«Salvate gli albatros...! Fermate i test nucleari subito...!»
Bagnata fradicia, la dottoressa Barbara Rafferty stava a prua del gommone, appoggiandosi alla spalla di Neil per tenersi in equilibrio mentre l'imbarcazione dondolava sul mare appena mosso. Riempiendo d'aria i polmoni affaticati ma ancora pieni d'indignazione, la donna si premette il megafono sulle labbra e lanciò il suo grido alle spiagge deserte dell'atollo.
«Diciamo no alla guerra biologica...! Salviamo gli albatros e salviamo il pianeta...!»
Un'onda passeggera spazzò la prua e le strappò quasi il megafono di mano. Lei maledì stizzita gli spruzzi giocherelloni e rimase ad ascoltare gli echi della sua voce che si rincorrevano fra le onde. Come se fossero scontenti di se stessi, gli slogan amplificati si erano spenti molto prima di raggiungere la riva. «Merda! Neil, svegliati! Cosa combini?» «Sono qui, dottoressa.»
«C'è Saint-Esprit davanti a noi. L'isola degli albatros!» «Saint-Esprit?» Neil fissò perplesso la costa deserta, che sembrava sul punto di scivolare via dall'orlo del Pacifico, poi si sforzò di mostrare una parvenza di entusiasmo. «Ce l'ha fatta a portarci qui, dottoressa.»
«Te l'avevo detto. E stai sicuro che faremo un bel casino...» «Lei fa sempre un bel casino, dappertutto...» Neil spostò il ginocchio ossuto che lei gli teneva sui reni e appoggiò la testa al gavitello macchiato di nafta. «Dottoressa, ho bisogno di dormire.»«Non adesso! Per l'amor del cielo...»
Già irritata alla vista dell'isola, che aveva descritto in termini così appassionati nelle tre settimane di viaggio da Papeete, Barbara alzò due dita in un gesto volgare che scandalizzò perfino Neil. Fra i risvolti della giacca a vento arancione le piaghe sul petto e sul collo della donna, provocate dall'acqua salata, splendevano come bruciature di sigaretta. Ma il corpo non significava nulla per lei, Neil lo sapeva bene. Per la quarantenne Barbara, laureata in medicina, le cisterne d'acqua inquinata del Bichon, l'antiquata tartana che li aveva portati fin lì da Papeete, le magre razioni, le cuccette zuppe d'acqua, non contavano nulla. La febbre dell'albatros era tutto. Se Saint-Esprit, questo atollo che non si trovava sulle carte, seicento miglia a sud-est di Tahiti, non fosse stato all'altezza delle sue aspettative, ebbene, per amore o per forza si sarebbe dovuto trasformare nel paradiso minacciato che lei aveva messo al centro della sua instancabile campagna.
«Dottoressa! Bisogna far silenzio... devo sentire il corallo.»
Dietro di loro stava il timoniere hawaiano, Kimo, con le ginocchia puntate contro le fiancate del gommone mentre lavorava di pagaia. Sedeva a cavallo del motore fuoribordo, che aveva inclinato in avanti per risparmiare carburante, come se si stesse esibendo a un rodeo. Neil lo guardava manovrare l'imbarcazione fra le onde, zigzagando in mezzo alle raffiche di spruzzi. Per essere un figlio delle isole, rifletté Neil, Kimo sembrava sorprendentemente ostile all'oceano. L'ex poliziotto di Honolulu sembrava odiare ogni onda, e immergeva le pale affilate nell'acqua nera e rigonfia come un fiociniere che aprisse decine di ferite nel fianco di una balena sonnacchiosa.
Eppure, senza Kimo non sarebbero mai riusciti a portare a termine questo raid di protesta a Saint-Esprit. L'isolotto, un tempo sede di esperimenti nucleari, era un fratello minore (più accessibile e meno sinistro) di Mururoa, che la dottoressa Barbara aveva saggiamente deciso di lasciare da parte. Il capitano Serrou, un pescatore di Papeete, li aspettava sul Bichon, due miglia al largo. Si era rifiutato di unirsi allo sbarco, prendendo alla lettera i discorsi di Barbara sugli agenti per la guerra chimica e sulle imminenti esplosioni nucleari. Solo Kimo aveva la freddezza e l'abilità per manovrare il gommone in mezzo alla barriera corallina e trovare un ingresso in quelle acque ingannevolmente tranquille sotto cui si nascondeva, a poche decine di centimetri di profondità, un Himalaya di punte aguzze.
«Andiamo alla deriva...!» Barbara scavalcò Neil e cercò di afferrare il remo dell'hawaiano. Il gommone aveva perso l'abbrivio, e la prua oscillava ricadendo sul mare che si ingrossava. «Kimo, non mollare proprio adesso...!»
«Tenga duro, dottoressa... la porterò alla sua isola.»
Mentre Barbara proteggeva il megafono dagli spruzzi, Neil afferrò la borsa impermeabile che conteneva gli attrezzi del mestiere della dottoressa. Inutile dire che la donna viaggiava senza nessuna attrezzatura medica. Invece delle siringhe ipodermiche e delle fiale di vitamina che avrebbero potuto curare le ulcere che tutti avevano sulle labbra, o magari un rotolo di garza per bendare un albatros ferito, c'erano bombolette spray, uno striscione di protesta, un machete e una videocamera per registrare i fatti salienti della spedizione. Alle stazioni televisive di Honolulu, se non proprio a quelle europee e statunitensi, avrebbe potuto interessare quel materiale filmato e il messaggio emotivo che conteneva.
«Sta arrivando, dottoressa.» Kimo curvò la schiena e spinse avanti l'imbarcazione, come un cavaliere degli abissi che incitasse un destriero riluttante. Ascoltando l'aria che spumeggiava sopra le torri di corallo, aveva trovato un ingresso nella barriera, uno stretto passaggio scavato con gli esplosivi sottomarini dagli ingegneri francesi. Sulla costa meridionale l'atollo era attraversato da canali più larghi e meno pericolosi, gli stessi che servivano a far passare le navi che rifornivano la base militare. Ma la laguna aperta avrebbe esposto i visitatori sgraditi alla reazione dei soldati a guardia dell'isola, schierati sulla spiaggia e pronti a ricacciarli in mezzo alle onde, come avevano scoperto i dimostranti antinucleari che erano sbarcati a Mururoa. Qui invece, sulla cupa costa settentrionale, avrebbero potuto scivolare a riva senza essere visti, dando il tempo a Barbara di trovare gli albatros minacciati e di esprimere a tutta forza la sua indignazione.
Con i remi sollevati, Kimo ignorò uno squalo dal dorso nero che li sorpassava inseguendo un pesciolino blu. Aspettò l'onda seguente, e spinse il gommone sulla sua cresta, in mezzo alla schiuma e ai detriti corallini che turbinavano nell'aria schizzata via dalle pareti di roccia. La barriera si inabissò, digradando nelle profondità nebbiose come il ponte eroso di un aereo. Entrarono nelle acque calme davanti alla riva, e Kimo accese il motore fuoribordo per percorrere gli ultimi cinquecento metri che li separavano dalla spiaggia.
«Kimo... Kimo...» Inginocchiata a prua, Barbara mormorava il nome del pilota, rimproverandosi di aver dubitato del suo impegno. Quanto a Neil, non aveva mai messo in dubbio la determinazione di Kimo. Durante il viaggio da Papeete l'uomo, massiccio e imperturbabile, si era sempre tenuto in disparte, dormendo e mangiando in un cassone per le vele vuoto, preparandosi al confronto che lo aspettava. Dimostrava sempre grande rispetto per la dottoressa Barbara, sopportando stoicamente i comizi ecologici con cui lei salutava l'apparizione di ogni uccello poco noto, e chiaramente considerava il sedicenne Neil Dempsey poco più che il mozzo personale della donna. Kimo aveva bruciato tutti i suoi risparmi per acquistare i biglietti aerei da Honolulu e per pagare l'affitto del Bichon, ma a volte Neil, quando lo vedeva trafficare attorno alla radio della tartana, sospettava che fosse un agente francese che si atteggiava a difensore degli albatros per tenere d'occhio quella spedizione poco ortodossa.
Otto giorni dopo essere partiti da Papeete avevano incrociato una flotta di baleniere giapponesi che scortavano un peschereccio d'alto mare attrezzato per la lavorazione dei cetacei: la nave si lasciava dietro una scia di sangue e di grasso larga un miglio che insozzava il mare. Lo spettacolo sconvolse a tal punto Barbara che Neil dovette afferrarla per la vita, temendo che volesse buttarsi fra le onde insanguinate. Mentre lottavano, con il rosso del mare che si rifletteva sulle loro guance, le mani di Neil premettero sulle natiche muscolose della donna, e questo sembrò eccitarla tanto da distrarla; poi lei si liberò dall'abbraccio e si voltò a urlare una sequela di oscenità all'indirizzo dei giapponesi ormai lontani.
Kimo, invece, era rimasto stranamente calmo, placato dalle migliaia di uccelli marini che banchettavano sui resti della balena. Negli ultimi giorni di viaggio, poi, si era privato delle sue razioni per nutrire una procellaria isolata che seguiva la tartana, anche se la dottoressa Rafferty l'aveva avvisato che stava diventando anemico.
Nutriva gli uccelli e, così amava pensare Neil, sognava per loro anche i loro sogni. Nella mente di Kimo la libertà degli albatros di spaziare nei cieli deserti del Pacifico si era confusa con la sua aspirazione a un regno hawaiano indipendente, finalmente libero dalla colonizzazione francese e americana e da tutta la loro cultura turistica, con i centri commerciali, i porticcioli e l'inquinamento.
Era stato Kimo a dire alla dottoressa che gli scienziati nucleari francesi stavano tornando a Saint-Esprit, abbandonato negli anni Settanta per trasferire la base degli esperimenti a Mururoa, un atollo delle isole Gambier abbastanza lontano da Tahiti da non porre problemi di sicurezza. I duecento nativi che abitavano Saint-Esprit erano già stati trasferiti a Moorea, nelle isole del Vento, e l'atollo con le sue torri di osservazione per le telecamere e i suoi bunker di cemento era rimasto indisturbato durante i lunghi anni della moratoria nucleare.
Però la minaccia di una nuova serie di esperimenti nucleari non era servita a mobilitare la dottoressa Rafferty, inglese di nascita e veterana dei movimenti di protesta, che in quel momento stava aiutando a dirigere un istituto per bambini handicappati a Honolulu. Infaticabile e di alti principi, la donna era stanca dell'interminabile serie di manifestazioni contro il buco dell'ozono, l'effetto serra e il massacro delle balene. Però Kimo l'aveva anche informata che su Saint-Esprit gli ingegneri francesi avevano esteso la fascia aerea militare, distruggendo un importante luogo di riproduzione degli albatros migratori, i più grossi uccelli marini del Pacifico.
Salvare gli albatros, aveva scoperto ben presto la dottoressa Rafferty, era un richiamo molto più forte per il pubblico. Il grande uccello bianco evocava vaghi ma potenti memorie di colpa e di redenzione che infiammavano l'immaginazione degli studenti dell'Università delle Hawaii, che costituivano il serbatoio naturale delle sue azioni di protesta. Il poema di Coleridge, come ricordava spesso a Neil, era il testo fondamentale di tutti i movimenti ambientalisti e per i diritti degli animali, per quanto lei stesse bene attenta a non citare mai quei versi famosi.
E adesso che erano arrivati a Saint-Esprit, dov'erano gli albatros? Mentre navigava verso la spiaggia il gommone venne circondato da uno stormo di sule: gli spudorati uccelli erano così visibili che qualsiasi pattuglia francese nel raggio di cinque miglia se ne sarebbe accorta. Si affollavano intorno all'imbarcazione, risalendo lungo le onde, cercando con il becco le piaghe sulle braccia di Neil. Barbara cercava di scacciarli agitando il megafono, e intanto scrutava la spiaggia sperando di vedere qualche segno di accoglienza ostile. L'opposizione era la sua ragione di vita, perciò essere ignorata la infastidiva: e invece adesso c'era il rischio di doversi accontentare di un pubblico di uccelli dalla voce rauca.
I continui tonfi della prua del gommone contro le onde avevano scombussolato lo stomaco di Neil. Il ragazzo si sporse oltre il bordo e vomitò, lasciando sul gavitello già sudicio qualche traccia della farina d'avena ingerita a colazione (la farina d'avena era un'ossessione di Barbara). Mentre si riparava da una sula particolarmente importuna, Neil si domandò perché mai si fosse imbarcato in questo viaggio di protesta. Non solo non c'era nessun esperimento nucleare, che sotto sotto sarebbe stato curioso di vedere, ma a quanto pareva non c'era neanche nessun albatros.
«Neil! Vedrai che una volta a terra starai meglio.» La dottoressa gli ripulì la bocca. «Cerca di non mollare. Anch'io sono nervosa.»
«Io non sono nervoso. Dove sono gli albatros?»
«Ci sono, ci sono, Neil. Sono sicura che i francesi non li hanno ammazzati.»
«Se non ci sono albatros torniamo indietro?»
«Gli albatros ci sono sempre.» La dottoressa Barbara gli teneva la testa contro la spalla, mentre un sorriso d'orgoglio le aleggiava sulle labbra screpolate. I capelli scoloriti erano tirati indietro, a liberare l'alta fronte, come se lei volesse fermamente opporre ai francesi malvagi e senza scrupoli il simbolo dei suoi principi. «Se li si cerca bene prima o poi li si trova. Adesso rimettiti in sesto. Lo sbarco non lo possiamo filmare due volte.»
Neil si chinò stancamente a guardare la borsa. «Sul serio, dottoressa, mi sento male davvero. Potrebbe essere avvelenamento da radiazioni...»
«Molto probabile. Saranno tutti quei discorsi su Eniwetok e Mururoa. Non ho mai conosciuto nessuno che sognasse gli atolli nucleari.»
«Salvate la bomba atomica...»
«Salvate Neil Dempsey.»
Neil si lasciò dare uno schiaffetto. Barbara sapeva passare dal ruolo di severa maestra a quello di madre affettuosa in modo disarmante, e lui restava senza difese. Lo toccava in continuazione, lo scrutava negli occhi, gli analizzava le urine, come se stesse facendo un continuo inventario dei suoi meccanismi, ma anche un calcolato appello alla libido di un sedicenne, appello a cui Neil non sapeva resistere, quali che ne fossero le cause. Una volta, mentre lei lo teneva abbracciato per gioco nella cambusa, con una fetta di patata dolce fra i denti, lui aveva avuto la tentazione di spogliarsi nudo di fronte a lei.
«Neil, stai pronto a cominciare le riprese. Sento odore di francesi...»
Neil estrasse la telecamera dalla sua custodia impermeabile. Kimo aveva spento il motore, e adesso le onde spingevano lentamente l'imbarcazione verso la riva, dove le palme formavano un fitto steccato sopra la spiaggia di cenere vulcanica nera. La dottoressa gettò via la giacca a vento e si piazzò a prua, a gambe divaricate e spalle erette: i suoi capelli biondi garrivano al vento come uno stendardo.
Come sempre, Neil amava riprenderla in primo piano. Vedeva nel mirino le abrasioni sul suo viso dovute alla lunga esposizione all'aria, e il capezzolo sinistro che sporgeva dal tessuto bagnato della camicia: un motivo di richiamo, quest'ultimo, per i telegiornali o per le copertine di «Quick» e di «Paris-Match». Sopraggiunse un'onda da dietro che li fece avanzare ancora: Neil si appoggiò al gavitello e zumò sul naso prominente e la bocca decisa della dottoressa Barbara, chiedendosi se vent'anni prima, quando era una studentessa di medicina a Edimburgo, lei fosse stata brutta o bella.
«Fai parecchie riprese dell'isola», gli disse lei calandosi nella parte di regista del documentario di cui era già interprete e sceneggiatrice. «E filma più uccelli che puoi.»
«Non ci sono albatros. Ci sono solo queste sule.»
«Tu filma gli uccelli... tutti gli uccelli. Santo Dio...!»
Neil si succhiò le dita intirizzite e armeggiò intorno ai minuscoli comandi della telecamera giapponese. Quando la dottoressa Rafferty lo aveva reclutato, lui lavorava part time come operatore cinematografico alla scuola di cinema dell'Università delle Hawaii, e lei si era subito convinta, nonostante le proteste di Neil, che fosse un esperto cineasta. Per fortuna la videocamera si rimise a fuoco da sola, e Neil cominciò a riprendere una veduta di Saint-Esprit. L'atollo era una catena di banchi di sabbia e di isolette coralline, l'orlo del cratere di un vulcano sommerso che racchiudeva una laguna di cinque miglia di diametro. La più grande delle isolette era situata a sud-ovest della laguna, una mezzaluna di foreste fitte e rigogliose dominate da una massa rocciosa alta più di cento metri.
Cercando gli uccelli marini minacciati, i grandi pellegrini dell'oceano, Neil panoramicò sugli scogli. Le cornici scanalate di lava azzurrina, viste assieme, sembravano il cadavere di una montagna morta da millenni, appoggiata contro il cielo come una salma seduta in una tomba scoperchiata. Una vegetazione tenace si avvinghiava ai camini nudi, ghirlande viventi che banchettavano su un complesso di sepolcri aerei. Non era ancora apparso neppure un albatros, ma sulla sommità della roccia si ergeva una torre d'acciaio, con i cavi che si perdevano nella volta della foresta.
Lo snello traliccio era troppo fragile per sostenere il peso di un ordigno nucleare, e Neil concluse che doveva trattarsi di una vecchia antenna radio. Mentre le ultime onde li sospingevano a riva, il ragazzo puntò l'obiettivo sulla torre, sperando che la sua rigorosa verticale gli desse una qualche stabilità impedendo al suo stomaco di arrivare fino in gola. Pensando ai documentari sugli esperimenti nucleari, immaginò una bomba che scoppiava là in cima, e sviluppava una sfera di plasma più caldo del sole. Nonostante tutta la passione della dottoressa per gli albatros, gli esperimenti nucleari esercitavano su di lui e sulla sua immaginazione un richiamo ben più forte. Su Saint-Esprit non era mai esplosa nessuna bomba, ma l'atollo, come del resto Eniwetok, Mururoa e Bikini, era un modello per la prova generale di Armageddon, un sogno di guerra e di morte che sfuggiva a ogni moratoria.
La poppa del gommone si sollevò mentre l'ultimo frangente li sospingeva a riva. Neil, appoggiandosi al banco mediano, ripose il megafono e la videocamera nella borsa e sigillò le chiusure impermeabili. Barbara si accucciò a prua come il capo di un commando, aggrappata al cavo dell'ancora. Col remo a due pale stretto nelle mani enormi, Kimo stava a cavalcioni del motore, mantenendo l'imbarcazione sulla cresta dell'onda. Il muro d'acqua si ruppe in una bianca cascata che rovesciò il gommone sul fianco e mandò il remo a mulinare nella schiuma.
Sbalzati fuori dalla violenta ondata, i tre finirono nell'acqua alta fino alla cintola, mentre l'imbarcazione si liberava dal mare e arrivava sbandando sulla sabbia. Neil alzò la borsa sopra la testa e fendendo la schiuma densa di sabbia cercò di avanzare verso riva, ostacolato dalla risacca. Kimo trascinò il gommone all'asciutto, sulla stretta striscia di sabbia sotto le palme, circondando con le braccia robuste il guscio di gomma tremolante come se volesse calmarlo. Barbara recuperò il remo, ma un'altra onda le sferzò le cosce, facendole perdere l'equilibrio. Cadde in ginocchio nell'acqua ribollente, si rialzò con la camicia tutta arrotolata intorno alla vita e afferrò la mano di Neil che la condusse in salvo sulla spiaggia.
«Sei un tesoro... ci siamo tutti? La videocamera dov'è?»
«È al sicuro, dottoressa.»
«Non la perdere... attraverso quelle lenti il mondo ci sta guardando...»
Sedette ansimante sulla sabbia ai piedi di Neil e si asciugò l'acqua dalle guance screpolate dal sale. Mentre espirava forte per liberarsi dal muco nasale, si voltò a fissare il mare, palesemente ammirata dalla violenza della sua aggressione. Ancora senza fiato, Neil si adagiò sulla sabbia ruvida. Dopo quelle tre settimane di viaggio, con il ponte che rollava e beccheggiava, l'immobilità dell'isola gli dava il capogiro. La nera cenere vulcanica era coperta di gusci di noci di cocco, foglie di palma giallognole, pezzetti di legno imbiancati dal mare e corazze di granchi morti che si stavano decomponendo. Sopra ogni cosa aleggiava l'odore di pesce morto. Il sole era già scomparso dietro la foresta, e l'isola era avvolta da una spuma fine e fredda. Poco più in là, fra gli alberi dietro di loro, c'era un regno di acuti stridii di insetti, vapori umidi e vegetazione fin troppo rigogliosa.
«Bene... è ora di muoversi.» Barbara si alzò e scosse l'acqua dalla camicia. «Kimo, tu hai il compito di portarci fuori di qui.»
«Va bene, dottoressa. La farò in barba al mare, per lei.» Con i piedi nell'acqua, Kimo trafficava col motore fuoribordo, liberando le prese d'aria dalla sabbia. «Aspetteremo l'alta marea, fra due ore.»
«Due ore? Speriamo che bastino. Forse i francesi sono a pranzo... Ma, dov'è Neil?»
Neil le toccò la caviglia. «Sono ancora qui, suppongo, dottoressa...»
Barbara si accucciò vicino a lui abbottonandosi la camicia, imbarazzata dal suo sguardo. «È naturale che sei qui. Non perderti d'animo, Neil. Ho bisogno di te, adesso: sei l'unico che può far funzionare la telecamera.»
Gli scostò dagli occhi i capelli umidi e gli passò la mano sulle braccia muscolose, come per ricordare a se stessa che lui era ancora il ragazzo combattivo ma indolente, perso dietro ai suoi sogni di isole atomiche e di traversate a nuoto, che aveva conosciuto una sera a Waikiki. Durante il viaggio da Papeete fino a lì lei gli aveva risparmiato i lavori più faticosi, accollando a Kimo il compito di spostare le pesanti vele e di azionare la pompa di sentina: ma adesso Neil aveva l'impressione di essere stato risparmiato in vista di un ruolo più impegnativo che non quello del cameraman della spedizione.
«Quanto tempo rimarremo a Saint-Esprit?» le domandò.
«Il tempo sufficiente per fare il film. Non possiamo ancora aiutare gli albatros, ma possiamo far sapere alla gente quello che succede qui.»
«Dottoressa...» Neil fece un gesto col braccio a indicare la spiaggia deserta e i nugoli di zanzare. «Qui non succede nulla.»
«Neil!» Barbara lo prese per le spalle e lo mise a sedere. «Fai passare un po' di corrente in quel cervello che ti ritrovi. Siamo quasi nel Duemila... assicuriamoci che il pianeta ci stia aspettando quando arriveremo.»
«È per questo che sono venuto qui», la rassicurò Neil. «Voglio salvare gli albatros, dottoressa.»
«Lo so che vuoi salvarli. E vorrei che ci fossero tanti giovani come te. Salveremo tutto qui, non solo gli albatros, ogni palma, ogni rampicante, ogni filo d'erba.» Scacciò le zanzare che ronzavano attorno alle labbra di Neil. «Salveremo anche la zanzara!»
Va da sé che lei aveva dimenticato di mettere nei bagagli qualsiasi tipo di sostanza insettifuga. Neil, figlio di un radiologo londinese che era morto tre anni prima, si chiese ancora una volta se Barbara fosse davvero un medico. Attraverso la camicia umida della donna riusciva a vedere la biancheria stazzonata tenuta insieme da spille da balia, e la cerniera lampo dei pantaloni chiusa con del filo di rame. La seguì verso il gommone che Kimo aveva finito di preparare, con la prua rivolta al mare. Barbara sedette sul gavitello di gomma, appoggiò una mano stanca sul motore e fissò perplessa le onde. Nonostante tutti i suoi appelli all'azione, adesso sembrava disorientata dalle dimensioni dell'atollo.
Però, quando Neil imbracciò la telecamera e cominciò a filmarla, si riprese. L'orizzonte era coperto da un basso soffitto di nuvole, sotto cui si stendeva un'aria grigia e marmorea, una luce perfetta per le riprese. Nonostante i vestiti stropicciati, le ulcere sulle labbra e i capelli sfibrati, le lenti della videocamera le restituivano immediatamente la fiducia in se stessa. Come sempre, Neil si scoprì attratto da quella donna eccentrica, e deciso, a ogni costo, a proteggerla dalla realtà.
Scortati dalle zanzare, si misero in marcia con l'idea di localizzare la pista d'atterraggio, e seguirono la stretta spiaggia sormontata dalle palme. In testa stava Kimo, col machete, e ogni volta che la dottoressa faceva una sosta per riposare si fermava anche lui, senza fare commenti. Mentre l'aspettava, Neil era consapevole dell'antenna radio che svettava alta sull'isola, e dei fili che partendo da essa li seguivano attraverso gli squarci nella volta della foresta. In un boschetto di tamarindi trovarono una casamatta di cemento, un totem dimenticato dell'era nucleare che sembrava più antico di una statua dell'isola di Pasqua.
L'acqua piovana filtrava giù dal fianco della collina, colando in mezzo agli alberi coperti di muschio. Un esile filo d'acqua, dopo essersi dissimulato tra le felci, si apriva in un delta di cenere impalpabile come la seta e si riversava nel mare.
Neil si bagnò i piedi: era la prima acqua fresca che trovava da quando aveva lasciato Papeete. Barbara si inginocchiò accanto a lui e si lavò il viso e le braccia. Poi tirò fuori da una tasca un nécessaire di pelle e si pettinò i capelli umidi e ondulati. Scontenta del risultato, fece una smorfia guardandosi nello specchietto e si passò la lingua sulle labbra rovinate.
«Non è un gran che, ma fa niente.»
«Ha un bell'aspetto.» Neil parlava con sincerità: era avvinto dal fascino ambiguo che emanava da quella donna di mezza età, a prima vista così trasandata. «Saranno tutti impressionati.»
«Sei tu che sei impressionato, Neil. Ma non volevo dire questo. Voglio che tutti vedano quanto siamo seri.»
«Ma lei è seria.» Fu tentato di stuzzicarla, e aggiunse: «La filmerò dal suo lato migliore».
«Ho un lato migliore? Che pensiero terribile.»
Neil la riprese mentre seguiva Kimo dentro la foresta, con i piedi che affondavano nel terreno spugnoso. L'hawaiano decimava le felci, mettendo a nudo i binari d'acciaio arrugginiti di una ferrovia a scartamento ridotto. Dappertutto c'erano i resti delle precedenti occupazioni di Saint-Esprit. Palafitte mangiate dai tarli sostenevano ancora capanne di legno con i tetti sfondati, e l'ibisco e il vilucchio crescevano in mezzo alle assi del pavimento. Su un piccolo promontorio proteso nella laguna c'era una cappelletta di lamiera ondulata, circondata dalle numerose tombe di un cimitero eretto dai missionari cattolici. I piccoli appezzamenti coltivati erano stati già da tempo riassorbiti dalla foresta. Alberi da frutto, alberi del pane ed eucalipti crescevano ormai fra le piante di taro, gli ignami selvatici e le patate dolci.
L'ambiente era soffocato dai rifiuti lasciati dai tecnici francesi, una morena di attrezzature militari abbandonate. Kimo si sedette su una tanica di benzina vuota accanto alla linea ferroviaria, spezzando le liane che la tenevano legata al terreno. Ai suoi piedi, in mezzo a pneumatici e rotoli di cavo telefonico, c'era una cassetta di legno con delle bottiglie di vino intorbidito. Dalle fitte felci emergeva una seconda torre di osservazione, con le feritoie che fissavano il nulla.
Superarono un canale di scolo e attraversarono la cortina di palme. Al di là di esse si stendeva la pista di atterraggio, spolverata di corallo sminuzzato: la sua arcana geometria disegnava le linee di un immenso altare bianco in mezzo agli alberi. A una cinquantina di metri da loro, nella macchia, sorgeva una cabina radio, con l'antenna che indicava il cielo vuoto. All'estremità meridionale la pista finiva in una barriera di dune, dove emergeva un bulldozer militare con la pala immersa nella sabbia.
Facendo dondolare il machete Kimo si avvicinò al bulldozer e batté sui suoi cingoli di metallo. Sul sedile del guidatore c'era una lattina di birra vuota. L'uomo rimase immobile, con la testa alta nel vento che soffiava impetuoso, mentre la luce del sole mandava bagliori dalla lama del machete. Perso in qualche sogno a occhi aperti del suo regno hawaiano, alla fine si voltò con uno sguardo che non ammetteva repliche, come una guida turistica che sconsigliasse al suo gruppo un sito poco interessante.
«Cosa c'è, Kimo?» chiese Barbara. «Riesci a vedere qualcosa?»
«Albatros, dottoressa... proprio albatros.»
«Albatros...?» La dottoressa afferrò Neil per un braccio e lo spinse in mezzo alla pista. «Neil, gli uccelli sono ancora qui! Prepara la telecamera.»
Raggiunsero le dune e si arrampicarono su per il pendio di sabbia turbinante, affondando nella cenere nera fino alle ginocchia. Barbara si riparò gli occhi dal vento e alzò la testa al cielo, mentre Kimo attraversava a grandi passi la spiaggia diretto verso il promontorio dove sorgeva la cappelletta.
«Kimo! Dove sono gli albatros? Non ne vedo neanche uno.»
«È pieno, dottoressa.» Kimo indicò con un gesto stanco le collinette di sabbia coperte di ammofile. «Tutti gli albatros che vuole.»
«Kimo...?»
«Laggiù.»
«Dottoressa...» Neil abbassò la telecamera, incerto se filmarla adesso che era stata colta di sorpresa. «Sono tutti attorno a noi. Non sono più nel cielo.»
Una colonia di albatros aveva nidificato in mezzo alle collinette, approfittando del vento che soffiava sulle dune. I nidi erano poco più che buchi nella sabbia, rozzamente delimitati da piume ed erba, ma tutti erano stati distrutti a calci. Le impronte di pesanti stivali si erano impresse nella cenere bagnata dalla pioggia. All'aria fredda tremolavano frammenti di guscio, e intrappolate in mezzo ai loro orli seghettati vibravano piccole piume. Gli uccellini giacevano morti nell'erba calpestata, ancora sporca della bile vomitata dai loro genitori in preda al panico. Con le ali aperte, decine di grandi uccelli stavano immobili sul bagnasciuga, bastonati a morte mentre tentavano la fuga. Contro la sabbia nera le piume arruffate brillavano come fiori bianco ghiaccio gettati in una discarica.
«Trentotto... trentanove...»
Kimo passeggiava in mezzo agli animali, il volto appena segnato da un sorriso rigido. Il machete gli penzolava dalla mano, come se l'uomo fosse stanco per aver buttato giù il cielo. Ascoltando la sua voce monotona, Neil capì che l'hawaiano stava contando gli uccelli morti, e che un numero finito di vittime, in qualche modo, avrebbe attenuato l'atrocità commessa contro quelle creature.
«Kimo... perché ammazzano gli uccelli?»
«Hanno bisogno di ampliare la pista.» Kimo parlava senza emozione, limitandosi a esporre i fatti. «L'anno scorso a Midway l'Air Force ne ha uccisi trentamila. Finivano nelle prese d'aria dei jet.»
«E i soldati francesi?» Neil scrutò la pista vuota, bianca come le penne degli albatros. «Devono essere qui da qualche parte.»
«Forse si sono stancati. Uccidere è un lavoro noioso...»
Non riuscendo a consolare l'hawaiano, Neil tornò dalla dottoressa, che stava in mezzo agli uccelli morti, ritta, i capelli scomposti sulla testa come vapori minacciosi su un vulcano. Il vento agitava le piume degli uccelli, e la spiaggia sembrava rabbrividire sotto lo sguardo della donna. Ma la bocca di Barbara era piegata in una smorfia strana, quasi un ghigno di soddisfazione.
«Neil, voglio che il mondo veda questo scempio. Assicurati di inquadrare tutti gli uccelli. Soprattutto i piccoli.»
«Sono troppi, dottoressa.» Con riluttanza, Neil sollevò la telecamera e cercò il pulsante del grandangolo. «Sembrano crisantemi...»
«Tutti, tutti! Devono essere ricordati, se lo meritano. E non dimenticare Kimo.»
Ma l'hawaiano aveva perso interesse per gli uccelli, e ora si dirigeva verso una torre di osservazione che dava sulla laguna, verso la zona di detonazione, a cinque o sei chilometri di distanza. Il cemento grigio ferro e il geroglifico formato dalle feritoie ricordarono a Neil i cupi bunker che suo padre e lui avevano esplorato a Utah Beach sulla costa della Normandia, relitti del Vallo Atlantico nazista la cui tracotante immobilità sfidava il tempo.
All'estremità settentrionale della pista i tecnici francesi avevano allestito il campo. Un pontile di legno si protendeva nella laguna, e ai pali più vicini a riva era ormeggiata una chiatta da carico. Sotto gli alberi, accanto a un capannone, stavano delle casse piene di dispositivi di segnalazione; dall'altra parte del capannone erano state scaricate una batteria di luci per l'atterraggio e una cisterna di alluminio per l'acqua. Ma non c'era traccia né di attrezzature nucleari né per la guerra chimica. Saint-Esprit, pensò Neil con una certa delusione, non era altro che una tappa di rifornimento nel viaggio aereo fra Mururoa e Tahiti.
Dopo aver filmato Barbara in mezzo agli uccelli morti, il ragazzo si pulì le scarpe dalle interiora dei pulcini e seguì la donna sulla pista. Lei camminava a grandi passi in mezzo al corallo polverizzato, sollevando nuvolette di polvere bianca, e tenendo in braccio un albatros morto. Aveva il mento e la fronte segnati di sangue, come ad ammonire il cielo di trattenere il respiro. Neil era rimasto sconvolto dal tragico destino di quegli uccelli, ma capiva bene che stava riprendendo una scena già prevista nel copione della protesta, e provata e riprovata più volte. Kimo si arrampicò sulla cisterna e appese al serbatoio sferico uno striscione, mentre Barbara, con una bomboletta, scriveva i suoi slogan sui tetti di tela delle tre tende e sfregiava con la vernice rossa le uniformi cachi appese ad asciugare. Si misero in posa insieme, l'indigeno hawaiano e la zitella inglese, accomunati dall'impegno a difendere il Pacifico minacciato.
Dieci minuti dopo, mentre faceva risentire il sonoro alla dottoressa Rafferty, che non ne fu del tutto soddisfatta, Neil si rese conto di non essere l'unico a filmare quella scena un po' artefatta. A un centinaio di metri dalla pista, accanto al sentiero che portava all'antenna radio sulla collina, tre soldati francesi in uniforme stavano osservando lo spettacolo. Un sergente, mentre i suoi uomini aspettavano dietro di lui fumando, scattava in tutta calma una serie di istantanee, come un turista che voglia registrare un bizzarro rito folcloristico. Poi, dopo aver rimesso il coperchio all'obiettivo, fece un cenno ai suoi uomini, e tutti e tre si avviarono con passo deciso verso la pista.
«Sono qui! Kimo, prendi la telecamera!» La dottoressa strappò la videocamera dalle mani di Neil e la gettò contro il petto di Kimo. «Neil, sali sulla scala e avvolgiti lo striscione sulle spalle.»
«Dottoressa... non sarebbe meglio aspettare? Sono armati.»
«Neil, cerca di aiutarmi.» Barbara lo spintonò verso la scala, posandogli a forza le mani sulla ringhiera di metallo. Nonostante l'eccitazione, i suoi occhi erano calmi, come se fosse d'accordo con i soldati francesi e si sentisse sollevata nel vederli arrivare. Prima di spingerlo su per la scala, gli disse in fretta: «Neil, ci sono milioni di giovani come te in tutto il mondo. A me non danno retta, ma a te verranno dietro».
Kimo aveva lasciato cadere a terra il machete. Si inginocchiò sulla pista e, con un'abilità che sorprese Neil cominciò a riprendere i soldati che si avvicinavano. Filmò Barbara che gridava nel megafono e terminò con il primo piano di Neil che, avvolto nello striscione, era salito con aria imbarazzata sulla scala.
«Vai, Kimo... adesso!»
Barbara fece alzare l'hawaiano. Lui le tenne i polsi, come se non volesse andarsene, poi si staccò da lei e si mise a correre lungo la pista verso la foresta, con la telecamera in mano. Quando raggiunse la cappelletta si fermò un attimo fra le tombe, come se si aspettasse che Barbara gli andasse dietro, poi scomparve tra le felci alte quasi come lui.
I soldati francesi non fecero neppure il tentativo di inseguirlo. Quando Barbara strillò contro di loro nel megafono, gettarono via le sigarette, divertiti da quell'inglese sovreccitata che inciampava nell'uccello morto ai suoi piedi. Tirandosi dietro lo striscione, Neil saltò giù dalla scala e cercò di asciugarle il sangue dalle braccia.
«Andiamo via, dottoressa. Ci arresteranno.»
«Io rimango qui, Neil. Voglio andare fino in fondo. Kimo farà vedere il video al mondo.»
«Dottoressa, al mondo non importa...»
Stava per seguire Kimo sulla pista quando il sergente francese sollevò la mano destra. Slacciò la chiusura della fondina e avanzò, indicando Neil.
«Arréte-toi! Ne bouge pas!»
Maledicendo Barbara, Neil scattò lungo la pista in mezzo alla scia di piume insanguinate. Kimo stava correndo fra gli alberi seguendo i binari della ferrovia e si dirigeva verso la spiaggia con una agilità che Neil non avrebbe mai sospettato.
«Kimo... aspettami! Kimo!»
Stava ancora chiamando quando sentì il colpo di pistola dietro di sé.
Troppe proteste
La manifestazione di protesta all'Università delle Hawaii aveva raggiunto l'acme, gonfia di retorica come i palloncini pieni di elio e decorati da slogan ecologici che si alzavano dalle incastellature ai lati del podio. Disteso sul letto, al sesto piano del Nimitz Memorial Hospital, Neil osservava alla televisione la scena, per lui così familiare. L'ultimo a parlare, un commentatore di pallacanestro del posto trasformatosi in apostolo dell'ecologia, cominciò la sua allocuzione agli studenti, e Neil abbassò il volume.
Il ragazzo ormai conosceva a memoria quel comizio aggressivo, un misto di fervore religioso, di altisonanti similitudini sportive e di scoppiettanti minacce al console francese di Honolulu e ai turisti francesi che impudentemente contaminavano le spiagge di Waikiki. Comprare una Citroen o un foulard di Hermes era un peccato che equivaleva alla distruzione di dieci acri di foresta pluviale o all'assassinio di cento albatros.
L'ospedale si trovava a quasi due chilometri dalla manifestazione, ma dalla finestra aperta Neil riusciva a sentire la voce amplificata che rimbalzava dai tetti delle case. I megafoni lo ricacciavano a forza nei suoi sogni più profondi. La sua ultima difesa contro i movimenti di protesta era quella di escludere del tutto l'audio del televisore, ma anche così dall'altoparlante sembrava che uscisse in continuazione lo slogan ossessivo «Salvate gli albatros». Ogni menzione del nome dell'albatros migratore (nessun esemplare di quella specie faceva il nido nelle isole Hawaii, gli aveva detto un ornitologo dilettante del reparto nefrologia) scatenava nel suo piede ferito un accesso di dolore.
«Salvate la fregata», mormorava Neil. «Salvate il quetzal...»
La pallottola sparata dal sergente francese aveva colpito l'avampiede ed era uscita in mezzo alle ossa del metatarso, causando quella che i medici definivano un'amputazione parziale dell'alluce. Sei settimane più tardi, Neil si muoveva zoppicando dolorosamente: era il postumo dell'infezione alla guaina muscolare che i paramedici di Papeete non erano riusciti a stroncare, mentre le autorità francesi cercavano ancora di resistere alla campagna dei media di tutto il mondo per il suo rilascio.
La ferita era ancora aperta quando Neil, alla fine, fu trasferito a Honolulu. Ma nei telegiornali le immagini della fasciatura insanguinata erano state un colpo da maestro: l'effetto propagandistico era stato maggiore di quello delle stigmate di un santo. Barbara lo aveva abbracciato trepidante sulla barella, assicurando le telecamere che quelle poche gocce purpuree riscattavano il mare di sangue versato dagli uccelli massacrati. La dottoressa non sarebbe riuscita a trovare un bersaglio migliore neppure se avesse tenuto lei stessa la pistola in mano.
Anche la madre di Neil e il patrigno del ragazzo, il colonnello Stamford, erano rimasti colpiti dalla nuova fama di Neil. Erano arrivati in volo da Atlanta per stare con lui fin dalla prima settimana del suo trasferimento al Nimitz, e adesso sedevano accanto al suo letto, circondati dai grandi mazzi di fiori che continuavano ad arrivare al ragazzo. Accettando una rosa da Neil, la madre guardava i petali rosso sangue come se fossero stati immersi nel cuore del figlio. Neil aveva promesso al patrigno che li avrebbe raggiunti ad Atlanta non appena fosse stato in grado di camminare fino all'aereo, ma il colonnello insisteva perché rimanesse a Honolulu almeno un altro mese: forse pensava che la celebrità di Neil fosse una buona terapia per liberare l'irrequieto ragazzo dai ricordi del padre morto.
Un palloncino con l'immagine stilizzata di un albatros sorvolò il parcheggio dell'ospedale. Sullo schermo l'apostolo cestista aveva cominciato la sua perorazione finale. Neil teneva il telecomando con il pollice ben schiacciato sul tasto del muto, ma la porta della stanza si aprì per far entrare l'infermiera Crawford, un'abile windsurfer di Cape Town che aveva incontrato a Waikiki durante una festa sulla spiaggia: l'infermiera andò all'apparecchio e alzò il volume.
«...E non dimentichiamo la persona che ha dato tutto per la lotta contro il terrorismo ecologico: Neil Dempsey, che in questo momento si trova al Nimitz. La pallottola francese che lo ha colpito era diretta contro ognuno di noi, contro ogni albatros, ogni delfino, ogni balena. Noi siamo con te, Neil, siamo distesi accanto a te in quel letto di dolore...»
L'infermiera alzò scherzosamente il lenzuolo di Neil, roteando gli occhi mentre il giovane si proteggeva l'inguine col telecomando.
«Neil, chi c'è disteso accanto a te? Spero che tu non abbia già dato via tutto. Sai, qui ci aspettiamo tutte un trattamento di favore.»
Neil le tirò via il lenzuolo dalle mani, ma si lasciò dare un pizzicotto alle costole. «Ti lascerò qualcosa, Carole.»
«Attento ai cuori in fiamme, Neil.» L'infermiera sogghignò al televisore. «Guarda guarda chi si vede. La grande dottoressa, che muore dalla voglia di salvare il mondo. Che ne dici della sua nuova pettinatura?»
Neil rimise in ordine i telegrammi di auguri che gli erano arrivati. «Mi sembra meravigliosa. La dottoressa Rafferty è sempre a posto in ogni situazione. A me lei piace.»
«Ci mancherebbe altro: ti ha quasi fatto ammazzare. Come si può competere con questo? Però riguardati, Neil...»
«Sto bene. Non preoccuparti per me, Carole.»
«È la stessa cosa che hai detto prima di partire con la dottoressa e Kimo.» L'infermiera sedette sul letto: non riusciva ancora a capire Neil, nonostante le settimane passate a lavarlo e a dargli da mangiare. «Perché sei andato in quell'isola, Neil? A te degli albatros non importa nulla.»
«Forse no. Saint-Esprit è una sede di esperimenti nucleari, come gli atolli di Eniwetok e Kwajalein. Volevo vederlo.»
«Perché?»
Neil si strinse nelle spalle. «Non te lo saprei dire. Non sono mai riuscito a capirlo. Forse perché è lì che comincia il futuro.»
«Il futuro? Neil, tutta questa storia della guerra atomica è finita da un pezzo.»
«Per me no.» Neil le puntò contro il telecomando e schiacciò il tasto del muto. «Il fatto è che a Saint-Esprit non hanno mai fatto esplodere nessuna bomba.»
«E allora?»
«E allora è una cosa che deve ancora succedere. La vita e la morte, Carole, cose di cui non hanno mai sentito parlare a Waikiki.»
«Hanno sentito parlare della vita, ed è quello che mi tocca sopportare tutti i santi giorni. Mentre non so se si possa dire lo stesso della tua amica, la dottoressa Rafferty.»
Neil lasciò correre. «Lei vuole salvare gli albatros. C'è qualcosa di male?»
«Può darsi di sì, Neil. Sì, penso che ci sia...»
* * *
Quando l'infermiera se ne fu andata, Neil si rimise a guardare la manifestazione. Barbara era salita sul podio, salutata dall'applauso del comitato d'azione: un ex astronauta, due accademici superimpegnati, un venditore d'auto con pronunciato senso civico e tre mogli di uomini d'affari del posto. Lo schermo era silenzioso, ma Neil aveva imparato a leggere le labbra: la dottoressa salutava gli studenti ringraziandoli per il loro aiuto e per i contributi in denaro. I suoi capelli biondi si agitavano sulle spalle dell'elegante sahariana, ma il suo lieve sorriso restava ben saldo sulle labbra mentre i freddi occhi azzurri, stabilizzati da qualche giroscopio interno, valutavano le dimensioni del pubblico e il probabile introito della colletta.
«Salvate la fenice...» mormorò Neil. La manifestazione, nonostante tutti i palloncini e gli applausi, aveva attirato meno persone rispetto alle precedenti iniziative di Barbara. L'indignazione, anche nella variante più radicale di cui la dottoressa sembrava avere il brevetto, aveva vita breve sugli scaffali del sentimento collettivo. Il suo marchio di fabbrica, l'albatros, l'uccello dalle grandi ali che vola sull'oceano, era particolarmente adatto a suscitare sensi di colpa. Eppure a Barbara erano mancati i risultati concreti del tipo di quelli raggiunti da Greenpeace, da Amnesty International e dai concerti Live Aid degli anni Ottanta. Il governo francese continuava a negare che a Saint-Esprit sarebbero ripresi gli esperimenti nucleari. Nonostante tutti i filmati delle torri di osservazione coperte di graffiti che Kimo aveva fornito alle reti televisive, una campagna antinucleare non riusciva più a raccogliere le folle. Agli incontri organizzati da Barbara il grosso del pubblico era formato da turisti, attempate coppie giapponesi e famiglie di Sydney o di Vancouver, per cui una manifestazione di protesta ecologista faceva parte della vacanza, come i mangiatori di fuoco, i borseggiatori e i propagandisti di night-club. Barbara era una specie di personaggio minore dei media, veniva invitata ai talk-show e ai programmi sugli animali, dove mostrava i suoi video sulle atrocità contro gli uccelli. Aveva il suo gruppo di fedeli seguaci, ma non il sostegno dei gruppi animalisti ufficiali.
Ciononostante, lei continuava imperterrita a rivolgersi al suo pubblico con il fervore di sempre. Le ulcere provocate dall'acqua salmastra erano guarite, e anche l'infezione agli occhi che aveva rifiutato di lasciarsi curare dai medici francesi con i loro antibiotici («testati sugli animali e sui volontari del terzo mondo!») Aveva messo su un po' di peso, grazie anche alle numerose cene per raccogliere fondi, e il microclima degli studi televisivi le aveva lasciato un volto gradevolmente pallido.
Neil ricordava come lei l'avesse cullato tra le braccia mentre lo portavano giù dall'aereo, a Honolulu: un atteggiamento completamente diverso da quello aggressivo di quando lui giaceva sanguinante sulla pista di Saint-Esprit, e lei fronteggiava il sergente francese che agitava la pistola con lo sguardo di trionfo di una cacciatrice a guardia della sua preda. Ma, a dispetto di tutti gli sforzi della donna, il suo pubblico non era più quello di una volta.
«Dottoressa, dovrà spararmi nell'altro piede...»
Neil si massaggiò il polpaccio dolorante, pensando alla donna eccentrica e disordinata che aveva visto per la prima volta cinque mesi prima davanti a un albergo di Waikiki, mentre urlava improperi all'indirizzo dei portieri, esasperati dalla sua stridula voce inglese e dallo striscione che lei sventolava in faccia agli ospiti.
Neil stava lasciando l'albergo dopo una cena d'addio con sua madre e il suo patrigno. Avendo finito il suo periodo di servizio alle Hawaii, il colonnello Stamford era stato destinato a una base in Georgia. La madre di Neil, rimasta vedova, aveva conosciuto il colonnello poco dopo la morte del marito, mentre lavorava come responsabile del servizio ristoro in un circolo ufficiali a Londra. A Neil piaceva quell'affabile californiano, che lo spronava sempre ad arruolarsi nel corpo dei marine e a trovare una nuova direzione alla sua vita, e aveva accettato volentieri l'invito a raggiungerli a Honolulu.
Neil era ancora turbato dal suicidio del padre, che era radiologo e si era autodiagnosticato un cancro al polmone, decidendo di togliersi la vita finché poteva ancora respirare senza troppo dolore. Ma il suicidio era un gesto che poteva suggestionare, e spesso passava di padre in figlio come un gene pericoloso: così aveva detto alla signora Dempsey, con poco tatto, un consulente dell'ospedale. Cercando di allontanarsi da tutto quel che gli ricordava il padre, Neil abbandonò ogni speranza di studiare medicina. Riempì il vuoto che così si era creato nella sua vita con il body building, il judo e il nuoto su grandi distanze, macinando ogni settimana centinaia di vasche nella sua piscina di Londra. Nuotò nel Tamigi, dal ponte di Chelsea fino alla prima chiusa di Teddington, facendola in barba alla polizia fluviale che voleva impedirglielo. E soprattutto si dilettava a fare lunghe nuotate notturne, immerso in un profondo sogno di spossatezza e di acqua oscura.
Il colonnello Stamford fu attirato dal fisico possente di questo malinconico sedicenne e dai suoi progetti di attraversare a nuoto la Manica di notte, e gli parlò dei grandi mari attorno alle Hawaii. Una volta che Neil fu arrivato, il mondo della spiaggia di Waikiki lo risucchiò completamente. Gli mancava Louise, la sua ragazza, una studentessa di musica nevrotica ma affettuosa, e le mandò delle videocassette in cui lui faceva il surf dalle parti di Diamond Head. Annoiato dalle cose che faceva in classe, piantò lì la scuola e fece il marinaio sugli yacht e l'inserviente in una piscina, prima di trovare un lavoro part time come proiezionista alla scuola di cinema dell'università. Nel tempo libero si preparava per la sfida che si era scelto, la nuotata di trenta miglia nel canale di Kaiwi, da Makapuu Head fino alla vicina isola di Molokai.
Quando sua madre e il colonnello Stamford gli dissero del loro imminente trasferimento in Georgia, Neil chiese di poter restare a Honolulu per l'estate, e fu sorpreso quando la madre accettò: in realtà capiva che lei, in quel suo modo vago, cominciava a respingerlo. Donna ansiosa, facile alla stanchezza, vedeva nelle spalle quadrate e nella mascella da pugile del figlio un'inquietante somiglianza con il marito morto. Lei e il colonnello sistemarono Neil in un pensionato studentesco vicino all'università, e festeggiarono la partenza con una cena a Waikiki, per l'ultima volta. Dopo la cena Neil baciò la guancia troppo imbellettata della madre e accettò l'amichevole ma potente abbraccio del patrigno. Poi aprì le porte ed entrò nel mondo donchisciottesco e severo della dottoressa Barbara Rafferty.
Quando era arrivato all'albergo, Neil aveva notato quella donna di mezza età, avvolta in logori indumenti di cotone. Stava accovacciata nel parcheggio, in mezzo a due limousine, trafficando con un involto di carta, e lui l'aveva presa per una mendicante o una barbona che sperasse di raggranellare qualche dollaro dai delegati a un convegno sulla sicurezza marittima. E invece due ore dopo, quando uscì, lei era ancora lì che si aggirava intorno alla fontana davanti all'ingresso. Vedendo Neil che usciva, lei agitò uno striscione improvvisato gridando con forte accento inglese:
«Salvate gli albatros! Basta con l'inquinamento petrolifero!»
Ma prima che potesse avvicinarsi a Neil, i portieri le furono addosso e la cacciarono via. La spintonarono violentemente oltre i cancelli dell'albergo, sul viale, e gettarono a terra lo striscione. Lei si inginocchiò accanto al suo simbolo di protesta, con la gonna che le scopriva le cosce bianche, e si toccò con la mano il mento ferito.
Attirato dal suo accento inglese, Neil le si avvicinò e l'aiutò a rialzarsi. Lei accettò il fazzoletto che lui le porgeva e si asciugò le lacrime, lacrime di indignazione più che di dolore.
«Lei è uno dei delegati?» gli chiese guardando perplessa e accigliata il suo giovane viso. «Se adesso mandano i ragazzini vuol dire che hanno davvero qualcosa da nascondere.»
«Non sono un delegato.» Neil cercò di calmarle il tremito delle spalle, ma lei lo respinse. «Sono venuto per salutare mia madre e il mio patrigno. Lui è colonnello nell'esercito degli Stati Uniti.»
«L'esercito americano? È una delle più grandi minacce per l'ambiente mondiale.» Si sfregò via lo sporco dalle mani. «Non serve a niente salutarsi, loro ci hanno salutato molto tempo fa. Senti, hai la macchina?»
«Sono venuto in autobus», mentì Neil. La jeep usata dell'esercito che aveva comprato per far piacere al patrigno era parcheggiata un centinaio di metri più in là, lungo la spiaggia, ma Neil decise che era meglio prendere un po' le distanze da quell'inglese mezza matta. Piegando lo striscione vide lo slogan dipinto a mano in inchiostro rosso. «Salvate gli albatros», ripeté «Hanno bisogno di essere salvati?»
«Certo che ne hanno bisogno. Be', sono contenta che tu abbia sentito parlare degli albatros.»
«Tutti ne hanno sentito parlare.» Neil indicò il cielo sopra Diamond Head, che incupiva nella sera sotto una corona di nuvole. «Sono uccelli marini molto comuni.»
«Fra poco saranno molto meno comuni. I francesi li stanno uccidendo a Saint-Esprit, li avvelenano a migliaia.»
«E una vergogna...» Neil cercò di sembrare partecipe. «Ma è un'isola per gli esperimenti nucleari.»
«Hai sentito parlare anche di questo? È sorprendente.»
Una frotta di turisti in festa uscì dall'albergo e si mise ad aspettare le limousine, ma una lite fra gli autisti e la loro guida li lasciò lì in piedi, a disagio. Vista la possibilità che le si presentava, l'inglese aprì il suo striscione. Poi, cercando di rendersi presentabile, si tirò indietro i capelli biondi dalla fronte e distese i muscoli del viso, per sovrapporre ai suoi lineamenti bellicosi un fiero sorriso. Tirò fuori dalla borsa un fascio di volantini e li cacciò in mano a Neil. «Comincia a distribuirli. Puoi dire al portiere che sei un ospite dell'albergo.»
«Guardi... è terribile per gli albatros, ma devo andare.» Neil pensò che sua madre e il colonnello potevano uscire in qualsiasi momento e vederlo coinvolto in quella curiosa dimostrazione. Nascondendo il viso dietro i volantini, vide che il Fondo Salviamo gli Albatros invitava a mandare contributi al suo tesoriere e segretario, Barbara Rafferty, presso un asilo in un quartiere povero di Honolulu.
«Avanti, non essere timido.» La donna sembrava divertita. «Aiutami a tenere lo striscione: la prima volta non è necessario che pensi a tutto tu. Perché sei così muscoloso? Gli steroidi non fanno bene ai testicoli. In pochi anni rischi di non essere di nessuna utilità per le tue amichette.»
«Non ho bisogno di steroidi...» Neil lasciò andare lo striscione, che cadde addosso alla donna avvolgendola di lettere rosse come una fasciatura. «Buona fortuna, signora Rafferty.»
«Dottoressa Rafferty. Ma tu puoi chiamarmi dottoressa Barbara. E adesso stai lì e grida insieme a me. Salvate gli... albatros!»
Neil la lasciò gridare all'indirizzo dei turisti annoiati che si infilavano nelle limousine diretti ai night-club di Waikiki. I movimenti ecologisti non avevano mai suscitato il suo interesse, per quanto simpatizzasse con gli attivisti che cercavano di salvare le balene o di proteggere le spiagge dove rare specie di tartarughe venivano a deporre le uova dopo un lunghissimo viaggio nell'oceano. Le balene e le tartarughe nuotavano, come lui. Ma l'ossessivo buonismo di tanti gruppi animalisti aveva una vena di intolleranza e di ipocrisia. Sperimentare le sostanze chimiche era necessario, come per l'antibiotico che curava la strana forma di polmonite che aveva contratto dopo aver nuotato nel Severn. Sua madre e Louise avrebbero continuato a usare rossetto e mascara; per evitare loro un cancro alle labbra o agli occhi valeva bene la pena di far morire in laboratorio qualche coniglio, che altrimenti sarebbe comunque finito in pentola.
Ma nella campagna solitaria di questa dottoressa inglese qualcosa l'aveva colpito. La partenza di sua madre e l'arrivo della dottoressa Rafferty sembravano in qualche modo collegati. Neil sapeva di essere attirato dalle donne più vecchie di lui: gli era successo con la direttrice del pensionato e con una assistente della facoltà di studi cinematografici, una donna sulla quarantina. Entrambe lo avevano notato e avevano cominciato a flirtare con lui. Mentre salutava sua madre e il colonnello Stamford all'aeroporto, Neil si accorse che stava pensando alla dottoressa Rafferty.
Una settimana dopo, nel centro di Honolulu, vide lo striscione rosso sangue legato alla cancellata dell'Ufficio postale federale. Si era radunata una piccola folla di curiosi, mentre i poliziotti tagliavano le cordicelle. La dottoressa Rafferty stava lì vicino, cantilenando i suoi slogan come uno spaventapasseri con altoparlante incorporato. Sperava di essere arrestata, ed era più intenta a provocare i poliziotti annoiati che a convertire alla sua causa i passanti. Un uomo anziano in giacca e cravatta nere, come l'impiegato di un'impresa di pompe funebri, si avvicinò e cercò di parlarle, ma lei lo allontanò con un gesto, guardando il traffico in cerca di giornalisti o telecamere. I poliziotti confiscarono lo striscione, e uno di loro le diede un colpo sulla spalla a mano aperta con tanta forza che per poco lei non cadde per terra. Senza protestare la donna si voltò e passò accanto a Neil, allontanandosi e perdendosi tra i pedoni che tornavano a casa per il pranzo.
Nonostante questa battuta d'arresto la dottoressa aveva continuato la sua campagna solitaria. Neil la vide arringare i surfer sulla spiaggia di Waikiki, distribuire volantini ai turisti nello Union Street Mall, attaccare bottone con un gruppo di sacerdoti che seguivano una conferenza allo Iolani Palace. Spesso era stanca e scoraggiata, col suo striscione e i suoi volantini dentro una borsa sdrucita: la megera del movimento animalista.
Neil era preoccupato per lei, proprio nello stesso modo in cui si era preoccupato per sua madre nei mesi seguenti alla morte del padre. Anche sua madre aveva trascurato se stessa, tormentandosi continuamente per Neil e per le misteriose ma incombenti minacce al benessere di lui, al punto che il ragazzo aveva finito per sentirsi una specie a rischio. Ricordando quei giorni di tensione, gli venne naturale simpatizzare con gli albatros, poveri uccelli con le ali appesantite da tutti quegli slogan e quei ricatti morali.
Neil fu sorpreso di trovare che nella campagna della dottoressa Rafferty c'era un elemento di verità. In un giornale di Honolulu lesse infatti che le autorità francesi di Tahiti si erano rimangiate la decisione di riportare a Saint-Esprit gli abitanti originari. Ingegneri dell'esercito stavano allungando la pista dell'aeroporto, e si vociferava che il governo di Parigi potesse interrompere la moratoria sugli esperimenti nucleari.
Neil ammirava segretamente i francesi per la loro determinazione a mantenere un arsenale nucleare, proprio come ammirava i grandi scienziati che durante la guerra avevano lavorato al Progetto Manhattan. Negli anni Sessanta il padre di Neil, in qualità di radiologo dell'aviazione, aveva partecipato agli esperimenti nucleari britannici che si tenevano nella base di Maralinga in Australia, e infatti adesso la vedova sosteneva che il cancro del marito probabilmente risaliva a quelle esplosioni atomiche e ai rudimentali sistemi di sicurezza dell'epoca. Spesso lei fissava Neil come per chiedersi se i geni irradiati del padre avessero qualcosa a che fare con il carattere introverso e ostinato del ragazzo. Una volta Neil si fece prestare una moto e arrivò sino alla base missilistica di Greenham Common, spinto dal ricordo delle armi nucleari nei loro silos e dal manipolo di donne che ancora protestavano nel campeggio a ridosso del recinto del campo. Cercò anche, ma senza successo, di ingraziarsi queste manifestanti spiegando che anche lui avrebbe potuto essere una vittima del nucleare.
La potenza delle esplosioni atomiche sperimentali, portenti di un'apocalisse ora dimenticata, avevano avuto un ruolo importante nella sua decisione di andare nel Pacifico. Nella sala proiezioni della scuola di cinema mentre visionava notiziari dell'epoca della guerra fredda per il corso di storia contemporanea, aveva fissato pieno di soggezione le immani esplosioni sulle lagune di Eniwetok e Bikini, luoghi sacri dell'immaginario del Ventesimo secolo. Ma non l'avrebbe mai ammesso con nessuno, anzi si sentiva vagamente in colpa, come se il fascino che esercitavano su di lui le armi nucleari e la morte elettromagnetica, vista retrospettivamente, fosse stata la causa del cancro di suo padre.
Cos'avrebbe detto di tutto questo la dottoressa Rafferty? Un pomeriggio, mentre lui stava comprando un orologio subacqueo in un negozio specializzato di Waikiki, la vide tirar fuori il suo striscione e i volantini e decise di seguirla nel suo peregrinare davanti a bar e ristoranti, mentre scuoteva la testa scoraggiata. A un certo punto lei si fermò a un caffè all'aperto e fissò il menu, facendo scorrere un dito con l'unghia spezzata sulla lista dei prezzi. Vincendo l'imbarazzo, Neil si avvicinò.
«Dottoressa Barbara? Posso offrirle un sandwich? Dev'essere stanca.»
«Sono stanca.» Sembrava ricordarsi di Neil e dei suoi modi semplici e diretti, e lasciò che lui le portasse la borsa. «Guarda questo posto: comprare, comprare, comprare, e a nessuno gliene importa un accidente se il mondo reale gli sta scomparendo sotto i piedi. Ti ho già visto da qualche parte. Ah sì, gli steroidi: sei quello che fa body building. Bene, forse puoi aiutarmi a ricostruire il mio, di corpo. Vediamo se qui servono qualcosa che non sia pieno di ormoni.»
Sedettero a un tavolo vicino all'ingresso, da dove Barbara porgeva i volantini a quelli che entravano. Lei ordinò un sandwich al pomodoro e lattuga, dopo un'accesa discussione con la cameriera sull'origine della maionese.
«Evita la carne», disse a Neil, ancora incerta su quello che stava facendo in compagnia di quel giovane britannico. «È infarcita di ormoni e antibiotici. Gli uomini occidentali si stanno già femminilizzando, lo si vede tutti i giorni: grandi seni, fianchi grassi, scroto piccolo...»
Neil era contento di farla parlare, e guardava il sandwich scomparire tra i suoi denti forti. Per ragioni che non capiva ancora bene, gli piaceva vederla mangiare. Le sue gengive chiare, la lingua rosea, i muscoli della gola, tutto di lei lo affascinava. Vista da vicino, Barbara era molto meno depressa e deprimente della donna che lui vedeva litigare con i poliziotti e i turisti. Di fronte alla sua forza di volontà la stoffa stazzonata dei vestiti di cotone e i capelli mal tenuti scomparivano.
Lei si allungò sulla sedia e si ripulì vigorosamente i denti usando l'indice. «Ne avevo proprio bisogno... oggi hai dato il tuo piccolo contributo alla causa degli albatros.» Vide che Neil guardava orgoglioso il suo orologio subacqueo montato in gomma. «Cos'è? Un altro di quegli orribili videogiochi?»
«È un cronometro di profondità. Mi sto preparando per attraversare a nuoto il canale di Kaiwi fino a Molokai.»
«A nuoto? È una bella distanza. Perché non prendi l'aereo?»
«Così non sarebbe una sfida. Il nuoto di fondo è... è quello che faccio io.» Cercando qualcosa di divertente da dirle, aggiunse: «Faccia conto che sia per me come l'albatros per lei.»
«Davvero? E tu che cosa stai cercando di salvare?»
«Ah, niente. È difficile da spiegare, è come nuotare in un fiume di notte.» Esagerando un po' per farsi bello disse: «Ho attraversato il Tamigi dal Tower Bridge fino a Teddington».
«Ed è consentito?»
«No. La polizia fluviale aveva acceso i fari. Vedevo i raggi di luce attraverso l'acqua...»
«Nuoto di fondo... tutte queste endorfine che scorrono per ore. Per quanto, non sembri affaticato.» Barbara spinse da un lato i volantini, intrigata da questo ragazzo affabile ma ostinato che le era venuto in aiuto. «Forse sei davvero un fanatico. Fisicamente sei molto forte, ma mentalmente...? Quando è cominciata questa storia?»
«Due anni fa, dopo che è morto mio padre. Era un medico anche lui. Avevo bisogno di smettere di pensare, per un po'.»
«Ottima idea. È qualcosa che dovrebbe fare molta gente. E tua madre?»
«Sta bene, la maggior parte del tempo. Ha sposato un colonnello americano. Lui è le è molto affezionato. Sono appena tornati ad Atlanta.»
«Così tu sei solo qui a Honolulu, e vuoi attraversare a nuoto il canale di Kaiwi. Loro lo sanno?»
«Certo. Non pensano che io faccia sul serio. È una distanza troppo grande, anche con una barca al seguito. Ma non è questo il punto.»
«E qual è?» Barbara si chinò in avanti, cercando di vedere gli occhi di Neil attraverso i capelli che li coprivano. «O forse non lo sai?»
Neil coprì il quadrante del suo cronometro, come se volesse tenere per sé il tempo segreto del mare. «La gente crede che nelle nuotate su grande distanza tu sia solo. Ma dopo cinque miglia non sei più solo. Il mare fluisce nella tua mente e comincia a sognare dentro la tua testa. No, lei non può capire.»
«Forse posso, invece.» I modi di Barbara erano meno pungenti, adesso. Teneva la mano di Neil fra le sue, come se lo stesse guidando attraverso una soglia. «Allora sai perché voglio salvare gli albatros.»
Neil sentiva la pressione delle dita sul suo palmo, le unghie spezzate che cercavano le linee del cuore e della vita. Sentiva il respiro di lei, intenso, fresco. Si era già appassionato a questa donna tanto più vecchia di lui; forse lo avrebbe protetto come voleva fare con gli albatros?
«Quando faccio la traversata per Molokai lei potrebbe accompagnarmi. È meglio se c'è un medico sulla barca al seguito. Lei ha i requisiti?»
«Certo che li ho. Ho esercitato ad Hammersmith per sei anni. Però non credo che ti servirà mai una ginecologa, a meno che tu non usi troppi steroidi.»
«Mio padre era radiologo al Guy. Una volta mi ha fatto i raggi X al cranio.»
«Chissà che cosa ci ha trovato.» Barbara scostò i capelli dall'ampia fronte di Neil. «E adesso, vuoi aiutarmi a distribuire questi volantini? Sto andando agli uffici della compagnia aerea, dall'altra parte della strada.»
«Be'... non è il mio genere...» «Avanti. Ti farà bene sentirti un po' imbarazzato.» Aspettò mentre Neil pagava alla cassa, sorridendo a nessuno in particolare in quel suo modo assorto, come se stesse digerendo ben più che un sandwich. Neil la seguì tra la folla di turisti. Come tutte le donne più grandi di lui, lei gli aveva sottratto l'iniziativa con facilità. Troppo timido per aiutarla con i volantini, se ne stette un po' indietro, facendo finta di non aver niente a che fare con quella eccentrica donna inglese.
Eccentrica quanto si vuole, Barbara colse di sorpresa Neil nel momento in cui reclutò il suo primo discepolo. Quando la vide di nuovo dopo quel pomeriggio, sui gradini della biblioteca dell'università, lei era accompagnata da un nativo hawaiano di forse quarant'anni, alto e dal torace massiccio, che guardava il mondo con un leggero strabismo, il che gli dava un'aria di permanente irritazione. L'hawaiano cacciava i volantini in mano agli studenti che passavano con l'aria di un creditore che sollecitava il pagamento. La prima sensazione di Neil fu di irritazione, come se la presenza dell'altro minasse la sua ingenua convinzione di essere stato l'unico a scoprire la dottoressa Rafferty.
L'accigliato hawaiano era Kimo, ex sergente della polizia di Honolulu, militante antinucleare e animalista di lunga data, che era stato costretto a dimettersi dopo aver preso parte a una campagna a favore di un regno indipendente dei nativi hawaiani. Nel 1985 si era imbarcato come volontario a bordo della Rainbow Warrior di Greenpeace, che restituiva una casa agli isolani dell'atollo di Rongelap, cento miglia a est di Bikini. Molti abitanti di Rongelap erano stati contaminati dalla cenere radioattiva che era caduta sull'isola dopo l'esperimento di bomba all'idrogeno Bravo nel 1954, e nei decenni successivi i tassi di leucemia, nati morti e aborti restarono molto sopra la media. La Rainbow Warrior trasportò gli isolani sull'atollo di Kwajalein, e successivamente si recò in Nuova Zelanda, dove venne affondata da agenti francesi nella speranza di porre fine alle proteste antinucleari nel Pacifico del Sud.
Barbara conosceva Kimo da due anni, ed era stato l'ex poliziotto a dirle della situazione di pericolo per gli albatros migratori a Saint-Esprit. Ispirata dall'immagine del grande uccello marino, la dottoressa aveva lanciato la sua campagna personale e solitaria, e adesso Kimo aveva deciso di unirsi a lei, sperando che la preoccupazione per gli albatros, se si fosse diffusa nell'opinione pubblica, avrebbe rivitalizzato la languente causa antinucleare. I risparmi dell'hawaiano avevano permesso la stampa di un nuovo volantino, con una fotografia degli uccelli morti distesi a lato di una grande pista stipata di implacabili bombardieri nucleari.
L'arrivo di Kimo rinvigorì le esauste energie della dottoressa e portò dentro il gruppo Neil, in qualità di membro giovane e uomo di fatica. Il ragazzo li seguiva mentre loro peregrinavano per atrii d'albergo e grandi magazzini, e faceva la guardia ai volantini mentre Barbara infieriva su tutti con la sua penetrante voce tipicamente inglese. Agli occhi di Kimo Neil, sempre con la coda tra le gambe di fronte alle irritabili guardie della sicurezza, era poco più dell'autista della dottoressa. Molto più alto di Neil, ogni volta che trasmetteva a quest'ultimo i nuovi ordini della dottoressa fissava sempre dritto l'aria sopra la testa di lui.
Neil, che si sentiva ancora a disagio in presenza di Kimo, guidava la jeep, ritirava i volantini dalla tipografia e aiutava a dipingere gli striscioni. Nei confronti di Barbara manteneva delle riserve, e non era nemmeno sicuro che lei fosse davvero laureata in medicina: ma questi dubbi scomparvero la sera in cui Kimo fu ferito in una lite davanti a una piscina.
Neil lo portò nel monolocale dove viveva Barbara, dietro l'istituto dei bambini. Mentre lei curava le mani ferite dell'hawaiano usando rapida e sicura gli strumenti della sua vecchia borsa di cuoio, Neil si guardava intorno nella stanza sporca, osservando le pile di volantini sulla toletta e il mucchio di vestiti non stirati ai piedi del letto a una piazza. Quell'appartamento più che modesto, che dava su un vicolo ingombro di mobili rotti e di lattine di birra vuote, la diceva lunga sulla misera esistenza della dottoressa.
Perché non esercitava la sua professione di medico e non si univa a uno dei gruppi animalisti conosciuti, invece di fare la bambinaia in quell'asilo malamente finanziato? Neil aveva notato che gli attivisti di Greenpeace e gli ambientalisti in genere prendevano le distanze dalla dottoressa Rafferty, come se sospettassero che la sua appassionata difesa degli albatros nascondesse in realtà scopi più subdoli.
Ma nonostante questo Neil si sentiva sempre più impegnato nella causa del grande uccello bianco. Cantilenare «Salvate gli albatros» dava alla sua vita un senso inatteso. Così, quando Barbara, due mesi dopo il loro primo incontro, gli disse che lei e Kimo avevano deciso di andare per mare a Saint-Esprit, Neil diede per scontato che sarebbe stato anche lui della partita.
Mentre l'ultimo palloncino si allontanava verso il mare, i rumori della manifestazione tamburellavano sulle finestre della stanza di ospedale. Neil schiacciò la testa sul cuscino, cercando di ignorare i dolori che quella continua confusione gli provocava ai nervi della gamba. Guardò il televisore silenzioso e i momenti conclusivi del discorso di Barbara. Con le mascelle tese fin quasi a slogarsi e i capelli biondi abbandonati al vento, la donna sollevò i gomiti e mise in mostra la sahariana umida in corrispondenza delle ascelle. Sembrava più felice e più determinata di quanto Neil l'avesse mai vista. Era il suo vero stato d'animo o una finzione? In qualche modo Barbara era al di là del problema dell'autenticità: era sinceramente convinta che gli uccelli fossero minacciati, e al tempo stesso manipolava senza vergogna le emozioni del suo uditorio.
Da sempre, pensava Neil, lei aveva sperato che a SaintEsprit i soldati francesi li avrebbero arrestati, mentre Kimo fuggiva con la videocamera e con le preziose riprese. L'hawaiano si era nascosto per un po' nel folto delle felci e aveva filmato Neil mentre veniva colpito dal sergente, una scena che era stata trasmessa infinite volte dalle televisioni di tutto il mondo. Probabilmente era stata proprio l'esistenza della telecamera, un regalo del colonnello Stamford, che aveva spinto a realizzare la missione sull'isola. Il governo francese insisteva di non avere alcun progetto di riprendere gli esperimenti nucleari a Saint-Esprit, ma la dottoressa Rafferty e gli albatros erano ormai lanciati. Mentre Neil e Barbara venivano trattenuti a Papeete si formò un comitato di difesa, e a Londra e a Parigi ci furono manifestazioni che chiedevano il loro rilascio. Cominciarono ad arrivare contributi, e gli ambientalisti perorarono la loro causa in centinaia di assemblee e conferenze.
Al loro ritorno a Honolulu, due settimane più tardi, la dottoressa Rafferty era la nuova eroina del movimento ecologista. Eppure per Neil i suoi veri motivi, come del resto anche i propri, restavano un mistero.
Il Dugong
Difensore degli albatros, campione delle isole e star dei media per tutti gli usi, la dottoressa Barbara Rafferty aveva delle caratteristiche ben più strane, come scoprì Neil il giorno prima di lasciare l'ospedale.
Fra le ultime cose che gli erano arrivate con la posta c'era un'anonima cartolina di auguri attaccata all'ultimo numero di Paris-Match, che dedicava l'articolo di apertura alla saga di Saint-Esprit. Stufo di vedere le proprie fotografie (la madre aveva diffuso, dando prova di poca discrezione, una foto di Neil all'età di quattro anni in una piscina gonfiabile), stava per gettare la rivista nel cestino quando riconobbe un volto che non si aspettava di vedere. In mezzo alle immagini degli uccelli morti e delle torri di osservazione vicino alla laguna nucleare c'era una foto sgranata scattata nel 1982, un primo piano di Barbara più giovane.
Vestita di nero, con gli occhi fissi a terra, la donna stava lasciando la sede londinese dell'Ordine dei medici dopo essere stata radiata dall'albo. Un giornalista di «Paris-Match», la cui memoria forse era stata aguzzata dai servizi di sicurezza francesi, aveva fatto un'incursione nell'archivio fotografico e riaperto il celebre caso.
Dieci anni prima, in Gran Bretagna, la dottoressa Barbara Rafferty aveva subito un processo per assassinio. A due delle sue pazienti, due anziane ammalate di cancro ricoverate all'ospizio di Hammersmith, una massiccia dose di sonnifero aveva risparmiato le ultime sofferenze. Quel cocktail letale di cloruro di potassio, cloroformio e morfina era stato loro somministrato dalla dottoressa Rafferty, con il consenso, sosteneva lei, delle pazienti e dei loro parenti. Ma questi ultimi non erano stati tutti consultati. La sorella di una delle donne, che contestava il testamento, andò alla polizia e presentò una denuncia contro la dottoressa.
La polizia confiscò le cartelle cliniche dell'ospizio e scoprì che nel corso dell'anno precedente la Rafferty aveva praticato l'eutanasia ad almeno sei ammalati terminali. Lei ammise spontaneamente il fatto, sostenendo che la decisione era sempre stata presa con il consenso dei suoi pazienti, dopo un lungo periodo di terapia e di assistenza. Dietro loro richiesta, essa aveva posto fine alle loro sofferenze, difendendo la dignità e il diritto al rispetto di se stessi degli ammalati.
Riconosciuta colpevole di otto omicidi, Barbara fu condannata a due anni con la condizionale. Un gruppo di medici e di parenti che simpatizzavano con lei le offrirono sostegno, ma lei perse anche il processo d'appello. Interrogata dall'Alta Corte, dichiarò che il suo futuro comportamento verso i pazienti moribondi sarebbe sempre stato dettato solo dalla propria coscienza, una minaccia neanche tanto velata che indusse l'Ordine dei medici a radiarla dall'albo. Ne seguì una discussione pubblica, durante la quale lei apparve molto spesso in televisione e difese le sue posizioni con tale passione da attirarsi in qualche caso l'accusa di essere un'esaltata, incapace di sottoporre le sue convinzioni al vaglio del dibattito. I suoi modi gelidi le alienarono le simpatie anche dei colleghi che le erano più vicini. Da quel momento non le fu più possibile esercitare la professione: divenne direttrice di una piccola azienda di contraccettivi femminili, ma si dimise dopo sei mesi e se ne andò all'estero. Seguirono anni di esilio in Malawi, in Sudafrica e in Nuova Zelanda: esercitava clandestinamente la professione per qualche tempo, fino a che non veniva scoperto il suo passato; allora si spostava in un altro paese e ricominciava. Alla fine arrivò a Honolulu e lì si fermò.
Adesso Barbara aveva scoperto il movimento animalista, e si dedicava alla vita invece che alla morte. Neil fissava la fotografia con la testa appoggiata sul cuscino, quasi fulminato dalla rivelazione. Il volto affilato e intenso della dottoressa appena condannata, reso ancora più cupo dal tono scuro del vestito, poteva essere benissimo quello di una criminale di guerra o di una psicopatica. Eppure lui provava un curioso interesse per quella donna fuorilegge. Capiva che un tempo lei era stata giovane, e si chiedeva che cosa avrebbe potuto pensare di lui, da ragazza, o se, pensando a se stessa, si fosse immaginata più adulta e più svitata, se avesse in qualche modo previsto il sogno di affrontare la marina francese.
Quando quel pomeriggio lei arrivò per fare l'ultima visita al suo pupillo, la rivista era sul comodino, aperta. Passando di volata accanto all'infermiera Crawford, Barbara si precipitò nella stanza con le mani levate al soffitto, e arrivò sino alla finestra, come se la sua eccitazione fosse tanta che solo il cielo potesse contenerla.
«Neil, ci sono novità strabilianti!»
«Come dice?»
«Non ci crederai. I sogni a volte si avverano sul serio. Ma prima di tutto, come stai?» Afferrò la tabella clinica di Neil ai piedi del letto e le diede una rapida scorsa. «Be', non hanno fatto poi molti danni. Prescrivono troppa roba, questo è normale, e tutti questi esami... devono pensare che tu sia incinto. Come ti senti?»
«Bene.» Neil si accorse che le stava sorridendo. «Mi annoio.»
«Vuol dire che sei pronto ad andar via. Ti avviso, c'è un sacco di roba da fare e non c'è molto tempo.»
Neil si lasciò sfiorare la guancia, poi Barbara si sedette sul letto e lo guardò con evidente compiacimento. Quando era sola con Neil, di solito abbassava il volume della sua personalità pubblica, come se quell'adolescente suscitasse in lei un torpido bisogno di intimità, di normalità. Ma oggi non riusciva proprio a trattenersi.
«Ascolta, Neil: è quello che abbiamo sempre desiderato. Ho trovato una nave.»
Neil le prese le mani che si agitavano in aria e le strinse insieme, cercando di farla calmare. «È meraviglioso, dottoressa. Ma sono fuori allenamento. Non sarò pronto per la traversata prima di ottobre, o forse anche più tardi.»
«La traversata? Non sto parlando di quello. Torniamo a Saint-Esprit! Adesso abbiamo una nave vera: è il Dugong. È ancorata nel porto di Honolulu.»
«Tornare...?» Neil sentì le vene che pulsavano nel piede ferito. «Vuole tornare sull'isola? Si farà ammazzare, dottoressa.»
«Non ne ho la minima intenzione. Barbara gli lisciò le lenzuola e il cuscino, come se stesse domando delle bianche onde. «Non ho lavorato altro che per questo. Questa volta dietro di noi ci sarà tutto il mondo. I francesi dovranno ascoltarci.»
Incapace di stare seduta, si precipitò alla finestra e si afferrò al davanzale: era già sul ponte di comando del suo vascello. Raccontò a Neil del benefattore miliardario che si era unito alla campagna per gli albatros. Era Irving Boyd, un imprenditore informatico trentacinquenne che si era ritirato alle Hawaii. Aveva venduto la sua azienda di software di Palo Alto a un gruppo giapponese, e adesso si dedicava alle cause ambientaliste.
Neil l'aveva visto in una delle sue rare interviste televisive, una figura occhialuta e quasi bambinesca, con il taschino della camicia pieno di penne, un avido lettore di fantascienza che non aveva mai avuto davvero bisogno di crescere. In particolare si batteva per le specie rare di mammiferi acquatici, come il lamantino, e infatti la sua riserva marina a Oahu ospitava l'unica coppia da riproduzione di questo animale esistente in cattività. Colpito dagli scarsissimi mezzi e dalla dedizione di Barbara, aveva cominciato a sostenerla con offerte in denaro, poi le aveva messo a disposizione un ufficio e un telefono gratuiti nella sua stazione televisiva di Honolulu. Ma il suo regalo più importante era il Dugong, un battello da 300 tonnellate per la pesca dei gamberetti in Alaska, che lui pensava di trasformare in laboratorio marino galleggiante.
«Ma prima ci porterà a Saint-Esprit.» Barbara si soffiò via i capelli dagli occhi. «Partiamo fra tre settimane: il tempo non è molto, ma voglio battere il ferro finché è caldo. Dovremmo essere una decina, compresi tu e Kimo, e la troupe televisiva di Irving. Costruiremo la nostra riserva, qualsiasi cosa facciano i francesi.»
«Ci spareranno addosso», disse Neil cercando di smorzare l'entusiasmo della donna. «Ci affonderanno. Pensi a quello che hanno fatto alla Rainbow Warrior nel porto di Auckland.»
«Non oseranno, questa volta!» Già pienamente riconvertita in modalità intervista, Barbara gonfiò i polmoni fin quasi a far saltare i bottoni della sahariana. «Il mondo ci guarderà, Neil. A bordo ci sarà una parabola satellitare per collegare la troupe alla stazione televisiva che sta qui. Cerca di immaginarti: tutti ci vedranno mentre rivendichiamo l'isola nucleare per strapparla alla morte e restituirla alla vita. Nella sua follia criminale il Ventesimo secolo ha gettato via se stesso. Ma quando arriverà il Duemila noi consegneremo al nuovo millennio una piccola parte di questo terribile secolo, redenta e riportata alla vita da noi, proprio da noi. È un sogno meraviglioso, Neil, e adesso è a portata di mano grazie a Irving Boyd.»
Barbara guardava il mare lontano, e il respiro profondo le sollevava il petto. Il suo sguardo vagò sopra i mazzi di fiori e le cartoline di auguri, poi si posò sulla copia aperta di «Paris-Match». Ben poco sorpresa, la donna diede un'occhiata alla fotografia di se stessa più giovane.
«Irving mi ha detto che l'aveva vista. Non ne è rimasto per niente turbato, e questo la dice lunga sull'uomo. Prima o poi doveva venir fuori: meglio adesso che dopo...»
Sedette con la rivista in mano, poi la gettò nel cestino, come se buttasse via un vecchio calendario. Aspettando in silenzio che lei parlasse, Neil si accorse che si era completamente distaccata dalla dottoressa che era stata fotografata davanti all'Alta Corte dieci anni prima, quando era stata radiata dall'albo.
Vedendo che Neil, col lenzuolo tirato fino al mento, aveva ancora dei dubbi su di lei, gli parlò con tono dolce e tranquillo, come si fa con i bambini.
«Ero tremendamente ingenua allora, ero troppo idealista. Pensavo di poter fare del bene, ma questo nella gente genera rancore, soprattutto nei giudici e nelle giurie. Credimi, Neil, non c'è niente che mandi in bestia la gente quanto agire per i motivi più nobili.»
«Le pazienti che sono morte...» Neil cercava di affrontare l'argomento col maggior tatto possibile. «Le ha uccise davvero lei?»
«Certo che no!» Barbara sembrava davvero sorpresa dalla domanda. «Le loro menti erano già morte, si erano arrese molto tempo prima. Solo i corpi erano vivi, coperti di piaghe e di ulcere. Io mi sono limitata a dare riposo a quei corpi.»
«Allora lei le ha...»
«Neil...» Barbara gli sorrise con indulgenza. «I dottori devono fare un sacco di cose che la gente preferirebbe non sapere. Alcune di quelle pazienti erano distanti solo pochi minuti dalla morte, ma l'orologio, crudelmente, si era fermato. Io l'ho solo fatto ripartire. Le donne vecchie meriterebbero un'attenzione speciale, e invece non sono accudite con la stessa dolcezza degli uomini. Pensa a com'erano: esauste, incontinenti, devastate dal cancro, capaci solo di respirare sedute sul letto, e pronte a gridare dal dolore appena qualcuno soltanto le toccava. Quello che ho fatto, l'ho fatto alla luce del sole perché sapevo che era giusto. Neppure il giudice ha avuto il coraggio di mandarmi in prigione...»
Come se fosse stanca di doversi giustificare davanti a questo adolescente moralista, Barbara si voltò verso i mazzi di fiori che stavano sul tavolo, accanto al televisore. Dietro ai crisantemi e ai gladioli, filtrato dai petali odorosi, c'era un regno fantastico solo suo, dove poteva camminare senza il timore del disprezzo morale, e dove gli albatros avrebbero volato per sempre sopra la sua testa. Un filo di umidità, pallido come la speranza, le scese dalla fronte per fermarsi sulla punta del naso pronunciato.
«Ti ho reso famoso, Neil.» Indicò i messaggi scarabocchiati con calligrafia infantile. «Tutti ti amano.»
Neil fletté il piede indolenzito, contando le dita sotto il lenzuolo. «Mi amerebbero addirittura di più se fossi morto... questo salverebbe davvero gli albatros, dottoressa.»
«Neil...» Barbara scosse la testa davanti a questa battuta agrodolce. «Pensa a tuo padre, a quanto sarebbe fiero di te. Te lo ricordi, no?»
«Me lo ricordo sempre. È mia madre che cerca di dimenticarlo. È per questo che si sta...»
«Allontanando un po' da te? È una cosa che si può capire. Nel lutto c'è un tempo per ricordare e un tempo per dimenticare. A volte sono la stessa cosa. Quand'è che ti aspetta ad Atlanta?»
«Il mese prossimo. Ma potrei restare qui un po' di più.»
«Bene. Noi partiamo fra tre settimane. Sei tu che devi decidere. Kimo e io vorremmo che tu venissi con noi. Abbiamo bisogno di qualcuno della tua età che con la sua presenza incoraggi altri giovani a venire nella riserva. In modo che noi si possa passar loro le consegne, in un secondo tempo. Non è una crociata, è una grande corsa a staffetta. Verrai?»
«Be'... potrebbe esserci un esperimento nucleare. Devo pensarci.»
«Va bene. Io ho sempre fatto conto su di te, Neil. Quando sarai più grande noi due saremo molto vicini...»
Questa velata minaccia, pronunciata in tono tranquillo e fiducioso, risuonò nella mente di Neil ogni giorno della sua convalescenza, mentre nuotava in piscina. Quando lasciò l'ospedale, passando imbarazzato in mezzo a una folla di infermiere che scherzavano e lo prendevano in giro, Barbara lo portò in jeep al suo pensionato, ma subito dopo ripartì per il porto. Bisognava caricare le provviste a bordo del Dugong, sistemare le cabine e la cambusa, installare le apparecchiature per la comunicazione satellitare.
Neil promise vagamente che sarebbe venuto a dare una mano, ma dentro di sé aveva deciso di non partecipare alla spedizione. La televisione e i giornalisti della carta stampata stavano già facendo visita al motopeschereccio nel porto di Honolulu, descrivendo nei minimi particolari, anche i più provocatori, la preparazione della spedizione ecologica verso l'avamposto militare dell'impero coloniale francese. A Parigi il ministro della Difesa non confermava né smentiva la ripresa degli esperimenti nucleari a Saint-Esprit, ma ammoniva che qualsiasi imbarcazione non autorizzata avesse violato la zona sarebbe stata abbordata e confiscata.
Neil tornò alla missione donchisciottesca che gli era più propria, e cioè la traversata a nuoto del canale di Kaiwi. I mesi trascorsi in ospedale gli avevano infiacchito i muscoli delle spalle e delle gambe, e le prime venti vasche che fece nella piscina dell'università lo lasciarono talmente esausto da non farcela a uscire dall'acqua neppure salendo dalla parte dove si toccava. Per rimetterlo in forma ci sarebbero volute settimane di body building e di nuoto intensivo. Neil si alzava alle sei, determinato ad allenarsi finché non fosse tornato al suo standard di cento vasche al giorno, e si sforzava di non pensare né a Barbara, né a Saint-Esprit, né agli albatros.
Ma il ricordo della dottoressa radiata dall'albo e del suo respiro appassionato pungeva dentro di lui come i nervi del piede ferito che si risvegliavano, e lo distraeva mentre studiava le correnti del canale di Kaiwi sulle mappe della marina militare americana. Voleva vedere Barbara prima che lei partisse, anche perché sapeva che avrebbe potuto essere l'ultima volta: così prese la jeep e andò fino al porto per salutarla. La rivelazione che lei aveva ucciso le sue pazienti giaceva in fondo alla sua mente come un vecchio giornale in un solaio, e a poco a poco sbiadiva in un'atmosfera morale che si faceva sempre più tollerante nei confronti dell'eutanasia, fin quasi ad approvarla tacitamente. Fra i suoi nuovi ammiratori, pochi avevano perso fiducia in lei, o avevano fatto un passo indietro per valutare meglio la questione dei suoi molteplici assassinii. «Paris-Match» adesso lodava la trasformazione del «Dottor Morte» in «Dottor Vita». Tutte le vite erano preziose, ma quelle degli albatros e dei lamantini adesso sembravano più preziose di quelle dei comuni esseri umani.
E poi, Neil lo sapeva, Barbara gli mancava, gli mancava la sua forza di volontà e quella sua sconcertante e affettuosa ruvidezza. Ricordava come lei lo angariasse durante il viaggio verso Saint-Esprit, ma poi con le dita gli accarezzava sempre il petto, leggendo sulla sua pelle impaziente il braille di un desiderio invisibile. Poi pensò ai brutali soldati francesi e ai loro manganelli, e si chiese come potesse convincerla a non andare all'atollo.
Così, il primo sabato dopo aver lasciato l'ospedale, parcheggiò la jeep vicino al porto e si immerse fra i turisti che passeggiavano. Il Dugong era ormeggiato al di là del traghetto che faceva servizio fra le isole, con l'alta prua già puntata verso il mare aperto. Al di sotto del ponte, su una piattaforma d'acciaio si protendeva verso il cielo la coppa di un'antenna satellitare. Sul molo c'era un'automobile militare, e uomini in tuta mimetica si arrampicavano sulla passerella.
Neil si fece strada fra i turisti per andare a vedere. Sotto sotto sperava che il governo americano, su pressione di quello francese, avesse deciso di sequestrare l'imbarcazione prima che salpasse. Ma quando raggiunse l'automobile, allungato dietro il volante trovò un autista con dei baffi da bandito e la testa rasata. Sul collo aveva decalcomanie di un dugongo, un lamantino e un grande squalo bianco: un anello incastonato nella portiera recava scritto «Wild-Water Kingdom Inc. Vita e amore - Un progetto planetario di Irving Boyd».
Neil si avvicinò alla passerella, passando accanto a una dozzina di casse piene di tende e di attrezzi da campeggio, a scatole di cartone piene di cibo macrobiotico e vegetariano, un mare portatile di bottiglie d'acqua minerale, luci per le telecamere e relativi ombrelli argentati. Sulla plancia, a osservare tranquillamente tutta la scena, c'era il capitano Wu, lo skipper cinese di Hong Kong, un personaggio minuto e azzimato in calzoncini bianchi, calzettoni al ginocchio e berretto. Accanto a lui c'era il filantropo e genio del software, con gli occhi chiari che controllavano ogni minimo dettaglio attraverso gli occhiali esageratamente grandi. Il miliardario si accorse di Neil che sostava indeciso ai piedi della passerella e mandò al ragazzo un delicato gesto di saluto, come un papa distratto che impartisca la sua benedizione.
«Neil, stai attento a non cadere!» Barbara uscì dalla cabina sotto la plancia. Attese accanto alla passerella e afferrò il braccio di Neil quando il piede malato di quest'ultimo perse l'appiglio su una galloccia di gomma consumata. Lo tirò a bordo, sorpresa ma contenta di vederlo, soppesando i muscoli del suo braccio come una contadina compiaciuta della crescita di un vitello pregiato.
«Neil, ci sei mancato. Vieni con noi?»
«Dottoressa Barbara, volevo...»
«Bene. Sapevo che l'avresti fatto.» Barbara si raddrizzò e lo abbracciò rudemente, cercando con le forti mani le sue costole e le scapole, per essere certa che sotto la nuova sicurezza dei muscoli fossero rimaste le vecchie ossa. «Non avremmo potuto partire senza di te.»
«Dottoressa Barbara...» Neil si pulì la fronte dal vistoso rossetto della donna. «E la marina francese? Sono lì ad aspettarla...»
«Non ti preoccupare! Si è alzato il vento, e soffia bene.» Consultò il suo ruolino. «Più tardi troveremo una cabina per te, ma prima voglio presentarti Monique Didier, la nostra nuova amica molto speciale.»
Mise un braccio attorno alle spalle di Neil, orgogliosa, mentre una donna robusta coi capelli neri, in camice bianco, usciva sul ponte e vuotava in mare un mastello d'acqua saponata.
«Monique è responsabile di cabina all'Air France», gli spiegò Barbara. «Ma ha mollato tutto per venire con noi. Monique, questo giovanotto malinconico è Neil Dempsey, campione di nuoto e mio braccio destro.»
«Ah, bene... naturalmente ti ho visto in tv. Sei praticamente una stella del cinema.» La francese si inchinò esageratamente, tenendo la mano di Neil come se toccasse una reliquia. «So tutto del tuo viaggio a Saint-Esprit. Sei proprio il mio eroe.»
Anche se il tono era ironico, Neil arrossì ancora una volta. Durante le sue visite in ospedale Barbara gli aveva parlato spesso di questa hostess dai nobili principi. Fra i trenta e i quarant'anni, Monique Didier era la figlia di uno dei primi attivisti francesi per i diritti degli animali, lo scrittore e biologo René Didier. Lei e suo padre avevano messo in piedi una riserva naturale nei Pirenei per dare rifugio a una colonia di orsi minacciata di estinzione. Per anni avevano sopportato gli insulti e le ostilità dei contadini del posto infuriati per le razzie di pecore perpetrate dagli orsi e per l'immagine idealizzata e sentimentale che ne dava invece la stampa cittadina. Quest'esperienza aveva reso Monique un po' spinosa e diffidente, ma restava sempre fedele alla sua campagna e non mancava mai di gettare occhiatacce e muti rimproveri ai suoi passeggeri di prima classe sui voli Parigi-New York e Parigi-Tokyo. Dopo ripetuti avvertimenti, l'Air France aveva perso la pazienza e l'aveva cacciata.
Neil diffidava già della sua lingua tagliente, ma Monique sembrava sinceramente rassicurata dall'arrivo del ragazzo. Lui era stanco per la lunga camminata nel porto pieno di gente, e voleva sedersi a riposare un po' sull'antenna parabolica, ma lei gli si agitava intorno come se volesse allacciargli la cintura di sicurezza e posargli in grembo un vassoio di plastica.
«È importantissimo che tu sia venuto», diceva a Neil la donna, che lo stava ancora valutando. «Dobbiamo sbarcare molto in fretta, e tu conosci i sentieri segreti che portano alla pista.»
«Be', non sono proprio segreti...» Neil si accorse che Barbara aveva già provveduto a costruire tutta una mitologia sull'isola e sulla loro precedente spedizione. «E Kimo?»
«Sarà con noi, naturalmente. Ma dobbiamo stare attenti a non esporlo troppo.» Monique scosse il mastello per dimostrare tutto il suo disgusto. «Quegli ufficiali francesi sono così razzisti. Alla prima occasione potrebbero abbatterlo come un cane.»
«Intanto hanno sparato a me.»
«Ma non lo rifaranno!» Le sopracciglia di Monique si alzarono. «Tu sei un simbolo, Neil. Lo schermo televisivo ti fa da scudo, nessuna pallottola ti può attraversare. Dico bene, Barbara?»
«Naturalmente, Monique, anche se io non la metterei proprio così.» Barbara cercò di tranquillizzarla. «E comunque, speriamo che nessuno venga colpito.»
Neil pensò che le innumerevoli interviste al capezzale e le apparizioni in televisione avevano prodotto i loro risultati. Adesso per il movimento animalista lui era un talismano da portare in trionfo come la testa imbalsamata di un bisonte massacrato. Quando Barbara lo portò in plancia, lo presentò al capitano Wu e a Irving Boyd con grande enfasi, come se la sua apparizione rappresentasse per lei un rafforzamento delle sue credenziali.
L'imprenditore lo salutò con un solenne inchino, gli occhi che sbattevano lentamente dietro le spesse lenti come un segnale d'allarme sempre in funzione.
«Abbiamo pregato per te, Neil», disse con voce dolce e un forte accento texano, ascoltandosi parlare come se le parole contenessero un codice nascosto. «Quando sei stato ferito tutto il pianeta ha trattenuto il respiro. Credo che abbiano pregato anche i lamantini e i dugonghi.»
«Io ho pregato per gli albatros, signor Boyd.»
«Tutti hanno pregato per gli albatros. E a proposito, io spero che vorrai partecipare al progetto della riserva sull'isola.»
«Nessuno me l'ha chiesto... è una serie televisiva?»
«Irving intende dire Saint-Esprit», intervenne Barbara. «Credo che possiamo aspirare a degli indici d'ascolto veramente favolosi.»
«Noi ti vogliamo lì, Neil.» Gli occhi di Boyd erano fissi su Neil con tutta l'umiltà di un produttore cinematografico che scopre il volto ardente di un Cristo in mezzo a una folla di comparse. «C'è un ruolo da protagonista per te.»
«Be', può darsi... Ma io non so quasi nulla di recitazione. Sto ancora lottando con la realtà.»
«La realtà? Questo è un canale di servizio pubblico, Neil. Mi sto preparando a mandare in orbita il primo satellite ecologico gestito da privati. Trasmetteremo te e la dottoressa Barbara in tutte le case del pianeta...»
Mentre Boyd esponeva il suo piano, per Neil era chiaro che l'imprenditore vedeva la spedizione a Saint-Esprit come una ricognizione per un programma televisivo, o poco più. Ma prima che potesse rispondere Barbara lo spinse giù per la scala.
«Per l'amor di Dio, Neil! Ci ha prestato la nave.»
Neil era contento di vederla arrabbiata con lui. Pochi minuti in presenza di Barbara erano per lui un tonico più forte di tutte le centinaia di vasche nella piscina dell'università.
«Il Dugong è un set televisivo, dottoressa Barbara. È una specie di replica del Bounty. Per quell'uomo tutto si trasforma in televisione.»
«Può darsi, però è lui che ha in mano i cordoni della borsa. Adesso vieni che ti presento il professore e la signora Saito. E niente battute sulle bombe atomiche.»
Una giovane coppia di giapponesi interruppe il suo lavoro nella cambusa per inchinarsi a Neil. Botanici professionisti, si erano precipitati lì in volo il giorno prima abbandonando il proprio posto all'Università di Tokyo per mettersi al servizio dei progetti di Barbara. Avevano portato con sé due valigette, una tenda di plastica e una batteria di sedie pieghevoli, come bambini troppo cresciuti intenti a giocare sulla spiaggia. Gratificarono Neil con una coppia di sorrisi sincronizzati che non si erano spenti neppure un'ora dopo, quando lui aveva lasciato il Dugong promettendo a Barbara di tornare ad aiutarli nei preparativi per la partenza.
Cercando di cavare un senso da quella truppa ingenua e confusionaria, Neil batté la fronte sul volante della jeep con tanta energia che se l'ammaccò. Sapeva che bisognava trovare un modo per impedire a Barbara e alla sua nave di folli di lasciare Honolulu. Nei giorni seguenti, facendo le sue vasche, ascoltava la radio della piscina. L'interesse dei media per il Dugong rimaneva alto, alimentato dalle immense ali bianche che Kimo aveva dipinto sulle fiancate del peschereccio. Un designer di oggetti alla moda di Waikiki aveva già trasformato l'icastica immagine dell'onda e dell'ala in una serie di ingegnosi bottoni e spille.
Ogni pomeriggio Neil andava al porto, sperando di trovare la nave affondata da qualche agente francese. Barbara di solito non c'era, impegnata a far pressione sul consolato francese con qualche festa di simpatizzanti o a parlare alle assemblee per raccogliere fondi. Il capitano Wu, con la sua ciurma di sette filippini, continuava a caricare provviste, carburante e acqua potabile sotto la supervisione di Irving Boyd, solitaria ed enigmatica figura tra le bianche ali della nave come Poseidone perso in un sogno del suo oceano.
Un gruppo di hippy New Age con uno striscione contro la vivisezione aveva eletto la sua residenza sul molo. Agitando i tamburelli i ragazzi danzavano in mezzo ai banchetti che vendevano palloncini e gadget ambientalisti ai turisti. Anche Irving Boyd si svegliò dalla sua meditazione e si mise a battere il tempo nell'aria seguendo l'allegro ritmo. Poi invitò sulla plancia il gruppo, che si mise a ballare attorno al perplesso capitano Wu, per passare infine alla simpatica parodia di un rito religioso vicino alla parabola satellitare.
Guardando quella bizzarra nave e il suo bizzarro equipaggio, Neil era convinto che non avrebbero mai lasciato il porto. Ma una settimana dopo aver conosciuto Barbara incontrò gli ultimi volontari che si univano alla spedizione, e allora capì che il Dugong non solo sarebbe salpato da Honolulu, ma che avrebbe anche avuto tutte le probabilità di finire dritto in bocca ai cannoni francesi.
Gli ambasciatori di Boyd a Saint-Esprit sarebbero stati i tre della troupe televisiva: Janet Bracewell, un'australiana, era la direttrice, c'era poi il cameraman, suo marito Mark, un americano, e il tecnico del suono, l'indiano Vikram Pratap. Distaccati dalla riserva di Wild-Water, avrebbero filmato la spedizione man mano che andava avanti, e trasmesso le immagini di qualsiasi azione ostile compiuta dai francesi alla stazione televisiva di Boyd a Honolulu, e da lì ai network mondiali. Stavano già riprendendo i giornalisti e gli attivisti animalisti che vagavano sul Dugong, ostacolando il lavoro dei marinai filippini e interrogandoli con petulanza sulle loro posizioni riguardo agli esperimenti nucleari e ai problemi dell'ambiente.
Incitati dalla presenza della telecamera, i visitatori trasformarono il motopeschereccio nella sede di una festa continua. I passanti rubacchiavano le merci che aspettavano di essere caricate e si servivano delle bottiglie di vino che erano arrivate in regalo. La sera, quando Barbara e Monique tornarono alla nave, trovarono i turisti che ballavano al ritmo dei tamburelli New Age, striscioni ecologisti che garrivano nell'aria fresca del porto e un gradevole sentore di erba che serpeggiava in mezzo alle lanterne cinesi. Conquistata da questo clima di festa, Barbara danzò con Monique mentre il capitano Wu misurava a larghi passi la plancia ormai in ombra e Kimo sedeva a prua con aria di disapprovazione in mezzo alla sua provvista di vernice.
Ma Kimo non era il solo a essere perplesso per l'evidente incapacità della dottoressa Rafferty di controllare i propri simpatizzanti. Dal suo punto di osservazione sul pontile del traghetto Neil aveva notato spesso, in piedi sul molo accanto a una macchina noleggiata, un americano alto di poco più di quarantanni, con i capelli bianchi. La macchina, guidata dalla moglie, arrivava di solito verso la metà del pomeriggio: l'uomo scendeva e se ne stava a guardare la nave per un'oretta, piuttosto a disagio. Sembrava disturbato dalla vista delle merci non sorvegliate e dei tre gommoni ancora sui loro rimorchi. Mentre la moglie sedeva imperturbabile al volante, lui si aggirava intorno alle imbarcazioni di gomma, asciugava col fazzoletto le macchie di vino, e si metteva tranquillo solo quando i filippini, finite le loro interviste, tornavano al lavoro. A volte si metteva a gridare verso i turisti che vagavano sul molo, poi si interrompeva e agitava il lungo braccio in maniera compulsiva, simulando il rovescio di un tennista, come se cercasse di piazzare una palla difficile nella metà campo dell'avversario.
Neil era arrivato alla conclusione che l'uomo fosse combattuto dal dilemma se unirsi o no alla spedizione di Barbara. La quarta volta che veniva al molo, l'americano la vide arrivare alla nave dopo il suo ultimo giorno di lavoro all'istituto dei bambini. Quando gli passò accanto lui evitò il suo sguardo, appoggiò i gomiti sul bordo del finestrino dell'auto e si mise a fissare la moglie, paziente come sempre. Prima che la donna potesse aprir bocca lui si girò con uno scatto nervoso delle spalle e seguì Barbara sul Dugong, contando ad alta voce i passi di lei. A braccia alzate sopra le teste dei turisti giapponesi, salì sulla passerella, con gli occhi sereni e tutti i suoi dubbi apparentemente risolti.
Neil seppe poi che quell'uomo era David Carline, l'ultimo volontario che si aggiungeva alla spedizione. Presidente di una piccola casa farmaceutica di Boston, aveva sentito di Barbara e della sua campagna per salvare gli albatros mentre era in vacanza a Honolulu. L'azienda di famiglia aveva fornito medicinali al terzo mondo per decenni, e Carline si era spesso assentato dal lavoro per unirsi a gruppi di missionari americani in Congo e in Brasile, insegnando nelle scuole delle missioni e facendo il predicatore laico. Intelligente, ricco, pieno di voglia di fare qualcosa e indifferente alla fatica, era la prima presenza sana a bordo del Dugong.
A Neil l'uomo risultò antipatico a prima vista. Dal momento in cui Carline salì sul ponte facendo dondolare sulla passerella la sua lussuosa valigia consumata dai viaggi, Neil fu certo che avrebbe riportato ordine sulla nave, avrebbe dato concentrazione alla mente indocile di Barbara e avrebbe fatto in modo che il peschereccio salpasse come previsto. Bastò un giorno o poco più, in effetti, perché Carline assumesse di fatto la guida della spedizione. Tanto Monique che Barbara erano ben liete di passare le consegne a qualcuno che avesse le capacità manageriali necessarie per rimettere ordine fra le casse accatastate nella stiva di prua. Il capitano Wu lo accolse in plancia, riconoscendo in lui uno spirito fratello, e Irving Boyd gli cedette ben volentieri il suo posto per tornarsene alla sua stazione televisiva di Honolulu.
Prima di tutto Carline si accinse a rimettere in ordine la nave. Intanto convinse i Bracewell a risparmiare pellicola, e in tono cordiale suggerì loro di unirsi agli altri membri della spedizione per issare a bordo i gommoni argentati che stavano ancora sul molo. Una volta uscita di scena la telecamera, molti dei turisti e dei ragazzi New Age scomparvero, e con loro i venditori ambulanti. Il lavoro di carico delle merci riprese, e Kimo scese dal piedistallo, felice di dare il suo contributo al nuovo e frizzante stile di lavoro introdotto dall'americano.
Carline salutò Neil con una cauta stretta di mano, ignorando accortamente l'ostilità dell'inglese.
«Neil, tu rappresenti la ragione per la quale io sono qui, quello che mi ha convinto a interrompere il mio lavoro a Boston. Siamo fieri di te e di tutto quello che hai fatto a SaintEsprit.» Indicò la moglie, austeramente seduta nella macchina parcheggiata sotto la passerella. «Anche mia moglie ti rispetta, e, ti dirò, molto più di quanto non rispetti me. Vorrei che tu la conoscessi: lei ammira il coraggio che hai dimostrato andando a Saint-Esprit e tenendo testa ai francesi. Forse questo l'aiuterebbe a capire perché ho dovuto unirmi a voi.»
«Perché l'ha fatto?»
«È difficile a dirsi, Neil. Forse avevo bisogno di andare a Saint-Esprit per scoprire qualcosa. Voglio salvare gli albatros, s'intende, ma non c'è solo questo. In un certo senso voglio salvare la dottoressa Barbara. Il mondo ha bisogno di gente come lei, di gente con una salda convinzione, ma che ha anche fiducia nel resto delle persone. Per troppo tempo ci siamo comportati come se volessimo abbandonare il pianeta per sempre, come se la terra fosse una specie di luogo di villeggiatura che stava morendo. Abbiamo bisogno di tante Saint-Esprit, sempre di più. Sai, ho visto te e la dottoressa Barbara in televisione, al telegiornale, e allora ho lasciato l'albergo e sono venuto qui di filato. Ma adesso basta parlare di me. Sei pronto a dare una mano? Kimo vuole finire di caricare i fuoribordo.»
Per il resto della giornata, mentre sistemavano nella stiva i pesanti motori, Neil osservò attentamente l'americano, un mostro di integrità e di buonumore. A Neil ricordava il cappellano del collegio dove aveva studiato in Inghilterra, sempre attivo e comprensivo, sempre pronto a fare il primo placcaggio sul campo da rugby durante gli allenamenti. Quel cappellano si era dimesso in seguito a una storia con la moglie dell'insegnante di ginnastica, e Neil vedeva già Carline come il suo principale rivale per conquistarsi l'attenzione di Barbara.
«Kimo mi dice che vuoi attraversare a nuoto il canale di Kaiwi», osservò Carline mentre riposavano nella stiva circondati dai motori e dai gommoni. «È un percorso impegnativo. Pensi di farcela?»
«Forse no. Ma vale la pena di provare.»
«Ti fa onore. E non è certo una filosofia da sogno a occhi aperti. Come ti senti a tornare a Saint-Esprit?»
«È pericoloso.» Neil non disse nulla della sua decisione di restare a Honolulu anche se il Dugong salpava. «I francesi hanno barche da pattuglia e anche una corvetta.»
«Questo dimostra prudenza e sensibilità da parte tua. Però ricordati che non hai avuto paura di affrontare quella pallottola francese.»
«Ma stavo scappando.»
Carline rise a questa osservazione. «Be', almeno quello non hai avuto paura di farlo.»
Mentre aiutava Carline a trascinare giù i motori imbragati, a Neil venne in mente che sarebbe stato un gioco da ragazzi sabotare il Dugong. Il capitano Wu aveva parlato a Boyd e alla dottoressa Rafferty dei loro piani di emergenza nel caso fossero stati colpiti da qualche cannonata: o l'avrebbero fatto incagliare nella laguna o l'avrebbero affondato lanciandolo sopra la barriera corallina. Gli sbocchi delle trombe di sentina della stiva e della sala motori non erano mai sorvegliati, e a bordo di notte dormivano solo i Saito e i marinai filippini. Carline e la moglie tornavano al loro albergo a Waikiki, Barbara e Monique ai loro rispettivi appartamenti di Honolulu. Il molo era pattugliato da un gruppo di studenti francesi arrivati lì da Tahiti, che si opponevano alla decisione del proprio governo di mettere fine alla moratoria, e sospettavano macchinazioni da parte del Deuxième Bureau. Stavano seduti intorno a una lampada a cherosene vicino alla passerella e distribuivano volantini ai visitatori notturni che vagavano sul molo, mentre un piccolo dinghy sorvegliava le acque attorno al Dugong.
La cabina che Neil avrebbe diviso con Carline e col tecnico del suono indiano era uno stretto bugigattolo di metallo con tre cuccette incernierate al muro, a neanche sei passi dall'ingresso che portava alla stiva di prua. I filippini dormivano a poppa, nella sala motori, e avrebbero sentito Neil se quest'ultimo si fosse avvicinato, ma sarebbe bastato aprire uno solo degli sbocchi delle trombe di sentina per inondare la nave e farla inabissare sul fondale del porto.
Alla pensione Neil guardava i telegiornali, aspettandosi da un momento all'altro che gli agenti segreti francesi a Honolulu organizzassero lo stesso tipo di sabotaggio che aveva affondato la Rainbow Warrior, e gli risparmiassero così la pena di dover tradire la dottoressa Barbara. Alla fine di giugno, una settimana prima della partenza del Dugong per SaintEsprit, riempì una valigia di vestiti e oggetti personali in quantità sufficiente da far credere a tutti che intendesse vivere a bordo della nave.
Arrivò al molo al tramonto, quando i volontari francesi già sedevano sulle loro seggioline accanto alla passerella, con gli striscioni antinucleari che garrivano alle luci ondeggianti del peschereccio. Neil portò il bagaglio nella cabina e spinse la porta che dava nella stiva di prua: era aperta. Raggiunse il professor Saito e la moglie in cambusa, dove condivise il loro modesto cibo macrobiotico. Dopo cena lo invitarono nella loro cabina, dove discussero con calore i danni provocati al patrimonio naturale del Giappone dalla politica postbellica di industrializzazione a ogni costo.
Valente tassonomo, il professor Saito era un uomo sottile, che non sorrideva mai e non sembrava neppure tanto più vecchio di Neil. La cabina era zeppa di manuali e rapporti sulle miriadi di specie a rischio di estinzione in tutto il mondo, che il botanico sembrava voler classificare tutto da solo. Aveva cominciato a catalogare ogni insetto che viveva a bordo del Dugong, e aveva anche notato un numero di topi nella sentina più basso di quello che ci si poteva aspettare.
La signora Saito era una donna piccola e vivace, con mani così forti che aveva quasi slogato il polso di Neil quando gli aveva stretto la mano per salutarlo. Era devota al marito, e lo accudiva in continuazione, come farebbe un manager esperto con un pugile alle prime armi. Fissava Neil attraverso le bacchette con cui portava alla bocca il cibo, e una volta allungò la mano fino a toccargli il braccio, come se si aspettasse di sentirlo scottare per le radiazioni. Gli disse che lei e il marito andavano a Saint-Esprit in rappresentanza di tutte le vittime della seconda guerra mondiale.
«Possiamo salvare gli albatros, Neil», gli disse in tono rassicurante.
«Certo che possiamo, signora Saito», rispose lui, non capendo se la donna avesse fatto una domanda o una affermazione.
«Se salviamo gli albatros potremo aiutare lo spirito di molte persone di Hiroshima.»
«Le persone che sono morte?»
«Anche le persone che ci sono oggi. Continuano a vivere negli albatros.»
Il marito sorbiva il suo sakè. «È l'uccello sacro dell'Inghilterra?» domandò. «Una figura totemica?»
«Sì, in un certo senso lo è...»
«È un uccello molto bello. Saint-Esprit è bella?»
«Sì, certamente», confermò Neil. «Vede, ha un'atmosfera molto strana. Ci sono tutte quelle torri.»
«Torri?» Il professor Saito si rizzò sulla sedia. «Come... obelischi? Colonne di pietra con delle iscrizioni religiose?»
«No. Sono torri di osservazione per le telecamere, sono fatte di cemento. Aspettano un'esplosione nucleare...»
Neil cercò di calmarsi, ma il silenzio che seguì la sua breve concitata osservazione durò finché lui non lasciò la cabina e chiuse la porta. Le due ore successive le trascorse sul molo, chiacchierando con una zelante americana, una luminare informatica dell'università che stava preparando il caffè per gli studenti francesi. A mezzanotte salì sulla passerella e andò nella sua cabina. Lasciò la porta aperta e si sedette, ascoltando gli strani, aspri fruscii che provenivano dalla cabina dei Saito e guardando attraverso il portello incrostato di sale le luci lontane di Waikiki.
Per la prima volta si chiese se avrebbe avuto il coraggio di aprire la tromba di sentina e di far precipitare i sogni di Barbara sui fondali del porto. Sarebbero bastate anche solo poche decine di centimetri d'acqua nella stiva di prua per rimandare la partenza, e far sorgere nella mente di Irving Boyd qualche ripensamento sulla spedizione.
Gli studenti sonnecchiavano sulle loro seggioline e l'odore della cannabis aleggiava sulla nave silenziosa. Neil uscì dalla cabina, aprì lentamente la porta ed entrò nella stiva. Mentre girava la ruota della tromba di sentina promise a se stesso che si sarebbe dedicato a Barbara, che in qualche modo sarebbe riuscito a restituirla alla professione medica.
Dal boccaporto sopra la sua testa lampeggiarono delle luci che illuminarono l'albero di trinchetto che si ergeva nella notte come un patibolo contorto. Mentre i Saito si agitavano nella loro cabina, Neil si arrampicò su per la scala viscida d'olio, uscì sul ponte e si acquattò dietro l'antenna satellitare. Gli studenti parlavano ad alta voce e c'era uno scalpiccio frenetico sulla passerella. Sul molo irruppe a tutta velocità un taxi con i fari che si abbassavano e lampeggiavano: l'autista bloccò la macchina con uno stridio di freni accanto all'imbarcazione ormeggiata, cercando il Dugong. Sopra la sua spalla si sporse Barbara, che indicò le bianche ali emergenti dall'acqua scura.
Vedendola, Neil si sentì invaso da un'ondata di sollievo. Sapeva che sarebbe stato capace di affondare la nave, ma non mentre Barbara era sul ponte. La incrociò sulla passerella e le prese le mani mentre lei si precipitava a bordo. Aveva i capelli spettinati e respirava a fatica attraverso il rossetto che le macchiava la faccia, come se fosse appena stata abbracciata da un amante violento.
«Neil, grazie al cielo sei qui. Sapevo di poter contare di te.» «Dottoressa Barbara, che c'è? Qualcuno l'ha aggredita?» «Hanno aggredito tutti noi!» Barbara fissava la nave con aria esaltata, come se non riuscisse a mettere a fuoco nulla. «I francesi hanno informato le Nazioni Unite. Gli esperimenti nucleari riprendono a Saint-Esprit il 15 luglio. Neil!»
«Il 15 luglio...?» Neil cercò di fermare le mani di lei che turbinavano nell'aria notturna come uccelli in preda al panico. «Ma dottoressa, allora vuol dire che non ha senso andare. Non ci arriveremo mai.»
«Ci arriveremo, Neil. Ci arriveremo se partiamo domani.» Lo afferrò e lo strinse tra le sue braccia selvagge, spingendo le guance di lui sul suo petto ardente. «Pensa, Neil... stanno per lanciare una bomba nucleare. Adesso non puoi non venire con me...»
Incursione a riva
Fra l'aria e il mare si stava svolgendo un elaborato balletto, una performance provata così tante volte che ben di rado deviava dai binari convenuti. Sullo sfondo si stagliava il tetro palcoscenico di Saint-Esprit: una nube gonfia di tempesta gravava sul picco dell'isola come un genio scontroso, e gli estremi pendii della montagna erano sottogonne agitate dalle incessanti bordate di schiuma che si frangevano contro le spiagge di cenere nera. Il mare correva all'impazzata, la superficie solcata da un labirinto di scie, coreografia frenetica di colpi e contraccolpi che ritmavano lo scontro quotidiano.
Le gambe premute contro la prua che rollava, Neil stava in piedi sul ponte di prora del Dugong, riparandosi dai freddi spruzzi dietro il disco dell'antenna satellitare, che in quel momento stava trasmettendo al mondo la prima performance del pomeriggio. A dar loro il benvenuto, gli veniva spesso da pensare, mancavano solo un'orchestra e un coro su una lancia da parata oltre la barriera corallina. Guidati da Kimo e da David Carline, i due gommoni piroettavano attorno alla prua dello Champlain, mentre la nave da rifornimento francese manovrava sul mare irrequieto davanti all'imbocco della barriera. Mossi dagli scatenati motori fuoribordo, i gommoni si sollevavano quasi verticalmente, come albatros balenanti in mezzo alla spuma per adescare l'esasperato capitano, il quale ancora un volta segnalava alla sala macchine di fare marcia indietro.
Lo Champlain tentava di entrare nella laguna da più di un'ora, e Neil aveva concluso che il capitano aveva l'ordine di non travolgere i due gommoni, che stavano mettendocela tutta per provocarlo. La nave emetteva fumo, e l'elicottero a due posti che incrociava sopra di essa lo distribuiva tutt'intorno sotto forma di foschia fuligginosa, nel tentativo di far finire le imbarcazioni sulla barriera corallina, dove il loro scafo di gomma si sarebbe squarciato. Ma Kimo e Carline azionavano le eliche con ostentazione, e balzavano in mezzo al fumo come acrobati al circo. Passavano veloci accanto al Dugong per raccogliere il tributo di ammirazione della dottoressa Barbara, che li salutava dal ponte, poi tornavano spediti alla nave da rifornimento.
Ma intanto il capitano francese aveva perso l'occasione di infilarsi in mezzo alla barriera. Dopo aver invertito la marcia, adesso tagliava l'onda lunga, ignorando i gommoni, mentre l'elicottero si spostava sopra il Dugong e si abbassava fin quasi a sfiorarne la tolda. Neil si afferrò all'intelaiatura di sostegno dell'antenna parabolica, e a beneficio della telecamera dei Bracewell levò il machete stretto nella mano destra, pronto a tagliare la corda penzolante con la quale il pilota stava cercando di prendere al cappio la scodella metallica dell'antenna.
Il turbinio dell'aria provocato dalle pale dell'elicottero colpì il viso di Neil come uno schiaffo e per poco non gli strappò dalle spalle la giacca a vento con l'emblema dell'albatros. In piedi sul ponte, dietro al capitano Wu, Mark Bracewell inquadrò il velivolo che girava in cerchio sopra la nave, mentre la moglie gli reggeva le braccia, e Pratap, il fonico, frugava il cielo con il microfono a giraffa per cogliere i grugniti più orribili del motore. Dietro a loro, Monique urlava e inveiva contro il pilota biondo, ma le terribili minacce si perdevano nel frastuono. Allora la donna fece esplodere un razzo da segnalazione che si perse nella scia dell'elicottero, mentre quest'ultimo virava stancamente sopra il mare in burrasca e si dirigeva verso la pista di atterraggio di Saint-Esprit.
Presto ci sarebbe stato un intervallo di un'ora, per dar modo al pubblico televisivo in tutto il mondo di ravvivare la propria indignazione. Quando Janet Bracewell chiamò Neil, questi si volse verso la telecamera, ben sapendo che il suo ruolo principale era quello di fornire alla trasmissione, in chiusura, un appropriato e autorevole imprimatur. Sperava che in Inghilterra Louise, guardando il telegiornale della sera dopo una giornata trascorsa alla scuola di musica, lo vedesse e apprezzasse almeno le parti migliori dello spettacolo del pomeriggio, e che ad Atlanta sua madre, seduta sull'orlo della sedia, non si preoccupasse troppo vedendogli in mano quella temibile lama.
Dietro al timoniere filippino il capitano Wu attendeva con palese disapprovazione la fine di quelle operazioni così poco marinaresche, mentre Barbara scrutava col fiato sospeso il mare in tempesta come un impresario che guarda gli esterni di una costosa produzione cinematografica. Il che, naturalmente, era vero alla lettera, anche se la dottoressa, Neil e tutti, a bordo del Dugong, sapevano bene che in qualsiasi momento quell'allegro duello poteva concludersi in maniera molto meno allegra, addirittura brutale. Tutti pensavano che gli esperimenti nucleari programmati prima o poi sarebbero stati eseguiti, e più probabilmente prima che poi. Sin dal loro arrivo a Saint-Esprit, quattro giorni prima, Neil aveva scrutato attentamente le vecchie torri e gli edifici dell'atollo, con la segreta e inconfessata speranza di vedere alzarsi dal centro della laguna un'eccitante eruzione di vapore.
E intanto una sola bordata dello Champlain avrebbe affondato i gommoni e li avrebbe messi fuori gioco per sempre. Ma i francesi finora si erano attenuti scrupolosamente al copione, quali che fossero le ragioni politiche e diplomatiche che consigliavano quell'atteggiamento. Permettevano al Dugong di avvicinarsi all'isola, e aspettavano con pazienza che i gommoni si esibissero nel loro pas de deux acquatico. Nel tardo pomeriggio arrivava la corvetta Sagittaire e scortava il peschereccio fuori dalle acque territoriali, dopo di che la luce da segnalazione della nave militare concludeva la missione con un'elaborata parolaccia che faceva infuriare Monique e la faceva scendere in cabina fuori di sé.
Era una situazione che accontentava tutti, e permetteva alle due parti, con un minimo rischio, rispettivamente il massimo di difesa della dignità nazionale e il massimo di copertura televisiva. Ma adesso la sceneggiatura avrebbe avuto una svolta radicale, senza che i francesi fossero stati neppure consultati. Mentre la tolda, col suo rollio, metteva a dura prova i nervi ancora deboli del piede ferito di Neil, quest'ultimo ricordò la pallottola che lo aveva colpito tre mesi addietro. Se Barbara li avesse provocati sul serio, i francesi avrebbero sparato di nuovo.
«Neil, vieni?» gli gridò Monique dal ponte, mentre si allacciava il giubbotto di salvataggio. «Noi stiamo partendo.»
«Rimango qui, Monique.»
«Ma ti vogliamo sull'isola, Neil. È per il film.»
«Girate voi per conto mio.»
«Come vuoi...» Monique scoprì i grossi denti, preoccupata che Neil, da quando si era imbarcato, non riuscisse a ritrovare il suo coraggio. «Dovresti riposare di più, Neil. Questi sogni nucleari...»
Sotto la passerella di destra, nascosto ai binocoli dello Champlain, era già pronto uno dei motoscafi più potenti di Irving Boyd, col motore che rombava al mare come un segugio impaziente. I sedili erano ingombri di razzi da segnalazione e detonatori, e c'erano anche tre bottiglie molotov, costruite da Carline e da Saito con una miscela di etere, olio di palma e benzina. La moglie del botanico era già acquattata in mezzo ai cilindri di vetro, e accarezzava gli stoppacci delle bottiglie, eccitata dal potere di distruzione che covava sotto i suoi polpastrelli. Monique si arrampicò a bordo del motoscafo e recitò mentalmente qualche suo catechismo ecologico con gli occhi fissi sulla spiaggia che l'attendeva. L'isola nucleare incarnava tutto ciò che quelle donne temevano e detestavano, come Neil aveva appreso dai loro lunghi comizi. Più di una volta lo avevano intrappolato nella cambusa e lo avevano imbonito con il racconto di tutte le malformazioni che affliggevano le pacifiche tartarughe dell'atollo di Eniwetock, il luogo più sacro all'immaginazione di Neil.
Un marinaio filippino abbassò il motore dell'imbarcazione, i cui fumi di scarico lambivano le lastre bianche dello scafo del Dugong. Il professor Saito, col viso affilato nascosto nel cappuccio della giacca a vento, si accucciò accanto ai Bracewell e a Pratap. Il giapponese sembrava teso e nervoso, sempre a disagio quando si allontanava anche di pochi metri dai giornali e dagli annuari della sua cabina. Stringeva fra le mani un vaso di terracotta pieno di ceneri umane, un piccolo campione affidatogli dai custodi di un ossario di Hiroshima, che sperava di seppellire accanto agli albatros morti nelle sabbie tranquille della laguna di Saint-Esprit.
Calmo e sollevato per essersi rifiutato di unirsi a Barbara in quella incursione a riva, Neil aspettò che la donna uscisse dagli alloggiamenti all'estremità del ponte. Quando mise piede sulla tolda, infagottata nell'impermeabile e nel giubbotto di salvataggio come un incursore della domenica, salutò spavaldamente Neil. Lui l'aiutò a scendere la scaletta che portava al motoscafo, cercando di stabilizzare i suoi piedi incerti, ma lei scivolò sui gradini unti, rischiando di perdere la fascia con l'albatros che portava sulla fronte.
«Dottoressa Barbara, perché non...?»
«Neil, che cos'hai?» Si rimise in equilibrio e gli rivolse un caldo sorriso, tenendo un braccio contro lo scafo oscillante del Dugong per proteggersi la testa. «Non ti spaventare per queste cose.»
«Potremmo aspettare un altro giorno... magari una settimana. Forse i francesi se ne andranno.»
«Non possiamo più aspettare, Neil. Dobbiamo mettere piede sull'isola, altrimenti il mondo perderà interesse alla no-stra iniziativa. Adesso, voglio che tu resti a bordo. Hai già fatto abbastanza per salvare gli albatros. Promettimi che non cercherai di raggiungere la riva a nuoto.»
«Dottoressa Barbara...» Neil indicò la bottiglia molotov stretta fra le cosce della signora Saito. «Basta una pallottola... una pallottola sola per affondare la barca. I Saito non hanno visto i francesi all'opera.»
Barbara gli colpì affettuosamente il mento col pugno chiuso. «Dobbiamo andare a riva. In dieci giorni saremo di ritorno a Honolulu, e abbiamo bisogno di qualcosa per dimostrare a Irving che facciamo sul serio.»
«Ma Irving non è serio!» Neil si scoprì a gridare mentre le sirene dello Champlain suonavano. «Per lui tutto questo è solo uno spettacolo televisivo...»
«Lo so, Neil. Ma questa è la nostra ultima possibilità. Fidati di me...»
Lasciandosi dietro una scia spumeggiante, il motoscafo si allontanò dal Dugong, col gruppo degli incursori acquattato dietro al timoniere. I due gommoni stavano ancora volteggiando attorno allo Champlain come due cani da caccia, facendo gemere i motori. La nave da rifornimento era andata alla deriva a causa del mare in tempesta, e adesso si trovava a circa mezzo chilometro dall'entrata della barriera corallina. Il capitano difendeva la prua, e i suoi uomini puntavano gli idranti verso Carline e Kimo, innaffiandoli copiosamente. Nessuno si accorse del motoscafo che si dirigeva verso il bordo esterno della barriera, in cui Kimo aveva trovato un'altra interruzione.
Avrebbe dovuto gettarsi in acqua e raggiungere la riva a nuoto? Neil si afferrò alla ringhiera e fissò le onde, che si rivoltavano allegramente sulla schiena come se stessero aspettando impazienti il suo arrivo. Forse Barbara aveva insinuato nella sua mente quell'idea, quasi inavvertitamente, solo perché voleva assicurarsi la sua presenza nella spedizione senza però assumersene alcuna responsabilità. Lei sapeva che stavolta i francesi avrebbero mirato più in alto del piede di Neil. A mano a mano che il loro nervosismo cresceva, le loro tattiche si facevano più dure. Il Sagittarie, mentre li scortava fuori dalle acque territoriali, aveva quasi speronato il peschereccio. Il comandante della squadra militare aveva minacciato il capitano Wu e i suoi sottufficiali avevano maltrattato Kimo, riducendo poi al silenzio con i megafoni Barbara e Monique che stavano cercando di fare un discorso appassionato davanti alla telecamera dei Bracewell.
A tutto questo erano ben preparati, e durante il viaggio da Honolulu si erano sentiti stranamente eccitati, contagiati dalla salda convinzione della dottoressa che la loro missione all'isola nucleare avrebbe avuto successo. Un guasto ai motori li tenne tranquilli per tre giorni, tre giorni di purgatorio, di noia soffocante interrotta solo da scrosci di pioggia bollente. Barbara passava ore e ore sulla prua del Dugong a contare gli uccelli marini, mentre Monique giocava a bridge con Carline e i Bracewell. Kimo, per irrobustire il corpo in vista del confronto che li attendeva, faceva di corsa giri su giri del ponte, e si esercitava al ritmo del rock sul suo stereo portatile.
Nel frattempo i Saito rimanevano nella loro cabina ad affilare le proprie convinzioni morali. Quando Neil scese a trovarli, pur sapendo di dare fastidio, lo informarono di essere certi che gli altri membri della spedizione non avevano compreso a fondo il significato di quel viaggio, che secondo loro rappresentava la discesa al grado zero spirituale del Ventesimo secolo. Il professor Saito cercò di interrogare Neil sullo speciale simbolismo dell'albatros, visto come un emblema della colpa nucleare che affliggeva Barbara e, per estensione, gli americani del tempo di guerra. Da parte sua, Neil mostrava un po' troppa curiosità sulla bomba atomica di Hiroshima, e la signora Saito si sentì obbligata a rimproverarlo.
«Neil, hai una mentalità da discotecaro! Guarda che Hiroshima non è stato uno spettacolo luminoso.»
«Ma certo che non lo fu, signora Saito. Mio padre era a Maralinga durante gli esperimenti inglesi.»
«Lo vedi? E quante persone sono morte lì?»
«Be'... penso che lui sia morto.»
«Pensi? Yukio, lui pensa. Il ragazzo... pensa.»
Oppure Neil bighellonava per la nave o giocava a scacchi con Carline, felice di vedere con quanta facilità riusciva a battere quell'americano dagli occhi slavati. Reso generoso dalla vittoria, ignorava le lezioni sulla vera mentalità del gioco degli scacchi impartitegli dall'avversario.
«Non hai il minimo senso della strategia quando giochi, Neil. Vinci solo perché aspetti che io faccia un errore.»
«Ma tu non fa mai errori, David.»
«Si dà il caso che non abbia fatto altro che errori nella mia vita, o almeno così amano dirmi mia moglie e mia figlia. È una delle ragioni per cui sono qui.»
«Tu non pensi che questa spedizione sia un errore?»
«È questo, quello che pensi tu? Sì, probabilmente. Barbara ha trovato uno strano paladino quando ti ha pescato. Credo che abbia in mente qualcosa di speciale per te.» Carline osservò gli scacchi in silenzio e cominciò a sistemarli per una nuova partita. «Ti potrà sembrare ingenuo, ma la nostra causa è giusta, e la vittoria a portata di mano.»
Il sorriso speranzoso ma melanconico di Carline ricordò a Neil la smorfia di insicurezza che l'uomo non era stato capace di cancellare dal volto mentre il Dugong lasciava il molo di Honolulu. Imbarazzato dalla vista della moglie depressa, aveva cominciato a muovere il braccio nei suoi soliti rovesci, questa volta indirizzati a se stesso. Il suo forzato buon umore metteva invece tristezza a Neil, come del resto il ruolo che si era autoassegnato di secondo della dottoressa. Carline era sempre in giro per la nave, ad aiutare il capitano Wu nella navigazione o a supervisionare le provviste, ed era ansioso di sbarcare a Saint-Esprit per trovare un po' di sollievo a quella infiammazione al cuore che lo aveva portato a peregrinare dall'Africa al Sud America nei suoi viaggi missionari. Durante uno dei suoi giri di ispezione aveva mostrato casualmente a Barbara la pistola cromata che teneva in valigia. Accortosi dell'orrore che aveva provocato nella donna, le aveva promesso di gettarla in mare, ma il giorno dopo Neil vide che l'arma stava ancora nella sua fondina tedesca di pelle nera.
I buoni sentimenti di Carline non gli impedivano però di ricorrere a certi piccoli sotterfugi. Poco prima della partenza arrivò sul Dugong una cassa di costosi cibi in scatola, proveniente dal suo albergo di Waikiki. Questo cestino da picnic stava sotto la sua cuccetta, chiuso da un robusto lucchetto di bronzo. Tutti i giorni Carline ritirava dalla cambusa la sua intera razione di cibo (insalata di carne, stufata o conservata sotto sale, preparata dallo chef filippino, che aveva lavorato per la marina americana alla base di Subik Bay): eppure sorrise senza alcun imbarazzo una volta che Barbara lo sorprese a consumare uno spuntino privato a base di paté e di petti di quaglia. Alla vista di questa esibizione un po' arrogante di ricchezza la dottoressa inarcò le sopracciglia, ma poi valutò l'energia e la determinazione dell'uomo, come già avevano fatto i missionari cristiani, e decise di tollerare questa debolezza di carattere.
Perplesso su Carline anche se lo batteva a scacchi, Neil cercò di rendersi utile a Monique, e l'aiutò a preparare il commento sul viaggio che lei registrava tutti i giorni per una radio di Tolone. Però la sua irritazione con se stessa al minimo intoppo nel discorso, e i suoi incessanti attacchi alla politica ecologica del suo Paese stancarono presto Neil. Poiché non aveva nemmeno voglia di unirsi a Kimo nella sua attività motoria sul ponte, si trovò nella sala nautica con i Bracewell e Pratap, a guardare le lunghe ore di immagini girate dalla troupe. Neil si accorse subito che la telecamera divagava spesso e volentieri per inquadrare proprio lui, giovane goffo e sempliciotto che fissava aggrottato il cielo, come se fosse la prima volta che vedeva un uccello marino. Anche Barbara e Monique apparivano goffe e dilettantesche mentre si dondolavano su e giù per il ponte come due zitelle un po' ubriache.
«Senti, Mark, li farete vedere questi filmati?» chiese un giorno, domandandosi come avrebbero reagito a quelle immagini sua madre e Louise. «Sono abbastanza curiosi: sembriamo tutti sbronzi, o deficienti.»
«E dai, Neil...» Bracewell si unì alla risata della moglie, ma intanto le gettò uno sguardo d'intesa. Lui e Janet erano una coppia gradevole ma riservata: giravano per la nave sempre allegri, ed erano interessati più ai membri della spedizione che all'impegno per salvare gli albatros. «Non possiamo certo farvi vestire un'armatura luccicante.»
«Perché no? La dottoressa fa sul serio.»
«Questo lo sappiamo. Guarda, quella donna ha tutta la mia ammirazione, ma non si può far finta che sia Albert Schweitzer. La cosa più interessante di questo viaggio è che tu e gli altri siete uno spaccato della vita di tutti i giorni: sette persone che non hanno praticamente nulla in comune, che si incontrano all'angolo di una via e decidono di intervenire per fermare un bullo che sta ammazzando di botte il suo cane.»
«È proprio così, Neil», aggiunse Janet, offrendogli un'altra fetta di papaia in segno di pace. «La storia è tutta qui, su questa nave. Sei tu, e Monique, e i Saito... Irving questo lo sa.»
«Volete dire che state facendo un documentario su di noi, e non sugli albatros?»
«Voi sette, e gli albatros», spiegò Bracewell. «Diciamolo francamente, avete tutti delle ragioni abbastanza strane per essere qui.»
«E questo cosa importa? L'importante è salvare quegli uccelli.» Neil si meravigliò a sentirsi difendere gli albatros. «Voi la fate sembrare una telenovela: Il Dugong e gli albatros. Janet, non è mica un gioco. I francesi...»
«Certo che non è un gioco.» Janet gli toccò il naso con un dito morbido. «E tu lo sai meglio di chiunque altro, Neil.»
Volevano bene a Neil, ed erano felici di discutere con lui anche tutto il giorno. Ma Neil capì che Irving Boyd e i Bracewell vedevano quel viaggio a Saint-Esprit come un safari per proteggere una specie a rischio, forse la più a rischio di tutte: la dottoressa Rafferty e il suo gruppo di entusiasti, così idealisti e così indifesi.
* * *
Dall'isola si alzò del fumo: veniva dalla pista, dietro la cortina di palme. Si spostò ondeggiando fino alle torri di osservazione e si posò sui fianchi nebbiosi della collina, agitando le foglie ruvide delle cicadee e dei tamarindi. Il silenzio venne rotto da una serie di esplosioni rapide, come una successione di petardi, e una vivida luce ramata brillò in mezzo alle palme, illuminando ogni singolo tronco. Sull'atollo si scatenò un vento impetuoso, che scuoteva la vegetazione in un turbine di polvere bruciante. Era esploso un deposito di carburante, facendo alzare nell'aria una nuvola di fumo oleoso, e l'onda d'urto adesso si propagava sul mare, sbattendo sul Dugong e facendo vibrare la ringhiera tra le mani di Neil. Carline e Kimo avevano interrotto il loro assedio allo Champlain e tornavano a tutta velocità verso il peschereccio.
«Capitano Wu! Sta tornando il Sagittaire!» Neil si arrampicò sulla piattaforma dell'antenna satellitare e guardò l'orizzonte a nord-ovest. La corvetta francese era lontana solo un miglio, e il suo profilo elegante e minaccioso si stava girando in direzione del Dugong. Dal ponte il capitano Wu parlava alla sala macchine, le mani poggiate sulla ringhiera con le palme verso l'alto, come rassegnato all'idea che il sabotaggio del deposito di carburante segnava un'escalation insensata della campagna, che avrebbe portato di lì a poco alla confisca del Dugong e al proprio arresto. Kimo era sgattaiolato a riva diverse volte, e aveva raccontato che la base militare non era ormai altro che un magazzino annesso alla pista, con una trentina di soldati francesi che vivevano in tende montate sotto le palme, a distanza di sicurezza dal puzzo della spiaggia. Il massacro dei pesci e degli albatros continuava, ma senza alcun chiaro scopo.
Lo Champlain scivolò in mezzo alla barriera e si preparò ad ancorarsi nella laguna, lasciando la corvetta a occuparsi del Dugong. Neil attraversò in fretta il ponte e si mise accanto al paranco di poppa, aspettando insieme all'equipaggio che ricomparisse il motoscafo. Le fiamme del carburante si erano un po' calmate, e Saint-Esprit si era avvolta in una cortina di fumo sfilacciato. Neil ascoltò l'ansimare dei vecchi motori diesel del peschereccio e si augurò che lo scafo del Dugong fosse ancora abbastanza robusto da resistere alla prora aguzza del Sagittaire.
Il motoscafo uscì dalla barriera con una stretta virata, scortato dai due gommoni. Il viso terreo di Barbara brillava come una lanterna sullo sfondo della riva buia, con gli occhi accesi mentre aiutava Monique, in preda al mal di mare, a vomitare oltre la fiancata dell'imbarcazione. In pochi istanti le tre barche si disposero una accanto all'altra, e tutti si misero a gridare insieme, con le guance rosse per l'eccitazione, come un gruppo di studenti di ritorno da una goliardata.
«Neil! Avrei voluto che tu fossi stato con noi!» Barbara si inerpicò su per la scaletta e lo afferrò per le spalle. «Monique ha fatto saltare un deposito di carburante, tutta l'isola è in fiamme! Sei fiero di noi?»
«Sono fiero di voi, dottoressa Barbara.»
«Bene. Sono lieta che tu lo sia. Ricordati, tu e io siamo arrivati qui per primi.»
Con un braccio attorno alla vita di Neil, fissò sbalordita e felice il fumo che sovrastava Saint-Esprit, flagello spettrale che tormentava le palme. I filippini dell'equipaggio spinsero il motoscafo sul ponte, mentre Carline e Kimo aspettavano il loro turno nei gommoni, con le mani strette a pugno sulla testa.
Ma gli occhi erano tutti puntati sulla corvetta, lontana ormai meno di ottocento metri, con la prua che fendeva dritta le onde. Irritata con se stessa, Monique stava ancora vomitando addosso al suo giubbotto di salvataggio di plastica gialla macchiata dal vino rosso che la donna aveva bevuto per darsi coraggio. Saito e sua moglie, più pallida del solito, erano appoggiati alla fiancata del motoscafo, con l'aria di avere perso, per la prima volta nella loro vita, il controllo delle proprie emozioni.
Il Sagittaire cambiò rotta e puntò decisamente verso il Dugong, con l'evidente intenzione di speronarlo. La ciminiera del peschereccio sparava sbuffi di fumo nero e il capitano Wu continuava a segnalare alla sala macchine «avanti» e «sempre avanti». Aiutata dal mare, la nave si allontanava dal percorso della corvetta, ma il comandante francese aggiustò ancora una volta la rotta, e la prua rimase puntata sul Dugong.
Dal ponte della corvetta suonarono le sirene, e un segnalatore lampeggiò in faccia agli occupanti del peschereccio: la nave da guerra aveva urtato pesantemente il fianco del Dugong, spostandolo di lato. Il Sagittaire proseguì la sua corsa radente, strappando via tutta una sezione della ringhiera di dritta del peschereccio con uno stridore metallico, e riducendo in pezzi la scaletta fuoribordo di legno. La sua scia fece ribaltare il gommone di Kimo, che si trovò ad annaspare nelle acque ribollenti cercando di afferrare la mano che gli tendeva Carline.
Uno strato di pittura al piombo della ciminiera, staccato dall'urto, cadde e si frantumò sul ponte del Dugong. Neil, Monique e la dottoressa si ritrovarono seduti fra i detriti granulosi, assordati dal rombo dei motori e dall'urlo stridulo delle sirene della corvetta, che faceva dietrofront per scagliarsi di nuovo sul Dugong.
I primi a riprendersi furono i Bracewell, che si misero subito a filmare i danni alla nave e i dimostranti dispersi sul ponte. Neil si appoggiò all'antenna, chiedendosi quanto tempo ci avrebbero messo ad arrivare a riva a nuoto. Con l'alta marea potevano certamente superare la barriera corallina, ma quanti di loro sarebbero riusciti a nuotare per più di cinquanta metri?
Barbara si arrampicò su una scialuppa di salvataggio a prua e si mise a gridare insulti alla corvetta che stava per sopraffarli.
«Assassins! Salauds! Sparami, capitano!»
Si liberò la bocca dai capelli zuppi d'acqua, rivelando sul labbro una brutta ferita, e aiutò Monique a issarsi sulla scialuppa accanto a lei. Con la voce strozzata dalla rabbia, la ex hostess guardava il giubbotto di salvataggio macchiato di vomito, con le imbragature che aveva aperto e chiuso tante volte a bordo degli aerei durante le dimostrazioni ai passeggeri. Strappò le chiusure di nailon e gettò il giubbotto sul ponte. Poi si tirò su la maglietta di cotone e mostrò il seno destro ai marinai annoiati che guardavano dal ponte della corvetta. Il Sagittaire passò oltre, mentre il suo comandante segnalava al capitano Wu di spegnere i motori, e Monique si rivolse all'elicottero che seguiva la scia della corvetta, urlando improperi come una forsennata all'indirizzo del giovane pilota.
Ignorando le ingiunzioni della corvetta, il capitano Wu si stava dirigendo verso il mare aperto, trainando i gommoni sulle onde che incalzavano. Quando il dinghy vuoto passò accanto a Kimo, questi afferrò il galleggiante ammaccato, raddrizzò l'imbarcazione con le braccia muscolose e si issò a bordo. In mezzo a nuvole di spruzzi, l'hawaiano e Carline si misero a cavalcioni dei motori. Neil si aspettava che l'americano, esausto, perdesse l'equilibrio, ma dovette ricredersi: gli anni di pratica nelle gare in motoscafo a Kennebunkport avevano indurito i muscoli delle sue cosce e i suoi riflessi.
Deciso a portare un terzo attacco al peschereccio, il capitano del Sagittaire ordinò di puntare in quella direzione, e la corvetta cominciò a dirigersi nuovamente verso il Dugong con tutta la sua potenza. Mark Bracewell si appoggiò ala ringhiera del ponte di prua, premendo su di essa con la vita per tenersi in equilibrio, e si mise in spalla la telecamera, pronto a girare, mentre Pratap, timoroso, coglieva dal cielo il suono delle sirene.
«Neil, sta indietro! Lascia stare il film!»
Mentre Barbara gridava, le due navi si sfiorarono in un frastuono di sirene, tra il lampeggiare delle luci di segnalazione. La poppa della corvetta si levò, innalzata dall'onda di prua del peschereccio, e il bordo più esterno della piattaforma dell'elicottero falciò il ponte di dritta del Dugong per tutta la sua lunghezza, strappando la plancia dai suoi montanti d'acciaio. Un muro d'acqua sbalzò Bracewell fuori bordo, tra i due scafi che si urtavano, e lo scaraventò nella scia ribollente del peschereccio. In mezzo al ruggito delle sirene e al lampeggiare frenetico delle luci, Neil vide la telecamera in pezzi colpire la poppa della corvetta e scomparire in mare.
Il capitano Wu fermò i motori e lasciò che il Dugong scivolasse verso la barriera. Sul ponte che rollava, in mezzo alle sezioni contorte della ringhiera, tutti fissavano l'acqua agitata dove, a un centinaio di metri, il giubbotto di salvataggio di Bracewell dondolava sgonfio sul mare scuro. Janet, sconvolta, cercò di arrampicarsi sulla poppa, e venne trattenuta solo all'ultimo momento dal professor Saito e da Pratap. L'elicottero si allontanò, come se il pilota, nella nuova situazione, non volesse aver più nulla a che fare con lo scontro, ma a un segnale della corvetta tornò sul posto e incrociò sul giubbotto che galleggiava.
Mentre Monique cercava di confortare Janet che piangeva, cullandole il capo sul suo seno scoperto, Kimo e Carline avviarono i fuoribordo e si diressero verso il cerchio d'acqua creato dal vento delle pale dell'elicottero. Nell'aria agitata piena del fumo dei motori Neil riusciva a sentire la puzza degli albatros morti proveniente dalle spiagge di Saint-Esprit, e vedeva le torri per le telecamere della laguna nucleare, giganti pronti a fare la propria parte in un gioco ancora più mortale.
Cercò Barbara, preoccupato al pensiero che anche lei fosse caduta in mare. Invece la donna era sotto il ponte, in piedi accanto all'antenna satellitare, sola, voltando le spalle all'elicottero e ai due gommoni. Con la bandana alzata sulla fronte pallida, fissava il capitano del Sagittaire con la stessa espressione che aveva riservato al sergente francese quando Neil giaceva ferito ai suoi piedi.
Gente delle isole