva colorato ogni minuto. A Santa Monica c’era bel tempo, le lontane montagne innevate fluttuavano incorporee sopra la foschia invernale. Tutto sembrava piú o meno in equilibrio. Una brezza da est teneva al largo la nebbia marina, e il moto discendente del sole era reso tollerabile, un promemoria non troppo allarmante della vita che scivolava via da lei, dall’eterna ripetizione delle onde, che si frangevano come respiri sull’ampia spiaggia piatta. La pressione che ultimamente sentiva sempre nella testa, causata dalla solitudine e da qualcosa di meno definibile, una paura a bassa intensità, era bilanciata dalla sua compostezza esteriore. Era una ragazza abbastanza interessante da non annoiarsi da sola, abbastanza carina da attirare gli sguardi degli uomini a passeggio con la famiglia, abbastanza tosta da non lasciarsi importunare, e abbastanza intelligente da sapere che venire scoperta mentre era seduta su una panchina era solo un sogno a occhi aperti. Quando infine il sole affondò nella nebbia, entrò nel primo diner che trovò aperto e mangiò tacchino pressato con sugo in scatola, purè di patate, una fetta di gelatina di mirtilli.


    – Marion? – disse Sophie Serafimides.


    Le si era informicolata un’anca. Le capitava spesso con un braccio o un piede, ma era dall’ultima gravidanza che non le si addormentava un muscolo dell’anca. Sospettava che fosse colpa del sovrappeso.


    – Temo che il nostro tempo stia per scadere, – disse Sophie.


    Marion si spostò sulla sedia, per permettere al sangue di affluire di nuovo all’anca, e aprí gli occhi. La neve cadeva sui binari della ferrovia davanti alla finestra. I fiocchi bianchi sembravano accelerati dalle stecche semichiuse delle veneziane.


    – Mi piacerebbe sapere cosa intende con il suo silenzio, – disse Sophie. – Se pensa di potermelo dire, potremmo fare una seduta doppia. Ho avuto alcune cancellazioni… lei è la mia ultima paziente di oggi.


    – Ho portato solo venti dollari.


    – Be’ –. Sophie sorrise amabilmente. – Può considerarlo un regalo di Natale, se vuole.


    Marion rabbrividí.


    – Sembra che lei associ le festività a qualcosa di particolare, – disse Sophie. – Vuole dirmi di cosa si tratta?


    Marion chiuse di nuovo gli occhi. Il Natale che aveva trascorso da sola a Santa Monica le era sembrato, piú tardi, l’ultimo giorno in cui lei e il mondo esterno erano stati in equilibrio. Nelle prime settimane del 1940 una serie di caotiche tempeste aveva inondato la California meridionale. Le strade erano nere e oleose di pioggia la sera che lei era rimasta fino a tardi alla Lerner Motors per battere a macchina i documenti dell’assurda vendita realizzata da Bradley Grant. Una pioggia obliqua schiaffeggiava la finestra della sua camera nella pensione quando, molto dopo mezzanotte, aveva scritto sul diario: È successa una cosa terribile e non so cosa fare. Non deve succedere mai piú.


    Bradley Grant era il miglior venditore della Lerner. Marion, benché si sentisse sola, durante la pausa pranzo mangiava il suo panino in una stanza inutilizzata del reparto pezzi di ricambio. Lí almeno poteva starsene tranquilla in compagnia di un libro, finché Bradley Grant non aveva cominciato a imporle la sua presenza. Bradley aveva quindici anni piú di lei, ma aveva un corpo snello da adolescente e una faccia dalla bellezza difficile da giudicare; c’era qualcosa di fumettistico nell’elasticità dei suoi lineamenti, soprattutto nella bocca larga. Quando aveva visto Marion con un libro di racconti di Maupassant, Bradley aveva invaso il suo rifugio dell’ora di pranzo per pontificare sullo scrittore. Era un avido lettore, un letterato di formazione. A lei sembrava interessato soprattutto a se stesso, cosí traboccante di parole da doversi infilare nel reparto pezzi di ricambio per sfogare la sua loquacità, ma un giorno le aveva portato la sua copia di Omaggio alla Catalogna, dello scrittore inglese George Orwell. Bradley era angosciato dall’ascesa del fascismo in Europa, di cui Marion non sapeva praticamente nulla. Allora, per sembrargli meno ignorante, aveva letto Orwell e cominciato a prestare attenzione alla prima pagina del giornale. Un giorno Bradley aveva osservato che una ragazza intelligente e carina come lei avrebbe dovuto lavorare a contatto con i clienti, e il giorno dopo Marion era stata trasferita nell’area di vendita. Alla Lerner, i venditori meno abili erano uomini che puzzavano di sudore e a mezzogiorno si cambiavano la canottiera, uomini che ogni venerdí temevano di ricevere il benservito, ma Bradley Grant era cosí prezioso per gli affari che solo il proprietario, Harry Lerner, poteva prevalere su di lui. Dopo il trasferimento, Marion aveva continuato a mangiare il suo panino nel retro della concessionaria. Battere a macchina e cercare pratiche in un ufficio non era quello che aveva in mente quando immaginava di essere scoperta.


    Nel momento in cui una persona nasceva, solo una data sul calendario aveva significato, quella del suo compleanno, ma con il procedere della sua vita si aggiunsero altre date che avrebbe esaltato o deprecato per sempre: la data del suicidio del padre, la data del matrimonio, le date di nascita dei figli, finché le caselle del calendario non si riempirono di una sfilza di significati. La sera del 24 gennaio, un giovane dal cappello gocciolante entrò nel salone di esposizione della Lerner poco prima dell’orario di chiusura. Un venditore meno abile gli si avvicinò furtivamente e venne liquidato. Alla Lerner, chiunque entrasse per sfoggiare le proprie conoscenze automobilistiche, per ricevere un paio di minuti di adulazione, o anche solo per ripararsi dalla pioggia, senza alcuna intenzione di comprare, veniva soprannominato Jake Barnes. Bradley Grant, che aveva coniato quel soprannome e quel giorno aveva già concluso tre vendite, si avvicinò disinvolto alla scrivania di Marion, mangiando con cura una mela mentre studiava il giovane Jake Barnes. – Ha delle belle scarpe quello là, – disse, buttando il torsolo nel cestino di Marion. – Devi andare da qualche parte? – Marion non doveva mai andare da nessuna parte. Un minuto dopo, nell’area di vendita, Bradley aveva una mano sulla spalla di Jake Barnes e lo stava aiutando a salire su una Buick Century nuova di zecca. Marion vide i lineamenti di Bradley distendersi in espressioni fumettistiche di stupore, indifferenza, compassione, severa ammonizione. Con un passo scivolato che gli permetteva di muoversi in fretta senza darlo a vedere, tornò da lei e le disse di tenere la concessionaria aperta e un direttore in servizio. – Io e Jake andiamo a prendere un po’ di contanti, – disse, scivolando via di nuovo. Un’ora dopo, lui e il giovane acquirente erano tornati e Marion stava battendo a macchina le scartoffie.


    – Facile, no? – esultò Bradley quando l’acquirente se ne fu andato. Stava battendo un pugno sull’altro come se scuotesse un bicchiere tiradadi. – Quanto ci scommetti che oggi riesco a piazzare un’altra macchina? – L’energia di Bradley le ricordò quella di suo padre negli anni pre-crollo. In ufficio erano rimasti solo loro due, e lui non poteva vendere una macchina senza l’autorizzazione di un direttore. – Per te c’è in palio una bella costata, – disse a Marion. – Tu cosa scommetti? – Prima che lei potesse rispondere, Bradley afferrò un ombrello e corse fuori dalla concessionaria. Dall’ingresso, fumando una sigaretta, Marion lo vide lavorarsi gli automobilisti che frenavano all’angolo di Hope e Pico, vide gli automobilisti abbassare il finestrino, vide Bradley gesticolare indicando la loro macchina e poi la concessionaria. Era una cosa da pazzi, e lei non sapeva per chi la stesse facendo, se per se stesso o per lei, ma mentre lo guardava sentí salire alla superficie la sua paura latente. Piú tardi, in Arizona, sarebbe arrivata a pensare che quell’immagine di Bradley sotto la pioggia, con l’ombrello aperto, fosse una premonizione del male. Chi non era seriamente cattolico non capiva che Satana non era un colto e affascinante tentatore, né un buffo diavoletto con il volto paonazzo e il forcone. Satana era dolore senza limiti, annientamento della mente.


    – Questo signore ha preso la saggia decisione di non voler piú guidare una Pontiac, – disse Bradley, accompagnando dentro un tizio calvo e robusto che puzzava di alcol. Gli ci era voluta meno di mezz’ora per trovare un cliente, ma la pioggia obliqua e gli schizzi delle macchine l’avevano infradiciato. Le chiese di portare un caffè al signore mentre lui – le strizzò l’occhio – scambiava due parole con il direttore, e poi le chiese di prendere le chiavi della Oldsmobile coupé rosso ciliegia del ’35 con la quale il signore desiderava scambiare la sua Pontiac. Il signore, aggiunse, avrebbe pagato con un assegno. I due uomini tornarono nel piazzale sul retro, dove era parcheggiata la macchina rossa. Marion avrebbe potuto andarsene e lasciare Bradley a concludere la vendita da solo, se Roy Collins non l’avesse trasformata in una ribelle. Quando il gonzo se ne andò con la vecchia Oldsmobile, Bradley tirò fuori una bottiglia piatta da mezzo litro piena di whisky e due tazze da caffè pulite. Seduta sul bordo di una sedia riscaldata dal grasso culo del gonzo, davanti alla scrivania di Bradley, Marion vide un piccolo ritratto di Bradley con la moglie e i due bambini. Si chiese se la costata fosse ancora in programma o se Bradley se ne fosse dimenticato. Accese un’altra sigaretta e bevve un sorso di whisky. – Spero proprio che l’assegno non sia scoperto.


    – Vedrai che non lo è, – disse Bradley, – ma anche se lo fosse, lo coprirò io. In ogni caso ci avremo guadagnato.


    – La sua macchina vale di piú?


    – Ha un anno! Avrei potuto offrirgli solo lo scambio, ma lui avrebbe pensato: «Ehi, aspetta un attimo…» Cosí mi sono inventato una cifra e alla fine ne ho accettata la metà.


    – Un colpo basso, – disse Marion.


    – Niente affatto. La metà del divertimento di possedere un’auto di marca superiore sta nel sapere che l’hai potuta pagare.


    – Insomma, gli hai fatto un favore.


    – Psicologia. Questo lavoro è tutto psicologia. Il mio problema è che sono troppo bravo. Mi hai visto, là in strada? Hai mai visto una cosa del genere?


    Marion scosse la testa e bevve un altro sorso di whisky.


    – È come una pulsione, – disse Bradley. – Ci sono dentro e non riesco a uscirne, perché sono troppo bravo. Loro sanno che li sto fregando e me lo lasciano fare. Vengono qui dopo aver fatto una solenne promessa a se stessi: saranno forti, spunteranno le condizioni migliori. Ma comprano una macchina solo una volta all’anno, o una volta ogni dieci anni, o magari non hanno mai comprato una macchina, e io invece sono qui che vendo macchine tutti i giorni. Non hanno scampo! Davanti a me diventano deboli, e poi tornano a casa e mentono alla moglie. Le dicono di aver fatto un affarone. C’è una sola macchina rossa nel parcheggio, e quello la vuole proprio perché è rossa, e accidenti, ce n’è una sola, e noi cosa faremo domattina? Metteremo fuori un’altra macchina rossa. Questo lavoro mi sta uccidendo l’anima, giuro.


    Marion posò la tazza sulla scrivania, decisa a non bere piú. Si chiese se accennare alla cena o se andare direttamente a letto affamata, ma le parole continuavano a sgorgare da Bradley. Quando era uno studente in Michigan, le raccontò, aveva scritto opere teatrali e pubblicato poesie sulla rivista del college, e poi era venuto a Los Angeles per sfondare nel cinema come sceneggiatore. Allora la sua anima era ancora viva, ma aveva incontrato una ragazza che aveva sogni diversi, e insomma, una cosa tira l’altra, e adesso era solo un altro membro della maledetta classe media che fregava la gente per vivere. Di notte gli venivano idee per sceneggiature originali – tipo, durante la guerra civile spagnola la figlia dell’ambasciatore di Hitler in Spagna è segretamente innamorata di un agente segreto repubblicano; i fascisti tengono in ostaggio la moglie e i figli dell’agente e lui chiede alla figlia dell’ambasciatore di aiutarli a fuggire dalla Spagna, e lei non capisce se l’ama davvero o se la sta solo usando per salvare la sua famiglia –, un milione di idee, ma quando poteva lavorarci? Alla fine della giornata, la sua anima era tramortita. L’unico brandello di dignità umana che gli restava, l’unico modo per sapere di non essere la persona peggiore del mondo, era l’amore che provava per i figli. Erano un peso, certo, prosciugavano la sua energia creativa, ma la responsabilità era l’unica cosa che si frapponeva tra lui e la perdizione. Marion capiva cosa le stava dicendo? I figli non erano negoziabili. Il suo matrimonio non era negoziabile. Non avrebbe mai lasciato Isabelle.


    La paura di Marion ebbe un’impennata. – Tua moglie si chiama Isabel?


    A dire il vero, la donna della fotografia assomigliava un po’ a Isabelle Washburn. Era piú vecchia e robusta, ma i capelli biondi e il nasino erano molto simili. Mentre Marion fissava la foto, Bradley si alzò, girò intorno alla scrivania e si accovacciò ai suoi piedi.


    – Quanta anima c’è nei tuoi occhi, – disse. – La tua anima è cosí viva che quando ti vedo mi sento morire. Sono… Dio! Hai idea di quanta anima c’è in te? Ti guardo e penso che non potrò piú vivere se non ti avrò, ma so che non posso averti… perché… O a meno che. Perché. A meno che. Capisci cosa sto dicendo?


    Nessuna quantità di whisky avrebbe potuto sconfiggere la sua paura, ma Marion bevve quel che era rimasto nella tazza. La visuale dalla strada era ostruita dai lucidi modelli da esposizione, ma c’erano angolazioni da cui un passante avrebbe potuto vedere Bradley ai suoi piedi sotto le luci della concessionaria.


    – Di’ qualcosa, – sussurrò Bradley. – Qualunque cosa.


    – Dovrei andare a casa.


    – Okay.


    – E magari trovarmi un altro lavoro.


    – Oddio, no, Marion. Morirei se non potessi piú vedere il tuo viso. Ti prego, non farlo. Giuro che non ti darò fastidio.


    Era strano pensare che l’uomo accovacciato ai suoi piedi avesse concepito tali pensieri su di lei. Era una persona affascinante, ma in fin dei conti, anche tralasciando il fatto che era sposato, era solo un venditore di automobili. Marion aveva superato il riaffiorare della paura senza perdere il suo buonsenso. Fece per alzarsi, ma Bradley le prese una mano e la trattenne. – Ho scritto una cosa su di te, – disse. – Posso dirti cosa ho scritto?


    Prendendo il suo silenzio per un assenso, recitò una poesia.


    

      Là una donna cammina, si chiama Marion


      I suoi capelli scuri risplendono al neon


      Sole chiaro che squarcia le nuvole


      Le abbassa gli occhi di luce riempiendoli


      E di oscurità, la sua mente è un ampio cielo


      Sereno e minaccioso: intoccabile

    


    – Chi l’ha scritta? – disse Marion.


    – Io.


    – L’hai scritta tu.


    – È la prima cosa che scrivo da non so quanto tempo.


    – L’hai scritta per me?


    – Sí.


    – Dimmela ancora.


    Bradley la recitò ancora, con una timida sincerità che lo rendeva decisamente bello. Marion stava avendo una reazione ritardata al whisky, un’apertura di certe cateratte. L’apparente inclinarsi del pavimento della concessionaria parve dimostrare che le macchine avevano il freno a mano tirato. Malgrado l’avesse visto convincere uno sconosciuto, due volte in tre ore, di volere una cosa che non avrebbe dovuto volere, Marion si chiese se Bradley non avesse davvero talento come scrittore. L’argomento della poesia era specifico, non intercambiabile. Lei stessa si sentiva scura e chiara, ampia come il cielo, e Bradley aveva fatto una rima col suo nome.


    – Un’altra volta, – disse.


    Pensava che sentendola per la terza volta avrebbe capito con certezza se Bradley aveva davvero talento. Invece non capí niente, perché la sola cosa che sentí era che Bradley aveva scritto una poesia su di lei. Si appoggiò allo schienale della sedia e lasciò che il whisky le chiudesse gli occhi. – Yu-huu, – ammise. L’interruttore interno era sulla posizione Spento, che era un altro modo per dire che non le importava. Suo padre con una catena intorno al collo, morto sul fondo della baia. Sua sorella irraggiungibile, per quanto lei la inseguisse. Non le importava.


    Quando Bradley la fece alzare in piedi e la baciò, le sembrò che il suo corpo ritrovasse quella fissazione del sesso che aveva provato con Dick Stabler. Ciò che voleva era, spaventosamente, un uomo che la voleva. Marion sentiva di non potersi spingere abbastanza forte contro Bradley, aveva bisogno di piú forza, e lui gliela diede. L’addossò contro il peso inamovibile di una scintillante Cadillac 75 e la spinse là dove Dick Stabler non aveva osato spingerla. C’era una cosa che i suoi fianchi erano capaci di fare ma non avevano mai fatto. Lasciargliela fare, rilassarli completamente, anche in piedi, anche vestita, anche con Bradley fra le ginocchia con i pantaloni ancora umidi di pioggia, le sembrava fondamentale. Roy Collins, alla vigilia della sua partenza da Santa Rosa, aveva previsto cosa sarebbe successo a Los Angeles, se non fosse stata attenta. Roy non aveva usato di nuovo la parola sgualdrina, ma aveva detto chiaramente che se fosse finita nei guai non doveva aspettarsi alcun aiuto da parte sua. E adesso eccola lí, ad aprire le gambe per un uomo sposato. Sopra la testa di Bradley, quando l’abbassò per avvicinarla al suo collo, Marion vide il progresso irregolare dell’orologio a muro verso le undici, l’ora in cui sarebbe rimasta chiusa fuori dalla pensione. L’effetto del whisky stava svanendo e lei si sentiva male per la fame.


    Come se stesse mettendo un segnalibro in un romanzo, spinse via Bradley e senza parlare andò a prendere una sigaretta. Anche lui non disse niente mentre spegneva le luci, chiudeva a chiave la porta e l’accompagnava verso la sua LaSalle del ’37. Quando arrivarono alla pensione restavano solo dieci minuti prima che la portiera di notte mettesse il chiavistello.


    Marion spense la terza delle sigarette che aveva fumato senza sosta. – Non vedo come potrò venire al lavoro domattina.


    – Come ci sei sempre venuta, – disse Bradley.


    C’era un problema che andava risolto prima che si aggravasse, ma Marion sospettava che il problema non avesse soluzione – che lei non fosse piú forte dell’uomo che era venuto alla Lerner e aveva visto l’unica macchina rossa. Piuttosto che sprecare gli ultimi minuti in chiacchiere inutili, scivolò sul sedile e abbracciò Bradley. La macchina tremava per le raffiche di vento, e tremava anche lei. Rientrata in casa, dopo essersi chiusa la porta alle spalle, si toccò come aveva imparato a fare nei postumi dei frustranti amoreggiamenti con Dick Stabler. Ma quelli erano giorni piú innocenti. Ora si sentiva troppo sola per tentare di scacciare l’impulso sessuale, troppo spaventata dalla propria cattiveria per arrendersi a esso. Invece aveva bisogno di piangere; e fu allora che, per la prima volta, accadde lo slittamento.


    Era l’una di notte e lei non avrebbe saputo dar conto delle due ore appena trascorse. La sua triste stanzetta, con i mobili scheggiati e scrostati e le stoffe impregnate di fumo, la lampada troppo luminosa ma mal posizionata per leggere a letto, si presentava come una collezione di luoghi casuali che lei poteva avere fissato, e contro i quali poteva avere appoggiato la faccia o sbattuto la fronte. Il copriletto giaceva aggrovigliato in un angolo. Non c’era fumo recente, ma il portacenere era capovolto sul letto, con una sporca valanga di cenere e vecchi mozziconi alla base del cuscino. L’impressione era quella di una persona che si fosse freneticamente difesa dagli spiriti maligni che picchiavano sulla finestra sotto forma di pioggia obliqua. Adesso era dolorosamente affamata, ma sembrava illesa. Nessuno al mondo è piú solo di me, scrisse sul diario.


    Il mattino seguente portò una tregua fra un temporale e l’altro. Marion mangiò un gran piatto di uova prima di andare al lavoro, e il cielo sopra la città, con quei sorprendenti varchi azzurri fra le nuvole in corsa, era un incoraggiante promemoria dei piú innocenti inverni di San Francisco. Pensò che sarebbe andato tutto bene se avesse cambiato routine, avesse pranzato con le altre ragazze dell’ufficio ed evitato di rimanere sola con Bradley Grant. Ma quando arrivò alla Lerner e cercò di dire buongiorno al direttore, scoprí che lo slittamento non l’aveva lasciata illesa.


    Il suo disturbo consisteva nella semi-incapacità di parlare. L’impulso che doveva generare le parole veniva deviato nella deglutizione e nell’arrossamento, in un senso di costrizione al petto, nel ricordo involontario di avere aperto le gambe. Per tutta la mattina, dentro e fuori dall’area di vendita, Marion si sentí cosí sconvolta dall’imbarazzo che quando apriva bocca la sua mente restava indietro e poi correva avanti, spinta dalla paura di dire qualcosa di incomprensibile. Ogni volta scopriva di avere parlato in modo quasi adeguato, e ogni volta le sembrava un’incredibile fortuna.


    All’ora di pranzo, nella sala del personale insieme ad altre ragazze, assunse una posa di cordiale attenzione e tentò di ascoltare i loro discorsi, ma i suoi occhi si rifiutavano di guardare la persona che stava parlando.


    – … in vendita da Woolworth, non diresti mai che…


    – … troppo larga di due o tre centimetri, come si fa a misurarla tre volte per poi…


    – … portata alla prima giovedí scorso, conosce il tizio che…


    – … ma quando hai le mani che odorano di arancia tutto il giorno, anche se le lavi…


    – … Marion?


    Senza alzare lo sguardo, Marion si girò verso Anne, la ragazza che l’aveva chiamata. Anne era quella che l’aveva invitata a passare il Natale con la sua famiglia. Anne era buona.


    – Scusa –. Malgrado gli sforzi per respirare, Marion aveva la voce strozzata. – Cos’hai detto?


    – Cos’è successo ieri sera? – ripeté Anne con un sorriso gentile.


    – Oh –. Marion aveva il volto in fiamme. – Oh.


    – Il signor Peters ha detto che alle nove Bradley stava ancora vendendo.


    Marion si sentí scoppiare la testa. – Sono stanchissima, – si accorse di aver detto.


    – Ci credo, – disse Anne.


    – Cosa… cosa vuoi dire?


    – Non so dove quell’uomo trovi l’energia. È un maniaco delle vendite.


    La sala del personale era un campo minato di sguardi femminili puntati su di lei. Cercò di dire qualcos’altro, ma scoprí subito che era impossibile. Riuscí solo ad alzarsi e tornare alla scrivania. Dietro di lei, nella sua immaginazione, seguí una discussione inorridita sulla sua sgualdrinaggine.


    Benché avesse trascorso tantissimo tempo da sola a Los Angeles, Marion non si era mai considerata timida. Ma ora il suo nuovo disturbo le faceva identificare chiunque le parlasse con Bradley Grant; ogni scambio di parole, per quanto banale, diventava una prova generale dell’atroce conversazione che temeva di avere con lui. Un anno dopo, all’ospedale, uno degli psichiatri le chiese se non avrebbe preferito essere come le altre ragazze, meno mortalmente seria – non c’era niente di male nel chiacchierare del piú e del meno, l’allegria era attraente in una ragazza: non sarebbe stato bello sfuggire ai suoi pensieri lasciandosi andare a una conversazione leggera? Marion avrebbe voluto denunciare quello psichiatra. Lei sapeva, guarda caso, che non tutti gli uomini erano in cerca di allegria. Si chiese quante altre donne di quel reparto avessero incontrato il tipo di uomo che si eccitava per la taciturnità morbosa: il letterato, che trovava romantica la pazzia, l’edonista, per il quale le acque chete lasciavano presagire vorticosi abissi di sessualità, o il galante, che sognava di salvare una persona allo stremo.


    Bradley era tutti quei tipi di uomo. Alla Lerner c’erano almeno altre due ragazze nubili piú carine di Marion, ed Anne era una lettrice accanita quanto lei, perciò Bradley doveva essere stato attratto da qualcos’altro. Aveva percepito la pazzia in lei prima che l’avvertisse lei stessa. Marion non lo sapeva, ma agli occhi di Bradley il suo nuovo disturbo non la rendeva meno, ma piú, interessante. Il 31 gennaio, un’altra data fatale, tornò da una lunga pausa bagno pomeridiana e trovò sulla scrivania una busta con il suo nome scritto a macchina. Bradley era fuori nel parcheggio con un cliente, mentre i venditori meno abili stavano alla finestra a guardare la loro vita andare in malora. Le sembrò probabile che le avessero dato il benservito, e aprí la busta per accertarsene. Vedendo una poesia scritta a macchina avrebbe dovuto buttarla nel cestino, o almeno aspettare la sera per leggerla. Invece tornò in bagno e si chiuse dentro.


    

      SONETTO PER MARION


      Nel sogno sto al volante e non so


      Guidare. Sono giovane e tremo


      Nel mio sogno, e la macchina che ho


      Non risponde. Quando tocco il freno


      Subito comincio a roteare


      Nel turbine che le palme inghiotte


      Mi accorgo che sei tu a guidare


      Calma e capace come la notte


      Oh, quella notte, quando roteavo


      E tu veloce mi salvavi. Sognavo


      Ancora? Fra le tue braccia sapevo


      Esser piú giovane di quanto pensavo.


      Sognare gioia e sentirla nell’aria


      Perché la gioia sei tu nella veglia.

    


    Marion, seduta in bagno, cercò di andare oltre il puro fatto della poesia e capire cosa stava dicendo Bradley. La parola che non riusciva a comprendere era capace. Ma se era a malapena capace di parlare! Non le venne in mente che Bradley potesse avere usato una parola sbagliata. Si chiese se avesse voluto dire che lei era capace di salvarlo: se dopotutto fosse stata davvero scoperta, in una concessionaria d’auto, da un uomo dotato di sufficiente talento da realizzare il proprio sogno di scrivere per Hollywood, un sogno che il matrimonio aveva soffocato ma che Marion poteva essere capace di ravvivare, magari unendolo al suo. Non era questo che diceva la poesia? Che certi sogni erano cosí vividi da diventare realtà?


    Tornò nella sala vendite sentendosi euforica, quasi capace, e rimase delusa quando riuscí a malapena a decifrare le parole del direttore. Adesso era l’euforia, non piú la vergogna, a sconvolgerle la mente, mentre il fatto piú generale e importante – che c’era qualcosa di malato in una mente cosí facile da sconvolgere – continuava a sfuggirle. Quando rientrò insieme al cliente, Bradley era un potente campo magnetico, e lei un ago carico. Il campo la respingeva quando si girava verso di lui e l’attirava quando si girava dall’altra parte.


    La sera, con l’avvicinarsi dell’orario di chiusura, il campo si avvicinò alla scrivania di Marion. – Sono proprio un idiota, – disse.


    Il direttore, il signor Peters, era a portata d’orecchio. Bradley si sedette di traverso su una scrivania. – La settimana scorsa ti ho promesso una costata, – proseguí. – Avrai pensato, ecco, un’altra promessa da venditore.


    – Non ho bisogno di una bistecca, – riuscí a dire Marion.


    – Mi dispiace, bambola, sono un uomo di parola. A meno che tu non debba andare da qualche altra parte –. Era furbo ad accostarla in presenza del signor Peters, che era anziano e sessualmente indifferente a lei. Cosí l’invito sembrava innocente. – Pensavo di andare da Dino’s, se per te va bene –. Si rivolse al signor Peters. – Cosa ne dici, George? Dino’s per una bistecca?


    – Se non ti dà fastidio il rumore, – rispose il signor Peters.


    La pioggia si scaraventava giú in verticale, il parcheggio era un lago basso con correnti che si increspavano nelle luci della concessionaria e formavano creste intorno ai tombini. Marion si sedette con Bradley nella LaSalle buia, davanti alla recinzione in un angolo non illuminato del parcheggio, mentre la pioggia faceva un rumore guerresco sul tetto. Provò una breve frase dentro di sé: In realtà non ho fame. Anche dentro di sé incespicava nelle parole.


    Bradley le chiese se avesse letto la poesia. Lei annuí.


    – È una forma difficile, il sonetto, – le disse, – se sei rigoroso con il metro e la rima. Ai vecchi tempi l’ordine delle parole era piú flessibile, sai, Contempla in me quell’epoca dell’anno, ove dolci cantarono gli uccelli, ma ormai chi parla piú cosí? Mi domando se qualcuno abbia mai davvero detto Contempla in me.


    – La tua poesia è bella, – disse Marion.


    – Ti è piaciuta?


    Lei annuí di nuovo.


    – Mi permetti di offrirti la cena?


    – In realtà… non in realtà io… non ho fame.


    – Hmm.


    – E se mi portassi a casa?


    La pioggia scese piú forte e poi diminuí di colpo, come se la macchina fosse passata sotto un ponte. Quando Bradley si allungò verso di lei, Marion rifuggí dal magnetismo.


    – Non si può, – disse, ritrovando la sua voce normale. – Non è giusto.


    – Non ti piaccio.


    Marion non sapeva se le piacesse. Non era una domanda pertinente.


    – Penso che tu abbia talento come scrittore, – disse.


    – Sulla base di due piccole poesie?


    – Sí. Io non potrei mai scrivere un sonetto.


    – Certo che potresti. Potresti inventarne uno in questo momento. Ta-tah, ta-tah, ta-tah, ta-tah, rima A. Ta-tah, ta-tah, ta-tah, ta-tah, rima B.


    – Non rovinarlo, – disse Marion.


    – Cosa?


    – Non rovinare quello che hai scritto per me. È bellissimo.


    Riprovò a baciarla, e questa volta Marion dovette spingerlo via.


    – Marion, – disse Bradley.


    – Non voglio essere quel tipo di ragazza.


    – Quale tipo?


    – Lo sai benissimo, – disse Marion, la faccia contorta dal pianto. – Non voglio essere una sgualdrina.


    – Qualunque cosa accada, non sarai mai quel tipo di ragazza.


    Marion si premette le mani sulla faccia per impedirle di contorcersi. – Tu non sai niente di me.


    – Posso leggerti nell’anima. Tu sei l’opposto di quel tipo di ragazza.


    – Ma hai detto che il tuo matrimonio non è negoziabile.


    – Sí, l’ho detto.


    – Scrivi poesie anche per tua moglie?


    – Ho smesso molto tempo fa.


    – Non mi dispiace che tu le scriva per me. Mi fa piacere. Tantissimo piacere. Vorrei… – Scosse la testa.


    – Cosa vorresti?


    – Vorrei che scrivessi un dramma, o un film, con me come protagonista.


    Bradley sembrava stupito. – È questo che vuoi?


    – È solo un sogno, – si affrettò a rispondergli. – Non è reale.


    Lui mise le mani sul volante e chinò la testa. Avrebbe potuto facilmente aprire uno spiraglio ed esprimere dei dubbi sul suo matrimonio. Ma doveva aver intuito che lei non stava bene. Forse pensava che mentire a una svitata non fosse sportivo.


    – Mettiamo che lo faccia, – disse. – Mettiamo che scriva una parte per te. Magari la figlia dell’ambasciatore tedesco… quasi quasi credo che ci riuscirei, se potessi immaginare te in quel ruolo. È questo che mi manca, qualcosa di bello da immaginare invece della bruttezza che porto a casa. Da Isabelle non ricevo alcun sostegno. Le dà fastidio persino che io legga. È gelosa dei libri! E sapessi come si arrabbia quando cerco di parlarle di una nuova idea. È come se lei fosse il dottor Freud e io il paziente, solo perché ho qualche idea per una sceneggiatura. «Oh, cielo, il paziente manifesta ancora dei sintomi. Credevamo di averlo guarito dall’ambizione, e invece ha avuto una ricaduta». È cosí amareggiata per i suoi sogni irrealizzati che non sopporta che io abbia ancora i miei.


    – L’ami? – disse Marion. Udire la propria voce che rivolgeva quella domanda la fece sentire piú vecchia e piú saggia: capace.


    – È brava con i bambini, – rispose Bradley. – È una brava madre. Forse un po’ troppo ansiosa… appena tirano su col naso pensa che abbiano la pertosse. Ma è incredibile come anche la persona piú interessante del mondo possa diventare la piú noiosa.


    – Una volta era interessante.


    – Non lo so. Non lo so. Ora non lo è piú, questo è poco ma sicuro.


    Marion avrebbe potuto semplicemente offrirgli amicizia e ispirazione; non era ancora cosí svitata da credere di poter recitare in un film scritto da lui. Il colpo di genio del venditore era stato descriverle una persona che le veniva voglia di ammazzare. Bradley non sapeva che sua moglie si chiamava come la madre e come la sleale compagna di scuola di Marion, ma appena le aveva fornito una Isabelle piú dettagliata da odiare, aveva spalancato la porta a pensieri piú svitati. Il pensiero che lei, Marion, fosse davvero piú capace di lui. Il pensiero che fosse troppo buono per affrontare l’ovvia verità. Il pensiero che solo lei potesse proteggerlo dall’infelicità e salvarlo come scrittore, credendo in lui e aiutandolo ad affrontare la verità sul suo matrimonio senza amore. Solo una strega vendicativa poteva essere gelosa di un libro! Isabelle andava ammazzata per questo, e il modo per farlo era spostarsi sul sedile. Marion era abbastanza bassa da potersi inginocchiare, abbastanza snella da potersi infilare tra Bradley e il volante, e quando si trovò fra le sue braccia, la dimensione della moralità scomparve.


    Bradley Grant le tolse la verginità sul sedile di una LaSalle Series 50 del 1937 con i finestrini appannati, nel parcheggio della Lerner Motors. L’atto fu meno doloroso di quanto le avevano fatto presumere certe ragazze di Santa Rosa, ma piú tardi, nel bagno della pensione, Marion trovò piú sangue di quanto si aspettasse. La porcellana bianca si tinse di rosso mentre risciacquava le mutandine. Solo il mattino dopo si rese conto che le era venuto il ciclo.


    Il suo disturbo non aveva molto spazio per peggiorare, eppure in febbraio peggiorò. Si sentiva intrappolata dentro un cubo di metallo che si stava riempiendo d’acqua, lasciandole solo una piccola sacca d’aria in alto per respirare. L’aria era la salute mentale. Marion incontrava limitazioni a ogni angolo, la piú crudele rappresentata dal poco tempo che poteva trascorrere da sola con Bradley. Per tutto il giorno lavorava a cento passi da lui, ma Bradley diceva che dovevano stare molto attenti. All’ora di pranzo lo spingeva in un angolo del suo vecchio rifugio nel reparto pezzi di ricambio, ma la stanza aveva una finestra dalla quale il loro angolo era obliquamente visibile. Harry Lerner aveva proibito ulteriori vendite di automobili dopo l’orario di chiusura, e la sera Bradley trovava sempre qualche scusa per tornare a casa. Alla fine ricorsero, di nuovo, al sedile della LaSalle. Benché sembrasse molto piú rischioso in una notte di luna, senza vapore sui finestrini, Marion lo tenne lí fino alle undici meno un quarto. La settimana dopo, nel suo giorno libero, Bradley la portò in un motel a Culver City, ma anche lí Marion si sentiva limitata, perché fare l’amore non bastava. Dovevano discutere del futuro, perché ora Bradley capiva senz’altro che non poteva rimanere sposato con Isabelle, e tutto quel fare l’amore non lasciava tempo per parlare. Solo quando tornarono in macchina gli chiese se avesse ricominciato a scrivere.


    – Non ancora, – le rispose.


    Era una risposta ragionevole e sincera, eppure la turbò moltissimo. Mentre lui guidava, la distanza da casa sua diminuiva, il tempo per parlare si riduceva, il cubo si riempiva d’acqua.


    – Non so se ci riesco, – disse Bradley.


    – Hai provato?


    – Riesco a pensare solo a te.


    – Anch’io. A te, cioè.


    – Non so proprio se ci riesco.


    – Io sono sicura di sí.


    – Non a scrivere, – disse Bradley. – A fare questo. Non so se sono tagliato per amare due donne contemporaneamente.


    Nel cubo restava meno di una boccata d’aria, con la quale Marion fu in grado di dire solo: – Oh.


    – Questa situazione mi sta lacerando, – proseguí Bradley. – Non ho mai desiderato nessuna quanto te. Sei assolutamente perfetta. È come se fossi nato con il tuo viso impresso nel cervello.


    Lei non condivideva quel sentimento. Se lo avesse incrociato per strada un anno prima, non si sarebbe girata a guardarlo. Per un istante, come vedendosi dall’esterno, scorse i contorni della cosa dentro di lei, di quell’ossessione crescente, e la riconobbe come un oggetto estraneo ai desideri di una persona normale. Ma poi, in un batter d’occhio, vi ricadde dentro.


    – Torniamo al motel, – disse.


    – Non possiamo.


    – Non mi è bastato. Ho bisogno di stare di piú con te.


    – Anch’io voglio di piú, ma non possiamo. Sono già in ritardo.


    In ritardo voleva dire Isabelle. La prospettiva di rinunciare a Bradley le sembrava cosí pericolosa per la propria vita che ammazzare Isabelle sarebbe stato un atto di legittima difesa. Cominciò a respirare con affanno.


    – Marion, – disse Bradley. – So che per te è difficile, ma per me lo è ancora di piú. Mi sta lacerando.


    Disse qualcos’altro, ma lei era troppo impegnata a respirare per riuscire a sentirlo. Automobili nere ed edifici bianchi, ubriaconi con sacchetti di carta e donne con calze trasparenti, amare due persone e mi sta lacerando. Forse era svenuta per l’iperventilazione, oppure c’era stato un altro slittamento. La mano che Bradley posò sulla sua, davanti alla pensione, ardeva di freddo. Marion continuava a non sentire le sue parole, sapeva solo che doveva scappare.


    Il secondo slittamento fu peggiore del primo, il numero di ore cancellate maggiore, e piú tardi Marion si trovò graffi sulle nocche e un bernoccolo rosso sulla fronte. Il mattino dopo arrivò al lavoro con un’ora di ritardo e scoppiò in un pianto sproporzionato quando il signor Peters la rimproverò gentilmente. All’ora di pranzo, temendo di soffocare se fosse rimasta lí dentro, temendo di morire se Bradley le avesse rivolto la parola, fuggí dalla concessionaria e vagò senza meta in vie intitolate a nomi o numeri. La neve caduta con le tormente ricopriva le montagne spettrali, ma il sole di marzo era forte, la primavera già nell’aria. Stava cominciando a respirare piú liberamente quando scorse una faccia nota. Verso di lei, sulle strisce pedonali fra Grand Avenue e Ninth Street, veniva Isabelle Washburn. Marion abbassò la testa, ma Isabelle la prese per un braccio.


    – Ehi, ragazza. Non mi saluti neanche?


    Sotto un soprabito leggero di stoffa cangiante lavanda e verde, Isabelle indossava un vestito a pois verdi su sfondo bianco, non economico. Portava i capelli ondulati su un lato della testa e aveva adottato un modo di parlare a bocca aperta che sembrava copiato dai film. Si scoprí che incolpava il cugino sempliciotto, e non la propria assoluta mancanza di talento recitativo, del fallimento del suo piano per venire scoperta, ma guadagnava discretamente come modella fotografica e viveva con altre ragazze in un villino dietro l’Egyptian Theatre. Forse l’immaginazione di Marion era stata infettata dalla lascivia, ma i ripetuti accenni di Isabelle al suo padrone di casa le diedero l’impressione che fosse piú di un semplice padrone di casa. La nuova parlata artificiosa di Isabelle rivelava un cuore inasprito dalle dure esperienze della vita. – Comunque, queste sono le mie novità, – disse. – E a te come butta?


    – Io sto bene, – disse Marion, una risposta cosí comica che per poco non si mise a ridere.


    – Caduta in piedi e tutto quanto?


    – Tutto a posto. Sí. Ho un lavoro fisso. Anzi, mi sa che devo tornare in ufficio.


    Isabelle si accigliò. – Cosa cavolo hai fatto alla testa?


    – Non saprei.


    Isabelle frugò nella borsetta. – Vieni qui, fatti mettere un po’ di cipria.


    Lí, all’angolo della strada, Marion lasciò che l’ex amica le coprisse il bernoccolo con il trucco. Quell’assistenza noncurante, da sorella, la commosse. Isabelle le alzò il mento con il dito e la esaminò con occhio professionale. – Cosí va un po’ meglio, – disse, chiudendo il portacipria. – Sai, dobbiamo proprio vederci, prima o poi. Una volta mi facevi scompisciare dalle risate. Ti ricordi Hal Chalmers e Pokie Turner? Dick Stabler? Passa a trovarmi se capiti dalle mie parti. Sto proprio dietro l’Egyptian, su Selma Avenue, è una casa rosso vivo, non puoi sbagliare.


    Sembrava che si fosse dimenticata di averla scaricata nove mesi prima. Nel frattempo la sua vita era stata cosí piena di avvenimenti che per lei le scuole superiori erano ormai preistoria, e in effetti sembrava davvero straordinario che Marion avesse immaginato di rimanere sua amica dopo il diploma. Però non aveva piú voglia di ammazzarla. Anzi, era dispiaciuta per quello che la vita le stava facendo. Nove mesi dopo, quando a lei la vita aveva fatto anche di peggio e non aveva nessuno a cui rivolgersi, Marion si sarebbe ricordata non solo della sdolcinata gentilezza di Isabelle all’angolo di Ninth e Grand. Si sarebbe ricordata anche che Isabelle viveva in un villino rosso dietro l’Egyptian Theatre.


    Era diventata – si era resa – un problema che Bradley doveva gestire. Qualche giorno dopo il secondo slittamento, una cliente bionda sulla trentina entrò nella concessionaria. Quasi tutti i clienti della Lerner erano uomini, e da quando era ossessionata da lui, Marion non l’aveva ancora visto usare la sua magia su una donna. D’un tratto la plasticità fumettistica dei suoi lineamenti le sembrò grottesca. Quando la donna se ne andò, senza comprare niente, l’odio di Marion per la moglie di Bradley giunse a ebollizione e le fece saltare una guarnizione nella testa. Lo seguí in bagno e gli buttò le braccia al collo, tentando di arrampicarglisi addosso e chiedendogli quando avrebbero fatto ancora l’amore. Aveva un disperato bisogno di fare ancora l’amore con Bradley, e lui, temendo che li sorprendessero in bagno, acconsentí. Tornarono a Culver City quella sera stessa. Il piacere che le dava il sesso cresceva in maniera esponenziale a ogni incontro. Bradley dichiarò che, fino a quella notte, non aveva mai capito cosa fosse la passione. Si dichiarò assolutamente pazzo di lei. Quando l’accompagnò a casa le disse di licenziarsi dalla Lerner e trovarsi un alloggio migliore.


    Marion venne assunta come stenografa in un’agenzia di gestione immobiliare, dove lavorava un ex venditore della Lerner amico di Bradley. L’amico le trovò un miniappartamento a Westlake, e Bradley anticipò tre mesi di affitto, sfilando le banconote dal fascio che teneva in tasca. Questo la rendeva tecnicamente una specie di prostituta, ma per lei quelle banconote erano tutti dollari che non sarebbero andati alla moglie e ai figli di Bradley, dollari che le appartenevano di diritto, riscattabili in un futuro in cui sarebbe stata sua moglie. La loro sintonia faceva da garante. Per tutto aprile, maggio e giugno Marion sperimentò quella sintonia sul letto a scomparsa dell’appartamento, sulla moquette bruciacchiata dalle sigarette, sull’incerata a quadretti che copriva il tavolino da pranzo. Dopo il sesso, le parole che altrove faticava a pronunciare le venivano con facilità. Bradley le portava nuovi libri da leggere, e adesso lei seguiva con fervore la guerra in Europa, perché interessava a lui. La cosa che trovava piú appassionante era la sceneggiatura spagnola, nella quale lei impersonava la figlia dell’ambasciatore tedesco. Mentre studiavano insieme i dettagli della storia, Marion prendeva rapidi appunti sul letto, una stenografa nuda. Lavorare alla storia la eccitava tantissimo, ed eccitava anche Bradley. Quando le toglieva di mano blocchetto e matita e li metteva da parte, Marion si sdraiava per lui in uno stato di alterità, immaginando di essere la figlia dell’ambasciatore, come se fosse l’attrice che la interpretava. Al lavoro non era difficile trovare un’ora libera per battere a macchina le annotazioni, a volte aggiungendovi idee proprie. Probabilmente i giovani scapoli dell’ufficio sapevano della sua situazione con Bradley, perché sembrava che non la vedessero neppure. Era solo la ragazza taciturna che conosceva bene il sistema Gregg e non sbagliava l’ortografia.


    In luglio, Bradley portò Isabelle e i bambini a visitare i parchi Sequoia e Yosemite. Marion l’aveva implorato di usare le ferie per cominciare a scrivere la sceneggiatura, di cui lei aveva ultimato la scaletta, ma lui aveva risposto che doveva quella vacanza ai suoi figli, e cosí erano partiti. Finché non era dovuta stare per piú di quattro giorni senza vederlo, finché la loro sintonia veniva regolarmente confermata, Marion aveva evitato ulteriori episodi di slittamento. Ma un weekend da sola, dopo una settimana senza alcuna speranza di vedere Bradley, era interminabile. Perfino il sole le sembrava maligno per come indugiava davanti alle finestre, tramontando con insolente lentezza. Non riusciva a leggere un libro né ad andare al cinema. Il passare del tempo richiedeva un’attenta sorveglianza. Rimaneva seduta immobile, cercando persino di non battere le palpebre, finché la paura di allentare la sorveglianza non diventava apocalittica, come se bastasse muovere un muscolo del piede per provocare la fine del mondo. Era molto, molto giú. Per qualche motivo era particolarmente restia a lavarsi, alla sensazione dell’acqua sulla pelle.


    Bradley doveva tornare la sera di sabato 27 e aveva promesso di andare a trovarla domenica. Marion passò la notte del sabato distesa sulla schiena con gli occhi aperti, perché chiuderli significava immaginarlo a letto con la sua Isabelle, calcolare le innumerevoli ore che Isabelle aveva avuto per minare la sua fiducia in se stesso, e nutrire il sospetto che Isabelle avesse ragione; significava vederlo per quello che era veramente e vedere se stessa per quello che era veramente, una ragazza sola che barattava il proprio corpo con una fantasticheria. Quando era sola il tempo le era nemico, perché mantenere la fantasticheria costava fatica e la sua forza era limitata. Al mattino, insonne e non lavata, bollí e mangiò due uova e tornò a sdraiarsi. Il sole aveva un nuovo trucchetto maligno: cambiava posizione all’improvviso, saltando avanti, come se volesse deriderla per il non-arrivo di Bradley. Stava ormai tramontando quando Marion sentí bussare alla porta, girare una chiave nella serratura. Che aspetto doveva avere quando Bradley la vide sul letto! Capelli piatti, occhi gonfi, labbra secche: una pazza. Bradley si inginocchiò per terra e la baciò sulla guancia. Lei non sentí nulla.


    – Scusa se non sono venuto prima, – le disse. – Abbiamo avuto un problema con un topo. Cacche di topo in tutta la cucina. Alla fine ho trovato una tana dietro il cassetto della guida telefonica. Quattro topini in mezzo alla carta masticata. Ho cercato di raccoglierli con un cucchiaio per portarli fuori, ma loro strisciavano via… era orribile. Ho dovuto schiacciarli con il cucchiaio, una cosa piuttosto difficile quando devi allungarti dietro un armadietto e non vedi quello che stai facendo, e nel frattempo tua moglie ti grida nelle orecchie.


    Quante volte l’hai scopata?, disse qualcuno a voce alta. Quella parola atroce sembrava dimostrare che non era stata lei, ma chi altri poteva essere stato?


    – Volevo venire prima, – disse Bradley, come se non avesse sentito la domanda, – ma c’era un gran casino. I bambini litigavano, erano stati troppo tempo insieme in macchina, e Gesú, quei topi. I genitori sono ancora da qualche parte negli armadietti. Non posso fermarmi molto.


    – Allora non fermarti proprio, – disse Marion, e questa volta era proprio lei.


    – Scusami. So che è stato difficile per te, ma lo è stato anche per me.


    – Tu non sai cosa vuol dire difficile.


    – Marion. Tesoro. Certo che lo so –. Con una mano ammazzatopi le scostò i capelli dagli occhi e le accarezzò la testa. – Mi sono comportato male con te. Sei cosí bella, cosí fragile, cosí seria. Dio, come sei seria. E io sono solo un maledetto venditore di automobili.


    Marion scoppiò in un pianto isterico. Era uno spreco del poco tempo che avevano, ma era anche una liberazione dall’arida paralisi che aveva sofferto per due settimane. Le restituí la sensibilità, e alla fine le portò l’ulteriore, crudele vantaggio di far rimanere Bradley molto piú a lungo del previsto – di complicare le bugie che avrebbe dovuto raccontare una volta tornato a casa – perché non sapeva resistere alla sua fragilità. Il suo viso bagnato di lacrime impose una rude svestizione, e lei era seria, eccome se lo era. Mentre Bradley faceva i suoi comodi, Marion si concentrò intensamente sulla sua faccia, attenta a ogni minimo segnale che indicasse un calo di piacere. Il suo, di piacere, era diventato secondario. L’unica cosa che importava era Bradley.


    Tre sere dopo, Bradley la sorprese andandola a prendere in ufficio e invitandola da Carpenter’s per un hamburger. Lungo la strada l’intelligenza ferina di Marion l’avvisò che un cambiamento inaspettato nella loro routine non poteva portare niente di buono, scontrandosi con la speranza che Bradley avesse finalmente trovato il coraggio di lasciare Isabelle. L’intelligenza ferina aveva ragione. In macchina, al ristorante drive-in, dopo aver divorato l’hamburger a morsi nervosi mentre quello di Marion le rimaneva intatto in grembo, Bradley si leccò via un po’ di ketchup sanguigno dall’indice e disse che durante le vacanze aveva riflettuto tanto. Disse – oh, cos’era che stava dicendo? – trovare il modo di infliggere un dolore chi è causa del suo mal pianga meriti un uomo che sia degno del tuo cento per cento non cinquanta per cento perché cinquanta per cento non è di nuovo da solo con te perché tu non smetterai mai di essere la persona non è giusto nei tuoi confronti non è giusto io non sarò mai realisticamente un realistico non è affatto giusto avrei dovuto saperlo la cosa peggiore terribile realisticamente davvero terribile farmene una ragione non me ne farò mai una ragione… Mentre i lineamenti gommosi di Bradley si distendevano in maniera espressiva, Marion sentí tutte le varietà di rosso che le affluivano al viso, pomodoro, scarlatto, cremisi, granato, barbabietola, come se fosse un camaleonte. Immaginando quanto doveva essere comica, scoppiò a ridere.


    Bradley la fissò, e la sua espressione preoccupata le sembrò ancora piú divertente. Agitò mollemente una mano, come fa chi si scusa di non riuscire a smettere di ridere, e tentò di controllarsi. – Scusa, – disse. Le sfuggí un’altra risata nasale. – Stavo pensando ai topini.


    – Gesú. E perché ridi?


    – Perché… poverino. Hai dovuto schiacciarli con un cucchiaio –. Ridacchiò e poi rise piú forte, piegandosi in due. Forse si rendeva conto che Bradley non poteva certo abbandonarla mentre faceva la matta, ma era davvero in preda all’ilarità. Bradley ci avrebbe sicuramente pensato due volte prima di portarla ancora in un luogo pubblico. Anche quel pensiero le sembrava esilarante.


    – Devo preoccuparmi per te? – disse Bradley quando Marion riuscí finalmente a controllarsi.


    – Preoccupati per te stesso, – gli rispose. – Io sono molto piú grande di un topo.


    – Cosa vuol dire?


    – Secondo te cosa vuol dire?


    Bradley lanciò un’occhiata alla Ford coupé parcheggiata alla sua sinistra, al sedere in uniforme della cameriera del drive-in che si chinava verso il finestrino del passeggero.


    – Devi credermi se ti dico che non me ne farò mai una ragione, – disse, con un’espressione molto seria. Marion modificò la propria espressione di conseguenza, ma il suo tentativo di cipiglio le sembrò cosí ridicolo che ricominciò a ridacchiare.


    – Ti prego, ti prego, ti prego, – disse Bradley.


    – Sto cercando di essere seria, ma forse non mi hai capita.


    – Dobbiamo smetterla, – disse Bradley.


    – Oh. Perché?


    – Te l’ho detto. È stata la prima cosa che ti ho detto. Non intendo distruggere la mia famiglia. Non intendo lasciare la madre dei miei figli.


    – Hai anche detto che saresti morto se non avessi potuto stare con me. Questo vuol dire che stai per morire?


    Bradley si coprí la faccia con le mani. Se mai le era piaciuto, decisamente non le piaceva adesso, ma la questione era piú irrilevante che mai. Percepiva chiaramente i contorni della sua ossessione per lui. Sarebbe stato saggio strapparsela via dal cranio, ma ormai era un oggetto troppo grande per poterlo rimuovere senza spaccarsi la testa in due. Malgrado la sua malsana enormità, era anche troppo bello.


    – Io probabilmente morirò se non posso stare con te, – gli disse in tono concreto.


    – No che non morirai. Troverai qualcuno di meglio.


    – Ma capisci quello che sto dicendo?


    – A dire la verità, non riesco a seguirti del tutto.


    – Ti sbagli, – disse Marion, aprendo la portiera. – Tutto qui. Io so che ti sbagli.


    Mentre si dirigeva verso casa, passando accanto a Westlake Park, non si sentiva giú. Si sentiva nervosamente euforica, come un generale alla vigilia di una battaglia decisiva. Lei e Bradley erano entrati in una crisi che le serviva tutto il suo ingegno per superare. Essersene andata di sua spontanea volontà, senza fare una scenata implorandolo di ripensarci, le sembrava, col senno di poi, una tattica brillante. Ora doveva solo portare pazienza. Fra il lavoro, i doveri familiari e le attenzioni rivolte a lei, Bradley era stato troppo stressato per esercitare il suo talento di scrittore. La fantasticheria in cui tornava da lei senza preavviso, nel cuore della notte, dopo un mese di separazione, entusiasta della sceneggiatura che aveva scritto e impaziente di conoscere la sua opinione, la fantasticheria in cui leggevano quelle pagine insieme e lei le trovava magnifiche, era cosí trascinante, cosí gradevolmente ripetibile e perfezionabile, che quella notte Marion non dormí quasi per niente. Il mattino dopo, andando al lavoro, aveva voglia di saltellare. Invece di nascondersi dietro un giornale, chiacchierò con le altre dattilografe e sorrise agli scapoli.


    Per alcune settimane rimase costantemente euforica, confortata dalla certezza che la strategia di non assillare Bradley, di abbandonarlo in preda ai dubbi e ai rimorsi, di lasciarlo scrivere in pace, l’avrebbe riportato da lei. Immaginando che potesse vederla e ingelosirsi, permise a un giovane collega di portarla fuori a cena e al cinema. In seguito non ricordò di avergli sentito dire alcunché, e ciò la spinse a chiedersi se avesse parlato lei per tutto il tempo, di Hitler, Ribbentrop e Churchill. Forse sí. L’uomo non la invitò piú, e a Marion non dispiacque, perché per lei non esisteva nemmeno. Piú in generale i margini dell’esistenza avevano cominciato a sfilacciarsi, come conseguenza della mancanza di sonno. Infine, una sera di settembre, decise di uscire dal lavoro presto e andare a trovare Bradley alla Lerner Motors. La data, il 9/9, era irresistibilmente di buon auspicio.


    Bradley stava prendendo il caffè con il signor Peters, e nel vederla sbiancò. Nervosa ma residualmente euforica, Marion salutò le altre ragazze come se fossero grandi amiche. Una di loro aveva un anello di fidanzamento, un’altra aspettava un bambino e stava per lasciare il lavoro, uno dei venditori meno abili era stato licenziato. Per conciliare l’urgente bisogno di parlare con l’assoluta mancanza di cose personali da raccontare, Marion espresse opinioni forti, derivate dal giornale, sulla situazione in Europa e la necessità di un intervento americano. Una dopo l’altra le ragazze si allontanarono, finché solo Anne rimase con lei. Le domandò gentilmente se si sentisse bene, e Marion ammise di avere problemi a dormire. La invitò a mangiare una minestra a casa sua.


    – No, sono venuta per vedere Bradley, – disse Marion. – Mi deve ancora una costata.


    Anne prese un’espressione grave.


    – È un uomo di parola.


    – Perché non vieni a casa mia, invece, – disse Anne.


    – Un’altra volta, – rispose Marion, allontanandosi. Le pulsava la testa e le sembrava di essere fatta di gesso. Forse avrebbe preferito dormire, se il sonno fosse stato possibile. Bradley era in piedi accanto alla Cadillac 75 tuttora invenduta insieme a un uomo dai capelli rossi, con ogni evidenza un Jake Barnes, e lo ascoltava con fumettistico rapimento. Riusciva a far sentire ogni cliente incredibilmente interessante. Marion si avvicinò al Jake Barnes e disse: – Mi scusi tanto, ma c’ero prima io.


    Lo sguardo di Bradley le svolazzò intorno senza posarsi. – Marion, – disse.


    Il Jake guardò l’orologio. – Non importa.


    – No, no –. Bradley le posò una mano sulla schiena e l’allontanò. – Devi aspettare, – le disse, come parlando a una bambina.


    – Non è quello che ho fatto finora?


    – Solo un momento… aspetta. Va bene?


    Marion aspettò, bene in vista, fumando una sigaretta su uno dei divanetti di cuoio per i clienti. Anche l’interno della bocca le sembrava fatto di gesso. La mancanza di sonno aveva disgregato la continuità del mondo in frammenti aguzzi. Gli sguardi preoccupati di Anne e del signor Peters, seduti alle loro scrivanie, rimbalzavano su di lei come frecce su un oggetto di gesso.


    Senza sapere come ci fosse arrivata, si ritrovò fuori con Bradley, sul marciapiede dietro l’angolo della Lerner. Le cime dei palazzi che facevano ombra alla strada sfavillavano nel sole calante. L’aria era acre dei gas di scarico delle auto.


    – Oh, tesoro, – stava dicendo Bradley. – Hai un’aria molto stanca.


    – Scusa.


    – Non volevo essere sgarbato. Solo… mangi abbastanza?


    – Mangio le uova. Mi piacciono le uova. Scusa.


    – Continui a scusarti, ma sono io che dovrei scusarmi.


    – Scusa.


    Bradley strizzò gli occhi. – Oddio.


    – Cosa? – disse Marion, ansiosa.


    – Rivederti mi sta uccidendo.


    – Vuoi venire a casa con me?


    – È meglio di no.


    – Non c’è bisogno che ti fermi tanto.


    Lui sospirò. – C’è un incontro genitori-insegnanti e ho promesso a Isabelle che ci sarei andato.


    – È un incontro importante? – chiese Marion, sinceramente curiosa.


    La lunga attesa era finita. Marion aspettò pazientemente fuori da una cabina telefonica mentre lui mentiva a sua moglie. Fu paziente anche in macchina. Era Bradley a essere impaziente: appena entrarono nell’atrio di casa sua la spinse contro il muro accanto alle cassette della posta e la baciò con furia. Si sentiva ancora fatta di gesso, ma evidentemente per lui la sua carne era cedevole, e ciò bastava.


    O forse no. Lo scopo dell’attesa era stato raggiunto, ma il filo che legava l’ossessione al suo oggetto si era teso oltre il punto di rottura. Il rapporto sessuale, ripetuto diverse volte prima che Bradley se ne andasse, le diede piacere solo per quel che significava. La persona reale che le stava sopra, il venditore d’auto ansimante con l’alito di caffè, era un estraneo nel mondo in cui lei ormai viveva. Benché chiaramente anche lei significasse qualcosa per lui, Marion aveva smesso di immaginare cosa.


    Tempo dopo, in Arizona, non riusciva piú a ricordare perché gli avesse detto di andare pure tranquillo. Forse, essendo confusa su tante cose, era confusa anche sulle fasi del ciclo. Forse, sapendo che a Bradley non piaceva l’alternativa all’andare tranquillo, e non osando diminuirgli il piacere del ricongiungimento, aveva semplicemente sperato per il meglio. O forse, anche se non ricordava affatto di avere voluto rimanere incinta, l’intelligenza ferina aveva disastrosamente sbagliato i calcoli senza che lei se ne rendesse conto. Ma c’era anche il fatto che, quando gli aveva detto di andare pure tranquillo, Bradley le aveva creduto malgrado il suo evidente malessere mentale. Era possibile che anche lui, senza rendersene conto, avesse voluto fare un bambino? In Arizona, in mancanza di ricordi chiari, Marion concluse che la sua gravidanza era stata voluta da Dio, come modo per metterla alla prova: che la Sua volontà si manifestava nelle azioni dei Suoi figli, a prescindere dalle loro motivazioni. Questo risolse la questione.


    Quando raccontò la storia del suo crollo nervoso a Sophie Serafimides, Marion non ebbe difficoltà a omettere la gravidanza, perché erano successe tante altre cose che potevano spiegare il suo ricovero nel reparto sorvegliato. C’era stata la notte, una settimana dopo il primo ricongiungimento, in cui Bradley si era presentato da lei con una bottiglia di whisky mezza vuota. Poi ce n’era stata un’altra simile. C’erano state le due settimane in cui non lo aveva visto, e poi la tremenda lettera che le aveva mandato. C’era stata la sua seconda visita alla Lerner Motors, che non era andata bene, e poi la terza, durante la quale aveva cercato di far annusare a Bradley la mano con cui si era toccata le parti intime, ed era stata buttata fuori dal signor Peters. C’era stata la conseguente catatonia all’agenzia di gestione immobiliare, che aveva portato al suo licenziamento. C’era stata la serie di giornate di cui non ricordava quasi nulla, giornate interminabili in un appartamento di cui presto avrebbe dovuto pagare l’affitto. Infine c’era stato il tiepido pomeriggio di novembre quando era andata a casa di Bradley, all’indirizzo che aveva trovato sulla guida del telefono, per scambiare due parole con sua moglie.


    Le graziose casette quasi identiche di Keniston Avenue sembravano giocattoli, oppure le case finte di un set cinematografico. Marion era molto spaventata quando suonò il campanello di Bradley, ma non le veniva in mente nessun altro modo per dimostrargli che si sbagliava. Doveva, paradossalmente, ottenere la collaborazione di sua moglie. Quando avesse scoperto che Bradley era innamorato di un’altra, ossia di Marion, il cui viso gli era stato impresso nel cervello alla nascita, Isabelle avrebbe compreso l’assurdità del proprio matrimonio. Per Marion, immaginare Bradley divorziato era piú piacevole e meno faticoso che domandarsi perché non le fosse ancora venuto il ciclo. Sperava che fosse solo perché era malnutrita ed emotivamente stressata – aveva sentito di casi del genere –, perché poteva sperare di tenersi Bradley solo se lui l’avesse vista come la sua liberazione. Un bambino lo avrebbe disgustato e fatto sentire in trappola, e lei non avrebbe certo potuto interpretare la figlia dell’ambasciatore tedesco con il ventre ingrossato da una gravidanza.


    Con sua grande sorpresa, venne ad aprire un bambino biondo di sette o otto anni. Le migliaia di volte che aveva immaginato quella scena, sulla porta era apparsa sempre e solo Isabelle.


    Il bambino la fissò. Lei lo fissò di rimando. Quel momento sembrò durare un’ora.


    – Mamma, – si girò a gridare il bambino. – C’è una signora.


    Andò via, e apparve Isabelle Grant con uno strofinaccio in mano. Aveva i fianchi robusti ed era meno alta di come Marion l’aveva immaginata. Come Isabelle Washburn, sembrava piú commiserabile che ammazzabile. Anche questo era inaspettato. – Le serve qualcosa?


    Stavolta Marion non fu affatto divertita dal rossore camaleontico che le comparve sulle guance.


    – Signorina? – disse Isabelle. – Si sente bene?


    – Suo, ehm, suo marito, – disse Marion.


    – Sí?


    – Suo marito non l’ama piú.


    Ora allarme, sospetto, rabbia. – Chi è lei?


    – È un vero peccato. Ma lei lo annoia.


    – Chi è lei?


    – Io… be’. Ha capito quello che ho detto?


    – No. Deve avere sbagliato casa.


    – Lei non è Isabelle Grant?


    – Sí. Però non la conosco.


    – Bradley mi conosce. Può chiedere a lui. Io sono la persona di cui è innamorato.


    La porta si richiuse sbattendo. Marion, sentendo di non essersi spiegata a sufficienza, suonò di nuovo il campanello. Da dentro venne un tramestio di passi infantili. La porta si spalancò. – Chiunque lei sia, – disse Isabelle, – se ne vada, per favore.


    – Mi dispiace, – disse Marion, con autentico rimorso. – Non avrei dovuto cercare di ferirla. Ma quel che è fatto è fatto. Lei non lo soddisfa, tutto qui. Forse alla fine sarà meglio anche per lei.


    Questa volta la porta non sbatté, ma si chiuse con uno scatto. Marion sentí scorrere il chiavistello. Dopo alcuni minuti di cui non aveva memoria, si ritrovò ancora sullo zerbino. Era tutto molto deludente. Da giorni immaginava che parlare con la moglie di Bradley avrebbe completamente rifatto il mondo; che la sua sofferenza mentale, cresciuta costantemente da quando lui le aveva mandato quella lettera tremenda, sarebbe cessata in un istante, e lei si sarebbe trovata in un mondo dove le decisioni erano facili. Ma la sofferenza c’era ancora, e si manifestava nel non sapere cosa fare. Le sarebbe piaciuto restare lí sullo zerbino, ma era abbastanza ragionevole da riconoscere la cattiveria di quella visita a casa di Bradley – era riuscita solo a infliggere sofferenza a Isabelle senza alleviare la propria. Si voltò e tornò sul marciapiede. Arrivata davanti a un parchetto, vide una siepe di bosso dietro la quale poteva sdraiarsi al riparo dagli sguardi. Appoggiò la guancia sopra un ciuffo d’erba fra zolle di terra nuda. Malgrado ci fosse una cacca di cane a portata di olfatto, rimase lí distesa finché non calò il buio.


    Quando arrivò a casa, la LaSalle di Bradley era parcheggiata davanti al palazzo. Avrebbe potuto entrare nell’appartamento, invece era seduto al volante. Con un brusco cenno della testa le indicò di salire accanto a lui. Marion era spaventata, ma obbedí. Si rannicchiò contro lo sportello, cercando di farsi piccola piccola.


    – Cosa vuoi? – le disse, rabbioso.


    – Scusa.


    – No, sul serio. Cosa vuoi? Dimmi cosa diavolo credi di volere.


    – Scusa.


    – È troppo tardi per le scuse. Ora ho un casino terribile per le mani. Giuro su Dio, Marion, se ti avvicini ancora a mia moglie chiamo la polizia.


    – Scusa.


    – Lo stesso vale per la Lerner. Chiameremo la polizia, e lo sai cosa faranno? Ti metteranno in una clinica. Tu non ci stai con la testa. Mi si spezza il cuore a dirlo, ma è cosí.


    – Vomito parecchio, – convenne Marion. – Non riesco a tenere giú niente.


    Bradley sospirò, frustrato. – Per l’ultima volta: non possiamo piú vederci. Mai piú. Hai capito?


    – Sí. No.


    – Niente contatti di nessun tipo. Hai capito?


    Marion sapeva che era importante dire di sí, ma non poteva dirlo con sincerità.


    – Quello che devi fare adesso – disse Bradley – è tornare a casa. Puoi farlo per me? Voglio che torni a San Francisco e lasci che la tua famiglia si prenda cura di te. Sei una persona dolcissima. Mi si spezza il cuore a vedere cosa ti è successo. Ma quello che hai fatto oggi va oltre ogni limite.


    Nel petto di Marion si coagulò una nuova inquietudine: aveva finalmente liberato Bradley ma era troppo fuori di testa perché lui la volesse. Quel paradosso le salí in gola e la strozzò come un rigurgito di succhi gastrici. Vomitò fuori quattro parole: – Adesso chiederà il divorzio?


    – Tesoro… Marion. Quanti modi devo trovare per dirtelo? Non possiamo stare insieme.


    – Io e te.


    – Io e te.


    Il suo respiro si fece affannoso, e Bradley infilò la mano nella giacca. Il mazzo di banconote che mise sul sedile fra di loro era bello grosso. – Voglio che tu prenda questo, – disse. – Comprati un biglietto di prima classe. E poi, appena arrivi a San Francisco, voglio che tu vada dal migliore psichiatra che riesci a trovare. Qualcuno che ti sappia aiutare.


    Marion fissò i soldi.


    – Mi dispiace tanto, – disse Bradley. – Ma non posso darti nient’altro. Ti prego, prendili.


    – Non sono una puttana.


    – No, sei un angelo. Un dolce angelo che è finito in un brutto guaio. Davvero, se potessi darti qualcos’altro, te lo darei. Ma è tutto quello che ho.


    Finalmente capí che la considerava solo una sgualdrina a pagamento. I soldi sul sedile le sembravano un rettile pericoloso e ripugnante. Trovò la maniglia della portiera e per poco non cadde all’indietro, fuori dalla macchina. Con una mano ripugnante, Bradley le tese i soldi. – Ti prego, Marion. Per l’amor di Dio.


    Quando riemerse dallo slittamento, una mattina o l’altra, probabilmente la successiva, si sentiva inspiegabilmente meglio. Era come se l’odio per l’uomo che aveva cercato di pagarla avesse aperto una crepa nella sua ossessione per Bradley Grant. L’ossessione c’era ancora, ma indebolita, piú facilmente osservabile per quello che era. Nell’ingresso, avvolto in un volantino pubblicitario e infilato sotto la porta, trovò il mazzo di banconote. Le tagliò metodicamente a pezzettini una per una e le buttò nel gabinetto. Fu un terribile errore, ma dovette compierlo per alleviare la sofferenza mentale.


    Nei primi giorni di dicembre, meno distratta dalla sofferenza, riuscí a leggere di nuovo il giornale, interessandosi all’attacco di Mussolini alla Grecia, e si avventurò fuori in cerca di lavoro. Non aveva le referenze in ordine, però aveva ancora un bell’aspetto. Venne assunta in un grande supermercato Safeway per offrire assaggi di prodotti alimentari ai clienti, e scoprí con stupore che quel lavoro non le dispiaceva. Era bello avere una sola cosa da dire e dirla di continuo. La ripetizione attenuava la paura della cosa che ora riusciva ad ammettere di avere dentro di sé. Ma l’odore di certi alimenti, soprattutto della carne, aveva un’intensità che la disgustava, e la paura cresceva insieme alla cosa dentro di lei. Un giorno, mentre conficcava stuzzicadenti in mini würstel in scatola, la paura la spinse a uscire dal negozio, correre a casa e obbedire agli ordini dell’intelligenza ferina. Si prese a pugni nel ventre e saltò su e giú con foga. Inghiottí una sorsata di ammoniaca e non riuscí a tenerla giú. Quando ci riprovò e sbruffò l’ammoniaca dal naso, si sentí esplodere la testa e credette di morire.


    Nel racconto che fece a Sophie, una linea retta collegava l’offerta di denaro di Bradley alla notte in cui aveva vagato per le strade del centro di Los Angeles sotto la pioggia, farneticando di sgualdrinaggine e omicidio, scalza, la camicetta fradicia e sbottonata, finché non era stata arrestata dalla polizia. Ma la linea non era retta. Era passata per una notifica di sfratto, una scena lacrimevole con l’amministratore del palazzo, telegrammi a sua madre e a Roy Collins con richieste di fondi d’emergenza, e una telefonata a Bradley alla Lerner Motors. L’amministratore le concesse fino alla fine di dicembre per pagare gli arretrati dell’affitto. Sua madre, come si scoprí in seguito, era andata a sciare con le amiche. Roy Collins le spedí venti dollari per il viaggio, insieme a una concisa offerta di lavoro. Bradley riagganciò appena sentí la sua voce.


    Decisamente incinta e decisamente non interessata ad avere il bambino di Bradley, Marion prese un tram fino a Hollywood. Le strade erano asciutte e quasi avvolte dal crepuscolo, i fili d’argento e i nastri natalizi delle vetrine emergevano con il loro invitante luccichio dalla luce cruda del giorno che tutto impoveriva. Marion riuscí ad avere pensieri razionali e sentimenti normali – rancore nei confronti di sua madre, preoccupazione per le tenebre discese sull’Europa, odio per Bradley e sua moglie, apprezzamento per le linee del parafango di una Cadillac fuoriserie che superava il tram, curiosità per quello che combinava sua sorella a New York, se avesse già fatto sesso oppure no – per pochi secondi, prima che il terrore della sua situazione le montasse di nuovo dentro e li spazzasse via. Quando vide l’Egyptian Theatre scese dal tram e chiese a un venditore di giornali dov’era Selma Avenue. Ora la sua piú grande speranza era Isabelle Washburn. Anche se non avesse avuto soldi da prestarle, avrebbe potuto fornirle consigli e affettuosa solidarietà, di cui Marion aveva parecchio bisogno. Al buio era difficile distinguere i colori delle case, ma alla fine ne trovò una distintamente rossa. Una luce fioca e calda filtrava da dietro le tende alle finestre. Marion andò dritta alla porta e bussò. La porta si aprí quasi subito; e davanti a lei apparve Satana.


    Marion non sapeva che fosse Satana. L’uomo era basso, con un’aria da elfo, una folta barba bianca e le guance abbronzate, una pelata lucida e abbronzata e rughe benevole intorno agli occhi. – Entri, entri, – disse, come se la stesse aspettando. Marion disse che cercava Isabelle Washburn. – Isabelle non abita piú qui, – disse l’uomo, – ma entri pure. Prego.


    – Lei è il padrone di casa?


    – Be’, sí, certo. Prego, si accomodi.


    Nel soggiorno c’erano sedie comodamente logore, fotoritratti con effetto flou di giovani attrici e modelle, e anche un poster incorniciato di King Kong. Su un tavolino c’erano una bottiglia e un calice pieno di vino rosso. – Aspetti, le porto un bicchiere, – disse l’uomo, scomparendo.


    Dall’interno della casa proveniva uno sciaguattare d’acqua in una vasca, un sonoro sfregare di pelle contro la porcellana. L’uomo dalla barba bianca ritornò con un bicchiere, si sedette e lo riempí. Sembrava molto contento di vederla.


    – Devo trovare Isabelle, – disse Marion.


    – Capisco. Ma lei trema come una foglia.


    Questo era innegabile, e il vino la allettava. Si sedette e ne bevve un po’. Era molto piú leggero del whisky che aveva bevuto con Bradley. Una volta finito di spiegare come faceva a conoscere Isabelle e come era arrivata alla casa rossa, il bicchiere era vuoto. Quando l’uomo fece per riempirlo, lei non lo fermò. Il vino l’aiutava a galleggiare sugli abissi della paura, come una boa sulle profondità dell’oceano.


    – Temo di non sapere dove sia Isabelle in questo momento, – disse l’uomo, – per quanto riguarda il suo indirizzo e cosí via. Ma conosco una ragazza che potrebbe saperlo.


    – Sarebbe bello, – disse Marion, bevendo.


    – Lei è una giovane molto avvenente, – aggiunse l’uomo, senza una chiara ragione.


    Marion arrossí. Il vino era leggero, ma neanche troppo. Sentí una porta che si apriva, l’acqua che defluiva da una vasca da bagno, passi leggeri di piedi nudi, una porta che si chiudeva.


    – Allora, la ragazza, – disse. – La persona che sa dove abita Isabelle.


    – Oh, cara, hai un’aria atterrita, – disse l’uomo. – Sei spaventata? Marion? Perché sei cosí spaventata?


    – Voglio solo trovare Isabelle.


    – Ma certo, – disse l’uomo. – E io posso aiutarti.


    Nei suoi occhi brillava una luce benevola, una specie di mite allegria.


    – A me piace aiutare le persone, – proseguí. – Non saresti la prima ragazza nei guai che viene qui. È per questo che sei venuta? Stai cercando Isabelle perché sei finita in qualche guaio?


    Marion non riuscí a rispondere.


    – Marion? A me puoi dirlo. Sei finita in un guaio?


    Il suo guaio era troppo grande perché potesse parlarne. Per emergere sotto forma di parole avrebbe dovuto essere suddiviso in pezzi piú piccoli e disposto in una sequenza logica, e anche se fosse stata capace di suddividere e disporre avrebbe finito per raccontare a un perfetto sconosciuto che era incinta di un uomo sposato. Mentre lo sconosciuto aspettava la risposta, Marion notò una luce diversa, meno benevola, nei suoi occhi. Notò che aveva la camicia fuori dai calzoni e una grossa pancia. Doveva essersi sbagliata sull’interesse sentimentale di Isabelle per il suo padrone di casa.

    – È un guaio che riguarda un uomo, vero? – le disse.

    Marion non riusciva a respirare, e non aveva alcuna intenzione di rispondere, neppure con un cenno del capo.


    – Capisco, – disse lui. – E il tuo uomo è ancora in giro?


    Aveva annuito? Le sembrava di sí. Allora si decise e scosse la testa.


    – Mi dispiace molto, – disse l’uomo.


    – Ma la ragazza di cui parlava. Quella che sa dov’è Isabelle.


    – Vuoi che le telefoni?


    – Sí. Per favore.


    L’uomo uscí dalla stanza. Il bicchiere di Marion era vuoto, e anche la bottiglia. Mentre lei aspettava, una serie di piccoli rumori culminò in un ticchettio di tacchi, seguito dall’ingresso di una donna. Quando vide Marion si fermò. Portava una gonna stretta e una giacca coordinata con le spalle imbottite. La bocca dal rossetto color cremisi aveva una piega dura. – Sei qui per la stanza?


    – No, – disse Marion.


    – Buon per te.


    La donna si voltò e uscí di casa. L’uomo tornò con un cavatappi e un’altra bottiglia di vino. Marion aspettò col fiato sospeso mentre l’apriva.


    – Niente da fare, – disse l’uomo, versando il vino. – Jane non la vede da prima del giorno del Ringraziamento. Pensa che potrebbe essere tornata a Santa Rosa. Dice che gliene aveva parlato.


    A Marion sembrava strano che Isabelle fosse tornata a Santa Rosa, ma ogni cosa le sembrava strana. Si rammaricò di avere già speso i soldi che Roy Collins le aveva mandato per il viaggio. Immaginare Isabelle a Santa Rosa le aveva messo nostalgia.


    – Dovremo pensare a qualcos’altro per te, – disse l’uomo.


    – Credo che andrò a Santa Rosa.


    – Sí, potrebbe essere un’idea. Anche se, naturalmente, non siamo sicuri che Isabelle sia davvero là. Potrebbe essere andata ovunque. Potrebbe essere ancora qui. Jane ha detto solo che non la vede da un po’.


    – Ma sembra che… scommetto che è tornata a Santa Rosa.


    – Mm.


    L’uomo bevve un sorso di vino, forse per nascondere un sorriso. Cosa aveva da sorridere? Marion si alzò e lo ringraziò di aver fatto la telefonata.


    – Siediti, cara, – disse l’uomo. – Non ti conviene tornare a Santa Rosa. È un posto di provincia… la gente chiacchiera. Starai molto meglio nella grande città. Qui possiamo organizzare cose che sarebbero difficili, se non impossibili, a Santa Rosa. Capisci cosa sto dicendo?


    Marion capiva. Una volta Bradley le aveva rivolto la stessa domanda, e lei era svelta. Sedendosi di nuovo, accelerata dal vino che aveva ingerito, atterrò in maniera inaspettata e si inclinò da una parte.


    – Non devi sentirti in imbarazzo, – disse l’uomo. – Questa casa ce l’ho da quindici anni, e ho visto di tutto. Allora perché non parliamo sinceramente, io e te.


    La cosa stava crescendo dentro di lei, ed era di Bradley. Quella era la realtà che non poteva eludere. Non voleva avere la cosa dentro di sé. Le ricordava il bambino che aveva aperto la porta, l’atrocità dell’idea che Bradley avesse dei figli, l’atrocità del suo matrimonio, l’atrocità di ciò che aveva fatto a se stessa.


    – Forse hai saltato un ciclo, – disse l’uomo. – O forse piú di uno?


    Marion confermò con un mugolio.


    – Quanti? – chiese lui. – Senz’altro non piú di due… sei magra come un chiodo.


    Marion scosse la testa.


    – Mi piacciono le belle ragazzine magre, – commentò l’uomo con voce arrochita. – Proprio come te.


    Marion sarebbe riuscita piú facilmente a recitare il Corano che ad alzare lo sguardo sull’ex padrone di casa di Isabelle. A parte il ticchettio di un orologio sulla mensola del camino, la casa era silenziosa. Era sicura che lí ci fossero solo loro due.


    – Per tua fortuna, io posso aiutarti, – disse lui. – Conosco proprio l’uomo giusto… è molto bravo. Igiene perfetta. Bello studio. Assoluta discrezione.


    Il respiro di Marion era troppo veloce o del tutto assente. Le parole dell’uomo arrivavano da una grande distanza e si allontanavano sempre piú man mano che le pronunciava. – Ce li hai centocinquanta dollari? Sarebbero compresi i venticinque per me. E vediamo, oggi è giovedí, giusto? Entro sabato sera potresti tornare come nuova.


    Marion lo sentí versare il vino.


    – Ce li hai centocinquanta dollari? – le disse.


    La domanda le arrivò forte e chiara. Marion lasciò intendere che non li aveva.


    – Quanti soldi hai? – L’uomo attese una risposta e non la ottenne. – Marion, hai dei soldi?


    La risposta era ovvia. Lo sentí uscire dalla stanza e tornare, avvertí il suo calore quando si accovacciò accanto a lei. – Lo so che sei spaventata, – disse. – Sei terribilmente, comprensibilmente spaventata. Se prendi queste starai meglio.


    Aprí la mano serrata di Marion e vi mise dentro due pillole.


    – È solo Seconal. Ti aiuterà a dormire.


    Avvertí il calore della sua mano sul ginocchio.


    – Ti starai chiedendo se posso davvero risolvere il tuo problema. Potrei darti delle referenze, ma forse le altre ragazze che ho aiutato non hanno voglia di parlarne. Per come la vedo io, dovrai semplicemente fidarti di me. Conduco un commercio onesto da quindici anni. Non prendo mai niente senza pagare, e alle ragazze non do mai niente senza farmi pagare. Questa è la regola della casa. Qui tutto è uno scambio.


    Marion, con un movimento riflesso, allontanò la mano che le strisciava su per la gamba. Appena la lasciò andare, lui la rimise dov’era.


    – Andrò a Palm Springs per le feste, – le disse. – Se rimani con me fino ad allora, entro Natale sarai come nuova. È una promessa solenne. Appena undici giorni. Se posso dirlo, sono condizioni piuttosto vantaggiose per te. Per tua fortuna, sei proprio il mio tipo di ragazzina. Eh, già, proprio il mio tipo.


    L’intelligenza ferina di Marion capiva benissimo cosa le stava proponendo. Per accettare doveva solo restare seduta e non andarsene. Alzò la mano e si mise le due pillole in bocca. Le sembrava di avere le braccia troppo corte per raggiungere il bicchiere, cosí le masticò.


    La malattia mentale, aggravata da una nebbia di Seconal, le evitò di ricordare buona parte di quanto accadde negli undici giorni trascorsi nella casa rossa. Ricordava i passi fuori dalla stanza, del padrone di casa e dell’altra inquilina, i secondi ancora piú terrificanti dei primi. Sicura che sarebbe morta se l’altra donna l’avesse anche solo sfiorata con lo sguardo, si rannicchiava quando sentiva il ticchettio dei tacchi nel corridoio, e lasciava che il padrone di casa le portasse da mangiare in camera. Le vennero inflitte cose disgustose, ma di solito non duravano a lungo. Finché stava in quella casa sarebbe rimasta una vittima e non avrebbe avuto niente da confessare al prete in Arizona – anzi, avrebbe avuto un buon motivo per andare alla polizia. Ma la trovata satanica del padrone di casa era stata stringere un patto con lei. Satana era molto rigoroso in fatto di contratti, e rispettando la sua parte dell’accordo, accompagnandola scrupolosamente dal medico e pagandole l’aborto, la privò della sua condizione di vittima. Mantenendo la parola, rese la sottomissione di Marion alla propria lascivia la metà di una transazione, uno scambio di cui lei era complice. Marion non poteva dichiararsi ignara o innocente. Aveva consapevolmente commesso adulterio con Bradley Grant, e poi si era consapevolmente venduta per pagare l’omicidio del suo bambino.


    Satana se n’era andato, svanito apparentemente per sempre, quando Marion emerse dalla scena del crimine a pochi isolati dalla Lerner Motors. Era il tardo pomeriggio del 24 dicembre. L’avanguardia di un sistema temporalesco si era insinuata nel cielo cittadino, dentellandolo di nuvole. L’ultimo Seconal che aveva inghiottito, quella mattina, stava esaurendo il suo effetto. Le girava la testa, e il dolore al ventre, sebbene non ancora forte, le sembrava malvagio nella sua novità. Al posto della paura specifica, ormai messa a tacere, una paura piú generale si stava insinuando nella sua mente ampia come il cielo. Aveva ancora nella borsetta sei dollari e qualche spicciolo, ma non riuscí a convincersi a salire sul tram. Camminando un po’ a zigzag, fermandosi di tanto in tanto per appoggiarsi a un muro, raggiunse il suo appartamento.


    Erano meno di venti isolati, ma percorrere quella distanza la distrusse, perché non riusciva a fuggire da lui. La sua faccia da elfo appariva dietro ogni finestra. Gli occhietti scintillanti. La barba bianca. L’abito rosso bordato di ermellino. Poster, cartoline d’auguri, scatole di biscotti e manichini a grandezza naturale pubblicizzavano la sua palpeggiante malvagità dall’alito vinoso. Le serviva dell’altro Seconal per fuggire da lui. La osservava da ogni direzione. Il suo pene corto, grasso e abbronzato sembrava lui in miniatura. Era fermo in un angolo con la sua gran pancia, in abito rosso, e suonava un campanello accanto a un barattolo rosso in cui i passanti lasciavano cadere dei soldi. Dappertutto, rosso. Marion non riusciva a fuggire dal rosso. Era il colore della casa. Era il segnale che, ovunque si girasse, lui era già lí. Fiocchi rossi, nastri rossi. Bastoncini di zucchero a strisce rosse. Stelle e mezzelune luccicanti di cartone metallizzato rosso. La casa rossa. La macchina rossa. Il rosso nel lavandino della sua vecchia pensione. Il carretto rosso. Il carretto rosso. Il carretto rosso. Il carretto rosso. Il male la inseguiva da quando era nata, e ora il mondo esplodeva del suo colore, e non c’era alcun rifugio. La trovò in bagno, nel bagno del suo appartamento. Il rosso era anche dentro di lei, e stava venendo fuori. Marion non era altro che una sottile vescica piena di rosso fino a scoppiare. Le sue mani erano rosse, tutte le sue cose erano rosse, c’era rosso sul pavimento, rosso sulle pareti su cui si puliva le mani. Il rosso le annientò la mente. Buon Natale.


    – Allora, ho un ricordo, – disse. – È il mio migliore ricordo natalizio. Vuole sentirlo?


    – Sí, – disse Sophie Serafimides. – Se è sicura di aver finito di castigarmi.


    Marion aprí gli occhi. Fuori, la neve cadeva fitta sui binari. Aveva già formato una spessa glassatura al cocco.


    – Aveva bisogno di un castigo, – disse.


    Sophie non sorrise. – Mi racconti il suo ricordo.


    – Era il 1946, in Arizona. Io e Russ stavamo insieme da quasi un anno; eravamo già una coppia in tutti i sensi, tranne il matrimonio. Lui doveva ancora terminare il servizio civile, anche se la guerra era finita, ma al campo l’atmosfera era molto rilassata. Poteva prendersi dei giorni liberi praticamente quando voleva, e per me andava benissimo. L’avevo invitato a passare il Natale da mio zio Jimmy, ma lui aveva un’idea migliore. Il direttore del campo era disposto a prestargli una vecchia jeep Willys, e Russ voleva esplorare gli stati del Sudovest. Jimmy ci diede un po’ di soldi come regalo di Natale, e partimmo. Non era una cosa da poco per Russ, perché i suoi genitori non sapevano di me, e dovunque andassimo dovevamo fingere di essere sposati. Era un grande atto di sfida da parte sua, e io ero innamorata di lui. Era meraviglioso averlo tutto per me, andarcene in giro dove ci pareva. Passammo una giornata a Santa Fe, ed eravamo a Las Vegas, Las Vegas in New Mexico, quando cominciò a nevicare. Conosce Las Vegas?


    – No.


    – È una vecchia, vecchissima cittadina coloniale spagnola vicino ai monti Sangre de Cristo. La Willys aveva le gomme malconce e cosí restammo bloccati per la neve. C’era un solo albergo dove due come noi potevano stare, e il Natale lo passammo lí. La stanza era probabilmente terribile, ma eravamo insieme e cosí mi sembrò bellissima. L’albergo era nella vecchia piazza del paese, con la sala da pranzo al pianterreno, ed è lí che cenammo la vigilia di Natale. Essere lí con Russ mi sembrava una ricompensa che non mi meritavo. C’era la brina intorno ai bordi delle finestre, e la sala si stava riempiendo di cowboy, veri cowboy dai lunghi cappotti. C’era anche una famigliola, forse bloccata dalla neve come noi, una famiglia anglosassone con due bambine. Ed era come se quelle bambine fossero la famiglia che avremmo avuto io e Russ. Come se stessimo guardando noi stessi nel futuro, e poi successe una cosa incredibile. Fuori, sulla piazza, c’era un grosso furgone che qualcuno aveva agghindato come la slitta di Babbo Natale. Sopra il cofano c’erano due renne, e avevano montato le luci per far sembrare che volassero. Avevano anche messo una slitta illuminata sopra la cabina. Da lontano il furgone non si vedeva. Si vedevano solo le renne e la slitta e un cowboy vestito da Babbo Natale che salutava con la mano mentre il furgone girava sotto la neve. E io… uh.


    Marion esitò, evitando lo sguardo di Sophie.


    – Babbo Natale non mi è mai piaciuto. Lo trovavo sinistro e inquietante. Mi faceva ribrezzo. Ma l’espressione di quelle due bambine quando videro le renne e la slitta… non credo che vedrò mai piú tanta meraviglia e gioia. Avevano gli occhi sgranati. Una di loro disse: «Oh! Oh!» E corsero alla finestra a guardare fuori, e continuavano a ripetere: «Oh! Oh! Oh!» Pura gioia e credulità. La loro assoluta fede in ciò che vedevano era una cosa bellissima. E tutta quella… tutta quella… mi scusi, ma tutta quella merda, quello che avevo passato in California, venne lavata via. Era come se fossi rinata, semplicemente guardando quelle bambine e la loro reazione.


    – Sembra proprio bellissimo.


    – Ma qual è il punto di tutto questo?


    Il raviolo inclinò la testa con aria incoraggiante.


    – Russ non la vedeva cosí, – disse Marion. – Non mi capiva. E io non potevo dirgli cosa significava per me, perché non potevo dirgli cosa avevo passato.


    – Non è mai troppo tardi per dirglielo.


    – No, è decisamente troppo tardi. Quella vigilia di Natale sarebbe stato il momento giusto. «Ho avuto una relazione con un uomo sposato, ho cercato di distruggergli il matrimonio raccontando tutto a sua moglie, e sono andata cosí fuori di testa che hanno dovuto rinchiudermi la mattina di Natale». Non avrebbe mai funzionato, non con uno come Russ.


    – L’hanno ricoverata il giorno di Natale?


    – Non gliel’avevo detto?


    – No.


    – Be’, è cosí. Ecco come fu che il leopardo si procurò le macchie.


    – Cioè?


    – Ora sa perché odio il Natale. Possiamo dire che è una svolta, e io posso andare a casa a mangiare altri biscotti. Trallallà trallallà. E a vivere per sempre felice e contenta.


    Sophie si accigliò.


    – Quella sera litigammo di brutto, – disse Marion. – Io e Russ, in New Mexico. Era la nostra prima vera lite, e io mi ripromisi che sarebbe stata l’ultima. Non avrei mai piú alzato la voce con lui, a qualunque costo. Lo avrei amato e sostenuto e avrei tenuto la bocca chiusa. Perché guardando quelle due bambine lui aveva visto qualcosa di molto diverso. Disse che era disgustato da quei genitori che incoraggiavano le figlie ad adorare un falso idolo. Che mentivano e trascuravano il vero significato del Natale, che non c’entrava nulla con Babbo Natale. E io persi di nuovo la testa. Sentivo di avere vissuto una specie di magica rinascita… una cosa davvero cristiana, fra parentesi, vale a dire il perdono, cioè, non il perdono, ma l’accettazione di… be’.


    Si sentí arrossire. Gli occhi del raviolo erano puntati su di lei.


    – È stato… non mi sto spiegando bene. Babbo Natale era… non era… mi rendevo conto che era solo un’illusione. Era solo un cowboy vestito da Babbo Natale, e non… E quello, piú le bambine… stavo condividendo con qualcuno un senso di gioia e meraviglia. Sapevo che era solo un’illusione, ma proprio perché era solo un’illusione anch’io potevo tornare a essere una bambina innocente. E questo era molto importante per me, e Russ non lo capiva. Persi il controllo e cominciai a urlargli contro. Lo odiavo, e capivo che lo stavo spaventando a morte, e mi dissi, no, non lo farò mai piú. E la sa una cosa? Non l’ho piú fatto. Domani saranno venticinque anni esatti che tengo la bocca chiusa.


    Il raviolo sembrava preoccupato. Girò la testa per dare un’occhiata alla neve che cadeva. – Mi scusi se le faccio una domanda difficile, – disse. – Ma sento di doverglielo richiedere. C’è qualcosa di importante che non mi sta dicendo?


    Una sensazione di freddo crebbe dentro Marion. – Qualcosa di che tipo?


    – Non ne sono sicura. Ma c’era… qualcosa nel suo tono di voce. Mi sembra di averlo già sentito un altro paio di volte, e adesso l’ho sentito di nuovo, molto chiaramente. Non dico di essere un medico fenomenale. E a proposito, casomai non lo sapesse, io non credo nelle spiegazioni facili. Non credo che esista una chiave che apre tutte le porte. Ma quando in passato ho sentito quel particolare tono, spesso poi ho scoperto che la paziente aveva subíto un particolare tipo di trauma.


    Il raviolo era implacabile.


    – Mio padre si è suicidato, – disse Marion. – Mia madre non mi voleva bene. Sono impazzita. Non è abbastanza?


    – No, è tantissimo, – disse Sophie. – E nella sua voce sento anche questo. Ma quella è la parte spiritosa di lei. Quella che è sopravvissuta a un’infanzia orrenda e alle sue conseguenze ed è riuscita ad adattarsi, a costruirsi una bella vita, a far fronte al disordine nella sua testa. La sopravvissuta che è in lei. Ma io ho sentito qualcos’altro, e non sto dicendo di avere ragione. Glielo sto solo chiedendo.


    Marion guardò l’orologio. Erano passati due minuti dalla fine della seconda «ora». Come se il piccolo studio fosse il soggiorno di un certo villino rosso, si alzò in fretta e prese il cappotto dall’attaccapanni. Infilò prima un braccio e poi l’altro nelle maniche. Aveva ancora tempo per correre a casa, saccheggiare il cassetto delle calze e comprare qualcosa di piú carino per Perry. Per venticinque anni aveva creduto che la sua vita con Russ fosse una benedizione ricevuta da un Dio misericordioso, una benedizione che si era guadagnata con i suoi anni di preghiera e penitenza cattolica, una vita che continuava a guadagnarsi giorno per giorno reprimendo la sua cattiveria interiore e tenendo la bocca chiusa. Era vero che ultimamente odiava Russ almeno tanto quanto lo amava; c’erano poche ragioni per continuare a fingere per lui. Ma amava Perry piú che mai. La sofferenza di Perry, ereditata dal lato materno della famiglia, era il castigo che Dio aveva aspettato tre decenni per infliggerle.


    – Guardi che non la mando via, – disse il raviolo dietro di lei. – Io e Costa siamo qui fino alle cinque.


    Marion era davanti alla porta, la mano sulla maniglia. In quello studio Dio non c’era, e lei sapeva cosa si aspettava Dio da lei. Doveva dedicarsi a Perry e cominciare a espiare i propri peccati. E tuttavia uscire di lí significava abbandonare ogni speranza di stare meglio.


    – Forse dovrebbe parlarmi di Babbo Natale, – disse Sophie.

– Oh, c’è Perry, – disse Frances Cottrell, agitando la mano. – Si parla del diavolo.


    Vedendo i riccioli biondi del figlio all’angolo di Maple Avenue, meno di venti secondi dopo che lui e Frances erano riusciti a svignarsela dalla First Reformed, Russ fu tentato di bruciare lo stop, ma la stazione di polizia era proprio lí di fronte. Frenò e si costrinse a girarsi verso la persona che Frances stava salutando, per non sembrare colpevole. Perry era fermo sul marciapiede, onniveggente, con un sacchetto di plastica in mano. Russ sostenne il suo sguardo per qualche istante e schiacciò con forza l’acceleratore.


    Si parla del diavolo?


    – È un ragazzo straordinario, – disse Frances. – Credo che Larry abbia una piccola cotta per lui.


    Oltre Maple Avenue, il limite di velocità su Pirsig Avenue si poteva infrangere senza pericolo. I fiocchi di neve piú fortunati sfuggivano ciecamente alla Fury, mentre altri andavano a morire sul parabrezza. Se Perry non fosse stato proprio accanto allo stop, magari non avrebbe visto che in macchina con lui c’era solo Frances. Ora Russ poteva solo sperare che Perry se ne dimenticasse; ma era piuttosto improbabile.


    – Allora, le faccio una domanda imbarazzante, – disse Frances.


    Russ diminuí la pressione sull’acceleratore. – Mm?


    – Visto che lei oggi è tutto mio, questa è una specie di consulto privato, vero? Anche se non siamo nel suo ufficio? Rimane comunque fra noi?


    – Certo, – rispose Russ.


    Da quando era salita in macchina, Frances aveva continuato ad agitarsi e cambiare posizione. In quel momento il suo piede sinistro, sul sedile a panchetta, era a pochi centimetri dalla gamba di Russ. – Mi chiedevo, – disse, – quanti anni pensa che debbano avere i suoi figli per poter provare la marijuana.


    – I miei figli?


    – Sí, o i figli di chiunque altro. A che età sarebbe troppo presto?


    – Be’, la marijuana è illegale. Credo che nessun genitore voglia che i propri figli infrangano la legge.


    Frances rise. – Lei è davvero cosí conformista?


    La giacca di Russ, la giacca che le piaceva, non era una giacca da conformista. I 78 giri di musica blues che le aveva portato e che aveva lasciato in ufficio non erano dischi da conformista. I pensieri che aveva formulato su di lei non erano pensieri da conformista.


    – Non sono contrario a infrangere la legge, – rispose. – Gandhi ha infranto la legge, Daniel Ellsberg ha infranto la legge. Non penso che le regole siano sacre. Solo che non vedo come infrangere le leggi sulla droga possa avere uno scopo significativo.


    – Wow. Okay.


    Sentí il sorriso nella voce di Frances, ma trovava offensiva l’ingiusta dicotomia tra «conformista» e «alternativo».


    – Non c’è niente di male nell’essere conformisti, – disse Frances. – Io lo trovo carino. Ma devo dedurre che lei non ha mai provato la marijuana?


    – Ehm, no. E lei?


    – Non… ancora.


    C’era qualcosa di ammiccante nel suo tono. Russ staccò gli occhi dalla strada e vide che lo stava guardando per vedere come reagiva. Sembrava piena di slancio, soddisfatta di sé; sembrava pronta a giocare. Anche lui era lí per giocare, ma il suo gioco non era flirtare. Non si fidava delle sue capacità in quel campo.


    – La sua domanda, – disse. – Si riferiva a suo figlio?


    – Sí, in parte. Ma in parte anche al suo.


    – Mio figlio? Vuole dire Perry?


    – Sí.


    Suo figlio? Si drogava? Be’, ma certo. Era cosí logico che non capiva come mai non l’avesse sospettato prima. Maledetta Marion.


    – Posso raccontarle alcune cose? – disse Frances. – Visto che si tratta di una seduta confidenziale?


    Il turbinio bianco sulla strada era compatto e disorientante. Russ teneva lo sguardo fisso davanti a sé, ma la sentí sporgersi verso di lui con il suo berretto da cacciatore.


    – Si ricorda, – disse, – quando sono venuta da lei l’estate scorsa?


    – Sí. Me lo ricordo benissimo.


    – Dunque, ero in una brutta situazione, ma non sono stata molto sincera con lei. Anzi, non lo sono stata affatto. Lei ha parlato cosí bene di Bobby, di cosa significhi perdere un marito, ma io in realtà non ero venuta per quello. Ero arrabbiata perché avevo appena scoperto che l’uomo che frequentavo si vedeva anche con un’altra.


    La gomma friabile dei tergicristalli della Fury vibrava sul vetro. Russ avrebbe voluto rivolgerle una domanda chiarificatrice, per avere la conferma che frequentare volesse dire quello che sembrava, ma non si fidava della propria voce. Una giornata cominciata bene si stava rivelando terribile. Per quanto fosse stato stupido su Perry, lo era stato ancora di piú su Frances. Non gli era mai venuto in mente che un altro uomo si fosse già avventato su di lei. L’estate precedente era vedova da appena un anno.


    Frances appoggiò la schiena all’angolo opposto del sedile. – Era una di quelle cose che sembrano troppo belle per essere vere, perché lo sono. Una mia vecchia amica ci aveva combinato un appuntamento, ed è andata benissimo: ci siamo piaciuti subito. Philip è un chirurgo, ed è stato nell’esercito. Ha fatto il militare in una base dove era stato anche Bobby, cosí avevamo questo in comune, e il cardiochirurgo è un po’ l’equivalente medico del pilota di caccia: non è un mestiere per deboli di cuore. Philip ha un appartamento meraviglioso in uno di quei palazzi sul lago, poco piú a nord del Loop, con un panorama incredibile. Appena l’ho visto ho pensato: «Okay, dove si firma?» Col senno di poi, era troppo presto per pensarlo, ma volevo solo che tutto tornasse a posto. Volevo che fossimo in quattro invece che in tre.


    Russ cercò di immaginare uno scenario in cui Frances era stata nell’appartamento del cardiochirurgo senza avere rapporti intimi con lui.


    – Volevo presentarlo a Larry ed Amy, – continuò Frances. – Pensavo che avremmo potuto pranzare tutti insieme e andare al Field Museum. Ho continuato a insistere finché finalmente una sera lui mi dice, in uno spirito di massima trasparenza, che c’è una cosa che devo sapere. A quanto pare, per tutto il tempo che ci siamo frequentati lui ha continuato a vedere un’altra. Un’infermiera, naturalmente. Piú giovane di me, naturalmente. È lí che era la mia testa quando sono venuta da lei. Bobby mi mancava davvero, ma non per le ragioni giuste. Avevo, tipo, il cuore spezzato.


    Il nero gas di scarico del camion dei rifiuti davanti a loro insozzava la neve prima ancora che toccasse terra. – Capisco, – disse Russ.


    – Ma c’è un’altra cosa che non le ho detto. Tra me e Bobby non era tutto rose e fiori. Avevo solo ventun anni quando ci siamo sposati. Lui era il migliore amico di mio fratello, pilotava aerei che infrangevano la barriera del suono, era bello da morire, e io ero la ragazza che era riuscita a sposarlo. Era sempre via, ma non mi importava: ero la moglie di un ufficiale, cosa che comporta certi privilegi. Era di stanza a Edwards quando sono nati i bambini, e io lo avrei seguito dappertutto: non sono stata io a fargli lasciare l’aviazione. Ma lui voleva che i bambini crescessero in un posto solo, in un solo distretto scolastico, e la General Dynamics gli offriva molti piú soldi. E poi appena siamo arrivati in Texas ha deciso che era stato un errore. Gli mancava l’esercito, e ho capito che dava la colpa a me, anche se io non c’entravo niente. Anno dopo anno, l’ho visto diventare sempre piú rabbioso. Tutti sapevano che era uno stallone, e io non gli davo nessun motivo per sospettare, eppure continuava a sottopormi a test di fedeltà. Se ridevo troppo forte per la battuta di un vicino voleva dire che stavo flirtando, e Bobby non mollava finché non ammettevo che il vicino era meno virile di lui. Se guardavo il notiziario e facevo qualche commento sulla guerra che andava male, lui cominciava a torchiarmi. Non ero d’accordo che l’America era il paese piú potente del mondo? Con il miglior sistema economico? Non eravamo moralmente obbligati a impedire ai comunisti di espandere il loro bla bla bla? Era sinceramente convinto che se tutti quei soldati venivano uccisi era colpa dei manifestanti pacifisti che fiaccavano il morale delle truppe. Era colpa mia, dei miei dubbi sulla guerra. E Larry, lui voleva fare l’astronauta, ma non era un campione negli sport, non era uno studente modello, e Bobby lo sgridava sempre. «Come farai a diventare un astronauta se non sai neanche buttarti in scivolata in seconda base? Credi che John Glenn abbia mai preso meno di B in algebra?» Larry era solo un bambino che sognava di andare nello spazio, ed era cosí orgoglioso di Bobby, cosí ansioso di piacergli, che viveva la sua disapprovazione come una tortura. Lei ha mai visto la cabina di pilotaggio di un F-111?


    Russ avrebbe dovuto accogliere con piacere quelle confidenze, ma sentiva solo che Frances suscitava le attenzioni di piloti collaudatori e cardiochirurghi. Lui era un ministro associato con una moglie, quattro figli e pochissimi soldi. Cosa gli era saltato in mente?


    – È incredibile, – proseguí Frances. – La quantità di strumenti che hanno. Ti danno la sensazione di controllare tutto, e Bobby era cosí anche con noi. Avevamo bisogno della sua approvazione, e lui ci controllava accordandocela solo a certe condizioni. Larry doveva essere un atleta di prim’ordine, e io non potevo divertirmi a chiacchierare con un vicino. Per me, la cosa piú terribile di quell’incidente è stata immaginare Bobby che perdeva il controllo dell’aereo. Chissà com’era furioso.


    Il cielo si stava oscurando, il traffico era lento. Quanti milioni di dollari costava un F-111? Come poteva una nazione che si definiva cristiana spendere miliardi di dollari in armi di morte? La plancia portastrumenti della Fury consisteva di un tachimetro e tre spie, una delle quali rotta. La macchina aveva urgente bisogno di nuovi freni e nuove gomme da neve, ma Marion aveva chiesto duecento dollari per le spese di Natale. Russ la considerava una somma eccessiva, ma era consapevole che ultimamente le aveva dato poco altro, consapevole delle quattro ore da solo con Frances che aveva fatto in modo di regalarsi per Natale. Aveva immaginato che le quattro ore sarebbero volate. Ora si chiedeva come sopravvivere a un altro minuto con lei che parlava del tipo di uomo che amava. Aveva un nodo duro e amaro in gola.


    – Ne ho parlato spesso con Kitty, – disse Frances. – Non diventerò mai una brucia-reggiseni, ma certi libri che lei mi ha dato mi hanno fatto capire molte cose. Non che Bobby mi maltrattasse fisicamente. Però era freddo, freddo, freddo. E questo in un certo senso era anche peggio. Io ero la mogliettina, e l’unica cosa che contava era che facessi tutto nel modo giusto. Era il contrario di un matrimonio tra pari. Adesso, ripensandoci, mi rendo conto che tutti i nostri vicini mi consideravano la moglie di uno stronzo. Gli unici che non la pensavano cosí erano i suoi amici piloti, ma erano stronzi anche loro. Cioè, naturalmente è stato terribile, il modo in cui è morto… mi dispiace tanto. Ma a volte quasi mi domando se non sto meglio senza di lui. Vuol dire che sono cattiva?


    – Il matrimonio è difficile, – disse Russ.


    – Ma deve per forza essere difficile? Il suo è difficile? Oppure… mi scusi, forse non dovevo chiederlo.


    Se Russ avesse avuto i nervi di un pilota collaudatore o di un cardiochirurgo, quello sarebbe stato il momento di aprire il suo cuore e dichiararsi prigioniero di un matrimonio infelice, tenuto insieme dall’abitudine, dai voti coniugali e dal dovere. Quello sarebbe stato il momento di fare il suo approccio. Ma le sue rimostranze consistevano nel fatto che Marion era una persona pesante e triste, che non lo stimolava e lo svigoriva. Non vedeva come potesse esprimere quelle rimostranze senza sembrare uno stronzo.


    – Ad ogni modo, – disse Frances, – lei mi ha fatto un enorme favore, mettendomi in contatto con Kitty e introducendomi nel circolo del martedí. È proprio ciò di cui avevo bisogno. Mi sono iscritta a un corso del Triton College, e anche questo mi ha fatto bene. Tutto sommato stavo vivendo un bell’autunno. Ma poi…


    – Lo so, – disse Russ. – Voglio scusarmi di nuovo per quel che è successo con Ronnie. È stato un mio errore.


    – Ah, già. Grazie. Non deve scusarsi. Quel che è successo è che Philip è tornato a cercarmi. Mi ha chiamata cosí, di punto in bianco, e ha detto che si era schiarito le idee. Aveva rotto con l’infermiera, e insomma, sarei mai riuscita a perdonarlo? Pensavo di no, ma lui mi ha mandato un mazzo di rose e mi ha chiamata di nuovo. Ha sfoderato tutto il suo fascino, ed è scattato qualcosa. Il fine settimana successivo a quello della festa del Ringraziamento, dopo quella storia con Ronnie, sono andata in città e ho passato un pomeriggio e una serata con lui.


    La neve si scioglieva ancora appena toccava l’asfalto, ma secondo le previsioni ne sarebbero caduti almeno venti centimetri. Se fosse rimasto bloccato da qualche parte con Frances, Russ avrebbe dovuto trascorrere ancora piú ore insieme alla ragazza di un cardiochirurgo.


    – Eppure tutto mi sembrava diverso, – disse Frances. – In parte per via dei libri che avevo letto, ma in parte anche… in parte anche per quello che mi ha dato lei. Voglio dire, il circolo del martedí e, non saprei, l’esempio di un tipo di uomo diverso. Philip mi ha portata da Binyon’s, e quando è arrivato il cameriere mi ha tolto di mano il menu e ha ordinato per me. Un tempo quel gesto mi sarebbe piaciuto… mi avrebbe dato un senso di sicurezza. Invece… e poi siamo andati a casa sua, con quella vista spettacolare, e mi sono messa a guardare le foto di famiglia sul pianoforte. Ne ho presa una, e devo averla rimessa giú nel posto sbagliato, perché lui si è avvicinato e l’ha spostata di, tipo, due centimetri. Ha attraversato tutta la stanza per spostare la foto di due centimetri. Il che probabilmente fa di lui un grande chirurgo, ma io ho pensato: Oh oh. Ci risiamo. Capisce cosa voglio dire?


    Russ si sentiva sballottato: ci aveva appena messo una pietra sopra, ed ecco che tornava a sperare.


    – Era come se volessi sostituire Bobby con un altro come lui. Immagino che sia il tipo di uomo da cui sono attratta, o almeno un tipo di uomo. E anche Bobby sapeva essere affascinante, dopo che si era comportato da stronzo e mi aveva fatta arrabbiare. Ho capito che se mi fossi messa con Philip avrei probabilmente avuto un altro paio di figli, perché credo che lui voglia dei figli suoi, e quella sarebbe stata la mia fine. Lui avrebbe controllato tutto. Ma comunque sono arrivata a casa che era quasi mezzanotte…


    Dopo aver avuto rapporti intimi con il chirurgo? Russ ignorava il protocollo degli appuntamenti romantici contemporanei.


    – E ho trovato Larry in soggiorno, da solo, davanti alla tv. È grande abbastanza per fare da baby-sitter a Amy, però aveva un’aria un po’ strana. Mi sono chinata per dargli un bacio, e sono rimasta sbalordita. Puzzava di marijuana e collutorio. Si era sballato dopo che Amy si era addormentata! Non riuscivo a crederci. So che ha passato un brutto periodo dopo la morte di Bobby, e cominciare una nuova scuola in terza media non è stata una passeggiata, ma è un bravo ragazzo, e quest’anno sta molto meglio, grazie a Crossroads. Ha ancora una cattiva postura, si nasconde ancora la faccia con i capelli, ma sembra che stia maturando. Quando ho capito che aveva fumato mi sono sentita in colpa per averlo lasciato solo con Amy per tutte quelle ore. Gli ho detto che mi aveva delusa correndo un rischio stupido mentre aveva la responsabilità di sua sorella, ma non intendevo punirlo. Volevo solo sapere alcune cose, tipo dove aveva preso la marijuana. Ma lui ha i capelli davanti alla faccia, non mi guarda, non mi risponde. Gli chiedo se c’è della marijuana in casa. Lui continua a non rispondere, e allora perdo le staffe. Esigo che mi faccia vedere dove tiene la marijuana, lo costringo a salire in camera sua, e se lo immagina? Ne ha un sacchetto pieno! Gliela porto via, gli chiedo di nuovo dove l’ha presa, e lo sa cosa mi risponde? «Non faccio la spia». Mi sono arrabbiata cosí tanto che gli ho proibito di vedere la tv per un mese.


    Russ aveva un inquietante presentimento su dove Frances stesse andando a parare. Ecco perché aveva tirato in ballo Perry.


    – Insomma, come le dicevo, è una cosa imbarazzante, – proseguí. – Ma ho pensato che dovesse saperlo.


    – Lei pensa che Larry abbia preso la marijuana da mio figlio.


    – Non lo so per certo. Ma passano tanto tempo insieme, e Larry… che tenero… è chiaramente affascinato da Perry. Tornano a casa da scuola e vanno dritti in camera sua. Larry costruisce modellini, e quando sono là dentro sento odore di colla e vernice. Non mi importa se passano il tempo a costruire modellini. Non sono neanche sicura che mi importi se fumano marijuana. Larry dice che metà dei ragazzi della scuola l’hanno provata, e probabilmente esagera, ma credo che sia piuttosto diffusa. Però averne un sacchetto pieno, un bel sacchettone, non è da lui.


    Maledetta Marion.


    La primavera precedente, quando era venuta alla luce l’entità complessiva della cattiva condotta di Perry, Marion aveva rinfacciato a Russ la sua religiosità, accusandolo di avere una fissazione veterotestamentaria per i comandamenti e di trascurare la misericordia del Nuovo Testamento che predicava la domenica. Secondo Marion, Perry aveva bisogno di amore e sostegno, non di punizioni. Aveva saltato in totale undici giorni di scuola e falsificato la firma di Russ sulle giustificazioni, eppure lei sosteneva che i suoi problemi fossero psicologici, non morali. Il ragazzo era ipersensibile e lunatico e soffriva d’insonnia. Marion, implorando Russ di avere compassione, aveva proposto di mandarlo da uno psichiatra (come se avessero avuto i soldi per pagarlo). Secondo Russ, invece, il problema era lei. Fin dall’inizio aveva assecondato gli sbalzi d’umore e i capricci di Perry, il suo continuo frignare da piccolo, la sua pomposa aria di superiorità quando era cresciuto. Anche se Russ si rendeva conto che tutti e quattro i suoi figli, in diversa misura, preferivano Marion a lui, perché Marion era sempre accanto a loro, sempre a casa mentre lui era in giro ad assistere gli altri, la preferenza di Perry per la madre era la piú smaccata ed esclusiva. Avrebbe potuto essere geloso della loro vicinanza, se Perry gli fosse piaciuto di piú e Marion lo avesse eccitato ancora. Aveva scelto di lasciarli nel loro brodo, e ora Perry, come conseguenza delle concessioni di Marion e della sua indifferenza, li aveva messi in imbarazzo davanti alle autorità scolastiche.


    Russ aveva intuito chiaramente le mancanze morali di Perry, e avrebbe dovuto sospettare che si drogasse, ma era stato fuorviato dalla storia di Marion sul bambino intelligente e sensibile che voleva solo riuscire a dormire. Convocando Perry nel suo studio, davanti a un mucchio di giustificazioni indirizzate al preside della scuola scritte in una calligrafia che, doveva ammetterlo, assomigliava straordinariamente alla sua – Perry era innegabilmente un ragazzino dai molti talenti –, si era incaricato di imporre al figlio dalla capigliatura femminile la disciplina che Marion invece non era stata in grado di imporgli.


    – Non puoi dormire durante il giorno, – gli aveva detto. – Devi dormire di notte come tutti gli altri.


    – Mi piacerebbe, papà, – aveva risposto Perry. – Ma non ci riesco.


    – Ci sono un sacco di mattine in cui non ho voglia di alzarmi e andare al lavoro. Ma la sai una cosa? Mi alzo e vado. Se un giorno ti costringi a farlo, la sera sarai cosí stanco che ti addormenterai. E poi avrai di nuovo degli orari normali.


    – Con tutto il rispetto, è piú facile a dirsi che a farsi.


    – Tu sei molto intelligente, e mi dispiace che la scuola non ti dia abbastanza stimoli. Ma crescere significa anche imparare la disciplina. Non fai altro che leggere o pasticciare con i colori. Dovresti essere fuori, a stancarti. Forse dovresti entrare in una squadra di softball studentesca.


    Perry l’aveva fissato con insolente incredulità. Russ aveva tentato di contenere l’irritazione.


    – Devi pur fare qualcosa, – gli aveva detto. – A partire da quest’estate, voglio vederti lavorare. È una regola della nostra famiglia: noi lavoriamo. Voglio che ti poni l’obiettivo di guadagnare cinquanta dollari alla settimana.


    – Becky non ha dovuto lavorare in prima superiore.


    – Becky era impegnata come cheerleader, e adesso lavora.


    – Detesta quel lavoro.


    – Be’, l’autodisciplina consiste in questo. Può anche non piacerti, però lavori comunque. Non ti sto dando un castigo, Perry. Lo faccio per il tuo bene. Da domani voglio che cominci a cercarti un lavoro. Cosí all’inizio dell’estate sarai pronto.


    Perry si era messo a piangere, suscitando il disgusto di Russ.


    – Francamente, – gli aveva detto, – te la stai proprio cavando con poco. Dovrei proibirti tutto, visto quello che hai fatto.


    – Questo è un castigo.


    – Smettila di piangere. Sei troppo grande per piangere. Questo non è un castigo. Puoi sempre tagliare l’erba, se non trovi nient’altro. Se andava bene per Clem, andrà bene anche per te. Se usi un tosaerba per tutto il giorno, ti garantisco che di notte dormirai.


    Marion aveva protestato con Russ, nella sua maniera mite ma testarda, che tagliare l’erba era un irragionevole spreco del talento di Perry, una dolorosa aggressione alla sua sensibilità, ma i successivi miglioramenti delle abitudini di Perry avevano dato ragione a lui. Per tutta l’estate Perry aveva dormito da mezzanotte alla tarda mattinata, un orario normale per un adolescente, e in settembre, di sua iniziativa, era entrato in Crossroads. Schierarsi con Rick Ambrose era probabilmente il suo modo di vendicarsi per essere stato costretto a tagliare l’erba, e Russ gli aveva negato la soddisfazione di disapprovare la sua scelta. Il fatto era che si sentiva sempre piú disgustato da lui, vagamente nauseato dal suo corpo adolescente. Le ore che Perry trascorreva in Crossroads dopo la scuola, l’intero fine settimana che aveva passato fuori casa per un ritiro di Crossroads, erano stati un sollievo dall’affronto corporeo che la sua presenza rappresentava per Russ.


    Ma ora si domandò se ciò che lo disgustava non fosse semplicemente il brutto carattere di Perry, il compiaciuto godimento che ricavava dal drogarsi di nascosto. La stramaledetta colpa era tutta di Marion, che non voleva sentire una parola contro il suo figliolo adorato. Perry aveva approfittato della fiducia di Marion, e ora Russ, agli occhi di Frances, che era diventata la fonte di gioia della sua vita, era ridotto a un ignaro conformista il cui figlio aveva invogliato Larry al consumo di droghe. Maledetta Marion. Russ assaporava già il crudele piacere di informarla che Perry era un drogato, di sbatterle in faccia la conseguenza del modo in cui l’aveva viziato: di farle pagare l’umiliazione di averlo saputo da Frances. E l’avrebbe fatta pagare anche a Perry.


    E se poi Perry avesse fatto delle insinuazioni? Se gli avesse chiesto, in presenza di Marion, dove stava andando con la signora Cottrell e la macchina piena di scatoloni? Quel mattino a colazione, Russ, che Dio lo perdonasse, si era sentito costretto a mentire a Marion, dicendole che andava a consegnare il cibo e i giocattoli insieme a Kitty Reynolds.


    – Non giriamo qui? – disse Frances.


    Sbandando un po’, sbatacchiando i giocattoli nel retro dell’auto, Russ attraversò due corsie sdrucciolevoli per svoltare in Ogden Avenue. Le macchine dietro di lui strombazzarono.


    – Non si senta in colpa, – proseguí Frances. – Rick Ambrose dice che molti altri genitori si trovano nella stessa situazione.


    Rick Ambrose, l’uomo al passo con i tempi, in sintonia con la gioventú contemporanea.


    – Gli ha parlato di Larry? – riuscí a dire Russ.


    – Sí, ma non si preoccupi… non ho fatto la spia su Perry. Cioè, ho appena fatto la spia con lei. Ma con Rick no. Volevo solo un consiglio su cosa pensare dei quindicenni che fumano marijuana. Rick ha detto che almeno su Crossroads posso stare tranquilla. A quanto pare hanno regole molto severe sul consumo di droghe e alcol durante i loro ritrovi. Perfino sul sesso. Anche se, povero Larry, su questo credo di poter stare ancora tranquilla. Non l’ho mai visto neanche guardare una ragazza. La persona per cui si è preso una cotta è Perry.


    Russ si sforzò di pensare a qualcosa di saggio da dire, qualcosa per competere con la speciale comprensione dei giovani che aveva Ambrose.


    – Tornare a casa e trovare Larry sballato – disse Frances – mi ha veramente aperto gli occhi. Mi sono buscata un tremendo raffreddore, e quando finalmente sono guarita mi è sembrato di avere fatto un giro di boa. Ho capito di dover dare una direzione diversa alla mia vita: passare piú tempo con i miei figli, smetterla di inseguire un secondo marito immaginario. Voglio rimboccarmi le maniche e sporcarmi le mani. Voglio collaborare di piú con lei e Kitty, e ho chiesto a Rick se posso collaborare anche con Crossroads. In parte è la sensazione di dover essere non solo una madre per Larry ed Amy, ma anche una specie di padre. Ma in parte è… lei ha mai la sensazione di essere nato troppo presto?


    – Vuol dire, se vorrei essere piú giovane?


    – Già, immagino che tutti lo desideriamo, prima o poi. Ma io parlo di quello che sta succedendo adesso. Insomma, già solo il fatto che le ragazze possono vestirsi come i ragazzi… è una cosa che mi sono persa. Mi sono persa i Beatles. Mi sono persa la possibilità di convivere con un uomo prima di decidere se sposarlo, che nel mio caso non sarebbe stata una cattiva idea. Sento che sarei dovuta nascere quindici anni dopo.


    – Ma quello che lei descrive – disse Russ – succedeva già all’inizio degli anni Cinquanta. Quando vivevo a New York, nel Greenwich Village, l’atmosfera era proprio quella che lei ha descritto, solo che, in un certo senso, era piú pura.


    – A New York, forse. Ma di certo non a New Prospect.


    – Be’, io personalmente non so se vorrei essere nato piú tardi –. Russ si ammoní di non decantare troppo il Greenwich Village, visto che lui e Marion ci avevano abitato solo per due mesi, dopo due anni negli alloggi del seminario in East Forty-ninth Street. – Quello che mi irrita della cosiddetta cultura giovanile è che la gente sembra pensare che sia spuntata dal nulla. I ragazzi di oggi credono di essere stati loro a inventare la politica radicale, il sesso prematrimoniale, i diritti civili e i diritti delle donne. Quasi nessuno ha mai sentito parlare di Eugene Debs, John Dewey, Margaret Sanger, Richard Wright. Quando ero a Birmingham nel 1963, molti dei manifestanti erano miei coetanei oppure piú grandi. Oggi l’unica vera differenza sono le mode: musica diversa, pettinature diverse. E sono cose superficiali.


    – Crede davvero che sia l’unica differenza? Se ci fosse stato un gruppo come Crossroads quando ero alle superiori, ci sarei entrata in un batter d’occhio. Se avessi letto Betty Friedan e Gloria Steinem quando avevo vent’anni, forse la mia vita sarebbe stata diversa.


    Russ si accigliò. Sapeva che Ambrose rappresentava una minaccia, ma non aveva previsto la gravità del pericolo rappresentato da Kitty Reynolds.


    – Sto solo dicendo – disse – che i diritti civili e il movimento pacifista e, sí, anche il femminismo, sono il frutto di semi piantati molto tempo fa.


    – Okay, prendo nota. Ma posso dirle un’altra cosa terribile?


    Cambiò di nuovo posizione, appoggiando la schiena allo sportello e un piede alla cintura di sicurezza di Russ. La cintura gli si tese sopra l’inguine.


    – Ho ancora la marijuana di Larry, – disse Frances. – Ci crede? Sono andata in bagno a buttarla nel water, per farmi sentire da lui, ma per qualche motivo non l’ho fatto. L’ho nascosta in camera mia.


    Tutto quello che Russ aveva appena detto sulla sua gioventú erano fesserie. L’età che voleva avere era la stessa di Frances.


    – Sto aspettando, reverendo Hildebrandt. Mi dirà che ho fatto una cosa brutta?


    – Dal punto di vista legale, credo che sia un po’ rischioso.


    – Oh, andiamo. Nessuno verrà a buttarmi giú la porta.


    – Sí, però. Cosa ha intenzione di farne?


    – Be’, uhm… lei cosa pensa che ne farò?


    Russ annuí. Sentiva la responsabilità pastorale di allontanarla dal sentiero dell’iniquità, ma non voleva sembrarle un conformista. – In tal caso, – disse, – mi preoccuperei che ciò possa complicare il suo messaggio a Larry. Se gli sta dicendo che drogarsi fa male…


    – Ecco perché le ho chiesto a che età sarebbe troppo presto. Perché per me non è troppo presto. Sto cercando di ricominciare da capo a trentasette anni. Sono curiosa di provare cose nuove, e mi è venuta in mente questa immagine… Stavo pensando, sa, magari potrei invitare Kitty, e lei potrebbe invitare sua moglie. Potremmo fare un piccolo esperimento tutti insieme, noi quattro, per vedere cosa c’è di tanto straordinario. Se proibiamo ai nostri figli di fare una cosa, non dovremmo sapere cosa stiamo proibendo?


    – Non ho bisogno di buttarmi da una rupe per sapere che i bambini non dovrebbero buttarsi da una rupe.


    – E se fosse bellissimo? Se ci aiutasse a capire meglio i nostri figli? Oppure, non so, a espandere la mente piú in generale. Stavo pensando che, se con me ci fosse anche lei, si potrebbe fare. Lei è un uomo di Dio, e non è una persona paurosa. Lei è l’opposto dei soliti pastori.


    Difficilmente avrebbe potuto dire qualcosa di piú confortante per il cuore e i lombi di Russ. Il crepuscolo stava calando presto, la neve sbiancava le superfici metalliche lungo la strada e formava chiazze di fanghiglia sui marciapiedi. Era di nuovo il migliore dei giorni.


    – Non credo che a mia moglie potrebbe interessare, – disse Russ.


    – Okay. Solo io, lei e Kitty, allora.


    Mentre Russ brancolava in cerca di una ragione plausibile per escludere anche Kitty, Frances gli diede un calcetto scherzoso nel fianco.


    – A meno che non pensi che ci serve uno chaperon, – disse.

Tra le rivelazioni della sera precedente, sul sedile anteriore del pulmino Volkswagen di Tanner, c’era la sublimità delle labbra. In passato Becky aveva spesso considerato le labbra nient’altro che un fastidio, perché si screpolavano o perché non tenevano bene il rossetto, e quello che provavano durante il gioco della bottiglia era solo una disgustosa sensibilità al solletico. Solo quando trovarono la strada verso le labbra di Tanner, che rispecchiavano le sue ma avevano una loro volontà imprevedibile, Becky scoprí che erano collegate a ogni nervo del corpo. I baffi di Tanner erano al contempo soffici e ispidi, la sua lingua all’inizio timida ma poi sempre meno, i suoi denti inaspettatamente vicini. Ogni sensazione era una novità, ogni angolo di contatto lievemente diverso. La realtà di baciare Tanner Evans era molto molto meglio del pensiero di farlo. Avrebbe potuto continuare per ore, insensibile alla scomodità di doversi contorcere sul sedile, se dei rumori nel parcheggio non li avessero interrotti.


    – Ehi, quello è il pulmino di Tanner, – disse la voce di una ragazza.


    Nell’oscurità imperfetta, Tanner si staccò da Becky e tese l’orecchio. Le voci della prima e di una seconda ragazza si allontanarono, presumibilmente dirette verso la sala sul retro del Grove.


    – Dobbiamo uscire di qui, – disse Tanner.


    Essendo stata lei a buttarglisi addosso, Becky capiva che Tanner non voleva farsi beccare con lei, che invece trovava elettrizzante il rischio di farsi beccare. Lo attirò a sé e lo baciò di nuovo. Poco dopo le voci ritornarono.


    – Tanner? – chiamò la ragazza, avvicinandosi al pulmino. – Laura?


    Tanner si scostò bruscamente e scrutò fuori dal finestrino. Avvertendo il suo panico, Becky si piegò in due e cercò di nascondere la faccia dietro i capelli, che però ovviamente non bastavano a coprirla. Brancicò alle sue spalle, trovò una coperta navajo drappeggiata sul sedile e se la tirò sopra la testa. Da sotto la lanosità polverosa della coperta sentí Tanner abbassare il finestrino.


    – Ehi, ciao Sally, – disse.


    – Venite dentro?


    Era Sally Perkins, la cara amica di Laura Dobrinsky.


    – Sí, – rispose Tanner. – Sí, tra un attimo, sto dando una mano a un amico.


    Attraverso la lana, Becky sentí lo sguardo di Sally Perkins sulla sua ridicola sagoma coperta.


    – Laura non c’è? – disse Sally.


    – Uh, no.


    – Io e Marcie stiamo festeggiando, se vuoi farci compagnia. È diventata maggiorenne.


    – Sí, uhm. È molto… sí, certo.


    – Ci vediamo dentro?


    Quando Sally si allontanò, Becky si tirò su ridacchiando e si scrollò di dosso la coperta. – Ops, – disse. Avrebbe potuto essere un buon momento per informarsi sulla situazione di coppia di Tanner e Laura, ma anche Tanner stava ridacchiando. Per il momento, pensò Becky, era sufficiente condividere un segreto con lui, essere sua complice. Aveva già tante nuove sensazioni da elaborare e rivivere da bastarle per una notte insonne, e sembrava imprudente tirare troppo la corda. – Dovresti andare dentro, – gli disse.


    – Marcie Ackerman nemmeno mi piace.


    – Non importa –. Becky si sporse a baciarlo sulla guancia. – E io ti piaccio?


    – Sí! Perché credi che sia venuto qui?


    – Allora magari ci vediamo domani.


    – Senz’altro. Potremmo… – Tanner si afflosciò. – Anzi, no, domani non va bene.


    – Io non ho niente da fare fino al concerto.


    – Sí, è questo il problema. Devo lavorare fino alle quattro, e poi dobbiamo prepararci.


    Quando diceva «prepararci» parlava della sua band. Parlava della Natural Woman. I nervi di Becky, ipersensibilizzati dai baci, erano indifesi contro quella delusione.


    – Mi dispiace tanto, – disse Tanner. – Facciamo venerdí?


    – Venerdí è la vigilia di Natale. Arriva Clem. Sarò impegnata con la mia famiglia.


    – Giusto.


    – Allora immagino che ci vedremo quando ci vedremo –. Becky allungò la mano verso la maniglia dello sportello. – Magari in chiesa, se decido di tornarci.


    – Becky…


    – Non fa niente. Ho capito. Domani sei molto impegnato.


    Mentre apriva lo sportello, lui l’afferrò per la spalla. – Devo essere in chiesa per le cinque e mezza. Possiamo incontrarci da qualche parte prima.


    – Non dobbiamo vederci per forza.


    – Ma io voglio vederti –. Tanner la guardava implorante. – Voglio vederti.


    Soddisfatta di avere dimostrato a se stessa il proprio potere su di lui, incerta solo sulla sua entità, Becky declinò l’offerta di un passaggio e lo lasciò a Sally e Marcie. Mentre camminava verso casa, da sola, l’immagine di se stessa rannicchiata sotto la coperta navajo diventò meno buffa, piú fastidiosa. Era ufficialmente diventata il tipo di ragazza che rubava il ragazzo di un’altra. Non capiva se si sentisse sinceramente in colpa o se avesse solo paura di affrontare la Natural Woman.


    Avevano deciso di incontrarsi al Treble Clef, il negozio di musica dove lavorava Tanner. Mentre si avvicinava l’ora dell’appuntamento, Becky si costrinse a indugiare alla New Prospect Books, sfogliando guide turistiche dell’Europa, fino ad accumulare qualche minuto di ritardo. Adesso toccava a Tanner essere impaziente. Nella borsa a tracolla aveva le matite colorate richieste da Judson, una custodia di velluto contenente una penna e una matita meccanica per Clem, e un album di Laura Nyro cosí desiderabile per lei che non le importava se Perry lo volesse o no. Si era attenuta al suo consueto budget natalizio, malgrado i tredicimila dollari sul conto in banca, e aveva rimandato gli ultimi acquisti al mattino dopo, quando sarebbe andata al centro commerciale sulla Mustang di Jeannie Cross. La novità incellofanata degli oggetti nella borsa, che era la caratteristica dei regali di Natale – il fatto di passare intonsi attraverso le mani del donatore, il profumo e la sensazione di nuovo che emanavano quando il destinatario li apriva –, si accordava benissimo con la freschezza della neve sotto i suoi piedi, con la rinascita in bianco del mondo, quando Becky svoltò finalmente l’angolo del negozio di musica. Venire baciata l’aveva fatta sentire una persona del tutto nuova, un regalo appena aperto la cui vita era imminente ma non ancora cominciata. Quando vide Tanner fermo sotto la neve accanto al pulmino, davanti al negozio, le sembrò altrettanto nuovo, perché aveva un vero appuntamento con lui. Riconobbe la giacca con le frange, la scura cascata di capelli sulle spalle, ma c’era una bella differenza fra desiderare una cosa e scoprirla tua la mattina di Natale.


    Invece di abbracciarla, Tanner l’aiutò – per non dire che la spinse – a salire sul pulmino, e poi corse a mettersi al volante. La neve bagnata sui finestrini aveva trasformato l’abitacolo in una grotta di ghiaccio, appartata ma cupa. Nel retro erano ammassati amplificatori e custodie di strumenti che sembravano impazienti di venire scaricati. Dopo che Tanner ebbe avviato il motore e acceso il riscaldamento, Becky aspettò che si sporgesse verso di lei. La sera prima aveva fatto lei la prima mossa, perciò adesso toccava a Tanner. Era pronta ad aprirsi a lui con tutta se stessa non appena l’avesse baciata. Ma lui annuiva tra sé, tamburellando le dita sul volante.


    – Ho appena ricevuto una notizia, – disse. – Una cosa da sballo.


    Becky si girò verso di lui, offrendogli la faccia, per suggerire che la notizia poteva aspettare.


    – Ti ricordi quella conversazione che abbiamo avuto in chiesa?


    – Se me la ricordo?


    – Be’, mi ha fatto pensare, – disse Tanner. – Tu mi hai fatto pensare. Ho capito che era il momento di fare il passo successivo.


    Nella mente di Becky, il passo successivo era rompere definitivamente con Laura Dobrinsky. Se la notizia era che Tanner l’aveva fatto senza che lei glielo chiedesse, era ben contenta di sentirla.


    – Allora, tu conosci Quincy, vero?


    Quincy Travers era uno degli amici neri di Tanner, il batterista dei Bleu Notes.


    – Bene, Quincy suona con questo tizio di Cicero che è il cugino di un agente. Un ottimo agente: i suoi clienti lavorano nei club di tutta Chicago. E la sai una cosa? Stasera ci sarà anche lui. Mi ha appena richiamato.


    Becky rabbrividí nel lungo cappotto che le aveva regalato la zia. Il sedile del pulmino era molto piú freddo della sera prima. – Fantastico, – disse.


    – Già. Stasera avremo il pubblico piú numeroso di tutto l’anno. Una vetrina perfetta.


    Le bocchette di ventilazione del pulmino soffiavano fuori solo aria gelida.


    – Congratulazioni, – disse Becky.


    – È grazie a te se ho fatto quella telefonata –. Tanner prese le mani guantate di Becky fra le sue mani nude e le strinse, come per trasmetterle il suo entusiasmo. – Sapere che tu capisci cosa sto cercando di fare… ha cambiato completamente le cose.


    Becky apprezzava solo in astratto quei ringraziamenti. Non le piaceva starsene seduta in una grotta di ghiaccio a parlare della carriera musicale di Tanner invece che della sera prima. Non le piaceva immaginare lui e Laura e i Bleu Notes che facevano altri concerti in giro per Chicago.


    – Cosa c’è? – disse Tanner.


    – Niente. È una notizia fantastica.


    Tanner le sfiorò teneramente la guancia con due dita, ma lei distolse la faccia. Lo scuro strato di neve grumosa che ricopriva il finestrino le ricordava le foto della cellulite sui «Redbook» di sua madre. Tanner le appoggiò il mento sulla spalla e le avvicinò la bocca all’orecchio. – Quando ti vedo, sento di poter fare qualunque cosa.


    Becky provò a parlare, rabbrividí, provò di nuovo. – E Laura?


    – Cosa vuoi dire?


    – Credevo che fosse la tua ragazza.


    Lui si raddrizzò. Fuori dal pulmino, un gruppo di adolescenti urlava sotto la neve.


    – Vorrei sapere qual è la mia posizione, – disse Becky. – Cioè, dopo ieri sera.


    – Già.


    – Cioè, non dovremmo parlarne? O fa troppo Crossroads?


    – Fa molto Crossroads.


    – Ci sono entrata solo per te. Credevo che lo adorassi.


    – Già. Lo so. Devo parlarle. Solo che… c’è un problema.


    Una palla di neve colpí il parabrezza gelato. Rimase lí, una massa indistinta piú scura del resto, e ora una mano dalle dita rosse stava raccogliendo la neve dal finestrino di Becky. Attraverso il vetro sgombro lei vide un ragazzino delle medie che compattava la neve in una palla. La lanciò dall’altra parte della strada, e una seconda palla andò a sbattere contro la fiancata del pulmino. Tanner aprí la portiera, gridò qualcosa ai ragazzini e la richiuse. – Stupidi teppistelli.


    Becky aspettava.


    – Insomma, è difficile, – disse Tanner. – Tutti vedono Laura come una persona intensa, che incute timore, ma una parte di lei è molto insicura. Molto vulnerabile. E… be’, ecco, questo è un problema.


    – Con chi vuoi stare, – disse Becky in tono deciso.


    – Lo so. Lo so cosa devo fare. Solo che… stasera non è la sera giusta per quella conversazione. A Laura non importa se troviamo un agente, ma a noi sí, e lei è cosí drastica che mollerebbe tutto e se ne andrebbe. E cosí… addio tastiere, addio duetti. Ma anche se suonasse, e restasse sul palco incazzata con me, sarebbe un casino.


    Becky sapeva, realisticamente, che non c’era nessuna fretta. Il fatto che si fossero baciati, il fatto che lei ora fosse seduta nel pulmino con lui, il fatto che stessero avendo quella conversazione, era la prova di quanto gli fosse entrata nel cuore. Se solo non si fosse fissata sull’idea di andare al concerto con lui! Era troppo tardi per cancellare la vivida fantasticheria in cui entrava in chiesa al braccio di Tanner mostrando al mondo che era suo, per poi raccontarlo a Jeannie Cross il mattino dopo.


    – Non ci sono altri agenti?


    – Ci sono migliaia di agenti, – disse Tanner. – Ma questo tizio, Benedetti, pare che sia bravissimo, e stasera non sarà come suonare al Grove. Darryl Bruce è tornato dal college e suonerà la chitarra solista, e Biff Allard viene con le congas. Stasera avremo un bel sound pieno, e il pubblico perfetto.


    – Credevo che la cosa piú importante fosse il tuo disco. Il tuo demo, con le tue canzoni.


    – Sí. Lo è ancora. Ma avevi ragione tu… devo pensare piú in grande. Devo quadruplicare le serate, crearmi un pubblico, farmi dei contatti.


    Becky sperò che Tanner non vedesse, in quella cupa luce da grotta, che stava contraendo i muscoli facciali per non piangere. – Ma allora… se Laura è nella band… e tu fai serate… come funziona?


    – Posso trovare qualcuno per sostituirla. Solo che non posso farlo nelle prossime tre ore.


    Uno squittio imbarazzante sfuggí dalla gola di Becky. Si schiarí rumorosamente la voce. – Allora, – disse. – Hai intenzione di lasciarla?


    Quando Tanner non le rispose, lei lo guardò e vide che aveva gli occhi chiusi, le mani strette fra le ginocchia.


    – Per me è piuttosto importante saperlo, – gli disse. – Dopo quello che è successo ieri sera.


    – Lo so. Lo so. Solo che è difficile. Quando stai con una persona da tanto tempo, e lei è ancora molto presa da te. È difficile.


    – O forse non vuoi farlo e basta.


    – Non è cosí. Giuro su Dio, Becky. È solo che questa è la serata sbagliata.


    Il bisogno di piangere poteva essere urgente come il bisogno di fare pipí. Becky prese la borsa. – Mi sa che devo andare.


    – Sei appena arrivata.


    – Non importa. Ho detto a mia madre che non potevo andare a una festa con loro perché venivo al concerto. Cosí almeno la farò felice.


    – Non sto dicendo che non puoi venire al concerto.


    – Vuoi che venga e faccia finta che non è successo niente? Oppure dovrò mettermi di nuovo una coperta in testa?


    Tanner si afferrò due manciate di capelli e li tirò.


    – Sembra quasi che ti vergogni di me, – disse Becky.


    – No, no, no. Solo che questa è…


    – Lo so, la serata sbagliata. Non vedevo l’ora che arrivasse, ma ora… non piú.


    Prima che Tanner potesse fermarla, Becky saltò fuori dal pulmino. Lasciando la portiera spalancata, socchiuse gli occhi per proteggerli dalla neve pungente e corse nel vicolo dietro la libreria, dove il pulmino non poteva seguirla. Sperava solo di avere deluso Tanner tanto quanto Tanner aveva deluso lei. Era stata cosí sicura di come sarebbe andato il loro appuntamento: una deliziosa ripresa dei baci, seguita da manifestazioni di meraviglia per come la vita li aveva portati a incontrarsi, seguite da una serie ancora piú lunga di baci, seguita dalla sua entrata trionfale in chiesa al fianco di Tanner. Ora persino la neve era poco romantica, nient’altro che un gravoso intralcio. Era andato tutto in merda.


    Sentiva l’umidità infiltrarsi nei suoi unici stivali decenti, che si stavano probabilmente danneggiando in modo irreparabile, mentre percorreva faticosamente sotto la neve obliqua i lunghi isolati che la separavano da casa. Si stava facendo troppo buio per vederci bene, e lo sforzo fisico di non scivolare tenne a bada le lacrime finché non raggiunse la canonica. Aveva continuato a sperare che Tanner la stesse aspettando lí con il suo pulmino, per scusarsi e supplicarla di andare al concerto con lui, e al diavolo le conseguenze. Ma a parte il desolato raschio di un badile lontano e un paio di tracce di pneumatici non recenti, ormai quasi piene di neve, il suo isolato di Highland Street era deserto. L’unica luce accesa nella canonica era quella della stanza di Perry e Judson.


    Dentro non c’era traccia di sua madre. Non era ancora tornata dalla lezione di ginnastica? Ora Becky si vergognava di essere stata cosí scostante con lei, cosí sicura di sapere come comportarsi con Tanner. Sua madre le sembrava l’unica persona a cui poter raccontare senza rischi la sua delusione. Si scrollò la neve dai capelli e corse di sopra, oltrepassando la porta chiusa della stanza dei fratelli. Alla vista del letto dove poche ore prima aveva innocentemente sognato di andare al concerto, la delusione proruppe incontenibile.


    Mentre se ne stava sdraiata a rimuginare sull’idea che Tanner fosse ancora innamorato di Laura, che gli importasse piú dei sentimenti di Laura che dei suoi, le sembrava di non piangere troppo forte. Ma dopo qualche minuto sentí dei colpetti sulla porta. Si irrigidí.


    – Becky? – disse Perry.


    – Vai via.


    – Stai bene?


    – Sí. Lasciami in pace.


    – Sei sicura?


    Non stava per niente bene. Le sfuggí un verso angosciato, un nuovo scoppio di delusione. Perry doveva averlo sentito, perché entrò nella stanza e chiuse la porta. L’irritazione le bloccò le lacrime.


    – Vai via. Non ti ho detto di entrare.


    Perry le si sedette accanto, aumentando la sua irritazione. Una ripugnanza da far accapponare la pelle era probabilmente una reazione normale alla prossimità di un fratello pubescente, mentre la cosa anormale era piuttosto la mancanza di una simile reazione in presenza di Clem, ma la cattiveria che Becky avvertiva in Perry rendeva la ripugnanza particolarmente intensa. Si scostò da lui e si asciugò la faccia sulla federa.


    – Che succede? – disse Perry.


    – Niente che tu possa capire.


    – Ah. Tu pensi che io manchi di empatia.


    In effetti Becky lo sospettava, ma non era quello il punto. – Sono arrabbiata, – disse, – per una cosa che non c’entra niente con te.


    – Percepisco una barriera che ci impedisce di conoscerci meglio.


    – Fuori di qui!


    – Scherzavo, sorella. Era una battuta.


    – L’avevo capita. Okay? Adesso fuori di qui, per favore.


    – Devo dirti una cosa. Ma ho la netta impressione che tu stia cercando di stare alla larga da me.


    Era vero che lo evitava, anche piú del solito, dalla sera che lui l’aveva pescata come partner per la diade di Crossroads. Durante l’esercizio si era sentita fiera di dimostrargli quanto fosse egoista ed egocentrico; entusiasta che Crossroads l’autorizzasse a diventare la voce della verità della famiglia. Aveva intuito che lo stava ferendo, nella misura in cui un cervellone amorale poteva sentirsi ferito, ma aveva sperato che la sua testimonianza sincera potesse aiutarlo a crescere come persona. Da quella sera, però, la vista di Perry la turbava. A prescindere da quanto fosse azzeccato il giudizio sui suoi difetti, o da quanto fosse necessario dare voce alla verità, in qualche modo sentiva di essere stata lei, e non lui, a fare una cosa sbagliata.


    – Ecco cosa volevo dirti, – continuò Perry. – In poche parole, avevi ragione. Durante la nostra conversazione nel ripostiglio, che senz’altro ricorderai. Sono giunto alla conclusione che avevi ragione.


    Il suo tono da intellettuale era repellente. Becky si tirò indietro e si mise in piedi. – Dov’è Judson?


    – Judson sta meditando sullo Stratego. Si delizia nell’aspetto della pianificazione.


    – E la mamma? È tornata?


    – Non ne ho visto neanche l’ombra per tutto il giorno.


    – Strano, – disse Becky, dirigendosi verso la porta.


    – Scusa? – Perry saltò in piedi e le bloccò la via di fuga. – Non hai sentito cosa ti ho detto?


    – Togliti di mezzo, per favore.


    – Credo di avere diritto a due minuti della tua attenzione, Becky. Hai detto che volevi una relazione con me. Hai detto: «Sei mio fratello». Cito alla lettera.


    – Eravamo a Crossroads. Lí sei tenuto a dire che vuoi una relazione con tutti.


    – Ah, cosí in realtà tu non vuoi una relazione con me.


    – Mi lasci in pace? Ho avuto una giornata di merda.


    – E questa è la tua reazione? Scappare?


    Scappare era un noto tabú di Crossroads. Becky alzò gli occhi al cielo e disse: – Va bene. Grazie di aver detto che avevo ragione. Non so se è vero, ma grazie di averlo detto. Ora posso andare a soffiarmi il naso, per favore?


    Perry si fece da parte ma la seguí in bagno. Per un motivo incomprensibile, la vasca e il lavandino dell’epoca della Depressione erano stati installati in un angolo angusto, lasciando una distesa inutilmente ampia di piastrelle libere, ormai crepate e scolorite. Perry chiuse la porta e si sedette sulla cesta per la biancheria mentre Becky si soffiava il naso.


    – Quando dico che avevi ragione, – disse, – intendo che avevi ragione sul fatto che non ti ho mai presa abbastanza sul serio. Possiamo sorvolare sulle mie motivazioni: non mi rendono onore. Basti dire che non ti ho mai accordato la fiducia che meritavi. Avevi ragione a criticarmi per questo.


    – Dài, Perry. Nessuno ti obbliga a dire queste cose.


    – Ma ho bisogno di dirle. Sono stato ingiusto con te. E tu sei stata sincera con me.


    Becky alzò le braccia in un gesto di frustrazione. Posto sbagliato, momento sbagliato per una diade di Crossroads.


    – Vorrei che credessi – proseguí Perry – che sto cercando di migliorare. Che ho preso sul serio tutto quello che mi hai detto. Non ti annoierò con i dettagli, ma ho cambiato un po’ di cose. Ho rinunciato agli stupefacenti, tanto per cominciare.


    Becky socchiuse gli occhi. – Allora è per questo? Avevi paura che facessi la spia?


    – Niente affatto.


    – Sei sicuro?


    – Sí!


    – Bene, allora. Sono contenta che tu abbia riflettuto un po’. Sono contenta che le mie critiche siano state costruttive.


    – Ho bisogno del tuo aiuto, però. Ho bisogno…


    Si interruppe, arrossendo. Becky pregò che non scoppiasse a piangere davanti a lei. La volta che l’aveva visto piangere a Crossroads, altre cento persone erano lí per eseguire il compito di toccarlo. Era strano che una persona cosí visibilmente emotiva, cosí pronta a piangere, in pubblico come in privato, dovesse darle costantemente l’impressione che le sue manifestazioni emotive fossero staccate da ciò che aveva realmente dentro. La faceva sentire come se fosse lei ad avere qualcosa che non andava.


    – È già abbastanza difficile – disse Perry – vivere sotto il tuo stesso tetto e sentire che mi consideri un nemico. Ma se dobbiamo essere insieme anche in Crossroads, dobbiamo trovare un modo per migliorare la nostra relazione –. Respirò a fondo. – Voglio essere tuo amico, Becky. Ti va di essere mia amica?


    Becky si accorse, troppo tardi, di essere finita con le spalle al muro. Sapeva bene, come lo sapeva lui, che il piú grande tabú di Crossroads era rifiutare un’offerta di amicizia. Dovevi accettare l’offerta anche se non avevi davvero intenzione di frequentare quella persona. Se lei avesse respinto l’offerta di Perry e poi fosse andata a Crossroads e avesse praticato l’amore incondizionato, accettando il valore sconfinato di tutti gli altri membri del gruppo e diventando «amica» di chiunque glielo avesse chiesto, Perry avrebbe capito che era un’ipocrita. Sarebbe stata un’ipocrita. Che lo avesse fatto apposta oppure no, Perry l’aveva messa con le spalle al muro.


    Superando la naturale ripugnanza, come aveva fatto Gesú con i lebbrosi, andò ad accovacciarsi accanto alla cesta, ai piedi di Perry. – Faccio molta fatica a fidarmi di te, – disse.


    – Non posso darti torto. Mi dispiace tanto.


    – Però hai detto bene. Dovremmo cercare di conoscerci meglio. Se sei disposto a provare, io ci sto.


    Ora in effetti Perry si lasciò sfuggire un singhiozzo, ma solo uno, come se avesse deglutito. Scivolò giú dalla cesta e abbracciò Becky. – Grazie, – le mormorò contro la spalla.


    Ricambiare l’abbraccio non fu cosí terribile. Quali che fossero le precoci trasgressioni che poteva aver compiuto in segreto, era comunque un essere umano, ancora praticamente un bambino. Per essere un Hildebrandt era piccolo, veramente il suo fratellino. Stringendo fra le braccia le sue spallucce, qualcosa di materno si agitò dentro di lei. Quando si alzò, Perry cercò di rimanerle aggrappato.


    – Chissà dov’è la mamma, – disse Becky. – Sei sicuro che non è tornata?


    – Jay ha detto che non l’ha vista. È plausibile che sia andata direttamente dagli Haefle.


    – Non in tuta da ginnastica.


    – Giusta osservazione.


    Doveva ammettere che dopo l’abbraccio si sentiva un tantino piú a suo agio con lui.


    – È strano, – disse. – Voleva a tutti i costi che tornassi a casa per le sei.


    – Come mai?


    – Per andare alla festa.


    – Perché vuoi andarci? Ti perderai metà del concerto.


    La delusione le salí di nuovo dentro. Si girò per nasconderla a Perry. – Non vado al concerto.


    – Cosa?


    – Non voglio parlarne.


    – È per questo che piangevi? – Perry saltò su e le mise una manina calda sulla spalla. – Vuoi raccontarmi cos’è successo?


    Lei per poco non rise. – Vuoi dire, adesso che siamo amici? Sei un bel furbetto, Perry.


    – Credo di meritarmi il tuo giudizio, però mi hai frainteso.


    – Essere amici significa anche rispettare i confini dell’altro.


    – Giusto. Vorrei solo che mi dessi una possibilità. So di non essermi guadagnato la tua fiducia. Non mi sono guadagnato la fiducia di nessuno. Ma quando ti ho sentita piangere ho pensato: «È mia sorella».


    – Judson si starà chiedendo quando torni.


    – Vado subito. A meno che tu non voglia dirmi…


    – No.


    – Okay, però ascolta. Se cambi idea sul concerto, io sarò qui con Jay. Quando torni posso accompagnarti.


    Nella sua stanza, sdraiata sul letto, Becky cercò di capire il senso di quell’improvvisa gentilezza di Perry. Di norma avrebbe pensato che avesse qualche movente egoistico nascosto. Ma abbracciandolo aveva colto un barlume del valore sconfinato di ogni essere umano. Perry non aveva altra scelta che essere quello che era, un ragazzino troppo forbito e impetuoso, e la vulnerabilità che le aveva rivelato non sembrava una messinscena. Andare in chiesa con il fratellino fattone, camminando insieme a lui sotto la neve, era il piú bizzarro degli scenari, ma la possibilità che diventassero amici era emozionante proprio perché cosí inverosimile. Clem era sempre stato l’unico fratello di cui lei avesse bisogno, ma ora Clem era lontano, tutto preso dalla sua ragazza irresistibile. La piú grande barriera a una relazione con Perry era la sensazione che lui la disprezzasse per la sua intelligenza inferiore. Forse Becky aveva solo bisogno che dimostrasse rispetto e interesse nei suoi confronti. Ora che glieli aveva dimostrati, forse potevano davvero essere amici. Forse l’intera famiglia poteva essere piú felice, a cominciare dall’improbabile accoppiata Becky-Perry.


    La buona volontà con cui si era svegliata quel mattino, prima di smarrirla nella grotta di ghiaccio del pulmino di Tanner, stava ritornando. Sentiva un’ardente gratitudine per Crossroads, che le aveva insegnato a correre rischi. Il rischio che aveva corso con Tanner le aveva arrecato dolore, ma nell’ardore della buona volontà capí che forse aveva reagito in modo eccessivo, forse aveva fatto troppa pressione nella sera sbagliata, forse aveva attribuito troppa importanza all’apparenza superficiale dell’andare al concerto con lui. Nel frattempo, il rischio che aveva corso nell’affrontare Perry nel ripostiglio della chiesa aveva incoraggiato anche lui a rischiare, offrendole la propria amicizia. Nel bene e nel male, ma piú che altro nel bene, Crossroads la stava rendendo piú viva.


    Alle sei, benché non vi fosse ancora traccia dei genitori, Becky si alzò per rendersi presentabile. La vista della sua faccia chiazzata riflessa nello specchio del bagno la scoraggiò, ma si spazzolò i capelli, si rifece il trucco e andò a bussare alla porta di Judson e Perry.


    – Chi è? – disse brusco Perry.


    – La polizia dei giochi di guerra. Sto per entrare.


    Aprendo la porta, Becky vide Perry a terra, appoggiato su un gomito, e Judson inginocchiato davanti al gioco da tavolo fatto in casa, le caviglie incrociate sotto di sé in una posizione che avrebbe torturato chiunque avesse piú di dieci anni. Con un impercettibile movimento della testa chiamò Perry in corridoio. Lui saltò su di scatto.


    – Hai del collirio? – gli chiese a bassa voce.


    – Sí, guarda caso ce l’ho.


    Becky rimase ad attenderlo mentre saliva di corsa al secondo piano, rivelando cosí dove aveva nascosto il suo armamentario. La complicità in quella transazione, come la complicità derivante dal condividere il segreto dei loro giochi di guerra, le stava facendo intravedere come avrebbe potuto essere la vita in una famiglia piú felice, con lei al centro.


    – Puoi tenerlo, – disse Perry, ritornando con un flaconcino. – I miei giorni da consumatore di collirio sono finiti.


    – Non sei preoccupato per la mamma? Per il fatto che non ha neanche telefonato?


    – Tu pensi che sia rimasta congelata sotto la neve.


    – È strano, tutto qui.


    Perry si accigliò. – A che ora comincia la festa?


    – Sei e mezza.


    – Ho un’idea. Tu vai al concerto e io e Jay andiamo dagli Haefle. Che ne dici? Sto giudicando solo dalle apparenze, certo, ma ho l’impressione che tu non voglia davvero perderti il concerto.


    – Non credo che gli Haefle vogliano dei bambini alla festa.


    – Posto che tu non includa anche me in quella categoria, ritengo che sottovaluti Jay. È un’anima antica.


    Becky osservò il fratello dai capelli lunghi. Sentirsi alleata della sua capacità intellettiva, anziché derisa e minacciata da essa, era una sensazione strana. – Faresti questo per me?

Era doloroso ricordarlo, ma un tempo Russ voleva bene a Rick Ambrose.


    Tanti anni prima, a New York, nel seminario di East Forty-ninth Street, Russ e Marion erano la coppia «in», nel cui appartamento matrimoniale gli altri giovani seminaristi si affollavano tre o quattro sere alla settimana per fumare sigarette, ascoltare jazz e ispirarsi a vicenda con visioni di rinascimento della cristianità moderna nell’azione sociale. Marion, esile e graziosa, piú profondamente ed ecletticamente colta di chiunque altro, con pantaloni alla pescatora aderenti e voluminosi maglioni che evocavano la campagna gallese di Dylan Thomas, era l’invidia dei compagni di seminario di Russ. Tutto quello che facevano lei e Russ diventava subito di moda. Persino levare le tende e trasferirsi nell’Indiana rurale, cosa che Russ si sentí obbligato a fare quando Marion rimase incinta e le sue richieste di destinazioni piú esotiche vennero rifiutate, sembrò una mossa rivoluzionaria. Solo quando Marion si ritirò nella maternità, diventando sempre piú grossa e affaticata, e Russ si ritrovò a dover sfornare cinquanta sermoni all’anno, riscritti da Marion e pronunciati ogni domenica alle otto e mezza e alle dieci in due chiese con meno di trecento parrocchiani in totale, la vita che lei gli aveva fatto apparire grande cominciò a sembrargli ineluttabilmente piccola. Ogni volta che otteneva una tregua dalla fattoria in Indiana, implorando un favore dal ministro di qualche chiesa vicina per poter andare a una conferenza a Columbus o Chicago o a una manifestazione per i diritti civili, Russ ripensava con una sensazione dolceamara al vigore che lui e Marion avevano perso.


    Nella prospera New Prospect, benché Russ continuasse a battersi per la giustizia sociale, il torpore politico della First Reformed lo aveva ormai quasi sconfitto, quando era arrivato Rick Ambrose a dare la sveglia. Mentre Russ si era procurato il suo senso di estraneità ai quartieri residenziali genuinamente, grazie all’infanzia mennonita, quello di Ambrose era acquisito. Da ragazzo era un ribelle senza causa nella famiglia tutto sommato felice di un endocrinologo di Shaker Heights, in Ohio. Appena si era diplomato, lui e la sua ragazza erano saltati sulla moto, avevano imboccato la via principale di Shaker Heights e se n’erano andati. Un mese dopo, su una strada dell’Idaho, erano stati sorpassati da quattro adolescenti su una Chevy lanciata a centosessanta all’ora, che aveva centrato il pick-up di un rancher in mezzo a un incrocio. Sul ciglio della strada, davanti a quella morte adolescenziale, Ambrose aveva udito con chiarezza la chiamata di Dio. Sette anni dopo, come pastore tirocinante, si era sentito chiamato a lavorare con i giovani in difficoltà. Quando era andato nell’ufficio di Russ per accettare di persona il ruolo di responsabile della pastorale giovanile, Ambrose gli aveva parlato in tono lusinghiero. Una congregazione di Oak Park gli aveva offerto un posto meglio retribuito, ma lui aveva scelto la First Reformed perché ammirava l’esplicito impegno di Russ per la pace e la giustizia. – Penso che saremo un’ottima squadra, – aveva detto.


    Confortato dal riconoscimento del proprio valore e conquistato dal ribollente carisma del giovane collega, immaginando che potessero diventare amici, Russ lo aveva invitato ripetutamente a cena alla canonica. Quando finalmente aveva accettato, trattenendosi a tavola dopo che i bambini erano andati a letto, Ambrose aveva prestato tanta attenzione a Marion che Russ si era sentito a disagio per la scarsa attenzione che invece lui le aveva dedicato negli ultimi tempi. Marion non era mai stata una civetta, ma sembrava piacevolmente corroborata dall’intensità di Ambrose. Quando Ambrose se n’era andato, Russ aveva scoperto con sorpresa che non le era piaciuto. – Quel suo sguardo torvo, – aveva detto Marion. – Sembra una tecnica di controllo mentale che ha imparato da qualche parte. È una tecnica da venditore di automobili: far temere all’altro che lo disapprovi. L’altro farà di tutto per ottenere la tua approvazione, senza nemmeno chiedersi perché la desidera.


    Era vero che, malgrado la sua sboccata franchezza, c’era qualcosa di imperscrutabile in Ambrose, e Russ non riusciva mai del tutto a dimenticare la sua estrazione benestante, cosí diversa dalla propria. Ma Russ aveva un cuore appassionato e generoso, che lo rendeva adatto al ministero pastorale, ed Ambrose aveva ragione: formavano una bella squadra. Come guide spirituali avevano stili complementari, quello di Ambrose psicologico e scafato, quello di Russ piú politico e biblico, e Russ era contento che fosse Ambrose a farsi carico dei ragazzi piú turbolenti dell’associazione giovanile, lasciandogli il compito di guidare gli altri con l’esempio.


    Dopo avere sentito i racconti di Russ sul suo periodo fra i navajo, Ambrose aveva proposto che l’associazione si prefiggesse come nuovo obiettivo un campo di lavoro primaverile in Arizona. Russ era cosí entusiasta dell’idea che ben presto aveva dimenticato di non averla avuta lui. L’Arizona era il suo posto, dopotutto. Arrivando nell’arida riserva, in una desolazione e indigenza che nessuno degli altri passeggeri del pullman aveva mai sperimentato, aveva sentito quaranta paia di occhi di adolescenti suburbani rivolgersi a lui in cerca di coraggio e assistenza. Era saltato fuori che Ambrose, malgrado le sue arie da duro che non rifuggiva dal lavoro manuale, non sapeva piantare un chiodo dritto senza prima storcerne due. Andava spessissimo da Russ, o anche da Clem, per farsi aiutare in lavori apparentemente elementari. Anche se piú tardi la sua inettitudine sarebbe diventata un vero problema – se non addirittura il catalizzatore dell’umiliazione di Russ –, durante il primo viaggio primaverile era servita a mettere in risalto l’abilità di Russ.


    L’ottobre successivo l’associazione era cosí affollata di adolescenti che Russ temeva un’ispezione a sorpresa dei pompieri. Al di là dei numeri, ciò che lo entusiasmava era il tipo di ragazzi che entravano nel gruppo. C’erano musicisti capelloni, c’erano un mucchio di ragazze bionde della chiesa episcopale, c’erano persino dei ragazzi neri, e non cercavano solo un rinnovamento spirituale. Volevano invitare a parlare gente dei quartieri poveri e del movimento pacifista, volevano interrogarsi sulla propria ricchezza suburbana. Per sei anni, nei suoi sermoni, Russ aveva tentato di aprire gli occhi alla congregazione adulta della First Reformed sulle implicazioni dei loro privilegi. Ora, d’un tratto, per la prima volta da quando aveva lasciato New York, si sentiva di nuovo al centro delle cose. Sapeva di dover ringraziare Ambrose per questo, ma sapeva anche che le voci sul viaggio in Arizona avevano infiammato la scuola, e che la promessa di un secondo viaggio era alla base dell’aumento degli iscritti. In novembre, dopo un incontro della domenica sera eccezionalmente brioso, Ambrose, che sorrideva di rado, gli si rivolse con un sogghigno.


    – Pazzesco, non trovi?


    – Incredibile, – disse Russ.


    – Ho contato quattordici ragazzi che la settimana scorsa non c’erano.


    – Davvero incredibile.


    – È stata l’Arizona, – disse Ambrose, piú serio. – Quel viaggio ha completamente cambiato la dinamica. Ha dato concretezza a tutto quanto.


    Russ, già esaltato, si esaltò ancora di piú. L’Arizona era il suo posto. Era stato lui, non meno di Ambrose, a cambiare la dinamica. Nella sua esaltazione, durante l’inverno e l’inizio della primavera si tuffò nello spirito dei tempi. Corse il rischio di parlare dei propri sentimenti, si aprí a nuovi stili di musica. Scoprí che chiudere gli occhi e alzare un pugno chiuso, mentre parlava del dottor King o di Stokely Carmichael, al quale una volta aveva stretto la mano, aveva un potente effetto sui giovani. Anche se non risultava mai molto convincente, si mise a dire parolacce come stronzate. Cominciò a portare i capelli lunghi oltre il colletto e si fece crescere la barba, che durò finché Marion non osservò che assomigliava a Giovanni il Battista. Russ si sentí cosí offeso che se la tagliò, ma pensò che Marion stava diventando una palla al piede. Era molto piú elettrizzante concentrarsi sulle attenzioni che riceveva dalla nuova specie di ragazze dell’associazione. Erano sboccate quanto i maschi, chiassose e volgari nelle allusioni sessuali che si scambiavano con i ragazzi, e tuttavia, essendo cresciute nei quartieri residenziali, erano ancora piú ingenue di quanto fosse stato lui alla loro età. Nessuna di loro aveva mai decapitato un pollo, né visto una banca pignorare una fattoria avita. Russ credeva di poter offrire loro la profondità dell’esperienza autentica che mancava al giovane Ambrose. Metteva piú impegno nelle preghiere della domenica sera che nei sermoni della domenica mattina (e comunque per quelli si impegnava Marion al posto suo), perché il sogno che aveva accarezzato a New York, la visione di una nazione trasformata da un’etica vigorosamente cristiana, era vivo nei ragazzi in blue jeans che affollavano il salone delle feste della First Reformed, e non nelle teste grigie che si appisolavano nel tempio.


    Tra i neofiti dell’associazione c’era una ragazza, Laura Dobrinsky, che stava con Tanner Evans e di conseguenza era diventata immediatamente popolare. Al suo primo incontro, Russ l’aveva accolta con un abbraccio che lei non aveva ricambiato, e agli incontri successivi era rimasto turbato dal modo apertamente ostile in cui Laura lo fissava. Gli sembrava un’ostilità stranamente personale, che non ricordava di avere mai suscitato in nessuno. In base alle discussioni sulla psicologia adolescenziale avute con Ambrose, Russ ipotizzò che Laura avesse un problema con il padre e lo avesse trasferito su di lui. Ma un pomeriggio di marzo, dieci giorni prima del viaggio in Arizona, uscí dalla biblioteca della chiesa, dove aveva consultato dei libri per un sermone, e sentí Laura Dobrinsky pronunciare le parole Quello è proprio uno sfigato del cazzo. Dal silenzio che calò mentre girava l’angolo e vedeva cinque o sei ragazze sedute in corridoio, dagli sguardi che le ragazze si scambiarono e dai sogghigni trattenuti a stento, Russ concepí il doloroso sospetto che Laura si stesse riferendo a lui. Particolarmente doloroso era il fatto che una delle ragazze sogghignanti fosse Sally Perkins, la popolare bionda che qualche settimana prima, dopo la scuola, era andata nel suo ufficio a confidarsi sulla propria infelice situazione familiare. In genere i ragazzi piú popolari preferivano parlare dei loro problemi a Ambrose, e Russ era stato sorpreso e gratificato dalla visita di Sally.


    Tornando in ufficio, Russ cercò di rincuorarsi con il pensiero che Sally Perkins non sarebbe andata da lui se l’avesse considerato uno sfigato, e che, anche se Laura Dobrinsky la pensava cosí, era sciocco lasciarsi ferire da una ragazza con gravi problemi di gestione della rabbia, e che poi forse non si riferiva neppure a lui, forse lo sfigato in questione era Clem, cosa che avrebbe spiegato l’imbarazzo delle ragazze alla vista di suo padre; ma era ancora angosciato quando Rick Ambrose bussò alla porta.


    Mettendosi a sedere con espressione afflitta, Ambrose disse a Russ che aveva sentito delle lamentele – anzi, piú che lamentele, preoccupazioni – sul suo stile pastorale. Alcuni ragazzi sembravano a disagio in particolare con le preghiere settimanali. A Ambrose andavano bene cosí com’erano, ma suggerí che Russ «sfumasse un po’ i toni» del linguaggio scritturale. – Capisci cosa voglio dire?


    Difficilmente avrebbe potuto trovare un momento peggiore per criticarlo. – Metto molto impegno in quelle preghiere, – disse Russ. – Quando cito le Scritture, è sempre in diretta relazione al tema che io e te abbiamo scelto per la settimana.


    Ambrose annuí giudiziosamente. – Come ti ho detto, per me non ci sono problemi. Ma dovresti tenerlo presente. Alcuni dei ragazzi che stiamo attirando non hanno un retroterra religioso. Naturalmente la speranza è che tutti trovino la strada verso una fede autentica, ma ciascuno deve trovare la sua strada personale, e ci vuole tempo.


    Per via del commento di Laura, Russ si arrabbiò piú di quanto meritassero le diplomatiche parole di Ambrose. – Non mi importa, – disse. – Questa è una chiesa per credenti, non un circolo ricreativo. Preferisco perdere qualche membro che perdere di vista la nostra missione.


    Ambrose arricciò le labbra ed emise un fischio silenzioso.


    – Chi è che protesta? – disse Russ. – Qualcun altro oltre Laura Dobrinsky?


    – Laura è decisamente la piú esplicita.


    – Be’, e a me non dispiacerebbe se andasse via.


    – È difficile da gestire, sono d’accordo. Ma l’energia che porta è davvero preziosa.


    – Non ho intenzione di cambiare il mio stile perché una ragazza arrabbiata viene a dirti che non le piace.


    – Non è solo lei, Russ. È una questione che dobbiamo affrontare prima di partire per il Viaggio di primavera. Mi chiedo se saresti disposto… – Ambrose guardò torvo il pavimento. – Mi chiedo se non dovremmo dedicare una parte dell’incontro di domenica a discutere della nostra posizione, come gruppo, sulle espressioni della dottrina cristiana. Tu potresti ascoltare Laura, lei potrebbe ascoltare te. Sarebbe prezioso se potessimo fare questa conversazione tutti insieme, prima di salire sul pullman.


    – Non mi interessa una scenata in pubblico con Laura Dobrinsky.


    – Farò in modo che la situazione non sfugga di mano. Ti appoggerò, lo prometto. Solo…


    – No –. Russ si alzò in piedi, arrabbiato. – Mi dispiace, ma no. Non mi sembra giusto. Sono felice di lasciarti fare le tue cose, ma ti chiedo di lasciarmi fare le mie.


    Ambrose sospirò, come per ritirare la sua approvazione, ma non disse altro. Russ rimase con l’impressione che ci fossero molti mormorii dietro le sue spalle, e che avrebbe fatto bene a consolidare la relazione con la parte piú turbolenta del gruppo. Al successivo incontro domenicale, l’ultimo prima dell’Arizona, fece delle amichevoli incursioni in quel settore. Le vibrazioni negative che avvertí, che fossero reali o prodotte della sua paranoia, conferivano ai suoi movimenti una goffaggine da marionetta; un’aria da sfigato. Al termine dell’incontro, seduto nell’enorme cerchio del gruppo, cercò gli occhi di Sally Perkins, sperando di scambiare un sorriso cordiale, ma lei sembrava decisa a non guardarlo.


    Il venerdí pomeriggio prima della domenica delle Palme, consapevole del legame emotivo che si formava durante un lungo viaggio di gruppo, Russ si piazzò fra i due pullman turistici nel parcheggio della First Reformed e aspettò di vedere quale avrebbero scelto i ragazzi con cui voleva formare un legame, in modo da potervi salire anche lui. Ma nel parcheggio le forze della fisica sociale adolescenziale, normalmente ben visibili, erano confuse. Genitori chiacchieravano in mezzo a mucchi disordinati di valigie, fratelli e sorelle preadolescenti correvano su e giú dai pullman, ritardatari arrivavano suonando il clacson, e tutti continuavano ad assillare Russ con domande logistiche. Stava caricando delle latte di vernice da venti litri nel vano bagagli del pullman quando, alle sue spalle, le forze sociali nascoste si risolsero in una calca di ragazzi dai capelli lunghi davanti all’altro pullman, quello scelto da Ambrose.


    Russ capí, troppo tardi, che avrebbe dovuto discutere dell’assegnazione dei posti con Ambrose – che avrebbe dovuto cogliere quell’occasione di ricucire i rapporti con la cricca di Laura Dobrinsky. Viaggiando verso ovest nella notte, sul pullman snobbato, si sentí in esilio. Anche quando riuscí, il mattino dopo, a scambiarsi di posto con Ambrose, la scena sull’altro pullman non gli diede alcuna soddisfazione. I ragazzi erano rimasti svegli tutta la notte, a ridere e cantare, e adesso volevano solo dormire. Tanner Evans si sedette gentilmente accanto a lui, ma ben presto anche Tanner si addormentò. Quando raggiunsero la riserva, Russ aveva ormai paura di girarsi a guardare i ragazzi dietro di sé. Era un sollievo sapere che la maggior parte di loro avrebbe proseguito con Ambrose fino alla scuola sperimentale di Kitsillie, in cima alla mesa.


    Ad attenderli nell’insediamento di Rough Rock c’era il suo amico navajo, Keith Durochie. Il cassone del pick-up Ford di Keith era carico di materiale idraulico, nuovo e di recupero. Lui e gli altri anziani, spiegò, lo stavano aspettando per costruire una fossa biologica e installare un lavandino e un water nella scuola. Quando Russ rispose che era Ambrose, e non lui, a guidare il contingente di Kitsillie, Keith non nascose il proprio disappunto. Già l’anno prima si era reso conto di quali erano le capacità di Ambrose.


    Russ chiamò Ambrose con un cenno e gli illustrò la situazione. – Te la sentiresti di fare dei lavori idraulici lassú?


    – Avrei bisogno di aiuto, – disse Ambrose.


    – A Kitsillie ci serve questo, – disse Keith a Russ. – È il lavoro che vi abbiamo preparato per quest’anno.


    – Accidenti, – disse Russ.


    – Ho tenuto al sicuro l’attrezzatura per tutto l’inverno.


    – Sono disposto a provare, – disse Ambrose. – Con Keith e Clem a darmi una mano, dovrei farcela.


    Keith lanciò un’occhiata a Russ – Clem aveva diciassette anni – e si rivolse a Ambrose. – Tu resti qui, – disse con decisione. – A Kitsillie ci viene Russ.


    – Va bene.


    – Rick, – disse Russ. Non voleva essere il bianco che discuteva con un navajo, ma i ragazzi che andavano a Kitsillie contavano di stare con Ambrose. – Penso che dovremmo parlarne.


    – Io non so fare l’idraulico, – disse Ambrose. – Se il lavoro è questo, preferisco fare a cambio con te.


    Keith si allontanò, soddisfatto di aver risolto la questione, ed Ambrose si affrettò a raggiungere i ragazzi con i quali avrebbe inaspettatamente trascorso una settimana a Rough Rock. Russ avrebbe potuto seguirlo e chiedergli di parlare al gruppo di Kitsillie, di spiegare perché avesse deciso di lasciarlo, ma preferí affidarsi a Dio. Pensò che forse la volontà di Dio si era manifestata in Keith, guidando il corso degli eventi, offrendo a lui la provvidenziale occasione di migliorare la sua relazione con i ragazzi piú popolari. Rimettendosi alla Sua volontà, si caricò la sacca in spalla e salí sul pullman per Kitsillie; e lí fu subito chiaro che Dio aveva su di lui un progetto molto piú arduo.


    La settimana sulla mesa fu una tortura. Tutti, compreso suo figlio, pensavano che mentisse sul motivo per cui aveva sostituito Ambrose, e dire l’intera verità – che Keith Durochie aveva una cattiva opinione di Ambrose – sarebbe stato sleale nei confronti di Keith e scortese nei confronti di Ambrose. Russ era ancora ottuso nei confronti di Ambrose, lo considerava ancora un amico che meritava di essere protetto. Ma sul resto non era ottuso. Vedeva con quanta acidità il gruppo reagiva alla sua presenza. Vedeva fino a che punto si spingevano Laura Dobrinsky e le sue amiche pur di evitare di lavorare con lui, avvertiva il loro odio durante ogni discussione serale a lume di candela, e sapeva di avere la responsabilità pastorale di affrontare il problema. Cercò piú volte di parlare a quattr’occhi con Sally Perkins, che non molto tempo prima gli aveva mostrato fiducia confidandosi con lui, ma lei continuava a evitarlo. Temendo di sentirsi dire cose terribili in un confronto di gruppo, decise di soffrire in silenzio finché Ambrose non avesse confermato la ragione per cui era rimasto a Rough Rock.


    Quando i due gruppi si riunirono, Russ era troppo abbattuto per implorare Ambrose di fare una dichiarazione chiarificatrice. Aspettò che la facesse spontaneamente, ma Ambrose aveva avuto una settimana fantastica a Rough Rock – aveva entusiasmato la metà del gruppo che simpatizzava ancora con Russ; aveva guadagnato terreno in casa sua – e sembrava ignorare il suo sconforto. Assistendo agli abbracci ostentatamente gioiosi con cui il gruppo di Kitsillie salutò Ambrose, Russ si pentí amaramente della propria generosità. Rimpianse di non avere ascoltato gli avvertimenti di Marion. Solo ora si accorgeva che lui e il suo giovane collega erano stati impegnati, fin dall’inizio, in una competizione di cui uno solo dei due era consapevole.


    E anche allora, anche sapendo che Ambrose non era suo amico, non era mai stato suo amico, fu sconcertato dalla sfacciataggine del suo tradimento. Al primo incontro domenicale dopo l’Arizona, quando Laura e Sally si alzarono per dilaniargli il cuore e buttargli in faccia il loro acido adolescenziale, Ambrose non fece nulla per impedirlo – rimase in piedi in un angolo con un truce sguardo di disapprovazione, probabilmente rivolto a lui –, e quando la maggior parte del gruppo uscí dalla sala dell’associazione arroventata dall’ondata di caldo di aprile, Ambrose non si schierò con il suo collega, né con i ragazzi beneducati della chiesa per cui lavorava, ma con la marmaglia esterna alla chiesa, con i ragazzi alternativi e le ragazze popolari, lasciando Russ a chiedere a Dio cosa avesse fatto per meritare un simile castigo.


    La risposta, o almeno una risposta, arrivò alcuni interminabili minuti piú tardi. Ambrose tornò da lui e gli chiese di seguirlo al piano di sotto. – Ho tentato di avvertirti, – gli disse mentre scendevano le scale. – Penso davvero che tutto questo poteva essere evitato.


    – Hai detto che mi avresti appoggiato, – disse Russ. – Hai detto, cito testualmente: «Farò in modo che la situazione non sfugga di mano».


    – E tu hai rifiutato di fare quella conversazione.


    – Io questo lo chiamo sfuggire di mano!


    – È una cosa seria, Russ. Devi sentire con le tue orecchie cosa mi ha appena detto Sally.


    Al primo piano l’aria non era molto piú fresca. Ambrose lo condusse nel suo ufficio mal ventilato, dove Laura e Sally erano sedute sul divano, e chiuse la porta. Laura rivolse a Russ un crudele sorriso di trionfo. Sally si guardava le mani, imbronciata.


    – Sally? – disse Ambrose.


    – Non capisco a cosa serve, – disse Sally. – Tanto io da questa chiesa me ne vado.


    – Credo che Russ abbia il diritto di sentirlo direttamente da te.


    Sally chiuse gli occhi. – Ormai sono disgustata. Il Viaggio di primavera si è rivelato un incubo. Quando lui è salito su quel pullman, il mio peggiore incubo è diventato realtà. Non riuscivo a crederci.


    – C’era un motivo se io e Russ ci siamo scambiati di posto, – disse Ambrose. – Lui era piú bravo di me nel lavoro che andava fatto sulla mesa.


    – Ma certo. Sono sicura che ha trovato un motivo. Ma la sensazione che ho avuto io è stata di non potermi liberare di lui.


    L’ufficio era insopportabilmente caldo. Russ era sgomento, spaventato e perplesso. – Sally, guardami, – disse. – Per favore, apri gli occhi e guardami.


    – Non ha voglia di aprire gli occhi, – disse Laura in tono integerrimo.


    – Volevo solo che lui mi lasciasse in pace, – disse Sally. – Sono stata molto a disagio, quella volta nel suo ufficio. E poi, roba da non credere, lui mi ha seguita a Kitsillie.


    Tutti quei lui erano ancora peggiori del rifiuto di guardarlo. Riducevano Russ all’oggetto di una relazione soggetto-oggetto.


    – Non capisco, – disse a Sally. – Io e te abbiamo avuto una bella conversazione nel mio ufficio, e sarebbe stato sbagliato da parte mia non cercare di proseguirla. È il mio compito di pastore. Non so perché pensi che ti abbia presa di mira.


    – Perché è quello che sento, – disse Sally. – Lo vuole capire che deve lasciarmi in pace?


    – Non mi sono proprio reso conto che ti stavo mettendo pressione. Volevo solo mostrarti che sono a tua disposizione. Che puoi fidarti di me, puoi aprirti con me.


    – È proprio questo il punto, – disse Laura. – Sally non si fida di lei.


    – Laura, – disse Ambrose. – Lascia che Sally parli per sé.


    – No, basta, – disse Sally, saltando in piedi. – Lui mi ha rovinato il Viaggio di primavera. Mi fa sentire a disagio con l’intero gruppo. Basta.


    Corse via dall’ufficio. Con un’occhiata raggelante all’oggetto che era Russ, Laura si alzò e le andò dietro. A Russ sembrò, nel silenzio che seguí, di essere l’unico a sudare. Quando Ambrose si appoggiò allo schienale della sedia e intrecciò le mani dietro la testa, la sua camicia di jeans era invidiabilmente asciutta sotto le ascelle.


    – A questo punto non so piú cosa fare, Russ.


    – Stavo solo cercando di aiutarla.


    – Davvero? Dice che ti sei lamentato con lei della tua vita sessuale con Marion.


    Il sudore gli colava cosí abbondante dai pori che gli sembrava di perdere la pelle. – Sei pazzo? È una bugia bella e buona.


    – Ti sto solo riferendo quello che ha detto.


    Colto alla sprovvista da quell’accusa, Russ scosse la testa per schiarirsi le idee, cercando di ricordare cosa aveva detto di preciso durante la conversazione con Sally.


    – Non è corretto, – disse. – Le ho solo detto che… che il matrimonio è una benedizione ma può anche essere faticoso. Che in una relazione di lunga data il nemico è la noia. Che a volte in un matrimonio non c’è sufficiente amore per superare quella noia. E poi… devi capire, c’era un contesto.


    Ambrose attese, guardandolo torvo.


    – Stavamo parlando del divorzio dei suoi genitori, della sua rabbia nei loro confronti, e mi è parso che ci stessimo avvicinando a una svolta. Quando mi ha chiesto se non mi annoiavo mai nel mio matrimonio, ho sentito di dover essere sincero con lei. Credevo fosse importante spiegarle che perfino un uomo di chiesa, perfino un pastore che lei rispettava…


    – Russ, Russ, Russ.


    – Cosa dovevo fare? Non rispondere sinceramente?


    – Entro certi limiti. Occorre una certa destrezza.


    – È stata lei a chiedermi: «Si annoia nel suo matrimonio?»


    – Mi spiace, ma lei non se lo ricorda cosí. A suo modo di vedere, ci stavi provando.


    – Sei impazzito? Ho una figlia di quindici anni!


    – Non dico che sia vero. Ma capisci perché potrebbe averlo interpretato in quel modo?


    – È stata lei a venire da me. Se qualcuno ci stava provando, era… lo sai cosa credo che sia successo? È stata Laura. Appena ha visto che Sally si avvicinava a me, si fidava di me, Laura me l’ha messa contro. Qui quella che ha i pensieri sporchi è Laura. Sally era del tutto a suo agio con me, finché non è caduta tra le sue grinfie.


    Ambrose non sembrava entusiasta della teoria di Russ. – So che Laura non ti piace, – disse.


    – Sono io che non piaccio a lei.


    – Ma fai un passo indietro e guardati. Cosa ti è venuto in mente di parlare della tua noia sessuale a una diciassettenne vulnerabile? Anche se ci stava provando con te, cosa di cui dubito, avevi la chiara responsabilità di bloccarla. Con decisione. Subito. Senza ambiguità.


    Non importava se lo sguardo truce di Ambrose era solo un trucco. Sotto la pressione di quello sguardo, Russ fece un passo indietro e rimase mortificato da ciò che vide: non la morbosità sessuale di cui era accusato (per lui le ragazze dell’associazione erano tabú in innumerevoli modi), ma la fatuità di pensare di poter essere anche lui un alternativo come Ambrose. Piú di una volta l’aveva sentito confessare ai ragazzi che alla loro età era uno stronzo arrogante e insensibile, e aveva visto come era entusiasta il gruppo, non solo della sincerità di Ambrose ma anche della sua immagine di rubacuori. Esaltato dall’interesse dimostratogli da una ragazza popolare, Russ si era illuso di essere diventato bravo a padroneggiare la sincerità, e di potere in qualche modo riscattare la sua timidezza adolescenziale diventando retroattivamente disinvolto con le tipe alla Sally Perkins. Nella sua esaltazione aveva confessato, o almeno insinuato, che Marion non lo eccitava piú. Aveva sentito il bisogno di liberarsi di Marion, di fuggire da lei, per poter essere piú simile a Ambrose; e ora la sua vanità era stata vergognosamente rivelata. Il suo unico pensiero era uscire di lí, respirare aria piú fresca e cercare conforto nella misericordia divina.


    – Credo di dovermi scusare, – disse.


    – Troppo tardi, – disse Ambrose. – Quelle ragazze non torneranno.


    – Forse dovresti dire loro perché non eri a Kitsillie. Se lo sentissero da te…


    – Il problema non è Kitsillie. Non hai sentito cos’hanno detto? Il problema è il tuo stile pastorale. È semplicemente incompatibile con i ragazzi che sto cercando di raggiungere.


    – I ragazzi fichi.


    – I ragazzi in difficoltà. Quelli che hanno bisogno di un adulto con cui riescono a relazionarsi. Ci sono un sacco di altri ragazzi che apprezzano uno stile piú tradizionale, e tu starai benissimo con loro. Non sono molti, dovresti riuscire a cavartela da solo.


    – Cosa stai dicendo?


    – Sto dicendo che non posso continuare a lavorare qui.


    Lo sguardo di Ambrose era puntato su di lui, ma Russ si sentiva troppo schifosamente sudato per guardarlo. Il trip in cui era entrato da ottobre era la fantasticheria di uno sfigato che viveva alle spalle del carisma di un altro. Immaginando il gruppetto sparuto che sarebbe rimasto dopo quella sera, vide solo vergogna. E anche i ragazzi rimasti non lo avrebbero piú rispettato, dopo ciò a cui avevano assistito.


    – Non puoi andartene, – disse. – Sei ancora sotto contratto.


    – Terminerò l’anno scolastico.


    – No, – disse Russ. – Il gruppo è tuo, adesso. Non intendo disputartelo.


    – Non sto dicendo che devi andartene. Sto dicendo che troverò un’altra chiesa.


    – E io ti sto dicendo di tenertelo. Non lo voglio –. Temendo di scoppiare a piangere, Russ si alzò e andò alla porta. – Quando eravamo di sopra, non hai detto uno straccio di parola in mia difesa.


    – Hai ragione, – disse Ambrose. – Sono desolato.


    – Col cavolo che lo sei.


    – È un peccato che l’intero gruppo sia stato trascinato in questa storia. So che è stato orribile per te.


    – Non voglio la tua compassione. Anzi, puoi infilartela su per il culo.


    Furono le ultime parole che rivolse a Rick Ambrose. Quella sera uscí dalla chiesa talmente soffocato dalla vergogna che non sapeva se sarebbe mai riuscito a tornarci. Provava l’impulso di dimettersi dalla First Reformed e non avere mai piú a che fare con gli adolescenti. Ma non poteva infliggere un altro trasferimento alla sua famiglia – Becky, in particolare, stava vivendo un periodo bellissimo a scuola – e cosí il mattino dopo andò da Dwight Haefle e gli chiese di assegnare l’intera responsabilità del gruppo giovanile a Ambrose. Haefle, allarmato, gli chiese perché. Assecondando la propria vergogna, evitando di entrare nei dettagli, Russ disse che non riusciva a relazionarsi con i ragazzi delle superiori. Disse che avrebbe continuato a dirigere la scuola domenicale e il corso per cresimandi, avrebbe fatto volentieri piú visite pastorali, e sarebbe stato disponibile ad avviare un programma di assistenza nei quartieri poveri.


    – Hmm, – fece Haefle. – Magari anche qualche sermone in piú?


    – Certo.


    – Piú lavoro nei comitati.


    – Senz’altro.


    A quanto pareva, per Haefle, che aveva sessantatre anni, il fallimento di Russ era controbilanciato dalla gradevole prospettiva di lavorare meno. – In effetti sembra proprio che Rick stia facendo un lavoro super, – disse.


    Uscito dall’ufficio del ministro anziano, Russ andò dalla segretaria della chiesa e le disse di riferire a Ambrose che da quel momento doveva comunicare con lui solo in forma scritta. Piú tardi, dopo avere ricevuto il messaggio, Ambrose andò a bussare alla sua porta chiusa a chiave. – Ehi, Russ, – disse. – Ci sei?


    Russ non rispose.


    – In forma scritta? Che cazzo vuol dire?


    Russ sapeva che era un comportamento infantile, ma il suo dolore e il suo odio erano di una sconfinata assolutezza, non mitigata da una prospettiva adulta, e al di sotto c’era la dolcezza di affidarsi completamente alla misericordia di Dio: di rendersi cosí solo e spregevole che solamente Dio poteva amarlo. Dal giorno successivo alla sua umiliazione non rivolse piú la parola a Ambrose. Mentre si impegnava a fondo nelle altre sue mansioni, avviando un circolo femminile nei quartieri poveri, raggiungendo nuove vette di eloquenza politica nei suoi sermoni, guadagnandosi lo stipendio e dimostrando che tutti gli altri lo apprezzavano ancora, continuò a evitare Ambrose e ad abbassare lo sguardo se per caso lo incontrava. A poco a poco – lo sentiva – Ambrose cominciava a contraccambiare il suo odio. Anche questo era dolce, perché gli teneva compagnia e rafforzava l’odio dentro di lui. Se anche nutriva qualche speranza che la congregazione non fosse a conoscenza della loro faida, negli uffici della chiesa era impossibile nasconderla. Dwight Haefle cercava continuamente di negoziare una pace, di convocare riunioni, e l’ignominia dei suoi rifiuti, la consapevolezza di apparire infantile agli occhi di Haefle, del personale di segreteria e persino del custode, lo facevano sentire ancora piú spregevole. Il suo rancore nei confronti di Ambrose era come un cilicio, come filo spinato avvolto intorno al petto. Soffriva, e nella sofferenza si sentiva vicino a Dio.


    Il tormento per cui non vi era ricompensa veniva da Marion. Non essendosi mai fidata di Ambrose, attribuiva a lui tutta la colpa dell’umiliazione di Russ. Quella lealtà, di cui avrebbe dovuto esserle grato, in realtà lo faceva sentire ancora piú solo. Il problema era che non poteva raccontare la vera storia dello svergognamento che gli avevano inflitto Ambrose e Sally, perché la storia si basava sul fatto di avere confessato a Sally, in modo effettivamente sconsiderato, che ormai lui e sua moglie facevano l’amore molto di rado. Certo, era stato un terribile tradimento nei confronti di Marion. Eppure, per una curiosa alchimia, con il passare dei mesi Russ arrivò a pensare che fosse stata lei, perdendo di fascino ai suoi occhi, la vera causa della sua umiliazione. Nell’illogicità di quell’alchimia, piú Marion diventava colpevole e meno lo diventava Sally. Infine giunse una notte in cui Sally gli apparve in sogno, con un maglione a rombi innocente ma che le faceva risaltare i seni, e gli fece teneramente capire che lo preferiva a Ambrose ed era pronta a essere sua. Un brandello di Super-Io non addormentato sviò il sogno dalla consumazione, ma Russ si svegliò eccitato come non mai. Uscendo furtivamente dal letto, con l’autocoscienza attenuata dall’oscurità della canonica, fece una visita onanistica al bagno. Nel lavandino venne la prova concreta delle rimostranze di Sally nei suoi confronti. Russ vide che era stata dentro di lui fin dall’inizio.


    Ogni uomo in cerca di salvazione aveva una personale debolezza che gli ricordava la sua nullità davanti al Signore e complicava la comunione con Lui. La debolezza di Russ gli era stata rivelata nel 1946, in Arizona, dove la sensibilità alla bellezza femminile aveva aggravato la sua crisi di fede nella religione dei confratelli. L’immagine di Marion, con i suoi umidi occhi scuri, la bocca invitante, la vita sottile, il collo slanciato e i polsi delicati, era entrata ronzando, come un enorme calabrone irrequieto, nella camera un tempo casta della sua anima. Né gli ipotetici fuochi dell’inferno né la concretissima prospettiva di un distacco dai confratelli riuscivano a fermare il ronzio di quel calabrone. Anche se la conseguenza era stata la rottura permanente con i genitori, Russ era uscito dalla crisi spirituale adottando una forma di fede cristiana meno rigida ma comunque valida, e aveva risolto il problema della sua debolezza sposando Marion.


    O almeno cosí gli era sembrato. In seguito a quel sogno sbaraglia-tabú, Russ si accorse di non aver davvero superato la sua debolezza: l’aveva solo rimossa dalla coscienza. Adesso il sogno gli aveva aperto gli occhi. Adesso, a quarantacinque anni, vedeva bellezza dappertutto – nelle quarantenni che gli si rivolgevano con sorprendente cordialità in Pirsig Avenue, nelle trentenni che scorgeva sulle auto di passaggio, nelle ventenni che facevano volontariato all’ospedale. Adesso era tormentato non da un unico calabrone, ma da un caotico sciame vorticante. Per quanto ci provasse, non riusciva a chiudere le finestre dell’anima per tenerlo fuori. E poi era arrivata Frances Cottrell.


    Russ si sentiva ancora il suo calcetto scherzoso nel fianco mentre pilotava la Fury sotto la fitta nevicata in Archer Avenue. Tre macchine piú avanti, un camion arancione con i lampeggiatori gialli accesi spargeva sale sulla strada, ma di spazzaneve non se n’erano ancora visti. Frances si era zittita, e lui si sentiva in dovere di dire qualcosa, se non altro per disinnescare la carica di quel colpetto col piede da lei assestato vicino ai genitali del suo pastore, ma le ruote prive di trazione della Fury stavano palesemente sfarfallando. Se fosse rimasto bloccato nella neve, accumulando ritardo, la spedizione sarebbe diventata una disavventura che Marion, quando avesse visto Kitty in chiesa, avrebbe naturalmente commentato, scoprendo cosí che ad accompagnarlo era stata Frances e non Kitty. Come se fosse tutt’uno con la Fury, Russ si impose di mantenere la presa. Era fondamentale evitare frenate brusche, ma l’accelerazione degli eventi era spaventosa: Perry che aveva fornito la droga al figlio di Frances, la dolorosa conversazione che adesso avrebbe dovuto avere con lui, l’invito di Frances a fumare marijuana insieme a lei, e il rischio che, se Russ avesse declinato l’invito, lei si rivolgesse altrove per trovare compagnia nella sua ricerca di gioventú; il fatto sconvolgente che si fosse già rivolta altrove, non piú di un’ora prima, intraprendendo un’amabile conversazione con Rick Ambrose, contro il quale Russ aveva abbondantemente dimostrato di non poter competere in termini di alternatività.


    – Allora, ehm, – disse, dopo avere frenato con prudenza a un semaforo. – Ha fatto una bella chiacchierata con Rick?


    – Sí.


    – Immagino che non le abbia accennato al fatto che io e lui non ci rivolgiamo la parola.


    – No, ma lo sapevo già. Lo sanno tutti.


    Tanti saluti alla speranza che la loro faida non fosse universalmente nota.


    – Perché me lo chiede? – disse Frances. – Non ho il permesso di parlare con lui se voglio essere sua amica?


    – Ma no, che dice. Lei può parlare con chi vuole. Si ricordi solo che, con Rick Ambrose, al centro c’è sempre Rick Ambrose. Sa essere molto seducente, e lei potrebbe crederlo suo amico. Ma è meglio che si guardi le spalle.


    – Santo cielo, reverendo Hildebrandt, – disse Frances, con una cadenza melodiosa. – Credo proprio che lei sia geloso.


    Il semaforo diventò verde, e lui diede un colpetto all’acceleratore. Le ruote posteriori stridettero e scodinzolarono un po’.


    – Geloso di Crossroads, intendo, – proseguí Frances. – Rick ha centocinquanta ragazzi adoranti ogni domenica. Lei ha otto anziane signore due volte al mese. Sarei gelosa anch’io, se fossi in lei.


    – Non sono geloso. In questo momento non vorrei essere da nessun’altra parte.


    – Gentile da parte sua.


    – Non sto scherzando.


    – Okay. Ma allora perché tanto rancore nei confronti di Rick? Immagino che non siano affari miei. Ma se Rick è bravo in quello che fa e lei è bravo in quello che fa… non vedo il problema.


    Anche sul rettilineo la macchina procedeva un po’ a strappi, puntando al testacoda.


    – È una lunga storia, – disse Russ.


    – In altre parole, non sono affari miei.


    Il rifiuto di perdonare Ambrose, quel rifiuto che da quasi tre anni organizzava la sua vita interiore e riceveva il sostegno quotidiano di Marion, gli sembrò sciocco quando immaginò di spiegarlo a Frances. Piú che sciocco: ripugnante. Comprese che, per avere una possibilità con lei, forse avrebbe dovuto abbandonare l’odio. Ma il suo cuore non voleva. Sarebbe stata una perdita enorme, avrebbe sciupato i mille giorni passati a nutrire il rancore, li avrebbe resi insensati. C’era anche il rischio che, se lui avesse fatto pace con Ambrose, Frances si sarebbe sentita ancora piú libera di ammirarlo, mentre lui, Russ, non avrebbe avuto piú niente – né il suo virtuoso dolore né Frances come ricompensa privata per averlo sopportato. Lui ed Ambrose sarebbero stati di nuovo in competizione, e lui avrebbe perso.


    – Non per fare la Signora Aggiustatutto, – disse Frances, – ma Crossroads ha aiutato tanto Larry, e lei ha aiutato tanto me. Deve pur esserci una soluzione.


    – Io non piaccio a Rick, e Rick non piace a me. È un’antipatia naturale.


    – Ma perché? Perché? Va contro tutto quello che lei dice nei suoi sermoni. Va contro quello che mi ha detto sul porgere l’altra guancia. Non riesco a smettere di pensarci. È il motivo per cui oggi ho voluto venire con lei.


    Russ sentiva ancora nel fianco il ronzio risvegliato dal suo tocco. Frances stava dicendo che era attratta dalla sua bontà, e quindi lui, per poter fare una cosa molto cattiva, cioè infrangere i voti matrimoniali, doveva praticare la bontà.


    – Significa molto per me, – disse. – Il fatto che lei oggi sia qui.


    – Oh, si figuri. È un onore.


    – Ha parlato anche di collaborare con Crossroads –. Un tremito nella voce tradí la sua ansia. – Diceva sul serio?


    – Dio, lei è davvero geloso.


    Di nuovo – di nuovo – gli pungolò la coscia con la punta del piede.


    – La mia unica occupazione – disse – è fare la madre. Con lei e Kitty lavoro solo due volte al mese, perciò sí, ho chiesto a Rick se posso diventare un’assistente di Crossroads. Non mi è sembrato troppo entusiasta, ma al viaggio in Arizona partecipano sempre un paio di genitori, e lui mi ha messo in lista.


    – Per il viaggio di primavera, – disse Russ, inorridito.


    – Sí!


    L’Arizona era il suo posto. Il pensiero di Frances in Arizona con Ambrose era atroce.


    – Mi dispiace, – disse Frances, – lo so che non dovrei cercare di salvare la situazione. Ma anche lei dovrebbe partecipare a quei viaggi. Lei ovviamente ama i navajo, ha vissuto laggiú per un sacco di anni. Se lei e Rick riusciste a fare pace, potremmo andarci tutti insieme. Non sarebbe divertente? Mi piacerebbe tanto.


    Rimbalzò sul sedile, con un’energia cosí adorabile che Russ rimase confuso. Ecco, vi annunzio una grande gioia – pace in terra a tutti gli uomini. I fanali sull’altro lato di Archer Avenue erano uno attaccato all’altro, ogni macchina conteneva un automobilista sulle spine. Non c’era niente di natalizio nel caos che la neve stava creando. La gioia delle festività era in Frances, nelle sue domande infantili sul conflitto tra Russ ed Ambrose, e un viticcio della sua gioia stava penetrando nel cuore indurito di Russ. Era possibile? Poteva finalmente perdonare Rick Ambrose? Se la sua ricompensa terrena era Frances? Una settimana in Arizona nella sua fiduciosa, giocosa, incantevole presenza? O forse piú che una sola settimana – forse metà della vita? Frances era forse la seconda possibilità che Dio gli stava concedendo? La possibilità di rivoluzionare la sua esistenza? Di fare gioiosamente l’amore con una donna gioiosa? Aveva odiato se stesso ed Ambrose per mille giorni oscurati da Marion, immaginandosi vicino a Dio, mentre per tutto il tempo, in ogni istante di ogni giorno, una semplice svolta del suo cuore verso il perdono, che era l’essenza del messaggio di Cristo al mondo, il vero significato del Natale, era stata a portata della sua libera scelta.


    – Ci penserò, – disse.


    – La prego, – disse Frances. – Non esiste motivo al mondo per cui lei e Rick non possiate andare d’accordo.


    Nei romanzi medievali, una dama assegnava al suo pretendente un compito impossibile, il ritrovamento del Graal, l’uccisione di un drago. Russ pensò che la sua bella dama con il berretto da cacciatore gli stesse chiedendo di uccidere il drago che aveva nel cuore.

    Il sindaco Daley non mandava gli spazzaneve a Englewood finché le strade dei quartieri bianchi non erano perfettamente pulite. Russ zigzagò nelle vie laterali, dove la neve era piú farinosa e forniva una trazione migliore, e mantenne l’abbrivio bruciando gli stop. Quando arrivarono in vista della Community of God erano quasi le cinque. Per poter essere a casa alle sette, in modo che Marion non finisse per parlare di quella spedizione con Kitty Reynolds, doveva fare in fretta a scaricare la Fury.


    La porta del centro comunitario era chiusa a chiave, la luce sopra la porta spenta. Russ suonò il campanello e, mentre Frances batteva i piedi per riscaldarli, attesero sotto la neve che cadeva invisibile finché la luce non si accese e Theo Crenshaw aprí la porta.


    – Avevo quasi perso le speranze, – disse a Russ.


    – Sí, nevica parecchio.


    Un’impressione che Russ aveva già avuto – che Theo fosse restio a riconoscere la presenza di Frances – si intensificò quando Theo voltò loro le spalle e diede un calcio al cuneo di legno sotto la porta.


    – Io sono Frances, – disse lei in tono allegro. – Si ricorda di me?


    Theo annuí senza guardarla. Indossava un pullover di velours sformato e pantaloni elasticizzati della taglia sbagliata. Sembrava immune alla vanità che aveva spinto Russ a indossare per Frances la sua camicia preferita e la giacca di montone. La potenza drammatica di un predicatore urbano amatissimo la domenica dalle donne della sua congregazione ma per il resto completamente solo nella sua chiesa, senza personale di supporto, senza un ministro associato, con un misero stipendio annuale e un sostentamento prevalentemente spirituale, era particolarmente intensa in una gelida sera di dicembre. Non c’era nessuno che Russ ammirasse piú di lui, nessuno che considerasse piú autenticamente cristiano. Theo lo faceva sentire privilegiato tanto quanto Rick Ambrose lo faceva sentire svantaggiato, e poteva immaginare che Frances, con la sua bionda bellezza suburbana, potesse risultargli un’apparizione sgradita.


    Vide con piacere che Frances si metteva subito all’opera per portare dentro gli scatoloni. Sperò che Theo, notando la sua allegra industriosità, l’avrebbe accolta meglio in futuro. Come sempre, la consegna di cibo e giocattoli fu una pura e semplice transazione. Russ non si aspettava ringraziamenti, e Theo non si aspettava scambi di cordialità. Quando tutti gli scatoloni furono dentro, Theo si mise le mani sui fianchi e disse: – Bene. Domattina verranno delle signore ad accogliere chi vorrà passare.


    – E noi ci rivediamo martedí, – disse Russ. Batté le mani e si girò verso Frances. – Andiamo?


    Vide che aveva in mano un pacchettino piatto. Era avvolto in una carta natalizia, con un fiocco rosso.


    – Mi farebbe un favore? – domandò Frances a Theo. – Le dispiace darlo a Ronnie, domani? E dirgli che l’ha portato la signora con cui ha fatto i disegni?


    Russ non aveva visto il pacchetto in nessuno degli scatoloni. Frances doveva averlo tenuto nella tasca del giaccone. Si rammaricò che non glielo avesse mostrato prima, perché Theo si stava accigliando.


    – Non credo che sia una buona idea.


    – È solo un set di pennarelli Flair. Vanno benissimo per i libri da colorare.


    – Bello, – disse Theo. – Qualche bambino o bambina sarà felice di riceverlo.


    – No, è per Ronnie. L’ho preso apposta per lui.


    – Certo, certo. Ma credo che dovrebbe metterlo insieme agli altri giocattoli.


    – Perché? Ronnie è un bambino tanto dolce… perché non posso fargli un regalo?


    Sembrava innocentemente sorpresa, innocentemente ferita. Russ sentí salirgli dentro un istinto protettivo cosí forte che pensò di essere davvero innamorato di lei.


    Theo non era altrettanto commosso. – Mi è stato riferito – disse – che lei e la madre di Ronnie avete avuto una discussione.


    – È un regalo, – disse Frances.


    – Le ho già chiesto una volta di lasciar stare quel bambino. Ora glielo chiedo di nuovo. Per cortesia.


    Il dolore di Frances si stava mutando in rabbia. Era un’emozione che Russ non aveva mai visto in lei, e lo eccitò. La immaginò arrabbiata con lui, l’intera gamma delle sue emozioni femminili messa a nudo in uno di quei litigi che gli amanti avevano di tanto in tanto.


    – Perché? – disse Frances. – Non capisco.


    Theo si girò verso Russ e alzò gli occhi al cielo, come per esortarlo a controllare la sua donna.


    – Frances, – disse Russ, muovendosi verso di lei. – Forse dovremmo fidarci di Theo. Non conosciamo la situazione.


    – Qual è la situazione?


    – La situazione – disse Theo – è che Clarice, la madre del bambino, non vuole che lei gli parli. È venuta da me a lamentarsi.


    Frances scoppiò a ridere. – E perché mai? Perché è una madre tanto perfetta?


    Russ trovò eccitante anche la sua derisione, che però dal punto di vista morale non era affatto attraente. Le mise una mano sulla spalla e cercò di allontanarla. – Possiamo discuterne dopo, io e lei, – disse.


    Lei scrollò via la sua mano. – Mi dispiace, ma come è possibile che un bambino che dovrebbe essere in una scuola speciale, che dovrebbe ricevere attenzioni speciali… com’è possibile che sia in giro per il quartiere a scroccare monetine durante l’orario scolastico?


    – Frances, – disse Russ.


    – Le sono grato del suo interesse, – disse Theo in tono pacato. – Ma le suggerisco di tornare a casa. Ci vorrà molto tempo, con questa neve.


    – Sí, dobbiamo andare, – convenne Russ.


    Ora Frances diresse davvero la propria rabbia contro di lui. – A lei sembra giusto? Perché nessuno chiama gli assistenti sociali? Non bisognerebbe informare lo stato?


    – Lo stato? – Theo sorrise a Russ, come se fosse una battuta che solo loro due potevano capire. – Lei crede che lo stato dell’Illinois abbia un sistema efficiente per la protezione dei minori?


    – Cosa c’è da sorridere? – disse Frances a Russ. – Ho detto qualcosa di divertente?


    Russ smise all’istante di sorridere. – Niente affatto. Theo sta solo dicendo che non è un sistema perfetto. Poco personale e troppi casi da seguire. Possiamo discuterne in macchina.


    Cercò ancora di sospingerla verso la porta, e lei respinse ancora la sua mano. – Voglio sapere – disse – perché non posso fare un piccolo regalo di Natale a un bambino bisognoso.


    L’orologio sulla parete del centro comunitario segnava le 17,18. Ogni minuto che passava aggravava il guaio in cui Russ si sarebbe trovato con Marion, e lui sapeva di dover insistere perché se ne andassero. Ma di nuovo la sua dama gli stava chiedendo di compiere un’impresa difficile – schierarsi al suo fianco contro un pastore dei quartieri poveri con il quale aveva scrupolosamente coltivato una relazione.


    – Capisco la tua posizione sul regalo, – disse a Theo. – Ma su questo punto direi che sono d’accordo con Frances. Non mi sembra giusto che Ronnie giri per strada da solo.


    Theo gli lanciò uno sguardo deluso e si rivolse a Frances. – Vuole prendersi carico di quel bambino? Vuole occuparsene lei? Un ritardato di nove anni del South Side? È pronta a farlo?


    – No, – disse Frances. – Sarebbe troppo per me. Ma non posso fare a meno…


    – È già stato in affidamento una volta. Lo sa come funziona?


    – Non… no. Non proprio.


    – Siamo qui per imparare, – disse Russ, riuscendo, in un colpo solo, a fare la morale a Frances e sembrare idiota a Theo.


    – Bisogna scendere in fondo alla lista – disse Theo – per trovare una famiglia che si prenda un bambino come Ronnie. Sarà una famiglia che riceve assegni per cinque o sei bambini: occorre far numero, per ottenere qualche profitto. E come si gestiscono, cinque o sei bambini?


    – Li si chiude in una stanza, – disse Russ, per sembrare meno stupido.


    – Li si chiude tutti in una stanza. Non si risparmiano le botte.


    – È un pessimo sistema, sono d’accordo, – disse Frances.


    – Allora si dia da fare per cambiarlo, se vuole dare una mano. Clarice non è cattiva, solo che era troppo giovane quando ha avuto Ronnie. Quando sta bene lo porta alla scuola di Washington Park. Questo nelle giornate buone. Nelle giornate cattive si dimentica di lui. Ronnie sa che deve venire qui quando lei è strafatta, e prima o poi Clarice viene sempre a riprenderselo. Il problema sono gli uomini che le danno la droga. Lei non ce la fa a resistere, e l’unica cosa che la tira fuori è il suo orgoglio materno. Se non avesse Ronnie, credo che sarebbe già morta.


    – Questo posso capirlo, – disse Frances. – Ma io voglio solo dargli qualcosa che gli piaccia.


    – Giusto. Questo è quello che vuole lei. Quello che voglio io è che Clarice non gli impedisca di frequentare una chiesa dove è al sicuro.


    – Be’, allora lasci che le scriva un biglietto. Ce l’ha un foglio di carta?


    – Frances, – disse Russ.


    – Deve sapere che non voglio portarle via Ronnie. Theo può darle il biglietto insieme al regalo.


    Theo sgranò gli occhi per indicare che la sua pazienza aveva un limite.


    – Senta, – disse Russ. – Sarebbe una cosa sciocca. Se lei vuole che Ronnie riceva quei pennarelli, Theo può togliere la carta regalo e darglieli. Non credo che scrivere un biglietto sia una buona idea.


    – Volevo che avesse un regalo da aprire per Natale.


    Theo, raggiunto il limite, scosse la testa e si allontanò. Russ strappò di mano il regalo a Frances e gli corse dietro, nel tempio.


    – Fammi un favore, prendilo, – disse, mettendogli in mano il pacchetto. – È piena di buone intenzioni. Vuole davvero aiutare Ronnie. Solo che…


    – Non mi aspettavo di vederla, – disse Theo. – Credevo che venissi con Kitty.


    – Sí, ehm. Cambio di programma.


    L’unica luce fluorescente accesa sopra l’altare, dietro un vecchio pianoforte verticale e un piccolo organo, sembrava intensificare il freddo del tempio.


    – I tuoi affari privati non mi riguardano, – disse Theo. – Ma ti sarei grato se ti togliessi la trave dall’occhio e le dicessi di stare alla larga da quel bambino. Altrimenti dovrà trovare un altro posto dove portare le sue buone intenzioni. Qui non mi servono.


    Due anni passati a costruire un buon rapporto con Theo rischiavano di essere vanificati. Russ sapeva benissimo perché Theo era spazientito da Frances. Anche lui era stato spazientito da altre signore della First Reformed che erano entrate nel circolo, Juanita Fuller, Wilma St John, June Goya. Avevano parlato alla gente del quartiere, compreso Theo, con una specie di sdolcinata sicumera materna, in parte prodotto della paura, in parte di un razzismo riconfezionato in una forma che le facesse sentire buone. Russ aveva dovuto chiedere loro di lasciare il circolo, e anche ora avrebbe espulso dal circolo qualunque membro sgradito a Theo, eccetto Frances. Era davvero convinto che la sua villania avesse un sapore diverso, piú intriso di entusiasmo e irriverenza. Ma poteva darsi che ne fosse convinto solo perché si stava innamorando di lei.


    – Le parlerò, – disse.


    – Va bene, – disse Theo. – Mi raccomando, guida con prudenza.


    Sul parabrezza della Fury erano caduti due centimetri di neve. La macchina, privata del carico posteriore, slittava ancora di piú mentre Russ la guidava verso casa. Ora Frances sedeva nella normale posizione del passeggero, i piedi a terra, e sembrava freddamente offesa.


    – Immagino di non poter chiedere – disse – cosa avevano da dire i due uomini alle mie spalle.


    – Sí, mi spiace, – disse Russ. – Theo può essere testardo. A volte bisogna semplicemente fare come vuole lui.


    – Sono sicura che voi due mi considerate un’ebete, ma non sarebbe mica morto se avesse dato il mio regalo a Ronnie.


    – Il suo è stato un gesto bellissimo. L’appoggio in pieno.


    – Ma a quanto pare c’è qualcosa in me che mi fa odiare dai neri.


    – Niente affatto.


    – Io non li odio.


    – Certo che no. Solo che… – Russ respirò a fondo, per farsi coraggio. – Forse non sarebbe una cattiva idea – proseguí – fare un passo indietro e cercare di vedersi con gli occhi degli altri. Un conto è essere a New Prospect, nel suo ambiente, con gente come lei. Lí può essere schietta quanto vuole. Può esprimere apertamente il suo disaccordo, e gli altri lo vedranno come un segno di rispetto. Ma quel tipo di atteggiamento viene interpretato diversamente quando si è ospiti in una comunità nera.


    – Non posso essere in disaccordo con loro?


    – No, non…


    – Perché non è che tutti i neri siano perfetti. Sono sicura che anche fra loro c’è molto disaccordo.


    – Non sto dicendo che non può essere in disaccordo con Theo Crenshaw. Oggi neppure io ero d’accordo con lui.


    – Non mi è sembrato.


    – Sto parlando di un atteggiamento interiore. La prima cosa che faccio, quando sono in disaccordo, è riconoscere la mia ignoranza. Forse c’è qualcosa nell’esperienza di Theo che lo porta a pensare in quel modo, qualcosa che io non vedo subito. Anziché reagire d’impulso, mi fermo un attimo e mi chiedo: «Perché lui la pensa diversamente da me?» E poi ascolto la sua risposta. A quel punto potremo ancora essere in disaccordo, ma almeno avrò riconosciuto che l’esperienza di un nero in questo paese è profondamente diversa dalla mia.


    Frances non replicò, e Russ osò sperare di avere aperto una breccia. Aveva delle ragioni egoistiche per volerla nel circolo del martedí, ma ciò non rendeva meno sincero il suo messaggio.


    – Lei ha un cuore buono, Frances. Un cuore meraviglioso. Ma non può davvero biasimare Theo per non averlo visto subito. Se vuole che si fidi di lei, deve cercare di coltivare un atteggiamento diverso. Parta dal presupposto di non sapere nulla di cosa significhi essere nero. Se cambierà il suo approccio, le garantisco che Theo noterà la differenza.


    Frances sospirò cosí forte da appannare il parabrezza. – L’ho messa in imbarazzo, vero?


    – Per niente.


    – Invece sí. Ora me ne rendo conto. Stavo cercando di fare la Signora Aggiustatutto.


    Russ scoppiava d’orgoglio. Lui, non Theo, aveva capito la vera natura di Frances.

    – Non ha fatto niente di male, – le disse. – Ma la prossima volta che vede Theo, non sarebbe male se si scusasse. Si può ottenere molto, con delle scuse sincere. Theo è un brav’uomo, un bravo cristiano. Se lei cambia il suo atteggiamento interiore lui lo capirà. È molto importante per me, Frances, veramente molto importante che lei continui a partecipare ai nostri martedí.

    Era la piú vaga delle allusioni all’orgoglio che provava per lei, alla speranza di approfondire la loro conoscenza, ma temette che fosse comunque troppo esplicita; e infatti a lei non sfuggí.


    – Santo cielo, reverendo Hildebrandt, – disse. – Che cosa mi dice.


    Il desiderio gli crebbe dentro con tanta forza che gli sembrò preconizzare il suo stesso appagamento. Pensò ai dischi di blues che aveva lasciato in ufficio come pretesto per portarla in chiesa, e al corso che gli eventi avrebbero potuto prendere nel buio dell’ufficio, se lui avesse mantenuto i nervi saldi e non fosse arrivato troppo tardi. Sentendosi tutt’uno con la Fury, la spinse attraverso Fifty-ninth Street, dove la neve era solcata dal passaggio di molte auto.


    I solchi erano piú profondi di quanto pensasse. Assorbirono il suo abbrivio e lo deviarono in uno slittamento laterale. Per un terribile momento, Russ non riuscí né a sterzare né a frenare. Strinse impotente il volante mentre Frances gridava e la Fury scivolava all’indietro attraverso l’incrocio. Poi un urto e uno schianto e uno scricchiolio di lamiere.

Tema del dibattito: la bontà è una funzione inversa dell’intelligenza. Primo oratore a favore: Perry Hildebrandt, New Prospect Township High School.


    Partiamo dal postulato che l’essenza della bontà sia l’altruismo: amare gli altri come se stessi, compiere dispendiosi atti di carità, negarsi piaceri che danneggiano gli altri, e cosí via. E poi immaginiamo un atto di spontanea gentilezza nei confronti di un individuo in precedenza ostile – la propria sorella, per esempio – che si accordi con la nostra postulata definizione di bontà. Se l’attore non è intelligente, non occorre approfondire oltre: è una persona buona. Ma supponiamo che l’attore non riesca a impedirsi di calcolare gli egoistici vantaggi collaterali derivanti dal suo gesto caritatevole. Supponiamo che abbia una mente cosí veloce da permettergli, già mentre compie il gesto, di essere consapevole di questi vantaggi. La sua bontà non ne uscirà forse compromessa? Possiamo definire «buono» un gesto che l’attore potrebbe avere compiuto a causa dei calcoli puramente egoistici del suo intelletto?


    Tornando nella sua stanza, dove Judson era inginocchiato davanti allo Stratego fatto in casa, Perry valutò costi e benefici di andare alla festa degli Haefle al posto della sorella. Dal lato dei crediti c’erano la bontà del gesto, la soddisfazione di attenersi al suo nuovo proposito, l’inedito sguardo di gratitudine con cui Becky aveva accettato l’offerta, e il progresso della sua egoistica campagna per assicurarsi il silenzio della sorella sulle sue precedenti cattive azioni. Dal lato dei debiti, ora gli toccava partecipare a una festa di ecclesiastici, con Judson.


    – Senti, ragazzo, – disse, sedendosi di fronte a lui. – Devo chiederti un favore. Te la senti di andare a una festa dove non c’è nessuno della tua età?


    – Quando.


    – Appena mamma e papà tornano a casa. Ci andiamo con loro.


    Judson aggrottò la fronte. – Credevo che giocavamo al nostro gioco.


    – Possiamo nasconderlo sotto il mio letto. Domani sarà ancora lí.


    – Perché devo andarci?


    – Perché devo andarci io. Non vuoi rimanere a casa da solo, vero?


    Un breve silenzio.


    – Non m’importa, – disse Judson.


    – Davvero? Ma quella volta in autunno hai dato i numeri. E non era neanche notte.


    Judson fissò il gioco da tavolo con uno strano sorrisetto, come se il bambino che aveva dato i numeri per via di certi rumori nel seminterrato, pur essendo innegabilmente lui, fosse un oggetto di vago divertimento; come se la vergogna di quella volta in autunno, quando lo avevano lasciato a casa da solo per troppo tempo, potesse sorvolarlo e atterrare altrove.


    – Ci saranno degli ottimi stuzzichini, – disse Perry. – Puoi portarti un libro e metterti da qualche parte a leggere.


    – E tu perché ci devi andare?


    – È una cosa che faccio per Becky.


    Perry si aspettava l’ovvia domanda: perché fare una cosa gentile per Becky e non per il suo fratellino? Ma la mente di un essere umano superiore non funzionava cosí.


    – Possiamo prima finire la partita?


    – Probabilmente no.


    – Mi avevi promesso che stasera giocavamo.


    – Stasera abbiamo cominciato. Domani finiremo.


    Judson assimilò quella sofisticheria e guardò il gioco. – Tocca a te, – disse.


    Ogni giocatore aveva quaranta pezzi, la cui identità era nascosta all’avversario. Lo scopo era catturare la bandiera dell’avversario tramite il massacro dei pezzi di rango inferiore da parte di quelli di rango superiore, evitando nel frattempo collisioni mortali con le bombe dell’avversario, che erano immobili e potevano venire rimosse solo dagli artificieri, i pezzi di rango piú basso. Nella strategia classica, si piantava la bandiera nelle retrovie e la si circondava di bombe, ma a quanto pareva Judson aveva colto la debolezza di quella strategia: appena l’avversario riusciva a portare un artificiere, illeso, fino alle bombe di protezione, la bandiera rimaneva indifesa e il gioco finiva. Osservando l’ingenuo entusiasmo di Judson per la sua nuova idea, Perry avrebbe potuto fingersi sorpreso e lasciargli vincere la partita. Invece, prevedendo una piú libera disposizione delle bombe da parte di Judson, aveva schierato i suoi artificieri in posizioni piú avanzate. Probabilmente era una cosa buona batterlo ripetutamente, insegnandogli a non rivelare la sua strategia, costringendolo ad affinare le sue capacità finché non fosse stato in grado di vincere in modo onesto e leale. La felicità di Judson non sarebbe stata ancora piú grande, se l’avesse conquistata con fatica? O quella era solo la razionalizzazione di una persona intelligente ed egoista che odiava perdere, persino con il fratello minore?


    Becky era scesa di sotto con un ticchettio di stivali, diretta al concerto di Crossroads, e Perry aveva disinnescato la terza bomba di Judson, con il trascurabile sacrificio di un artificiere contro un capitano, quando squillò il telefono. Perry andò a rispondere in camera dei genitori.


    – Pronto, ehm… Perry? – disse suo padre, con una voce tesa e metallicamente distorta. Sullo sfondo si sentiva il rumore della strada. – Posso parlare con tua madre?


    – Non c’è.


    – È già andata dagli Haefle?


    – No. Non l’ho vista per tutto il giorno.


    – Ah, okay, allora. Quando la vedi, puoi dirle di non aspettarmi? Ho un problema con la macchina… sono ancora in città. Puoi dirle di andare senza di me? È importante che almeno uno di noi ci vada.


    – Certo. Ma mettiamo che…


    – Grazie, Perry. Grazie mille. Grazie. Grazie.


    Suo padre chiuse la chiamata con notevole fretta. Altrettanto notevole era stato lo sguardo colpevole che gli aveva lanciato qualche ora prima, quando Perry l’aveva visto insieme alla signora Cottrell sull’auto di famiglia.


    Perry riagganciò e rifletté sul da farsi. La signora Cottrell non era solo sexy, era anche furba. Le volte che si erano incontrati dopo che Larry Cottrell aveva commesso lo stupido errore di sballarsi mentre badava alla sorella, Perry aveva notato che la signora lo guardava con un certo interesse, con una scintilla di malizia negli occhi. Larry gli aveva giurato di non aver fatto la spia, ma evidentemente sua madre sospettava che fosse stato lui a vendergli la marijuana. E ora Perry aveva scoperto, per caso, all’angolo di Pirsig e Maple, una relazione pericolosa fra la signora Cottrell e il Reverendo Padre. Farsi beccare dal Reverendo adesso, dopo avere formulato il proposito e liquidato il capitale, sarebbe stato il colmo dell’ironia.


    Spinto dalla preoccupazione, dopo aver visto il padre allontanarsi a tutta velocità su Pirsig Avenue, aveva rimandato il resto delle compere natalizie ed era andato a casa dei Cottrell per scambiare due parole con Larry. Se la madre di Larry non aveva altro che un sospetto, e se per caso lo avesse riferito al Reverendo, Perry poteva semplicemente negare tutto. Ma lo preoccupava la debolezza di Larry. Se aveva fatto il suo nome, malgrado avesse giurato di no, negare non sarebbe servito a niente.


    Larry avrebbe potuto essere la prova numero uno a sostegno della tesi di Becky che Perry usava le persone. Per un po’ lo aveva evitato agli incontri di Crossroads, sviando con una certa inventiva i suoi inviti a uscire insieme. Larry era un ragazzino immaturo dalla voce stridula, un novellino, e perciò di scarsa utilità per il suo scopo, raggiungere il centro di Crossroads. Ma non poteva respingerlo in maniera esplicita senza entrare in conflitto con i precetti di Crossroads. Un giorno, all’uscita di scuola, Larry si era appiccicato a Perry ed Ansel Roder e li aveva seguiti a casa di quest’ultimo. Quel giorno Roder era di umore magnanimo. Quando aveva scoperto che Larry non aveva mai provato la marijuana e avrebbe tanto voluto provarla, lo aveva incluso nel passaggio del bong, dopodiché Larry aveva messo in imbarazzo Perry. Con fastidiosi risolini aveva offerto una cronaca minuto per minuto delle reazioni della sua mente alle alterazioni chimiche, e quando infine Roder gli aveva ordinato di piantarla di dire cazzate, aveva spiegato ridacchiando la reazione della sua mente alterata a quelle parole. Aveva ridacchiato anche quando aveva sbattuto contro lo stereo di Roder, rovinando il disco che girava sul piatto. Roder aveva preso in disparte Perry e gli aveva detto: – Non lo voglio piú in casa mia –. Perry era della stessa opinione, ma Larry, serenamente ignaro del suo comportamento da sfigato, aveva cominciato ad assillarlo perché lo includesse in futuri momenti di convivialità. Faceva tenerezza, scombussolato com’era dalla recente morte del padre. Vendergli la droga sarebbe stato un puro atto di gentilezza, se non avesse funzionato anche da un punto di vista razionalmente egoistico: il ragazzo era un cliente fedele, una certezza, e riceveva una cospicua paghetta dalla madre. Fumare poi insieme a lui la marijuana che aveva comprato poteva essere altrettanto interpretabile come un gesto caritatevole, una dimostrazione di amicizia, se non avesse anche coinciso con lo strategico desiderio di Perry di essere meno dipendente dalla generosità di Roder, senza considerare certi altri benefici. Perry, infatti, trovava piacevole avere un accolito adorante in Crossroads, piacevole vedere da vicino la sensuale madre di Larry, piacevole esercitare la propria abilità manuale sui modellini di aeroplano che Larry poteva permettersi con la sua paghetta, piacevole intingere i pennelli nelle eleganti boccette quadrate di vernice che aveva sempre guardato con desiderio nel negozio di hobbistica. Solo quando Larry si era fatto beccare dalla madre – semi-intenzionalmente, come modo autodistruttivo di sfidarla, sospettava Perry – i costi della loro amicizia avevano superato i benefici. Larry aveva promesso alla madre che non avrebbe piú comprato marijuana, e Perry, malgrado lo avesse perso come cliente, era obbligato a rimanergli amico per evitare che si offendesse e facesse la spia.


    La casa dei Cottrell era una villa di mattoni bianchi in stile coloniale, spropositatamente grande per una vedova con due figli. Larry era a casa con la sorellina, e invitò Perry a entrare per ripararsi dalla neve.


    – Abbiamo un problema, – disse Perry quando furono in camera di Larry. – Ho appena visto tua madre con mio padre.


    – Sí, stanno facendo una roba della chiesa in città.


    – Be’, allora devo chiedertelo ancora. Posso essere certo che manterrai il segreto?


    Fra i tic che lasciavano trapelare l’insicurezza di Larry c’era quello di strofinarsi i noduli sebacei intorno al naso e poi annusarsi la punta delle dita. Anche a Perry piaceva l’odore del proprio sebo, ma certe cose era meglio annusarsele in privato.


    – Tu capisci perché te lo chiedo.


    – Non essere paranoico, – disse Larry. – È tutto finito, a parte che non posso guardare la tv per altri nove giorni. Mi perderò l’Orange Bowl.


    – Il mio nome non è venuto fuori, quindi.


    – Te l’ho già giurato. Vuoi che prenda una Bibbia?


    – Non c’è bisogno. Solo che non avevo previsto che tua madre andasse in città con mio padre. Erano soli. Ho il brutto presentimento che non sia finita qui.


    – Cosa ti aspettavi? Sei tu quello che vende l’erba.


    – È proprio questo il punto. Io corro un rischio potenzialmente molto piú grande del tuo.


    – Intanto però il castigo è toccato a me.


    – L’errore l’hai commesso tu, amico mio.


    Larry annuí, toccandosi di nuovo la faccia. – Cosa c’è nel sacchetto?


    – Un regalo per mio fratello. Vuoi vederlo?


    Colse con piacere l’occasione di lasciargli ammirare la cinepresa, caricandola e girando delle riprese immaginarie, prima che diventasse irrevocabilmente di Judson. Dopo un’ora, la durata minima perché la sua visita passasse per una chiacchierata fra amici anziché per l’azione mirata e strumentale che in realtà era, Perry si avviò verso casa fra la neve che scendeva vorticando dal cielo scuro. Non pensava che Larry avrebbe ceduto, neppure sotto nuove pressioni, ma l’idea di farsi beccare adesso, quando aveva deciso di diventare una persona migliore, gli sembrava persuasivamente, vividamente ironica. Temeva ancora qualche dispetto da parte della signora Cottrell, e c’era un’altra faccenda preoccupante rimasta in sospeso. Da quando lo aveva annientato come persona nel ripostiglio della First Reformed, gli era sembrato che Becky ce l’avesse con lui piú del solito. Immaginò un Confronto familiare in piena regola, nel quale lui sosteneva la propria innocenza – con una specie di sincerità retroattiva, visto che ormai aveva rinnegato il consumo e la vendita di sostanze stupefacenti – ma veniva smentito dalla sorella.


    Per questo gli era sembrato provvidenziale quando, chiuso in camera con Judson, aveva sentito piangere Becky. Il loro dialogo successivo si era concluso con un abbraccio affettuoso, con la consapevolezza di essere stato premiato per il suo proposito. Sarebbe stata una grande soddisfazione, se il non doversi piú preoccupare di Becky non gli avesse procurato tanto sollievo. L’egoismo alla base di quel sollievo annullava tutta la bontà da lui dimostrata, e metteva in cattiva luce la sensazione di essere stato premiato. La bontà non era forse premio a se stessa? Si chiese se un’azione, per qualificarsi come autenticamente buona, oltre a essere incontaminata dall’interesse personale dovesse anche essere avulsa da ogni tipo di piacere.


    La sveglia dei genitori, indietro di due minuti, segnava le 18,45. Sua madre era ormai cosí bizzarramente in ritardo che era impossibile fare qualunque previsione sull’ora del suo arrivo. Perry ponderò una buona azione che quasi sicuramente non gli avrebbe arrecato alcun piacere: andare dagli Haefle senza aspettarla. L’azione aveva solo una leggerissima macchia di interesse personale, sotto forma del credito che lui avrebbe acquisito assicurandosi che la famiglia Hildebrandt fosse rappresentata alla festa. Quel credito sarebbe stato troppo limitato per essere fungibile se lo avessero accusato di vendere droga, e perciò non andava tenuto in considerazione.


    Scrisse un breve messaggio per la madre sul taccuino accanto al telefono e andò a prendere Judson. – È ora di fare due passi nella neve.


    – Avevo capito che aspettavamo mamma e papà.


    – No, solo io e te, ragazzo. Stasera gli Hildebrandt siamo noi.


    Un piccolo mistero dell’età adulta era il fatto che i suoi genitori chiamassero le galosce di gomma rubbersa. Persino Becky, quel ricettacolo di purezza, era stata vista soffocare una risatina nell’udire quella parola. I genitori erano senz’altro al corrente dell’altro significato del termine, eppure insistevano a usarlo, con una sconcertante mancanza di imbarazzo. Le galosce di Judson erano innocenti, ma delle proprie Perry si vergognava. Per camminare nella neve, Ansel Roder e i suoi amici danarosi usavano gli scarponi da montagna.


    Nevicava ancora forte quando lui e Judson si avventurarono fuori con le loro galosce. Judson corse avanti sollevando lastre e blocchi di neve con i piedi, l’interruzione dello Stratego ormai dimenticata nell’eccitazione della bufera invernale. Guardandolo cadere e tirarsi su, Perry rimpianse di non avere piú l’età in cui le cadute non facevano male. Non ricordava piú come ci si sentiva nel vedere il terreno cosí innocuamente vicino. Perché aveva avuto tanta fretta di crescere? Era come se non avesse mai sperimentato la grazia dell’infanzia. Mentre guardava il fratellino che giocava spensierato, sentí un altro strattone verso il basso, un calo d’umore piú forte di quello avvertito mentre faceva acquisti, ma anche meno doloroso, perché era causato da un senso di metempsicosi. Con maggiore certezza dell’altra volta, si sentí precipitare, si sentí la testa irrimediabilmente danneggiata, ma questa volta gli sembrò meno importante, perché la sua anima e quella di Judson erano collegate dall’amore fraterno, intercambiabili a un livello mistico, e Judson era un bambino fortunato, letteralmente nato di domenica, e se la sarebbe sempre cavata, anche se lo stesso non poteva dirsi di lui.


    Sui gradini della Canonica Piú Bella, tra file di cespugli con le luci natalizie affievolite dalla neve, Perry si accovacciò per ripulire il parka di Judson e aiutarlo con le fibbie delle galosce, che erano incrostate di ghiaccio e difficili da slacciare.


    – Non ho ancora capito perché siamo qui.


    – Perché papà è bloccato in città e la mamma è uccel di bosco.


    – Cosa vuol dire uccel di bosco.


    Perry suonò il campanello. – Vuol dire che non si sa dov’è. Papà dice che è importante che la famiglia sia qui. Andando per esclusione, restiamo solo noi due.


    La porta venne aperta da un enorme coniglio bianco, la signora Haefle, con un grembiule rosso ricamato a foglie di agrifoglio. Perry spiegò velocemente e in tono persuasivo perché lui e Judson erano lí, ma la signora Haefle sembrava dura di comprendonio. – I vostri genitori sanno che siete qui?


    – Sono stati trattenuti da cause di forza maggiore. Ho lasciato un biglietto.


    Lei si girò. – Dwight?


    Il reverendo Haefle apparve sulla soglia. – Perry! Judson! Che bella sorpresa.


    Li fece entrare e portò via le giacche. Poiché un buon isolamento termico rientrava fra le indennità accessorie del ministro anziano, la casa era calda e umida. Il soggiorno era pieno di ecclesiastici e consorti che obbedivano agli oscuri imperativi sociali della vita adulta, apparentemente divertendosi. Il reverendo Haefle condusse gli Hildebrandt in sala da pranzo, nell’acre odore delle lattine di Sterno accese sotto una padella di rame piena di polpette svedesi, sotto un vassoio di patate con salsa di panna e cipolle e sotto un calderone colmo di un liquido che sprigionava fumi alcolici, sul quale galleggiavano mandorle pelate e uvette gonfie. Oltre la porta aperta della cucina, Perry vide caraffe di vino e una bottiglia di vodka.


    – Prendete un piatto e servitevi, – disse il reverendo Haefle. – Doris è di origini svedesi, e fa delle polpette favolose… non dimenticate la salsa. Quelle patate si chiamano la Tentazione di Jannson. Non sarebbe un Natale svedese se non ci fosse un sacco di panna.


    Judson, anche se doveva essere affamato, esitò educatamente.


    – Non trattenerti, ragazzo. Vorrei averlo anch’io, un appetito da giovanotto. Se volete stare con gente della vostra età, le nostre nipoti sono giú nel seminterrato.


    Pensando al tremendo seminterrato della Canonica Piú Brutta, Perry immaginò le nipoti vestite di stracci e incatenate a un sudicio muro di pietra. Sí, le teniamo nel seminterrato…


    – E quello cos’è? – disse, indicando il calderone.


    – È una bevanda natalizia scandinava per adulti. La chiamiamo gløgg.


    Lasciato solo con Judson, che dimostrò la sua innata moderazione prendendo tre polpette, una cucchiaiata di patate, una gran quantità di carote e cime di broccoli crudi e, da un’alzata a tre piani carica di biscotti fatti in casa, due palline dall’aria rinsecchita coperte di zucchero in polvere, Perry considerò l’incredibile intensità dei fumi alcolici che esalavano dal calderone. Era come infilare il naso in una bottiglia di alcol denaturato. Il suo proposito, se ne rendeva conto solo allora, conteneva una certa ambiguità, poiché alcuni scenari non erano esplicitamente affrontati. Ovvero: doveva ripudiare l’alcol? Magari un bicchiere di gløgg, bevuto a stomaco vuoto per massimizzarne l’effetto, poteva essere consentito quando, come quella sera, non c’erano altri antidoti allo sprofondamento del suo umore? Con mano malferma, rovesciandone un po’, versò una mestolata della sostanza color vino in una tazza di ceramica e si lanciò un’occhiata alle spalle. Nessuno lo stava guardando.


    Fuggendo in corridoio, Perry bevve un sorso della bevanda piú squisita che avesse mai assaggiato. Sapeva di cannella e chiodi di garofano, ed era piena di vodka. L’acidità gastrica solitamente nauseante del vino era sopraffatta dallo zucchero. Il calore gli salí subito al viso.


    – Dove devo andare? – disse Judson, reggendo in mano il piatto e la forchetta.


    In fondo al corridoio trovarono una scala che scendeva fino a una vera e propria stanza dei giochi, rivestita di moquette a pelo lungo e pannelli di pino nodoso e dominata da un tavolo da biliardo. Sdraiate sulla moquette, vicino a un caminetto vuoto ma utilizzabile, c’erano due bambine piú piccole di Perry e piú grandi di Judson che giocavano a Yahtzee. Perry, quando da piccolo veniva invitato a giocare con delle sconosciute, rimaneva sempre paralizzato dall’imbarazzo. Ora fu colpito dalla naturalezza con cui Judson si sedette accanto alle bambine e si presentò. Era davvero un bambino fortunato, giustamente sicuro di piacere alle sconosciute. O forse il richiamo dello Yahtzee era cosí forte da spazzare via ogni timidezza.


    Perry non si era accorto di bere, eppure, chissà come, la sua tazza era già vuota. Mangiò due uvette inzuppate che giacevano sul fondo, estraendone liquido prezioso. Il deposito all’interno della tazza segnava con una linea sottile il livello della tragicamente modesta porzione iniziale, e mentre risaliva le scale Perry pensò che, non avendo preso l’intera dose di «una tazza» concessa dalla falla nel suo proposito, aveva diritto a un rabbocco. Si sentiva la faccia in fiamme, ma era ancora lontano da una vera sbornia.


    Ora davanti al cibo e alle bevande c’erano due uomini con maglioni bitorzoluti e pantaloni neri da prete, intenti a scegliersi dei biscotti. Perry si avvicinò furtivamente e attese. Prima che potesse riempirsi la tazza, la signora Haefle piombò su di lui.


    – Hai preso le polpette?


    Nascondendo la tazza contro il fianco, Perry prese in prestito un concetto dal marito della signora Haefle. – Sto ancora stimolando l’appetito, – disse.


    Unilateralmente, come se Perry fosse un bambino piccolo, o un cane, la signora Haefle gli riempí un piatto. Il suo fisico tarchiato, la faccia da coniglio e l’indole impicciona non facevano una bella pubblicità alle origini svedesi. Gli porse una tale quantità di polpette e patate Tentazione da stroncargli la sbornia sul nascere, e a Perry non rimase che accettare il piatto. Con una delle sue mani da impicciona, la signora Haefle lo scostò dal calderone fumante. – Gli altri ragazzi sono in veranda, – disse.


    Mentre si allontanava, Perry sentí che la signora Haefle lo seguiva, per assicurarsi che si adeguasse ai suoi paternalistici desideri. Per nulla interessato ai ragazzi in veranda, zigzagò attraverso il soggiorno fino a una libreria, appoggiò il piatto su un tavolino, scelse un volume a caso e finse di immergersi nella lettura. La signora Haefle era caduta nelle grinfie di un attaccabottoni, ma lo stava ancora sorvegliando. La sua vigilanza gli ricordava certi insegnanti della Lifton Central, il cui unico piacere nella vita era chiaramente la sadica negazione di qualunque piacere ai giovani.


    Infine squillò il campanello. La signora Haefle andò ad aprire, e Perry sfrecciò di nuovo in sala da pranzo con la tazza. Due signore canute erano ferme davanti alla postazione dei biscotti, ma lui non le conosceva, non aveva alcun rapporto con loro, e riempí spavaldamente la tazza di gløgg fumante. Sentendo la voce della signora Haefle che ritornava dal guardaroba, fuggí attraverso la cucina e andò a sedersi sulle scale del seminterrato. Da sotto veniva l’acciottolio dei dadi nel bussolotto dello Yahtzee, il mormorio di ruscello della voce di Judson.


    Di nuovo Perry svuotò la tazza in un baleno. Come gli era successo con ogni sostanza illecita che aveva provato, la sua sete di gløgg sembrava eccessiva, anormale. Gli venne in mente che sul piano della cucina c’era una bottiglia di vodka pura. Poiché il calcolo di quel che costituiva «una tazza» era ormai andato a farsi fottere, Perry tornò a insinuarsi in cucina, si versò un’abbondante dose di vodka e la mandò giú tutta d’un fiato. Lasciò la tazza nel lavandino.


    Ora, con una sbronza soddisfacente, un po’ piú di buonumore, e il proposito oltraggiato ma verosimilmente inviolato, Perry andò a testare la sua capacità di reggere l’alcol sul clero riunito in soggiorno. Accanto al fuoco ignorato nel caminetto, due uomini, uno alto e uno basso, stavano in piedi l’uno accanto all’altro come se avessero esaurito le cose da dire ma non fossero ancora passati a piú verdi pascoli conversazionali. Perry si presentò.


    L’uomo piú alto portava un dolcevita rosso sotto una giacca di cammello. – Piacere, Adam Walsh, della Trinity Lutheran. Questo è il rabbino Meyer, del tempio Beth-El.


    Il rabbino, che aveva capelli solo dietro le orecchie, strinse la mano a Perry. – Felice Hanukkah.


    Casomai fosse una battuta, Perry emise una risata, forse troppo sonora. Con la coda dell’occhio scorse la signora Haefle che lo guardava stizzita.


    – Tuo padre è qui? – disse il reverendo Walsh.


    – No, è andato in città per una missione pastorale. È rimasto bloccato nella neve.


    Seguí una discussione sulla neve. Perry non aveva ancora sviluppato quella passione per le condizioni meteorologiche di cui ogni adulto sembrava dotato. Dopo avere espresso la superflua opinione che fossero già caduti venti centimetri di neve, affrontò l’argomento della bontà in rapporto all’intelligenza. Era venuto alla festa per ragioni altruistiche, ma ora si accorgeva di poterne ricavare non solo una sbronza gratuita ma anche consigli gratuiti da parte di due, per cosí dire, professionisti.


    – Quello che vorrei sapere – disse – è se la bontà possa mai essere davvero ricompensa a se stessa, o se sia sempre un mezzo, consapevole o no, per raggiungere uno scopo personale.


    Il reverendo Walsh e il rabbino si scambiarono uno sguardo in cui Perry scorse una piacevole sorpresa. Era gratificante smentire le loro aspettative riguardo a un quindicenne.


    – Forse Adam avrà una risposta diversa, – disse il rabbino, – ma nella fede ebraica c’è un solo criterio per misurare la rettitudine: celebri Dio e obbedisci ai Suoi comandamenti?


    – Ciò implicherebbe – disse Perry – che la bontà e Dio siano essenzialmente sinonimi.


    – L’idea è proprio questa, – disse il rabbino. – Ai tempi della Bibbia, quando si manifestava in forma piú diretta, Dio poteva sembrare un osso duro: accecava la gente per una quisquilia, ordinava ad Abramo di uccidere suo figlio. Ma l’essenza della fede ebraica è che Dio fa quello che fa, e noi Gli obbediamo.


    – Insomma, non importa cosa pensa nel suo intimo una persona devota, a patto che obbedisca alla lettera dei comandamenti di Dio?


    – E che Lo veneri, sí. Naturalmente, al livello della saggezza popolare, un uomo può essere devoto senza essere un mensch. Sono sicuro che ne hai visti anche tu, Adam, di uomini pii che rendono infelici tutti quelli che li circondano. Forse è questo che intende Perry.


    – La mia domanda – disse Perry – è se possiamo sfuggire al nostro egoismo. Anche se introduciamo Dio, e Lo consideriamo la misura della bontà, l’individuo che Lo venera e Gli obbedisce vuole comunque qualcosa per sé. Gli piace sentirsi virtuoso, o vuole la vita eterna, o roba del genere. Se uno è abbastanza acuto da pensarci, trova sempre qualche elemento di egoismo.


    Il rabbino sorrise. – Se la metti cosí, forse non esiste una via d’uscita. Ma noi «introduciamo Dio», come dici tu (per i credenti, naturalmente, è Dio che ha introdotto noi), per istituire un ordine morale in cui la tua domanda diventi irrilevante. Quando il principio fondante è l’obbedienza, non abbiamo bisogno di sorvegliare ogni nostro piú piccolo pensiero.


    – Io però credo che ci sia dell’altro, nella domanda di Perry, – disse il reverendo Walsh. – Credo che si riferisca al peccato, che è la nostra condizione fondamentale. Nella fede cristiana, solo un uomo ha incarnato la bontà assoluta, ed era il Figlio di Dio. Noialtri possiamo solo sperare di intravedere cosa significhi essere veramente buoni. Quando compiamo un atto di carità, o perdoniamo un nemico, sentiamo nel cuore la bontà di Cristo. Tutti noi abbiamo l’innata capacità di riconoscere la vera bontà, ma siamo anche pieni di peccato, e quelle due parti sono costantemente in guerra.


    – Proprio cosí, – disse Perry. – Come faccio a sapere se sono veramente buono o se sto solo cercando il mio peccaminoso tornaconto?


    – La risposta, direi, è ascoltando il tuo cuore. Solo il cuore può dirti qual è il vero movente delle tue azioni, se in esse c’è qualcosa di Cristo. Credo che la mia posizione sia simile a quella del rabbino Meyer. La ragione per cui abbiamo bisogno della fede, nel nostro caso della fede nel Signore Gesú Cristo, è che ci fornisce una base solidissima per valutare le nostre azioni. Solo attraverso la fede nella perfezione del nostro Salvatore, solo confrontando le nostre azioni col suo esempio, solo sentendo la sua viva presenza nei nostri cuori, possiamo sperare di essere perdonati per i nostri pensieri piú egoisti. Solo la fede in Cristo ci redime. Senza di lui ci perdiamo in un mare di dubbi su ciò che muove le nostre azioni.


    Perry era compiaciuto della propria capacità di conversare alla pari con uomini tre volte piú vecchi di lui, compiaciuto dell’aver calibrato cosí bene l’assunzione di alcol, compiaciuto del fluire disinvolto ma non farfugliante delle sue parole. Ma adesso la signora Haefle si stava avvicinando, come se avesse fiutato un piacere che andava subito soffocato. Perry cambiò posizione, voltandole le spalle.


    – Capisco quello che dice, – disse al reverendo Walsh. – Ma cosa succede se una persona non riesce ad avere fede?


    – Non tutti trovano la fede da un giorno all’altro. Di rado la fede è facile. Ma se hai mai provato un senso di caldo al cuore dopo aver compiuto una buona azione, sappi che quello è un piccolo messaggio di Dio. Ti sta dicendo che Cristo è in te, e che tu hai la libertà e la capacità di perseguire un rapporto piú intimo con lui. «Cercate e troverete».


    – Per un ebreo è piú o meno la stessa cosa, – disse il rabbino, – anche se tendiamo a sottolineare che ciascuno di noi è comunque ebreo, che gli piaccia o no. Non sei tanto tu che trovi Dio, quanto Dio che ti viene a cercare.


    – Non credo che le nostre posizioni siano cosí diverse, sotto questo aspetto, – disse rigido il reverendo Walsh.


    Perry cercò di ignorare la presenza incombente della signora Haefle alle sue spalle.


    – Ma allora, – disse, – se quel caldo al cuore di cui lei parla non mi portasse a Dio? Se fosse solo una delle tante sensazioni che qualunque animale senziente può provare? Se io non troverò mai Dio, o se Dio non troverà mai me, lei praticamente mi sta dicendo che sarò dannato.


    – In linea di principio, suppongo che la dottrina sia questa, – disse il reverendo Walsh. – Ma tu sei molto giovane, e la vita è lunga. Gli istanti in cui potresti ricevere la grazia di Dio sono pressoché infiniti. Basta solo un istante.


    – Nel frattempo, – disse il rabbino, – credo che sia sufficiente essere un mensch.


    – Perry? – disse la signora Haefle, facendosi largo tra loro. – Voglio che tu venga a conoscere Ricky, il figlio del reverendo Walsh. Fa la seconda alla Lyons Township.


    Nel sentire il suo tono sdolcinato, Perry provò un’irritazione piú intensa di qualunque sentimento di bontà avesse mai sperimentato. – Come, scusi?

    – I giovani sono in veranda.

    – Ne sono al corrente. Qui siamo nel bel mezzo di una conversazione. È tanto difficile da capire?

    Evidentemente, anche se non lo faceva farfugliare, il gløgg gli aveva tolto le inibizioni.

    – Credo che ormai abbiamo toccato gli argomenti principali, – disse il reverendo Walsh. – Qualcun altro è pronto per i biscotti?

    Perry si appellò al rabbino. – La stavo annoiando? Le mie domande erano infantili? Devo essere relegato in veranda?

    – Niente affatto, – disse il rabbino. – Queste sono domande importanti.

    Perry, trionfante, si girò verso la signora Haefle, che ora, al posto della falsa dolcezza, dimostrava un’aperta ostilità. – Il gløgg non è per bambini, – gli disse.

    – Cosa?

    – Ho detto che il gløgg non è per bambini.

    – Non so di cosa parla.

    – Secondo me lo sai, invece.

    – Be’, secondo me dovrebbe farsi gli affari suoi –. Le disinibizioni del gløgg erano una sorpresa continua. – Sul serio, non ha niente di meglio da fare che venirmi dietro?

    La stanza si zittiva in proporzione all’alzarsi della sua voce.

    – Che succede? – disse il reverendo Haefle, comparendo all’improvviso.

    – Proprio niente, – disse Perry. – Ero nel bel mezzo di un’interessante conversazione con il rabbino Meyer e il reverendo Adams, qui, quando sua moglie ci ha interrotti.

    La signora Haefle sussurrò qualcosa all’orecchio del marito. Lui annuí con serietà.

    – Dunque, Perry, – disse. – Sei stato gentile a venire. Ma…

    – Ma cosa? È ora che me ne vada? Non sono io quello che non sa comportarsi.

    Il reverendo Haefle gli posò una mano benevola sulla spalla. Perry la scrollò via, piú bruscamente del necessario. Sapeva di doversi calmare, ma si sentiva la testa caldissima.

    – È proprio di questo che stavo parlando, – disse a voce molto alta. – Quello che sbaglia sono sempre io. Voi siete tutti salvi, invece io a quanto pare sono dannato. Credete che mi piaccia essere dannato? – Gli sfuggí un singhiozzo di autocommiserazione. – Sto facendo del mio meglio!

    In soggiorno regnava un silenzio assoluto. Attraverso le lacrime, Perry si vide addosso venti paia di occhi di ecclesiastici e delle loro mogli. Fra di essi, vicino alla porta, con sua grande vergogna e sgomento, scorse quelli di sua madre.

      a. In inglese la parola rubber, oltre a «gomma», significa anche «galoscia» e «preservativo», da cui il doppio senso dell’originale [N.d.T.].

Lungo strade cosí silenziose che si udiva il lieve sibilo collettivo dei fiocchi di neve che toccavano terra, e poi in Pirsig Avenue, dove le macchine con i fari offuscati dalla neve procedevano con lentezza funerea, Becky camminava piú in fretta che poteva nel suo lungo cappotto blu. Si sentiva in ritardo per un appuntamento a cui mezz’ora prima non intendeva neppure presentarsi. Doveva rivedere Tanner al piú presto, offrirgli l’occasione di riscattarsi. E se lui non l’avesse colta, allora doveva dimostrargli che non gliene importava nulla – buttarsi nel concerto, fargli vedere che gli altri l’apprezzavano, lasciarlo lí a chiedersi cosa fare con lei.


    Davanti alla First Reformed, tre membri di Crossroads spalavano la neve con uno zelo da cui si capiva che erano volontari. Becky si compiacque di poterli salutare chiamandoli per nome; di cominciare a godere, in Crossroads, della stessa popolarità democratica di cui godeva a scuola. Conosceva anche i nomi delle ragazze addette alla cassa nell’atrio del salone delle feste. Il concerto sarebbe cominciato solo mezz’ora dopo, ma la sala si stava riempiendo di ex membri e altri ospiti paganti, e l’aria era già intrisa di fumo. Le luci degli amplificatori brillavano tra le ombre del palco sopraelevato. Gli attuali membri di Crossroads, per guadagnare «ore» in vista del Viaggio di primavera, trascinavano casse di bibite e sistemavano tavoli carichi di dolci e pani festivi, che avevano fruttato altre ore a chi li aveva preparati.


    Con un senso di disagio, Becky ricordò che anche lei doveva cominciare ad accumulare ore. Ne servivano quaranta, lei al momento ne aveva zero, e mancavano solo tre mesi al Viaggio di primavera. Benché non fosse un pensiero gradevole, sperò che per lei si potesse fare un’eccezione.


    Dall’altro lato della sala le vennero incontro Kim Perkins e David Goya, che negli ultimi tempi facevano coppia fissa. Con quella faccia da cavallo e quei capelli stranamente radi, David era uno che Becky non si sarebbe neppure sognata di baciare, ma poteva immaginare che a Kim sembrasse un porto sicuro. I suoi trascorsi di assiduo fumatore di marijuana l’avevano privato di ogni traccia di aggressività.


    – I pazzi si sono impadroniti del manicomio, – disse David in tono serio.


    – Già, – disse Becky. – C’è qualcuno che abbia piú di ventun anni, qui dentro?


    – Ambrose si è nascosto nel suo ufficio. Per il resto, pare che non ci sia nessuno a sorvegliarci.


    – A proposito, – disse Kim, schiarendosi significativamente la gola. Negli ultimi tempi aveva preso qualche chilo, come per ridurre il divario di bellezza fra lei e David. Aveva il viso struccato e portava una salopette.


    – Sí, forse tu puoi aiutarci, – disse David a Becky. – Abbiamo una piccola divergenza. Kim ritiene che il concerto sia un evento pubblico, non un’attività di Crossroads. Secondo me invece è chiaramente un’attività di Crossroads: basta guardare i poster. Immagino che tu non abbia interessi in ballo, perciò vorrei sapere a chi dai ragione.


    – Scusa, – disse Becky. – Che tipo di interessi?


    – Regola Numero Due. Niente alcol né droghe nelle attività di Crossroads.


    – Oh.


    – Forse non avrei dovuto dirtelo. Potrebbe influenzare la tua risposta.


    – Non so se hai sentito l’odore di marijuana, entrando, – disse Kim, – ma gli ex membri sono tutti fuori nel parcheggio a fumare. Come farebbero a un qualunque concerto pubblico. Tipo questo.


    – È un ritrovo in chiesa, – disse David. – Per raccogliere fondi per il gruppo. Non ho altro da aggiungere.


    – Accidenti, ragazzi –. Becky era felice che si affidassero a lei per dirimere la questione. – Mi sa che su questo sono con David.


    – Oh, insomma, – disse Kim. – È venerdí sera.


    – Giovedí sera, – la corresse David.


    – Vi sto solo dando la mia opinione, – disse Becky.


    – Okay, ma ti faccio un’altra domanda. Se ci fossimo trovati a fumare prima, nel pomeriggio, fuori dalla proprietà della chiesa, e fossimo ancora un pochino sballati una volta arrivati qui. Anche questo sarebbe contro le regole?


    – È un argomento fallace, – disse David.


    – Lascia rispondere Becky.


    – Credo che dipenda – disse Becky – dallo scopo della regola.


    – Lo scopo della regola – disse David – è non avere genitori incazzati con Crossroads.


    – Non sono d’accordo, – disse Kim. – Secondo me è perché non si può avere un’autentica relazione di testimonianza con una persona sballata.


    – Ma allora perché proibire il sesso? Regola Numero Uno. Questa riguarda chiaramente la reputazione del gruppo.


    – No, è lo stesso che per la droga. Il sesso incasina le relazioni che dovremmo sviluppare durante gli incontri. Crea un’intensità di tipo sbagliato.


    – Hmm.


    – Potrebbe essere per entrambe le ragioni, – disse Becky.


    – Quello che voglio dire – ribatté Kim – è che stasera non stiamo facendo nessuna attività. Non stiamo cercando di comunicare fra noi. Vogliamo solo ascoltare un po’ di musica. Se per caso fumiamo un po’ d’erba mentre veniamo qui, fuori dalla proprietà della chiesa, che differenza fa?


    David fece un gesto a Becky. – Sei d’accordo? Non sei d’accordo?


    Becky sorrise.


    – Io personalmente comincio a pensare che Kim non abbia tutti i torti, – disse David.


    Sempre sorridendo, Becky guardò dall’altra parte della sala. Attraverso un varco tra la folla, in un gruppo di ex membri, scorse il retro di una giacca di camoscio. Sapeva che era Tanner perché la tappetta, la Natural Woman, lo cingeva con un braccio, appoggiando il testone arruffato alle sue costole. Era un atteggiamento di possesso incontrastato. Il sorriso le svaní dal volto.


    – Secondo me dovete fare quello che volete, – disse.


    – Hildebrandt approva! – esultò Kim.


    – Approvazione rassicurante perché non contaminata dall’interesse personale, – disse David. – O sbaglio?


    Ora il braccio di Tanner avvolto nel camoscio a frange cingeva la Natural Woman. Becky capí che venire al concerto era stato un terribile errore. Kim e David le erano abbastanza simpatici, ma non erano suoi amici intimi. Nessuno a Crossroads lo era. Una popolarità superficiale era l’unica cosa che poteva sperare di dimostrare a Tanner. Temendo un ritorno delle lacrime, si chiese se non fosse meglio andarsene. Ma Kim e David la guardavano, in attesa.


    – Cosa? – disse.


    – Mi stavo solo chiedendo – disse David in tono noncurante – se non vorresti unirti a noi.


    Becky capí che erano preoccupati per la Regola Numero Tre: non denunciare una violazione delle regole era di per sé una violazione delle regole.


    – State dicendo che non vi fidate di me?


    – Non è un problema, – disse Kim. – L’hai detto tu stessa: non facciamo niente di male.


    – La nostra è solo un’offerta amichevole, – convenne David.


    Molto tempo prima, Clem l’aveva avvertita di stare alla larga dalla marijuana, dicendole che il cervello umano era uno strumento troppo delicato per manometterlo con la chimica, e lei non era mai stata tentata di provare. Ma ora, malgrado vedesse altre facce note nel salone delle feste, sentiva di avere solo due possibilità: tornare a casa o andare con i suoi nuovi amici. La sicurezza non era forse il nemico? Non era entrata in Crossroads per diventare meno paurosa? Per correre nuovi rischi? Non poteva essere peggio che starsene lí a guardare Tanner tra le grinfie di Laura Dobrinsky. Almeno i suoi amici le stavano offrendo di includerla fra loro.


    – No, certo, – disse a David. – Cioè, sí, grazie. Volentieri.


    Il suo assenso era molto piú importante per lei che per David. Lui si limitò a girarsi per seguire Kim, che stava già andando verso l’uscita di sicurezza accanto al palco. Reagendo a un segnale invisibile, altre due ragazze dell’ultimo anno, Darra Jernigan e Carol Pinella, si staccarono dalla folla e si unirono a lei. Quando Becky e David le raggiunsero, Becky si sentiva già il cervello alterato, dall’afflusso di sangue.


    Oltre la prima porta, in un corridoio che conduceva alle scale della soffitta, ce n’era un’altra, pericolosamente (dal punto di vista delle norme antincendio) difficile da aprire per via della neve accumulata all’esterno. Fuori c’era uno stretto vicolo, illuminato solo dal cielo dell’area metropolitana di Chicago, sullo sfondo di un muro di contenimento che segnava il confine della proprietà della chiesa. In un implicito riconoscimento delle regole, tutti si arrampicarono sull’erba coperta di neve sopra il muro. Becky restò vicina a David, sentendosi piú al sicuro con lui; era uno dei migliori amici di Perry.


    – Per la cronaca, – disse Kim alle altre, – Hildebrandt ha dato la sua approvazione.


    Becky ridacchiò con una voce che non riconobbe. – Ecco, brava, dai la colpa a me.


    – Credo che la sua presenza qui parli da sola, – disse David. Da una bella scatolina di metallo estrasse uno spinello piú piccolo di quelli che Becky aveva visto alle feste, e Kim allungò la mano per accenderlo. Il fumo di marijuana odorava di autunno. David, trattenendolo nei polmoni, passò lo spinello per prima a Becky.


    – Scusa, – disse Becky, prendendolo. – Come devo fare?


    – Fai un respiro lungo e lento e poi trattieni il fumo nei polmoni, – disse gentilmente Kim.


    Becky tirò una boccata, tossí e tentò di respirare piú profondamente. Le sembrò di avere inghiottito una spada infuocata. Il fumo era mortale – inspirarlo poteva causare la morte: si domandò se quello fosse un pensiero normale o il primo segno dello sballo, e poi se domandarselo fosse a sua volta un segno dello sballo –, ma poi riuscí, con gli occhi che le lacrimavano, a trattenerlo piú a lungo di David. Dopo Kim, Darra e Carol, lo spinello tornò a David, che lo passò di nuovo a Becky.


    – Uhm, – disse. Aveva la gola tutta scottata. – Posso?


    – Ce n’è ancora.


    Becky annuí e si riempí di nuovo i polmoni. Stava fumando marijuana! Qualcosa, la droga stessa o l’emozione di fumarla, pervadeva i medesimi nervi che la sera prima si erano attivati baciando Tanner. D’un tratto la sua vita stava cambiando rapidamente. Veniva iniziata a sensazioni che prima non le erano mai neppure sembrate possibili.


    Quando David la prese per un braccio, Becky si accorse che aveva trattenuto il respiro troppo coscienziosamente e stava per svenire. Buttò fuori il fumo e respirò l’aria invernale. Ora il vicolo buio sembrava quasi illuminato a giorno nel biancore del cielo e della neve, come se l’oscurità fosse stata solo il primo segnale che stava per perdere i sensi. In bocca aveva un sapore ottobrino. Il calore che le saliva al viso e dietro gli occhi sembrava cioccolato fuso. Quella sensazione calda e pesante, anziché darle un senso di connessione, era come un muro che la separava dagli altri malfattori, da quei ragazzi che stavano abilmente strappando gli ultimi tiri dallo spinello. Che ora tornò a lei.


    Di nuovo una risatina dal suono sconosciuto, la sua.


    – Okay, – disse. – Perché no.


    Il terzo tiro le fece meno male alla gola degli altri due. Doveva essere perché si stava sballando. La sensazione di cioccolato fuso sembrò affievolirsi, evaporando fuori dalla sommità del cranio, sfrigolando via attraverso la pelle. Per un momento si sentí del tutto in equilibrio, del tutto presente in un paese delle meraviglie invernale, al sicuro in compagnia di amici. Si chiese cosa sarebbe successo ora.


    Da dietro la porta antincendio, proprio sotto di lei, arrivarono un grido e un tonfo. La porta si spalancò e rimase bloccata dalla neve; e comparve Sally Perkins.


    – Aha! – gridò.


    Una massa di capelli nella penombra alle sue spalle si trasformò nella sagoma di Laura Dobrinsky. Becky tossí violentemente.


    – Gesú Cristo, Kim, – disse Sally, arrampicandosi sul muro di contenimento. – Che fine ha fatto la condivisione tra sorelle? – Tese una mano a Laura e la tirò su.


    – Non ti ho vista, – disse Kim.


    – Oh-oh-oh, certo.


    Becky era decisamente sballata. Le sembrava di stare in piedi accanto a se stessa, senza sapere dove mettersi. Indietreggiò per allontanarsi da Laura. Finí col piede in una specie di buca e cadde all’indietro contro un cespuglio carico di neve. Il cespuglio l’abbracciò e la tenne precariamente in piedi.


    David aveva ritirato fuori la scatolina. – Tu e Sally avete un fiuto pazzesco, – osservò, rivolgendosi a Laura, – potreste collaborare con la polizia.


    – Non è vero, – disse Laura. – Io fiuto solo la roba buona.


    – Be’, allora è il tuo giorno fortunato.


    Accese un altro spinello e glielo passò.


    – Gesú, – disse Sally. – Ma quella non è Becky Hildebrandt?


    – Proprio lei, – disse David.


    – Santo cielo, la caduta degli eroi.


    Laura soffiò fuori il fumo, si girò verso Becky e la trafisse con un’occhiata terrificante.


    – Becky è come suo padre, – disse. – Non capisce quando la sua presenza non è gradita.


    Becky si districò dal cespuglio e si ripulí il cappotto dalla neve. Le sembrava importante toglierla tutta, fino all’ultimo fiocco, per rendersi presentabile. Poi scoprí che non le interessava piú.


    – Ciao, Sally, – disse. – Ciao, Laura.


    Laura scrollò la testa e si girò dall’altra parte. Nessuno stava guardando Becky, ma a lei sembrava che il mondo intero la stesse esaminando. Le sembrava di avere detto la cosa sbagliata e di essere stata altrove, non presente, dal momento in cui l’aveva detta. Impossibile sapere dove era stata o cosa aveva fatto. Sapeva solo che aveva infranto la legge, si era avvelenata il cervello, aveva distrutto la sua aria da donna del mistero. Avrebbe voluto scappare e rimanere sola, ma se fosse scappata gli altri l’avrebbero considerata meno «in» di loro, e sarebbe stato ancora peggio che restare. Aveva bisogno di essere «in», ma stava vivendo un’esperienza tutt’altro che «in». Non le piaceva essere sballata. A dire il vero, sballarsi era la cosa piú orribile che avesse mai fatto a se stessa. Avrebbe voluto tornare indietro, ma sentiva che lo sballo, semmai, stava crescendo. Con l’occhio della mente vedeva i suoi pensieri disposti come stuzzichini su un vassoio girevole. Non evaporavano come fanno di solito i pensieri. Rimanevano lí, a girare e girare, a disposizione per il bis. Perché aveva dovuto fare quel terzo tiro? E perché il primo? Qualcosa di malvagio in lei, la cui presenza le sembrava ora di avere sempre intuito malgrado i continui sforzi per ignorarla, qualcosa di frivolo e avido e sessuale radicato in un profondo disprezzo di sé, si era impossessato di lei e aveva preso le peggiori decisioni.


    Ma poi, inspiegabilmente, arrivò un altro momento di lucidità, un’altra schiarita. Si vide come una dei sette ragazzi in piedi appena oltre il confine della proprietà della First Reformed. Carol Pinella, Darra Jernigan e Kim Perkins ridacchiavano in modo incontrollabile. David Goya e Laura Dobrinsky discutevano di diverse qualità di marijuana. Sally Perkins, senz’altro la piú bella fra le diplomande, tre anni piú avanti di Becky, la stava fissando con gli occhi socchiusi.


    – Eri tu, – disse.


    – Cosa?


    – Ieri sera, sul pulmino di Tanner. Eri tu, vero?


    Becky tentò di rispondere, ma riuscí a produrre solo un fatuo sorrisetto colpevole che sembrò diffondersi in tutto il suo corpo. Kim, Carol e Darra erano ancora in preda alla ridarella, ma il nome di Tanner aveva attirato l’attenzione di Laura.


    – Ieri sera ho visto Tanner al Grove, – spiegò Sally. – Sul pulmino c’era una persona con una coperta sulla testa. Come se l’avessi beccata con le mani nel sacco. E lo sai chi era?


    – Becky lavora al Grove, – osservò affabile David.


    – Eri tu, – disse Sally.


    – Non credo proprio, – gracchiò Becky, arsa dal senso di colpa.


    – No, ne sono sicura. Te ne stavi lí seduta e cercavi di nasconderti.


    Seguí un momento senza parole. Le risatine erano cessate.


    – Credi che mi stupisca? – disse Laura in tono piatto.


    Lo sguardo di Becky si era incollato al fianco di pietra della chiesa. Tutto ciò che udiva, compreso Non credo proprio, le rimaneva in testa, ma confuso. Cercò di attaccarsi alle parole e disporle in sequenza, ma quelle vorticavano intorno a un abisso di mostruosità.


    – Ehi, tu, – disse Laura. – Reginetta del ballo. Ti ho fatto una domanda. Credi che mi stupisca?


    Il rumore dei fiocchi che cadevano era oceanico. Tutti gli occhi erano puntati su Becky, anche gli occhi della casa dietro il cespuglio, gli occhi dell’albero sopra la casa, gli occhi del cielo. Qualunque cosa dicesse sarebbe stata catastroficamente rivelatrice.


    – Che famiglia del cazzo, – mormorò Laura, saltando giú dal muro.


    – Ehi, su, – disse David. – Non è «in».


    Dopo un tempo indefinito erano ancora in sei sulla neve. Becky si sentiva intollerabilmente smascherata e in procinto di essere punita, ma ogni direzione in cui pensava di svoltare si rivelava sbagliata. Si era danneggiata la mente, ne aveva alterato la chimica, e oh, quanto se ne pentiva. Si chinò in avanti come per vomitare, invece appoggiò le mani sul bordo del muro e goffamente, un po’ di traverso, ops, rotolò giú e si raddrizzò. Corse oltre la porta antincendio, che Laura Dobrinsky aveva lasciato spalancata.


    Alla sua destra stava in agguato una sala piena di occhi, allora salí di volata le scale che portavano in soffitta. Per un momento, al buio, dopo che la porta si era chiusa alle sue spalle, cercò a tentoni un interruttore sulla parete, ma poi dimenticò cosa stava facendo, infine se lo ricordò e rimase colpita dalla sua dimenticanza: è perché sono orribilmente fatta. Avanzò di traverso, brancolando e gemendo, un braccio teso davanti a sé. Andò a sbattere contro qualcosa di aguzzo e metallico, un leggio, che però non cadde. In lontananza baluginava una luce azzurrina. Cercò di usarla come punto di riferimento, ma la perse di vista e dubitò che fosse mai esistita. Poi incontrò una cosa fredda e priva di angoli, ampia, dal suono cavo. Terminava in un tubo curvo e rastremato. Apparentemente una mucca dalle corna cave. Si rivelò un notevole ostacolo alla sua avanzata. Era trascorso un lasso di tempo incalcolabile da quando era entrata nella soffitta, e Becky ebbe l’improvvisa, chiara intuizione che il tempo non si poteva misurare senza luce. Le sembrò una presa di coscienza fondamentale. Si appuntò mentalmente di ricordarsela, anche se il suo significato le era già sfuggito. Se solo fosse riuscita a ricordare le parole il tempo non si può misurare senza luce, avrebbe potuto ricatturarne il senso in seguito. Ma ora nella mente le apparve un’immagine di sabbie mobili, un’immagine atrocemente vivida di sabbia che si sgretolava e veniva risucchiata verso il basso, l’instabilità e l’inaffidabilità del pensiero. Di nuovo terrorizzata, spinse da parte la mucca cava e si credette libera finché quella non l’afferrò da dietro, impigliandosi con un corno nella tasca del suo bel cappotto di lana merino e strappando rumorosamente una cucitura. Cazzo oh cazzo oh cazzo. Inciampò su un animale cavo piú piccolo, respirò una boccata di polvere e si lasciò cadere carponi. Il barlume azzurrino era riapparso. Veniva da sotto una porta, e Becky gattonò in quella direzione.


    Oltre la porta, illuminata da una vetrata istoriata rotonda, c’era una scala resa angusta da scaffali carichi di innari. Becky scese fino a uno spazio rivestito di pannelli di legno dietro l’altare del tempio. Mentre apriva la porta «segreta» dietro il pulpito, ebbe un’altra intuizione: il tempio era un tempio. Un’unica luce calda illuminava la croce di ottone sospesa, e tutte le altre porte erano chiuse a chiave – questo Becky lo sapeva.


    Con un fremito di liberazione oltrepassò l’altare e si sedette nella prima fila di panche. Momentaneamente al sicuro, chiuse gli occhi e si arrese alle ondate di orrore che le salivano nelle tenebre della testa. Fra l’una e l’altra c’era lo spazio per pentirsi di quello che aveva fatto e rammaricarsi di non poter tornare indietro. Ma le ondate continuavano ad arrivare. Alla fine, esausta, non le restò che mettersi a piangere.


    Per favore fai che smetta, per favore fai che smetta…


    Stava pregando, ma nessuno l’ascoltava. Dopo la successiva ondata di sballo, indirizzò la sua supplica in maniera piú specifica.


    Per favore, Dio. Per favore fai che smetta.


    Non ottenne risposta. Quando tornò in sé, le sembrò di capirne il motivo.


    Mi dispiace, pregò. Dio? Per favore? Mi dispiace di aver fatto quello che ho fatto. Era una cosa malvagia e non avrei dovuto farla. Se ora la fai smettere, ti prometto che non la farò mai piú. Per favore, Dio. Puoi aiutarmi?


    Ancora nessuna risposta.


    Dio? Ti amo. Ti amo. Per favore abbi pietà di me.


    Quando la successiva ondata malvagia le salí nella testa, Becky scrutò in basso e vide, sotto di essa, non una tenebra senza fondo ma una specie di luce dorata. L’ondata era diafana, il male inconsistente. La luce dorata era la cosa vera, consistente. Piú scrutava in profondità, e piú la luce diventava intensa. Vide che aveva cercato Dio fuori da sé, senza capire che Dio era in lei. Dio era pura bontà, e la bontà era sempre stata lí. L’aveva scorta quel mattino, nella buona volontà che aveva sentito, e poi con piú forza nella gentilezza di Perry, nell’ardore del perdono. La bontà era la cosa piú bella dell’universo, e lei era in grado di andare verso di essa… eppure era stata orribile! Sgarbata con sua madre, impietosa con Perry, competitiva con Laura, avida con l’eredità, sarcastica con Clem sulla fede degli altri, presuntuosa, egoista, avversa a Dio, orribile. Con un singhiozzo che era piú che altro un parossismo, un’estasi, aprí gli occhi sulla croce sopra l’altare.


    Cristo era morto per i suoi peccati.


    E lei ci sarebbe riuscita? Sarebbe riuscita ad abbandonare il male dentro di sé, ad abbandonare la vanità e la paura delle opinioni altrui e a umiliarsi davanti a Dio? Le era sempre parsa una cosa impossibile, un’aspettativa onerosa senza alcun lato positivo. Solo ora capiva che avrebbe potuto portarla piú a fondo dentro la luce dorata.


    Corse davanti alla croce, si inginocchiò sulla moquette dell’altare, chiuse di nuovo gli occhi e giunse le mani in preghiera.


    Per favore, Dio. Per favore, Gesú. Sono stata cattiva. Mi sono sempre creduta chissà chi, volevo la popolarità, e i soldi, e una posizione sociale, e ho pensato male di tante persone. Per tutta la vita sono stata egoista e insensibile. Sono stata una disgustosa peccatrice, e mi dispiace tantissimo. Puoi perdonarmi? Se prometto di migliorare, di diventare piú umile? Se prometto di servirti con gioia? Accetterò i lavori peggiori per accumulare ore. Sarò piú amorevole con i miei nemici e piú aperta con i miei familiari, condividerò tutto ciò che possiedo, vivrò una vita pulita e non baderò a quello che gli altri pensano di me, se solo mi perdonerai…


    Sperava di ricevere una risposta chiara, di sentire Gesú che le parlava nel cuore, ma non ci fu niente; la luce dorata era svanita. Però si sentiva libera dallo sballo, di nuovo in pace. Aveva intravisto la luce di Dio, anche se solo per un istante, e le sue preghiere erano state esaudite.

La biblioteca era un edificio di mattoni dalle finestre alte, costruito negli anni Venti e situato su un prato delimitato da siepi a prova di cane. Durante la settimana restava aperta fino alle nove di sera, ma all’ora di cena era deserta, con una sola bibliotecaria dietro lo sportello prestiti fra il silenzio dei libri in attesa di qualcuno che li volesse.


    Attraverso l’ingresso principale – poco usato perché la maggior parte degli utenti arrivava in macchina e parcheggiava sul retro – entrò una persona disturbata che puzzava di gabardine bagnata e sigarette. Aveva la faccia lucida, i capelli arruffati e impiastrati di neve. Si scrollò e batté i piedi su un tappeto industriale che era stato srotolato per la bufera. Dopo innumerevoli ore passate lí dentro ad aspettare che i suoi figli scegliessero un libro, sapeva benissimo dove andare. Nella sala di consultazione, dietro lo sportello prestiti, c’era uno scaffale con le guide telefoniche delle città principali degli Stati Uniti e delle città secondarie dell’Illinois. Erano tutte piú o meno aggiornate, soldi dei contribuenti ben spesi.


    Si accovacciò davanti allo scaffale, tirò fuori la guida piú spessa e l’aprí sul pavimento. Dopo i Gordon e i Gowan, prima dei molti Green, c’era una breve colonna di Grant. Era pronta a venire delusa, richiamata alla ragione, ma il suo stato d’animo era cosí intenso che probabilmente il mondo vi si sarebbe adeguato. E infatti, accanto a una goccia di neve sciolta che era caduta sulla pagina e l’aveva increspata, trovò una delle cose piú erotiche che le fosse mai capitato di vedere.


    

      Grant B. 2607 Vía Rivera…………… 962-3504

    


    Emise una specie di sospiro ronzante, come la prima nota di un violoncello rimasto per decenni in soffitta. Quante cose poteva evocare un nome sulla guida del telefono! Le ore e i giorni e gli anni dell’esistenza di B. Grant, vivo in una casa specifica in una via specifica, raggiungibile da chiunque conoscesse il suo dolce numero. Non poteva essere sicura che si trattasse di Bradley, ma non vedeva perché no. Tutte quelle visite settimanali alla biblioteca, tutto quell’ozioso curiosare tra gli scaffali, e non le era mai venuto in mente di cercarlo. La chiave del suo cuore era sempre stata lí, sotto i suoi occhi.


    Prese una matita e una scheda da un vassoio di legno, copiò l’indirizzo e il numero e infilò la scheda nella tasca del cappotto insieme alle sigarette. Nella fretta di fuggire dallo studio dentistico, dopo piú di tre ore con Sophie Serafimides, si era dimenticata di consegnare la banconota da venti dollari. Quei soldi, ottenuti comunque in maniera disonesta, le erano tornati utili quando era passata davanti alla drogheria e aveva ricordato un mezzo piú efficiente per perdere peso e controllare l’ansia. Si era procurata il mezzo, e adesso aveva anche uno scopo. Nella sua mente aveva già perso quindici chili e stava scrivendo una lettera confidenziale e amichevole a Bradley, in cui lo informava che stava benissimo e gli raccontava qualche dettaglio specifico e vivido su ciascuno dei suoi quattro figli, assicurandogli implicitamente che era del tutto guarita, che si era costruita una bella vita normale, che lui non doveva piú temerla. E tu? Scrivi ancora poesie? Come sta Isabelle? Come stanno i tuoi ragazzi? Ormai anche loro si saranno fatti una famiglia…


    Davanti all’ingresso posteriore della biblioteca, su una chiazza di neve smangiata dal sale irregolarmente sparso, si accese un’altra sigaretta. Si accorse che era da trent’anni che aveva voglia di fumare. Confessarsi con Sophie aveva scoperchiato una tomba di emozioni, dentro la quale, miracolosamente intatta, aveva trovato l’ossessione per Bradley Grant. Descriverla a Sophie con precisione, rivivere i peccati che aveva commesso sotto il suo dominio, l’avevano portata a ricostruirne i contorni, ricordandole che le si adattavano alla perfezione. Dai trent’anni di riposo che lei gli aveva concesso, il suo desiderio di Bradley era uscito piú che mai rafforzato, piú forte di qualunque sentimento trito e ritrito che nutrisse per Russ. Bradley l’aveva eccitata a un livello molto piú profondo di quanto Russ avesse o avrebbe mai potuto fare, perché solo con Bradley il suo io folle e peccatore si era potuto esprimere appieno. Sulla chiazza di neve dietro la biblioteca, mentre inspirava il fumo in una fredda sera del Midwest, venne riportata indietro a una Los Angeles piovosa. Era una madre di quattro figli con un cuore da ventenne.


    Mentre raccontava a Sophie gli avvenimenti che l’avevano portata a distruggere la vita che le cresceva in grembo, l’osceno patto che aveva stretto con l’ex padrone di casa di Isabelle Washburn, aveva percepito una crescente distanza fra raviolo e paziente. Forse aveva immaginato che la storia sarebbe riemersa fra ansiti colpevoli e grande uso di Kleenex, ma confessare i suoi peggiori peccati a una psichiatra non assomigliava affatto alle sue confessioni cattoliche. Non provava nessun terrore per il giudizio di Dio sulla sua debole persona, nessuna pietà per il dolce Signore che aveva sofferto sulla croce per ciò che lei aveva fatto. Con la laica Sophie, una greco-americana dall’aria materna, si sentiva piú che altro licenziosa. L’interruttore mentale che aveva azionato da ragazza poteva ancora abbassarsi sulla posizione Spento. Aveva raccontato la sua storia in tono risoluto, sollevandosi il morale con la resurrezione della ragazza impulsiva che aveva amato Bradley. L’espressione di Sophie, nel frattempo, diventava sempre piú triste, tanto che aveva cominciato a divertirla. La soddisfazione di mostrarsi al raviolo in tutta la sua cattiveria le ricordava il piacere di provocare Roy Collins, lo zio tutore, con la sua cattiva condotta. Alla fine, mentre narrava che un poliziotto di Los Angeles era stato costretto ad acciuffare una ragazza farneticante sotto la pioggia torrenziale, si era messa addirittura a ridacchiare.


    Forse era stata quella risatina a far accigliare il raviolo.


    – Mi dispiace molto per quello che ha passato, – disse Sophie. – Spiega tante cose, e mi fa ammirare ancora di piú la sua capacità di ripresa. Ma c’è ancora una cosa che non capisco.


    – Sappiamo entrambe cosa vuol dire, non è vero.


    – Cosa vuol dire?


    Marion imitò il suo cipiglio terapeutico. – Che lei disapprova.


    – Stando al suo racconto, – ribatté Sophie, per nulla divertita, – quando era giovanissima è stata sedotta da un uomo sposato. Poi ha sposato un uomo con il quale non poteva essere se stessa. E ora mi dice di aver subíto dei terribili abusi da un predatore sessuale. Non le sembra…


    – Sapevo cosa stavo facendo, – disse fiera Marion. – In ciascuno dei due casi. Sapevo che era sbagliato, e l’ho fatto ugualmente.


    – Mi scusi… cosa ha fatto a Russ?


    – Gli ho mentito. E ora lui mente a me. E allora?


    – Lei gli ha offerto la sua vita e lui l’ha presa. Ora se ne è stancato e vuole qualcosa di nuovo.


    – Ammetto che al momento non sono molto felice con Russ. Ma lei è davvero fuori strada se lo sta paragonando al padrone di casa. Russ è come un bambino.


    – Non li sto paragonando. Il padrone di casa…


    – Ed è ancora piú fuori strada se pensa di paragonargli Bradley. Bradley era onesto… voleva la stessa cosa che volevo io. Ci siamo innamorati, e lui non mi ha mai mentito. Non è stata colpa sua se sono impazzita.


    – Davvero?


    – Sí, davvero. Quando stavo cadendo a pezzi lo odiavo, ma appena mi sono ripresa la rabbia è cessata. Mi dispiaceva solo per quello che gli avevo fatto passare.


    – Si sentiva in colpa.


    – Decisamente.


    – Come mai, ogni volta che un uomo le fa del male, lei reagisce sentendosi in colpa?


    Marion, lanciata a tutta velocità, era spazientita dalla lentezza di Sophie. – Non gliel’ho appena spiegato? Io non sono buona. Volevo uccidere il mio bambino, e l’ho fatto nell’unico modo possibile. Non lo odiavo neppure, il padrone di casa, ero solo terrorizzata da lui. Voglio dire, sí, era malvagio. Ma io vedevo la mia natura malvagia riflessa in lui. Per questo mi spaventava tanto.


    Sophie chiuse gli occhi per un istante. Evidentemente l’impazienza era reciproca.


    – Cerchi di vedere quello che vedo io, – disse. – Provi a figurarsi una dolce, vulnerabile ragazza appena un po’ piú grande di sua figlia. Pensi a quanto è spaventata e indifesa. E poi immagini un uomo il cui primo pensiero, quando vede una ragazza come quella, è tirare fuori il pene e abusare di lei. E lei crede che quella ragazza possa assomigliargli?


    – Be’, io non ho il pene, perciò.


    – Ma il suo primo pensiero sarebbe approfittarsi di una persona vulnerabile?


    – Lei dimentica cosa ho fatto alla moglie di Bradley. Sono andata a casa sua e l’ho intenzionalmente ferita. Anche lei era vulnerabile, no?


    – Per come la vedo io, lei in realtà era arrabbiata con Bradley.


    – Solo perché ero fuori di testa.


    – A me la rabbia sembra una reazione del tutto ragionevole al modo in cui lui l’ha trattata.


    Marion scosse la testa. Aveva appena ritrovato un tesoro e subito il raviolo cercava di portarglielo via.


    – Lei mi ha raccontato una storia orribile, – disse Sophie. – Come ha detto lei stessa, ha incontrato Satana in persona. Da una persona che si definisce credente non mi aspetterei tanta indulgenza nei confronti di Satana.


    – Questo perché lei non è credente. È come se mi arrabbiassi con la pioggia perché mi cade in testa. Sapevo benissimo chi era quell’uomo. L’ho lasciato ugualmente entrare dentro di me, e ho avuto il castigo che meritavo.


    – Lei incolpa se stessa, non lui.


    – Cosa c’è di sbagliato? C’è un motivo se la rabbia è un peccato mortale. Da giovane ero piena di rabbia, avevo voglia di ammazzare la gente. Se non fossi stata cosí arrabbiata, forse avrei preso decisioni migliori. So che secondo lei incolpare se stessi è da malati, ma io credo che da un punto di vista spirituale sia piú sano.


    – Può darsi, – disse Sophie. – Sempre che lei sia contenta di come l’ha fatta diventare.


    – Cioè?


    – Cioè ansiosa e depressa. Incapace di dormire. Nemica del proprio corpo. Faccio fatica a credere che una religione possa condannare un’emozione naturale come la rabbia. Pensi al movimento per i diritti civili. Crede che il dottor King non fosse arrabbiato quando la sua gente veniva uccisa dal Ku Klux Klan? Certo, lui predicava la nonviolenza, ma a volte, quando un problema è irrisolvibile, solo la rabbia può cambiare le cose.


    – Non paragonerei mai la mia situazione a quella di un nero in Alabama. È quasi offensivo.


    Sophie sorrise amabilmente. – Non intendevo essere offensiva.


    – Sono stata fortunata a trovare qualcuno che mi sposasse, dopo quello che ho passato. E anche cosí, l’ho sposato con l’inganno. Ora non posso certo lamentarmi di sentirmi oppressa da lui. Anche quella storia con la sua amica vedova… non biasimavo Bradley per essersi stancato di sua moglie. Perché dovrei biasimare Russ per essersi stancato di me? Io sono molto piú vecchia e grassa di quanto fosse all’epoca la moglie di Bradley.


    – La rabbia è un’emozione, – disse Sophie. – Non deve per forza essere logica. In questo momento, per esempio, io sono molto arrabbiata con l’uomo che ha abusato di lei. Sono anche un po’ arrabbiata con lei.


    – Per cosa?


    – Ascolti i presupposti da cui parte. È stata fortunata a trovare qualcuno che la sposasse? Perché? Cosa c’era di sbagliato in lei? Il fatto che aveva già avuto esperienze sessuali? Che aveva avuto un esaurimento nervoso? Sarebbe stato un problema se fosse stata un maschio? Sarebbe stato fortunato a trovare una moglie? E perché, anzitutto, era cosí importante sposarsi? Perché una donna non è davvero una donna se non riesce a trovare un marito e procreare? Perché è…


    Sophie si interruppe e scosse la testa, come se avesse detto troppo. E in effetti Marion era delusa da lei. Il raviolo aveva modi cosí concilianti e subdoli che il suo programma concettuale di fondo, freudiano, medico o politico che fosse, era stato difficile da individuare. Ora quel programma era stato rivelato. Marion immaginò che si applicasse a ciascuna delle mogli trascurate o scartate che venivano in quello studio: un metodo adatto a tutti. Doveva forse essere contenta che si adattasse anche a lei?


    – Non ne potrà piú, – disse, in tono non gentile. – Di tutte le signore che vengono da lei a lamentarsi dei loro uomini. Una settimana dopo l’altra, uomini uomini uomini. Deve essere frustrante per lei… che non riusciamo a parlare d’altro. Che non riusciamo a vedere quanto siamo oppresse.


    Sophie, che si era ricomposta, sorrise amabilmente. – È interessante che lei dia per scontato che tutte le altre pazienti parlino solo di uomini.


    – Mi sta dicendo che non lo fanno?


    – Non importa se lo fanno o no. Quello che importa è come lei le immagina. Secondo lei io ritengo che lei parli troppo di uomini?


    – Sí, – disse Marion. – Continua a dirmi che devo crearmi una vita indipendente. Credo che in realtà lei stia dicendo: «Basta con gli uomini: vada a liberarsi».


    – A lei non interessa la liberazione della donna.


    – Se questo è il suo programma, io non ho niente in contrario. Se funziona per le altre pazienti, tanto meglio per loro.


    – Ma non fa per lei.


    – Il padrone di casa era un pervertito. Non ho piú rivisto la mia amica, Isabelle, ma scommetto che era riuscito a fare sesso anche con lei. Sarà rimasta indietro con l’affitto, o avrà avuto bisogno di un favore professionale, e lui avrà usato il suo potere per approfittarsi di lei. Era grasso e repellente, e quella casa gli serviva solo per fare sesso con un sacco di ragazze. Sono stata una di loro, e lui mi ha fatto delle cose schifose. Anche la parte di sesso normale non era normale. Succedeva tutto nella sua testa: io ero solo un oggetto.


    – Proprio cosí.


    – Ma mettiamo che fosse andato da uno psichiatra: Sa, sono un po’ arrabbiato con lei. Non sarebbe ora che si creasse una vita piú indipendente? Non parla d’altro che di ragazze!


    Sophie inspirò ed espirò lentamente. – Un bravo psichiatra avrebbe potuto aiutarlo a identificare il trauma che si sentiva spinto a rivivere.


    – Ah, ecco. E io, cosa sto rivivendo?


    – Lei cosa ne pensa?


    – Non saprei. Il senso di colpa per il suicidio di mio padre. È questa l’idea?


    – Se lo dice lei.


    – Ho smesso di sentirmi in colpa per Russ. Di certo non mi sento in colpa per il padrone di casa. In quel caso ero colpevole, ma non si tratta di una sensazione. È un fatto oggettivo. Le persone per cui mi sento in colpa sono Perry e il figlio di Bradley che ho ucciso senza dirglielo. Erano innocenti, e io sono responsabile di quello che gli è successo.


    Il raviolo si guardò le mani tozze. Fuori dalla finestra era scesa la notte. Altrove nello studio dentistico, un trapano produceva le ultime unità di dolore.


    – Mi ha raccontato – disse Sophie – che sua madre era a sciare con le amiche quando lei aveva bisogno di aiuto per la gravidanza. Questo l’ha fatta arrabbiare?


    – Mia madre era un incubo, un’egocentrica alcolizzata.


    – Lo prendo come un sí. Mi ha anche parlato della rabbia nei confronti di sua sorella. Ma è stato suo padre a mandare in rovina la famiglia…


    – Sono state Shirley e mia madre a costringerlo.


    – Suo padre ha commesso una truffa e le ha mentito. Poi il suo venditore di automobili si approfitta di lei, pur sapendo che è una persona molto sensibile. Un maniaco sessuale le fa delle cose indicibili. Per venticinque anni si prende cura di suo marito, e ora lui corteggia un’altra. Eppure sembra che le uniche persone con cui è arrabbiata siano sua madre e sua sorella. Lo vede cos’è che non capisco?


    – Evidentemente non sono una femminista.


    – Non le sto chiedendo di esserlo. Le sto chiedendo di cercare di vedersi.


    – La persona che vedo non è buona.


    – Marion, mi ascolti –. Il raviolo si sporse in avanti. – Vuole sapere cosa mi sto davvero stancando di sentire? Questo suo ritornello.


    – Ma è vero.


    – Sul serio? Lei ha cresciuto quattro figli fantastici. Ha dato a suo marito tutto ciò che un uomo potrebbe meritare. Ha fatto tutto il possibile per suo padre. Si è addirittura presa cura di sua sorella quando stava morendo.


    – Ma quella non ero io. Ero io che recitavo una parte. Il mio vero io… – Scosse la testa.


    – Mi parli del suo vero io, – disse Sophie. – Oltre a definirlo «cattivo», come lo descriverebbe? Che tipo di persona è?


    – È magra, – disse Marion con enfasi.


    – È magra.


    – Ha una grande sensibilità. È una peccatrice, e non lo nasconde a Dio. Spera che Lui capisca che peccare è inseparabile dal sentirsi vivi, ma non va in cerca del Suo perdono, perché è incapace di rimorso. Probabilmente è un’attrice: vuole attirare l’attenzione. È un po’ pazza, ma non fa male a nessuno. Non ha mai avuto pensieri suicidi.


    Il raviolo non sembrava colpito.


    – Sua sorella era un’attrice, – commentò. – E ha descritto anche lei come magra e svitata.


    – Oh, grazie tante.


    Sophie fece un gesto espressivo, senza ritirare il commento.


    – Shirley era viziata e astiosa, – disse Marion. – Non era una vera attrice.


    – Okay.


    – La persona che sto descrivendo è l’opposto di astiosa.


    – Okay. Diciamo che questo è il suo vero io. Cosa crede che le impedisca di essere quella persona?


    – Non è ovvio? Ho cinquant’anni. Divorziare sarebbe un disastro. Anche se trovassi un modo per tirare avanti, sarei comunque responsabile dei miei figli, soprattutto di Perry. È impossibile sfuggire alle conseguenze della vita che ho costruito.


    – Non per essere pedante, – disse Sophie, sorridendo amabilmente, – ma se il suo vero io è incapace di rimorso, cosa gliene importa delle conseguenze?


    – Mi ha chiesto di descriverle una fantasticheria.


    – No, io le ho chiesto il contrario. È interessante che abbia interpretato cosí la mia richiesta.


    Il raviolo aveva una resistenza straordinaria. Marion avrebbe potuto parlarle all’infinito, girando in tondo senza mai arrivare da nessuna parte. Erano tutti soldi buttati via.


    – Mi domando se una cosa debba per forza escludere l’altra, – disse Sophie. – Forse c’è un modo per sentirsi piú fedele a se stessa ed essere comunque una brava madre. E se cominciasse con il teatro di quartiere? Potrebbe provare a partecipare e vedere come va.


    Era il genere di suggerimento – moderato, ragionevole, graduale – che Marion avrebbe potuto dare a uno dei suoi figli, ma ciondolare su un palcoscenico con altre casalinghe suburbane di mezza età non l’attirava affatto. Lei doveva essere la donna magrissima e magnetica che fumava una sigaretta in fondo al teatro osservando gli attori che sbagliavano, e infine, spazientita, saliva a grandi passi sul palco per mostrare come si recitava una scena. Una fantasticheria? Forse, ma forse no. Un tempo, su un letto a scomparsa a Los Angeles, la sua recitazione aveva incantato Bradley Grant.


    – A cosa sta pensando? – chiese Sophie.


    – Sto pensando che la lascerò andare a casa.


    – Sí, fra qualche minuto. Sento che siamo…


    – No –. Marion si alzò. – Io e Russ dobbiamo andare al ritrovo del clero. Divertente, non trova?


    Andò alla porta e staccò dal gancio il cappotto di gabardine.


    – Le garantisco – disse – che Russ non si divertirà, a meno che non ci sia qualche moglie bella. Altrimenti sarà solo un’altra occasione per far emergere la sua insicurezza, e io su quello non posso aiutarlo. Io sono la piccola grassa umiliazione che ha sposato. La sua unica consolazione è che mi comporto bene, mi ricordo i nomi di tutte le mogli e mi assicuro che vengano tutte salutate da una Hildebrandt. Piú tardi mi dirà com’è stato brutto essere il piú vecchio ministro giovane della festa, come si sente frustrato, e io gli dirò che merita una chiesa tutta sua. Gli dirò che i suoi sermoni sono molto piú belli di quelli di Dwight, che lui lavora molto piú di Dwight, che io lo ammiro tanto. Un altro ruolo in cui sono bravissima. Solo che, se la festa è andata proprio male, lui ribatterà che i suoi sermoni sono belli solo perché glieli scrivo io. Ecco!


    Battendo le palpebre con aria gigionesca, tornò a girarsi verso Sophie.


    – Oh, ma non è affatto vero, tesoro. Le idee sono tutte tue, io le rimetto solo un po’ in ordine per aiutarti a esprimerle piú chiaramente. Non saprei fare niente senza di te. Sono solo un vaso vuoto che sa scrivere bene… Ecco!


    La sua unica spettatrice la guardava con severa compassione.


    – Mi voleva furiosa? – le disse Marion. – So fare la furiosa.


    Intendeva furiosa nel senso di arrabbiata, ma il modo in cui uscí dall’ufficio, aprendo la porta con uno strattone e chiudendola con troppa foga, la fece sembrare furiosa anche nel senso di pazza. Era furiosa con se stessa per avere usato la parola fantasticheria, furiosa con Sophie per avere colto al volo quel lapsus. L’io che aveva dissotterrato era solo una fantasticheria? Vedremo, pensò. La cosa piú importante, si disse mentre veleggiava oltre la segretaria greca e usciva sotto la nevicata, era non mangiare mai piú quei maledetti biscotti. Mettersi davvero a stecchetto; vedere il cibo per quel nemico che era; bruciare al calor bianco nel rogo del suo falso io grasso. Se l’ossessione del peso la rendeva una pazza furiosa, pazienza. Il suo programma di dimagrimento autunnale era stato una robetta da niente, nata dalla speranza approvata dal raviolo di riaccendere l’interesse di Russ, di evitare una separazione nella quale lei rischiava di perderci molto piú di lui. Non ci aveva messo nessun entusiasmo, e ora sapeva perché: non aveva mai dimenticato Bradley. L’uomo al quale aveva dedicato se stessa era stato una seconda scelta: insicuro quanto Bradley era baldanzoso, impacciato nello scrivere ed esitante nel sesso quanto Bradley era magnifico. Forse all’epoca, in Arizona, aveva sentito il bisogno di un uomo da manovrare e da superare in intelligenza, ma da molto tempo il matrimonio si era ridotto a un semplice accordo: in cambio dei suoi servigi, Russ non la gettava in pasto ai lupi. Provava ancora una cristiana compassione per lui, ma se pensava al suo pene, in relazione a Frances Cottrell e alle altre belle donne di New Prospect, non le sembrava piú cosí impossibile paragonarlo all’uomo che aveva abusato di lei. Su questo il raviolo aveva ragione.


    Quando gli Hildebrandt erano arrivati in città, la vecchia drogheria all’angolo sembrava uscita da un quadro di Rockwell, ma poi il proprietario l’aveva rimodernata con orrendi laminati, aveva coperto di linoleum il pavimento di legno e installato luci fluorescenti. Nello stesso spirito di miglioramento, l’albero di Natale all’interno del negozio era artificiale, con gli aghi argentei, neppure finto-verdi. Dietro il banco, chino sul cruciverba del «Sun-Times» con una matita in mano, c’era un uomo sulla trentina dalle grandi orecchie, troppo vecchio per fare il commesso a meno che non si trattasse di una carriera che, per qualche triste motivo, aveva scelto. Marion si avvicinò al banco e squadrò l’espositore delle caramelle con combattivo disgusto.


    – Mi servono delle sigarette, – disse.


    – Di che marca?


    – Strano, – disse Marion, – l’unica che mi viene in mente è Benson & Hedges. È per via della pubblicità in tv, quella con la porta dell’ascensore.


    – «Ci vuole un po’ per abituarsi».


    – Sono buone le Benson & Hedges?


    – Io non fumo.


    – Qual è la marca che va di piú?


    – Marlboro, Winston. Lucky Strike.


    – Lucky Strike! Ma certo! Erano quelle che fumavo una volta. Un pacchetto, per favore.


    – Con filtro o senza?


    – Santo cielo. Non ne ho idea. Facciamo uno con e uno senza?


    Mentre gli dava i soldi, Marion fu tentata di spiegare che non fumava una sigaretta da trent’anni; che aveva smesso di fumare dopo essere stata dimessa da un reparto sorvegliato ed essersi trasferita dallo zio Jimmy in Arizona; che il fumo delle sigarette aveva aggravato l’asma di Jimmy e aveva un cattivo sapore a quell’altitudine elevata; che allora aveva riempito il vuoto lasciato dal vizio con i grani del rosario e le visite quotidiane alla chiesa della Natività, una camminata di duemilaquattrocentoquarantadue passi (li contava ogni volta) dalla porta di casa di Jimmy; che aveva scoperto la chiesa quando, desiderosa di dare una mano, aveva accompagnato Rosalia, la madre dell’uomo di Jimmy, Antonio, alla messa della domenica, perché gli uomini dormivano fino a tardi e Rosalia continuava a dimenticarsi dove stava andando; che nello stato d’animo in cui si trovava, simile al tempo primaverile sugli altipiani, con quel sole luminoso che veniva smorzato dalle nuvole e poi riappariva, di continuo, in un’alternanza che durava tutto il giorno, caldoluminosoestivo, freddobuioinvernale, aveva spalancato l’anima a ogni cosa che incontrava, perché nessuna di quelle cose era un reparto sorvegliato, e che fra quelle cose c’erano la presenza e la maestà di Dio, rivelate in una piccola chiesa cattolica accogliente come un grembo dove la madre arteriosclerotica dell’amante di suo zio riceveva la comunione; che Dio era diventato per lei un amico migliore delle sigarette. La rattristava pensare che il giovane dalle grandi orecchie non avesse altra ambizione che lavorare in un negozio, e le sarebbe piaciuto espandergli la serata condividendo con lui un po’ della vividezza degli altipiani con la quale, d’un tratto, stava ricordando la sua vita pre-Russ. Ma il commesso aveva già ripreso in mano il cruciverba.


    Incurante della neve bagnata che le entrava nelle scarpe, Marion attraversò la strada di corsa e si rifugiò sotto la tettoia di un’agenzia di viaggi. Sprecò due fiammiferi prima di riuscire ad accendere una Lucky senza filtro. Il primo tiro le ricordò la perdita della verginità – doloroso e terribile ed eccellente. Sapeva benissimo che le sigarette avevano ucciso sua sorella. Sapeva anche, dagli articoli dei giornali, che il rischio di cancro era proporzionale all’esposizione totale nel corso della vita. L’errore di Shirley era stato non prendersi una pausa di trent’anni dalla propria esposizione. Marion non intendeva fumare per sempre, solo quanto bastava per recuperare il fisico della ragazza che aveva donato la sua verginità a Bradley Grant.


    Era talmente disturbata che, malgrado le girasse un po’ la testa, la Lucky non le fece venire la nausea. Le fece venire voglia di fumarne un’altra. Percorse solo due isolati, sussultando al rumore di ogni macchina di passaggio, urtata e innervosita da quel caos nevoso, prima di sedersi su una panchina davanti al municipio e accendersi un’altra sigaretta. Erano sempre state cosí deliziose? Notò con piacere l’assenza di fame. Il pensiero delle polpette svedesi di Doris Haefle – e di quante ne aveva mangiate esattamente un anno prima, quando, prima di perdere il conto, si era imposta di tenerne il conto – le fece rivoltare lo stomaco. La neve sciolta le filtrava da sotto il sedere attraverso il cappotto. I rami degli abeti ornamentali del municipio si incurvavano sotto pesanti carichi di bianco. Stava fumando la seconda Lucky piú in fretta della prima; nel petto le saliva un’euforia perduta da tempo. Per impiegarla in qualche modo, pronunciò ad alta voce una parola che le sembrava di non avere piú usato dalla mattina in cui la polizia l’aveva arrestata a Los Angeles. Disse: – ’Fanculo!


    Oh, che bella sensazione.


    – ’Fanculo Doris Haefle. ’Fanculo le sue polpette.


    Un pendolare con cappello e valigetta, la testa china per proteggersi dalla fitta nevicata, si fermò sul marciapiede a guardarla. Marion alzò la mano con la Lucky e lo salutò.


    – Sta bene? – disse l’uomo.


    – Mai stata meglio, grazie.


    L’uomo proseguí lungo il marciapiede. Qualcosa nella sua andatura, nell’inclinazione risoluta del suo corpo, le ricordò Bradley. Portandosi la Lucky alle labbra, Marion vide che la brace stava per bruciarle le dita. La scrollò freneticamente sulla neve.


    Bradley doveva avere sessantacinque anni, adesso. Vecchio ma non troppo, soprattutto in un clima che manteneva giovani come quello della California meridionale. Pensava ancora a lei? Oppure, come lei, aveva seppellito i suoi ricordi e cercato di diventare una persona diversa? Sarebbe stato terribile se l’avesse dimenticata. Ma ancora peggio se l’avesse ricordata solo come la ragazza che si era comportata in modo imperdonabile: se i loro mesi di felicità fossero stati cancellati dal giorno in cui lei era andata a casa sua e aveva parlato con sua moglie. Perché l’aveva fatto? Perché aveva dovuto ferire una terza persona innocente? Se non l’avesse fatto, tutto avrebbe potuto essere perfetto.


    I fiammiferi si erano inumiditi – si scottò un polpastrello nel tentativo di accenderne uno. Per tentare di indovinare quale versione di sé fosse rimasta con lui, se quella buona avesse prevalso su quella molto cattiva, Marion chiamò a raccolta i ricordi della passione di Bradley. I ricordi non volevano stare fermi, si fondevano l’uno nell’altro, ma le sembrava che ci fossero molti esempi di quella passione. Anche quando aveva perso la testa e lo aveva spaventato, Bradley aveva dovuto farsi forza per stare lontano da lei. Piú tardi, sí, certo, l’aveva odiata perché era andata da sua moglie. E allora? Anche lei lo aveva odiato perché l’aveva respinta. L’odio era svanito in fretta. Nella sua memoria era rimasta l’entusiasmante sintonia che c’era fra loro. Forse, con il passare del tempo, anche a lui era rimasta quella sensazione?


    Immaginò di lasciare Russ prima che lui riuscisse a lasciare lei. Che sorpresa sarebbe stata. Il sogno di perdere quindici chili e mollare Russ era cosí appagante che si sarebbe accontentata di continuare a sognare, seduta sulla panchina, se non le fosse venuto in mente che la biblioteca aveva una collezione di guide telefoniche…


    Sulla chiazza di neve smangiata dietro la biblioteca, Marion lanciò nel parcheggio il mozzicone della quarta sigaretta. I fatti del mondo si erano piegati al suo stato d’animo. Ora aveva buone ragioni per sperare che Bradley fosse vivo a Los Angeles; aveva un indirizzo e un numero di telefono. Elettrizzata dalla nicotina, si chiese cosa fare adesso con il suo disturbo. In fondo alla lista delle possibilità c’era annusare le polpette dell’antipatica moglie di Dwight Haefle. Per un istante temette che Becky la stesse aspettando a casa per andare al ritrovo; che il suo senso del dovere avesse prevalso sul bisogno di stare con Tanner Evans. Ma sembrava improbabile, e Becky, nel caso, avrebbe potuto andare al ritrovo con Russ, che ad ogni modo sarebbe stato piú contento cosí. Era orgoglioso della bellezza di Becky, e la domenica pomeriggio preferiva esibire in pubblico la figlia che farsi vedere con la moglie.


    – Vaffanculo, Russ.


    Ricordando come ci si sentiva a voler ammazzare qualcuno, pensò che poteva ancora diventare una femminista. Ma aveva chiuso con il raviolo psichiatrico. Nessuna immaginabile svolta avrebbe potuto farla sentire piú sconvolta di cosí. Per prevenire qualunque tentazione di tornare strisciando da Sophie le venne voglia di andare a casa, svuotare il cassetto delle calze di tutti i soldi rimasti e spenderli per un costoso regalo a Perry, ma i negozi stavano tutti chiudendo.


    Capí cosa doveva fare. Doveva confessarsi anche con Perry. Confidarsi con Sophie era stata solo un’esercitazione, un riscaldamento. Qualcuno della famiglia doveva sapere cosa aveva fatto, ma col cazzo che lo avrebbe detto a Russ. Perry era la persona piú simile a lei, la persona a rischio di un disturbo come il suo, la persona che doveva mettere in guardia. Dovunque la portasse il suo disturbo, se di nuovo fra le braccia di Bradley o semplicemente a una carriera da divorziata nel teatro di quartiere, avrebbe dovuto condurre Perry con sé. La responsabilità di Perry le avrebbe impedito di volare troppo pericolosamente alto. Quello era il patto che avrebbe stretto con Dio.


    Isolata dal freddo grazie alla ciccia, Marion girò intorno alla biblioteca, si insinuò attraverso un varco nella siepe e lasciò le sue impronte sul prato davanti all’ingresso, dove non aveva mai visto nessuno mettere piede. New Prospect era graziosa sotto la neve, ma non bella come l’Arizona, perché già offuscata da un domani di pozzanghere grigie, di cumuli di neve corrosa dal sale e annerita dai gas di scarico delle macchine che partivano accelerando con uno stridio di gomme. In Arizona la bianca purezza durava settimane.


    Arrancare in salita controvento lungo Maple Avenue la rese consapevole della nicotina che le avvelenava il cuore. All’angolo di Highland si fermò per riprendere fiato e guardare l’orologio. Erano quasi le sette. Con tutta quella neve, probabilmente Russ stava arrivando a casa solo adesso. Poteva sempre dirgli: «’Fanculo il ritrovo, io non vengo». Ma un modo piú dolce di punirlo era lasciare che si chiedesse perché non era tornata a casa. Era quasi sicura che a colazione le avesse mentito, quasi sicura che fosse uscito con la sua amica vedova. E c’era, pensò Marion, un modo facile per accertarlo. Kitty Reynolds, la presunta compagna di Russ per la spedizione in città, abitava un po’ piú avanti in Maple Avenue, in una delle casette vicino alle scuole superiori.


    Poiché le decisioni erano facili per chi non ne temeva le conseguenze, Marion attraversò Highland e procedette controvento lungo Maple. Aveva i piedi congelati, le dita in via di congelamento. Non si ricordava bene la casa di Kitty, ma quando ci arrivò davanti la riconobbe. C’erano le luci accese a tutte le finestre del pianterreno, una macchina sportiva con la targa del Michigan nel vialetto, nessuna ghirlanda sulla porta, nessuna decorazione luminosa sui cespugli. Risalí a passo deciso il vialetto, notando che era stato ripulito dalla neve da forse un’ora, e suonò il campanello. Con una stretta al cuore, per un attimo confuse quello che stava facendo con la cosa che aveva fatto alla moglie di Bradley, come se la stesse rimettendo in scena. Poi ritrovò la lucidità. Ora la situazione era diametralmente opposta.


    Un uomo anziano con un cardigan pesante aprí la porta. Marion temette di avere sbagliato casa, ma lui si identificò come il fratello di Kitty. – Sta scolando gli spaghetti, – disse.


    – Oh, scusi se vi ho disturbato all’ora di cena.


    – Chi devo dirle che la cerca?


    – Io… non è importante. Avrei dovuto passare prima. Kitty era qui nel pomeriggio?


    – Sí. Mi ha stracciato a Scarabeo. Oggi era la giornata perfetta per stare seduti davanti al fuoco. Vuole accomodarsi?


    – No, io… no, – disse Marion, voltandogli le spalle. – Grazie. La vedrò domenica in chiesa.


    – E lei è…?


    Marion alzò una mano e l’agitò mentre si allontanava. Appena sentí la porta chiudersi, tirò fuori le Lucky. Una bustina di fiammiferi era fradicia, l’altra ancora utilizzabile. Anche se sospettava che Russ le avesse mentito, c’era voluta una prova schiacciante per farla imbestialire. Era una bugia stupida, facile da scoprire, una bugia da bambino, e questo la faceva arrabbiare ancora di piú. Credeva che anche lei fosse stupida? Probabilmente neppure quello. Non l’aveva nemmeno considerata una persona. L’aveva equiparata a un oggetto scomodo sul tavolo della colazione, un fastidioso vaso che gli impediva di raggiungere la zuccheriera, al quale non valeva neppure la pena di raccontare una bugia decente. Ben presto, quando fosse dimagrita, avrebbe avuto altri modi di fargliela pagare. Per adesso, il castigo piú dolce sarebbe stato non dire niente, lasciargli credere che lei non sapeva niente, lasciare che si dannasse raccontando altre bugie.


    Erano quasi le sette e mezza quando arrivò alla canonica. Non c’era traccia della macchina, niente impronte di pneumatici nel vialetto. Entrò dal retro, si tolse le scarpe e il cappotto e si passò le dita tra i capelli infradiciati. Sul piano della cucina c’erano dei biscotti di cui non riusciva piú a comprendere il fascino. Ogni cosa in cucina sembrava scialba ed estranea. Avrebbe potuto trovarsi in casa di una persona morta di recente.


    – Perry? – chiamò. – Becky?


    Li chiamò di nuovo mentre saliva le scale. Forse i ragazzi erano usciti con la slitta? La loro stanza era buia, la porta socchiusa. Accese la luce nella camera matrimoniale. Ai piedi del letto c’era un bigliettino, scritto con la grafia artistica di Perry.


    

      Cara mamma,


      papà è bloccato in città, perciò porto Jay dagli Haefle. Becky ti ha aspettata. Le ho detto di andare al concerto.


      Perry

    


    Ora vennero, senza preavviso, le lacrime che Marion non aveva versato durante la sua confessione. A prescindere da ciò che Russ significava o non significava per lei, e da quanto poco andavano d’accordo lui e Perry, Russ sarebbe sempre stato la persona che Perry chiamava papà – sarebbe sempre stato suo padre. E com’era stata ingiusta con Becky, immaginando che non sarebbe venuta al ritrovo. Com’era commovente lo sforzo di Perry di comportarsi da adulto, com’era stato generoso a menzionare che sua sorella l’aveva aspettata; com’erano cari e reali i suoi figli, com’era fortunata ad averli; c’era una grossa differenza fra rivelare in astratto la propria cattiveria al raviolo e sperimentarla in rapporto ai suoi figli. Li aveva traditi. Becky l’aveva obbedientemente aspettata, e Perry aveva preso la decisione migliore che poteva prendere.


    Impacciata, con la vista offuscata dalle lacrime, si sbarazzò della tuta e si strofinò i capelli con un asciugamano. Era davvero una cattiva persona, perché insieme ad amore e rimorso, e non meno forte, provava autocommiserazione per essere stata strappata via dalla vividezza di ricordi e fantasie, e anche risentimento per l’interruzione del suo disturbo. E odio per quel vestito informe nel quale era costretta a insaccare la salsiccia del suo corpo. In bagno, dopo essersi spazzolata i capelli, si costrinse a salire sulla vecchia bilancia corrosa accanto al water, per fissare un nuovo punto di partenza. Pesava sessantacinque chili e mezzo vestita. Bastava quasi per scoppiare di nuovo a piangere. Quando tornò in cucina a prendere le sigarette, con addosso il cappotto buono e gli stivali buoni foderati di pelo, i biscotti avevano ritrovato il loro fascino.


    Mangiare biscotti è una reazione interessante al sentirsi in sovrappeso.


    – Davvero? – disse ad alta voce al raviolo dentro la sua testa. – È davvero cosí difficile da capire, cazzo? Tu non ti sei mai compatita in vita tua?


    Dopo una fumata corroborante in veranda, Marion si avviò verso casa degli Haefle. La neve cadeva ancora fitta, ma con il prevalere del fronte freddo l’aria aveva preso un aroma canadese. La sua unica consolazione per avere trascurato i figli era che Russ li stava trascurando ancora di piú. Difficile scegliere chi avrebbe ammazzato piú volentieri, se lui o la snella vedova con la quale era bloccato in città.


    Mentre si avvicinava alla casa degli Haefle ne vide uscire due preti con identici cappotti dal collo di zibellino. La paura dei preti fuori dalle chiese, che risaliva ai suoi anni cattolici, era legata a un’atavica paura di tutte le cose mostruose, compresa la mostruosità apparentemente lodevole di essere mezzi umani e mezzi consacrati a Dio: di vivere in castità. Rimase appostata sul marciapiede finché i preti non salirono su una station wagon Country Squire. Il fatto che sembrasse nuova di zecca era di per sé vagamente mostruoso.


    Conosceva abbastanza bene gli Haefle per permettersi di entrare senza bussare. Sentendo odore di polpette, e per fortuna anche di fumo di sigaretta, estrasse le Lucky dal cappotto prima di appenderlo nel guardaroba accanto alle scale del seminterrato. Dal seminterrato le arrivò un suono di violini hollywoodiani, e poi una vocina familiare, quella di Judson.


    Di sotto, nella stanza dei giochi, lo trovò su un divano, fra due bambine sulle cui facce erano distinguibili gli sgradevoli lineamenti di Doris Haefle. Stavano guardando Il miracolo della 34a strada su uno Zenith portatile. Sullo schermo, Kris Kringle era seduto sul letto di una bambina la cui madre, Marion ricordava, non vedeva niente di male nel lasciarla sola con un estraneo e il suo pene. Quando la telecamera inquadrò la faccia di Babbo Natale, Marion avvertí una morsa al petto. Non era il suo film preferito. Si spostò dietro la tv per evitarlo.


    – Ciao mamma, – disse Judson.


    – Ciao caro. Scusa il ritardo. Hai cenato?


    – Sí, ma adesso stiamo guardando questo film.


    – Sono la madre di Judson, – spiegò alle bambine.


    Loro borbottarono un saluto. Judson era stravaccato sul divano, le bambine inclinate una verso l’altra, a contatto con lui. Benché fosse in generale un bambino felice, Marion rimase ugualmente colpita dai suoi occhi semichiusi e dalla sua espressione sognante. Sembrava che si stesse godendo qualcosa di piú del film. Faceva pensare a un gatto estasiato dalle carezze. Marion ebbe la sgradevole sensazione di avere interrotto qualcosa.


    – Be’, vi lascio al vostro film, – disse. – Perry è di sopra?


    Judson non staccò lo sguardo dallo schermo. – C’è da supporlo, – disse.


    Si avvertiva un certo sarcasmo nella sua voce, come se stesse recitando per le bambine. Marion andò di sopra sentendosi una madre non migliore di quella del film. Judson aveva nove anni. Marion sapeva che per Becky era arrivato il momento di avere un ragazzo, e che Clem avrebbe già dovuto avere una ragazza nella sua vita, ma non era affatto preparata alla perdita dell’innocenza di Judson.


    In corridoio, di spalle alla festa mentre si cacciava in bocca un biscotto intero, c’era la moglie del pastore luterano: Jane. Decisamente Jane Walsh, non Janet. Sul suo piattino c’erano altri quattro biscotti, ed era perfino piú grassa di Marion.


    – Salve, Jane. Sono Marion Hildebrandt, la moglie di Russ.


    Un saluto fatto, un milione ancora da fare.


    – Questa festa è una bellissima tradizione, – disse Jane, – ma i biscotti di Doris non sono quello che mi serviva in questo periodo dell’anno. Mi sembra sempre di esagerare.


    Marion, dal canto suo, preferiva le polpette. I biscotti, benché impeccabilmente svedesi, erano secchi e insapori. Era in procinto di esprimere quel giudizio, in considerazione del fatto che aveva smesso di censurarsi, quando il baccano delle conversazioni proveniente dal soggiorno si spense di colpo. Si chiese se Dwight Haefle stesse per pronunciare un discorsetto. Invece sentí levarsi un’altra voce familiare. Era Perry, che gridava… di essere dannato?


    Superò in fretta Jane Walsh e si fece largo oltre il margine della festa. Perry era in piedi accanto al caminetto, il volto paonazzo, fiancheggiato dai due Haefle. Tutti gli altri li stavano guardando.


    – Che succede? – disse Marion.


    Perry soffocò un singhiozzo. – Mamma, mi dispiace.


    – Cosa c’è? Che succede?


    – Figliolo, – disse Dwight Haefle, mettendo un braccio intorno alle spalle di Perry. – Facciamo… ehm. Facciamo due passi.


    Perry chinò la testa e si lasciò condurre via. Marion cercò di seguirlo, ma Doris Haefle la bloccò. La sua espressione ardeva di trionfo. – Tuo figlio è ubriaco.


    – Mi dispiace molto.


    – Mm, sí, sono cose che succedono quando i figli non sono sorvegliati. Sei arrivata solo adesso?


    – Qualche minuto fa.


    – È piuttosto insolito che i tuoi figli siano venuti senza di te.


    – Lo so. Con questo tempaccio… Perry stava cercando di fare una cosa buona.


    – Non gliel’hai detto tu di venire?


    – Oddio, no.


    – Allora va bene, mia cara –. Doris le diede un colpetto sulla spalla. – Non hai fatto niente di male. Ora devi solo portarlo a casa.


    Doris Haefle aveva un’opinione molto esagerata dell’importanza della moglie di un pastore, era sensibile a ogni mancanza di rispetto nei confronti di quel ruolo, e perciò, siccome il mondo non condivideva la sua opinione, viveva in uno stato di perenne risentimento. Tra le croci che portava c’era l’essere sposata con un pastore che per ironia della sorte sminuiva il proprio ruolo. Per Marion la cosa piú fastidiosa era che, siccome anche lei era moglie di un pastore, Doris la reputava degna della piú grande considerazione. Doveva sopportare non solo i suoi consigli non richiesti su come comportarsi nel suo ruolo cosí eminente, ma anche il modo immancabilmente affettuoso con cui glieli dispensava. Era imbarazzante sentirsi chiamare mia cara da una persona che si vorrebbe chiamare insopportabile stronza.


    Perry era afflosciato su una sedia in sala da pranzo, con i capelli davanti alla faccia. Dwight si avvicinò a Marion e parlò a bassa voce. – Sembra proprio che abbia bevuto del gløgg.


    – Ci penso io, – disse Marion. – Vi chiedo scusa.


    – Dobbiamo preoccuparci per Russ?


    – No, è uscito con Frances Cottrell.


    Lo spalancarsi degli occhi di Dwight la divertí.


    – Sono andati in città a consegnare giocattoli e generi alimentari.


    – Ah.


    – Ma ascolta, – disse Marion. – Judson è di sotto a guardare Il miracolo della 34a strada. Ti dispiace se lo lascio qui e torno a prenderlo dopo?


    – Niente affatto, – disse Dwight. – Se non vuoi tornare, lo porto a casa io.


    Quanto spesso in un matrimonio la cattiveria si mescolava alla gentilezza. Se gli altri il suo matrimonio non lo vedevano cosí, era solo perché non avevano mai conosciuto il suo vero io. Marion avrebbe dovuto andare giú a dire a Judson che portava a casa Perry, ma la scena nel seminterrato le aveva lasciato un retrogusto inquietante, e cosí chiese al gentile Dwight di farlo al posto suo. Quando Dwight si allontanò, andò da Perry e si accovacciò ai suoi piedi.


    – Tesoro, – disse. – Quanto sei ubriaco? Parecchio o non tanto?


    – Relativamente non tanto, – rispose Perry, la faccia ancora nascosta. – La signora Haefle ha esagerato.


    La parola relativamente non la sorprese. Lei stessa aveva cominciato a bere all’età di Perry. E guarda com’era andata a finire.


    – Cosa ti è saltato in mente? – disse. – Hai portato qui Judson. Era sotto la tua responsabilità, non ci hai pensato?


    – Mamma. Per favore. Mi dispiace tanto, va bene?


    – Tesoro, guardami. Vuoi guardarmi? Non sono arrabbiata con te. Sono solo stupita… sei sempre cosí premuroso con Judson.


    – Mi dispiace!


    Poverino. Marion gli prese le mani e lo baciò sulla testa.


    – Jay stava bene, – disse Perry. – Stava giocando a Yahtzee, e io non ero tanto sbronzo. Andava tutto bene finché…


    – Ti sei ubriacato in casa della donna sbagliata.


    Perry ridacchiò. L’opinione di sua madre su Doris Haefle gli era nota. Marion gli aveva raccontato tutta una serie di cose che non aveva raccontato agli altri figli. E ora aveva nuove cose da raccontargli. L’impetuosità di Perry, la realtà di quel figlio tanto amato, stavano bucando il tessuto delle sue fantasticherie su Bradley. – Andiamo, ti porto a casa, – disse.


    Quando Marion tornò dal guardaroba con le giacche, Perry stava mangiando un piatto di polpette. Erano allettanti, ma lo erano anche le sigarette. I vecchi cicli di nicotina e fame repressa, di ansia e sollievo, stavano ricominciando. Lasciando Perry a riempirsi un po’ lo stomaco, Marion uscí sui gradini dell’ingresso.


    Aveva fumato solo metà della Lucky quando Perry aprí la porta. Sentendosi colta con le mani nel sacco, provò l’impulso di buttare la sigaretta, ma era importante che Perry la vedesse per come era veramente.


    Lui strabuzzò gli occhi con stupore caricaturale. – Posso chiedere cosa stai facendo?


    – Anch’io ho la mia cosa proibita, stasera.


    – Tu fumi?


    – Fumavo, tanto tempo fa. Ma è un vizio terribile e tu non devi assolutamente provare.


    – Fai come dico, non come faccio.


    – Proprio cosí.


    Perry chiuse la porta e si infilò le galosce. – Posso provarne una lo stesso?


    Marion si rese conto del suo errore, troppo tardi. A un certo punto, ne era sicura, Perry avrebbe preso il fatto che lei fumava per il permesso di fumare a sua volta, e lei avrebbe avuto un altro motivo per sentirsi in colpa. Per calmare quella nuova ansia aspirò una bella boccata di fumo.


    – Perry, ascoltami. C’è solo una cosa che non potrei perdonarti. Non ti perdonerei mai se diventassi un fumatore. Hai capito?


    – Sinceramente no, – disse Perry, chiudendo le galosce. – Non ti ho mai considerata un’ipocrita.


    – Ho cominciato a fumare quando non si sapeva ancora che era pericoloso. Tu sei troppo intelligente per commettere lo stesso errore.


    – Eppure eccoti qui con una sigaretta in bocca.


    – Be’, c’è un motivo. Vorresti che te lo spiegassi?


    – Voglio che tu non muoia.


    – Non ho intenzione di morire, tesoro. Ma ci sono certe cose che devi sapere su di me. Come ti senti, adesso?


    – La sbronza non ronza piú. Bzzzz bzzzz bzzzz… visto?


    Nella storia che Marion cominciò a raccontargli, mentre camminavano verso casa, non c’era niente su Bradley Grant, niente su alcun uomo eccetto suo padre. La neve, che era caduta in abbondanza e continuava a cadere, dava alla sua voce una curiosa nitidezza pur attutendone la sonorità, come se il mondo fosse un’estensione del suo cranio. Perry ascoltava senza dir nulla, offrendole silenziosamente la mano nei punti in cui la neve aveva formato dei cumuli. Fino a quel momento lei aveva tenuto nascosto il suicidio ai suoi figli. Anche con Russ non ne parlava da molti anni; aveva la sensazione che lo spaventasse, o lo mettesse in imbarazzo; come, d’altronde, ogni altra cosa legata al suo io piú profondo. Perry aveva la faccia nascosta dal cappuccio del parka, e Marion, mentre gli descriveva il suo disturbo mentale seguito al suicidio – la dissociazione, gli episodi di slittamento, i mesi di insonnia, le settimane di depressione catatonica –, non aveva idea di come stesse reagendo.


    Arrivarono alla canonica prima che avesse finito. Nel vialetto c’erano due paia di impronte recenti, una che veniva e una che andava. Immaginando che fossero di Clem, Marion lo chiamò appena entrata in cucina, ma la casa era evidentemente vuota.


    – Chissà se è andato al concerto, – disse. – Vorrai andarci anche tu, immagino. Possiamo parlare ancora domattina.


    Perry stava mangiando un biscotto. – Se hai altro da dire, sentiamo.


    Marion recuperò le Lucky dal cappotto e aprí la porta sul retro per fare uscire il fumo.


    – Scusa, tesoro. Non ci riesco senza fumare.


    Le mani le tremavano troppo per maneggiare i fiammiferi. Perry prese la bustina e gliene accese uno. Marion, per qualche motivo, si sentiva piú giovane di lui; piú figlia che madre. Riconoscente, aspirò il fumo e cercò di soffiarlo fuori dalla porta, ma il vento lo spingeva dentro.


    – Spegnila, – disse Perry. – Ho un’idea migliore.


    – La veranda.


    – No. Il secondo piano.


    Nel buio dell’ingresso, Marion vide con stupore due enormi bagagli. Per un istante, come in sogno, pensò che fossero suoi – che stesse per partire, magari per Los Angeles. Poi capí che erano di Clem. Perché aveva portato tutta quella roba?


    Perry era corso su per le scale. Ansimando, con il cuore avvelenato, Marion lo seguí fino alla soffitta. Lí dentro non era sepolto nessun segreto colpevole. Era arrivata dallo zio Jimmy con una sola valigia, e prima di sposare Russ aveva bruciato i suoi diari nel caminetto, distruggendo le ultime testimonianze della persona che era stata. Ora i cimeli piú antichi erano quelli dell’Indiana – una culla e un seggiolone usati per l’ultima volta da Judson, un vecchio proiettore, un baule di cedro pieno di coperte e lenzuola che non valeva la pena di conservare, un guardaroba di mode che difficilmente sarebbero tornate, una tenda dell’esercito ammuffita nella quale Russ aveva erroneamente immaginato che la famiglia potesse campeggiare. Tutte cose che mettevano tristezza.


    Senza accendere la luce, Perry aprí la finestra a bifora dell’abbaino. – La casa ha una specie di effetto camino, – disse. – Anche con la porta chiusa, c’è sempre una corrente d’aria verso l’esterno.


    – Sembra che tu sappia bene come muoverti quassú.


    – Puoi usare il davanzale esterno come portacenere.


    – Aspetta un attimo. Mi stai dicendo che fumi?


    – Finisci la storia. Credevo che avessi qualcos’altro da dire.


    C’era in effetti una corrente in uscita. Marion poteva sporgere la testa dalla finestra e stare ancora relativamente al caldo – tra la neve, sentendo i fiocchi sulla faccia, senza esservi dentro. Fumare ma non essere in mezzo al fumo.


    – Ecco, be’, allora, – disse. – Alla fine sono impazzita. Sono stata arrestata dalla polizia mentre vagavo per le strade la mattina di Natale. Giusto trent’anni fa. Mi hanno portata all’ospedale della contea, e poi sono stata internata nel reparto femminile di Rancho Los Amigos, un posto che non ti raccomando. Certo, non potevano mica rimettermi in mezzo alla strada, ma venire rinchiusa in un posto con le sbarre alle finestre, circondata da donne ancora piú pazze di me… ancora non capisco come ho fatto a guarire. Gli psichiatri mi dissero che il mio cervello era rimasto adolescente. Usarono la parola plastico. Dissero che era possibile che i miei ormoni si assestassero… che li avevo alterati con l’eccessiva solitudine e con… altre cose. Non ero molto convinta, ma c’era una lista di comportamenti che dovevo esibire perché mi lasciassero andare, e io avevo un bisogno cosí disperato di uscire che alla fine li ho esibiti tutti quanti. Dunque. Questo è un altro fatto importante che mi riguarda. Sono stata ricoverata per malattia mentale quando avevo vent’anni.


    Schiacciò la sigaretta sul davanzale esterno.


    – Capisci perché ero cosí preoccupata per te, la scorsa primavera? Io e te siamo cosí simili… non siamo come gli altri. La tua insonnia, i tuoi sbalzi d’umore, credo che tu li abbia presi da me. Dal mio lato della famiglia. Mi dispiace tantissimo, ma sono cose che devi sapere. Non voglio che tu debba passare quello che ho passato io.


    Era difficile staccarsi dalla finestra, ma Marion ci riuscí. La stanza sembrava piú luminosa, ora che i suoi occhi si erano abituati. Perry era seduto sul baule di cedro, lo sguardo fisso sul pavimento. Quando Marion si sedette davanti a lui, abbassò il mento sul petto.


    – Tuo padre non sa niente di tutto questo, – gli disse. – Non gli ho mai raccontato di essere stata in ospedale… perché sono guarita. Quando l’ho conosciuto ero già guarita da diversi anni, e questo te lo devi ricordare. Gli psichiatri avevano ragione. Il tempo mi ha curata.


    Questa era una parziale bugia, cosí la ripeté.


    – Non devi preoccuparti per me, tesoro. Ma io sono preoccupata per te. Sei ancora un adolescente, e mi sei tanto caro. Devi dirmi quello che ti passa per la testa. Se c’è un problema possiamo affrontarlo, ma devi essere sincero con me. Lo farai? Mi dirai quello che pensi?


    L’alito di Perry era bollente e puzzava di alcol. Avere nominato ad alta voce, davanti a lui, la cosa per cui si sentiva piú in colpa la rendeva piú grande; piú vera; apparentemente ineluttabile. Pensò alla sua esitazione sulla porta dello studio del raviolo – alla sensazione di avere solo due possibilità, rimettersi alla volontà di Dio e consacrarsi a Perry, oppure abbandonare Dio e consacrarsi a se stessa. La cosa crudele era che le due possibilità sembravano escludersi a vicenda. Nel calore dell’alito di suo figlio sentí evaporare l’euforia, sentí il desiderio di Bradley sfuggirle di mano.


    – Tesoro? Ti prego, di’ qualcosa.


    Con un suono ansimante, quasi una risata, Perry si raddrizzò e si guardò intorno, come se non vedesse Marion seduta ai suoi piedi. – Cosa c’è da dire? Non è che sia una gran sorpresa.


    – In che senso?


    Perry sorrideva. – Lo sapevo già che ero dannato. Giusto?


    – No, no, no.


    – Non sto dicendo che è colpa tua. Però è un fatto. C’è qualcosa di brutto nella mia testa.


    – No, tesoro. Tu sei intelligente e sensibile. Non è necessariamente una brutta cosa. Può essere anche una cosa bellissima.


    – Non è vero. Ecco, vuoi vedere?


    Si alzò con sorprendente vigore e montò in piedi sul baule. Da sopra il ripostiglio prese una scatola da scarpe. Non stava affatto reagendo come Marion si aspettava. Non era angosciato per lei né spaventato per sé. Era come se fosse stato azionato un interruttore e Perry non stesse reagendo affatto. E lei conosceva quell’interruttore. Vederlo azionare da suo figlio era la peggiore forma di castigo.


    Perry tolse il coperchio della scatola e tirò fuori un sacchetto di plastica trasparente che sembrava pieno di materia vegetale. – Questi – disse – sono i semi e gli steli della roba che ho fumato quassú. Corrispondono a circa il dieci per cento del mio consumo totale, tenendo conto di altri nascondigli –. Frugò nella scatola. – Ecco le cartine. Ecco la pipetta che mi sembrava fantastica e invece non faceva per me. Il fidato accendino, naturalmente. Pinzetta per mozziconi. Mini bottiglia di collutorio. E questa… – Tirò fuori un aggeggio luccicante. – Tanto vale che tu veda anche questa. Questa è una bilancia a mano, piú o meno funzionante. Utile se sei nel settore della vendita di marijuana.


    – Maria Vergine.


    – Mi hai chiesto di essere sincero con te.


    Rimise il coperchio alla scatola. Tutto d’un pezzo, senza emozioni. Marion capí che il Perry che aveva in testa era solo una proiezione sentimentale, estrapolata dal bambino che era stato. Non conosceva il vero Perry piú di quanto Russ conoscesse la vera Marion.


    – Come è potuto succedere in cosí poco tempo? – disse, intendendo la sua trasformazione in un estraneo.


    – Tre anni non sono poco tempo.


    – Oh, cielo. Tre anni? Devo essere molto stupida e molto cieca.


    – Non necessariamente. Non è difficile nascondere il vizio della droga, se sei diligente nel seguire i protocolli.


    – Credevo che fossimo in confidenza.


    – Lo siamo, in un certo senso. Io non credevo di sapere tutto di te. E infatti sto scoprendo che avevo ragione.


    – Se vendi droga, però. Non è affatto la stessa cosa.


    – Non ne vado fiero.


    – Non devi vendere droga.


    – Per la cronaca, ho smesso. Sto provando a voltare pagina. Puoi ringraziare Becky.


    – Becky? Becky lo sa?


    – Non la parte della vendita, non credo. Ma per il resto, sí, è piuttosto beninformata.


    Davanti a quella nuova prospettiva, l’immagine dei suoi figli che cospiravano per escluderla, Marion avvertí un frastornante ritorno del suo disturbo. Evidentemente non era affatto quello che aveva creduto di essere, la madre indispensabile con cui tutti si confidavano. Aveva ingannato Russ, ma non aveva ingannato i suoi figli, e la sua intelligenza ferina fu svelta a riconoscere in tutto questo una specie di autorizzazione: se mai fosse riuscita ad andarsene, forse non avrebbero sentito tanto la sua mancanza.


    – Fumerò un’altra sigaretta, – disse.


    – Permesso accordato.


    Tornò alla finestra e accese la sigaretta. C’era ancora un po’ di energia in lei; i vecchi organi del desiderio funzionavano ancora. O questo o quello, o questo o quello. Era quasi comico osservare la sua mente che saltellava avanti e indietro fra opposti inconciliabili, madre timorata di Dio, peccatrice impenitente. Si sporse dalla finestra per quanto osava, tentando di sfuggire al calore che usciva dalla casa e di sentire l’aria invernale sulla pelle. Si sporse ancora di piú e colse una leggera folata di vento. I fiocchi di neve le si scioglievano sulle guance. Tutto era caos, ed era bellissimo.

    – Ehi, mamma, attenta, – disse Perry. 

Le armonie amplificate di Leaving on a Jet Plane, private di riverbero dalla densità della folla, uscivano dalle porte aperte del salone delle feste. Due ragazze con muffole e berretto col pompon erano sedute a un tavolo nel vestibolo. Volevano tre dollari.


    – Non sono qui per il concerto, – disse Clem. – Sto cercando Becky Hildebrandt.


    – È qui. Ma non possiamo…


    – Io tre dollari non ve li do.


    All’interno, le teste degli spettatori piú alti si stagliavano contro le luci del palco. Seduti in semicerchio con le chitarre acustiche, dietro i microfoni ad asta pieghevole, c’erano i fratelli Isner e una ragazza statuaria, Amy Jenner, con i capelli piú lunghi del busto. Clem se la ricordava bene. Due anni prima, in un esercizio di Crossroads, gli aveva passato un bigliettino che diceva Sei sexy. Era un’affermazione cosí assurda che l’aveva presa per uno scherzo, ma vedendo Amy adesso, dopo avere imparato da Sharon di cosa era fatto il mondo, la intese diversamente. La bella voce di Amy, che cantava di non voler perdere il suo innamorato, sparse sale sulla ferita che Clem si era inflitto nella camera da letto di Sharon.


    Sull’autobus per Chicago, lui e la bambina alle sue spalle si erano finalmente addormentati, ma quel sonno non era valso il costo del risveglio. Ritornare alla solitaria consapevolezza delle azioni che aveva compiuto era stato il contrario che riscuotersi da un incubo. Dopo il massacrante trasporto dei bagagli fino alla stazione, Clem aveva preso il treno delle 19,25 per New Prospect, dove un buon samaritano gli aveva offerto un passaggio. Aveva lasciato i bagagli alla canonica e si era precipitato di nuovo fuori sotto la neve, spronandosi ad andare avanti. Era deciso a non dormire finché non avesse potuto risvegliarsi sapendo di non essere solo.


    Entrò nella folla, in cerca di Becky, ma il concerto era anche una rimpatriata. Subito gli piombò addosso una versione matura di Kelly Woehlke, una ragazza con cui era cresciuto alla First Reformed. Non erano mai stati amici, e in qualunque altra serata l’abbraccio di Kelly sarebbe potuto sembrare ingiustificato. Quella sera il contatto con un corpo caldo lo fece quasi piangere. I suoi pochi veri amici di Crossroads erano troppo anti-sentimentali per degnarsi di partecipare a una rimpatriata, ma altri ex membri gli si stavano affollando intorno, e benché nell’associazione si fosse sempre sentito marginale, indifferente agli esercizi di costruzione della fiducia e alla retorica della crescita personale, Clem ricevette i loro abbracci con gratitudine, come se fossero condoglianze di parenti. Si chiese cosa avrebbe pensato Sharon di tutti quegli abbracci. Poi si pentí di esserselo chiesto, perché ogni specifico pensiero su Sharon, per quanto innocuo, scatenava un’altra ondata di dolore e senso di colpa.


    Quando finí di girare tra la folla, senza trovare Becky, i fratelli Isner ed Amy Jenner stavano cantando in tono d’esortazione cosa avrebbero fatto con un martello in vari momenti della giornata. Clem non aveva piú energie, e il chiasso era diventato un po’ infernale. Si era arenato vicino al palco, piantato davanti a una pila di altoparlanti, quando Davy, il fratello piccolo del suo amico John Goya, gli si avvicinò. Non solo Davy non era piú piccolo, ma aveva una strana aria da uomo di mezza età. – Stai cercando Becky? – gridò.


    – Sí, è qui?


    – Sono preoccupato per lei. È andata a casa?


    – No, – gridò Clem. – Vengo adesso da casa.


    Davy si accigliò.


    – È successo qualcosa? – gridò Clem.


    Per fortuna il canto cessò, lasciando solo il basso ronzio degli altoparlanti.


    – Non lo so, – disse Davy. – Sarà andata a sdraiarsi da qualche parte.


    Nelle orecchie di Clem entrò la mellifluità amplificata di Toby Isner, il maggiore dei due fratelli musicali. – Grazie a tutti. Grazie. Temo che abbiamo tempo solo per un’altra canzone.


    Toby si interruppe per lasciare spazio a manifestazioni di delusione, e qualcuno tra il pubblico gemette educatamente. La sua sincerità untuosa da ragazzo sensibile, il sorriso autoerotico con cui accompagnava le canzoni, facevano sempre accapponare la pelle a Clem. Adesso si era lasciato crescere una barba scura di dimensioni bibliche.


    – Sapete, – disse, – sono felice che siamo tutti qui riuniti stasera, tante persone fantastiche, tanti amici meravigliosi, tanto amore, tante risate. Ma voglio parlare seriamente per un minuto. Possiamo? Voglio ricordare a tutti che c’è ancora una guerra in corso. Adesso, in questo momento, in Vietnam è mattina. La gente viene ancora massacrata, e noi, cari amici, dobbiamo fermarli. Fermare questa guerra. Vogliamo che l’America se ne vada dal Vietnam adesso. Mi capite?


    Toby era talmente stronzo e vanesio che Clem quasi lo compativa. Eppure un bel po’ di persone stavano applaudendo e urlando. Toby, incoraggiato, gridò: – Voglio sentirvi, gente! Tutti insieme! Cosa vogliamo?


    Si mise la mano a coppa intorno all’orecchio, e alcune voci, soprattutto femminili, lo assecondarono. – Vogliamo la pace!


    – Piú forte, amici! Cosa vogliamo?


    – Vogliamo la pace!


    – Cosa vogliamo?


    – VOGLIAMO LA PACE!


    – Quando la vogliamo?


    – ADESSO!


    – Vogliamo la pace!


    – ADESSO!


    Anche se Davy Goya, grazie a Dio, si stava esaminando le unghie con aria indifferente, a Clem sembrò che ogni altra persona nella sala stesse scandendo lo slogan. Lui stesso aveva scandito slogan alle manifestazioni, prima di conoscere Sharon, ma ora quel suono gli sembrò cosí alienante che si vergognò di se stesso, della propria debolezza, per aver abbracciato i suoi vecchi compagni. Non solo facevano la morale agli altri restando a casa al sicuro, ma non inorridivano neppure davanti a Toby Isner. Se mai erano stati suoi simili, ora decisamente non lo erano piú.


    Toby abbassò il pugno, che aveva agitato al ritmo dello slogan, e attaccò le prime note di Blowin’ in the Wind. Un urlo si levò dal pubblico, e Clem non ce la fece piú. Si aprí un varco tra la folla e fuggí nel corridoio centrale, dove c’erano i bagni. Socchiuse la porta di quello delle donne. – Becky?


    Nessuna risposta. Controllò le altre stanze lungo il corridoio: vuote. Sentiva ancora la voce di Toby Isner, aveva ancora davanti agli occhi quel sorriso melenso sotto la barba, quando raggiunse l’ingresso principale dell’edificio. Seduta per terra accanto alla porta, con una sigaretta in bocca, c’era una ragazza in giubbotto da motociclista. Era Laura Dobrinsky.


    – Ehi, ciao Laura. Senti… per caso hai visto mia sorella?


    Laura tirò una boccata di traverso, come se non lo avesse sentito. Sembrava che avesse pianto.


    – Scusa se ti disturbo, – disse Clem. – Sto solo cercando Becky.


    Lui e Laura avevano il rapporto disinvolto di due persone che avevano stabilito da tempo di non piacersi. Laura tirò un’altra boccata di traverso. – L’ultima volta che l’ho vista era fuori come un balcone.


    – Era… cosa?


    – Fuori come un balcone.


    Gli si annebbiò la vista come se gli avessero dato un pugno. Ora capiva perché Davy Goya era preoccupato. Lasciando Laura al suo dolore privato, Clem salí di corsa due rampe di scale fino alla sala degli incontri di Crossroads. Dalla soglia, nella penombra, vide una ragazza supina su un divano, sotto un ragazzo magro. Erano entrambi vestiti, e per fortuna la ragazza non era Becky.


    – Scusate. Avete per caso visto Becky Hildebrandt?


    – No, – disse la ragazza. – Vattene.


    Mentre scendeva le scale, la mancanza di sonno lo colpí come una martellata. Si sarebbe seduto a fumare una sigaretta, se non avesse saputo che lo avrebbe fatto stare peggio. Aveva gli occhi fritti, la testa piena di marciume, le spalle indolenzite per i bagagli pesanti che aveva portato, la bocca amara per i biscotti che aveva arraffato uscendo dalla canonica, il tutto reso quasi insopportabile dalla complicazione di Becky. Clem sapeva che Perry fumava erba, ma Becky? Lui la voleva lucida e con le idee chiare, come sempre. La voleva dalla sua parte, prima di raccontare ai genitori cosa aveva fatto.


    Il corridoio del primo piano era buio, ma la porta di Rick Ambrose era socchiusa. Clem aveva sempre stimato Ambrose perché capiva il suo rapporto ambivalente con Crossroads, e lo stimava adesso perché non voleva interferire con il concerto. Nella speranza che sua sorella fosse lí, al sicuro, Clem sbirciò dentro. Ambrose era stravaccato sulla sedia della scrivania, con un libro in mano, apparentemente solo.


    Piú avanti, nel corridoio che conduceva al tempio, Clem notò una striscia di luce sotto la porta dell’ufficio del ministro associato. Evidentemente suo padre, che ora doveva trovarsi alla festa annuale degli Haefle, aveva dimenticato di spegnere la luce. Mentre passava davanti alla porta, sentí una risata che sembrava quella di Becky.


    Si fermò. Poteva essere che Becky avesse la chiave dell’ufficio? Bussò alla porta. – Becky?


    – Chi è?


    Clem ebbe uno sbalzo di pressione. La voce era quella di suo padre. Clem non si aspettava di vederlo – contava di non vederlo – prima di avere parlato con Becky e ottenuto la sua approvazione.


    – Sono io, – disse. – Clem. Becky è lí?


    Ci fu un silenzio, abbastanza lungo da risultare innaturale. Poi la porta venne aperta da suo padre. Indossava la vecchia giacca dell’Arizona, ed era stranamente pallido. – Clem, ciao.


    Non sembrava affatto contento di vedere suo figlio. Dietro di lui, con un giaccone da cacciatore e un berretto di lana coordinato, c’era un ragazzo dalla pelle chiara che in realtà, notò Clem, era una donna dai capelli corti.


    – C’è Becky?


    – Becky? No. No, ehm, questa è una nostra parrocchiana, la signora Cottrell.


    La donna gli fece un salutino con la mano. Era molto graziosa.


    – Questo è mio figlio Clem, – disse suo padre. – Io e la signora Cottrell stavamo, uh… anzi, forse puoi aiutarci. Quando hanno spalato la neve nel parcheggio le hanno bloccato la macchina. Dobbiamo tirarla fuori. Ti dispiace?


    La signora Cottrell si avvicinò a Clem e gli tese la mano. Era fresca e salda.


    – Frances, non si dimentichi i dischi. Credo che… oh, Clem, mi sembra di aver visto un paio di pale accanto alla porta d’ingresso. Io e la signora Cottrell eravamo in ritardo per… eravamo alla chiesa di Theo e. Insomma, e, sí, abbiamo avuto un, uh. Piccolo incidente.


    Qualunque fosse la cosa che Clem aveva interrotto, suo padre non avrebbe potuto essere piú nervoso.


    – Non me la sento di spalare la neve.


    – Tu…? In due ci metteremo un attimo. Andiamo? – Il vecchio spense la luce e disse, di nuovo: – Non si dimentichi i dischi.


    – Se in due ci si mette un attimo, – disse Clem, – quanto potrà metterci una persona sola?


    – Clem, la signora deve tornare a casa.


    – Ma se io non avessi bussato.


    – Ti sto chiedendo un favore. Da quando in qua ti pesa cosí un piccolo lavoretto?


    Suo padre tenne la porta aperta per la signora Cottrell, che uscí con una pila di vecchi dischi. Tutto in lei era delicato, desiderabile, e diede a Clem una brutta sensazione. Anche se aveva avvertito Becky che gli uomini come il loro padre, uomini deboli che necessitavano di lusinghe alla loro vanità, erano inclini a tradire la moglie, era orribile pensare che potesse succedere davvero – che suo padre, non potendo essere fico come Rick Ambrose, avesse messo le mani su una persona piú vicina alla sua età. Ma lei non si rendeva conto di com’era debole?


    Nel parcheggio, sotto la neve che cadeva meno fitta, gruppetti di ex membri si godevano la sigaretta dell’intervallo. Mentre la signora Cottrell puliva i finestrini della sua berlina, Clem e suo padre attaccarono la montagna di neve che le stava di fronte. Poi, per far passare la macchina sopra lo strato di fanghiglia indurita, dovettero spingerla da dietro – proprio come ai vecchi tempi, padre e figlio che lavoravano fianco a fianco – mentre lei la scuoteva con l’acceleratore. Quando infine si liberò, la signora Cottrell avanzò di qualche metro e abbassò il finestrino.


    Dal finestrino uscí una mano delicata, che fece un cenno d’invito con l’indice. Non proprio il tipico gesto di una parrocchiana a un pastore.


    L’indice ripeté il cenno.


    – Ehm… un secondo, – disse il vecchio. Trotterellò verso la macchina e si chinò accanto al finestrino aperto. Clem non sentiva cosa stava dicendo la signora Cottrell, ma doveva essere qualcosa di affascinante, perché suo padre sembrava aver dimenticato che lui era lí.


    Aspettò per almeno un minuto, disgustato dallo spettacolo del loro tête-à-tête. Poi tornò verso la chiesa, portandosi dietro le pale. Aveva già notato la station wagon di famiglia parcheggiata davanti all’ingresso, ma solo ora vide che aveva il retro sfasciato, il paraurti mancante e una luce posteriore fracassata. Il paraurti era dentro la macchina.


    Ci fu uno stridio di gomme, e suo padre arrivò di corsa alle sue spalle. – Ecco un’altra cosa con cui potrai aiutarmi domani, – disse. – Se spianiamo l’ammaccatura col martello, forse potremo riattaccare il paraurti.


    Clem osservò i danni. Aveva il petto cosí pieno di rabbia che faceva fatica a parlare. – Perché non sei alla festa degli Haefle?


    – Oh, be’, – disse suo padre, – il motivo ce l’hai davanti. Io e Frances… e la signora Cottrell siamo rimasti bloccati in città. Ho anche dovuto cambiare una gomma.


    Clem annuí. Aveva anche il collo rigido di rabbia. – Mi chiedo – disse – cosa ci faceva nel tuo ufficio. Se aveva tanta fretta di tornare a casa.


    – Aha. Sí. Era venuta a riprendersi dei dischi che… mi aveva prestato –. Suo padre fece tintinnare le chiavi della macchina. – Ti offrirei un passaggio, ma immagino che tu voglia restare al concerto.


    Senza paraurti, il retro della Fury sembrava una faccia senza bocca.


    – Non mi è sembrato – disse Clem – che avesse fretta di tornare a casa.


    – Come… poco fa? Lei… era una questione che riguarda il circolo del martedí.


    – Davvero.


    – Sí, davvero.


    – Balle.


    – Come hai detto, scusa?


    Nel salone delle feste si levò un applauso.


    – Stai mentendo, – disse Clem.


    – Ehi, aspetta un attimo…


    – Perché io so come sei fatto. È una vita che ti osservo, e adesso sono stufo.


    – Questo è… qualunque cosa tu stia insinuando… non è giusto.


    Clem si girò verso il padre. La paura che gli vide in faccia lo fece ridere. – Bugiardo.


    – Non so cosa pensi, ma…


    – Penso che la mamma è dagli Haefle e tu cadi ai piedi di una donna che non è lei.


    – Questo è… non c’è niente di male in un pastore che assiste una parrocchiana.


    – Gesú Cristo. Già solo il fatto che tu debba dirlo.


    Dal salone delle feste arrivò una folata di percussioni, congas, seguita da un altro applauso. Gli ultimi fumatori stavano rientrando. Come se la musica avesse mai risolto qualcosa. Basta guerra, amici. Dobbiamo fermare questa guerra. Il disgusto di Clem per i fricchettoni di Crossroads intensificò il disgusto per suo padre. Aveva sempre odiato i bulli, ma ora capiva che la paura altrui poteva davvero far ribollire il sangue. Incitare alla derisione. Incitare alla violenza.


    Suo padre parlò di nuovo, con voce bassa e incerta. – Io e la signora Cottrell stavamo facendo una consegna alla chiesa di Theo. Siamo partiti un po’ in ritardo, e poi c’è stato…


    – Senti, la sai una cosa? Non me ne frega un cazzo. La tua storia non mi interessa. Se hai voglia di scoparti un’altra donna, questo è un paese libero. Se ti fa sentire meglio con te stesso, io me ne sbatto i coglioni.


    Suo padre lo guardò con orrore.


    – Tanto io me ne vado, – disse Clem. – Non volevo dirtelo stasera, ma tanto vale che tu lo sappia. Ho mollato l’università. Ho già mandato una lettera all’ufficio di leva. Vado in Vietnam.


    Buttò a terra le pale e si allontanò a grandi passi.


    – Clem, – gridò suo padre. – Torna qui.


    Clem alzò il braccio e gli mostrò il dito medio mentre entrava in chiesa. L’atrio era vuoto. Laura Dobrinsky aveva lasciato due mozziconi e un bel po’ di cenere sparsa sul pavimento. Clem si fermò a riflettere su dove poteva ancora cercare Becky, e la porta alle sue spalle si spalancò.


    – Non scappare via.


    Salí di corsa una rampa di scale. Non aveva ancora controllato il vestibolo né il tempio. Era arrivato a metà del corridoio quando suo padre lo raggiunse e lo prese per una spalla. – Perché scappi da me?


    – Toglimi le mani di dosso. Sto cercando Becky.


    – È dagli Haefle con tua madre.


    – No, non c’è andata. Anche Becky è stufa di te.


    Suo padre lanciò un’occhiata alla porta aperta di Ambrose, poi aprí la porta del proprio ufficio e abbassò la voce. – Se devi dirmi qualcosa, potresti farmi la cortesia di non scappare prima che possa risponderti.


    – Cortesia? – Clem lo seguí in ufficio. – Vuoi dire, come la cortesia di lasciare la mamma dagli Haefle mentre tu intrattieni la tua amichetta?


    Suo padre accese la luce e chiuse la porta. – Se ti dessi una calmata, sarei felice di spiegarti cosa è successo stasera.


    – Sí, ma guardami negli occhi, papà. Guardami negli occhi e vedi se credo a una sola parola di quello che dici.


    – Basta cosí –. Ora anche il vecchio era arrabbiato. – Hai passato il segno il giorno del Ringraziamento e stai decisamente passando il segno adesso.


    – Perché sono stufo marcio di te.


    – E io sono stufo della tua mancanza di rispetto.


    – Hai idea di quanto sia imbarazzante essere tuo figlio?


    – Ho detto basta cosí!


    Clem avrebbe fatto volentieri a botte. Non tirava un pugno da quando era alle medie. – Vuoi picchiarmi? Vuoi provarci?


    – No, Clem.


    – Mister Nonviolenza?


    C’era un’aria di sopportazione cristiana nel modo in cui suo padre scosse la testa. Clem avrebbe voluto almeno spingerlo contro la parete, ma cosí avrebbe solo alimentato il suo vittimismo cristiano. L’unica cosa con cui poteva colpirlo erano le parole.


    – Hai almeno sentito cosa ti ho detto nel parcheggio? Ho mollato l’università.


    – Ho sentito che eri molto arrabbiato e volevi provocarmi.


    – Non ti stavo provocando. Ti stavo comunicando un fatto.


    Suo padre si lasciò cadere sulla sedia girevole. Nella macchina per scrivere c’era un foglio bianco. Lo tirò fuori e lo lisciò. – Mi dispiace che siamo partiti con il piede sbagliato. Spero che domani saremo piú civili l’uno con l’altro.


    – Ho scritto all’ufficio di leva, papà. Ho spedito la lettera stamattina.


    Il vecchio annuí fra sé, come se sapesse che non era vero. – Puoi minacciarmi quanto vuoi, ma non andrai in Vietnam.


    – Col cavolo che non ci vado.


    – Abbiamo le nostre divergenze, ma io ti conosco. Non puoi pensare che ti creda deciso a diventare un soldato. Non avrebbe senso.


    La compiaciuta certezza di suo padre – che un suo figlio non poteva che essere identico a lui – scatenò il bullo che c’era in Clem.


    – So che per te è difficile immaginarlo, – disse, – ma c’è gente che paga davvero il prezzo delle sue convinzioni. Tu e la tua piccola parrocchiana potete andare alla chiesa di Theo Crenshaw a fare i bravi bianchi. Potete strappare qualche erbaccia a Englewood e sentirvi in pace con voi stessi. Potete marciare alle vostre marce e vantarvene con la vostra congregazione di bianchi. Ma quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, non ci trovi niente di male nel mandare me al college e lasciare che un ragazzo nero combatta al mio posto in Vietnam. O un bianco povero degli Appalachi. O un navajo povero, come il figlio di Keith Durochie. Ti credi migliore di Keith? Credi che la mia vita valga piú di quella di Tommy Durochie? Credi che sia giusto che io vada al college mentre i ragazzi navajo muoiono? Questo per te ha senso?


    Il bullo si sentí soddisfatto nel vedere la confusione di suo padre quando si rese conto che parlava sul serio.


    – Nessun ragazzo americano dovrebbe essere in Vietnam, – disse piano. – Credevo che su questo fossimo d’accordo.


    – Certo che sono d’accordo. È una guerra di merda. Ma questo non…


    – È una guerra immorale. Tutte le guerre sono immorali, ma questa in particolare. Chiunque vi combatta prende parte a quell’immoralità. Mi meraviglio di dovertelo spiegare.


    – Sí, be’, io non sono come te. Papà. Casomai non l’avessi notato. Non ho avuto il privilegio di essere nato mennonita. Non credo in una divinità metafisica che mi impone di obbedire ai suoi comandamenti. Devo seguire la mia etica personale, e non so se ti ricordi, ma il mio numero della lotteria era diciannove.


    – Certo che mi ricordo. E hai ragione… è stato un sollievo immenso, per tua madre e per me, che tu abbia ottenuto un rinvio di leva. Se non sbaglio, anche tu la pensavi cosí.


    – Solo perché non ci avevo riflettuto.


    – E ora ci hai riflettuto. Bene. Capisco perché il rinvio per motivi di studio ti sembri ingiusto… il tuo è un argomento legittimo. Capisco anche che ti senta obbligato a servire il tuo paese, a causa del tuo numero della lotteria. Ma andare a combattere in quella guerra non ha alcun senso.


    – Forse per te no. Ma per me non c’è alternativa.


    – Hai già aspettato un anno… perché non aspetti un altro semestre? La maggior parte delle truppe è già tornata a casa. Fra sei mesi dubito persino che accetteranno nuove reclute.


    – È proprio per questo che voglio farlo adesso.


    – Perché? Per dimostrare qualcosa? Potresti rinunciare al rinvio e fare obiezione di coscienza. Il figlio di un obiettore, proveniente da una famiglia di religiosi… avresti delle ragioni molto valide.


    – Giusto. È quello che hai fatto tu. Ma la sai una cosa? L’uomo che prese il tuo posto nel 1944 era probabilmente bianco e di classe media. È un lusso morale che io non ho.


    – Lusso? – Suo padre picchiò il pugno sul bracciolo della sedia. – Non era un lusso morale. Era una scelta morale, e il fatto che la maggior parte degli americani approvasse la guerra non la rendeva certo piú facile. Ci chiamavano traditori. Ci chiamavano vigliacchi, volevano scacciare i nostri genitori dalle loro case… alcuni di noi sono anche finiti in prigione. Tutti noi abbiamo pagato un prezzo.


    Ricordando l’orgoglio che un tempo gli avevano ispirato i principî paterni, Clem sentí le redini del suo ragionamento allentarglisi in mano. Le strattonò con violenza. – Sí, per vostra fortuna tanti altri erano disposti a combattere contro i fascisti.


    – Quella era la loro scelta morale. Ammetto che, date le circostanze, si trattava di una scelta difendibile. Ma il Vietnam? È impossibile difendere il nostro coinvolgimento laggiú. È un massacro insensato. I ragazzi che uccidiamo sono ancora piú giovani di te.


    – Loro uccidono altri vietnamiti, papà. Puoi fare il sentimentale quanto vuoi, ma i nordvietnamiti sono gli aggressori. Si sono arruolati per uccidere, e stanno uccidendo.


    Suo padre fece una smorfia arcigna. – Da quando in qua scimmiotti Lyndon Johnson?


    – LBJ era un imbroglione. Con una mano ha firmato il Civil Rights Act e con l’altra ha mandato in Vietnam i ragazzi dei ghetti. Sto parlando proprio di questo: ipocrisia morale.


    Suo padre sospirò, come se fosse inutile continuare a discutere. – E a te non importa come potrei sentirmi io, tuo padre. Non ti importa come potrebbe sentirsi tua madre.


    – Da quando ti importa dei sentimenti della mamma?

    – Me ne importa molto.

    – Balle. Lei ti è fedele, e tu la tratti come spazzatura. Credi che non me ne accorga? Credi che Becky non se ne accorga? Di quanto sei freddo con la mamma? È come se desiderassi che non esistesse.

    Suo padre trasalí. Il colpo era andato a segno. Clem aspettò che tirasse fuori qualche altro argomento, in modo da poterglielo abbattere, ma suo padre non disse piú niente. Era indifeso contro i ragionamenti superiori del figlio, contro la sua profonda conoscenza delle sue manchevolezze. Nel silenzio, attraverso la porta, attraverso il pavimento, giungeva il pulsare di un basso lontano.

    – Comunque, – disse Clem. – Non puoi fare niente per fermarmi. Ho già spedito la lettera.

    – È vero, – disse suo padre. – Dal punto di vista legale sei libero di fare quello che vuoi. Ma dal punto di vista emotivo sei ancora molto giovane. Molto giovane e, se posso dirlo, molto preso da te stesso. A quanto pare la sola cosa che ti importa è la coerenza morale.

    – È un lavoraccio, ma qualcuno deve pur farlo.

    – Sembri convinto di avere le idee chiare, ma quando parli sento una persona che non sa piú ascoltare il suo cuore. Credi che io non ti capisca, ma io so che saresti sconvolto, completamente distrutto, se dovessi vedere un bambino bruciato con il napalm, un villaggio bombardato senza motivo. Puoi razionalizzare finché vuoi, puoi provare a sfuggire al cuore usando la ragione, ma io so che quel cuore è dentro di te. L’ho visto crescere, Dio mio, per vent’anni. Mi hai reso tanto fiero di averti come figlio. La tua gentilezza… la tua generosità… la tua lealtà… il tuo senso della giustizia… la tua bontà…

    Si interruppe, sopraffatto dall’emozione. Fino a quel momento, Clem non si era considerato altro che un avversario per suo padre; non aveva mai immaginato che la sua animosità non fosse ricambiata. Gli sembrò ingiusto – intollerabile – che suo padre gli volesse ancora bene. Incapace di pensare a una replica, aprí la porta con uno strattone e corse fuori in corridoio. In cerca di sollievo dal rimorso che gli cresceva dentro, la sua mente andò di riflesso alla persona che approvava i suoi ragionamenti, che condivideva le sue convinzioni, che si concedeva liberamente e interamente a lui. Ma il pensiero di Sharon non fece che aggravare il rimorso, perché le aveva spezzato il cuore quel giorno stesso. Glielo aveva spezzato con violenza, con spietata razionalità. L’aveva respinta con i suoi stessi argomenti morali, e lei glielo aveva detto chiaro e tondo: – Mi stai spezzando il cuore –. Risentí distintamente quelle parole, come se Sharon fosse stata lí accanto a lui.