venerdì 4 febbraio 2022

HOTEL DEL RITORNO ALLA NATURA Georges Simenon

 

HOTEL DEL RITORNO ALLA NATURA 

Georges Simenon 


1

 

Chi dei due era arrivato lì per primo? E perché scegliere proprio quel posto, anziché un altro? Che cosa aveva di diverso dal terreno circostante? Difficile dirlo; eppure la sterpaglia era meno folta, per quanto riguarda il terreno, e si capiva che era là, e non altrove, che bisognava fermarsi.

I due uomini, che in quel momento ignoravano l'uno la presenza dell'altro, guardavano nella stessa direzione, verso il mare inondato di sole su cui sembravano invischiate le vele di una goletta.

Poi ci fu quel fremito che annuncia il risveglio di un dormiente, o il pigro stirarsi di un animale, ed entrambi smisero nello stesso istante di fissare il mare e si voltarono.

Nessuno dei due si mostrò sorpreso. Quello con la barba grigia più folta balbettò con una deferenza che lo imbarazzava:

«Professore...».

L'altro, che portava soltanto un corto pizzo, restò in silenzio. Ecco! Succedeva così ogni volta che si incontravano.

In effetti, il dottor Frantz Müller avrebbe anche potuto rivendicare una sorta di diritto di proprietà sull'isola. In fondo era lui, e non altri, che a Berlino aveva avuto l'idea di andare a ritirarsi nell'isolotto più sperduto delle Galápagos. E chi aveva tracciato, giorno dopo giorno, a piedi nudi, quel sentiero ormai percettibile che scendeva sino al mare? Chi, sostando sempre nello stesso punto, aveva creato, sì, creato quella radura in cui ora veniva anche l'altro, l'intruso?

Da cinque anni, ormai, Müller viveva qui con Rita, e per giunta era stato lui a dare agli Herrmann i semi di pomodoro e di melanzana.

Herrmann lo sapeva bene, ma non era questo a renderlo così umile. La ragione veniva da lontano, se l'era portata dietro dalla Germania. Là, tutti conoscevano il professor Müller come medico eminente, autore di opere filosofiche. Herrmann, invece, era assistente preparatore all'Università di Bonn: proprio la professione adatta a fargli misurare tutta la distanza che c'era fra Müller e lui!

Le cose andavano sempre nello stesso modo: il professore non salutava, né rispondeva al buongiorno. Lo aveva dichiarato egli stesso, una volta per tutte: non era andato sin laggiù per scambiare convenevoli.

Non era superbo, né cattivo, e probabilmente non serbava rancore agli Herrmann per aver turbato la pace della sua isola.

Anche quel giorno indossava il solito pigiama a strisce blu, troppo largo per il suo corpo magro. I capelli scarmigliati, di un grigio uniforme, circondavano un volto segnato, dai tratti fini.

Quando guardava il mare, batteva le palpebre e Herrmann lo sentiva pensare, pensare...

Herrmann non era più robusto di Müller, ma aveva lineamenti meno definiti. Anche quando era in pantaloncini corti, sembrava di vederlo col suo completo nero sul tram elettrico di Bonn, con un ombrello al braccio e lo sguardo assorto dietro gli occhiali.

Ora gli era rimasta un'unica lente, ma non c'era niente di ridicolo, visto che non c'era nessuno che se ne potesse accorgere.

«Speriamo che abbiano portato le medicine» sospirò a voce abbastanza bassa da consentire al professore di non udirlo, se così gli garbava.

Gli sarebbe talmente piaciuto parlare! E specialmente di quello: era il punto debole di Müller, lo sapeva, e si era accorto che, ogni volta che scorgeva sua moglie, il professore le guardava con curiosità il ventre che cominciava a ingrossarsi per la gravidanza.

Un bambino che sarebbe nato di lì a cinque mesi, un bambino concepito sull'isola! Non meritava forse di parlarne?

Nel giro di un'ora la goletta sarebbe stata all'ancora in mezzo alla baia e una lancia avrebbe portato a terra viveri e merci varie. Questo avveniva ogni sei mesi; poi si poteva stare di nuovo tranquilli.

«Tuo figlio sta meglio?» acconsentì a chiedere il professore.

Herrmann cercò Jef con gli occhi tra i cespugli, ma non lo vide. Si sentì di nuovo commosso.

Avrebbe voluto che nulla venisse a turbare l'armonia di quel mattino, la gioia di quella conversazione; eppure, il suo istinto lo avvertiva che era già tutto finito.

Cercava a sinistra la magra sagoma del figlio, ma questi sbucò a destra, all'improvviso, vicinissimo a Müller. Portava gli stessi pantaloni kaki del padre; aveva il torace incassato e il volto irregolare, con la bocca troppo grande e i denti mal piantati.

«Jef?» gridò Herrmann.

Troppo tardi! Un colpo di bastone, e il ragazzo aveva abbattuto un piccione che non si era scostato dal sentiero; adesso si era accucciato e lo guardava morire.

Müller, fatalmente, si voltò e se ne andò: gli faceva orrore veder uccidere gli animali. Non aveva forse preso la precauzione, a Berlino, prima di partire, di farsi strappare tutti i denti. per non cedere alla tentazione di mangiare carne in caso di necessità?

Ora si allontanava nel sole, facendo frusciare i rami sul suo cammino. Tornava a casa, dietro il campo di limoni, dove lo aspettava Rita.

Herrmann si sentì improvvisamente triste, ma non osò dire nulla al figlio, accovacciato accanto all'uccello. L'aria era limpida come l'acqua della laguna; bastava chinarsi per veder vagare pesci di tutti i colori. Non c'era un solo fremito di vita, e la quiete era così totale che il preparatore si accorse di un toro selvatico, piccolo e scuro, che lo fissava da molto tempo a cinquanta metri da lui.

Nessuno dei due si era mosso, e il toro rimase a guardarlo con grandi occhi privi di curiosità.

«Vieni, Jef, andiamo in spiaggia».

Il toro non si mosse nemmeno quando gli passarono accanto.

«La nave è già arrivata?».

«Getterà l'ancora fra un'ora».

Come sempre, Rita era nuda; non per voluttà o per civetteria, ma perché erano venuti alle Galápagos per riavvicinarsi allo stato di natura. Non era brutta, e nemmeno bella. A Berlino era stata una studentessa appassionata di teorie filosofiche, quindi la moglie di un collega di Müller: aveva indossato vestiti come tutti, e offerto tè e cene in una casa confortevole nel dintorni della città.

«Parto con il professor Müller» aveva annunciato un giorno a suo marito. «Fra noi non c'è niente, e non ci sarà mai niente; ma voglio accompagnarlo per aiutarlo nel suo lavoro e per vivere secondo le mie convinzioni».

Ora era occupata a pulire dei coltelli e i suoi seni, che erano un po'"flaccidi, pallidi nonostante il sole, dondolavano a ogni movimento delle braccia e delle mani.

«A cosa pensa, Frantz?».

Malgrado quella nudità, e il letto in comune, non si davano del tu, e quando parlava di lui con la signora Herrmann Rita diceva sempre «il professore».

Non aveva bisogno di guardarlo per sapere che era scontento. Müller prese un coltello e finse di esaminare attentamente una macchiolina di ruggine. Era un segno!

«Ha incontrato Jef?».

«Mi passi un uovo, Rita».

Era un'altra delle cose che avevano cambiato nella loro vita: non c'erano più pasti fissi né orari di alcun genere. Ciascuno mangiava a modo suo, quando aveva fame.

Müller ruppe l'uovo in una ciotola, lo sbatté e aggiunse latte di cocco, zucchero di canna e succo d'ananas; poi bevve il liquido e si asciugò la barbetta.

A quel punto, immancabilmente, sarebbe andato a passeggiare nell'orto con la stessa espressione scontenta.

Talora Rita si chiedeva se, una volta o l'altra, non sarebbe arrivato a strangolare Jef. Gli Herrmann li avrebbe anche sopportati, con tutte le loro fisime; eppure detestava, rientrando, trovare la signora Herrmann seduta nella sua capanna come una borghesuccia in visita.

E Herrmann, con i suoi occhiali senza una lente e i suoi «Professore...», era altrettanto ridicolo.

E pensare che gente simile, nata per vivacchiare alla meglio sulle rive del Reno e per bere cioccolata, la domenica, nelle Konditoreien, aveva attraversato i mari per Jef!

Per lui, solo per lui, perché i medici tedeschi l'avevano condannato! Tubercolosi ed epilessia! Per di più era idiota, e a quindici anni pronunciava solo poche sillabe inintelligibili, che la madre riusciva a capire.

Faceva:

«Huhu... Huhu...».

E la signora Herrmann traduceva, sorridente, come per scusarlo:

«Jef dice che vorrebbe una banana».

Una creatura del genere su un'isola in cui lui, Müller, lasciandosi alle spalle una delle migliori cliniche di Berlino, si era rifugiato per trovare la pace! E per di più cattivo, scaltro come una scimmia! Aveva scoperto che le grosse tartarughe, anche quelle che pesano duecento chili e che sopporterebbero su di sé il passaggio di una locomotiva, alla giuntura delle squame sono sensibili come neonati, e si divertiva a torturarle per ore intere. Allo stesso modo, uccideva gli uccelli che, nell'isola, non avevano paura dell'uomo.

La cosa più incredibile è che nonostante questo gli Herrmann avessero avuto la spudoratezza di concepire un altro figlio! Herrmann non se ne rendeva conto e mostrava il ventre della moglie con l'orgoglio di uno sposo novello.

«Rita».

«Sì».

«Dovrà mettersi qualcosa...»

La donna si infilò sorridendo un paio di pantaloncini corti. Müller non era geloso, ma aveva ancora idee di un certo tipo, anche perché a bordo della San Cristóbal, che ogni sei mesi arrivava dall'Ecuador, c'erano spesso giornalisti che venivano a intervistarlo. Ed è per questo che Rita sorrideva: conosceva le piccole debolezze di Müller e sapeva quanto sarebbe rimasto deluso se questa volta non ce ne fossero stati. Ora lui si stava guardando intorno e creava un certo disordine nella capanna per allontanare ogni idea di vita convenzionale.

A dire il vero, l'abitazione consisteva semplicemente in alcuni pali di legno su cui poggiava un tetto di lamiera ondulata. Per terra Müller aveva steso delle stuoie fatte di canne di bambù tagliate, e aveva costruito con le sue mani un gran tavolo, pesante e sempre ingombro di utensili, e un letto di legno mal squadrato. Per sé aveva invece portato da Berlino una sedia, un'unica sedia pieghevole in metallo.

Rita fermò con una spilla i capelli castani che continuavano a caderle sul viso.

«Scendiamo?» chiese.

Scendere voleva dire andare sino alla spiaggia dove sarebbe approdata la lancia della San Cristóbal, a circa un'ora di marcia da lì.

«Prendiamo Hans?».

Era questo il nome che avevano dato a un asino che brucava nei pressi della capanna, e che seguì la coppia a piccoli passi lungo quello che si sarebbe potuto definire un sentiero. Müller avanzava per primo, e dietro di lui Rita, a seni nudi, coi polpacci finemente venati d'azzurro, lo seguiva in silenzio. Faceva molto caldo. La stagione delle piogge volgeva al termine e, in certi punti, dovettero attraversare il ruscello che precipitava a balzi verso il mare.

A tratti si camminava all'ombra dei limoni, o si sguazzava in una boscaglia stentata, costellata di rocce nere.

Da qualche parte gli Herrmann dovevano essere anche loro in marcia, compresa la signora Herrmann, che non mancava mai di andare a vedere la goletta.

Tutto era pervaso da un languore desolato. Era una pace triste, quella che regnava sull'isola, ma né Müller né Rita né gli Herrmann vi avevano mai fatto allusione.

Cinquecento metri più in basso apparve la San Cristóbal, con le vele già ammainate, e Rita, che aveva intravisto un abito bianco a prua, esclamò:

«C'è una donna a bordo».

Era un'apparizione alquanto singolare, perché la figura, sporgendosi dal bompresso, dominava il mare col suo atteggiamento bizzarro, come di sfida, quasi stesse per spiccare il volo. La si sarebbe detta una di quelle polene scolpite dai marina, di una volta, ma la stoffa bianca dell'abito fluttuava nella brezza e il viso della donna, arrovesciato all'indietro, era come ebbro di voluttà.

Malgrado la distanza si sentivano dei rumori e il mormorio di alcune voci; poi, all'improvviso, si udì il frastuono dell'ancora che cadeva in mare e della catena che si srotolava.

Müller continuava a camminare; Rita e l'asino lo seguivano. Ogni tanto si perdevano nelle ombre del sentiero per poi riemergere qua e là alla superficie, come nuotatori.

I suoni si moltiplicavano. I paranchi cigolavano. La scialuppa era in acqua e allora, per la prima volta, si sentì la voce della donna. Müller e Rita, sprofondati nel punto più basso del sentiero, erano ad appena cento metri dal mare invisibile.

Acuta, altera, la voce, una voce abituata al comando, chiamava:

«Kraus! Nic! Venite qui! Guardate, questo è il mio regno. Da oggi sono la regina di Floreana!».

Non si sentirono risate, ma solo un mormorio di approvazione. Rita affrettò il passo per raggiungere il professore, ma questi continuò a camminare a testa bassa.

 

«Il professor Müller?».

Senza dubbio l'umile Herrmann non si sentì mai tanto imbarazzato, né tanto fiero, in vita sua. I cinque abitanti dell'isola erano riuniti sulla spiaggia a guardare la scialuppa che si avvicinava.

La sconosciuta era protesa in avanti, a prua, sempre nella sua posa da polena; nel momento stesso in cui la lancia raschiò la sabbia nera saltò a terra e strinse le mani di Herrmann.

«Non sono io...» balbettò questi indicando Müller, che, infastidito, voltava ostentatamente le spalle.

«Oh, mi scusi, professore! Lei non sa quanto io sia felice di abbracciarla... Ho letto tutti i suoi libri... sono una sua appassionata discepola, come lei ne ha in ogni parte del mondo...».

Gli occhi di Müller erano ridotti a una fessura, e la donna, notando i seni nudi di Rita, esclamò col brio innaturale di una donna di mondo che entri in un salotto:

«E questa è la sua incantevole compagna?».

E abbracciò anche lei. Nulla poteva fermarla. Era lei sola a parlare, lei sola ad agitarsi sotto il sole, e sotto le sue ascelle si disegnavano due chiazze di sudore.

«Perdonatemi, non mi sono ancora presentata! Contessa von Kleber. Nic! Venite, lasciate che vi presenti... Nic Arenson, uno dei miei mariti e mio aiutante in campo... E questo è Kraus! Un giovane che ha abbandonato papà e mamma per seguirmi...».

Niente la smontava, né il silenzio di Müller, né il viavai dei marinai ecuadoriani che cominciavano ad ammassare le casse sulla spiaggia.

In mancanza di un'altra ispirazione, appoggiò affettuosamente le mani sulle spalle di Rita.

«Spero che diventeremo amiche, e che lei abbia le mie stesse idee. Da domani vivrò nuda anch'io. Non sono gelosa. E lei?».

Il padrone della San Cristóbal, un meticcio di Guayaquil dal torace carnoso, si guardava intorno con aria seccata.

«Dove dobbiamo mettere tutta questa roba? Lo sapete che è la stagione delle piogge?».

«Nelle caverne, naturalmente!» ribatté la contessa.

Il meticcio cercò Müller con gli occhi, come per dire:

«Che gliene pare di questo bel tipo?».

«Lo sa che le caverne sono a due ore di marcia, e a quasi seicento metri d'altezza?».

«E allora?».

«Non ci sono strade, qui. I miei uomini...».

Nulla, assolutamente nulla poteva fermarla. Con un gesto indicò l'asino.

«E questo? Caricatelo, è fatto apposta!».

Certo, la contessa stava vivendo un momento di intensa esaltazione, ma si poteva supporre che, a freddo, i suoi movimenti fossero egualmente esagitati.

«È suo quell'asino, professore? E perché ha le orecchie mozze?».

Müller mormorò educatamente:

«Per distinguerlo dagli asini selvatici»

«Ci sono asini selvatici, sull'isola? Nic, avete sentito? Andremo a caccia di asini! Mio Dio, è così eccitante...».

Nel frattempo, Herrmann aveva chiesto informazioni sul suo pacco. Ma che importanza poteva avere, per il padrone, il pacchetto dell'assistente preparatore di fronte all'imponente bagaglio della contessa? Nessuno sapeva dove fosse finito, e Herrmann dovette salire lui stesso sulla goletta.

Lo videro che andava su e giù per il ponte, con i pantaloni bagnati, frugando fra travi, casse e sacchi.

«Caro professore, spero che il primo giorno ci inviterà a pranzo da lei! Ho una fame da lupo! Già da domani avrò un tetto: ho portato con me una casa prefabbricata, e questi uomini lavoreranno tutta la notte, se necessario... Lei non ha idea di quanto sia stato gentile con me il governo dell'Ecuador! Per non parlare dei giornalisti! La mia cabina è tutta piena di fiori... Le farò vedere i giornali in cui si parla di me, su quattro colonne, in prima pagina...».

«Ha intenzione di abitare sull'isola?» chiese Müller. Rita gli stava accanto zitta zitta, come un cane spaventato.

«Ma come, non lo sa? È vero che le notizie qui non arrivano. Che meraviglia, il ritorno alla natura! Niente che venga a disturbarvi, neanche i giornali! Tutta la stampa ha parlato della mia partenza e della mia decisione di vivere a Floreana. È mia intenzione costruire un albergo vicino alle vecchie caverne dei pirati - come vede so della loro esistenza! Un albergo in cui verranno a ritemprarsi nella tranquillità le persone facoltose, stanche della vita moderna - almeno quelle provviste di yacht!».

Herrmann, che aveva finalmente trovato il suo pacco, tornava in quel momento sulla spiaggia e si sedette sulla sabbia per fare l'inventario. Dentro c'era di tutto: cotone, fasce elastiche, olio di ricino, disinfettanti. Sua moglie stava a guardare, placida e sorridente, e lanciava occhiate indagatrici a quella nuova venuta che era contessa.

«Se il professore non li vuole, forse potremmo invitarli noi» sussurrò.

«Tu credi?».

Ma già Müller, rassegnato, si metteva alla testa del piccolo drappello e s'avviava per il sentiero. Due volte si girò verso il suo asino, che non aveva mai dovuto portare carichi: ora i marinai lo schiacciavano sotto il peso dei bagagli.

«Non vi pare che abbia un'aria stupida?» osservò la contessa. «Kraus! Toglietemi le scarpe...

Voglio camminare a piedi nudi, come il professore».

E Kraus, un giovanotto biondo di non più di vent'anni, si inginocchiò per accontentarla. La seguì tenendo in mano le scarpette di cuoio bianco mentre lei prendeva sottobraccio l'altro suo compagno, quello che chiamava Nic, un ebreo dinoccolato di una trentina d'anni.

«Cos'è quell'animale che ci è appena passato davanti, professore?».

«Un maiale».

«Anche i maiali sono selvatici? Hai sentito, Nic? Potremo andare a caccia di maiali! E pensare che in questo preciso momento c'è gente che vive a Montparnasse! A proposito, che ore sono a Parigi? Scommetto che è notte, e che dormono tutti...».

Per cambiare, si mise a parlare in russo con Nic, e scoppiò a ridere: aveva accennato a una sua amica che, alla Coupole, aveva l'abitudine di ubriacarsi a partire dalle undici di sera.

«È ancora lontano?».

Il sentiero era in salita, e con la fatica cadde il silenzio. Si sentivano solo respiri ansanti e Rita, come se chiedesse umilmente la sua protezione, si teneva aggrappata al braccio di Müller, che continuava a camminare senza farci caso.

Gli Herrmann erano rimasti laggiù, vicino alla scialuppa, da cui provenivano ancora le grida dei marinai che sbarcavano la casa prefabbricata.

«Nessuno ha pensato di portare qualcosa da bere!».

Fu il primo cedimento della contessa. Proprio in quel momento, guarda caso, la pioggia cominciò a cadere a grosse gocce e, dopo un'illusoria sensazione di freschezza, il caldo divenne ancora più soffocante.

L'abito bianco non tardò ad appiccicarsi al suo corpo. I capelli le scivolarono lungo le guance, mentre coi piedi slittava sulla terra bagnata o inciampava contro gli spunzoni di lava rappresa.

«È ancora lontano, professore?».

La contessa tentò di sorridere e lanciò un'occhiata torva a Rita, che non sentiva la fatica e aveva i capezzoli induriti al contatto con la pioggia.

Il sentiero si stava trasformando in un ruscello. L'acqua cadeva a cataratte e, di tanto in tanto, un piccolo limone maturo si staccava dal ramo e cadeva al suolo con un tonfo sordo.

«Kraus, rimettimi le scarpe».

Non poteva sedersi e dovettero sorreggerla mentre sollevava prima una gamba, poi l'altra.

Aveva i piedi martoriati.

«Eppure, in Italia mi ero abituata... È questa orribile lava...».

Un lampo attraversò gli occhietti di Müller, perché intuiva che le veniva da piangere. Allora, per la prima volta dopo molto tempo, diede a Rita una dolce emozione sfiorando con la sua mano ruvida quella di lei, appena per un istante.

Bastò questo perché Rita, senza rendersene conto, affrettasse il passo di entrambi.

Pur di vedere l'altra definitivamente impantanata sarebbe stata capace di mettersi a volare!

2

 

La mattina dopo Rita avrebbe visto per l'ultima volta Müller scoppiare in quella risata infantile che ogni tanto gli attraversava fulminea il viso. Lo aveva sentito alzarsi già da qualche minuto e ora, mentre un raggio di sole giungeva fino a lei, se ne restava distesa, la carne serena, socchiudendo di tanto in tanto le ciglia alle luminose immagini dell'alba.

Müller era andato fino al ruscello per le sue abluzioni e ora, a torso nudo e con i pantaloni del pigiama che gli scivolavano lungo i fianchi nervosi, apriva i pacchi che la goletta aveva portato dal continente.

C'erano un sacco di patate da ripiantare, cinque chili di chiodi, un disinfettante verdastro per i ratti dell'orto e una sega per metalli.

Rita sollevò le palpebre e vide Müller preoccupato e felice al tempo stesso, come un bambino davanti a un giocattolo nuovo. Forse erano gli occhi, di un azzurro chiaro, a dargli a volte quell'aria innocente, o forse la vivacità di tutta la persona, che non faceva pensare a un uomo di cinquant'anni.

«Guardi» disse lui poggiando con noncuranza qualcosa sul letto.

I suoi occhi non si erano mai accesi davanti alla nudità della compagna. Si sedette accanto a lei, mentre Rita esaminava un libro che egli aveva appena scartato. Sulla copertina patinata era stampata una foto del professore così come viveva sull'isola, seminudo; doveva averla fatta qualche giornalista di passaggio, e le agenzie l'avevano trasmessa in Europa.

«Che lingua è?».

«Ceco...».

Era la prima volta che un suo libro veniva tradotto a Praga, e Müller si sforzava di avere un'espressione indifferente mentre le sue dita correvano sulla copertina lucida.

 

Prof. Frantz Müller La teoria dei quattro mondi

Non era niente di speciale, una piccola gioia nel succedersi dei giorni, eppure Rita si alzò con un brivido.

«Nessuna lettera?».

«Ce n'è una della legazione tedesca a Quito. Non l'ho ancora aperta».

Mentre Rita si lavava i denti, Müller lacerò la busta e spiegò un foglio; fu allora che rise come lui solo sapeva ridere, con un ghigno secco, un susseguirsi di gorgoglii soffocati.

«Rita, stia a sentire!».

 

«Esimio professore,

«mi pregio di comunicarLe che da quattro mesi a questa parte ho ricevuto da Berlino un certo numero di documenti concernenti la causa di divorzio intentataLe dalla signora Elisabeth Müller, nata Vogel.

«Mi è purtroppo impossibile inviarLe tali documenti, che potrò trasmetterLe solo negli uffici della legazione o mediante l'ufficiale giudiziario.

«La pregherei dunque, qualora questo Le fosse possibile, di aver la cortesia di farci visita, in modo da poter prendere unitamente tutte le necessarie decisioni.

«Certo di un Suo cortese riscontro, ecc.».

 

Fu Rita a dire a bassa voce, con più tenerezza che ironia:

«Liesbeth!».

Nulla poteva essere più inatteso, e nulla poteva ricordar loro Berlino con altrettanta intensità:

Liesbeth, grassa e rosea, con la sua voce di testa e i suoi vestiti di seta chiara, Liesbeth che chiedeva il divorzio!

Müller aveva riso, e rileggeva la lettera con aria più assorta. Come avrebbe potuto non rivedere la villetta chiara in cui abitavano fuori città, i mobili e l'arredamento moderno, le tende di tulle attraverso le quali, come in una nebbia, si vedeva l'immenso tram giallo che passava fra un prato e l'altro?

La cosa più strana era che Liesbeth lo aveva tradito con Ehrlich, il marito di Rita! Era un dato di fatto e lei non lo aveva mai negato. Non era adatta per un uomo come il professore, che non concedeva spazio alcuno al divertimento.

Quando la sera lui riceveva amici come Rita per discutere le sue teorie, Liesbeth si sedeva in un angolo con un romanzo e invariabilmente, verso le undici, si addormentava.

Che assurdità quella riunione a quattro che Müller aveva sollecitato un giorno! Ehrlich, che non era stupido, si sentiva a disagio. Era un medico alla moda, sempre tirato a lucido. Di tanto in tanto lanciava a Liesbeth un'occhiata furtiva.

«Ho qualcosa da dirvi: vado a trascorrere il resto dei miei giorni in un'isola deserta del Pacifico».

Automaticamente, a Liesbeth si erano orlate le palpebre di lacrime fluide; aveva stretto fra le mani un fazzolettino profumato.

«Lascio qui mia moglie, completamente libera. Quanto a Rita, desidera accompagnarmi, ma questo non riguarda me...».

Rita aveva messo tutti a proprio agio dichiarando, con un sorriso:

«Sarete entrambi molto più felici, qui».

I due avevano protestato, giusto per la forma. C'era stato uno scambio di abbracci.

E adesso Elisabeth voleva divorziare ufficialmente. Era per sposare Ehrlich? O aveva un nuovo amore?

Müller ripiegò la lettera e la infilò in un portafoglio che conteneva il suo intero patrimonio.

Era già tutto finito: soltanto una schiarita, e Müller tornava a incupirsi. A cinquanta metri da casa, si udiva una voce d'uomo che cantava con fervore una vecchia canzone tedesca.

Era il segnale di riconoscimento di Larsen, che aveva trovato questo sistema di annunciarsi per evitare di imbattersi in Rita nuda.

Lei si limitò ad avvolgersi un telo attorno ai fianchi e si affacciò sulla soglia, cercando nel sole.

«Ehilà!».

«Ehilà!».

Veniva voglia di sorridere al semplice suono di quella voce che annunciava il viso fresco del gigante. Quarant'anni prima alcuni pescatori norvegesi si erano stabiliti a Santa Cruz, l'isola più vicina a Floreana, a dodici ore di canotto, per dare la caccia alle balene. Poi erano ripartiti, ma uno di loro aveva lasciato un figlio, avuto da un'indigena.

Era Larsen, che dall'isolotto cui era rimasto fedele veniva ogni tanto a Floreana, sul suo cutter di sette metri.

«Ehilà, Rita!».

«Ehilà, Larsen!».

Era davvero un fratello, un uomo cui si stringeva con piacere la larga zampa.

«Il professore non c'è?».

Müller uscì dall'ombra e il gigante lo salutò con rispetto.

«Ho incrociato la San Cristóbal, stanotte, e il capitano mi ha detto che sull'isola ci sono degli europei appena arrivati che hanno bisogno di me».

«Lassù, alle grotte» rispose Müller.

«Contenti?».

Rita gli fece capire con un cenno che non lo erano affatto, e Larsen, seduto sull'angolo del tavolo, si alzò.

«In ogni caso, vado a dare un'occhiata. Posso prendere qualche chiodo, quando torno?».

Non sarebbe tornato né quel giorno né l'indomani, e nemmeno il giorno successivo; sua moglie, a Santa Cruz, era certo terribilmente inquieta.

Strane giornate, per tutti: nessuno capiva che cosa stesse succedendo. Si sentivano rumori insoliti e per di più il tempo era umido e caldo.

Durante la notte, i marinai della San Cristóbal avevano lavorato tanto e con tanta lena da montare il grosso della casa in legno della contessa.

Müller non l'aveva ancora vista: era a più di un'ora da lì, sul punto culminante dell'isola, ad appena trecento metri dagli Herrmann.

Comunque, in cinque anni era andato solo tre o quattro volte in quella direzione, perché non ne sentiva la necessità. L'isola misurava venti chilometri di lunghezza, ma lui, per abitudine, ne percorreva sempre la solita porzione, dalla sua capanna al mare.

Quando erano arrivati gli Herrmann aveva consigliato loro di sistemarsi più in alto, per stare in pace, e ora la contessa andava ancora oltre. Tanto meglio!

Aveva scelto il posto in base ai libri, lo si capiva subito: aveva letto che le caverne erano state abitate dai pirati, e che lo stesso Morgan vi si era rifugiato dopo il suo famoso assalto a Panama.

Ma da questo ad affermare che le grotte erano piene di tesori...

Quando Müller le aveva esplorate, aveva trovato in una di esse un foro per far uscire il fumo, due o tre mobili recenti, ossa di animali sparse a terra e, sulla pietra, un'iscrizione: M. S. 1923.

Chi era M. S.? Da dove era venuto? Era ripartito, e in che modo? O era morto sull'isola?

In ogni caso, Müller non volle salire fin lassù per vedere cosa stesse facendo la contessa, e Rita, vedendo bene che moriva dalla voglia di farlo, aveva di tanto in tanto un sorriso materno.

Le capitava spesso: considerava il professore l'uomo più intelligente del mondo, ma conosceva le sue piccole debolezze, e ne era intenerita.

Com'era fatta quella casa smontabile? E la contessa aveva davvero intenzione di aprire un albergo?

«Non ci hanno neanche riportato Hans» disse improvvisamente il dottore, dopo essere stato in silenzio per più di un'ora a sistemare i suoi chiodi nelle scatole.

Lo avevano sicuramente legato, altrimenti sarebbe tornato da solo, come un cane.

La giornata passò senza che nessuno si facesse vivo e Rita avrebbe voluto trovare il modo di dissipare il malumore di Müller.

Purtroppo non era possibile: mai e poi mai lui avrebbe ammesso la sua curiosità.

E non c'erano forse cose ben più gravi che, da anni, non ammetteva? Rita cercava di non pensarci, ma a volte aveva voglia di prenderlo semplicemente fra le braccia, come un uomo e una donna qualsiasi, di chiamarlo per nome, di sussurrargli:

«Allora?».

Sarebbe bastato così. Avrebbero guardato insieme il mare; forse Müller avrebbe sospirato e lei avrebbe capito. Anche se non erano partiti per quello, per lei sarebbe stato un sollievo.

La sera ci fu un altro temporale, e una pioggia così violenta che tutti i pomodori andarono a spiaccicarsi al suolo. Müller li aveva curati per settimane, attento e silenzioso. Pazienza!

Gli Herrmann non si fecero vedere; non si fece vedere nessuno! Erano tutti lassù, attorno ai nuovi arrivati; anche Larsen, che non tornava più.

Lo stesso avvenne il giorno dopo e il professore, dopo aver tentato per un'ora di lavorare al suo libro, di definire un nuovo equilibrio di forze materiali e spirituali, andò a fare una passeggiata verso la spiaggia.

Quando tornò, una certa vibrazione dell'aria gli annunciò che c'era qualcuno. Trovò infatti sulla sua sedia la contessa von Kleber, mentre il giovane Kraus stava accovacciato ai suoi piedi, su una stuoia.

Rita si era alzata, come faceva sempre quando lui entrava, ma gli altri due non si mossero.

La contessa si limitò a tendergli languidamente la mano perché la baciasse.

«Come sta, caro professore? Ho appena trascorso un'ora piacevolissima con la sua incantevole consorte. Lo sa che è davvero una donna eccitante?».

«Rita non è mia moglie» borbottò il professore.

La contessa rise e si voltò verso il letto, diviso in due da un tramezzo di legno alto quindici centimetri.

«E quello basta a difendere la sua virtù? Non vorrà farmi credere, professore, che un uomo della sua vitalità...».

Lui parve cercare la sua sedia con gli occhi, e andò ad appoggiarsi al tavolo.

«Si è seduto sul miei giornali. Volevo mostrarveli...».

Müller li guardò dall'alto, senza prenderli. Erano quotidiani di Guayaquil, in spagnolo, che avevano in prima pagina il nome e la fotografia della contessa.

«Hanno capito perfettamente il mio progetto e il governatore ha dato una grande festa in mio onore...».

Indossava un paio di pantaloni molto ampi, di quelli che le donne amano sfoggiare in spiaggia. Anche se era più snella di Rita, il suo seno doveva essere sciupato, dal momento che lo nascondeva sotto un reggiseno.

Fumava una sigaretta dopo l'altra, gettando i mozziconi a terra, e il giovane Kraus le tendeva in continuazione l'accendino acceso.

 

«Ma lo sa che ho conquistato un uomo davvero magnifico? Mi ha detto che lo conoscete.

Quel norvegese, Larsen... Credo proprio che non lo lascerò più andar via... Oh, andiamo, Kraus, niente gelosie stupide! Erano i patti, no?».

La fronte di Müller era già solcata da una ruga di stanchezza.

«Che ne è del mio asino?» chiese freddamente.

«Ci è talmente utile che lo terremo ancora qualche giorno».

«Mi dispiace, ma ne ho bisogno».

«E per far cosa?».

«Per lavorare nell'orto».

«Oh, sì, Rita me lo ha fatto vedere. È magnifico! Ho già detto a Kraus di venire ogni tanto a imparare qualcosa, perché avremo bisogno anche noi di frutta e verdura».

Kraus dovette alzarsi e uscire, squassato da un violento accesso di tosse, e il dottore ne dedusse che era affetto da tubercolosi acuta. Quando tornò, imbarazzato, aveva gli zigomi arrossati e gli occhi lucidi.

«Pensa sempre di essere ammalato» spiegò la contessa. «Ma io credo che se fosse meno innamorato, non si ridurrebbe così».

Stava per scendere in particolari, e si capiva che ci provava gusto, che aveva bisogno di stupire e scandalizzare al tempo stesso.

«Qualcosa da bere?» intervenne Rita lanciando un'occhiata a Müller, come per scusarsi.

«Un whisky, volentieri».

«Non ho alcolici. Beviamo solo succo di frutta...».

«Io ho portato con me dodici casse di White Label e ne aspetto altrettante fra sei mesi.

Sapete quante sigarette ci siamo portati dietro? Ventimila! È vero che quando arriveranno gli yacht... Conoscete il banchiere americano Paterson? Possiede lo yacht più grande del mondo. L'ho incontrato a Parigi prima di partire, e mi ha promesso che sarà qui entro un mese...».

Ci fu allora un piccolo incidente che diede da pensare al professore: si sentirono dei passi, e poi la silhouette di Nic Arenson, l'ebreo, si stagliò nel vano della porta.

«Vi cercavo...» disse alla contessa, senza salutare gli altri.

Allora Kraus si alzò controvoglia e andò a rannicchiarsi in un angolo, mentre Nic prendeva il suo posto accarezzando le ginocchia della contessa con una mano indolente ornata di un anello con lo stemma.

«Come va, dottore? Vedo che ha fatto conoscenza con una donna... Originale, non trova? E molto più colta di quanto non voglia far credere...».

Il suo sguardo scivolava sui seni nudi di Rita che, per la prima volta, si sentì imbarazzata.

Nic portava pantaloni di flanella bianca e una camicia di seta con le sue iniziali, sul labbro aveva un paio di baffetti sottili tagliati a virgola.

«Come procedono i lavori?».

«Domani potremo inaugurare la casa. Quel bruto norvegese lavora per sei. In un giorno ha tirato su tutte le pareti, e adesso sta sistemando le porte».

Nic aveva quasi la stessa sicurezza della contessa. Stravaccato come fosse a casa sua, fumava e faceva cenno a Kraus, che accorreva con l'accendino.

«Non c'è niente da bere?».

«Succo d'arancia» disse la contessa ridendo. «Non è roba per te, mio povero Nic. Il professore è un puro. Guarda il letto...».

Rita aveva voglia di piangere, non per sé, ma per il professore, di cui avvertiva tutto il fastidio e l'umiliazione.

«Ci sono altre cose da fare nella vita oltre all'amore» proruppe con involontaria veemenza.

Ma la contessa la guardò in modo così strano che ne rimase turbata.

«Confessi, mia piccola Rita, che ci sono delle notti in cui sarebbe felice di veder sparire quel tramezzo».

«Perché dovrei confessare qualcosa di falso?».

Müller uscì tranquillamente, senza scusarsi, e andò nell'orto, dove lo videro chinarsi per raccogliere i pomodori spappolati.

«Crede che si sia offeso?» chiese la contessa con affettato imbarazzo.

«Non saprei».

«Ma è sempre così selvatico? Anche quando siete da soli? Non dev'essere un gran divertimento...».

Rita voleva difenderlo; si sentiva il volto in fiamme come quello di Kraus, e proruppe:

«Passo con lui ore divine, a sentirlo parlare di filosofia».

«Andiamo?» chiese Nic in tono sprezzante, fra uno sbadiglio e l'altro.

Si scrollò qualche granello di polvere dai pantaloni bianchi e guardò per l'ultima volta i seni di Rita, toccanti nella loro imperfezione, nella loro impudicizia.

«Spero che verrete a trovarci spesso» declamò la contessa. «In ogni caso vi aspettiamo domani con gli Herrmann, per l'inaugurazione della casa».

«Ne parlerò al professore».

Era ormai quasi sera. Chino in avanti, Müller rivoltava la terra aiutandosi con una zappa.

«Buonasera, vicino!» gli gridò da lontano la sua visitatrice.

Lui non senti, o finse di non sentire, perché non alzò la testa. Rimasta sola, Rita poté finalmente scoppiare in un pianto nervoso fatto di brevi singhiozzi stizzosi. Non osava raggiungere Müller, che continuava a occuparsi dell'orto, e nella capanna si sentiva irrequieta.

Non era la prima volta che la sera le chiudeva la gola e le inumidiva gli occhi, ma mai prima di allora aveva provato un simile senso di angoscia.

Eppure c'erano state settimane terribili, durante le quali il professore non le aveva mai rivolto la parola. Succedeva soprattutto quando s'intestardiva a lavorare. A Berlino aveva scritto tre opere importanti in pochi anni, e il libro tradotto in ceco arrivato quella mattina risaliva appunto a quel periodo.

A Floreana, in cinque anni, non era riuscito a finire nemmeno il primo, di cui riscriveva incessantemente i capitoli.

«In questo posto ho bisogno di raggiungere la perfezione» diceva nei rari momenti di confidenza.

Lei fingeva di credergli. Rimaneva immobile e silenziosa per non disturbarlo, ma si accorgeva dell'inquietudine dei suoi occhietti incattiviti.

In quei momenti le veniva voglia di passargli un braccio intorno alle spalle mormorando:

«Frantz...».

Sognava spesso di avere l'audacia di farlo, e che di colpo tutte le nubi si dissipavano, sciogliendosi come il dolore si scioglie in lacrime, il cielo in pioggia. Ma quando al mattino, dal letto, lo vedeva in piedi con la fronte già aggrottata, che rimuginava i suoi pensieri mentre badava alle minuzie quotidiane, non osava più.

Non poteva neppure aiutarlo preparandogli da mangiare, perché di quello lui voleva occuparsi personalmente.

Era ormai notte e Müller non rientrava, sempre chino sulle sue piante. La ghiaia che lui stesso aveva trasportato e sparso al suolo scricchiolava a ogni passo.

Rita era appoggiata al principale pilastro di sostegno del tetto e non vedeva che una macchia di vegetazione nella penombra: la linea triste dei banani e, alte nel cielo, le palme da cui colavano grosse gocce d'acqua.

Una noce di cocco si schiantò sul sentiero. Il dottore andò a raccoglierla, la portò dentro, terminò di aprirla con un colpo di machete e bevve la metà del latte, tendendo poi il resto alla compagna.

Sudava, cosa che gli accadeva raramente. I suoi occhi evitavano quelli di Rita.

«Domani andrò a prendere il nostro asino» gli promise lei con la segreta intenzione di consolarlo.

Per quell'animale, infatti, che quando erano arrivati viveva allo stato brado, il professore aveva lo stesso attaccamento che un bambino ha per una bambola o per un pupazzo.

Müller non rispose: non era abbastanza per rasserenarlo. Rita stava per parlargli della lettera di Liesbeth, ma pensò che la cosa non la riguardava.

Ci pensò fra sé e sé, ricordando il salotto e soprattutto il grande pianoforte su cui un loro amico, un polacco dal buffo accento e dal viso segnato dal vaiolo, suonava per ore Chopin agitando una criniera di capelli rossi.

Tutto questo era successo in un'epoca strana, inquieta, agitata, in cui tutti parlavano di politica e di miseria. Gruppi di operai sfilavano per le strade inalberando striscioni minacciosi.

Liesbeth ripeteva spesso:

«Ah, noi possiamo stare tranquilli, perché Frantz cura tutta quella gente gratis».

E le serate finivano sempre allo stesso modo, con una stretta al cuore, perché Rita era gelosa di Liesbeth che restava sola in casa con suo marito.

Adesso era lei a trovarsi sola con lui. Lo guardò mentre sbatteva il suo uovo, poi lo sentì affermare:

«Le dirò chiaramente che non vogliamo avere rapporti di nessun genere con lei».

Era capace di farlo. Rita lo immaginava, in piedi, le narici lievemente contratte, mentre parlava con voce sorda, tagliente, per poi andarsene senza aspettare risposta.

Non mangiò e andò a coricarsi, sempre avvolta nel telo con cui si era coperta. Il dottore si aggirò ancora per la capanna, senza accendere la luce perché la luna ormai alta la rischiarava a sufficienza.

Finalmente si sdraiò sull'altra metà del letto, sospirò e il silenzio fu totale.

L'acqua placida della laguna avvolgeva l'isola come una cintura di quiete, ma a meno di un miglio, sui coralli, le onde del Pacifico infuriavano a ranghi serrati; venivano da lontano, dall'Asia o dall'America, da un polo o dall'altro, e si sfracellavano per far posto alle altre che s'infrangevano a loro volta, insinuando nella notte un lontano rombo di tuono.

3

 

Quando Rita tornò con l'asino, verso le tre del pomeriggio, il professore, occupato a scrivere, finse di non sentirla. È vero che, seguendo un impulso alquanto bizzarro, era partita senza dire nulla.

Non aveva niente da rimproverarsi, anzi, ma sentiva che era meglio non parlare troppo di «lassù».

Inoltre, per la prima volta, si era messa un vestito di tela gialla, il solo che le restasse della sua vita europea. Fu quella macchia gialla che entrava e usciva dal suo campo visivo ad attrarre all'improvviso l'attenzione di Müller, che posò la penna e guardò l'abito aggrottando le sopracciglia cespugliose.

Allora Rita esclamò in fretta, con una voce un po'"sopra le righe:

«Hanno ferito il povero Hans...».

Era vero. L'asino aveva le ginocchia scorticate in profondità e il pelo tutto sporco.

Il professore tastò l'animale dal muso agli zoccoli, e Rita, lesta, ne approfittò per sfilarsi l'abito.

Era già un sollievo. Avrebbe voluto andare a bagnarsi al ruscello, ma non osava farlo subito.

«Hanno costruito una vera casa» disse spremendo un'arancia in una ciotola.

«Era meglio se lasciavano tranquillo il nostro asino» borbottò lui.

«Ci sono stanze con porte e finestre, e anche un'insegna, come in città: Hôtel del Ritorno alla Natura».

Era sicura che lui non le avrebbe mai fatto domande, che non sarebbe mai andato fin lassù, ma che ciò nonostante aveva voglia di sapere. Continuò dunque a raccontare, come se parlasse fra sé, mentre Müller fasciava le zampe di Hans. Erano le ore della canicola. Dal lato del sole era appesa una cortina di bambù, e la luce arrivava solo a strisce orizzontali. Sul tavolo i raggi striavano i fogli di carta bianca, che sembravano fitti di scrittura - ma Rita aveva notato, rientrando, che il suo compagno non aveva quasi lavorato.

«Credo che gli Herrmann si siano piazzati là...».

Parlava senza convinzione e, se Müller l'avesse guardata, non avrebbe osato continuare, perché aveva la sensazione di mentire.

«Stamani la signora Herrmann cucinava per loro, come una domestica...».

Era vero. Ma non era in quell'ordine che Rita aveva registrato le sue impressioni. Passando davanti alla capanna degli Herrmann aveva lanciato a ogni buon conto il suo saluto, e aveva constatato che non c'era nessuno. Un po'"più in là, aveva visto il ragazzo idiota mirare agli uccelli con una carabina che non gli apparteneva.

Poi, là dove un tempo non c'era nulla, aveva improvvisamente scoperto una casa, e questo le aveva fatto un certo effetto, soprattutto le finestre, delle vere finestre, e il tetto rosso, il fumo che usciva dal camino.

Sentendo dei rumori alla sua destra, si era spinta in quella direzione e aveva incontrato Herrmann e il giovane Kraus che sterpavano a gran colpi di falce.

«È qui il mio asino?».

Herrmann, imbarazzato, si era affrettato a spiegare:

«Siamo venuti a dare una mano... Fra vicini...».

Sul viso di Kraus si contavano le ossa.

«Rita!».

Per un attimo non era riuscita a indovinare la provenienza della voce. Poi si era diretta verso la veranda dove, dall'esterno, non vedeva nessuno.

«Entri, mia piccola Rita...».

Adesso raccontava al professore con voce neutra:

«Bevono alcolici per tutto il giorno... Solo Kraus lavora come un servo».

Ma non diceva tutto. Nel salire i gradini della veranda, aveva scoperto un ampio divano di giunco su cui era sdraiata la contessa, avvolta in una vestaglia semiaperta. Larsen, che un attimo prima doveva essere sdraiato accanto a lei, si era alzato a sedere e non sapeva bene che atteggiamento assumere.

«Lasci che l'abbracci, Rita... Ma non è possibile, si è messa un vestito! Nic, guarda come sta bene così!».

Nic era all'altra estremità della veranda, allungato su una sedia a sdraio, vicino a un tavolo ingombro di bicchieri e bottiglie.

Rita, che non aveva osato rifiutare il bacio della contessa, era stata colta dal panico quando aveva sentito le mani di lei percorrerle il corpo.

«Hai la pelle liscia... Siediti. Nic! Portale da bere!».

C'era qualcosa di strano, di inquietante nella sua voce, e solo più tardi Rita aveva capito che la contessa era ubriaca.

«Hai un corpo morbido e un po'"scipito da piccola borghese...».

Larsen evitava il suo sguardo e, mentre Nic riempiva un bicchiere, a Rita era sembrato di percepire lo sforzo della contessa, che cercava una qualsiasi cosa da dire o da fare.

Sembrava che avesse orrore della pace, del vuoto, come una macchina che dovesse funzionare a tutta forza, e cercasse continuo alimento. Era contratta, con tutti i nervi tesi.

«Bevi qualcosa con me...».

«No, grazie. Non bevo mai alcolici».

«Andiamo! Visto che il tuo professore non c'è...».

Avrebbe voluto liberarsi, ma il braccio della contessa la teneva seduta sul bordo del divano.

«Ma guardala, Nic! Ti dico che ha paura... È incredibile, ma non mi sono sbagliata... Una vera piccola borghese su un'isola deserta!».

Larsen si era alzato e guardava fuori tenendo i gomiti sulla balaustra della veranda.

«Baciala, Nic! È morbida come...».

E Rita aveva visto vicinissimo a sé il volto di Nic, i baffetti sottili, le labbra piene. Aveva fatto un passo indietro. C'erano quattro mani sul suo corpo, quelle della contessa e quelle dell'uomo.

La contessa rideva nervosamente.

«Baciala, Nic! Meglio di così...».

Il contatto aveva avuto luogo ed era durato a lungo, perché Rita, prigioniera fra i due corpi, non poteva muoversi. Sentiva l'odore intenso della contessa. Respirava a fatica, e non osava dibattersi ancora.

«Basta, Nic! Finirai col soffocarla...».

Rita si era ritrovata in piedi, barcollante, le labbra indolenzite, senza vedere nulla, senza sentire nulla. Aveva percepito soltanto:

«Una vera piccola borghese per te, caro Nic...».

«Voglio il mio asino» era riuscita ad articolare.

«Vado a prenderlo» era intervenuto Larsen, scendendo in fretta i gradini e girando dietro la casa.

Rita lo aveva seguito, con la testa che le ronzava; si era infilata fra casse e cataste di tavole e aveva visto Hans attaccato per una zampa a un paletto.

E adesso, alcune ore più tardi, raccontava mentre il professore faceva finta di non sentire:

«Larsen è diventato il suo amante e non pensa più a sua moglie...».

Eppure, mentre liberava l'asino, il gigante norvegese le aveva sussurrato:

«Domani me ne andrò...».

Non era più lo stesso. Aveva bevuto, anche lui, e alle dieci del mattino non era ancora ben sveglio, come gli altri. Cosa poteva pensare sua moglie, rimasta sola sull'isola di Santa Cruz? Lui e Rita si erano salutati con molta tristezza, con l'aria di chiedersi reciprocamente scusa, mentre in cucina la signora Herrmann, con un grembiule annodato sul fianchi, andava e veniva come una domestica.

Ecco!

Rita non aveva più nulla da temere. Müller non le chiese nulla e si sedette al tavolo per cercare di lavorare. Lei mangiò ancora un'arancia per cancellare il sapore delle labbra dell'uomo, poi se ne andò da sola, la carne inquieta, verso il ruscello, nel punto in cui ci si poteva sedere nell'acqua sulla ghiaia.

La contessa era arrivata a settembre, e già i giorni di ottobre sfilavano a uno a uno. La stagione delle piogge volgeva al termine, e ora bisognava affrontare una siccità che sarebbe durata sei o sette mesi.

Presto non ci furono più che brevi temporali, di solito verso sera, e quando non ne scoppiavano per più di tre giorni Müller doveva annaffiare determinati ortaggi, come le melanzane e le zucchine. Aveva un vecchio bidone da dieci litri che andava a riempire al ruscello e trenta, quaranta volte rifaceva lo stesso cammino, senza fretta né indolenza, senza noia né stanchezza.

Non si vedeva nessuno, ed erano cinque settimane che non sapevano nulla di quello che succedeva lassù.

In effetti il terzo mattino, di buon'ora, Larsen si era fermato davanti alla capanna. Aveva intravisto Rita ma, contrariamente al solito, si era accontentato di fare un gesto di saluto e aveva proseguito il cammino.

Nella scarna conversazione della coppia, questo si tradusse in una semplice frase:

«Larsen è tornato a casa...».

Dunque ce n'era uno di meno, all'albergo. Chissà se gli Herrmann avevano messo radici?

Sarebbero diventati anche loro, come Kraus, i servitori della contessa?

Di tanto in tanto si sentiva uno sparo giungere dalla zona delle caverne, e Müller non diceva nulla; solo l'asino fremeva dalla testa ai piedi, come se avesse avvertito un pericolo.

Il solo fatto di udire quelle detonazioni segnava la fine di tutta un'epoca. Quando Müller e la sua compagna erano arrivati sull'isola, gli animali non avevano affatto paura dell'uomo. Sulla spiaggia, uno dei loro passatempi più frequenti era stato quello di accarezzare i baffuti leoni marini che li guardavano con comico stupore.

Le iguane, immobili sulle rocce, retrocedevano prudentemente solo quando qualcuno toccava la loro pelle ruvida, e i cormorani dalle zampe azzurro pastello volavano così vicini da poterli prendere con le mani.

Altri animali erano anche meno scontrosi, come i maiali neri, gli asini e i tori, discendenti degli animali domestici portati sull'isola un secolo prima, quando era stato fatto un tentativo di colonizzazione.

Gli uomini erano partiti, mentre le bestie erano rimaste e si erano riprodotte al punto che, in certi giorni, Müller incontrava sino a dieci tori al pascolo sotto l'ombra dei limoni.

Adesso si sparava, e ogni cartuccia esplosa aveva una risonanza profonda: era uno choc che il professore doveva sentire fin nel più intimo del suo essere.

Lavorava. Non aveva mai scritto tanto, con la sua piccola calligrafia sottile dalle linee che sembravano sempre aggrovigliarsi.

Era la sua grande opera, che aveva già illustrato dieci volte a Rita, quella in cui tentava di ricostruire la catena che unisce i diversi mondi: fisico, psicologico, psichico e religioso.

Ma pareva quasi che avesse paura di se stesso, dal momento che, contrariamente alle sue abitudini, non rileggeva mai ciò che aveva scritto: andava sempre avanti, come preso da una vertigine. Non parlava più. A volte restava due giorni senza mettere piede nell'orto, senza riordinare le sue scatole di chiodi e gli attrezzi.

La contessa e i suoi compagni erano lontani. Non si vedevano, eppure erano presenti come è nell'aria un temporale. Nonostante tutto si viveva con loro, e a Rita capitava di avvertire come un odore di sigarette inglesi e di whisky, l'odore della bocca di Nic...

Una volta, nello stesso punto in cui si erano incontrati il giorno dell'arrivo della San Cristóbal, Müller e Herrmann si trovarono di nuovo l'uno accanto all'altro a guardare il mare, nella cui immensità si tuffava un sole rosso.

«Professore...».

Herrmann aveva adesso due lenti, ma la seconda non doveva essere adatta alla sua vista, perché gliel'aveva regalata Nic. Müller notò anche che aveva la barba più corta ed ebbe un moto di disprezzo.

«Lo sa, professore, che la contessa aspetta uno yacht da un giorno all'altro?».

Era penoso vedere la sua paura e il suo imbarazzo. Il pover'uomo voleva andare d'accordo con tutti, ma non sapeva più da che parte voltarsi!

«Naturalmente bisognerebbe che non ne venissero troppi, perché questo comprometterebbe il suo lavoro. Ma una volta ogni tanto sarebbe una distrazione, non trova?».

Non aveva mai parlato tanto. Spiava l'effetto delle sue parole, ma Müller rimaneva imperturbabile e lasciava correre lo sguardo lungo la linea dell'orizzonte.

«Dimenticavo di farle un'ambasciata. La contessa mi ha pregato di dirle che, se ha bisogno di qualcosa, è a sua disposizione. Ha portato con sé di tutto, casse e casse di scatolame, lampade, petrolio, tanta roba da non sapere cosa farne, per almeno centomila franchi di merci varie, credo...».

Mentre parlava si vergognava al punto di non sapere cosa fare delle sue mani.

«C'è di buono che avremo una donna in più per aiutare Maria al momento del parto... Certo, non è gente come noi...».

«Sta zitto!» sospirò stancamente il professore.

L'altro lo disgustava. Tutto lo disgustava, anche quel tramonto nelle acque purpuree dove forse navigava lo yacht annunciato. Questo arrivò ventiquattr'ore dopo, e Rita non vide Müller per tutta la giornata, senza nemmeno sapere dove fosse andato a cacciarsi.

Lo yacht si era visto fin dal mattino, ormeggiato al centro della rada in cui aveva probabilmente sostato durante la notte, e un po'"più tardi Rita vide qualcuno passare di corsa lanciando squittii di gioia.

La contessa si era messa una corona di fiori bianchi sul capelli e ne portava altri intorno alla vita e ai polsi.

«Vieni con noi, Rita? Sono arrivati i nostri amici».

Rita si nascose nell'orto e vide passare Kraus, Nic e gli Herrmann.

Stavolta non furono soltanto i colpi di carabina a squarciare l'atmosfera, ma anche i colpi di cannone, sparati dallo yacht in onore della contessa.

Per tutto il giorno non si vide nessuno. Si sentì soltanto, persistente, ossessivo, il ronzio di un motore da imbarcazione, perché una vedetta percorreva la baia in lungo e in largo dedicandosi alla pesca.

Tutti pranzavano a bordo, a quanto pareva, e Rita restò sola, senza immaginare dove potesse essere Müller, sola nella casa senza muri, senza finestre, sola sotto quel tetto di lamiera ondulata sorretto dai pali di legno. Soltanto a notte alta si udirono scoppi di voci via via più vicine, e un serpente luminoso si disegnò lungo i meandri del sentiero.

Gli uomini dello yacht avevano delle torce elettriche. Camminavano cantando canzoni inglesi o scozzesi, e si distingueva l'acuta voce di soprano della contessa.

Il professore non era ancora tornato, eppure Rita aveva l'impressione che non fosse lontano, che potesse essere rannicchiato nell'oscurità, vicinissimo a lei, come a volte gli capitava. Ci provava gusto; non voleva farle uno scherzo, ma certo si compiaceva di quella sua presenza invisibile, rivelata all'improvviso con una parola o un leggero colpo di tosse.

In ogni caso, non appena la compagnia si avvicinò Rita si nascose dietro i primi alberi del giardino, come aveva già fatto al mattino.

Poté così vedere la contessa, scarmigliata, che teneva sottobraccio un uomo di una certa età in uniforme da yachtman, coi berretto bianco in testa. La contessa, che era ubriaca, portava a sua volta un berretto da uniforme.

«Rita!» gridò trascinando gli altri verso la capanna. «Dove sei, Ritina? Voglio presentarti ai miei amici...».

E spiegò, ridendo:

«Credo che si vergogni perché è nuda... Va sempre in giro nuda, tranne il giorno che Nic l'ha baciata. Guardate! Ditemi se non è buffo...».

C'erano due donne sconosciute, biondissime, in tenuta da spiaggia, e in più una mezza dozzina di uomini. La signora Herrmann seguiva attonita lo strano corteo.

«Dormono in quel letto da cinque anni e cercano di far credere che fra loro non c'è nulla... Se è così, è pane per i vostri denti, non è vero, Nic?».

Dalla sua posizione Rita, che tratteneva il respiro, poteva intravedere il profilo equino dell'ebreo, illuminato da una torcia elettrica.

«Devono essersene andati per non incontrarci... A dire il vero, credo che il professore sia un po' tocco. Pensate che si è fatto strappare tutti i denti per non...».

La voce si perse in lontananza. Il gruppo si dirigeva verso la sommità della collina, mentre Rita non aveva nemmeno il coraggio di lasciare il suo rifugio.

Era esausta, come se l'avessero picchiata. A un metro da lei una voce disse:

«Venga dentro...».

Non furono scambiate altre parole. Müller si affaccendò per qualche minuto ancora, poi si coricarono entrambi, illuminati dal debole alone della luna, mentre all'albergo la festa impazzava.

La faccenda dell'asino cominciò solo il giorno successivo. Era quasi mezzogiorno e Müller stava costruendo uno scaffale per ordinare le sue carte quando si presentò il giovane Kraus, non senza qualche imbarazzo.

«Chiedo scusa!» balbettò timidamente.

Rita rimase nuda davanti a lui e il professore lo guardò incuriosito.

«Mi manda la contessa per chiedervi in prestito il vostro asino. È per i suoi ospiti, che vorrebbero fare un'escursione».

Martello in mano, un chiodo fra le labbra, Müller si accontentò di bofonchiare:

«Non lo presto, il mio asino».

«La contessa mi ha raccomandato di insistere e di dirle...».

«Il mio asino resta qui».

Kraus balbettò ancora qualche parola e riprese sconsolato la strada dell'Hôtel del Ritorno alla Natura. Rita era contenta e Müller canticchiava mentre portava a termine il suo lavoro, di cui era assai fiero, perché testimoniava della sua abilità di falegname. Ogni volta che affondava un chiodo con un solo colpo di martello lanciava uno sguardo furtivo verso la compagna, come se ne cercasse l'approvazione.

«Adesso ci lascerà in pace» disse Rita almeno mezz'ora dopo che Kraus se n'era andato.

Ma due ore più tardi un rumore annunciò nuovi arrivi, e un istante dopo la contessa sbucava dal sentiero al braccio dell'uomo in tenuta da yachtman, seguita da quattro o cinque persone.

Allora, pacatamente, Müller andò a piazzarsi all'ingresso della capanna e guardò gli intrusi con gli occhietti ridotti a due fessure.

«È vero, professore, che lei avrebbe rifiutato a Kraus di prestarmi il suo asino?».

«Precisamente».

La contessa finse di ridere.

«Immagino si tratti di uno scherzo, non è così? Lei sa chi sono. Sa anche, forse, che il mio compagno qui presente, il proprietario dello yacht, non è altri che il banchiere americano Paterson...».

Il volto di Müller rimase impassibile.

«Una delle nostre amiche, una celebre diva del cinema, si sente stanca, ed è per lei...».

Dovette accorgersi che perdeva il suo tempo, perché s'interruppe e cambiò tono:

«Vuole prestarci l'asino, sì o no?».

«No».

La sillaba cadde come un sasso nell'acqua. Lo yachtman dai capelli d'argento e dalla pelle abbronzata fece un gesto impaziente.

«Benissimo, professore» proruppe la contessa. «Signori, mi siete testimoni. Avete sentito questo mezzo pazzo rifiutare il suo asino a una donna affaticata. All'occorrenza potremmo prenderglielo con la forza, e voglio proprio vedere cosa potrebbe dire. Ma preferisco lasciarlo alle sue fisime. Tengo però a precisare che l'incidente non è chiuso. Vi consegnerò una lettera per le autorità ecuadoriane e per l'ambasciatore tedesco, che conto fra i miei amici...».

Müller la guardava perfettamente calmo, come se fosse stata trasparente e attraverso di lei lui contemplasse la verzura.

«Ci siete, Nic? Nic! Dove siete?».

Il giovane ebreo si fece avanti e la contessa continuò:

«Voi potete testimoniare al nostro amico Paterson che, quando sono arrivata qui, non ho dato alcun valore alle piccolezze sociali e alle differenze di classe, e mi sono presentata con tutta la gentilezza possibile. Ho anche messo le nostre provviste a disposizione del professore e di sua moglie, che si guarda bene dal farsi vedere...»

«Vorrei chiedervi, signore e signori, di avere la cortesia di lasciarmi lavorare» disse Müller.

«Pretende forse di cacciarci da un luogo che non le appartiene più di quanto non appartenga a noi?».

Müller non rispose. Era più calmo e più mite che mai, e Rita, che dalla capanna lo vedeva di profilo, era felice.

La contessa non poteva fermarsi lì; cercò qualcos'altro, e alla fine credette di aver trovato.

«Fra poco saprà che il governo dell'Ecuador mi ha dato in concessione l'intera isola. Questa è casa mia! Venga, Paterson, lasci questo cafone alla sua follia!».

E rise, rise come si piange, senza riuscire a fermarsi, finché non le fece male la gola.

Il sole era alto nel cielo. I passi del gruppo sollevavano la polvere del sentiero.

Müller andò a sedersi un istante sulla sua sedia, senza dir nulla, poi si alzò e accarezzò con le sue dita sottili e pelose il mobiletto che aveva appena costruito. Una voce lo fece voltare. Era Rita che abbracciava l'asino sussurrando:

«Povero Hans! Credo proprio che tu sia condannato».

Tre giorni più tardi, in effetti, l'asino dalle orecchie mozze era morto.

4

 

Se mai Rita avesse potuto prendersi gioco di una bizzarria del professore, avrebbe sorriso dei pazienti sforzi che egli aveva dedicato, e ancora dedicava, alla conquista del suo asino.

Il fatto che una donna che non aveva nulla da aspettarsi da lui lo avesse seguito fino a un isolotto sperduto del Pacifico e vivesse nella sua ombra senza rancore né impazienza non sembrava affatto preoccuparlo. E se trovava i suoi attrezzi in disordine, se Rita aveva sperimentato una volta di più un nuovo piatto e l'aveva sbagliato, continuava a fare dei gran sospiri.

Viceversa, ogni mattina i suoi occhietti ridevano quando guardava il pigro Hans che aspettava che tutti si fossero alzati per issarsi faticosamente sulle zampe. Aveva pupille d'asino o no? Il professore pretendeva di no. Ma non diceva neppure che Hans aveva occhi umani. Diceva:

«Occhi eterni».

Hans, in ogni caso, era clownesco nella sagoma e nel carattere. Aveva preso l'abitudine di seguire il padrone nella sua passeggiata mattutina, ma appena Müller si voltava l'asino faceva l'indifferente.

Non voleva aver l'aria di obbedire, c'era da giurarlo, e a un certo punto, quando riteneva che la sua strada e quella del padrone non coincidessero più, continuava per conto suo, con un'aria da passeggiatore coscienzioso.

Müller rideva, forse con una punta di malinconia.

 

La cosa più penosa nella storia dell'asino fu che morì per propria colpa, andando spontaneamente incontro al suo destino. E fu quasi un presagio. Che gli avevano fatto, lassù?

L'avevano attaccato a un paletto! L'avevano schiacciato sotto i pesi e l'avevano riempito di bastonate!

E allora perché, per quale aberrazione si sentì anche lui attratto dall’Hôtel del Ritorno alla Natura e s'incamminò, quella mattina, verso la morte?

Müller ebbe un presentimento: stava passeggiando nel limoneto più vicino alla capanna quando vide Hans che proseguiva verso la collina. Perché non lo trattenne? Non lo sapeva nemmeno lui.

La notte era stata faticosa. Almeno tre volte la banda della contessa era passata gridando e cantando nelle vicinanze della capanna. I fuochi d'artificio avevano imporporato il cielo.

Si avvertiva la volontà meschina di far colpo. A meno di dieci metri da casa sua, nell'erba calpestata, Müller aveva trovato perfino delle bottiglie vuote di champagne. Rita, stremata da quella notte in bianco, era ancora a letto.

Quanto al professore, era stanco e nauseato come se avesse bevuto e cantato anche lui fino al mattino.

Ormai la banda doveva essersi addormentata a bordo dello yacht, il cui abitacolo, in lontananza, scintillava come una palla di fuoco.

Müller tornò in casa.

«Non l'ha riportato, l'asino?» chiese Rita, che aveva a sua volta dei presentimenti.

Lui alzò le spalle, e trascorsero la giornata così, uggiosamente, trascinandosi di qua e di là.

Poi ci fu un altro motivo di malumore.

Forse per tirarsi su, Müller aveva strappato dal suolo alcune delle patate che aveva fatto crescere con tanta fatica. Le aveva sbucciate lui stesso, ma quando le ebbero cotte si accorsero che la pioggia degli ultimi giorni le aveva fatte marcire.

Almeno ebbero la consolazione di veder partire lo yacht americano; un'ora più tardi la contessa passava sul sentiero con i suoi due compagni.

La sera l'asino non era tornato. Gli succedeva raramente, ma era già capitato e la coppia evitò di parlarne. Ma il mattino seguente Müller si alzò assai di buon'ora e Rita notò che si radeva, si spuntava il pizzo e indossava un pigiama pulito.

«Mi è sembrato di sentire un rumore, stanotte» disse Rita.

«Anche a me».

Müller se ne andò e Rita l'attese tutta la mattina. Il sole aveva già oltrepassato lo zenith quando lo vide tornare solo, con un ghigno amaro sulle labbra.

«Lo ha ucciso» annunciò semplicemente.

«Gli ha sparato?».

«Gli ha fatto sparare da Herrmann...».

Stentava ancora a crederci. Eppure non c'era nessun dubbio. La contessa e i suoi compagni avevano scoperto Hans vicino a casa e in un primo momento lo avevano legato a un paletto.

«Hanno bevuto e cantato fin quasi a mezzanotte» aveva detto Herrmann.

Müller aveva visto da lontano la famosa veranda in cui avvenivano le orge. Riusciva benissimo a immaginare la contessa che, sempre più esaltata, si chiedeva cosa avrebbe fatto dell'asino.

L'idea, in ogni caso, doveva essere venuta a lei o a Nic Arenson. Avevano sciolto l'asino nottetempo e lo avevano portato fino alla palizzata di bambù che circondava il giardino degli Herrmann.

Era inconcepibile, eppure lo avevano fatto! Avevano sospinto la bestia nel recinto e poi erano rimasti ad aspettare nascosti nell'ombra.

Hans zampettava fra gli ortaggi. La signora Herrmann si era svegliata, e suo marito dopo di lei.

«C'è un toro selvatico nell'orto» aveva sussurrato.

Ed era lui, l'imbecille, che aveva sparato! Per poco non si era gettato in ginocchio davanti al professore! Tremava, chiedeva perdono! La carcassa dell'asino era ancora lì, al sole, piena di mosche, in mezzo alle patate.

Müller non l'aveva neanche sepolto. L'asino era morto, era finita. Il professore non si era nemmeno avvicinato alla casa della contessa, né aveva proferito minacce.

Si limitava a guardare l'isola, la sua casa, Rita, con occhi inquieti.

Non erano trascorsi otto giorni che Herrmann entrò timidamente nella capanna.

«Non la disturbo, professore?».

Müller era allungato sulla sedia, gli occhi socchiusi, e indicò all'ospite uno sgabello. Fu quella una delle poche volte in cui parlò per primo, perché intuiva come si sarebbe svolta la conversazione.

«Cosa mi racconti, Herrmann?».

«Tutto e niente. Sa, non succede nulla di straordinario, ma non ci sentiamo a nostro agio...».

Rita si accoccolò su una stuoia e si mise a rammendare un vecchio pigiama del professore.

«All'inizio non potevamo non dare una mano alla contessa, tanto più che si è stabilita a meno di trecento metri da noi. Sa, mia moglie è fatta così, a Bonn era sempre lì che aiutava qualche amica malata...».

Müller aveva uno strano sorriso interiore.

«Ci siamo interessati anche al giovane Kraus, che ha la stessa malattia di nostro figlio.

Eppure fanno fare tutto a lui... Certe sere riesce a stento a reggersi in piedi: Kraus di qua, Kraus di là! Gli altri due restano a letto tutto il giorno. Non l'annoio?».

Quelli che sentivano non erano solo i discorsi di Herrmann, ma i discorsi della coppia, perché dietro le parole si indovinavano lunghe conversazioni a due, la sera, mentre nella casa di fronte la baldoria raggiungeva il suo acme.

«Con tutte le cose inutili che hanno portato, non hanno nemmeno pensato alle medicine per lui... La contessa sostiene che non è tubercolotico. Quando tossisce troppo, per avere del creosoto viene da noi...».

Herrmann aveva voglia di sfogarsi e spiava le reazioni del professore, per paura di dispiacergli.

«Tre giorni fa, Jef è tornato a casa completamente ubriaco. E stata la contessa, col suo Nic, a farlo bere...».

Fu più forte di lui: Müller rise, o piuttosto sogghignò, tanto la storia era simile a quella dell'asino. Cos'altro stava per inventare, la contessa?

«Quanto a mia moglie, non ha più pace. Sin dal mattino si sente gridare: "Maria!"».

Rita volse altrove la testa, perché anche a lei veniva da ridere.

«Maria ci va» aggiunse il preparatore in tono lamentoso. «Non osa mai rifiutarsi. Le chiedono come si prepara questo o quel piatto e poi, quando ha cominciato, la lasciano sola in cucina. Vogliono far bere anche lei: "Tieni, Maria! Manda giù questo, farà bene al pupo che hai nella pancia …". Parla così, la contessa…».

Herrmann era fradicio di sudore, perché non aveva mai fatto simili discorsi e aveva ancora il cuore gonfio.

«Noi vorremmo evitare le discussioni... Ieri la contessa ha chiesto a mia moglie se non vorrebbe vivere sempre all'albergo, occupandosi della cucina: Maria aveva quasi paura di dire di no; l'altra, capisce, non è abituata a lavorare... Si sente che ha sempre avuto un sacco di domestici, dà ordini senza neanche volerlo... Intanto è come se non fossimo più a casa nostra, e sono sicuro che un giorno o l'altro ci sarà una discussione...».

Lo sguardo di Müller si era incupito.

«Sì» mormorò assorto.

«Cosa farebbe lei al mio posto? Non possiamo certo mettere la contessa alla porta. E non possiamo nemmeno rifiutare di andare da lei quando ci invita... A proposito, ci ha assicurato di essere intima amica del Kronprinz, che fra meno di due anni sarà di nuovo sul trono. Lei lo crede possibile?».

Si sentiva più a suo agio, ora che l'avevano lasciato parlare senza interromperlo, e guardava Müller con riconoscenza.

«Personalmente non mi sono mai occupato di politica, ma se fosse vero...».

«... ?».

«... credo che sarebbe una buona cosa. È anche la sua opinione?».

E dal momento che Müller non gli rispondeva, si affrettò a continuare.

«Che sia una gran dama è indubbio, lei e d'accordo con me, non è vero? Ci ha fatto vedere i giornali in cui si parla di lei. Deve essere molto ricca per mettere in piedi un'impresa del genere. C'è anche una vasca da bagno che hanno tirato fuori ieri dalla cassa, Kraus la sta installando».

Müller ascoltava distrattamente, ma le parole «vasca da bagno» lo colpirono e, d'istinto, si voltò nella direzione del ruscello. Era il solo che ci fosse sull'isola: aveva la sorgente vicino alle caverne, e passava prima in prossimità dell'albergo, poi nel giardino degli Herrmann, per raggiungere infine la capanna del professore...

La stagione secca stava appena cominciando e c'era ancora acqua in abbondanza, ma Müller sapeva per esperienza che in due o tre mesi il filo d'acqua si sarebbe ridotto quasi a zero, e forse, se le piogge avessero tardato, la sorgente si sarebbe prosciugata.

Era successo così il secondo anno e, per quindici giorni, Müller e Rita avevano vissuto nell'angoscia, dividendosi le poche gocce mentre le piante morivano, come gran parte degli animali.

«Lo sa che Paterson ha girato qui uno spezzone di film che manderà negli Stati Uniti? La contessa è sicura che, quando verrà proiettato, arriveranno yacht tutte le settimane. Ho visto una delle scene: l'hanno girata nelle caverne, con gli ospiti dello yacht che si erano messi tutti nudi.

Facevano finta di vivere nelle grotte come dei primitivi, e hanno anche cucinato un maialino sulle pietre arroventate. Si è spogliato anche Paterson...».

Herrmann, che trovava naturale vedere Rita seduta ai suoi piedi senza vestiti, era sgomento all'idea che un miliardario, e per giunta un banchiere, si mostrasse nudo. Aveva un saldo senso delle gerarchie, e Müller pensò che, volente o nolente, sarebbe diventato il cameriere della contessa.

«Le ho rubato tutto il suo tempo. Adesso bisogna che vada. Allora, cosa mi consiglia di fare?».

«Qualunque cosa facciamo, non credo che cambieremo nulla» sospirò Müller con ironia.

Perché non parlava solo per Herrmann, ma per sé, per tutti, e pensava anche a Liesbeth, sua moglie, che si disperava a Berlino non potendo ottenere il divorzio dal marito che viveva su un'isola deserta.

«Lei crede che dovrei pazientare?».

«Proprio così! Pazienta...».

Herrmann aveva trovato da solo la soluzione che si addiceva al suo carattere, a tutte le fibre del suo essere. Che pazientasse! Che pazientasse tutta la vita! Che pazientasse in attesa della morte...

Müller si alzò e andò nell'orto con l'alterigia di un alto personaggio che mette fine a un'udienza; ma non lo faceva con intenzione.

Il pomeriggio Rita pensò che lavorasse, perché restò a lungo seduto al suo tavolo, come se cercasse di fissare un'idea. Ma quando uscì, un'ora più tardi, e Rita si chinò sul foglio, vi trovò soltanto questa frase di Nietzsche, che il professore aveva scritto due volte:

«Meglio cadere fra gli artigli di una tigre che risvegliare i sogni di una donna ardente».

In un primo momento non capì. Poi si ricordò della risata acuta della contessa, del suo sguardo ansioso quando cercava qualcosa da fare o da dire, e fu presa da un'angoscia sorda, mentre la sua ammirazione per il professore cresceva ancora.

Nei mesi successivi non sarebbe tornato all'albergo una sola volta. E non una volta rivolse la parola alla contessa.

Per contro Herrmann, sentendosi incoraggiato, scendeva più frequentemente alla capanna con le ultime notizie. Nessuna era di scottante interesse:

«Ieri c'è stata un'altra discussione fra Nic e Kraus. Nic ha tirato una bottiglia in testa a quell'altro, che per fortuna l'ha schivata...».

Oppure:

«Sembra che la contessa e il giovane Kraus avessero una gioielleria a Parigi e che Nic fosse solo il cassiere. Qui, Kraus è diventato in qualche modo il cameriere... Credo che sia geloso di Nic, perché è molto innamorato della contessa».

Müller sembrava ascoltarlo appena. Spesso portava avanti qualche lavoretto già iniziato, la riparazione di uno sgabello, la confezione di una stuoia di bambù. Rita preparava una bevanda rinfrescante e, quando se ne ricordava, si annodava un pezzo di stoffa attorno ai fianchi.

«Kraus sta prendendo l'abitudine di confidarsi con mia moglie, e sostiene che assomiglia a sua madre...».

Così, un pezzetto alla volta, si ricostruiva un'immagine abbastanza fedele dell'esistenza di lassù.

«Non capisco come possano vivere così. Ci sono giorni in cui la contessa non si alza nemmeno dal divano, non si lava, mangia appena, e si accontenta di bere e dormire... Ha portato dei libri, ma non legge mai...».

Quando c'erano novità più sensazionali, Herrmann arrivava tutto eccitato.

«Sapete cos'ha raccontato ieri Kraus a mia moglie? Che anche se volessero tornare in Francia non potrebbero, nessuno dei tre. La gioielleria è fallita e Nic, per tirare avanti, ha falsificato dei documenti d'accordo con la contessa e ha emesso assegni a vuoto...».

Herrmann era abbagliato dalla disonestà quasi quanto lo era dalla nobiltà.

«Eppure devono averle pagate, tutte le loro provviste» aggiunse candidamente. «E quante ne hanno! Da quando mia moglie ha trovato il pretesto del suo stato per non aiutarli più, non si preoccupano nemmeno di cucinare e aprono scatolette. In alcune ci sono polli interi, tordi, pernici...».

Da più di otto giorni il cielo non si era coperto e Herrmann sfoggiava, per venire, un cappello di paglia a tesa larga che lo faceva sembrare più piccolo.

«Mia moglie ha scoperto anche qualcos'altro... Quando Kraus va a cercare legna in montagna, la contessa fa in modo di raggiungerlo di nascosto da Nic. Una volta, senza volerlo, Maria li ha visti sdraiati fra i cespugli».

«Credevo che non si nascondessero, fra di loro» disse Rita.

«Lo credevo anch'io».

Si scadeva nel pettegolezzo. Era come un ronzio quotidiano, e a volte il professore sembrava disprezzarsi per il fatto di stare lì ad ascoltare. E Rita si sforzava di nascondere l'interesse che suscitavano in lei quelle storie.

Ma era inutile mentire: sapere era diventato per loro una necessità, e se per caso Herrmann non veniva per qualche giorno sentivano che mancava loro qualcosa.

«Ieri Kraus si è ferito a una mano tagliando la legna e avrebbe voluto venire da lei, ma la contessa glielo ha impedito. Lo ha curato lei, assicurando di aver fatto l'infermiera durante la guerra in un ospedale tenuto da certe gran dame tedesche...».

I giorni si succedevano ai giorni e Müller dimenticava di lavorare al suo libro. Viceversa dedicava più ore al piccoli lavori manuali.

«Cominciano a stupirsi di non veder arrivare uno yacht che si era preannunciato. Mia moglie ha chiesto cosa faranno quando le provviste saranno esaurite, perché ha calcolato che non ne hanno abbastanza per sei mesi. La contessa ha risposto che ogni yacht in arrivo sarà penalizzato di qualche cassa dì scatolame e di alcolici. È già tanto se mio figlio torna ancora a casa a dormire: passa il suo tempo a casa della contessa, e lei poi dice che beve i fondi di bicchiere...».

Che altro poteva succedere?

«Adesso che la vasca è installata, Maria comincia a temere per l'acqua. Lo ha detto gentilmente alla contessa, e lei ha risposto che preferisce crepare piuttosto che non lavarsi la...».

Herrmann arrossì e si sforzò di sorridere per scusarsi della parola che era stato sul punto di pronunciare.

«Parla così! Lo fa apposta a usare termini crudi. L'altro giorno mia moglie passava per andare alle caverne. Ha sentito la contessa che la chiamava ed è salita sulla veranda. E sa cos'ha visto? La contessa e Nic sdraiati sul divano che... Ma sì! E la contessa è scoppiata a ridere, e intanto continuava... È fatta così! Lei pensa che sia pazza, professor Müller?».

Un ronzio, sì, che si faceva monotono, ma nessuno aveva l'energia per riscuotersi. Fra loro, Rita e Müller evitavano di parlare dei vicini; era Herrmann a sopportare tutta la vergogna.

«Ieri, dopo un litigio con Nic, Kraus ha detto che sarebbe curioso di sapere se la contessa è veramente contessa... Ci sono dei momenti in cui è furioso, perché lavora soltanto lui. Per di più lo umiliano in continuazione, e dopo il litigio, per esempio, la contessa lo ha obbligato a fare le sue scuse a Arenson... Kraus piangeva di rabbia. La casa non è neanche finita, non ci lavorano più e così rimarrà sempre in quello stato...».

Una sera, sul foglio su cui Müller aveva trascritto il pensiero di Nietzsche, Rita trovò due parole nuove, scritte di traverso: «Sei mesi».

Cosa voleva dire? Non osò chiederglielo, ma credette di capire, e da allora accadde una cosa strana, di cui ciascuno si rendeva più o meno conto: tutti, loro malgrado, partecipavano al dramma o alla commedia che si svolgeva lassù. Tutta l'isola era solidale come lo sono gli abitanti di un villaggio, i passeggeri di una nave.

Questo si avvertì nettamente quando, al mattino, fu avvistato un piccolo yacht, uno yacht di nemmeno quindici metri, che gettava l'ancora nella baia. A bordo c'erano solo due marinai sudamericani e una giovane coppia.

Naturalmente non avevano fatto in tempo ad avvistarlo che già la contessa si precipitava giù per la discesa, seguita dai suoi due luogotenenti. Rideva, felice, vittoriosa.

Da lontano si intuì uno scambio di abbracci. Poi ci fu il ritorno con la coppia, mentre i due marinai, per paura di un colpo di vento, andavano a gettare l'ancora più al largo e restavano a bordo.

Non si può dire che Rita spiasse il passaggio dei nuovi venuti, ma li vide lo stesso da vicino.

L'uomo, alto e biondo, doveva essere svedese o danese, mentre la donna era un tipo sudamericano.

Era graziosa, sorridente. La contessa le cingeva le spalle col braccio, come per prenderla sotto la sua protezione.

«È un farmacista scandinavo che si è stabilito in Cile» venne a riferire Herrmann un'ora più tardi. «È sposato da due settimane e ha affittato un piccolo yacht per il viaggio di nozze. Sono già alla quinta bottiglia di champagne, lassù, e la piccola è un po'"brilla...».

Rita guardò Müller. Si capirono al volo: erano entrambi furiosi, benché la cosa non li riguardasse. Anche Herrmann era preoccupato.

«Mia moglie è sicura che andrà a finire male,» sospirò «e vorrebbe tentare di avvisare la piccola...».

Ecco a che punto erano arrivati, tutti! All'Hôtel del Ritorno alla Natura, dove le lampade a gas spandevano una luce intensa, Nic suonava la chitarra mentre gli altri bevevano e la contessa, seduta ai piedi del giovane svedese, rideva sempre più nervosamente.

«Non appena hanno gente» diceva lamentosamente Herrmann «non vogliono più vederci.

Sembra che gli diamo fastidio».

«Diamine!» diceva lo sguardo sardonico di Müller.

E il professore gettò un'occhiata al foglio di carta che, coperto di polvere, stava sempre sotto il calamaio.

5

 

Nel corso della sua prima visita, di buon'ora, Herrmann, nella sua eccitazione, non poté che fare un quadro degli avvenimenti piuttosto sconclusionato.

«Credo che lassù non abbia dormito nessuno» esordì sedendosi e posandosi le mani aperte sulle ginocchia per costringerle all'immobilità. «E voi? Avete avuto danni?».

La sera era stata afosa e, all'improvviso, verso le tre del mattino, era scoppiato un violento temporale: quattro, cinque volte i fulmini erano caduti sull'isola, assieme a una tromba d'acqua che aveva messo a nudo le rocce del sentiero...

«Venendo ho visto un toro fulminato. Vicino alla curva è caduta di traverso una palma».

C'era ancora umidità nell'aria e il cielo rimaneva grigio, di una luminosità triste, come una lampada velata.

«Hanno cenato sulla veranda e avevano chiesto a mia moglie di dare una mano. Deve sapere che la giovane sposa era ubriaca già prima di cena. Non è abituata a bere. Farfugliava come una bambina, facendo ridere tutti a crepapelle. Dopo cena Nic e Kraus hanno sparato un fuoco d'artificio, e in quel momento mia moglie, che stava per andarsene, ha visto che lo svedese aveva la testa sulla spalla della contessa, e che lei gli accarezzava i capelli. È così che è cominciato tutto...».

Anche Müller era stanco, forse a causa del temporale. L'orto ne aveva molto risentito, e Müller lo guardava fiaccamente; non aveva voglia di rimettersi al lavoro.

«Non so più che ora fosse. Facevo una passeggiata, non per sorvegliarli, ma perché non riuscivo a dormire. Ho sentito delle grida di donna. Ho visto passare un abito bianco, una silhouette che correva verso il sentiero. Era la giovane sposa che urlava di voler tornare immediatamente a bordo. Il marito la rincorreva, credo che sia caduta, ma non ne sono sicuro, e dopo una discussione al buio l'uomo è tornato indietro portandola in braccio».

Rita, quella mattina, si era messa i pantaloni corti, ma aveva dimenticato di abbottonarli, e Müller glielo fece capire sorridendo.

«Che importanza ha?» disse lei.

E Herrmann, che seguiva i propri pensieri:

«Tutta la notte è stato un viavai continuo. Stamani, all'alba, quando la pioggia non era ancora cessata, i due svedesi se ne stavano andando, soli soli, quando la contessa li ha inseguiti e li ha riportati indietro. Adesso sono a caccia, tranne Kraus che è rimasto a preparare il pranzo. Se riesco a vederlo mi racconterà qualcosa di più».

E in effetti, alla seconda visita di Herrmann, nelle prime ore del pomeriggio, il quadro degli avvenimenti era già più preciso e dettagliato. Se poi mancava di logica, questo si doveva agli avvenimenti stessi, al fatto che varie persone ubriache si erano agitate nell'oscurità, mosse da sentimenti bui come la notte.

Dopo cena il flirt fra la contessa e lo svedese era già a buon punto, e più volte, col favore di un momento di solitudine, le loro labbra si erano unite avidamente. Kraus asseriva persino che a un certo punto la coppia, uscita per fare quattro passi, si era letteralmente rotolata per terra.

Quando era tornato in casa lo svedese aveva trovato sua moglie addormentata su una poltrona, la testa sulle ginocchia di Nic; questi le aveva denudato un seno e glielo accarezzava.

Dov'erano, in quel momento, i vari personaggi? Impossibile stabilirlo. Lo svedese aveva svegliato brutalmente la moglie, avevano avuto una discussione nella loro lingua, poi erano andati, senza salutare gli altri, nella stanza che era stata preparata per loro.

Qualche minuto più tardi la porta si era aperta di schianto e la giovane donna aveva cercato di fuggire verso la barca. Forse il marito le aveva raccontato quello che era successo fra lui e la contessa, o lo aveva indovinato da sola. Oppure, ripresasi dalla sbornia, si era vergognata delle carezze di Nic.

In ogni caso al mattino volevano partire entrambi, pieni di rancore. La contessa si era messa in mezzo. Kraus asseriva che era stata magnifica: aveva attribuito gli avvenimenti della notte all'alcol e al nervosismo recitando la parte della gran dama che non si rassegna a veder partire gli invitati in circostanze simili.

«Voglio organizzare una partita di caccia in vostro onore, e soltanto dopo vi accompagneremo tutti al vostro yacht».

E Kraus aveva confidato a Herrmann:

«È quando fa così che mi spaventa di più, perché allora è capace di tutto. Dopo le orge più sfrenate, quando gli altri sono sfiniti o si sentono male, lei resta fredda e più decisa che mai. Ho colto lo sguardo che lanciava allo svedese...».

Asciugandosi il sudore Herrmann domandò:

«Lei che ne pensa?».

Erano esattamente le due. Per la prima volta da settimane il sole non si era visto affatto, e vapori caldi salivano dal suolo. A lunghi intervalli si era sentito qualche colpo d'arma da fuoco e gli ultimi erano esplosi a non più di duecento metri dalla capanna di Müller.

Qualcosa era nell'aria, forse qualcosa di illogico come tutto quello che era successo prima, come la morte dell'asino, come tutto quello che emanava dalla contessa.

Ma nessuno si aspettava quello sparo così vicino a casa, e quel grido che proruppe subito dopo, acuto, inumano. Rita si era rizzata di scatto, pallidissima. Herrmann si aggrappava con lo sguardo al professore, che si sforzava di non muoversi.

Stavano con l'orecchio teso, e i pochi secondi che trascorsero sembrarono eterni. Poi ci furono scalpiccii, voci confuse e un andirivieni nel fitto del bosco.

Un altro rumore li tenne a lungo col fiato sospeso, una specie di ululato, una serie di singhiozzi spezzati, di gemiti e parole scoordinate.

«La contessa...» mormorò Rita.

Come stregata, avanzò macchinalmente verso l'entrata e fece qualche passo fuori.

«Di là...» disse indicando qualcosa di bianco che si agitava fra la verzura.

Ed era inaudito, sinistro, sentire quei singhiozzi levarsi dai cespugli nella calma assoluta dell'aria.

«Avete bisogno di aiuto?» gridò Herrmann, la cui voce non aveva il suo timbro abituale.

«Sì... Di qui...» ansimò Nic Arenson.

Ma già la contessa si stava rialzando, scarmigliata, e in un empito di dolore spinto al parossismo si stracciò il vestito.

«Presto... Dottore, credo di averlo ucciso! Venga presto, per l'amor di Dio...».

Faceva spavento, tanto si torceva e ansimava e contraeva il volto.

«Se muore, voglio morire anch'io... Venga, presto! Perde sangue...».

Herrmann era già corso avanti. Müller e Rita lo seguivano, senza curarsi della contessa che doveva essere alle loro calcagna, perché si sentiva un respiro affannoso.

Incontrarono così l'altro gruppetto che avanzava, vale a dire Nic che, con l'aiuto della giovane sposa, più che portare trascinava il corpo dello svedese.

Herrmann cercò goffamente di rendersi utile. La testa del ferito ricadeva da un lato, ma gli occhi erano aperti e il suo sguardo fissava lungamente tutti i presenti. Sua moglie non piangeva, anzi dava prova di un'energia inaspettata in un essere così fragile e gentile.

«Dove abita, dottore?» chiese.

«Alla svolta del sentiero…».

«Visto che ci siamo, è meglio arrivare fin là».

Nessuno prestava attenzione alla contessa che continuava a piangere. Era solo un rumore che accompagnava il piccolo corteo e che continuò, indistinto, quando il corpo dello svedese fu finalmente steso sul tavolo di Müller.

«Guardi, dottore... È al ventre...».

Calmo e silenzioso, il professore tagliò gli abiti del ferito e, senza preoccuparsi delle donne presenti, gli denudò il ventre. Quando si rialzò, dopo qualche minuto, era più che preoccupato.

«Rita! Vada a cercare il mio astuccio e prepari il fornellino a spirito...».

La giovane sposa non gli staccava gli occhi di dosso; quando vide gli strumenti luccicanti contenuti nell'astuccio aprì la bocca per un grido che non riuscì ad articolare e svenne.

«Dottore...».

Era la contessa che parlava, come in sogno; e tutto, nel suo atteggiamento, faceva pensare a un incubo.

«La faccia tacere» ordinò Müller a Nic.

«Voglio sapere, dottore... Morirà?».

In certi momenti la scena aveva un andamento da melodramma di terza categoria. Rita comunque accese il fornellino destinato a sterilizzare gli strumenti, e Müller si lavò lungamente le mani.

«Volevo sparare a un asino, e la palla è rimbalzata... Giuro che non l'ho fatto apposta...».

«Buttatela fuori» disse Müller tra i denti.

Nic non osava. Herrmann picchiettava leggermente le mani della giovane donna svenuta. Lo svedese non diceva niente ma, con lo sguardo al soffitto, sembrava non perdere nulla di quello che succedeva accanto a lui, e quando il professore si chinò sul suo ventre chiuse gli occhi e accennò una smorfia di dolore.

«Silenzio!».

Quanto tempo durò? Tacevano tutti, trattenendo il respiro, gli occhi fissi sulla schiena curva di Müller. La giovane si era ripresa ma, impressionata dall'immobilità generale, si era resa conto di quanto stava succedendo e, con la bocca semiaperta, il corpo irrigidito, conficcava le unghie nel braccio di Herrmann.

Si sentiva solo un gemito regolare, quello del ferito che, all'improvviso, lanciò un urlo mentre il busto si sollevava di scatto.

«Fatto» annunciò Müller raddrizzandosi.

Teneva il proiettile fra il pollice e l'indice e non sapeva dove metterlo. Aveva le mani rosse, il pigiama macchiato di sangue.

«Vivrà, non è vero, dottore?».

Il professore si voltò freddamente verso la contessa che aveva parlato e replicò:

«Non per colpa sua!».

«Giuro che non l'ho fatto apposta... Dovete credermi! Lei mi crede, vero, Betty?».

La giovane donna cui si era così rivolta non l'ascoltava e parlava con trasporto, nella sua lingua, all'orecchio del marito che aveva nuovamente chiuso le palpebre.

«Sarebbe meglio che usciste tutti» fece Müller stancamente.

Poteva sembrare che fosse tutto finito, che il dramma avesse raggiunto il suo culmine, ma mentre Nic cercava di trascinare via la contessa, questa, ormai sulla soglia, ebbe un ripensamento improvviso e andò a gettarsi in ginocchio davanti al tavolo su cui giaceva il ferito.

«Perdono!» urlò allora tendendo le braccia al cielo. «Perdono! È vero, sono una sciagurata...

È vero che gli ho sparato apposta, voglio che lo sappiano tutti! Se fosse morto, sarei morta anch'io...».

La sposa indietreggiò, spaventata, mentre le mani della contessa si tendevano verso di lei, tentavano di aggrapparsi al suo abito.

«Anche tu devi perdonarmi, Betty! Io lo amo, capisci? Lo amo più di te, perché tu sei troppo giovane e ancora non sai cos'è l'amore... Quando, stamattina, ha deciso di partire, quando ho capito che sarei rimasta sola e che tu lo avresti avuto per sempre, sono impazzita...».

Rita vide che Nic scrollava le spalle, come fosse abituato da tempo a quel genere di ritornelli.

«Ma non volevo ucciderlo! Ho tentato di ferirlo alle gambe, per curarlo io stessa, a casa mia, a lungo, e allora sono sicura che mi avrebbe amata... Perdono! Farò tutto quello che vorrete per espiare... Ordinatemi qualunque cosa... Tagliatemi una mano! Ero fuori di me... Da domani, da oggi stesso, voglio cambiare vita».

«Questa la butti fuori» ripeté Müller, glaciale, rivolgendosi a Nic e spingendo la contessa col piede.

Lei si rialzò da sola, ansante, ma trovò una frazione di secondo di calma per lanciare al professore uno sguardo carico d'odio. In quella frazione di secondo la sua isteria era scomparsa, ma la ritrovò per fare un'uscita teatrale.

«Se domani verrete a sapere della mia morte...».

La giovane sposa, terrorizzata, fece per correrle dietro, ma il professore, la cui mano aveva una forza inattesa, la fermò impedendole di andar oltre.

«Lasci perdere!».

«Ma...».

«Fra un'ora sentirà della musica, lassù».

Nic se n'era andato a sua volta, senza farsi notare, e si vedeva la coppia camminare lungo il sentiero con andatura irregolare. La contessa gesticolava. Nic, col profilo equino chino in avanti, avanzava a grandi passi lenti.

«Cosa farà ora?» chiese Müller toccando la spalla della giovane.

«Non lo so. Cosa mi consiglia?».

«Bisogna che me ne vada anch'io» sospirò Herrmann, che temeva di essere importuno.

«Non ancora. Scendi fino alla spiaggia e porta qui i marinai».

La giovane donna guardò stupita il professore.

«Lei crede... ?» cominciò a dire.

Non aveva nemmeno vent'anni e tutto il suo essere era segnato dalla fragilità tipica delle sudamericane, che sembrano sempre sul punto di sfiorire.

Müller, nuovamente burbero, spiegava:

«Se deve morire, morirà qui come in viaggio. La sua sola possibilità è di arrivare vivo a Guayaquil, dove potranno curarlo seriamente. C'è un motore sullo yacht?».

«Sì, credo che faccia sei nodi...».

«Potreste arrivare fra quattro giorni, cinque al massimo».

Nel frattempo Rita aveva lavato il ferito e gli aveva fatto una fasciatura con la stessa calma e lo stesso tocco di un tempo, quando assisteva il professore in clinica.

«Ve la caverete, e dimenticherete tutto questo» disse ancora Müller con voce sorda, più per se stesso che per lei.

«Quella donna è pazza, vero?».

Lui non rispose e sparve dietro una tenda per togliersi il pigiama macchiato di sangue e indossarne un altro. Intanto, la giovane donna seguiva con ammirazione i gesti di Rita.

«Cosa devo fare per curarlo durante il viaggio?»

«Deve cambiargli la fasciatura ogni giorno».

«Crede che ne sarò capace?».

Il ferito, intanto, dormiva di un sonno spossato, intervallato da flebili gemiti.

Per due ore, in attesa dei marinai che Herrmann era andato a cercare, Müller restò seduto sulla sua sedia, rivolto verso l'orto, senza dire una parola. Il sole, che durante il giorno non era apparso, si mostrava finalmente per infiammare la fine della giornata, ed era uno spettacolo opprimente.

Il cielo, al crepuscolo, era un caotico, immenso mondo a sé stante in cui montagne viola emergevano da oceani di porpora, mentre improvvisi raggi di luce pura trafiggevano le nubi.

Müller sapeva che nella laguna, a quell'ora, l'acqua aveva la trasparenza del cristallo; vi si allungavano pigramente i pesci martello, vi si gonfiavano strani pesci rosa, mentre il fondo del mare era popolato di conchiglie colorate come il cielo, altrettanto fantastiche, altrettanto inumane.

Dietro il professore le due donne parlavano sottovoce, ed era un mormorio riposante.

Chiudendo gli occhi, ascoltando quel brusio femminile, pareva di essere in un luogo in cui, allo svoltare del sentiero, non si sarebbe incontrata nessuna tartaruga gigante che si trascina nel guscio vecchio di tanti secoli.

Che cosa bisognava guardare per gustare, fosse pure per un istante, quel senso di pace che ci pervade alla vista di un semplice tappeto erboso, di un lembo di cielo settentrionale?

A pochi metri da lui, Müller vedeva i paletti che aveva piantato per proteggere i suoi ortaggi dagli animali. Erano semplici rami che aveva conficcato al suolo. Ebbene, erano passati quindici giorni, i paletti avevano messo le foglie, poi i fiori, e ormai erano già alberi.

Non era per questo, per crearsi nonostante tutto una sorta di oasi, che si era ostinato per mesi, per anni, a far crescere un metro scarso di vigna?

Erano viti alquanto stentate. L'uva restava acida a dispetto del sole, eppure Müller non avrebbe cambiato la sua vigna nemmeno con una piantagione di palme da cocco.

Presto si sentirono voci sul sentiero e, guidati da Herrmann che tremava di fatica, comparvero i due marinai che, confusi, non sapevano che cosa dire.

«Sta meglio?» chiese uno dei due.

«Sì. Bisogna preparare una barella per riportarlo a bordo... Avete abbastanza carburante per raggiungere Guayaquil?».

«A bordo ce n'è un grosso fusto...»

Fu ancora Müller a mostrare ai marinai come si costruisce una lettiga e, a dire il vero, la fece quasi interamente con le sue mani. Era più agile, più scattante, più abile di loro. Rita aveva acceso una lampada a petrolio di cui si servivano raramente e lo svedese, che si era svegliato, stava immobile con lo sguardo fisso sul volto della moglie, mentre lei gli accarezzava il polso. Cosa avrebbero potuto dirsi?

C'era ancora del sangue in cielo, e vette verdi e blu, ma nella capanna la lampada non mandava che una debole luce gialla. I grilli cominciavano a cantare su tutta la superficie dell'isola, seguendo il ritmo stabilito da quello che avevano scelto come direttore d'orchestra, e che si nascondeva chissà dove.

«Deve mangiare qualcosa» intervenne Rita, che fece cuocere delle uova sul fornelletto a spirito.

E la giovane sposa sorrideva timidamente portandosi il cibo alla bocca. Aveva provato un tale spavento che quel semplice gesto era già come un ritorno alla vita, e guardava suo marito come per scusarsene.

«Non ho fame, ma devo essere forte per curarti».

Chissà se lui pensava ancora al momento in cui, la notte precedente, si era rotolato per terra con la contessa?

«Direte al dottore di Guayaquil...» cominciò Müller quando la barella fu terminata.

Ma cambiò idea.

«Anzi, non ditegli nulla. Vedrà da sé quello che deve fare. Siete pronti?».

Prese il ferito dalla parte più pesante, come faceva spesso nella sua clinica di Berlino, ricordando agli altri che era stato campione di calcio.

«Piano... E adesso andate più in fretta che potete. Fate andare il motore al massimo, è fondamentale che non perdiate tempo...».

La giovane donna abbracciò Rita. Al momento di partire le si riempirono gli occhi di lacrime, ma era un pianto senza singulti.

«E voi? Pensate di restare qui a lungo?».

Müller tese l'orecchio per cogliere la risposta di Rita, che fu soltanto un soffio:

«Per sempre...».

I forestieri si allontanarono. I loro passi si affievolivano sulla roccia messa a nudo dalle piogge, e all'improvviso i due si accorsero che Herrmann era sempre lì, accovacciato in un angolo buio.

«Anche noi» disse come un'eco.

Non capirono che cosa volesse dire, e lo guardarono stupiti.

«Resteremo sempre qui... È il solo modo di salvare Jef; in Germania sarebbe già morto...».

Perché tirava fuori quelle vecchie storie? Forse vedere altri che se ne andavano gli faceva venire nostalgia, oppure pensava alla sua casa di Bonn, al tram elettrico che prendeva ogni mattina fumando la sua pipa di porcellana e leggendo il giornale? Oppure quel cielo barbaro, sprofondando all'improvviso nella notte, gli aveva ricordato i delicati tramonti sul Reno e le partite a birilli che faceva tutte le domeniche all'osteria, mentre sua moglie beveva cioccolata sotto la pergola?

«È ora di andare a letto» disse Müller spazzando via quei fantasmi.

«È ora, sì. Me ne vado...».

Avrebbe voluto restare. La notte, per la prima volta, gli faceva paura.

«Crede che guarirà?».

«È abbastanza vigoroso per farcela».

«Sua moglie è graziosa. Raramente ho visto una donna tanto graziosa. Fa pensare a un fiore...».

«Esattamente! A un fiore» brontolò Müller che ne aveva abbastanza. «Buonasera».

«Buonasera, professor Müller... Buonasera, Rita...».

Era comico e triste vederlo partire così, controvoglia, col cuore gonfio. Che cosa mai aveva voglia di raccontare, quali ricordi avrebbe tirato fuori dall'oblio se l'avessero lasciato seduto al suo posto, nell'ombra della capanna, lontano dalla lampada a petrolio e dalla sua fiamma guizzante?

«A domani...» gridò ancora, già lontano, per non spezzare definitivamente il filo.

Müller sospirò e, invece di coricarsi, si sedette sulla sua sedia.

«Bisognerà rimettere in ordine gli strumenti» disse indicando l'astuccio rimasto aperto.

Dopo un momento di silenzio riprese:

«Durante l'operazione, per un momento ho creduto...».

Si fermò di colpo, per la stessa ragione, forse, per cui aveva mandato via Herrmann.

Perché parlare di certe cose? Rita l'aveva pur detto:

«Per sempre...».

E la guardava mentre si dava da fare nella capanna.

6

 

Non era nemmeno il caso di dimostrare a Müller che quell'episodio non aveva alcun rapporto, per quanto lontano, con la gente di lassù. Non ci avrebbe creduto. Anche l'asino se n'era andato stupidamente, senza esservi costretto, all'Hôtel del Ritorno alla Natura, e ne era morto!

Quanto a Rita...

Era successo più di tre settimane dopo la partenza della giovane coppia svedese, e nel corso di quelle tre settimane non ci furono avvenimenti di rilievo. Müller non vide la contessa né i suoi compagni, ma ebbe ugualmente loro notizie da Herrmann, per il quale la visita quotidiana alla capanna era diventata una necessità.

Certi giorni, del resto, se vedeva il professore preoccupato, o semplicemente assorto nei suoi pensieri, si sedeva senza aprir bocca e rimaneva così, in attesa che qualcuno gli rivolgesse la parola.

Si considerava un po'"come a casa sua, e questo lo rendeva felice; nella sua vera casa, in compenso, è probabile che si trovasse sempre meno bene.

«Ci sono cose di cui non posso discutere con mia moglie» aveva confidato un giorno. «È un'ottima persona, ma lei capisce...».

Un'occhiata aveva completato il suo pensiero, a significare che Maria, intellettualmente, non poteva competere cori loro.

Stranamente, la contessa l'aveva abbindolata. La signora Herrmann era una brava donna di casa, una buona madre e condivideva certamente tutti i pregiudizi della sua classe. Eppure era proprio lei la più indulgente con la tempestosa avventuriera, che addirittura ammirava.

Proprio come Herrmann andava dai Müller, così la contessa passava ogni giorno un bel po'' di tempo con Maria a farle le sue confidenze.

«Davanti a noi non oserebbe certo raccontare tutte quelle storie» spiegava Herrmann, che voleva elevarsi, almeno sul piano dell'intelligenza, al livello del professore. «Lo sa cosa si è inventata l'ultima volta? Giura che un anno fa, a Parigi, ha visto Dio in sogno, e che è stato Dio a ordinarle di venire alle Galápagos, promettendole di far sgorgare acqua in abbondanza per lei e i suoi amici, le sue bestie e il suo orto...».

Quel sogno la contessa poteva anche averlo fatto, ma non prima della notte precedente, ed era un sogno che rivelava le sue inquietudini. La stagione secca era ormai cominciata e, in pochi giorni, il ruscello che al suo arrivo l'aveva forse illusa si era ridotto a quello che sarebbe rimasto ancora per mesi: uno striminzito filo d'acqua.

«Quanto alla storia degli svedesi, ha giurato a mia moglie che non era padrona di sé e che già da ragazzina, nel castello dei suoi genitori, avevano dovuto curarla per quella stessa malattia. Ne dà la colpa a un domestico che, quando lei aveva dodici o tredici anni, la chiamava in camera sua e prendeva una cameriera sotto i suoi occhi...».

In mancanza di un calendario, la fuga del tempo si sarebbe potuta valutare in base al numero sempre crescente di questi resoconti, che finivano per fare della contessa una figura leggendaria.

Müller, che all'inizio si era interessato ai racconti di Herrmann, dava adesso segni di impazienza, forse perché quella donna assumeva un'importanza fastidiosa e, seppure invisibile, con la sua personalità riusciva a dominare tutta l'isola.

Rita sapeva che il professore era nervoso, e fu proprio in quei momenti che, senza volerlo, lo fece soffrire. Era una cosa talmente nuova che in un primo momento non ci credette: Müller poteva essere cupo, inquieto, agitato, ma poteva veramente soffrire?

Soltanto la sera prima Rita, che lo conosceva bene, avrebbe risposto di no.

 

Era mattina presto. Il professore, come faceva spesso, era andato verso i boschi, dove la calura era meno soffocante, e Rita, non avendo niente da fare, si era accovacciata a terra per riparare una stuoia.

All'improvviso sentì dei passi e, protendendosi, scorse l'alta sagoma di Larsen che passava in fretta, come se cercasse di non farsi vedere.

«Jean!» gridò Rita, alzandosi e correndo verso la soglia della capanna.

Larsen si voltò, esitò, abbozzò un sorrisetto e, alzando le spalle, si diresse verso di lei.

«Che ci va a fare, lassù?».

Lui la sovrastava di tutta la testa e portava, attaccato a un bastone, un magnifico pesce spada che aveva pescato quella notte. Mostrandoglielo le fece capire che lo avrebbe portato su all'albergo.

Naturalmente Rita non ci cascò, e lui lo sapeva. In genere restava mesi interi senza metter piede a Floreana e Rita notò che, per l'occasione, si era rasato di fresco e si era tagliato i capelli sulla nuca.

Erano entrambi in piedi sulla soglia della capanna ed entrambi sorridevano vagamente, della situazione come del piacere di trovarsi faccia a faccia.

«Fa male, Jean! Pensi a sua moglie... Mi ha detto che aspetta un bambino...».

Larsen si lasciò scivolare il bastone e il pesce lungo la spalla e, le mani libere, restò un attimo a dondolarsi.

«Sa benissimo che da quella donna non può venire che qualcosa di brutto...».

Si rendeva conto dell'intensità dei propri sguardi? Aveva sempre trattato Larsen come un amico. Quando lo vedeva saltar giù dalla barca sulla spiaggia, alto, forte, sano e sempre allegro, si sentiva slargare il cuore, e adesso guardava, vicinissima, il torace nudo, le spalle ampie, gli occhi chiari che esitavano.

«Forse faccio male» sospirò lui.

«Fa male senz'altro, Jean. Mi dia ascolto. Prenda la barca e torni a casa...».

Lui fece una risatina piena di franchezza. Era come un bambino che non ha il coraggio di negarsi una gioia assicurata.

«Che strana donna è lei!».

E il suo sguardo scese fino al seno nudo di Rita. Il sorriso divenne meno franco. Sospirò e posò le grosse mani sulle spalle della giovane.

«Una strana donna...» ripeté.

Rita sentiva il calore delle sue mani, e si chiedeva se quelle dita non stessero per stringerle le carni. Eppure era inconsapevole del pericolo che correva, inconsapevole perfino della propria imprudenza.

«Allora, tornerà indietro? Me lo promette?».

«Glielo prometto...».

Ma non si muoveva. Ora la guardava negli occhi e, se esitava ancora, non era più per andare dalla contessa. Non l'aveva mai presa in considerazione, Rita - oppure sì? Quanto a lei, non aveva mai pensato a un possibile peccato.

Adesso, ecco che un raggio di sole li avvolgeva entrambi, e restarono lì, immobili, come prigionieri, senza osare dibattersi.

Un ramo si spezzò. Risuonarono dei passi e Müller si affacciò nella radura che costeggiava la capanna; si fermò un istante, poi passò accanto alla coppia e andò a sedersi sulla sua sedia.

«Rita ha appena compiuto una buona azione, professore» esclamò Larsen a voce un po'' troppo alta. «Senza di lei, sarei tornato lassù e avrei ricominciato...».

«Ah!».

Müller guardò Rita, poi il norvegese, e fu in quel momento che, per la prima volta, la giovane donna credette di leggere nei suoi occhi un autentica tristezza.

«Ci pensavo da settimane. Stamattina mi ero deciso, e senza sua moglie...».

Perché quella parola suonò così inopportuna? Anche Larsen capì confusamente che cadeva a sproposito.

«Bene! Me ne vado. Arrivederci, professore! Le lascio il mio pesce...».

«Dimentica che non mangio la carne di nessun animale».

«È vero».

Rise di nuovo. Restò un attimo a gingillarsi, imbarazzato, e si congedò goffamente.

Rimasta sola con Müller, Rita si sentì sulle spine, come se fosse stata colpevole. Eppure non era successo niente. Anche se il professore non fosse tornato, non ci sarebbe stato nulla se non quel momento di emozione, quel contatto delle mani di Larsen con le spalle di Rita.

«È un bravo ragazzo» disse lei.

«Sì».

Non lo aveva ancora visto così, assorto e triste. La guardava come se l'osservasse per la prima volta e, mentre lei fingeva di darsi da fare, non perdeva uno solo dei suoi movimenti.

«Sua moglie partorirà ad aprile» aggiunse Rita.

Questa volta la parola fece arrossire lei. Era mai possibile che un fatterello da nulla potesse avere conseguenze simili? Di colpo, rimetteva in discussione tutta la sua vita col professore.

E Müller, non aveva per la testa le stesse cose? Erano a tre metri l'uno dall'altra; pensavano, ciascuno per sé, e i loro pensieri non avevano alcun rapporto con le parole che avevano pronunciato.

Anche Rita era triste, triste sino alle lacrime, tanto più triste e più stanca dopo che, un istante prima, aveva bevuto senza volerlo una gran sorsata di felicità.

Se ne pentiva, e avrebbe voluto chiedere perdono al suo compagno. Ma non sarebbe stato come ammettere che aveva qualcosa da rimproverarsi?

E invece no! Assolutamente nulla! Per un attimo era stata donna, ma era colpa sua?

Müller si alzò sospirando e raggiunse l'orto. Quando arrivò Herrmann, un po'"più tardi, il professore non si fece vedere e Rita ascoltò da sola le sue storie.

O piuttosto, non le ascoltò. Era inquieta. Tendeva l'orecchio, evocava ricordi lontani.

«Mio marito non potrà mai rimproverarmi nulla...».

Era Liesbeth a parlare così, un tempo, a Berlino, nel suo salotto verde pallido. Liesbeth che, lei sì, era donna dalla testa ai piedi, e aveva labbra sempre umide di desiderio.

«La filosofia non è male, ma non c'è solo quella nella vita...».

Müller, a quell'epoca, aveva appena quarant'anni, e Rita, che era ebbra di scienza, aveva biasimato sua moglie che badava solo alle soddisfazioni materiali.

Ma non aveva mai pensato che...

Perché quell'idea la colpiva per la prima volta? Quando Müller aveva deciso che fra loro non ci sarebbe mai stato nulla, lei lo aveva ammirato, senza sapere esattamente perché. Attribuiva con la massima naturalezza quella decisione a un sentimento molto nobile. Ma quale?

Più volte, sdraiata nella sua parte di letto, aveva sperato...

Ora, lo sguardo che aveva sorpreso quel mattino le faceva l'effetto di una rivelazione. Era sicura di non sbagliarsi. Aveva fretta che Herrmann se ne andasse per poter pensare liberamente, forse per piangere.

Perché, se così era, lui aveva sofferto. Senza contare che molte cose, di colpo, erano cambiate.

«Senta, caro Herrmann, ho bisogno di star sola...».

Herrmann se ne andò scusandosi.

Sì, e se Müller fosse impotente, lo fosse sempre stato? Aveva la testa in fiamme, ed era in preda a un'impazienza febbrile.

Prima di tutto bisognava fargli dimenticare l'incidente del mattino. Probabilmente Müller pensava che anche lei si lasciasse turbare dall'atmosfera di erotismo creata dalla contessa.

Quell'idea la faceva arrossire: era falsa! Lei non era Liesbeth, e la prova stava nel fatto che per anni non aveva aperto bocca, che non le era mai nemmeno passata per la testa quella spiegazione che ora le si affacciava alla mente.

Müller non doveva credere che lei si sarebbe staccata da lui, o che la minima particella del suo essere fosse attratta da un altro. Soprattutto in quel momento, in cui lo sentiva disorientato dall'intrusione dei forestieri!

Quando lui rientrò, un po'"più tardi, Rita non disse nulla, ma lo servì con più attenzione del solito. Contrariamente a quanto si aspettava, si mostrò allegro e cominciò a scherzare.

«Che dice oggi la gazzetta?».

Era così lontana da quel pensiero che non collegò subito la parola con Herrmann. Lui rise del suo stupore.

«Che ci racconta il nostro preparatore?».

«Ah! Poco o nulla... Credo che siano sempre più preoccupati per l'acqua...».

«Fra tre mesi lo saranno ancora di più» sentenziò Müller.

Rita trasalì. Aveva pronunciato quelle parole con voce mordace, come una minaccia.

«Crede che la stagione sarà molto secca?»

«Credo che succederanno un mucchio di cose... Non mangia, Rita?».

«Non ho fame».

«Mi sta guardando come una bimbetta che ha paura di essere sgridata!».

Nel pronunciare queste ultime parole la voce gli si incrinò un poco, e la vista gli si annebbiò.

Fortunatamente Rita non se ne accorse.

La guardava e, per la prima volta, la vedeva molto giovane, fragile, piena di grazia: l'immaginava vestita di bianco, con un cappello di paglia a tesa larga...

Forse era stato proprio questo a turbarlo, quella mattina. Quando Rita non si era ancora accorta di lui, l'aveva vista trasfigurata, e aveva dovuto fare uno sforzo per ricordarsi della sua età.

Trent'anni? Trentadue! Ma come si fa ad apparire giovane quando si vive per cinque anni nuda su un'isola deserta?

Rita teneva il capo voltato, imbarazzata. Avrebbe voluto dirgli qualcosa che lo rassicurasse.

«Larsen è come un fratello maggiore» mormorò.

Ecco, proprio quello che non doveva dire... Larsen, splendidamente vivo, possente, in piedi davanti a lei, con le mani sulle sue spalle!

I lineamenti di Müller non erano mai stati tanto mobili. Rughe sottili si formavano e si cancellavano per andare a scavare altrove, e ogni volta la sua fisionomia assumeva un'espressione nuova. Le palpebre sbattevano sugli occhietti che sembravano temere il sole.

«Ho pensato a molte cose, stamani».

Rita trasalì. Non si era sbagliata: per entrambi, l'incidente era stato il punto di partenza di una sorta di esame di coscienza.

E questa conversazione si snodava nella semplicità di un pranzo improvvisato che volgeva al termine. Müller aveva mangiato patate e uova fritte, Rita aveva sgranocchiato un pezzetto d'ananas.

I piatti erano sul tavolo, lo stesso che, all'altra estremità, fungeva da banco da falegname.

Il professore si era un po'"allungato sul suo sgabello.

«Che cosa strana, un uomo» esclamò, nuovamente ironico. «Può vivere anni interi senza pensare alla sola cosa che abbia importanza. Credo sia questo che viene comunemente chiamato egoismo. Eppure, giurerei che l'egoismo è una necessità della condizione umana: altrimenti nulla sarebbe possibile, nessuno sforzo, nessuna decisione, nessuna azione, dal momento che ogni azione...».

Si interruppe e alzò le spalle.

«Scommetto che non mi sta ascoltando».

Lo ascoltava, invece, ma la verità le giungeva per vie diverse dalle parole. Soprattutto, aveva paura di ciò che doveva ancora venire.

Avrebbe voluto che non ci fosse una conclusione.

Müller riprese il suo tono scherzoso, ma aveva lo sguardo triste quanto al mattino, e dello stesso tipo di tristezza.

«Quando penso a quello che si dirà della dabbenaggine di questo vecchio scienziato che...».

Stavolta si alzò e cambiò tono, pur mantenendolo leggero. Posò anche lui una mano, ma una sola, sulla spalla della compagna.

«Mi ascolti, Rita. ~ inutile e piuttosto antipatico ricamarci sopra: d'ora in poi non affronteremo più questo argomento. Non so perché non ci ho mai pensato, è giusto che una donna della sua età abbia certe soddisfazioni fisiche. Lei mi capisce. Non ne parliamo più; resta comunque inteso che lei ha ormai piena libertà...».

Si allontanò immediatamente e si voltò verso l'orto inondato dal sole. Non voleva mostrare il volto. Aveva parlato molto in fretta, e adesso si stupiva di non sentire alcuna eco alle sue parole.

Trascorsero alcuni secondi, un lungo minuto. Si voltò e vide che Rita si era accasciata sul tavolo e piangeva senza far rumore, la testa fra le braccia ripiegate.

«Su! Su!» fece con impazienza.

Esitava fra il desiderio di uscire e quello di avvicinarsi a lei.

«Sia seria, Rita... Non siamo più bambini, o ragazzi. Ho parlato di cose del tutto naturali.

Adesso che la mia decisione è presa una volta per tutte...».

Lei crollò il capo in segno di diniego.

«Non le chiedo di fare la sentimentale. Ho detto quello che avevo da dire. Quando Larsen tornerà...».

Questa volta se ne andò con fare deciso e, passando, afferrò un cappello di paglia che aveva intrecciato lui stesso: voleva dire che andava lontano, probabilmente fino alla spiaggia, dove forse si poteva ancora scorgere la barca del pescatore.

Si rendeva conto che Rita non era mai stata sua schiava come in quel momento? Si sarebbe prostrata ai suoi piedi pur di cancellargli dalla mente la scena di quel mattino. Avrebbe... avrebbe...

Ma sapeva soltanto che Müller soffriva, che aveva sempre sofferto.

Doveva esser cominciato tutto a Berlino, con Liesbeth, quando lei, più cinica, lo aveva tradito per la prima volta.

Non era forse per questa sua impotenza che il professore si era legato a Rita? A quell'epoca non si poteva immaginare una donna che fosse meno donna di lei. Usciva allora dall'università e il professore le sembrava un semidio.

Non si era nemmeno stupita che lui non la toccasse.

«Vivremo come fratello e sorella...»

Dietro questi pensieri ce n'era un altro, aguzzo, ossessivo; non voleva guardarlo in faccia, lo annegava ostinatamente nella nebbia del suo cervello. Era troppo grave, e portava con sé troppe conseguenze.

E se... ?

No! Preferiva piuttosto pensare a Larsen, alla contessa, alla gazzetta di Herrmann.

Eppure...

Si alzò con impeto e andò a prendere sul tavolo da lavoro quel foglio di carta che vi stava da mesi e su cui, di tanto in tanto, Müller buttava giù qualche annotazione. L'ultima risaliva alla sera in cui erano partiti gli svedesi.

Sotto la famosa frase di Nietzsche, il professore aveva scritto con noncuranza: «Impotenza sessuale?».

Il punto interrogativo era più grande delle parole. Rita ci aveva già pensato, perché aveva notato la frase tre settimane prima. Aveva riflettuto anche lei sull'isteria della contessa, e l'interrogativo di Müller le aveva aperto nuovi orizzonti; l'avventuriera le sembrava ora quasi degna di pietà.

Perché no, in effetti? Perché non credere che fosse l'impotenza a spingere quella donna a cercare a ogni costo sensazioni violente?

Non si poteva forse spiegare così il suo riso disperato, il suo sguardo ansioso ogni volta che stava per commettere qualche nuova stravaganza?

Ma se le cose stavano in questo modo... Rita aveva le guance rigate di lacrime: non era per quella stessa impotenza che Müller aveva bruscamente lasciato Berlino, la sua clinica, il suo patrimonio, il suo lavoro?

Rita era troppo sconvolta. Si sedette e rimase a lungo con la testa fra le mani, intravedendo a tratti la silhouette di Larsen, sentendo sulle spalle le sue grandi, brucianti mani virili.

Sapeva che in quello stesso momento il professore camminava tutto solo nell'arida sterpaglia, in pieno sole. Forse si sarebbe fermato davanti a una colossale tartaruga, si sarebbe messo a osservarla, ad accarezzarne, assorto, il guscio insensibile. Lo aveva sorpreso spesso, con lo sguardo assente, in simili atteggiamenti.

Gli avevano rubato la pace della sua isola. Gli avevano portato via la sua compagna.

O piuttosto era stato lui a cederla, come per un'estrema rinuncia.

Così vagava tutto solo, coi delicati lineamenti contratti sotto l'ampio cappello di paglia.

Che poteva ancora sperare? Aveva cinquant'anni. Era la prima volta che la sua età colpiva realmente Rita, rivelandole che c'era fra loro lo spazio di una generazione. Avrebbe potuto essere suo padre!

E se all'improvviso gli fosse accaduta una disgrazia...?

Non voleva pensare. Si stringeva in se stessa per scacciare tutti quei fantasmi, ma loro l'investivano con più forza di prima. Si vedeva sola sull'isola e aveva voglia di urlare di terrore.

Perché lui aveva cinquant'anni! Aveva vissuto una vita intera!

Ebbe talmente paura che si annodò un panno attorno ai fianchi e uscì, quasi di corsa, per mettersi alla ricerca del suo compagno. Che fosse un presentimento? In ogni caso, stava pensando a troppe cose orribili. Aveva bisogno di rassicurarsi immediatamente.

Percorse in lungo e in largo il fianco della collina. Di tanto in tanto chiamava:

«Frantz!».

Poi, mentre correva, si fermò di colpo perché lui era là, davanti a lei, e camminava a piccoli passi.

«Che succede?» chiese Müller col suo tono di voce più calmo.

«Niente... Non so... Volevo vederla...».

«Su! Lei è una brava bambina, Rita, una brava bambina a cui ho avuto il torto di parlare troppo. È sempre uno sbaglio seguire la propria intelligenza...».

E aggiunse, senza emozione apparente:

«Venga a casa».

7

 

«Vedrà che la accoglierà benissimo...» cantilenava Herrmann continuando a camminare, per darsi coraggio da solo. «Non parla molto, e questo può sconcertare chi non lo conosce. Ma io, che sono abituato agli scienziati...».

Precedeva il giovane Kraus, che non parlava, lungo il sentiero.

«Noterà soprattutto il suo sguardo. Ha l'aria di pensare ad altro e di colpo, zac: ti lancia un'occhiatina di traverso ed è come se fossi nudo davanti a lui. Ha visto tutto di te, anche cose che tu stesso non conosci...».

Herrmann si fermò, perché era faticoso camminare e parlare al tempo stesso, e aveva il volto e il torace madidi di sudore.

Voleva riprendere fiato prima di entrare da Müller, la cui capanna era a portata di voce.

«Soprattutto, non si lasci scoraggiare dalla sua freddezza...».

Herrmann aveva paura di contrariare il professore portandogli il giovane tedesco, ma non dubitava che il proprio arrivo fosse atteso con impazienza.

Quando entrò, camminando di sbieco e lasciando scivolare uno sguardo ansioso verso Müller, questi era occupatissimo a impagliare una seggiola.

«Mi sono permesso di portarle il mio nuovo inquilino...».

Il dottore alzò la testa e vide Kraus, che non sapeva come comportarsi e distoglieva gli occhi dalla nudità di Rita. In casi del genere la giovane donna se ne accorgeva, e c'era sempre un lembo di stoffa a portata di mano.

«Sedete».

«Non la sorprende quello che ho appena detto, professore?».

«Kraus sta a casa tua?».

«Definitivamente! Insomma, sembra ben deciso a non rimettere piede dalla contessa. Sa cosa gli ha fatto, ieri? Lo ha colpito con un frustino fino a fargli sanguinare la schiena».

Kraus arrossì per esser stato chiamato in causa in quel modo. Era un giovanotto biondo, col viso irregolare e il colorito malaticcio. Nulla lo distingueva dalle migliaia di giovani tedeschi che, la domenica, se ne vanno tutti in fila nei boschi o in montagna, nulla se non forse uno sguardo cupo e scontroso. Non conoscendolo, a forza di vederlo ripiegato su se stesso, si era indotti a considerarlo subdolo.

Müller lo osservava di tanto in tanto, con rapide occhiate.

«Lei ha vent'anni, Kraus?».

«Venti e due mesi».

«Di che regione?».

«Norimberga. I miei genitori hanno laggiù una piccola fabbrica di giocattoli, di cui avrei dovuto occuparmi».

«Niente fratelli?».

«Una sorella, fidanzata. Quando si sposerà sarà suo marito a rilevare l'azienda, perché mio padre è ammalato».

Si confidava docilmente, e tutto quello che non diceva era scritto per Müller sul suo volto, nei suoi atteggiamenti.

La famiglia di Kraus, che non doveva essere ricca, conduceva a Norimberga un'esistenza borghese in cui non c'era spazio per l'imprevisto. Ed ecco che l'unico figlio maschio andava a ficcarsi nell'isola più sperduta del Pacifico!

«Dove ha conosciuto la contessa?».

«A Parigi. Mi avevano piazzato in una ditta come commesso, perché imparassi il francese.

Conosce Parigi? Era in Rue du Sentier, nel ramo della tela stampata...».

Herrmann esultava. Non avrebbe mai osato sperare che il suo protetto sarebbe stato trattato tanto bene, e lanciava occhiate al professore come per dire:

«Interessante, eh?».

«Ho conosciuto la contessa in un caffè di Montparnasse» continuava Kraus. «Parlavano tedesco al tavolo vicino al mio. Ascoltavo senza volere, e allora una delle mie vicine mi ha indicato dicendo ad alta voce: "Guardate questo giovanotto come s'interessa alla vostra conversazione!…"

Mi sono vergognato e volevo andarmene, ma la signora mi ha fatto sedere al suo tavolo e mi ha presentato ai suoi amici».

Tacque. Il resto lo si poteva immaginare.

«È diventato suo socio?».

«Sì, sei mesi più tardi. La contessa aveva un'idea che sembrava buona, e del resto io non volevo lasciarla...».

Lanciò un'occhiata imbarazzata a Rita e continuò:

«Sono andato a trovare i miei genitori a Norimberga e li ho convinti a darmi quarantamila franchi...».

«Una bella impresa!» bofonchiò Müller fra i denti.

«Proprio così. Ho litigato con mio padre, mi ha proibito di presentarmi ancora alla sua porta».

«Abitate nella città alta?».

«Vicino al mercato».

Case dal pignone dentellato come le vecchie abitazioni olandesi: Müller vedeva la strada, la soglia, le finestre.

«Arenson lavorava anche lui nella gioielleria?».

«In teoria era soltanto il cassiere, ma in realtà faceva tutto lui. Io i libri contabili non li ho mai aperti. Non vedevo clienti e mi chiedevo come fosse possibile sperare di guadagnare qualcosa in quelle circostanze. Non mi è chiaro nemmeno oggi. Quello che so è che c'erano tratte non pagate, merci comperate a credito e rivendute in perdita per far soldi, e altre irregolarità. Sono stato convocato dal giudice istruttore e allora la contessa ha deciso di andare in Belgio. Siamo rimasti due mesi a Bruxelles, dove lei conosceva molta gente...».

«Arenson era l'amante della contessa?».

Kraus tenne gli occhi fissi a terra senza rispondere. Si capiva che era ancora geloso. Ebbe un attacco di tosse che durò parecchi minuti.

«È venuto qui come socio?».

«Sì, ma non avevo più soldi. Non volevo lasciarla. Lei mi ha consigliato di tornare a Norimberga a supplicare mio padre, ma era inutile. Mi sono limitato a scrivere a mia sorella, che mi ha mandato di che pagarmi la traversata fino a Panama...».

Grondava di sudore. Non era più necessario fargli domande: incaponito, dava libero sfogo al suo rancore.

«Avrei dovuto capirlo, sulla nave. La contessa e Nic hanno viaggiato in prima classe, mentre io, con i miei soldi, potevo pagarmi solo la terza. Sapevo che occupavano la stessa cabina. Ogni tanto la contessa veniva a trovarmi, ma nella mia cabina eravamo in sei...».

Abbozzò un gesto stanco.

«Da allora avete visto coi vostri occhi! È andata di male in peggio. Arenson non fa nulla, non ha neanche dato una mano per montare la casa. Per tutto il giorno si sente gridare "Kraus!" di qua, "Kraus!" di là, e Kraus è diventato il cameriere di tutti...».

Rita non poté fare a meno di sorridere di tanta autocommiserazione.

«La contessa sa che sono malato, ma quando tossisco mi lancia delle occhiate furibonde, come se fosse colpa mia! Questo non le impedisce di corrermi dietro nel bosco, ed è lei che...».

Ancora una volta tacque, guardando la giovane donna.

«Ne ho abbastanza. Sono stanco, sono ammalato. Non voglio restare sull'isola, e appena arriverà la nave tornerò in Europa. Farò qualsiasi cosa. Chiederò l'elemosina, se sarà necessario. Del resto, quando siamo venuti qui, la contessa mi ha promesso che se avessi deciso di partire mi avrebbe dato i soldi per il viaggio. È perché gliene ho parlato che ieri mi ha colpito col frustino. Lo ha fatto davanti a Nic...».

Non c'era bisogno di dire che lo odiava!

«La signora Herrmann sa tutto, perché ha assistito a molte scenate. Altre gliele ho raccontate io. È stata lei a dirmi che se non potevo più vivere con i miei compagni non avevo che da rifugiarmi da lei. Non ho fatto bene?».

Rita assentiva, impietosita da quel ragazzone infelice che si confessava senza alcun ritegno.

Müller, dal canto suo, si accontentò di chiedere:

«E la contessa l'ha lasciato andar via?».

Perché alla fin fine la coppia, lassù, aveva vissuto solo grazie al lavoro di Kraus! Nic si sarebbe mai messo a tagliare la legna, a coltivare le patate, a portare l'acqua in casa, a cucinare e pulire?

«Mi ha detto che tornerò, che non potrò vivere senza di lei».

Si infervorò, e continuò più in fretta:

«Ma non è vero! Sono guarito. Adesso capisco tutto, so che si sono sempre presi gioco di me. Lo sa che la sera lo fa apposta a andare a letto con Nic proprio davanti ai miei occhi? E quando è arrivato lo svedese... Non voglio più parlarne. Basta! Se resto a lungo sull'isola divento pazzo. Mi sento chiuso in gabbia, e quando vedo il mare mi vien voglia di urlare d'angoscia».

E aggiunse con inaspettata ingenuità:, «Non fa anche a voi lo stesso effetto? È come il clima... In Francia, la contessa sosteneva che l'aria di questo posto mi avrebbe guarito, ma non è così, anzi! Poco fa, venendo qui, ho rischiato una sincope e ho dovuto appoggiarmi a un albero...».

«È vero» confermò Herrmann. «Quello che non capisco è che mio figlio, invece, sta molto meglio...».

Müller, accoccolato davanti alla sedia che stava rimpagliando, rifletté un istante, si alzò e si avvicinò a Kraus.

«Si tolga la camicia».

Parlava in modo del tutto naturale e per qualche minuto sembrò di essere in uno studio medico. Il dottore auscultò a lungo il petto scarno del giovane, gli picchiettò il dorso con le dita, esaminò la lingua e gli occhi e infine tornò al suo posto.

«Che ne pensa?».

Müller alzò le spalle con l'aria di dire che non lo sapeva.

«Non mi pare che la sua tubercolosi sia poi così avanzata» borbottò con franchezza. «Non capisco neanche come possa ridurla in questo stato. Dev'esserci dell'altro. Ma cosa?».

«Sì, cosa?» ansimò Kraus, ancora tremante per l'auscultazione.

«Non saprei. Ma è anche vero che non mi sono mai occupato di questo genere di malattie».

«Lei crede che vivrò sino all'arrivo della nave?».

«È probabile... perché no?».

Rita disapprovava il suo atteggiamento poco incoraggiante, e non sapeva come fare per dissipare il terrore del giovane, che a stento riusciva a riprendere fiato.

«Io penso che non dovrebbe affaticarsi» disse, ad ogni buon conto. «In questi climi ogni minimo movimento affatica. Anch'io, dopo aver camminato un'ora, mi sento più stanca che se avessi camminato un giorno intero in Germania...».

Perché c'era una luce ironica nello sguardo di Müller? Era così ridicolo il suo discorso? Non era un atto di umanità risollevare il morale a Kraus?

All'improvviso pensò che forse Müller la credeva attratta dal giovane come lo era stata da Larsen, e arrossì. Da quel momento non disse nulla, ed evitò di ascoltare la conversazione.

Ecco quello che ormai succedeva fra loro: stupidi malintesi che li allontanavano l'uno dall'altra, mentre nella realtà non c'era nulla che li separasse.

Kraus avrebbe voluto parlare ancora della sua malattia. Era la cosa al mondo che l'interessava di più.

«La nave passerà fra tre mesi» arrischiò per tornare alla sua idea. «La stagione secca dev'essere più sana per me della stagione delle piogge...».

«Non vedo perché» bofonchiò Müller.

«Quante possibilità su cento mi dà di sopravvivere per questi tre mesi?».

Esigeva risposte precise, si aggrappava alla speranza di un numero.

«Venti per cento?» buttò lì, ansioso.

«Cinquanta!».

Kraus impallidì, perché aveva detto venti sperando di sentirsi rispondere novanta. L'occhiata che lanciò all'orto assolato tradì la sua angoscia, che crebbe sino a impedirgli di star seduto. Si alzò torcendosi le mani e fece qualche passo in direzione della baia.

«La ringrazio, professore. Ovviamente non mi consiglia nessun trattamento. Non crede che dovrei fare qualcosa?».

«Ha così poca importanza!».

Kraus si sforzò di sorridere e persino di scherzare.

«Per lei!».

«Per tutti» affermò Müller.

Rita non lo aveva mai visto così. Sembrava che perseguisse un suo scopo recondito, parlando un linguaggio che gli altri non potevano capire.

«E lei non ha mai pensato di tornare in Germania?».

Lo chiedeva al professore, ma guardava Rita, come se lo stupisse che potesse vivere in eterno su quell'isola.

«Mai».

«È anche vero che lei è uno scienziato!».

Un sorriso furtivo passò sulle labbra di Müller, che aveva ricominciato lentamente a impagliare la sedia. Era irritante vederlo accanirsi così per delle ore in un lavoro privo d'interesse, e con tanto impegno, come se ne dipendessero le sorti dell'universo. Era circondato di fibre di pandano che spandevano un forte odore zuccherino, e ne aveva anche fra i lunghi capelli grigi.

«Ce ne andiamo?» propose Kraus.

«Sì, è ora» sospirò Herrmann che aveva fatto scena muta.

Ma anche lui seguiva una sua idea, perché aggiunse come per se stesso:

«Il professore deve aver ragione. Sto pensando a mio figlio: le crisi che ha lui non assomigliano assolutamente alle sue. Non mi stupirei per niente se lei non fosse affatto tubercolotico...».

I due uomini se ne andarono. Kraus era deluso: le cose non si erano svolte come aveva immaginato. Tutti avevano preso la parola, e lui per primo, ma non c'era stata conversazione, come se ciascuno parlasse soltanto per sé.

E quando si erano accomiatati era stata la stessa cosa: non si erano detti arrivederci, non si erano stretti la mano. Gli uni se ne andavano, gli altri restavano; nient'altro.

Tutto questo dava un senso di vuoto, di inutilità. Che cosa ci stavano a fare in quel posto, gli uni e gli altri? Perché prendersi ancora la briga di respirare?

Per fortuna Herrmann, cammin facendo, aveva ripreso le sue litanie.

«Non deve farci caso. Se lei conoscesse gli scienziati come li conosco io, capirebbe. Guardi, ne ho visto uno, a Bonn, famoso in tutto il mondo, che mentre sua moglie partoriva faceva esperimenti su di lei come ne avrebbe fatti su una qualunque paziente dell'ospedale... Questo non vuol dire che siano cattivi, ma hanno troppe idee in testa. Eh, io lo so com'è!».

Non voleva forse insinuare che era un po'"la sua stessa situazione?

«Se muoio qui» esclamò Kraus fermandosi all'improvviso «non voglio essere seppellito sull'isola, e nemmeno essere gettato in mare. Voglio che il mio corpo venga spedito in Germania, a casa mia...».

«E come si fa?» replicò candidamente Herrmann. «Con questo caldo!».

Aveva parlato senza pensarci, ma già Kraus sbarrava gli occhi e si guardava intorno spaventato. Si udiva un sibilo nel suo respiro, mentre si torceva violentemente le mani.

«È vero!».

Le mosche ronzavano nell'aria bruciante, gli insetti crepitavano fra l'erba disseccata.

«Non voglio! Non voglio!» gridò il giovane, che cominciava a tremare. «Mi ha sentito? Non voglio morire qui!».

«Ma no... Ma no...».

«Ho detto che non voglio!».

Si era gettato a terra lungo disteso, e piangeva.

«Non voglio, mamma! Non qui!».

Per fortuna la crisi fu breve. Le lacrime sgorgarono abbondanti, poi venne l'accesso liberatorio: Kraus dovette alzarsi e poi piegarsi in due squassato dalla tosse, col viso in fiamme.

Passata la crisi si appoggiò un istante alla spalla di Herrmann.

«Mi terrete con voi fino all'arrivo della nave, vero? Altrimenti loro sono capaci di farmi morire... Sa cosa ho pensato? Che Nic voglia avvelenarmi... Mi odia... Lui lo sa che la contessa, in fondo, ama di più me... Solo che lui è un uomo di mondo, anche qui, lo ha visto, si veste come su una spiaggia elegante... E io ero obbligato a lavargli i pantaloni bianchi! La moglie dei dottore è buona, ho capito subito che se potesse aiutarmi lo farebbe... Crede che sia felice?».

«Perché no?».

Passava così, senza accorgersene, da un'idea all'altra.

«Non so... Dicevo così...».

Lo scenario era cambiato in poche settimane: adesso le chiazze di verzura erano rare, ma in compenso i cespugli erano di una tonalità dorata che volgeva al rosso. Seguendo il sentiero, si sentiva appena il mormorio del ruscello quasi in secca.

E l'aria, soprattutto in quell'ora della giornata, era pesante da respirare. Kraus sudava così copiosamente che la camicia kaki gli si incollava al corpo. Siccome Herrmann camminava avanti, non voleva fermarlo in continuazione per riprender fiato e, a tratti, gli ronzavano le orecchie.

«Lei non crede che reggerà tre mesi?» chiedeva intanto Rita a Müller.

Come aveva già fatto, il professore alzò le spalle.

«Che importanza ha?».

«Se potesse tornare in Germania!».

«Già!» sospirò il professore.

Che cosa voleva dire? Perché parlava così, per enigmi? C'era da credere che avesse scoperto la chiave dell'avvenire e che alludesse ad avvenimenti che lui solo poteva prevedere.

«È tubercolotico?».

«Sì, e ha anche qualcos'altro. Non so cosa, ma fa lo stesso, visto che il risultato sarà identico...».

«Lo ha spaventato» si arrischiò a mormorare lei come un rimprovero.

«Crede?».

E continuò, cocciuto, il suo lavoro di impagliatura.

8

 

«Cosa ha risposto?» chiedeva la contessa.

«Ha detto così» (il coltello, maneggiato da mani bagnate, finiva di tracciare un primo cerchio attorno alla patata) «che non ce l'ha con lei, ma che» (la patata interamente pelata cadeva in un secchio, mentre la buccia ne raggiungeva altre nel grembo della signora Herrmann) «... finché ci sarà il signor Nic...».

Era sconcertante: la signora Herrmann aveva una personalità così spiccata che bastava, con pochi accessori, a trasformare l'atmosfera. Erano ancora in un isolotto delle Galápagos? E la casa, davvero non era altro che una capanna di bambù?

Grazie alla magia di una silhouette, di una voce, di due mani grassocce che maneggiavano il coltello attorno alle patate, erano ovunque tranne là; o meglio, erano in una casetta di Bonn, in una cucina con la porta aperta e incorniciata di glicini che dava su un orto.

Dal suo arrivo a Floreana, la signora Herrmann non aveva mai cambiato lo stile del suo abbigliamento. Portava sempre abiti di cotone chiaro e, quasi invariabilmente, un grembiule a quadretti blu, con un fazzoletto in tasca.

Com'era riuscita, con così pochi oggetti, a creare un ambiente casalingo? Da Müller non c'era nulla di confortevole, che desse l'idea del focolare, e ancor meno della famiglia.

Qui, per esempio, sul tavolo in mezzo alla stanza era tesa una tela cerata portata dalla Germania. Poco importava quindi che il pavimento fosse in terra battuta: quella tovaglia dava un'idea di cucina, di brava massaia.

Una mensola sormontava il fornello a petrolio e le casseruole erano schierate in ordine di grandezza.

E poi c'era l'odore, che la contessa respirava ogni mattina con nostalgia. Un odore di cucina, certo, ma non di cucina qualsiasi: un odore di cucina accurata, come quella che ricordiamo di aver gustato da bambini.

Per di più, la signora Herrmann era sempre calma e sorridente. Non ce l'aveva con nessuno, non odiava nessuno.

«Che vuole,» spiegava «lui non riesce a concepire che il signor Nic gli abbia lasciato tutto il lavoro...».

Evidentemente si parlava di Kraus. Mentre Herrmann prendeva l'abitudine di andare a trovare ogni giorno il professore, la contessa, dal canto suo, entrava con aria dignitosa nella casa della signora Herrmann.

Era forse la ventesima volta che si presentava in quel modo, alla stessa ora. Ogni volta era rimasta quasi due ore senza alzarsi dalla sedia, a chiacchierare fumando sigarette. Ciò nonostante non accettava la tirannia dell'abitudine e faceva, ogni giorno, un'entrata diversa.

«Ha da accendere, Maria?».

Oppure:

«Già che ci sono, ho un consiglio da chiederle. Per cuocere le patate dolci...».

Gironzolava per qualche istante nella stanza e finiva sulla poltrona di Herrmann, vicino alla tenda che nascondeva i letti.

La capanna non aveva finestre; la luce filtrava tra i bambù, ed entrava più violentemente, in un rettangolo accecante, attraverso la porta sempre aperta.

«Se non torna non so cosa farò. Senza Kraus la vita è impossibile».

«Gliel'ho ripetuto ieri. Lui ascolta, scuote la testa e ripete: Finché c'è Nic..."».

«Eppure lo sa che loro due non sono dello stesso ambiente» replicò vivamente la contessa.

«Nic è figlio di un grosso armatore di Lubecca. Non può certo mettersi a lavare i piatti mentre Kraus se ne va a passeggio...».

«Kraus dice che Nic era commesso in un negozio».

La contessa non si scompose.

«Lei non può capire. Non c'è niente di disonorevole nell'esercitare un mestiere al di sotto della propria classe, in certi particolari momenti. Non ho forse venduto gioielli, io, contessa von Kleber? E mia madre ha ricevuto il Kaiser nel suo castello! Se Nic ha fatto il commesso è perché ha rotto con i suoi, che volevano fargli sposare una cugina ebrea. Perché Nic, benché israelita, detesta gli ebrei...».

Maria scuoteva il grembiule a quadretti e metteva una casseruola sul fornello. Era abituata alla compagnia della contessa e alle sue storie, ed era troppo rispettosa per sottolinearne le contraddizioni.

Perché Nic, due settimane prima, era non già il figlio di un armatore, ma il figlio naturale del grande matematico Einstein.

«Bisogna pure che passi il tempo» diceva Maria a suo marito quando, la sera, gli ripeteva i racconti di lei. «Che possono fare lassù tutto il santo giorno?».

Del resto lei sola poteva dirlo, perché andava di tanto in tanto all'Hôtel del Ritorno alla Natura per dare una mano, e ogni volta era atterrita dal disordine che vi regnava.

Nic rimaneva giorni interi senza radersi e senza cambiarsi la biancheria. Per ore, sul terrazzo, restava steso sulla stessa amaca, fumando sigarette e rileggendo romanzi che aveva già letto cinque o sei volte. Oppure metteva dei dischi di tre anni prima, che gli ricordavano Montparnasse.

I mozziconi di sigaretta si ammucchiavano a terra. Le mosche facevano nugolo attorno alle scatolette disseminate un po'"dovunque, aperte, e lunghe processioni di formiche si dirigevano tutte verso i medesimi obiettivi.

Nessuno faceva il bucato, nessuno puliva la casa. Un giorno la signora Herrmann si era accollata tutte le faccende e, a sera, suo marito l'aveva rimproverata.

«Non devi farlo. Non sei la loro cameriera».

«Lo so, ma è stato più forte di me. Mi faceva star male vedere una sporcizia simile...».

La contessa portava tutto il giorno la stessa vestaglia di seta a fiorami, scolorita sotto le ascelle.

«Bisogna spiegare a Kraus che deve farlo per me. Gli dica che metterò Nic sulla prossima nave, e che allora saremo felici, noi due...».

«Lui non vuole restare sull'isola».

«E che farà sul continente? Lo sa bene che non può tornare in Europa!».

Era impossibile distinguere quando mentiva e quando diceva la verità. In altre occasioni, aveva dichiarato di aver lasciato la Francia perché era stanca di tutte le feste e i ricevimenti in suo onore.

«Io, in fondo, sono nata per la semplicità» sospirava allora con un tono che poteva trarre in inganno. «Mi ci sarebbero voluti dei figli, come a lei! Il caso mi ha fatto nascere in un ambiente troppo brillante...».

Certi giorni aveva le palpebre spesse, l'eloquio difficile, e allora Maria capiva che, appena alzata, aveva già cominciato a mandar giù grandi bicchieri d'alcol. La contessa si lamentava:

«Non ho dormito di nuovo per tutta la notte, mia povera Maria! Sempre la mia solita insonnia! È terribile essere tanto nervosi. Così ho preso la mia medicina...».

Era tutta un piagnisteo; alla fine chiedeva con sollecitudine notizie del giovane Herrmann.

«È il più felice di tutti noi, perché non pensa!».

Jef c'era di rado; approfittava dell'assenza della contessa per andare all'albergo a vuotare le scatolette e le bottiglie. Lo ritrovavano addormentato all'entrata di una caverna o tra i cespugli.

«Quanti ne abbiamo oggi? Venticinque? Allora sono tre mesi che siamo qui. Per fortuna la settimana prossima vedremo arrivare lo yacht di uno dei miei amici inglesi, un lord che sta facendo il giro del mondo. Potremo rinnovare le nostre provviste di whisky e di scatolame. Lo dica a Kraus, è capace di tornare apposta...».

Non sapeva che Kraus era spesso nell'orto ad ascoltare, appoggiato alla parete di bambù.

«Vedrà, Maria, quello che succederà quando le fotografie scattate da Paterson saranno pubblicate sul giornali americani. Non avremo più problemi. Conosco gli americani, soprattutto quelli molto ricchi e molto annoiati. Verranno qui. Avremo sempre una ventina di ospiti e faremo venire i domestici necessari. Allora sì che sarà vita! Ci divertiremo dalla mattina alla sera. Faremo cose che racconteranno con stupore in tutto il mondo. Se chiedesse di me a Montparnasse, le direbbero che di feste me ne intendo. Pensi, una volta...».

E poiché si avvicinava l'ora del pranzo, la signora Herrmann preparava la tavola, asciugando a uno a uno piatti e posate. I coltelli e le forchette dovevano essere un regalo di nozze, perché erano d'argento e, dopo tanti anni, li teneva ancora nel loro astuccio.

Un altro quesito assillava la contessa:

«Come facevate per l'acqua, gli altri anni? Presto il ruscello sarà asciutto. Vado a vederlo tutti i giorni. Me lo sogno di notte...».

«Non bisogna sprecare la riserva d'acqua piovana. Noi la nostra non l'abbiamo ancora toccata...».

«E per il bagno?».

«Non lo facciamo» replicava Maria.

Arrivava il momento in cui la contessa sentiva che il preparatore stava per tornare. Non aveva motivo di evitarlo: era piuttosto una forma di pudore a impedirle di farsi sorprendere a cianciare con Maria.

«Vado a preparare il pranzo» sospirava. «Chi l'avrebbe detto che un giorno avrei fatto da mangiare!».

Herrmann non tardava ad apparire, senza fiato per aver salito la collina. Si sedeva nella poltrona appena lasciata dalla contessa e ancora impregnata del suo odore.

«Il professore è sempre più affabile con me. Oggi è stato lui a trattenermi. "Resti, caro Herrmann" mi ha detto».

«La contessa è appena uscita».

«Lo so».

«Pare che aspetti uno yacht per la settimana prossima».

Kraus entrò, cupo, gettò il cappello in un angolo e si sedette, i gomiti sul tavolo. Maria lo scrutò con inquietudine, perché temeva che avesse un crollo di nervi. Era già molto se gli si poteva ancora rivolgere la parola. Per di più era magro da far paura, e aveva gli occhi profondamente cerchiati.

«Si mangia il fegato» sospirò Maria. «La cosa migliore sarebbe che lo yacht accettasse di riportarlo in America...».

In compenso mangiava molto, ma senza badare a quel che c'era nel piatto.

«Se volete» dichiarò quel giorno all'improvviso «vi costruirò una seconda casa».

«Per farci cosa?».

«Non so. Per averne due... Altrimenti, cosa volete che faccia?».

«Perché vuol fare qualcosa?».

«Perché sono a carico vostro. Mangio le vostre provviste. Sapete bene che non potrò mai pagarvi, perché la contessa non mi darà i soldi».

«Basta, su...» intervenne Maria.

«No! Voglio fare qualcosa. Posso tagliarvi la legna, abbastanza per due anni. Ho trovato dei begli alberi a un chilometro da qui».

Il segnale che Herrmann indirizzò a sua moglie voleva dire:

«Lascialo fare».

Sentiva che il giovane si sarebbe intestardito. Era nel suo carattere, e quanto più l'avessero contraddetto, tanto più si sarebbe ostinato.

«Ne riparleremo quando starà meglio».

Kraus ridacchiò, e aveva appena finito di mangiare che se ne andò senza dire nulla fermandosi un istante nel capanno degli attrezzi.

«Jef non è ancora tornato?».

Era la loro grande preoccupazione: sembrava impossibile ottenere dal ragazzo che rientrasse a ore più o meno regolari, e acchiapparlo nella boscaglia era ancora più difficile.

Quasi ogni pomeriggio suo padre usciva a cercarlo, e al suo ritorno il più delle volte lo trovava a casa.

Quella sera fu Kraus ad arrivare in ritardo; si fece vedere solo a notte fonda. Era assai rosso in volto, e la camicia kaki era coperta da un sottile strato di segatura. Attraversò la stanza in silenzio e andò a sdraiarsi sul letto, completamente vestito.

«Venga a mangiare, Kraus».

«No».

«Ma lei deve mangiare. Andrà a letto dopo».

«No».

Faceva così, quando era di quell'umore. Non se ne cavava nulla. Non era per cattiveria, come diceva Maria, ma perché era tormentato dai suoi pensieri.

«Cos'ha fatto tutto il pomeriggio?».

«Niente!».

Non era vero. Aveva abbattuto degli alberi, rabbiosamente, e per ore si era ostinato a tagliarli a rondelle sotto un sole cocente. Adesso aveva la febbre, e Maria, quando andò a letto e passando gli sfiorò la mano, si spaventò.

«Herrmann! Ha la febbre».

Credeva che Kraus dormisse, perché stava immobile, con gli occhi chiusi.

«Bisogna fare qualcosa, guardagli le guance!».

Per far luce avevano solo un piccolo lume a petrolio. Jef dormiva già, quieto come un animale.

«Forse ha preso un colpo di sole».

«Se andassimo a chiamare il dottore?».

Herrmann scosse il capo, prevedendo il malumore di Müller se lo avessero svegliato. Non era cattivo, tutt'altro! Ma era uno scienziato e gli scienziati, sulle malattie e la morte, non hanno le stesse idee degli altri.

«Proviamo con un impacco d'acqua fredda».

«Non importa» disse recisamente Kraus.

«Cosa si sente? Dove le fa male?».

«Non ho nulla, voglio esser lasciato in pace...».

Gli Herrmann esitarono a lungo e si rassegnarono a coricarsi solo perché sentivano che il loro inquilino si sarebbe irritato.

Maria non si addormentò subito. Molto più tardi sentì un rumore leggero, soffocato, che veniva dal letto del giovane.

Tese l'orecchio e il rumore si ripeté, e si ripeté ancora, a intervalli regolari.

Kraus piangeva, la testa affondata nel cuscino impregnato di sudore.

«La settimana prossima...».

Adesso la contessa diceva:

«Fra due o tre giorni...».

Agitatissima, girava in continuazione attorno a Maria, alla quale prodigava manifestazioni d'affetto.

«Io l'ammiro, Maria! È talmente bello saper fare tutto! Quando avrò tempo verrò da lei a prendere lezioni... Ma dovrà avere un'altra casa...».

«Un'altra casa?».

«Ma sì! Non volevo parlargliene già da ora, perché mi ero messa in testa di farle una sorpresa. Fra qualche tempo, quando l'isola sarà lanciata, conto di far venire il materiale per costruire dei bungalow in cemento. Ogni ospite avrà il suo, di modo che questa somiglierà a una città ideale. Allora la casa norvegese dove ora abitiamo noi sarà vostra».

«Lei è troppo gentile».

Ma no, ma no! Ci avete già reso tanti di quei servigi! Senza di voi non so come mi sarei organizzata».

Nel frattempo il povero Kraus si ammazzava a tagliar legna, tutto solo fra la sterpaglia.

«Tra l'altro avrei ancora una cosa da chiederle, cara Maria. Lord Bambridge, che sta per arrivare, è un grande aristocratico inglese, che ha il suo posto alla tavola del re. Mi conosce da quando ero bambina. Sa che ho delle idee originali, e del resto lui vive per la maggior parte dell'anno a bordo del suo yacht. Vorrei che, arrivando qui, avesse una buona impressione...».

Maria le dava le spalle, e la contessa non la vide sorridere mentre rispondeva:

«Penserò io a dare una ripulita alla casa!».

«È urgente, perché uno yacht non è come un transatlantico, può benissimo arrivare con due giorni di anticipo, o due di ritardo. Durante i lavori suo marito e suo figlio potranno benissimo mangiare da noi, per non farle perder tempo».

«E Kraus?».

«Vedrà che verrà anche lui!».

«Ci vediamo oggi pomeriggio» promise Maria.

Ma la contessa non si diede per vinta, e tanto disse e tanto fece che la signora Herrmann la seguì subito, lasciando sul tavolo un biglietto che annunciava:

«Sono all'albergo e vi aspetto a mangiare là. Mamma».

Firmava sempre «mamma» da quando aveva un figlio, e dal canto suo Herrmann firmava «papà».

Nic aveva un impacco attorno al collo e si lamentava per il mal di gola, che comunque non gli impediva di fumare.

«Le ultime sigarette» brontolò. «Ancora dieci pacchetti e addio!».

«Lo yacht sarà arrivato».

Maria aveva portato con sé i suoi zoccoli e se li mise per iniziare il lavoro. Mezz'ora dopo regnava ovunque un acre odore di sapone e liscivia.

«Ho un'idea» fece all'improvviso la contessa. «Ne parlerò a suo marito non appena tornerà».

Quando Herrmann arrivò, trovò sua moglie in un bagno di sudore, circondata di secchi e spazzole.

«È per l'arrivo dello yacht» spiegò. «Non ho osato rifiutare, soprattutto ora che vuole darci la casa...».

«Quale casa?».

«Questa... Zitto! Ti spiegherò stasera...».

«Herrmann... Herrmann...» chiamava la contessa dalla veranda. «Venga qui, voglio comunicarle la mia idea. Lord Bambridge si interesserà certamente a lei, perché ama tutto quello che ha a che fare con la scienza. Ho pensato che si potrebbe decorare la casa con fiori e piante verdi.

Mi ricordo di aver visto una cosa del genere in una foto... Si prendono le palme e...».

La spuntò una volta di più! Alle tre del pomeriggio la casa si era trasformata in un cantiere.

Aiutato dal figlio, Herrmann intrecciava le palme attorno alle sbarre della veranda. Maria, in cucina, lucidava le casseruole picchiettate di ruggine e la contessa andava e veniva, trepidante, mentre Nic rinnovava gemendo i suoi impacchi ogni dieci minuti.

Ci aveva messo un'ora a fare il ghiaccio con un piccolo apparecchio portato dall'Europa, che non aveva mai funzionato.

«Bisogna che Lord Bambridge ci dia una macchina per il ghiaccio» disse in tono astioso.

«Anche dei bicchieri, pensavo! I nostri sono quasi tutti rotti...».

«Sarà meglio preparare una lista».

Si sentiva il fruscio delle palme e la voce di Herrmann che, di tanto in tanto, dava indicazioni al figlio. Felice di quel trambusto, Jef ci si tuffava deliziato.

«Primo, sigarette...» dettò la contessa a Nic, che scriveva. «Se ha un macinacaffè che non gli serve glielo chiederemo, perché il nostro non macina più abbastanza fino».

«Whisky, naturalmente, e l'apparecchio per il ghiaccio. A bordo di uno yacht come quello devono essercene molti...».

«Gli daremo anche la lettera per la Camel... Ah! Dimenticavo: devono ordinare sul continente della carta intestata all'Hôtel del Ritorno alla Natura».

Herrmann ascoltava senza volere e non sapeva più cosa pensare.

«Sale e pepe... Non trovo più la nostra riserva...».

«Se avessero qualche accendino, per sostituire i nostri che si sono arrugginiti. Con le piogge si è arrugginito tutto, in questo schifo di posto...».

La sera stavano ancora lavorando. Gli Herrmann rifiutarono di dividere lo scatolame superstite e andarono a mangiare a casa loro, dove Kraus si era già coricato senza cena.

La coppia parlava sottovoce.

«Ho visto le loro provviste» bisbigliò la signora Herrmann. «In tre mesi hanno fatto fuori tutto. Non è rimasto quasi nulla. Il sacco del riso si è bagnato e il riso è marcito. E hanno buttato via la farina perché era piena di vermi».

«E cosa mangeranno?».

«Hanno delle casse di ossi di seppia, ma non le hanno toccate. Non credo che gli piacciano.

Ci sono una ventina di scatole di sardine, qualche acciuga e dei piselli».

Kraus respirava rumorosamente; aveva ancora la febbre, non c'era dubbio.

«Domani» promise Herrmann «lo porterò con me dal professore, facendo finta di niente. Se lo yacht accetta...».

Erano arrivati a parlare come la contessa:

«Lo yacht... Quando arriverà lo yacht... Se lo yacht accetta... Lo yacht ci darà...».

L'indomani Herrmann non poté andare dal dottore, perché gli chiesero ancora di lavorare all'albergo, che a sera era addobbato come per un quattordici luglio.

La contessa, fierissima, mormorava estasiata:

«Speriamo che arrivi presto!».

Herrmann credette, almeno, di sentire «presto».

Ma Maria, che pretendeva di avere l'orecchio fino, affermò di aver sentito semplicemente:

«Speriamo che arrivi!».

Questo provocò una discussione fra i due coniugi.

«Credi che ci avrebbe imposto tutto questo lavoro senza essere sicura?».

«Io la credo capace di inventarsi tutta la storia dello yacht».

«Allora perché hai accettato?».

«Perché avevi già accettato tu».

«Questo non vuol dire...».

L'indomani mattina Herrmann, che diventava sempre più paterno nel confronti di Kraus, lo accompagnò verso la capanna del professore. Il cielo non era mai stato così puro, di un azzurro più sereno, e per cinquanta metri il sentiero era cosparso di grossi fiori gialli caduti dagli alberi!

Kraus, molto abbattuto, evitava di parlare, come se portasse rancore al mondo intero.

«Il professore le vuole molto bene. Ieri mi ha detto di nuovo...».

«Le ha detto che sto per crepare. È il suo mestiere, gli dà quasi soddisfazione!».

Ma d'un tratto, mentre emergevano dal sottobosco, ebbero la visione dell'intera baia, e Herrmann lanciò un'esclamazione. Lo yacht, il loro yacht era là, uno yacht immenso, più grande e più bello di quello di Paterson, con i fumaioli cerchiati di rosso. Aveva appena gettato l'ancora, perché si vide un getto di vapore sprizzare dal fischio e qualche istante più tardi si senti l'eco di quel richiamo.

Herrmann si voltò verso Kraus e lo trovò trasfigurato: un'estatica espressione di speranza gli illuminava il volto dagli occhi accesi. All'improvviso si slanciò in avanti senza curarsi del compagno.

Rita lo vide passare mentre saliva un poggio per vedere lo yacht.

«Kraus!» chiamò.

Ma Kraus non sentì: correva a perdifiato verso la salvezza.

9

 

L'isola era in gran fermento. Dietro Kraus, Rita vide arrivare Herrmann che correva a gambe levate, nella speranza di arrivare sulla spiaggia insieme al suo protetto.

Poi venne il bello: la contessa e Nic in preda a un autentico delirio. La contessa ballava tra scoppi di risa; passando non mancò di lanciare a Rita qualche frase che doveva essere ironica, ma che lei non capì: per quanto ridicola o esagerata potesse essere quella gioia, Rita provava la stessa malinconia che si sente quando si vede cominciare una festa dai vicini.

C'era, nell'atmosfera di quel giorno, qualcosa di miracoloso. L'aria non era mai stata tanto trasparente, al punto che, malgrado la distanza, si distinguevano tutti i particolari dello yacht, compresi i marinai che lavavano il ponte con gran secchiate d'acqua. E la trasparenza dell'aria, la fragilità del cielo, la muta immobilità dell'oceano facevano dello yacht che vi era incastonato qualcosa di unico. Gli elementi concorrevano tutti a metterlo in risalto! Le sue linee si disegnavano con la nettezza di una stampa giapponese, e la bandiera inglese recava a quella pallida sinfonia la macchia rossa che le mancava.

Ci sono oggetti da esposizione con cui nessun bambino si è mai divertito, e che pure faranno sognare generazioni intere.

Era impossibile guardare quello yacht che riposava nella dolcezza della baia senza aver voglia di partire, di vivere fra le sue pareti verniciate, in mezzo ai legni rari e al cuoio lucido, e di essere puliti e in ordine, ben vestiti come i marinai che si vedevano sul ponte.

Quel giorno Rita aveva indossato i suoi pantaloncini di tela blu. Pensava forse di scendere fin sulla. spiaggia per vedere il battello più da vicino, quando sentì un rumore accanto a lei.

Era Müller. Ma la vista del professore la lasciò di sasso, perché per la prima volta aveva tirato fuori il binocolo dalla cassetta dove era stato sepolto dal giorno del loro arrivo.

Müller, che aveva sempre ostentato un'altera indifferenza, contemplava la nave inglese con l'aiuto di un cannocchiale!

«È più grande del vapore che ci ha portati da Panama a Guayaquil» constatò. «Ci sono almeno trenta uomini a bordo».

La coppia si trovava nello stesso luogo in cui Müller e Herrmann si erano incontrati in occasione dell'arrivo della contessa. Il suolo era in pendenza: ci si poteva sedere comodamente e vedere tutto quello che succedeva di sotto. Si vedeva perfino la spiaggia, su cui non tardò ad agitarsi una sagoma nera.

Era Kraus che correva, per poi fermarsi di colpo, sconcertato, stupefatto di non trovare la vedetta dello yacht.

Lord Bambridge, a dire il vero, non sembrava aver fretta di scendere a terra. La vedetta era attraccata alla scaletta, senza un marinaio a bordo.

E del resto, sul ponte, si vedevano solo gli uomini dell'equipaggio occupati nelle abituali pulizie mattutine. Quando sentirono l'urlo di Kraus sulla spiaggia lo guardarono con stupore, e ripresero il loro lavoro.

Kraus dava in escandescenze, e uno dei marinai entrò allora nella cabina di comando. Un ufficiale apparve sulla passerella, osservò l'esaltato aiutandosi col binocolo, restò immobile.

Per Rita e Müller tutto ciò avveniva molto lontano, in fondo a un tunnel pieno d'aria trasparente che nulla toglieva al rilievo degli oggetti, pur riducendoli a proporzioni irrisorie.

Kraus si voltò. Non potevano sapere che cosa vedesse, ma si tolse la camicia e avanzò nell'acqua. Quando l'ebbe sino alla vita cominciò a nuotare maldestramente, con movimenti troppo rapidi.

«Gli squali!» disse Rita in un soffio, toccando il braccio di Müller.

La baia ne era piena, e nessuno mai vi si bagnava. Probabilmente gli uomini dello yacht lo ignoravano, perché indugiavano coi gomiti appoggiati al parapetto per contemplare l'ostinato visitatore.

Herrmann, che aveva a sua volta raggiunto la spiaggia, era immobile, sbigottito.

C'erano almeno cinquecento braccia fra la riva e la nave. Kraus ne aveva percorso la metà e i suoi movimenti si andavano facendo più incerti, quando degli uomini si precipitarono verso la vedetta. Certo avevano scorto l'ombra degli squali.

Sembrò una sequenza interminabile, ma in realtà durò solo qualche secondo. Il motore fu avviato; l'acqua si increspò a poppa, una scia di fumo descrisse una curva; due uomini si chinarono e issarono il nuotatore a bordo.

La contessa e Nic erano appena arrivati sulla spiaggia. Dall'alto non si poteva sentirli, ma probabilmente gridavano anche loro. In ogni caso gesticolavano come aveva fatto Kraus. E come la prima volta, i marinai finsero di non sentire e riguadagnarono lo yacht con lo scampato che fu spinto, gocciolante d'acqua, su per la scaletta.

«Ecco il proprietario» annunciò Müller che non si staccava dal binocolo.

Un uomo di sessant'anni, molto alto, magro, rigido come un ufficiale, era apparso sul ponte vestito di pantaloni di flanella bianca e di una giubba d'uniforme, con un berretto bianco e una corta pipa fra i denti.

Sul petto gli pendeva un cannocchiale; se ne servì per scrutare la riva, poi diede degli ordini.

Un istante dopo la vedetta ripartiva, ma senza di lui, verso il luogo in cui si trovavano la contessa e Arenson.

Forse, ciò che appassionava Müller era tentare di capire quelle scene in successione senza sentire le parole. A volte capitava anche che nel viavai qualcuno sparisse, e non si capiva che cosa stesse facendo.

Sul ponte era apparecchiata una tavola coperta da una tovaglia bianca, e lo yachtman vi si sedette da solo, mentre Kraus parlava con veemenza.

Aveva soltanto pochi minuti: già la contessa e Arenson erano a bordo della vedetta che si allontanava dalla spiaggia dì sabbia nera. Stavano per imbarcarsi sullo yacht.

Kraus si voltava ora verso di loro, ora verso il suo interlocutore, che imburrava un toast.

Che cosa diceva? Che voleva partire, che supplicava lo prendessero a bordo e lo scaricassero nel primo porto? Accusava la contessa di maltrattamenti nei suoi confronti? Parlava della sua tubercolosi e della morte imminente?

Comunque fosse, Lord Bambridge si alzò e si diresse verso la scaletta per accogliere la sua ospite, e le baciò la mano. La contessa parlava, evidentemente, ancora più forte e più in fretta di Kraus.

Müller fece una risatina sarcastica e pulì le lenti del binocolo per vederci meglio. Il gruppo si accostò alla tavola, dove era stata servita la prima colazione per una sola persona. Il proprietario si volse verso un cinese in divisa bianca che lo serviva e che portò altri due coperti.

Kraus stava a capo chino.

Chi avrebbe vinto? Quale decisione sarebbe stata presa? Il lord fece ancora un gesto all'indirizzo di due marinai che portarono il giovane a poppa, dove lo lasciarono in piedi in pieno sole.

Gli altri facevano colazione: si indovinava il crepitio dei toast, l'odore del burro che si scioglieva, quello del tè fumante nelle tazze.

Parlava sempre la contessa; gesticolava, si protendeva a toccare la spalla o la mano dell'ospite, come per convincerlo meglio.

Quanto a Herrmann, lo avevano lasciato sulla spiaggia; si era seduto all'ombra di una roccia e aspettava.

«Ah, se lo yacht proponesse di portarseli via tutti!» disse Müller fra i denti.

La scena dava proprio quell'impressione. Bambridge se ne stava là come il Padreterno, ad ascoltare senza dire una parola. Presto avrebbe parlato e nulla sarebbe stato possibile contro la sua decisione!

La colazione durò quasi un'ora, giacché furono servite uova alla coque, frutta e marmellata.

Non c'era la minima brezza, non il più leggero soffio d'aria, e le palme da cocco avevano un aspetto greve e pendulo. Rita taceva, il naso appuntito come quando, da piccola, assisteva da lontano a una festa.

Servivano, fra le altre cose, delle mele, delle vere mele rosse e verdi, la cui polpa doveva crocchiare sotto il coltello...

Lassù, all'albergo, la signora Herrmann si dava da fare perché tutto fosse pronto per ricevere il famoso lord.

Questi infine si alzò, riempì la pipa e, solo, si diresse verso poppa. Disse qualcosa a Kraus, che avrebbe voluto ribattere, ma l'altro non gliene diede il tempo: abituato a comandare, lo yachtman girò i tacchi subito dopo aver parlato, e i due marinai sospinsero cortesemente il giovane verso la scaletta e poi nella vedetta, che increspò l'acqua una volta di più.

«Fiasco!» sospirò Rita.

Sulla spiaggia Kraus raccolse la camicia e la tenne in mano, appallottolata. Prima di sparire tese il pugno verso lo yacht e passò davanti a Herrmann senza rivolgergli la parola.

Doveva aver camminato in fretta, senza fermarsi, perché meno di tre quarti d'ora più tardi apparve davanti agli occhi di Müller e Rita, agitato da far paura, tremante in tutto il corpo.

«Non mi hanno voluto!» gridò. «Mi condannano a crepare qui! Ecco come sono! Eppure ho promesso di lavorare per pagarmi la traversata. Che fastidio può dare, un uomo in più o in meno?».

«Cosa ha detto il proprietario?».

«Che le leggi marittime internazionali non gli permettono di imbarcare un passeggero senza l'autorizzazione del governo. Sembrava recitasse gli articoli del regolamento a qualche concorso.

Quanto alla contessa... Ho sentito benissimo, non ero così lontano: ha assicurato che ero il suo domestico e che volevo andarmene a dispetto del contratto... Non vuole che parta! Ha paura che vada in giro a raccontare quello che so...».

Ansimava ancora mentre, voltato verso la baia, contemplava lo yacht come sempre immobile e silenzioso.

«Ho qualcosa da chiederle, professore. Stanotte ho paura di andare a dormire lassù. La signora Herrmann è buona, ma se la contessa dice qualcosa... Capisce? Vorrei chiederle di lasciarmi sdraiare qui, in un angolino. Lavorerò, in cambio...».

Era la sua fissazione. Dagli Herrmann aveva segato legna per settimane, e a bordo dello yacht Dio sa che occupazione avrebbe trovato per non restare a riposo.

«Siediti» disse Müller.

«Non posso, ho bisogno di muovermi; sono troppo teso».

Era snervante guardarlo, con tutti i tic che lo agitavano.

«Vada a prendergli qualcosa da bere, Rita».

«Vado io!».

«Tu resta qua. Perché ci tieni tanto a tornare in Europa?».

«Perché non voglio morire qui!».

Müller non poteva staccare gli occhi da quel viso tormentato, e soprattutto da quelle pupille smarrite, che sembravano aver paura di fissarsi sugli oggetti.

«Lei non immagina quanto io stia male! Ho la sensazione di avere dentro un motore che gira sempre più in fretta. Riesco appena a respirare...».

Rita portò dei limoni e li spremette in una ciotola.

«Credo che sia fregata anche la contessa» disse Kraus, grossolano, con aria di trionfo. «Non ne sono sicuro, perché non ho sentito tutto e alcune parole in inglese mi sono sfuggite. In ogni caso, lui le diceva che non poteva scendere a terra perché non aveva avuto il tempo di chiedere l'autorizzazione a Guayaquil o a Chatam. Quell'uomo sa parlare solo di regolamenti. È più freddo di un pesce...».

Finalmente si sedette, con lo sguardo perso, e poi si mise lungo disteso a terra con un gemito di stanchezza.

«Mi terrà per stanotte, vero?».

«Come vuoi».

Questa promessa lo calmò, e chiuse gli occhi; sembrava che stesse per addormentarsi. Rita aveva preso il binocolo e a sua volta guardava lo yacht. Nulla di quello che stava succedendo somigliava a quanto si sarebbero aspettati: per esempio, i marinai stavano caricando sulla vedetta due piccole casse, della grandezza di quelle da whisky. Un po'"più tardi la vedetta accostò in prossimità del punto in cui si trovava Herrmann.

Questi fu interpellato, si alzò, parve sorpreso di quanto gli dicevano, esitò, e infine si mise in spalla una delle casse, mentre i marinai si sedevano sulla sabbia.

Già si preparava la tavola per il lunch. La contessa, Nic e Bambridge, in poltrona, conversavano e bevevano cocktail preparati dal cinese.

Nel frattempo il povero Herrmann portava la cassa su per il sentiero; raggiunta la capanna di Müller scorse i tre sulla collina.

«Che sta facendo?» gli chiese il professore con gli occhi che gli brillavano.

«Non lo so. Non ci capisco più nulla. Quei tipi sono venuti a dirmi di portare le casse all'albergo. "Chi vi manda?" ho chiesto. "La sua padrona"».

Herrmann si asciugò il sudore.

«Non ho voluto provocare uno scandalo, proprio oggi. Ma suppongo che ci sia sotto qualcosa...».

«Sì» borbottò Kraus, che non dormiva, senza muoversi. «C'è che ci fa passare tutti quanti per i suoi domestici! Ho letto la lettera che ha scritto alla Camel per ordinare ventimila sigarette. Sapete come si è firmata? "Contessa von Kleber, imperatrice delle Galápagos"».

Müller non rise, e si fece più attento.

«E non è tutto! Ha obbligato Nic a firmarsi: "Arenson, primo ciambellano". Comunque saranno quelli dello yacht a occuparsi di imbucare la lettera...».

Si voltò dall'altra parte e non disse più nulla, mentre Herrmann, sospirando, si rimetteva in cammino.

Tutta la giornata fu come una lunga domenica radiosa e sfaccendata. Sembrava che da un momento all'altro sarebbero suonate le campane, e a un certo punto Rita sussultò. Vicino alla casa Il gallo aveva cantato, e forse, nel dormiveglia, lei si era creduta per un istante in qualche villaggio tedesco.

Herrmann, un po'"vergognoso, portava la seconda cassa mentre sul ponte della nave veniva servito il lunch, così vicino che con l'aiuto del binocolo si distinguevano tutti i piatti..

Müller non lavorò, né mise piede nell'orto. Quanto a Kraus, dopo aver mangiato due uova strapazzate si addormentò di un sonno pesante di malato.

Ad accrescere ulteriormente l'impressione domenicale, si videro i marinai che portavano sul ponte - riparato dal sole da ampi teloni - leggii, spartiti, sedie e strumenti.

Mentre la contessa e Nic sprofondavano nelle poltrone, dieci marinai vestiti di bianco si disposero in semicerchio attorno al piano e Lord Bambridge, impugnando il violoncello, prese posto fra loro.

Era difficile capire che cosa suonassero, perché i suoni non arrivavano fino alla collina. A giudicare dalla durata e dall'andamento della musica sembrava Beethoven.

Non mancava nulla, neppure gli applausi del pubblico di due persone, neppure l'intervallo trascorso in conversazione.

Herrmann, che era al suo secondo viaggio, si sedette accanto a Müller.

«Non scenderanno a terra» confermò. «Uno dei marinai parla tedesco, l'ho chiesto a lui».

«Questione di autorizzazione?».

«Ha parlato anche di questo. Soprattutto, sembra che Lord Bambridge non sia molto socievole. Riceve volentieri tutti, ma a casa sua! Ci tiene a rimanere comunque il padrone... Quando lo yacht ha attraversato il canale di Panama, ne ha quasi fatto una malattia perché lo hanno obbligato a usare i trattori del canale. Non visita mai nessuna città, e nei porti resta quasi sempre a bordo...».

Herrmann aveva altre notizie, ma esitava a comunicarle per paura di esser preso per una malalingua.

«Lei sa che le casse non sono chiuse, e le confesso che, con mia moglie, ho guardato che cosa c'era dentro. Nient'altro che dieci bottiglie di whisky, dieci bottiglie di porto, venti pacchetti di sigarette Camel, un accendino e qualche scatoletta. Se avesse visto la lista che la contessa e Nic avevano preparato ieri...».

Era furibondo anche lui, e non soltanto perché l'avevano fatto lavorare come un domestico.

La presenza dello yacht era snervante. Fu quasi un sollievo quando, dopo un secondo brano musicale, il lord riaccompagnò gli ospiti fino alla scaletta.

«Che vi avevo detto? Vuole levare l'ancora stasera e, fra quattro giorni, assistere alle feste di Lima».

La contessa e Nic presero posto nella vedetta, e qualche istante più tardi saltavano entrambi sulla spiaggia. Agitarono a lungo le braccia in direzione dello yacht, ma Lord Bambridge era già rientrato nei suoi appartamenti.

Cominciò allora una serata unica per l'isola. Come villici in una domenica di canicola, Müller, Rita, Kraus e Herrmann rimasero sdraiati sulla collina a guardare distrattamente lo spettacolo della baia.

Parlavano poco. Lo yacht era diventato il centro del mondo, e non uno dei suoi movimenti sfuggiva agli spettatori.

In meno di un quarto d'ora la vedetta riprese il suo posto fra i due fumaioli sul ponte superiore.

Un fumo spesso e nero non tardò a sporcare un piccolissimo lembo di cielo, e poco dopo la catena dell'ancora girava lentamente mentre lo yacht parve d'un tratto ondeggiare di nuovo.

Il sole, in quel momento, era già basso sulla linea dell'orizzonte, e metà del cielo si faceva rosea come il volto di coloro che stavano a guardare.

Allora calò il silenzio, un silenzio tale che Herrmann dimenticò di inframmezzarlo con le sue timide riflessioni. Uno sbuffo di vapore annunciò il colpo di sirena che seguì qualche istante più tardi, e si vide lo yacht prima di fianco, poi di fronte, quindi ancora di fianco, per poi discernere soltanto la poppa e la bandiera.

Dietro, l'acqua non era bianca ma di un rosa artificiale da sorbetto.

E la laguna poco profonda s'iridava di tutte le tinte dei coralli, dal rosso intenso al verde smeraldo.

Mai l'orizzonte era sembrato così lontano. Era realmente in un altro mondo, un mondo ignaro della terra, incupito da quel sole ancora incandescente.

Rita voltò a metà il viso e le si strinse la gola. Perché tutto un lembo di cielo era già morto.

La porpora e la luce non arrivavano più fin là, dove regnava un giorno verdastro, di una nettezza implacabile.

Mentre altrove gli alberi fiammeggiavano nel crepuscolo, da quella parte gli oggetti assumevano posture inumane: parevano rigidi, precisati, acuiti da un giorno venuto da altrove e non dal nostro sole, come se la terra si fosse raffreddata all'improvviso, come se, fuggendo dalla sua orbita rassicurante, si fosse introdotta in un nuovo sistema di pianeti.

Eppure lo yacht avanzava lentamente sull'acqua piatta e lucente, e le ondulazioni che aveva creato vibrarono ancora a lungo dietro di lui.

Il tempo appena di guardare Müller, illuminato di rosso come da un fuoco d'artificio, e Rita, volgendosi verso il mare, lanciò un'esclamazione.

Stava di nuovo cambiando tutto, era già cambiato. Per un secondo, non più di uno, aveva sentito un aspro raggio di luce verde trafiggerle le pupille, e ora la porpora svaniva dal cielo, invaso dal verde da un'estremità all'altra.

Nello stesso istante il fogliame, fino a quel momento immobile, cominciò a fremere, e i fili d'erba a curvarsi sotto una brezza nata dalla notte.

Ma non era notte, ancora. Il verde inghiottiva tutto, tranne nuvole minuscole che restavano di un bianco madreperlaceo, perdute in un cielo troppo vasto dove non si sarebbero mai ricongiunte.

Dello stesso bianco puro, spaventevole, era lo yacht, col quale navigava verso l'infinito il lembo di bandiera rossa che sarebbe calato assieme al sole.

Il giovane Kraus si mosse; era sulle spine. Herrmann tossì. Quanto a Müller, pareva avesse occhi d'aquila, come se, fissando il tramonto, sfidasse l'universo.

Il verde volgeva al giallo. Il giallo, qua e là, si tingeva di violetto.

E si tornò al rosso, un rosso nuovo, un rosso di mica che riflette le quiete fiamme di una stufa. L'aria era traversata da brividi; nuovi sentori esalavano dal terreno. Alberi e foglie erano ormai neri, ma di un nero finemente dentellato, disegnato a puntasecca su un fondo appena più chiaro.

«Eccola...» sospirò Kraus.

Apparve una forma bianca, un vestito. Era la contessa che saliva il sentiero al braccio di Nic.

Si erano certo voltati continuamente per contemplare, anche loro, quel crepuscolo abbrutente.

Si voltarono di nuovo. Gli altri tacevano per non tradire la propria presenza.

Era la prima volta che si trovavano riuniti così, al completo, e certo provavano tutti il medesimo senso di prostrazione.

Nessuno poteva sfuggire a quella sensazione troppo forte per i nervi, per le arterie di un uomo. Una lotta gigantesca, lotta di astri, lotta di stelle e di prismi si combatteva nel cielo, e loro vedevano soltanto degli aloni di cui non potevano comprendere i movimenti.

Non sembrava che lo yacht fuggisse? Si scorgeva ancora il fumo, si indovinava la scia mentre la fredda luce della notte finiva d'invadere l'isolotto perduto nell'oceano.

Rita si mosse. Avrebbe voluto che qualcuno parlasse, non foss'altro per sfuggire a quel sortilegio.

Non pensava a nulla. Nessun pericolo la minacciava, eppure mai una disperazione simile l'aveva pervasa, una disperazione senza motivo, senza forma, una disperazione simile a quella luce verde che aveva trafitto il cielo.

La contessa si rimise in cammino. Passò a dieci metri dal gruppo, si fermò un istante e riprese la strada esclamando:

«Quando il nostro amico Bambridge tornerà, la settimana prossima...».

Perché quella frase suonò così sinistra? Perché tutti capirono che lo yacht non sarebbe mai tornato e che l'isola era ancorata, e per sempre, alla sua solitudine?

La voce aveva un che di falso. Quella di Müller non fu più rassicurante quando, alzandosi, disse:

«Non dimentichi il binocolo, Rita!».

Un maiale che passava nella sterpaglia la spaventò, e non si sarebbe stupita di veder sorgere davanti a sé, dal caos di quegli alberi strani, una creatura apocalittica.

Per tutta la notte dovette vegliare Kraus che delirava.

10

 

I giorni scorrevano goccia a goccia. Da cinque anni il corso del tempo era scandito da un gesto che Müller faceva ogni mattina: a uno dei pali della capanna era appeso un calendario che la San Cristóbal portava con le provviste, e il professore, con un tratto di matita, vi spuntava la data.

Altrimenti chi avrebbe contato i giorni, e anche le lune?

Da qualche tempo, però, Müller non toccava più il calendario; Rita capiva che questo voleva dire qualcosa, ma non osava fare domande.

Non osava nemmeno tracciar lei il segno a matita, e ricorreva all'inganno, con un timore infantile di essere colta in fallo: ogni giorno dava un leggerissimo colpo di spillo a uno dei numeri e il forellino, quasi invisibile, le era sufficiente per misurare il tempo.

Quel gesto quotidiano aveva inoltre creato fra lei e il calendario un legame più sottile. Edito in spagnolo da un droghiere di Quito, il calendario era ornato di una cromolitografia in cui erano raffigurate delle piroghe indiane su una rapida.

Rita, rivedendo ogni mattina quel disegno da vicino, finì per conoscerlo nei minimi particolari, e quella ripetitività le riportò alla mente un'altra stampa che aveva visto da bambina con una frequenza assillante.

Era un po'"prima della guerra, nella periferia di Danzica, dove era nata. All'angolo della strada c'era una drogheria la cui porta, aprendosi, azionava un campanello che a Rita sembrava ancora di sentire.

«Un lecca lecca da due pfennig» chiedeva con le dita strette sulla moneta.

Una caramella molto acidula, verde e rossa, che poi leccava per un'ora di seguito finché non le bruciava la lingua!

La litografia era in quel negozio, a destra, e rappresentava due teste di ragazze, «la bruna e la bionda». Doveva essere la réclame di una birreria...

Da qualche settimana Rita ci pensava spesso. Folate di ricordi le tornavano alla mente, e lei provava un senso di inquietudine.

Dove aveva letto che è proprio prima di morire che un uomo rivede più nitidamente i particolari della sua prima infanzia?

Ora, piccoli fatti che credeva dimenticati le riaffioravano alla memoria, come il calendario, l'odore di cannella e di candele che regnava nel negozio, le pantofole a fiori del vecchio bottegaio che viveva con la moglie dietro il bancone, e probabilmente ci dormiva anche.

Rita avrebbe voluto pensare ad altro, ma di colpo un'immagine s'imprimeva sulla sua retina e non riusciva più a scacciarla, come l'immagine di suo padre, che di mestiere faceva il cassiere - ma lei lo rivedeva nella sua uniforme verde bottiglia della Landsturm.

Aveva un paio di mustacchi rossi e, durante la guerra, scriveva lettere da Liegi dove faceva il sorvegliante in un ospedale e dove era morto di febbre spagnola.

Rita si ricordava anche di una fotografia di Müller ufficiale medico, con il grande dolman grigio e la sciabola...

Che bisogno aveva di riesumare quei ricordi? E a che pensava, lui, nelle lunghe giornate che trascorrevano fianco a fianco? Non lo diceva mai. Non lavorava nemmeno più al suo libro e, a volte, Rita si chiedeva se i loro pensieri non seguissero corsi paralleli.

Con il carattere che aveva, il professore poteva andare avanti così per anni, senza parlarne mai. Sia che avesse un po'"di nostalgia della vita tedesca, sia che l'avvenire lo preoccupasse confusamente, Rita non lo avrebbe mai saputo.

Erano già quattro mesi che la contessa e i suoi amici erano arrivati sull'isola, più di una settimana che l'ultimo yacht era ripartito dopo un breve scalo.

Kraus dormiva di nuovo dagli Herrmann, ma certi giorni arrivava, più nervoso che mai, dichiarando che non avrebbe mai più rimesso piede «lassù».

«La contessa viene tutti i giorni a lavorarsi Maria perché mi convinca a rimettermi con lei.

Maria non osa rifiutare. Ne ho abbastanza di sentirmi ripetere sempre la stessa cosa...».

Diventava ingiusto.

«La signora Herrmann ha un animo da serva» dichiarava.

E un po'"più tardi piangeva chiedendo perdono. Sembrava che la volubilità della contessa lo avesse contagiato. Aveva continui sbalzi d'umore e non si sapeva più come prenderlo.

Spesso si infuriava con il professore, specialmente quando aveva avuto la febbre.

«Bella scienza, se non può guarire un uomo!» lo scherniva. «Confessi che nemmeno i medici credono in se stessi!».

Si comportava male per ore e poi, bruscamente, cercava di farsi perdonare con qualche piccola, delicata attenzione. Difficilmente consumava un pasto nella capanna senza rendere in cambio qualche piccolo servizio: in questo modo aveva riparato tutta una parte di tetto che stava crollando.

Quanto ai sentimenti di Müller nei suoi confronti, districarli non era facile. E poi anche lui, insensibilmente, aveva cambiato carattere. Lui che era così geloso della sua individualità, così orgoglioso del suo isolamento, cercava la compagnia di Herrmann o di Kraus ai quali, a volte, faceva dei gran discorsi.

Quando la contessa, lassù, aveva visto il contenuto delle casse le era preso un accesso di rabbia, ma l'indomani aveva spiegato a Maria che il suo amico Bambridge sarebbe tornato assai presto con un carico di provviste più complete. Non le piaceva ammettere una sconfitta.

«Voleva portarci alle feste di Lima», affermava «ma io non voglio lasciare l'isola, che ormai considero la mia vera patria. Il governo dell'Ecuador me l'ha donata, ed è per me un sacro pegno».

Le sue menzogne aumentavano di giorno in giorno. Più la vita diventava difficile, più provava la necessità di sognare ad alta voce.

«Quando il Kronprinz sarà al potere, otterrò per voi dei titoli nobiliari, perché tengo a creare a Floreana un'aristocrazia che si perpetui».

Maria non diceva nulla, ma forse, avvicinandosi il termine della gravidanza, era lusingata all'idea che suo figlio sarebbe stato nobile.

La siccità continuava. Contrariamente ai due anni precedenti, nemmeno un temporale aveva rinfrescato il suolo; i tori che s'incontravano erano fiacchi e macilenti. Ogni mattina Müller osservava con occhi ansiosi il filo d'acqua che scorreva vicino a casa sua, e un giorno Rita, sentendolo borbottare, si accorse avvicinandosi che il ruscello era in secca.

Era l'ora della visita di Herrmann che, quando arrivò, trovò il professore in grande agitazione.

«Che succede lassù?» gli chiese Müller a bruciapelo.

«Che intende dire?».

«Chi ha trafficato con l'acqua, stanotte? Dica la verità! La sorgente non può essersi prosciugata da un giorno all'altro!».

«Stavo appunto per parlargliene: stanotte ho sentito un rumore e mi sono alzato. Lei sa, non è vero, che la contessa aveva una riserva d'acqua piovana molto limitata... Mia moglie le ha detto l'altro giorno che il ruscello non avrebbe tardato a prosciugarsi, e stanotte, con Nic, si è data da fare a riempire le botti».

«Venga con me».

Non era più Müller il filosofo: aveva l'aria caparbia di un villico che va a esporre le proprie lagnanze al castellano del villaggio. Cammin facendo non aprì bocca e passò vicino a Jef senza accorgersi di lui.

Non entrò dalla contessa, ma si diresse verso la sorgente, da cui ricominciava a stento a scaturire un po'"d'acqua.

Dalla veranda lo stavano certo osservando. Herrmann lo seguiva impacciato, mentre lui andava e veniva con fare inquisitorio ed entrava nel giardino per assicurarsi del contenuto dei barili.

Solo allora salì i pochi scalini della casa e si trovò davanti alla contessa che gli veniva incontro sorridendo.

«Che bella sorpresa, professore! Mi scusi se la ricevo in vestaglia...».

Nic si radeva nella stanza accanto, e lo si vedeva in piedi davanti a uno specchio.

«Non è una sorpresa e lei non deve affatto ricevermi. Sono qui per l'acqua».

«Quale acqua?» disse lei, stupita.

«L'acqua che ci ha preso stanotte».

La contessa cercò di ridere.

«Mi accusa di aver rubato dell'acqua?».

«Esattamente. La sorgente appartiene a tutti, e il suo flusso diminuisce di giorno in giorno. È ingiusto che una sola persona ne approfitti per fare provvista».

«È stato Herrmann a fare la spia?».

A questo erano arrivati! Parole come rubare, proprietà, spionaggio, per un po'"d'acqua!

«Avete sentito, Nic?».

Nic venne sulla soglia, asciugandosi il sapone dalle guance con un asciugamano di dubbia pulizia.

«Che succede?».

«Vogliono impedirci di prendere l'acqua!».

«Chiedo scusa, ma non ho detto questo. Ognuno ha il diritto di prenderne ogni giorno per le proprie necessità, sino a quando non ce ne sarà più».

«E che succederà allora?».

Müller alzò le spalle.

«Non risponde, vero?» s'infuriò la contessa. «Il punto è che le, sa benissimo cosa succederà.

Lei e gli Herrmann avete riserve di acqua piovana, perché eravate sull'isola prima di noi, e quindi potete aspettare i nuovi temporali. Ma noi? Confessi che è quello che vuole! Vi diamo fastidio.

Vorreste vederci andar via, e non vi fermate davanti a nulla...»:

Herrmann guardava fuori, Nic si versava del whisky senza pensare a offrirlo anche a loro.

«Signora, le ripeto che non prenderete più acqua, all'infuori delle vostre necessità quotidiane» disse Müller senza lasciarsi smontare. «È questione di vita o di morte per tutti. Se avete sprecato le vostre provviste, tanto peggio per voi».

«Vuol forse rivolgersi alla polizia?»

«No, signora, ma intendo essere io stesso la mia polizia».

«Mi piacerebbe vederla far la guardia vicino al ruscello».

«Mi ci vedrà».

«È la guerra?».

«Come vuole».

E se ne andò, seguito da Herrmann che abbozzò un goffo saluto. Non lo avevano mai visto così.

«Se sarà necessario monteremo la guardia a turno» decise. «Non possiamo subire tutti le loro follie».

Quella faccenda lo appassionava: il pomeriggio tornò al ruscello e piazzò dei contrassegni per assicurarsi che non venissero fatti nuovi prelievi.

Incontrò Kraus, che sembrava impazzito.

«È vero che rischiamo di morire di sete?».

«Chi lo dice?».

«La signora Herrmann ha pianto tutta la mattina. La contessa è venuta a trovarla e afferma che fra otto giorni non ci sarà più una goccia d'acqua in tutta l'isola».

«È un'esagerazione».

«Per quanto tempo ne abbiamo?».

Ne parlavano come di una catastrofe, con sguardi tragici.

«Non so. Forse per qualche settimana...».

«Ma la San Cristóbal non arriva fra cinque settimane?».

«Dovrebbe».

«Che intende dire?».

«Che in cinque anni ha saltato per due volte uno dei viaggi. È obbligata a venire una volta l'anno, ma la seconda è facoltativa e dipende dal lavoro che c'è a Guayaquil».

Kraus scoppiò in una risata contratta.

«Magnifico!» gridò, già disperato. «Così creperemo tutti qui, e al prossimo passaggio troveranno solo degli scheletri!».

Sotto la camicia lacerata si intravedeva un torace già scheletrico, e gli occhi erano talmente cerchiati che, senza volerlo, gli altri ne distoglievano lo sguardo. Anche la voce era cambiata, era diventata più bassa, più profonda, in contrasto con la sua età.

«Forse ci sarà un temporale» disse Müller senza convinzione.

Perché non tentava di rassicurarlo? Anche se sull'isola non esistevano gerarchie, era lui il personaggio centrale, e tutti gli avrebbero prestato fede.

Invece, a volte sembrava quasi che provasse un piacere maligno ad accrescere il panico. Con gli atteggiamenti, coi silenzi, più che con le parole.

A guardare le cose in faccia la situazione non aveva nulla di spaventoso. Certo, la stagione secca si preannunciava più lunga del solito, ma Müller, come gli Herrmann, aveva provviste d'acqua piovana, e centellinandole si poteva vivere per settimane, forse per mesi.

Infine, non c'era nessuna ragione precisa di credere che la San Cristóbal non sarebbe arrivata con un carico di viveri freschi.

Nessuno, insomma, avrebbe potuto dire come fosse nata quell'angoscia che solcava i volti ogni giorno di più. Tutto era cominciato con quel vago malessere che si era manifestato quando il caso aveva riunito tutti gli abitanti davanti al tramonto.

Ma quel tramonto, di per sé, non aveva niente di straordinario. Cento volte ce n'erano stati di altrettanto solenni e impressionanti.

Era dipeso allora dal fatto che si erano trovati tutti riuniti a guardarlo, a guardare soprattutto, come un simbolo, lo yacht che si allontanava?

Kraus era ammalato, ma Müller era persuaso che sarebbe vissuto fino all'arrivo della goletta.

Eppure non glielo diceva apertamente. Scrollava le spalle e assisteva al suo terrore senza far nulla per dissiparlo.

La contessa, lassù, s'incupiva in una solitudine che si faceva sempre più disperata; ma chi le aveva mai dato dei consigli? Chi aveva fatto qualcosa per aiutarla, o per distoglierla dal suo progetto?

Bisognava davvero credere che tutti quanti, improvvisamente, stessero diventando malvagi?

Müller era arrivato al punto di guardare Rita con impazienza, e ci fu una scenata ridicola, una vera e propria scenata coniugale, con tanto di rimproveri, perché aveva cucinato male due uova.

«Non sei mai stata capace di fare neanche quei pochi lavoretti che ogni donna deve saper padroneggiare!».

Rita aveva pianto. A che livello di nervosismo, d'inquietudine inespressa erano arrivati! Sul foglio su cui talvolta buttava giù le sue osservazioni sulla contessa, Müller aveva scritto: «Ogni impresa di questo tipo è votata al fallimento».

Credeva ancora alla sua impresa personale, al suo sogno di solitudine e di purezza filosofica? Un particolare colpì vivamente Rita e contribuì più del resto a scoraggiarla. Una sera si cenò dagli Herrmann, perché tutto faceva pensare che il parto avrebbe avuto luogo nel corso della notte. Jef aveva ucciso dei piccioni e Maria, ancora in forze nonostante il suo stato, aveva come sempre fatto le porzioni nei piatti.

Dimenticava che il professore non mangiava assolutamente carne. Rita fu sul punto di intervenire ma, nello stesso istante, vide che Müller cominciava a mangiare come se niente fosse.

Era talmente sbalordita che lui se ne accorse, la guardò freddamente e abbozzò un sorriso cinico che sarebbe rimasto a lungo nella memoria della giovane donna.

Che cosa aveva voluto dire? Che si rassegnava? Che si era preso gioco di lei? Che sì erano sbagliati entrambi? Oppure infrangeva la sua regola per un semplice riguardo agli Herrmann?

Gli ospiti non notarono nulla e, come previsto, le doglie ebbero inizio verso le dieci. Jef e Kraus furono mandati a dormire nella capanna dei Müller. Da lontano si vedeva la luce in casa della contessa e si sentiva l'eco del grammofono.

La coppia, lassù, sapeva che il professore era dagli Herrmann, ed era certamente questo il motivo della musica, che non si sentiva da molte settimane. Rita avvertì il botto di un tappo a champagne e riconobbe la voce della contessa che cantava.

La notte era serena, e una debole brezza faceva frusciare le palme da cocco una contro l'altra.

Sul letto, Maria gemeva in modo strano: non sembrava che soffrisse, ma che lo facesse per abitudine. Suo marito si era seduto fuori, con Müller.

Le sorprese non erano finite: da quando era sull'isola, Herrmann non fumava più, per motivi di salute oltre che per convinzione. Ora, però, aveva tirato fuori da chissà dove una vecchia pipa e, lacerando delle sigarette lasciate dalla contessa, l'aveva riempita e fumava.

I dischi si succedevano ai dischi, rumorosi gli uni come gli altri, evocatori di una Parigi e di una Berlino lontane. La contessa cantava i ritornelli a squarciagola e Nic strimpellava la chitarra.

«Mi chiedo se sarà normale» mormorò Herrmann a voce bassissima, fra uno sbuffo di tabacco e l'altro, rivolto a Müller che era seduto al suo fianco.

Pensava al bambino che stava per nascere, e che forse avrebbe assomigliato a suo fratello.

«Sua madre è sana e vigorosa. Io non sono mai stato ammalato...».

Müller avrebbe voluto farlo tacere. Era snervante quanto la musica, quanto i gemiti della partoriente. La lampada a petrolio illuminava male, dava un'idea di povertà, faceva pensare a un parto in una sordida catapecchia di campagna. Una vecchia brocca, una bacinella, lembi di biancheria strappata completavano l'evocazione della miseria del mondo.

«Mi sembra che ci siamo...» fece Herrmann sobbalzando. «Mi ricordo la prima volta: avevo il miglior medico della città, perché uno dei nostri professori aveva accettato di assistere mia moglie gratuitamente...».

Ascoltava, poi parlava per dominare l'impazienza. Si sentivano i passi di Rita che andava e veniva intorno al letto. C'era un gran fuoco acceso, in modo da aver sempre acqua bollente, e l'odore di legna bruciata si mescolava all'odore della notte.

Mentre guardava il cielo, Herrmann se ne uscì con una frase così incongrua che Müller rimase un attimo perplesso.

«Lo sa che da quando sono qui non ho ancora visto la Croce del Sud? Avrei voluto chiederle di indicarmela, ma non ho mai osato...».

Non era ancora sorta; si sarebbe vista all'orizzonte solo verso le due del mattino. Invece, una polvere di stelle sbarrava il cielo con la sua scia lucente, e sembrava che gli astri non fossero mai stati tanto numerosi.

«Mi sarebbe piaciuto avere un libro di astronomia per cercare di riconoscere gli astri, la sera.

Chiederò alla San Cristóbal di portarmene uno col prossimo viaggio...».

Un grido l'interruppe, lacerante, e l'istante dopo si senti nuovamente il grammofono, mentre Müller entrava nella capanna chiudendosi la porta alle spalle.

Fuori rimase solo Herrmann, tutto ansioso; si alzava, si sedeva, lasciava spegnere la pipa e sfregava un tizzone per riaccenderla.

Raggi di luce filtravano fra i bambù delle pareti: un tratto più spesso si disegnava sotto la porta.

E sempre, sopra la testa, quegli astri immobili...

Come poteva Herrmann percepire tutto così lucidamente? Uno scricchiolio gli colpì l'orecchio; ascoltò, intuì che veniva dalla parte della sorgente, sentì il rumore dell'acqua in un recipiente di metallo.

Allora, per un istante, dimenticò il resto, aggrottò le sopracciglia e si precipitò in quella direzione.

Doveva passare davanti alla casa della contessa. La veranda era illuminata, un disco suonava. Ma, più lontano, qualcuno stava camminando e Nic tornava dalla sorgente con due grossi fusti pieni di liquido.

Herrmann era sul suo cammino. Senza scomporsi, l'ebreo lo guardò negli occhi e continuò per la sua strada fino a casa, mentre il marito di Maria, sentendo un nuovo grido, si stupì di essere lì e corse verso la capanna.

L'indomani lo avrebbe detto a Müller! Non c'era fretta. Lui doveva pensare solo a sua moglie che partoriva.

«Non è finito?» gridò attraverso la porta.

Non ci fu risposta e trascorse una lunga mezz'ora, sempre con quello snervante sottofondo musicale che gli altri prolungavano per far loro rabbia.

Erano almeno le due del mattino quando la porta si aprì e apparve Müller, calmo, indifferente.

«Allora, professore?».

«Una bambina... Rita passerà la notte qui nel caso ci sia bisogno di lei».

Quanto a Müller, già se ne andava a piccoli passi verso la sua capanna, dove Jef e Kraus dormivano fianco a fianco. Come per caso, per tutto il tragitto ebbe davanti agli occhi la famosa Croce del Sud che Herrmann non aveva mai visto, e sul suo viso, forse proprio per questo, comparve più volte un sorriso enigmatico.

Si sentiva addosso un odore di parto scialbo e dolciastro. La bambina non l'aveva neanche guardata: Rita si era incaricata di lavarla e lui l'aveva vista di sfuggita, informe, brutta.

Al suo ingresso Kraus si rizzò sul suo giaciglio e disse in un soffio:

«Mi ha fatto paura!».

«Sdraiati».

«Stavo sognando qualcosa, non so più cosa... Ah, sì! La signora Herrmann ha partorito?».

«Una bambina... Adesso è finito, dormi».

Lui si sedette sulla sua sedia e lì si assopì un poco prima del levar del giorno.

11

 

A dimostrazione di quanto la questione dell'acqua fosse diventata lacerante, vedendo la sorgente finalmente prosciugata tutti provarono un gran sollievo.

A questo proposito, Rita sì sovvenne di una visione dei tempi di guerra che più di altre l'aveva colpita. Era l'epoca in cui in Germania mancavano i viveri. Nelle case le provviste si facevano sempre più scarse, ed era necessario proteggerle dai ladri.

Dunque, una mattina Rita aveva sorpreso un uomo che passava da uno stretto lucernario per introdursi nel granaio e rubare le zollette di zucchero. Quell'uomo era suo nonno, un ex capitano sempre rigido e dignitoso, con un'acconciatura alla Bismarck.

Bismarck che ruba lo zucchero! Era così che l'aneddoto era stato classificato nella sua memoria.

Herrmann invece andava e veniva con aria torva, e i suoi passi esitanti lo portavano sempre nei pressi del ruscello; lì si nascondeva, restando accucciato per delle ore a spiare l'arrivo di Nic o della contessa.

Arrivava alla capanna:

«Non li ho sorpresi, ma ho visto delle impronte» si affrettava ad annunciare.

C'era poco da ridere: Müller aggrottava le sopracciglia cespugliose e, quando andava a visitare Maria, ne approfittava per gironzolare a sua volta attorno alla sorgente, dove piazzava dei pezzetti di legno come contrassegni.

L'acqua, comunque, era ridotta a poche gocce, ma quelle poche gocce, giust'appunto, volevano entrambi conservarle sino alla fine per la comunità.

Una mattina la contessa era venuta a trovare Maria e la bambina; al momento di andarsene aveva fatto per uscire e poi, improvvisamente, era tornata indietro.

«A proposito, mia buona Maria...»

Esitava. Nessuno, appena si toccava la questione dell'acqua, riusciva a essere spontaneo.

«Dovrebbe dire agli uomini di fare attenzione. Sono sempre lì a spiarci, e Nic s'innervosisce; ha un carattere piuttosto violento e l'avverto che porta sempre una pistola con sé».

Maria riferì queste parole in presenza di Kraus, che era in uno dei suoi periodi collerici e gridò:

«Se solo avessi un'arma ci penserei io a liberare l'isola da quel farabutto!».

Due giorni dopo il letto del ruscello era asciutto e la questione non si poneva più negli stessi termini.

Perché Müller non parlava a Rita con maggior franchezza? E perché anche lei continuava ad aggirare la questione? Forse, finché se le portavano dentro senza esternarle, certe idee sembravano loro meno gravi, meno vere, meno ufficiali.

Per parecchi giorni, ad esempio, Rita vide il professore accostarsi al calendario con la stessa falsa disinvoltura del nonno che va a rubare lo zucchero. Avendo cessato da tempo di segnare i giorni, però, gli era impossibile stabilire la data, a meno che non avesse notato i colpi di spillo di Rita.

Subito dopo la puntatina al calendario, aveva preso l'abitudine di raggiungere a piccoli passi il luogo da cui si scorgeva la baia.

Una mattina, vedendolo rientrare con la fronte aggrottata, Rita gli disse, cercando di assumere un tono leggero:

«Ha già sei giorni di ritardo».

«Chi?».

«La San Cristóbal, lo sa bene».

«Come può aver contato i giorni se...».

Lei lo attirò vicino al calendario, gli indicò col dito i forellini. Müller evidentemente non sapeva se arrabbiarsi o mettersi a ridere: stava fermo davanti ai numeri che si succedevano in serie di sette, poi davanti alla stampa delle piroghe.

«Allora non verrà» finì per sentenziare.

Questa frase fu detta con un distacco che non sembrava simulato. Forse, come per l'acqua, era addirittura un sollievo non dover più attendere.

A dire il vero, Müller e Rita non avevano nulla da aspettarsi dalla San Cristóbal. Erano abituati a vivere delle risorse dell'isola, vale a dire del pollaio e dell'orto, ed erano capaci di far durare la loro riserva d'acqua ancora per due o tre mesi.

Gli Herrmann dovevano essere nella stessa situazione, perché non era il primo anno che passavano a Floreana.

Ma lassù? Gli altri?

La giornata in cui Müller aveva formulato il suo pronostico non era ancora trascorsa che il professore vide spuntare Kraus, eccitatissimo.

«Bisogna che mi stenda un annuncio in inglese da affiggere a Black Bay Anchorage» disse.

«Scriva che un giovane tedesco supplica il primo battello che passerà di imbarcarlo e di depositarlo dove potrà».

Müller si sedette docilmente al suo tavolo da lavoro e scrisse senza convinzione. C'era effettivamente un palo sulla spiaggia, vicino alla capanna abbandonata. Era là che, all'occorrenza, venivano affissi dei messaggi nella speranza che qualche pescatore, o uno yacht, toccasse terra. Ma non era la stagione degli yacht e solo un pescatore delle isole, uno come Larsen, avrebbe potuto far tappa a Floreana.

«Cosa pensa che sarà di noi?» chiese Kraus agitando il foglio per far seccare l'inchiostro.

«Assolutamente nulla».

«Come sarebbe, assolutamente nulla?».

«Voglio dire che non è cambiato nulla».

«Si vede che non sa in che stato sono, lassù: La contessa è arrivata al punto di raggiungermi nel bosco. Ha pianto, mi ha supplicato di tornare da lei giurando che altrimenti morirà presto. Pare che non abbiano più viveri, o quasi, e che stiano vuotando avidamente le ultime bottiglie di whisky... A un certo punto si è gettata a terra e ha cercato di abbracciarmi le ginocchia. Creperemo tutti, glielo dico io!».

Corse verso la spiaggia per affiggere il suo messaggio.

Certo la vita era diventata difficile, perché a causa della lunga siccità tutti accusavano una spossatezza che rendeva faticoso ogni movimento.

Viveri freschi non ce n'erano. A parte le noci di cocco, si poteva fare affidamento solo sulle provviste fatte nella buona stagione; le galline, sparute, non deponevano più le uova, e per giunta bisognava limitarsi a un solo bicchier d'acqua, accontentandosi di una toilette sommaria.

La mattina ci si svegliava sfiniti, più stanchi di quando si era andati a letto. Il caldo era così opprimente che in certi giorni Herrmann era restio a camminare un'ora per far visita al professore.

Ciò nonostante Maria era in piedi, più pallida, un po'"smagrita, ma efficiente; anzi, la sola a esserlo e a occuparsi come sempre delle sue cose. Ma ogni visita della contessa la lasciava meno ottimista.

«Fra meno di quindici giorni sarà completamente pazza» confidò al marito, che lo ridisse a Müller.

Aveva già un tic nervoso! Siccome non le erano rimaste più sigarette, si passava incessantemente la lingua sulle labbra e le mordicchiava.

Il suo sguardo era diventato vago e sfuggente, perché viveva in uno stato di semiubriachezza perpetua. Eppure non dimagriva, anzi il volto tendeva ad appesantirsi, ma aveva preso un colorito lunare.

«E io che ero venuta qui per fare l'amore!» esclamò un giorno con una risata sinistra. «Te lo immagini, Maria? Nic non mi parla neanche più, se non per rimproverarmi e accusarmi di averlo attirato in questo inferno...».

Avevano comunque qualche botte d'acqua, quelle stesse che avevano rubato e che per poco non avevano scatenato una tragedia. Ma che restava loro da mangiare? La contessa non ne parlava mai. Eppure, Maria credette spesso di sorprendere un bagliore nel suo sguardo quando, ad esempio, la guardava pelare le patate.

Nell'attesa che qualcuno rispondesse al suo appello, Kraus, che aveva bisogno di agire come di nutrirsi, si era messo in testa di costruire una piroga, con gran gioia di Jef che lo aiutava nel lavoro. Aveva dunque tolto la corteccia a un tronco d'albero lungo cinque metri e lo scavava provando tutti i sistemi possibili, bruciando il legno all'interno come aveva visto su qualche incisione antica.

Il risultato era ancora informe, e certamente quella barchetta non sarebbe mai passata sulla barriera corallina senza capovolgersi.

Ma forse Kraus aveva soltanto bisogno di non pensare. Quando era solo con se stesso ripiombava nell'angoscia, o aveva accessi d'ira che nessuna parola poteva poi placare.

Fra tutti, Herrmann era il più calmo. Si era rimesso a fumare la pipa e per qualche giorno si distrasse, stante l'assenza totale di tabacco, sperimentando le varie piante che si potevano fumare. Si era infine deciso per la fibra di cocco, e alla moglie che si lamentava dell'odore rispose che gli toglieva la fame e la sete.

Rimase tre giorni senza scendere da Müller, per pigrizia; poi ci tornò, ebbe l'impressione che lo scienziato fosse sempre più nervoso e, rincasando, non nascose alla moglie la sua opinione.

«Il professore sta cambiando di giorno in giorno. Non mi stupirebbe che fosse malato.

Oppure c'è qualcosa che lo tormenta. Mi ha chiesto di tutti, come se facesse l'inventario».

Era vero. Sardonico, Müller chiedeva:

«E Nic?».

«Non lo si vede più. Sembra che abbia Il collo pieno di foruncoli...».

«E la contessa?».

«Viene a lamentarsi la mattina, quando io non ci sono».

«E Maria?».

«Lei tira avanti. La piccola, poi, è magnifica».

Era senz'altro quello il segreto della calma di Herrmann: aveva una bambina normale, su cui non sembrava incombere nessuna tara!

«E Jef?».

«Lavora tutto il giorno alla piroga, e la sera è meno stanco di Kraus. Crede che Kraus partirà sul serio con un'imbarcazione del genere?».

Il professore rispose con un gesto evasivo e un'ombra di sorriso, come faceva sempre.

Sembrava quasi che sapesse tutto, ma che avesse giurato di tacere. Era esasperante, al punto che persino il timido Herrmann ne provava fastidio.

Quanto a Rita, era proprio sfortunata. Si era storta una gamba inerpicandosi su per il sentiero e, dopo tre giorni d'immobilità, camminava solo con l'aiuto di due bastoni. Aveva chiesto a Müller di massaggiarla, e lui aveva risposto:

«Non serve a nulla».

Eppure lei sentiva che le avrebbe fatto bene.

Era indolenza quella che lo spingeva a rifiutare? Indifferenza? Fatalismo?

Un giorno, con un gesto maldestro, Müller fece cadere i fogli del suo libro, e mentre Rita si precipitava a raccoglierli glielo impedì.

«Lasci» le disse. «Il caso la sa più lunga di noi».

Non li aveva raccolti nemmeno lui: esigeva che i fogli rimanessero sparsi nella capanna, e Rita faceva l'impossibile per non camminarci sopra.

Müller dormiva sempre meno, lei lo sapeva perché i dolori della sua storta le impedivano a sua volta di dormire: sentiva il suo respiro, che non era regolare, e lo sentiva anche pensare.

Ma a che pensava? E perché non le diceva nulla? Anche lei, come Herrmann, era convinta che fosse malato e lo spiò, sorvegliando i suoi più piccoli movimenti, senza scoprire nulla di anormale.

Talvolta gli animali venivano nei pressi della capanna, come se avessero fiutato l'acqua.

Erano magri da far pietà. Fra gli altri videro un asino con le costole a fior di pelle che fece venire a Rita le lacrime agli occhi, tanta era la disperazione nel suo sguardo.

«E se gli dessi da bere?» propose timidamente.

Con sua grande sorpresa, Müller si mostrò d'accordo. Era un follia: mettersi in testa dì abbeverare gli animali dell'isola era come condannarsi a morire di sete.

Infine, c'erano i sogni ai quali Rita voleva non pensare durante il giorno. Chissà se anche gli altri erano ossessionati dagli stessi incubi? La sera esitava a chiudere gli occhi: già nel dormiveglia era assalita dalle ombre, che mescolavano sempre alla sua vita attuale i personaggi della sua infanzia.

Così, suo nonno e Müller si confondevano, mentre in realtà non si assomigliavano in nulla.

Vedeva in entrambi il medesimo sguardo beffardo, quasi diabolico, e sempre l'atteggiamento del nonno quando l'aveva sorpreso a rubare lo zucchero.

Müller non rubava nulla, anzi: era lui quello che beveva e mangiava di meno. Probabilmente si muoveva così di rado proprio per evitare la fame e la sete, e passava giornate intere sulla sua sedia.

Tutti pensavano: «Un mese...».

Era la durata massima della siccità, e un bel giorno il cielo si sarebbe coperto di nuvole che, squarciandosi, avrebbero rovesciato al suolo tanta bella acqua fresca.

 

Una sera, molto tardi, mentre Müller e Rita stavano per coricarsi, videro arrivare Kraus, ancora più stralunato del solito.

«C'è un po'"di posto anche per me?» chiese indicando l'angolo in cui aveva già dormito. «Ma prima devo parlarvi. Non so che cosa stia succedendo...».

Era abbastanza calmo, ma faceva fatica a coordinare le idee.

«Lo so che stavate andando a dormire, ma prima bisogna che mi ascoltiate».

Per ragioni di economia la lampada era stata spenta, e il resto della conversazione proseguì nel pallido riflesso della notte. Si sentiva, vicinissimo, l'ansimare di un toro selvatico che da tre giorni si aggirava intorno alla casa e che a tratti, come per attirare l'attenzione sulle sue pene, prendeva a cornate la palizzata.

«Oggi pomeriggio stavo lavorando alla mia piroga, a cinquecento metri dagli Herrmann.

Herrmann era venuto a guardare il mio lavoro e Jef mi dava una mano».

Rita, che a forza di camminare con i bastoni aveva le reni doloranti, si stese sul letto.

«La contessa è venuta canticchiando da Maria e le ha gridato dalla porta: "Kraus non c'è?".

Ora, sapeva bene che non c'ero, perché sentiva il rumore che facevamo intorno alla piroga. "Mia piccola Maria," ha continuato la contessa, che si sforzava di mostrarsi allegra "volevo dargli una buona notizia. Domani lo yacht del mio amico Paterson viene a prenderci. Nic e io partiamo: andremo a fare una lunga scorribanda nei mari del Sud. Voglio che lei dica a Kraus che non lo dimentico e che, quando tornerò, tutto sarà sistemato perché possiamo avere una vita felice..."».

Dalla sorpresa Rita si era sollevata sul letto e cercava di distinguere nella penombra i lineamenti di Kraus. Quanto a Müller, taceva, e regnò un lungo silenzio.

«Ecco perché sono venuto a trovarvi» riprese finalmente il giovane. «Vuole partire e lasciarmi qui da solo. Sono sicuro che non tornerà mai. Che devo fare? Oppure, ho pensato anche questo, ha soltanto cercato di attirarmi in casa... Capisce?».

Müller si alzò, camminò in lungo e in largo, a torso nudo, con addosso i pantaloni del pigiama. Ogni volta che passava davanti alla baia la sua sagoma aureolata di lunghi capelli si stagliava contro un fondale argentato.

«Mi deve il denaro per il ritorno, e lei sa che rifiuta di darmelo. Vorrei un consiglio: il lavoro, qui, l'ho fatto tutto io...».

Due o tre volte Müller si piantò davanti a lui e lo guardò negli occhi.

«Ma la contessa come fa a sapere che domani arriverà uno yacht?» chiese.

Sull'isola non esisteva un telegrafo. La contessa avrebbe potuto ricevere un messaggio solo da un'imbarcazione, e qualcuno l'avrebbe vista.

«Sei sicuro che abbia detto proprio questo a Maria?».

«Lo giuro sulla testa di mia sorella» A giudicare dal suo tono e dalla sua perplessità, era sincero.

«Quando Paterson è partito ha annunciato il suo ritorno, fissato una data?».

«Non ne ha parlato. Andava verso sud, e doveva attraversare lo stretto di Magellano e risalire l'Atlantico».

«Strano...» sospirò Müller.

«Forse Kraus ha ragione» arrischiò Rita. «La contessa ha cercato di attirarlo in casa per poi trattenerlo con sé. Ha inventato questa storia pensando che ci sarebbe cascato...».

«Mi sono ben guardato dall'andarci,» replicò Kraus, vivamente emozionato «perché so benissimo che Nic è capace di uccidermi!».

Tutte quelle parole sarebbero tornate loro alla memoria una per una, come pure la frase di Kraus che, dieci giorni prima, aveva dichiarato:

«Datemi un'arma e libererò l'isola da quel farabutto!».

Perché, improvvisamente, la parola «uccidere» ricorreva così spesso? Per quale vertigine, o per quale presentimento?

Anche gli Herrmann parlavano della visita della contessa e delle sue parole, ma loro erano più preoccupati, perché Kraus se n'era andato senza dire dove, e pensavano che potesse essere dalla contessa.

Accadde poi che quella sera la festa ricominciasse, come la notte del parto. Il grammofono suonava senza posa. Verso mezzanotte si videro dei bengala e qualche candela romana, e si sentirono in lontananza un rumore di bicchieri e bottiglie infranti e la voce avvinazzata della contessa.

«Credi che sia tornato da loro?» sussurrò Maria, mezzo addormentata. «E pensi davvero che lo yacht verrà?».

Herrmann non ci capiva più nulla, non riusciva più a dormire. A un certo punto annunciò:

«Vado a vedere...».

«Te lo proibisco» intervenne sua moglie, che l'obbligò a coricarsi di nuovo.

Müller, dopo essersi disteso sul letto, era stato probabilmente assalito da uno strano pensiero, perché si alzò senza far rumore e andò a sedersi sulla sua sedia, davanti a Kraus addormentato.

Aveva forse paura di vederlo fuggire? In ogni caso evitò di chiudere gli occhi, e più volte lo sguardo di Rita incrociò il suo, che le parve sempre vigile e pensoso.

Herrmann avrebbe dichiarato in seguito che la musica, nella casa accanto, era durata sino alle due del mattino: a quell'ora la voce della contessa, che era venuta a cantare fin sotto le sue finestre, testimoniava di un avanzato stato di ubriachezza.

Quanto a Kraus, si svegliò verso le cinque e sussultò trovandosi il professore davanti, perfettamente sveglio.

«Non ha dormito?» chiese.

«È stato meglio così» rispose Müller, sempre più enigmatico.

Perché era stato meglio? Che cosa aveva in mente? Kraus era confuso e balbettò:

«Vado a vedere se è arrivato lo yacht».

Il professore uscì dietro di lui, mentre Rita indugiava a letto; quando arrivarono nel punto da cui si scopriva la baia, scorsero l'acqua piatta e iridata, ma senza una nave, senza un canotto.

Kraus scoppio in una risata nervosa.

«Ha mentito!» gridò. «Lo sospettavo, che mentisse. Mente in continuazione! Ogni sua parola è una menzogna...».

Senza curarsi del suo compagno, si allontanò a gran passi in direzione della montagna.

Müller fu sul punto di seguirlo, poi scrollò le spalle e si sedette sul poggio, non lontano da un maialino morto, e restò lì, con gli occhi fissi sulla carcassa.

Herrmann era sulla soglia quando Kraus passò, camminando sempre come un uomo che sa il fatto suo e rifiuta di lasciarsi fermare dagli ostacoli.

Kraus gli gridò da lontano, facendo un gesto con la mano:

«Non c'è nessuno yacht!».

L'istante dopo spariva dietro gli alberi che nascondevano la casa della contessa. Maria si affacciò sulla soglia, chiese a suo marito:

«Dov'è?».

«Lassù».

«Che bambino!».

Jef, tutto solo, scavava il legno della piroga, perché quel lavoro lo appassionava.

La mattinata era calda. Pareva quasi che si stesse preparando un temporale, ma tutti sapevano bene che in quella stagione non era possibile. Herrmann, fumando la sua fibra di cocco, tendeva l'orecchio ai rumori dell'isola, Nell'ombra della capanna Maria allattava la sua bambina, che aveva battezzato Floreana.

«Non è ancora tornato?» gridò.

«Non vedo nulla».

«E almeno un'ora che è là...».

Poi diventarono due, tre. Verso mezzogiorno comparve Rita e chiese se la signora Herrmann non avesse bisogno di lei.

«Kraus non c'è?» chiese subito dopo.

«È sempre lassù».

«Da molto tempo?».

«Da stamattina».

Herrmann si alzò, turbato, quando videro Kraus spuntare vicinissimo a loro, il viso congestionato, gli occhi lucidi, il respiro corto.

«Se ne sono andati!» urlò. «La casa è vuota. Sono corso fino alla spiaggia per vedere se c'era qualche traccia. Non ho trovato nulla...».

Fu scosso da un violento attacco di tosse, come ne aveva, stando alla signora Herrmann che lo conosceva bene, solo dopo aver fatto sforzi violenti.

Intorno a lui tutti tacevano.

12

 

Come dopo la più borghese delle morti, l'emozione lasciò il posto a preoccupazioni materiali. Herrmann, che per tutta la vita era stato dalla parte dell'ordine e della polizia, non poteva fare a meno di guardare Kraus con diffidenza, e fu lui a decidere:

«Bisogna avvertire il professore».

Perché il professore? Non era più qualificato di un altro per constatare l'assenza della contessa e del suo compagno. Per di più, non c'era nulla da constatare. Erano tre gruppi di persone libere su una terra libera!

Eppure, loro malgrado, si comportavano come se costituissero un villaggio, e scesero tutti da Müller, compresa la signora Herrmann che aveva paura di restare a casa; scendevano il pendio uno dietro l'altro, con l'aria di chi corre al commissariato.

Il professore li vide venire con i suoi occhietti acuti e si dondolò sulla sedia.

«Sono partiti» ansimò Herrmann che credeva suo dovere prendere la parola. «Cioè, è quello che sostiene Kraus. Bisognerebbe che lei venisse con noi...».

«A vedere cosa?».

Herrmann non capì la domanda.

«A vedere la casa. A vedere se sono veramente partiti! Forse hanno lasciato delle tracce...».

«E poi?».

«Esigo che veniate» gridò Kraus nuovamente eccitato. «Sento che sospettate di me. È indispensabile che vi rendiate conto voi stessi...».

Nulla poté convincere Müller, che era tornato calmo come un tempo, e ascoltava il chiacchiericcio con estremo distacco. Herrmann non sapeva più cosa pensare, perché aveva immaginato che le cose si sarebbero svolte altrimenti, con un'inchiesta, un dibattimento, una sorta di tribunale ridotto.

Avrebbe voluto chiamare il professore da parte, ma Müller sembrava non capire nulla dei suoi gesti, e solo al momento di andarsene Herrmann tornò vivamente sul suoi passi.

«Crede che li abbia uccisi Kraus?» chiese allora.

«E a lei che cosa gliene importa?» rispose il professore.

 

Avrebbe potuto andare lassù per semplice curiosità, non foss'altro che per vedere nei particolari la casa della contessa. Avrebbe potuto discutere con Herrmann o con Rita, perché molte erano le ipotesi plausibili.

Invece, sembrava che gli avvenimenti gli avessero restituito la sua altera serenità. Pensava da solo, passeggiava da solo e, per sé solo, faceva furtivi sorrisetti di cui nessuno conosceva il segreto.

Rita trovò sul foglio che stava sempre al solito posto sotto al calamaio le seguenti frasi:

«Mi chiedo talvolta se la contessa e Nic abbiano veramente avuto tanta nobiltà da lanciarsi nell'ultima avventura. Eppure, era il solo modo di salvare il loro prestigio e di risvegliare un po'"di ammirazione nel pubblico, come Burns, prima di loro, aveva stoicamente compreso».

Così Müller non credeva che Kraus, esasperato, avesse ucciso i suoi compagni, ormai diventati suoi nemici. Rita conosceva la storia del norvegese Burns, che si era stabilito alle Galápagos con gran clamore pubblicitario e poi, rendendosi conto di non potervi più vivere, aveva preferito annegarsi piuttosto che confessare la sua sconfitta.

Era stata proprio la nave che aveva portato lì Müller e Rita a scoprire il suo cadavere mummificato sulla spiaggia di un isolotto.

La contessa von Kleber aveva dunque avuto quel coraggio, come si chiedeva il professore?

Allora, quando i due bevevano, quella notte, facendo suonare il grammofono, erano alla loro ultima bottiglia di whisky? Quando avevano annunciato che uno yacht stava per venire a prenderli, era stata un'ultima millanteria?

Se ne erano quindi andati entrambi fino a un qualche punto della costa, per poi inoltrarsi a poco a poco, al buio, dove l'acqua era più profonda?

Müller, infatti, aveva aggiunto in un altro angolo del foglio:

«Questo prova ciò che io ho sempre sostenuto, e cioè che le cosiddette isole incantate non sono luoghi adatti alla colonizzazione, né a imprese di qualunque tipo. La natura si difende da sola contro l'orgoglio degli uomini. Ieri ho trovato un toro morto contro la palizzata dell'orto, e stamane ho diviso un secchio d'acqua fra due asini che non avevano più la forza di reggersi in piedi. La provvidenza non ha pietà di queste creature, che dovranno morire tutte...».

E aveva concluso con una calligrafia ancora più minuta:

«E sarà senz'altro un bene».

Rita si stupì che quelle righe sinistre le facessero poco effetto. Sembrava che gli ultimi avvenimenti avessero esaurito in tutti ogni possibilità di reagire.

Nessuno avrebbe mai immaginato che le cose sarebbero andate così. Né Rita né Müller salirono lassù, e l'indomani Herrmann venne timidamente a sedersi, come al solito.

«Non avevano più niente da mangiare né da bere» annunciò.

Constatava un dato di fatto, senza commuoversi.

«Non credo che Kraus sia capace di uccidere. E poi che ne avrebbe fatto dei cadaveri? Da solo, non ha avuto il tempo di…», Lo ascoltava, Müller? O non osservava piuttosto il suo visitatore come avrebbe osservato un fenomeno naturale? Herrmann perse il filo delle proprie idee, abbandonò le argomentazioni contro la colpevolezza di Kraus e si precipitò a testa bassa verso il suo scopo.

«C'è ancora qualcosa che devo chiederle. Lei sa che, legalmente, Kraus era socio della contessa. Quindi il materiale che resta gli appartiene, almeno per un terzo. Siccome non ha i soldi per tornare in Europa, vorrebbe venderci gli oggetti che ci interessano. Gli ho risposto che ne avrei parlato con lei...».

«Cosa intende ricomprare?».

«La casa!» confessò Herrmann distogliendo lo sguardo. «Adesso che abbiamo un figlio in più, sarebbe pratico... Ho offerto tutto quello che possiedo qui, quaranta dollari, ed è pronto ad accettare...».

Era una vera e propria successione! Herrmann continuava, tentatore:

«Propone di cedere a lei gli arnesi...».

«Quali arnesi?».

«C'è dì tutto, seghe, lime, pialle, e poi chiodi, bulloni, dadi...».

La voce di Müller chiese:

«Quanto?».

«Quello che potrà dare».

Lo vide alzarsi, aprire un cofanetto di ferro e frugare in un portafogli da cui trasse due biglietti da dieci dollari.

«Tenga» decise. «A condizione che Kraus mi porti gli arnesi qui».

Due giorni prima la contessa e Nic facevano ancora suonare il grammofono sulla terrazza, ed ecco che già la loro casa veniva smantellata.

A parte Kraus, che era corso fin sulla spiaggia, a parte le velleità di Herrmann, al quale non sarebbe affatto dispiaciuto che tutto terminasse con un'inchiesta e qualche firma in calce, nessuno aveva realmente cercato di sapere che cosa fosse successo alla coppia.

Forse preferivano tutti ignorarlo, e ripiegare su preoccupazioni materiali. Dimentico della piroga, Kraus passava le sue giornate a smontare la casa che aveva costruito con le sue mani, e a sgomberarla.

Accettava come un fatto naturale che ogni sospetto si fosse allontanato da lui, e il suo sguardo dava persino l'impressione di essere diventato più franco e più limpido.

Una mattina lo videro arrivare da Müller con un primo carico di arnesi, seguito da Jef che ne portava altri.

«Bisognerà che faccia due o tre viaggi, perché è roba molto pesante» annunciò.

E davvero il suo modo di fare era più disinvolto di prima.

«Non appena arriverà una nave mi porterò via degli oggetti, e li venderò a terra per pagarmi la traversata».

Era calmo. Lo erano tutti, e proprio quella calma stava diventando allucinante. Della contessa non si parlava più. Solo Herrmann, di nascosto, aveva gironzolato attorno alla casa per tranquillizzarsi la coscienza e assicurarsi che la terra non fosse stata smossa in nessun punto.

Quanto a Müller, guardava con soddisfazione i suoi nuovi arnesi, e sin dall'indomani mise in cantiere un armadio.

Che cosa ci avrebbe messo? Probabilmente non lo sapeva neanche lui.

Gli avvenimenti sembravano dar ragione all'inusitato ottimismo di Kraus, che rinasceva letteralmente alla vita. Una mattina, uscendo di casa, Rita scorse sul sentiero l'alta silhouette di Larsen il norvegese.

Quasi nello stesso istante arrivò di corsa Kraus, che dall'alto aveva visto avvicinarsi la piccola imbarcazione; gridava e si sbracciava.

«Che vi avevo detto? Sono salvo! Non morirò qui».

«È lei che ha affisso il messaggio?» s'informò Larsen.

«Sono io, sì! Dobbiamo partire. Lei mi porterà sul continente e io le darò quaranta dollari...».

Müller, seduto sulla sua sedia, non diceva nulla, mentre Larsen scuoteva la testa.

«È fuori questione che io la porti in America con la mia barca. Tutto quello che posso fare è lasciarla a Chatam, l'isola a trenta o trentacinque ore da qui...».

«Ci troverò delle navi?».

«A volte ne passano. Mia moglie in questo momento si trova là, ce l'ho portata per farla partorire e forse a quest'ora ho già un figlio...».

Suo malgrado cercava lo sguardo di Rita, e non appena lo ebbe incontrato voltò il capo.

«Che ne pensa, professore? Sarò salvo, una volta a Chatam?».

«Conta quasi quattrocento abitanti,» rispose Müller «e c'è acqua tutto l'anno».

«Allora partiamo subito!» gridò Kraus. «Vado su a prendere le mie cose...».

«Non così in fretta! Non possiamo partire prima di domani».

«Perché?».

Larsen gli indicò il calendario.

«Non capisco...».

«Venerdì 13 giugno!» lesse Larsen, il cui volto schietto sembrava invece escludere ogni idea di superstizione. «Partiremo domani».

Ma Kraus non voleva più aspettare. La sua impazienza aveva raggiunto lo stadio estremo in cui ogni istante d'attesa diviene una sofferenza. Quel rinvio era una nuova minaccia che incombeva su di lui, e Kraus si rifiutava di prenderlo in considerazione.

«Le darò tutto quello che ho, sessanta dollari, se partiamo stamani! Professore, gli dica che ho languito qui già per troppo tempo. Gli dica che sono ammalato, che potrei morire...».

La calma di Larsen faceva contrasto con la sua concitazione.

«La supplico, in nome di sua moglie! Pensi, partendo oggi la rivedrà più presto, abbraccerà suo figlio...».

Larsen si alzò, e dopo un ultimo sguardo al calendario disse con un sospiro:

«Bene!».

«Partiamo? Mi aspetti qui. Sarò di ritorno fra un'ora...».

Non aveva mai corso tanto in fretta.

«Non viene nessun altro con me?» chiese il norvegese guardando Rita e poi Müller.

E aggiunse:

«Avete acqua?».

«Abbastanza per un mese».

«E la... la contessa?».

«Se ne è andata».

«Con quale nave?».

«Con nessuna nave».

Müller aveva sulle labbra il suo sorriso più impercettibile.

«Senta un po',» fece Larsen spaventato «non l'avrà mica uccisa il mio cliente?».

«Non credo».

Il tempo era più grigio che nei giorni precedenti, e anche più caldo. Mentre aspettava Kraus Larsen chiacchierò con Müller e Rita, ma era ancora preoccupato, e a tratti si distraeva.

«È una strana storia» mormorò più volte.

E perché mai Müller gli disse, senza insistere, e con aria indifferente:

«Forse sarà bene che fra qualche settimana lei ripassi di qui...».

C'era come un velo fra loro e la vita. Sembrava che si agitassero in un mondo senza ombre e senza riflessi, senza spessore, in un mondo neutro come il limbo della fede cattolica.

Kraus arrivò seguito dagli Herrmann al completo, compresa l'ultima nata che Maria portava in braccio mentre il padre e Jef erano carichi di valigie.

«Ecco fatto! Partiamo?».

«Partiamo» ripeté Larsen senza allegria.

Müller si alzò e, con assoluta naturalezza, scese con Rita dietro agli altri fino alla spiaggia.

Nessuno parlava. Nessuno sapeva cosa dire. Anche Kraus era più cupo, con una punta d'inquietudine nello sguardo.

Alla vista della barriera corallina, su cui il mare si infrangeva con onde piuttosto alte, chiese:

«Avremo bel tempo?».

«Bel tempo, no. Ma forse non troppo cattivo».

Caricarono le valigie sul canotto, e nessuno sapeva come cominciare i saluti. Alla fine, siccome Larsen stava per girare la manovella del motore, Kraus andò impacciato dall'uno all'altro e baciò tutti su entrambe le guance.

«Addio!».

«Buona fortuna» disse Rita.

«Buona fortuna» ripeté Maria che piangeva senza convinzione, come si piange alla stazione.

«In cammino!» gridò Larsen.

Quando il suo sguardo cercò un'ultima volta Rita nel piccolo gruppo aveva le sopracciglia aggrottate.

«Addio» disse Müller per ultimo.

Il canotto fu spinto lontano con la gaffa, il motore si avviò; poi l'imbarcazione descrisse un semicerchio. Kraus si era seduto per non perdere l'equilibrio. Agitava la mano; gli altri, sulla spiaggia di sabbia nera, levavano a tratti il braccio in un gesto vago.

Bisognava aspettare, per educazione, che la barca uscisse dalla laguna, e l'attesa fu lunga e uggiosa; l'acqua era di uno sgradevole verde grigiastro, e malgrado l'assenza di sole il riverbero obbligava a socchiudere le palpebre.

Gli Herrmann si avviarono per primi verso il sentiero. Müller e Rita camminavano a dieci metri da loro.

«Avrei dovuto dirle di partire» mormorò il professore.

«Perché?» si stupì lei.

Ma lui non aprì più bocca. Si era forse abbandonato a un momento di emozione, a una folata di scoramento.

Davanti a casa gli Herrmann si fermarono.

«Arrivederci!».

Era molto tempo che non si davano più la mano, eppure Herrmann tese la sua senza rendersene conto, e il professore gliela strinse.

«Avete abbastanza acqua?» s'informò.

«Ci arrangiamo».

«Pioverà prima di un mese» predisse ancora Müller guardando il cielo pesante.

Il canotto di Larsen era già lontano, invisibile nell'argento glauco dell'oceano.

Era una sera torpida, colma di pensieri grigi, e a nessuno venne in mente di mangiare. Prima di sdraiarsi, comunque, Müller mise in ordine i suoi arnesi con gesti precisi, maniacali, mentre Rita guardava a terra.

Perché aveva consigliato a Larsen di ripassare qualche settimana più tardi?

E perché, sì, perché non erano partiti tutti insieme?

A Rita sembrava di sentire il campanello del negozietto in cui andava a comprare due pfennig di lecca lecca, poi credeva di sentire su di sé lo sguardo ingenuo e timoroso del norvegese.

«Buonasera, Frantz!».

«Buonasera...».

13

 

Tre mesi più tardi, un peschereccio americano che pescava il merluzzo nelle acque delle Galápagos individuò su un isolotto la carcassa di un canotto.

Era lontano da Floreana e da Chatam, all'estremo sud dell'arcipelago. I marinai americani misero una scialuppa in mare, e a ridosso del canotto trovarono un primo scheletro al quale aderivano lembi di abiti. Era quello di un uomo ancora più alto e più robusto di loro.

Per caso un marinaio diede un'occhiata un po'"più in là e sulla sabbia, a cinquanta metri di distanza, scoprì un secondo scheletro disteso faccia a terra.

Accanto a questo c'erano due valigie, una delle quali, sventrata, conteneva solo biancheria e cianfrusaglie.

Gli americani lasciarono i corpi sul posto, presero le valigie e due mesi più tardi, al loro arrivo a San Francisco, misero a parte della loro scoperta le autorità marittime, cui consegnarono le valigie.

Nella seconda c'era un passaporto tedesco intestato a Eric Kraus, di anni venti, nato a Norimberga.

 

Fu tramite i telegrammi della Presse Associée che a Guayaquil, a dicembre, si venne a sapere che alle Galápagos era accaduta una tragedia.

La San Cristóbal, che si era incagliata sulla barriera al momento della partenza per il viaggio estivo, era in riparazione da settimane, e ne aveva ancora per un mese.

Ora, la mattina del 1° gennaio si vide lo yacht di Lord Bambridge che risaliva il fiume e andava a gettare l'ancora lontano dalle barche. Corse subito voce che veniva dalle Galápagos e aveva a bordo la compagna del dottor Müller.

Alcuni curiosi fecero per avvicinarsi in canotto, ma intervenne la polizia locale e per tre giorni lo yacht rimase isolato come fosse in quarantena.

Solo Lord Bambridge scese due o tre volte a terra, grave e distante nell'uniforme impeccabile. Ebbe qualche colloquio con il suo console, poi con il governatore.

Infine, un mattino di buon'ora, mentre una pioggia sottile cadeva sulla città, una giovane donna che camminava con l'aiuto di un bastone si mostrò sul ponte, scese nella vedetta e, un po'"più tardi, prese posto in un'auto con l'inglese.

Alle sette il governatore stava già aspettando nel suo ufficio, con il procuratore e un giudice istruttore.

Tutti si mostrarono molto solleciti nei confronti della giovane donna, che fu fatta sedere in un'ampia poltrona rivestita di panno verde, mentre un cancelliere prendeva posto in fondo al tavolo e veniva servito del caffè bollente.

«Rita Ehrlich, nata a Danzica, di nazionalità tedesca, trentadue anni...».

La voce della donna era fievole, e il suo sguardo aveva brusche fissità, come se restasse continuamente sconcertato dall'aspetto del mondo.

Lord Bambridge aveva a sua volta declinato le sue generalità.

«Ero in Perù» disse «quando ho appreso dai giornali che alle Galápagos erano stati scoperti due cadaveri, e ho immediatamente cambiato rotta. A Floreana ho trovato solo la famiglia Herrmann, che aveva dato asilo alla signora...».

Rita, con gli occhi asciutti, raccontò con voce monotona quello che sapeva della scomparsa della contessa e di Nic, e poi della partenza di Kraus.

«Fino al primo temporale, non avevo mai sospettato che il professore fosse ammalato...».

«Mi scusi,» chiese il giudice «è il suo amante che lei chiama il professore?».

Chissà se lo aveva sentito? Riprese:

«... che il professore fosse ammalato. Ma dopo ho capito che lui lo sapeva già, quando aveva chiesto a Larsen di tornare qualche settimana più tardi...».

Il giudice stava per interromperla ancora, ma Lord Bambridge gli lanciò una tale occhiata che pensò bene di stare zitto.

«La stagione secca era stata lunga e difficile. Ogni giorno trovavamo intorno a casa qualche bestia morta, perché venivano ad agonizzare lì vicino, come se avessero intuito che avevamo dell'acqua... La mattina del 10 luglio, dopo una pioggia durata tutta la notte...».

«Come faceva a sapere la data?».

«Grazie ai forellini di spillo... Quella mattina Frantz non si è alzato e mi ha chiesto di dargli da bere. Poi mi ha detto: "Spero che Larsen abbia capito bene la mia raccomandazione". A mezzogiorno non riusciva più a parlare. Non volevo lasciarlo per andare a cercare Herrmann. Tre o quattro ore più tardi non ci vedeva più con chiarezza».

«Era sola con lui?».

«Ero sola, pioveva; quella pioggia che aspettavamo da sei mesi e che picchiettava sulle foglie di palma...».

Fu il solo momento in cui i suoi occhi si inumidirono. Dalle finestre si vedevano le vie della città che cominciava a vivere. Una nave americana sbarcava i passeggeri.

Rita dettò, scandendo le sillabe:

«Il professore ha avuto sino alla fine una perfetta consapevolezza del suo stato. Sapeva che l'apoplessia è mortale, ed è morto alle dieci di sera, per asfissia, perché non aveva più la forza di vomitare. I muscoli e i nervi della gola si sono progressivamente paralizzati, ed è morto soffocato».

«E lei che cosa ha fatto?».

«Mi sono coricata e ho aspettato».

«Nello stesso letto del morto?».

«C'era un tramezzo».

«Che cosa intende dire?».

Lei non rispose: pareva quasi che pensasse ad altro.

«Chi ha seppellito il corpo?».

«Tutti, Herrmann, Maria e io. Jef ci ha aiutati».

«Non ha altre dichiarazioni da fare?».

«Nessuna».

«Cosa pensa della scomparsa della contessa e di Arenson?».

«Non penso nulla. Avrò visto la contessa cinque volte in sei mesi. C'erano due ore di cammino fra la sua casa e la nostra».

«Che pensa del naufragio di Larsen e di Kraus?».

«Non so».

I tre uomini la lasciarono sola mentre discutevano a bassa voce nel vano di una finestra. Lei non li guardò, né tese l'orecchio. Non le importava di niente. Aspettava.

«Vuol firmare la sua deposizione? È anche necessario che ci dia un indirizzo in Germania».

Lei alzò sul procuratore uno sguardo inquieto.

«Un indirizzo...» ripeté. «Non ce l'ho!».

«Quello di un amico, di un parente...».

«Di un parente, sì. Ho una sorella che è rimasta a Danzica. Credo che sia sposata...».

Diede l'indirizzo della pensione in cui sua sorella, che all'epoca studiava diritto, viveva quando lei era partita.

Nel momento in cui varcava la soglia, un fotografo riuscì ad avvicinarsi e a scattare una foto.

Allora, spaventata, si strinse a Bambridge.

«Venga!» disse lui.

La fece salire sulla vedetta, ma invece di abbordare lo yacht guadagnarono il centro del fiume, dove era all'ancora un cargo tedesco circondato di chiatte che imbarcavano sacchi di cacao.

Nel porto l'avvenimento passò inosservato. Rita fu sospinta su per la scaletta e Bambridge le strinse la mano mentre già un'altra mano, quella del comandante della nave, si tendeva verso la giovane donna come per prenderla in consegna.

«La conduco nella sua cabina. Ci sarà un po'"di rumore verso le dieci, quando salperemo, ma dopo potrà dormire...».

Nella cabina c'erano dei fiori; la porta si richiuse non appena Rita si fu seduta sulla sua cuccetta.

Alle dieci meno un quarto i giornalisti presero d'assalto la scaletta, ma il comandante vigilava personalmente.

«Rita Ehrlich? Mai sentita!» rispondeva. «Dovete aver sbagliato nave...» E quando protestavano, il comandante scoppiava in una lunga risata.

A mezzogiorno, mentre il cargo scendeva il fiume, preparò la tavola della piccola sala da pranzo in cui per settimane, fino ad Amburgo, avrebbe consumato i suoi pasti solo con Rita.

Quel giorno lei non si svegliò prima di sera e rifiutò di uscire dalla cabina, dove rimase sdraiata a occhi aperti, a guardare il grosso occhio rotondo dell'oblò argenteo come una luna.

 

Tahiti, 7 marzo 1935.