sabato 19 febbraio 2022

LE “AMICIZIE EROTICHE” SECONDO P. ROTH, J.M. COETZEE E M. KUNDERA Egidio Marchese

LE  “AMICIZIE  EROTICHE”   
SECONDO  P. ROTH,  J.M. COETZEE  E  M. KUNDERA 

Egidio Marchese 


The dying animal / L'animale morente (2001) di Philip Roth è un romanzo a seguito della grande rivoluzione sessuale degli anni sessanta. Ha la stessa tematica delle amicizie erotiche de L'insostenibile leggerezza dell'essere (1984) di Milan Kundera. La citazione nel frontespizio è una che si potrebbe applicare anche a La vie sexuelle de Catherine M. (2001) Catherine Millet: "The body contains the life story just as much as the brain" Edna O'Brien. 
Il tema del sesso nel romanzo di Roth ha una centralità che non c'è nel romanzo Disgrace / Vergogna (1999) di J. M. Coetzee; tuttavia ci sono notevoli somiglianze: entrambi i protagonisti sono professori di età avanzata (52 e 62 anni), entrambi divorziati (perfino dello stesso nome David), che gestiscono la propria libidine liberamente con prostitute o donne occasionali, amicizie erotiche o entrambi seducendo a suon di musica classica le loro stesse giovani studentesse. Tanto in Roth che in Coetzee e pure in Kundera, c'è alla fine un comune senso pietoso della morte degli animali, come nel titolo The dying animal. (titolo tratto dai versi di Yeats "Consume my heart away; sick with desire / that fastened to a dying animal / It knows notwhat it is." - Si consumi il mio cuore malato di desiderio, di un animale moribondo e ignaro.) 
Questo romanzo di Roth, a differenza del romanzo di Kundera e del superiore romanzo di Coetzee, è per vari aspetti inferiore alle aspettative.Viene esaltata la rivoluzione sessuale degli anni sessanta, quando la gente si toglie le mutande e va in giro ridendo. Dopo una digressione storica dell'oppressivo puritanesimo, troviamo il protagonista che lascia la moglie e il figlio di otto anni, per vivere meglio la sua libertà erotica. Ma alla fine resta sempre insoddisfatto. Da una parte litiga col figlio che lo accusa di essere immorale, e difende la sua libertà sessuale. D'altra parte ha una relazione con una studentessa molto giovane, di fronte alla quale egli si prostra fino all'aborrimento. Dalla libertà sessuale finisce nella servitù sessuale. Il personaggio diventa incongruente, non è più credibile, la stessa morte che incombe non suscita alcuna umana condoglianza. Il personaggio non riesce a maturare, rimane infantile, chiuso nel proprio grande egoismo narcisista. La sua celebrata libertà erotica esclude ogni limitazione, come sono visti i legami dell'amore e della famiglia. Una farsa tragicomica essenzialmente falsa appare quando George, l'amico del protagonista, sul punto di morire, paralizzato in tutta una metà del corpo, cerca di spogliare la moglie con la mano ancora sana. La forza erotica dell'uomo può essere tremenda, come si vede in Eyes wide shut diStanley Kubrick; ma in questo romanzo di Roth non appare quella forza tremenda del sesso, né quando si gode, né quando non si gode. Non si riesce a prendere la cosa sul serio.In conclusione, questo romanzo, nonostante i suoi limiti, ha pur sempre un certo fascino, per la grande maestria dello scrittore. Il quale per esempio, con bella arguzia, fa dire alla moglie di George, quando questi moribondo cercava di spogliarla: "I wonder who it is he thought I was" - Chi sa chi pensava ch'io fossi. D'altra parte c'è un altro notevole parallelismo tra Philip Roth e John M. Coetzee, sempre sul tema del sesso. In L'animale morente di Roth, come abbiamo visto, c'è quel personaggio, George, semi-paralizzato, moribondo, che attira la moglie e la bacia avidamente con la metà della bocca non paralizzata e cerca di spogliarla con la mano ancora sana. In Elizabeth Costello (5, IX) di Coetzee c'è qualcosa del genere: un vecchio, operato di cancro e moribondo, che, non potendo parlare (rantola attraverso un foro alla gola), comunica con Elizabeth Costello scrivendo: "Mi piacerebbe vederti nuda..." e lei si denuda e lo compiace. In questo stesso romanzo (lezioni o saggi romanzati, dove protagonista è una scrittrice che fa delle conferenze su vari soggetti) c'è anche un capitolo intitolato Eros, dove spregiudicatamente si mette la Madonna e lo Spirito Santo insieme ai miti greci dell'amore tra umani e dei: Psyche, Anchise, Afrodite, ecc. Possiamo pensare al tema dell'eros in relazione all'ethos nell'arte. Roth separa l'eros dall'ethos (basta con il sentimentalismo delle donne mamme...) e risulta impoverito, arido e monotono quasi quanto C. Millet in La vie sexuelle de Catherine M. tutta-solo-sesso. Entrambi sonoaddirittura convenzionali oggigiorno, con il sesso che ci viene bombardato in ogni media. In Coetzee, invece, ci sono molte dimensioni diordine intellettuale. Il suo episodio del moribondo erotico si inserisce nel contesto di una discussione tra un cristianesimo intransigente trascendente e la cultura ellenica di armonia e bellezza umanista. 
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Ne L'insostenibile leggerezza dell'essere di Milan Kundera, l'amicizia erotica con il maggior numero possibile di donne è la formula ideale delwomanizer Tomas, che insieme desidera e teme le donne, quelle che arrivano con la valigia per stare, che offrono la loro vita e dopo aver fatto l'amore a letto ci vogliono rimanere, dormire accanto a lui tenendogli la mano: una cosa per lui insopportabile.  Sabina è la sua migliore amica erotica, che la pensa come lui: meglio fare l'amore e rimanere liberi, indipendenti e senza impegni. Secondo la superficiale morale corrente o le ingenue idee comuni (kitsch), Tomas sarebbe considerato un mostro; mentre Sabina pensa che invece è lo stesso kitsch il mostro. Da questo inizio provocatorio prende le mosse l'autore, che osserva le cose da una prospettiva filosofica, ponendo tutto spregiudicatamente in discussione. Se fosse vera l'idea del perenne ritorno delle cose - secondo il  folle mito di Nietzsche - allora Robespierre tornerebbe sempre a mozzare teste e Cristo ad essere inchiodato in croce, e la vita sarebbe per tutti un grave fardello pieno di doveri e responsabilità. Se invece tutto finirà irreversibilmente, allora si può anche vedere con distacco una morale perversa e anche condonare le stesse amicizie erotiche di Tomas, e la vita sarebbe più facile e leggera, senza responsabilità e conseguenze. Ma questa vita astratta da ogni impegno reale, non sarebbe in fondo un'ombra di vita, una "insopportabile leggerezza dell'essere"? Arriva Tereza con una pesantissima valigia e una espressione infantile, e Tomas ne è conquistato: come si può temere una donna tenera e indifesa come un bimbo? Gli piace anche dormire accanto a lei, insomma cede non solo al piacere, ma anche all'amore... pur mantenendo le sue amicizie erotiche. D'altra parte Sabina ha un altro amante, Franz, bello e aitante, ma contrario al suo mondo, un sognatore che crede nel kitsch che lei disprezza. Quando il povero Franz per amor di lei confessa alla propria moglie la loro relazione, Sabina fa l'amore con lui appassionatamente per l'ultima volta... e poi lo lascia! L'insostenibile Leggerezza dell'essere di Milan Kundera è un'opera parzialmente di filosofia, di storia (la rivolta repressa della Cecoslovacchia nel 1968 contro il regime comunista) e di letteratura. "I personaggi nel mio romanzo - precisa l'autore - sono le mie stesse possibilità non realizzate". Di questi personaggi l'autore è innamorato e atterrito. Ciascuno di loro supera dei limiti, aldilà dei quali ci sono segreti sui quali egli indaga. La coppiaTomas e Tereza, nonostante tutto, vive un vero completo rapporto di amore, un rapporto di dare e ricevere, che è il più bello dei rapporti umani. 
Bibliografia 
PHILIP ROTH, The dying animal, Published by Houghton Mifflin Company, 2001 / Ed. It L'animale morente, Einaudi, 2003 
JOHN M. COETZEE, 
- Disgrace (1999), Vintage, Random House, London, 2000  / Vergogna, Einaudi, 2003 
- Elizabeth Costello (2003), Published by Vintage Books, 2004 / Einaudi, 2004 
MILAN KUNDERA, L'insostenibile leggerezza dell'essere, Adelphi, 1989 
CATHERINE MILLET, La vie sexuelle de Catherine M., Editions du Seuil, 2001. 
SIGMUND FREUD, "On Metapsycology. The Theory of Psychoanalysis, 11.mo Volume della Pelican Freud Library (dove si tratta particolarmente del drammatico conflitto tra il "principio del piacere" libero, travolgente e distruttivo col "principio della realtà" razionale e repressivo) 
HERBERT MARCUSE, Eros e civiltà, Einaudi, 1964 (trattato in due parti: la prima "Sotto il dominio del principio della realtà" tratta dell'"individuo represso", della "civiltà repressiva", ecc.; la seconda parte "Al di là del principio della realtà" tratta di "Fantasia e utopia", "Orfeo e Narciso,  "Dimensione estetica", "Trasformazione della sessualità in Eros", "Eros e Thanatos" ecc.) 
SERGIO GIVONE, Eros / ethos, Biblioteca Einaudi, 2000 ("Sia il mondo classico che il cristianesimo hanno pensato l'etica in opposizione a eros e comunque attraverso il concetto del dominio delle passioni, di cui quella erotica è apparsa fra le più minacciose. Viceversa l'erotismo si è costantemente configurato come esperienza di libertà da quei vincoli morali e sociali che sono costitutivi dell'ethos. Questo libro intende portare alla luce un nodo concettuale [,,,] suggerendo una chiave interpretativa per fenomeni - a cominciar dalla violenza - la cui radice è proprio nella contrapposizione di eros ed ethos." ecc. - Nota dell'editore.). C'è un punto, nel nuovo lavoro di Sergio Givone, in cui la fitta argomentazione, fatta di costanti riferimenti ad autori e opere della tradizione occidentale, vicina e lontana, si dispiega in una più evidente volontà ermeneutica, nella necessità di aderire a un testo per estrarne quanto più possibile. Si tratta del capitolo quinto, non a caso intitolato "Fabula", dove il filosofo affronta una lettura del celebre racconto di Kleist "La marchesa Von O".In esso, Givone individua un nesso interessante e prolifico tra le due parole che danno il titolo all'intero libro, eros ed ethos appunto, separati da un trattino che sta a significare, insieme, la loro reciproca alterità e inscindibilità, La storia di Kleist è nota.Una Marchesa, durante le guerre d'Italia, vedova e madre di due figli, fa pubblicare sui giornali una lettera nella quale dichiara di trovarsi incinta, senza " sapere come", e invita il padre del nascituro a presentarsi, per sposarlo. A partire da questo memorabile inizio entra in gioco una vera e propria retorica del racconto in cui, a farla da padrone, sono appunto eros, la dimensione pulsionale e nascosta del tutto nell'oscurità, ancora priva di agnizione, e ethos, l'insieme, in questo caso, dei comportamenti sociali, del controllo che essi continuamente esercitano sul dominio di eros. Ma la contrapposizione tra eros ed ethos assume, in questo racconto, una versione per certi versi inedita, Il conte russo si presenta per chiedere la mano della marchesa, comunicando la sua grande passione nei suoi confronti, e insieme riconoscendo la propria colpa. La dialettica che si dispiega in questo frangente narrativo, e determina in un certo senso, l'invasione di eros nel campo dì ethos, che viene allontanato nelle sue funzioni di controllo e di giudizio. Ma, nello stesso tempo, è l'elemento erotico, che attraversa tutto il racconto scardinando ogni possibilità dì compromesso, a farsi esso stesso ethos, senso del dovere, necessità di riparazione. 
Leggendo Kleist Givone dispiega una un relazione a un testo letterario quanto andava preparando, fin dagli inizi del suo saggio. Che mira ad affrontare appunto quel nesso mai risolto che lega e insieme allontana eros da ethos. Per far questo, in ognuno dei capitoli l'autore si dedica a sciogliere una serie di nodi concettuali. E attraverso la lettura di testi che fanno da cardine per la sua interpretazione. E' il caso della riflessione sulla violenza e sul dolore, come condizione ineluttabile dell'essere ed estrema identificazione dell'ethos con la figura del potere, del Leviatano. Seguendo le varie trasformazioni di eros, Givone giunge a toccare quegli snodi interpretativi che, fissando la contrapposizione e inscindibilità di ethos e eros, hanno elaborato modelli di comprensione ulteriori. E il caso della concezione della tragedia in Nietzsche, dove l'urgenza di eros rivive trasformata in Dioniso, è ancora il caso di Dostoevskij, nell'identificazione di un conflitto insanabile nella volontà dell'uomo. 
Il problema posto diventa così quello di un ritorno all'origine, per comprendere le ragioni di una successiva divisione tra l'inappellabile legge dell'ethos e la continua, incontrollabile invasivìtà di eros. Questa origine rivive, per Gìvone, nell'arte, nella poesia, che testimonia di quel momento aurorale ponendo in un legame inscindibile poesia e verità. Ma si tratta di una sopravvivenza tragica, basata sulla consapevolezza che il mito è impossibile, seppure necessario, e in questa tragicità soltanto può continuare a sopravvivere. Tuttavia, tornare a riflettere su ciò che è "intimior intimo meo" significa accettare il tratto che separa e unisce eros e ethos, e così facendo vedere in una più chiara luce le infinite contraddizioni che sono scaturite nella storia del nostro pensiero. 

 MARCO VOZZA 
La felicità è una perla nascosta nella sofferenza "EROS/ETHOS", un conflitto tragicamente inconciliabile:un'appassionante analisi di Givone, sulle traccce di Dostoevskij e Nietzsche, Hölderlin e Kierkegaard 


Edificando la propria volontà di sapere sul cogito, sulla soggettività trascendentale e poi sull'autocoscienza razionale, la filosofia moderna ha escluso dal proprio raggio d'attenzione tutto ciò che, nell'esistenza dell'individuo scandita da istanze contraddittorie e fenomeni incongruenti, costituisce il vero significato dell'esperienza concreta e infondata. In particolare, la filosofia ha rimosso l'esperienza del dolore, dell'umana derelizione o, quando l'ha accolta, lo ha fatto soltanto per offrirne una giustificazione razionale. Il razionalismo filosofico ha ricondotto nel suo alveo, conciliandola e perciò neutralizzandola, la tragedia dell'esistenza, il paradosso generato da ogni decisione vitale, lo scandalo di una condizione umana basata sull'ingiustizia che scaturisce da un diseguale e arbitrario carico di sofferenza. All'essere non è connaturato il logos, bensì la violenza - questo il punto d'avvio dell'ultimo libro di Sergio Givone: Eros/Ethos, una convincente e appassionante elaborazione di quel pensiero tragico che rifiuta sia i dogmi del razionalismo metafisico sia gli accomodamenti di certo relativismo, che si avvale di una rigorosa quanto accattivante prosa filosofica, memore anche della precedente esperienza narrativa dell'autore. Il dato più evidente della mia esistenza, la sua incontrovertibile epifania, è che soffro e produco sofferenza in altri. La mia identità non è dunque fondata sul cogito, ma sull'evidenza scandalosa del soffrire. Se vi è un senso residuo della dignità del pensiero, questa va individuata nella capacità di portare la filosofia all'altezza di quello "specchio di contraddizioni" che è la violenza originaria, connaturata alla demonicità della volontà di vivere. Come mantenere viva la tensione di una verità che sopporta la contraddizione senza postularne evasive conciliazioni? Sviscerando, ad esempio, la nostra ancipite condizione ontologica di libertà, orfana di ogni principio necessitante, fondata sul nulla ed esposta al nulla, inestricabilmente avvinta ad un doppio abisso nel quale l'essere sì rapporta al nulla così come il bene si confronta con il male. Non vi è sceltache possa eliminare ciò che la nega: "un'ombra accompagna il bene - scrive Givone in una pagina di vertiginosa densità speculativa -, tanto più buia quanto più luminosa la vittoria sul male. Dove il male tace, il bene è assente. Perciò la vita beata, la vita in cui non c'è che il bene essendo stato estirpato il male può essere soltanto il sogno di un uomo ridicolo". Come aveva ben compreso Dostoevskij, più radicalmente di Nietzsche, consapevole che la felicità va cercata nella sofferenza da cui può scaturire come una perla nascosta. Se eros è la manifestazione originaria e incontaminata della vita, la visibilità aurorale dell'essere ha un carattere erotico. Ma questa identità comporta l'emergere della violenza, della colpa, della vergogna, l'impossibilità dell'appagamento nell'immediatezza del desiderio: chi, avventurandosi nelle peripezie di eros, non ne ha anche avvertito la contraddizione? 
A guidarci in questi enigmatici meandri, non sarà dunque Afrodite ma Dioniso, il dio a cui i Greci affidarono il sapere tragico, l'emblema di una dialettica bipolare del paradosso, della coappartenenza degli opposti, così descritta da Givone: "ciascun polo della realtà è illuminato dalla cruda luce gettata su di esso dal polo contrario. E' il caos che dice la bellezza del cosmo, così come è il cosmo a dire l'orrore del caos. Analogamente, è la morte a dire la verità della vita, cosi com'è la vita a dire la verità della morte". In quanto consapevole della tragica lacerazione dell'essere, Dioniso è una creatura del dolore che incontra Cristo nella sofferenza, in una problematico duplicità intuita da Hölderlin e Nietzsche. 
Nella ben nota interpretazione di Kierkegaard, il dionisiaco incarna con Don Giovanni la genialità sensuale, quell'energia del desiderio, quella forza della seduzione che scardina ogni ordine costituito, ogni legge morale. Tuttavia, il seduttore non celebra alcun trionfo dell'innocenza pulsionale bensì diventa vittima della contraddizione di eros, del suo frantumare il tempo nell'istante, nell'occasione irrelata della conquista. Come dirà poi Bataille, l'eros è l'approvazione della vita fin dentro la morte, dunque liberazione apparente, trasgressione che riafferma i diritti della legge. In questo movimento ambivalente, dopo esser stato negato da eros, ethos contraddice eros. Dapprima eros aveva sospeso ogni legislazione di ethos, rivendicando l'esercizio della libertà dei sensi, non coartabili da regole legiformi, ma conferendo al contempo ad ethos un significato vivente, una forza palpitante, che lo sottrae al vuoto formalismo, alla mera ripetizione dell'identico. Eros appare dunque necessario all'affermazione di ethos, al suo inserimento nel mondo della vita. Dunque - sostiene Givone formulando la tesi centrale del libro - "eros può assurgere a dignità etica", anzi deve affidare il desiderio alla continuità del vissuto, evitando la malinconia e la disperazione di una seduzione estranea al progetto esistenziale. La dissipazione della vita immediata, al vano avvicendarsi di fortuite circostanze, la vita etica oppone la fedeltà a se stessi, alla propria scelta, afferma la compenetrazione del mondo dei significati nel mondo degli affetti. La trasfigurazione dell'estetica nell'etica costituisce così il principio vitale dell'individuo, la sua peculiare alchimia spirituale. Cosi come la violenza da cui trae origine e a cui sempre ritorna, il conflitto tra eros ed ethos è destinato a restare tragicamente inconciliabile. E come tale va mantenuto, senza possibili esoneri dalla sua costitutiva contraddizione - come ci insegna tra l'altro Kleist ne La marchesa di 0.... qui magistralmente interpretata da Givone; contraddittorio come fondamento dell'essere, sospeso sul nulla ma rilucente di una bellezza che l'arte può restituire al nostro sguardo, custodendo "i contenuti dell'esperienza nello splendore della loro nullità". Gli artisti, come gli amanti, "non hanno altra stella polare che il nulla ma abitano l'Uno, accudiscono "origine"".Un'unità conflittuale, lacerata, incomponibile, in cui gli opposti si fronteggiano come fanno incessantemente eros ed ethos, inconciliati ma "con la speranza - per dirla con Celan - di una parola che viene dal cuore". 


EROS OSSESSIVO DI PHILIP ROTH 
IRENE BIGNARDI 
Ci sono autori che si inventano una geografia e una toponomastica tutta loro (vedi Thomas Hardy, vedi Faulkner, vedi Turow). Ci sono quelli che abbondano in eteronimi (è il caso di Pessoa e di Cornell Woolrich, giusto per citare due casi molto diversi), e quindi in voci opposte, spesso dissonanti. E ci sono autori che si inventano una serie di alter ego. Il più prolifico è certamente Philip Roth, che nel suo estremo autobiografismo, e in un percorso di oltre venti romanzi, si è incarnato di volta in volta in Philip Roth stesso, in Alexander Portnoy, in Nathan Zuckerman, in Nathan Tarnopol. E in David Kepesh, il protagonista di tre episodi di un' autobiografia letteraria per interposta persona, da Il seno (1972) a L' animale morente (2001), attraverso Il professore di desiderio, che uscì a suo tempo (1978), edito da Bompiani, e che oggi viene ripubblicato in una nuova versione (Einaudi, pagg. 234, euro19,50, traduzione eccellente di Norman Gobetti). I lettori fedeli della saga che Philip Roth ha costruito su se stesso e le sue ossessioni - e chi ha visto Elegy, il (brutto) film dello scorso anno firmato da Isabel Coixet con Ben Kingsley e Penelope Cruz - sanno che David Kepesh è un intellettuale di origine ebraica, 
"libertino tra gli eruditi, erudito tra i libertini", professore di letteratura in un college della East Coast. Ma anche professore, appunto, di desiderio: il suo corso, il 341, nel romanzo di Roth si chiama proprio così, e indaga la presenza del desiderio, o della passione, o chiamatela come volte, in letteratura, da Kafka a Flaubert a Colette (che scriveva, ricorda Kepesh, di "quei piaceri che con leggerezza si definiscono fisici"). Sanno anche che è ossessionato dal sesso (o dal desiderio, o dalla voglia di passione, chiamatela come volete, tutto purché non ci sia troppo calma felicità). E se in Il seno abbiamo visto Kepesh (il sonno della ragione e la voglia delle passioni generano mostri) trasformarsi in una tetta di ottanta chili - e non tutti hanno trovato azzeccato questo gioco di evidente ispirazione kafkian-gogoliana - in Il professore di desiderio, una sorta di Bildungsroman costruito soprattutto dal punto di vista del sesso, seguiamo la storia di Kepesh da quando è ragazzino, attraverso le estreme avventure erotiche di un aggrovigliato ménage à trois con due giovani svedesi in una Londra estremamente disponibile, poi attraverso uno sciagurato matrimonio con una sorta di bella e dannata avventuriera internazionale che si chiama Helen e assomiglia molto a Brett Ashley di Fiesta (a dirlo è lo stesso Kepesh), fino alla calma esplosiva di un tranquillo e per il momento soddisfacente rapporto con una bella bionda che lo ama. E che non sa, la poveretta, che tutta la sua grazia, le candele di cui adorna il loro cottage estivo, la sua gentilezza nel confronto del vecchio padre di lui, la sua cultura (anche lei insegna in un prestigioso college), la sua fedeltà, niente varranno contro i fantasmi (eros, trasgressione, eccessi) che assediano Kepesh, e finiranno, come sapremo da un successivo libro del ciclo, per dividerli. D' altra parte, quando uno racconta così la sua nuova romantica love story («Come David Kepesh è finito su una sedia a dondolo in una veranda sulle Catskills Mountains a guardare compiaciuto un' astemia insegnante venticinquenne... che si aggira carponi per il giardino con una tuta che sembra presa a prestito da Tom Sawyer...») si capisce che la poveretta ha le ore (sentimentalmente) contate. La poveretta, guarda caso, si chiama Claire, come Claire Bloom, a cui li romanzo è dedicato e che all' epoca del libro era la compagna di Roth (poi sua moglie e poi sanguinosamente divorziata da lui). E questo intreccio di autobiografia e di dati personali, di sincerità brutale e di ossessioni vere, è tanto fastidioso quanto affascinante 
- ma profondamente urticante, se si cade nella suspension of disbelief, nella sospensione dell' incredulità narrativa, per un lettore di sesso femminile, che sente e riconosce nell' esperienza spiattellata da Roth non una fantasia ma una perturbante esperienza. Così urticante e così forte è l' antipatia di un personaggio indifendibile, che ci si chiede quale è la ragione (a parte il dovere del recensore) di arrivare fino in fondo alla lettura del libro. E la risposta è: la scrittura. Una scrittura densa, spiritosa, ricca, capace di meravigliosi a parte, trascinante, capace di inanellare letteratura e irritanti manie, franchezza imbarazzante e squarci di tenerezza. Roth ci elegge (lo dice lui) a suoi voyeur. E se vorremmo rifiutarci all' uomo cediamo allo scrittore. 

Eros e Thanatos in Roth: L'animale morente 
Di GMGhioni28.11.11 Le donne, per gli uomini, sono davvero tanto incantevoli, una volta tolto il sesso? C’è qualcuno che trova incantevole un’altra persona di questo o di quel sesso se non nutre per lei un interesse di natura sessuale? Da chi, allora, ti fai incantare così? Da nessuno. Sono i primi anni del Duemila, quelli che vedono l'ascesa sostanzialmente ineguagliata di Philip Roth agli occhi della critica e del pubblico. Un doppio plauso che non ha ancora portato al Nobel ma, si sa, premiazioni e radicamento nel panorama letterario non sono legati a doppio filo. Roth piace, e non solo per la sua Pastorale americana o per La macchia umana, resa ancor più celebre da un recente film (2003) di Robert Benton con Anthony Hopkins e Nicole Kidman. Roth piace nonostante - o forse proprio per - la carica passionale e cruda presente nei suoi testi. Cinismo erotico ed erotismo cinico: la sensualità più spinta perde il mantello trapunto di metafore, si denuda senza falsi pudori, dal momento che per Roth «in materia di sesso, è un tornare nella foresta» e, per quanto si operi un «tentativo di trasformare la lussuria in qualcosa di socialmente conveniente, [...] è proprio la radicale sconvenienza che fa della lussuria la lussuria». Ed ecco che il protagonista David Kepesh (che tornerà poi nel racconto lungo Il seno del 2005), coerentemente con quanto asserito, è un professore universitario di letteratura senza remore sessuali, che fa del proprio carisma uno strumento per accordarsi la conoscenza intima delle sue ex-studentesse. La serialità delle conquiste si configura come riaffermazione di sé ma anche come potentissima fuga all'incubo sempre presente dell'invecchiamento e della morte (il tema è preannunciato, peraltro, dallo stesso titolo è tratto da una poesia di Yeats che Roth cita quasi alla fine del romanzo: «Consumami il cuore; malato di desiderio/ E avvinto a un animale morente/ che non sa cos’è»): 

Il sesso non è semplice frizione e divertimento superficiale. Il sesso è anche la vendetta sulla morte. Non dimenticartela, la morte. Non dimenticarla mai. Sì, anche il sesso ha un potere limitato. So benissimo quanto è limitato. Ma dimmi, quale potere è più grande?Disinibente e fortemente orientato alla vita, il sesso obnubila le paure dell'uomo, e le avvolge di feste di finecorso, ragazzine libertine, fantasie ammassate orgiasticamente,... La stessa routinaria corsa all'eros fino all'arrivo di Consuela Castillo, studentessa dall'aspetto ispanico, fortemente femminile, donna più che ragazza, dall'educazione tradizionale e rigida, ma non disinibita nell'abbandonarsi senza domande a una relazione più o meno nascosta con Kepesh. E il professore sperimenta la gelosia, la possessività, l'ansia di una perdita irrimediabile, perché sulla pelle di Consuelo, David prende atto del proprio invecchiamento e si misura con le orde di giovani che un giorno corteggeranno la donna. E di conseguenza non c'è possesso che dia conferme a Kepesh, né Consuelo, con il suo portamento altero e apparentemente insensibile, rassicura l'amante. Così Kepesh sperimenta la solitudine, ma anche la riflessione sull'amore, sul sesso e sul potere sconvolgente delle relazioni interpersonali:     
L’unica ossessione che vogliono tutti: l’ “amore”. Cosa crede, la gente, che basti innamorarsi per sentirsi completi? La platonica unione delle anime? Io la penso diversamente. Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l’amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due. Quella ragazza era un corpo estraneo introdotto nella tua interezza. E per un anno e mezzo tu hai lottato per incorporarlo. Ma non sarai mai intero finché non l’avrai espulso. O te ne sbarazzi o lo incorpori con l’autodistorsione. Ed è quello che hai fatto, che ti ha ridotto alla disperazione. 
Controcorrente e forte, il rapporto tra i due protagonisti infiamma le pagine con pratiche sessuali di varia natura, pur senza finire nel pornografico gratuito. Così, ad esempio, l'asservimento totale di Kepesh che non solo gareggia con un passato amante di Consuelo, ma che vuole amare tutto della propria donna, compreso il suo mestruo, ha radici antichissime, legate alla quasi divinizzazione della riproduzione femminile.  E la morte, tradizionale compagna dell'eros - per antitesi o per ossimoro? sarebbe interessante rifletterci - si riaffaccia da ogni parte. Roth non è pacato neanche nel raccontare l'agonia, vivisezionata nei suoi componenti più putrescenti, nelle ipocrisie sociali e nelle trasformazioni impietose che la malattia porta. E così ci sono brividi di 
compassione, di dolore, e non mancano tratti toccanti per quella vena lirica che il narratore affida alle azioni stesse, senza speculazioni di sorta. 
L'animale morente è un libro che tocca, percuote, schiaffeggia, e lascia poi un turbamento che non promette niente di buono. Cioè, promette di sedimentarsi, di farsi appannare dall'illusione della dimenticanza per poi tornare a farsi scoprire al minimo rimando intertestuale, a un richiamo della vita di ogni giorno. E sento che, riemergendo, porterà di nuovo con sé la forza dirompente (e scomoda) della rivelazione. 

Gloria M. Ghioni 

Due prodotti artistici accompagnano questo racconto lungo di Philip Roth: una poesia di Yeats (“Consumami il cuore; malato di desiderio/E avvinto a un animale morente/Che non sa cos’è”) e un dipinto di Modigliani - dove la donna offre il corpo consapevole del proprio potere e della propria bellezza, mentre se ne sta immobile, adagiata in rosa sul divano rosso e nero. Ma il senso estetico pervade, in realtà, l’intero scritto del romanziere ebreo, che qualcuno (il giornalista di “Sette” D’Orrico primo tra tutti) ha definito il più grande scrittore contemporaneo. Difficile stilare classifiche di tale portata, ma vero è che Roth scrive in maniera sublime, e mai come attraverso la sua penna l’erotismo si libera di qualsiasi senso di sporcizia e moralità, per diventare solo il momento di piena realizzazione dell’unione tra due esseri umani, destinati a rimanere distinti e distanti tranne che in brevi e fragili momenti, in cui i corpi divengono solo corpi, il tempo diviene soltanto un dettaglio, la sofferenza di chi si trova suo malgrado ad amare elevata al suo massimo valore estetico. 
Philip Roth: "Che bella la vita quando non devi più passarla a scrivere" 
In questa intervista il grande autore conferma il suo addio alla letteratura e racconta le giornate lontano dal mestiere e i suoi nuovi passatempi 
di CYNTHIA HAVEN 
Intervista 22 febbraio 2014 repubblica.it 
Non esiste vita senza pazienza". Questo concetto viene espresso almeno due volte ne Lo scrittore fantasma. Può svilupparlo un po'? 

"L'unico modo in cui posso svilupparlo è ricordando che queste parole non le pronuncio io, ma un personaggio del libro, l'eminente autore di racconti E. I. Lonoff. È una massima che Lonoff ha ricavato da una vita passata ad arrovellarsi sulle frasi, e contribuisce un po', spero, a caratterizzarlo come scrittore, marito, eremita e mentore. Un personaggio di fantasia prende vita attraverso quello che dice e quello che non dice, è uno dei mezzi che usa il romanziere. Il dialogo è un'espressione dei loro pensieri, delle loro convinzioni, delle loro difese, della loro arguzia, degli scambi di battute ecc., in generale una raffigurazione del loro modo di reagire. Io cerco di raffigurare in Lonoff un'aria verbale di distacco e simultaneamente di impegno, e anche la sua indole pedagogica, in questo caso mentre parla a un giovane protetto. Quello che un personaggio dice è determinato dalla persona con cui parla, dall'effetto che auspica e naturalmente da chi è il personaggio e da cosa vuole nel momento in cui parla. Altrimenti è solo un parapiglia di opinioni. È propaganda. Qualunque segnale trasmettano quelle parole che lei ha citato derivano dalla specificità dell'incontro che le suscita". 
Parlando delle due dozzine di romanzi che ha scritto, lei ha detto: "Ogni libro comincia dalle ceneri". In che modo Lo scrittore fantasma, in particolare, sorge dalle ceneri? Può descriverci come è nato il travaglio con cui è venuto alla luce? 
"Come ho cominciato Lo scrittore fantasma quasi quarant'anni fa? Non riesco a ricordarlo. 
Il grande problema fu decidere il ruolo che doveva avere Anna Frank nella storia". 

Dev'essere stata una scelta complicata perché Anna Frank occupa uno spazio inviolabile nella nostra vita psichica collettiva, tanto più nel 1979, quando il libro è stato pubblicato, e tanto più ancora nel 1956, quando si svolge l'azione del libro, poco più di un decennio dopo la fine della guerra. Ha ricevuto critiche per questa raffigurazione? Com'è cambiata la percezione di Anna Frank da quando il libro è stato pubblicato, specialmente alla luce del saggio di Cynthia Ozick del 1997, Who Owns Anne Frank, che si scagliava contro la 
"kitschificazione" di Anna Frank? 
"Avrei potuto fare in modo che Amy Bellette fosseAnna Frank, e non creda che non mi sia impegnato per arrivarci. Il tentativo è stato infruttuoso perché, per citare Cynthia Ozick, io non volevo "possedere" Anna Frank e farmi carico di una responsabilità morale tanto grande, anche se pensavo di inserire la sua storia, che esercitava un così grande potere sulla gente, in particolare sugli ebrei della mia generazione (la sua generazione), nella mia narrativa già dieci-quindici anni prima. Volevo immaginare, se non la ragazzina stessa (e per dire la verità volevo immaginare anche quella, anche se in qualche modo gli altri l'avevano ignorata), la funzione che la ragazzina era arrivata a interpretare nelle menti del suo vasto seguito di lettori ricettivi. Uno di loro è il mio protagonista, il giovane Nathan Zuckerman, che cerca di abituarsi all'idea di non essere nato per essere simpatico, e di essere, per la prima volta in vita sua, chiamato alla battaglia. Uno è il saggio giudice di Newark, Wapter, guardiano della coscienza altrui. Un'altra è la povera e disorientata madre di Zuckerman, che si chiede se suo figlio sia un antisemita deciso a spazzare via tutto ciò che c'è di buono.  Ho ritratto qualcuno, come ha detto lei, che aveva santificato Anna Frank, ma in generale ho deciso di lasciare che fosseil meditabondo scrittore in erba (per ragioni impellenti legate alla ferita del rimorso e al balsamo dell'autogiustificazione) a fare lo sforzo immaginativo. Lui si sforza di mettere da parte la compassione e di riabilitarla come qualcosa di diverso da una santa da idolatrare, attraverso un'attenta lettura testuale del suo diario. Per lui, l'incontro con Anna Frank è decisivo, non perché la incontra faccia a faccia, ma perché si impegna nel tentativo simpatetico di immaginarla pienamente, che è uno sforzo drammatico forse ancora più impegnativo. In ogni caso, è così che ho risolto il problema del "possesso", che inizialmente mi perseguitava. Se sono stato criticato per questo ritratto? Certo, ci sono state delle convulsioni. Ci sono sempre. La gente per bene è sempre pronta a deplorare come opera del demonio un libro che parla di qualcosa che è oggetto di una venerazione idealizzata, che si tratti di un evento storico analizzato con la lente della narrativa, di un movimento politico, di un fenomeno sociale contemporaneo, di un'ideologia che suscita passioni o di una setta, un gruppo, una persona, un clan, una nazione, una Chiesa che spontaneamente si idealizza come un'espressione di amore di sé che non sempre è sorretta dalla realtà. Là dove tutto è requisito per la causa, non c'è spazio per dedicarsi seriamente alla narrativa (o alla storia, o alla scienza)". 
Molti la considerano il piùimportante scrittore ebreo americano. Una volta, però, lei ha detto a un intervistatore che " 'epiteto di "scrittore ebreo americano" per me non ha alcun senso. Se non sono un americano, non sono niente". Sembra estremamente ebreo ed estremamente americano. Può dirci qualcosa di più sul perché rifiuta questa definizione? 
""Uno scrittore ebreo americano" è una definizione imprecisa e forse anche melensa e per di più non coglie assolutamente il punto. L'ossessione del romanziere, attimo per attimo, riguarda il linguaggio: trovare la parola giusta successiva. Per me, come per Cheever, DeLillo, Erdrich, Oates, Stone, Styron e Updike, la parola giusta successiva è una parola in inglese americano. Sono scorrevole o non lo sono in inglese americano. Azzecco o non azzecco la parola giusta in inglese americano. Anche se scrivessi in ebraico o in yiddish, non sarei uno scrittore ebreo. Sarei uno scrittore ebraico o uno scrittore yiddish. L'America è diventata una repubblica 238 anni fa. La mia famiglia è qui da 120 anni, ossia poco più della metà dell'esistenza dell'America. Arrivarono durante il secondo mandato del presidente Grover Cleveland, appena 17 anni dopo la fine della Ricostruzione. I veterani della Guerra di Secessione avevano cinquant'anni. Era vivo Mark Twain. Era viva Sarah Orne Jewett. Era vivo Henry Adams. Erano tutti nel pieno della loro carriera. Walt Whitman era morto soltanto due anni prima. Babe Ruth non era ancora nato. Se non merito di essere definito uno scrittore americano, almeno lasciatemi la mia illusione". 
A un certo punto, ne Il fantasma esce di scena, il "sequel" deLo scrittore fantasma che ha scritto nel 2007, Amy Bellette dicea Nathan Zuckerman che pensa che Lonoff le parli dall'aldilà dicendole: "Noi gente che leggiamo e scriviamo, siamo finiti, siamo fantasmi che assistono alla fine di un'epoca letteraria". È proprio così? Lei ha detto una cosa del genere anche in altre occasioni: mi riferisco alla sua conversazione con Tina Brown nel 2009, quando ha affermato che il pubblico dei lettori di romanzi fra una ventina d'anni sarà ridotto alle dimensioni degli appassionati di poesia latina. Non è solo l'avvento del Kindle, giusto? Parlò della questione in termini ancora più generali nel 2001, quando disse all'Observer: "Non riesco a trovare aspetti "incoraggianti" nella cultura americana. Dubito che l'alfabetizzazione estetica abbia un grande futuro da queste parti". C'è un rimedio? 
"Non posso che ripetermi. Dubito che l'alfabetizzazione estetica abbia un grande futuro da queste parti. Fra vent'anni i lettori di romanzi letterari saranno numerosi quanto i lettori di poesia latina; intendo i lettori di poesia latina oggi, non i lettori di poesia latina durante il Rinascimento". 
Lei non parteciperà all'eventoAnother Look del 25 febbraio su Lo scrittore fantasma, ed è un peccato perché con questo evento l'università di Stanford mette in campo uno sforzo per discutere di grandi opere brevi di narrativa con una comunità più ampia, riunendo scrittori e professori universitari. I gruppi di discussione letteraria proliferano in tutto il Paese. Secondo lei rappresentano un modo per estendere e rafforzare l'interesse per il romanzo? Oppure ci stiamo illudendo? 
"Non ho mai partecipato a uno di questi incontri. Non so niente di questi gruppi di discussione. Basandomi sui miei tanti anni come insegnante universitario di letteratura so che serve tutto il rigore possibile, per un intero semestre, per riuscire a condurre gli studenti, anche quelli più bravi, a leggere con accuratez-z a un'o pera narrativa, con tutta la loro intelligenza, senza le consuete letture morali, interpretazioni ingegnose, speculazioni biografiche e anche per tenersi alla larga dall'orrendo spettro della generalizzazione appiattente. Questi gruppi di discussione letteraria possiedono questo rigore?". 
Nel 2009 lei ha detto a Tina Brown che "non mi dispiacerebbe scrivere un libro lungo, che mi occupi per il resto della mia vita". Nel 2012, però, ha dichiarato senza mezzi termini di aver chiuso con la narrativa. Noi non riusciamo a credere che lei abbia smesso del tutto di scrivere. Pensa davvero che il suo talento la lascerà libero? 
"Invece farebbe bene a crederci, perché dal 2009 non ho più scritto una parola di narrativa. Non ho alcun desiderio di scrivere narrativa. Ho fatto quello che ho fatto e ora è finita. Nella vita non c'è soltanto scrivere e pubblicare narrativa. C'è un'altra via completamente diversa, per quanto sia stupefatto di scoprirlo a così tarda età". 

In ognuno dei suoi libri lei esplora i suoi interrogativi sullavita, il sesso, la vecchiaia, la scrittura, la morte. Quali sono gli argomenti che la tengono occupata in questo momento? 
"In questo momento sto studiando la storia americana del XIX secolo. Gli argomenti che mi tengono occupato in questo momento hanno a che fare con gli scontri delBleeding Kansas, il giudice Taney e Dred Scott, la Confederazione, il 13°, 14° e 15° emendamento, i presidenti Johnson e Grant e la Ricostruzione, il Ku Klux Klan, il Freedman's Bureau, l'ascesa e la caduta dei Repubblicani come forza morale e la resurrezione dei Democratici, la sovracapitalizzazione delle ferrovie e le truffe dei terreni, le conseguenze della Depressione del 1873 e del 1893, la cacciata finale degli indiani, l'espansionismo americano, la speculazione fondiaria, il razzismo bianco anglosassone, l'Armour and Swift, la rivolta di piazza Haymarket e la costruzione di Chicago, il trionfo a trecentosessanta gradi del capitale, i primi atti di disobbedienza dei lavoratori, i grandi scioperi e i crumiri violenti, la costruzione della segregazione razziale, l'elezione TildenHayes e il Compromesso del 1877, l'immigrazione dall'Europa meridionale e orientale, l'ingresso di 320.000 cinesi in America attraverso San Francisco, il voto alle donne, il movimento proibizionista, i populisti, i riformatori progressisti, figure come Charles Sumner, Thaddeus Stevens, William Lloyd Garrison, Frederick Douglass, il presidente Lincoln, Jane Addams, Elizabeth Cady Stanton, Henry Clay Frick, Andrew Carnegie, J. P. Morgan, John D. Rockefeller, ecc. La mia mente è piena di tutte queste cose. Nuoto, seguo il baseball, guardo i panorami, vedo qualche film, ascolto musica, mangio bene, vedo gli amici. In campagna adoro la natura. Non mi resta quasi tempo per preoccuparmi costantemente della vecchiaia, della scrittura, del sesso e della morte. Alla fine della giornata sono troppo affaticato". 

Philip Roth - L'animale morente - Einaudi, Torino 2003 
Alfio Squillaci 
Nonostante la brevità ho letto questo libro in due riprese, non troppo ravvicinate. È un lusso che ci possiamo consentire noi lettori e critici non professionali. Non posso dire di aver mollato la lettura in preda a disgusto. Eppure c’è un episodio nel libro che potrebbe far saltare dalla sedia qualsiasi  lettore anche non ipocritamente “perbene” . Ma Philip Roth dai tempi del Lamento di Portnoy in cui - ricordiamo - il protagonista si masturba con una fetta di fegato, ci ha abituati agli eccessi più fantasiosi in tema di sesso. No, ciò che mi ha impedito di riprendere con avidità la lettura interrotta - il libro stava lì neghittoso sull’étagère e  “sapeva”, e io con lui, che non sarebbe passato nel novero dei libri non finiti – era il tema di fondo (quello che io ho individuato come tale) della libertà sessuale.  Il sesso, oltre che una scienza individuale, è una forza anarco-ghiandolare spaventosa: se assecondata senza  limiti e regole non ha  un  risultato a somma zero: dà, ma spesso toglie, qualcosa a qualcuno. Rende felice l’individuo ma devasta esistenze, coscienze, famiglie. Questo era l’assunto feroce e sincero in cui avevamo lasciato la questione alla lettura di Particelle elementaridi Michel Houellebecq.  
Ma l’interruzione della lettura del libro era stata determinata, forse, più che da quell’assunto, dai rimestamenti che determina nel tuo io più profondo un libro sincero e senza pudori come questo: una meditazione   oltre o più che una narrazione, sul sesso, sulla vecchiaia, sulla morte che in qualche modo ti induce a fare il punto sullo stato dell’arte della tua più riposta e indisturbata intimità. 

David Kepesh – alter ego di Roth come Wilhelm Meister per Goethe – è un professore di 
"Practical Criticism" (cosa sarà mai?) all’università e conferenziere di una  certa notorietà  presso la  rete TV Pbs. Non ha mai fatto mistero di portarsi a letto le ragazze più avvenenti del suo corso, ponendosi come unico e accettabile limite deontologico la fine dei corsi universitari medesimi. Spesso, a dire il vero, sono le ragazze che si portano a letto lui. Questa è la volta di Consuela Castillo, una sventola di figliola, dai modi molto fini, figlia di immigrati benestanti cubani anticastristi ( e il liberal Roth ha parole molto crude contro Castro, che chissà se il nostro comunista tanto  elegante quanto immaginario Diliberto approverebbe). 
Consuela appartiene a «una generazione di regine della fellatio», «una generazione di ragazze che tiravano dalla loro figa le conclusioni sulla natura dell’esperienza e sulle delizie del mondo» e Roth ce ne dà espliciti riscontri dando ai genitali il loro nome quando li chiama in scena, senza alcun infingimento ipocrita, e dicendoci con naturalezza molto convincente  ciò che può intercorrere tra un professor Unrat di 62 anni esplicitamente lussurioso e un angelo azzurro cubano altrettanto libero nella testa e nel corpo. Entrambi però sono professori universitari del sesso, conoscono e sembrano dominare questa forza sorgiva, eversiva, inconoclasta: il nostro sempiterno “richiamo della foresta”. « È il sesso a sconvolgere le nostre vite solitamente ordinate. Lo so io e lo sanno tutti», dice Roth, e sembra di sentire qui  la voce sincera di D.H.Lawrence. 

Ma questa base “naturale” e istintuale sempre viva e sempre repressa nel corso dei secoli della storia dell’umanità non poteva portare alle “reginette della fellatio” se non fosse sopravvenuto un elemento detonatore di carattere etico-politico e storico-antropologico, ossia la rivoluzione sessuale degli anni ’60 - resa possibile dalla diffusione degli anticoncezionali che separarono definitivamente la sessualità dalla (paura della) riproduzione. Qui si innesta la meditazione di Roth che attraversa e innerva tematicamente tutto il libro. Roth sa che l’epicentro della “turbolenza” di quegli anni era d’ordine sia antropologico-comportamentale  (le orge, la musica giusta per il sesso orale, il nomadismo sessuale) sia politica ( i diritti civili, la renitenza alla guerra del Vietnam, la disobbedienza al sistema) e sa che  «l’intreccio tra i due filoni rendeva arduo screditare l’orgia». Da allora «nessuna retorica, nessuna ideologia, solo il campo da gioco del piacere che si stende davanti agli audaci». 

È stato a questo punto, tutto sommato il più “ideologico”, della meditazione rothiana che mi sono sentito irritato e incapace di approvare in toto  le  sue sregolate e senili istanze sessuali e il suo indefettibile ribellismo di vecchio liberal. Come può resistere – mi sono chiesto – la coesione sociale a simili esplosioni anarchiche? (Il vecchio Freud ci ha inseganto che tutta la civiltà si regge piuttosto sulla repressione degli istinti,  in cui la pubblica ipocrisia, che quasi reclameremo a questo punto, copre in  forma accettabile  la regola non detta di sempre dei vizi privati e delle pubbliche virtù). Ma Roth ha subito 
“coperto” - drammaturgicamente s’intende - questa mia obiezione mettendo in scena i rimbrotti del figlio di Kepesh  ritratto in vesti   dostoevskiane    – e a cui non nega una certa dignità di controcanto dialogico – perché è fatale che quando i padri hanno dei forti progetti di vita i figli abbiano dei pessimi destini. (Dice il figlio: «Ma gli anni Sessanta? 
Quell’esplozione d’infantilismo, quella volgare, insensata regressione collettiva, e questo spiega e scusa tutto? Non puoi trovare un alibi migliore? Sedurre studentesse indifese, coltivare i propri interessi sessuali a spese di tutti gli altri...»). 

Non riporto il finale del libro per rispetto di quel  lettore che-vuole-vedere-come-va-a-finire. Dico solo che è un finale  chiuso dal punto di vista della vicenda ma aperto per quel che riguarda le rimuginazioni morali,  e che Roth si manifesta scrittore di gran razza nel maneggiare intrecci e nel conservare rigido il suo cappello di illusionista narrativo che in altre mani, e con una storia analoga, si affloscerebbe invece come un cencio. 
Concludo osservando che  non si esce dai libri di Roth senza portare a casa un’inquietudine, un dubbio, una scossa alla nostra più segreta fibra morale. E qualche certezza: che la partita della vita si gioca tra l’urgenza e l’insopprimibilità mercuriale degli istinti da un lato e tutte le variabili sociali e politiche in cui la Storia ci caccia dall'altro.  E la scommessa consiste nel provare a uscire dall’urto di questi elementi, vivi, e se possibile, felici, ossia portando a compimento pieno sia il nostro programma  di animali che di animali “politici”.