IL LEONE DI COMARRE
Questo racconto fu scritto all’incirca nello stesso periodo di Oltre il buio della notte e ripropone lo stesso carico emotivo di quell’opera più lunga. Entrambi sono imperniati sulla ricerca, o meglio il perseguimento, di finalità sconosciute e misteriose. In tutti e due i casi, i veri obiettivi sono di natura meravigliosa e magica, più che incentrati su scopi materiali, e l’eroe è un giovane insoddisfatto del suo mondo. Di persone così ce ne sono tantissime, con buona ragione. È a loro che dedico queste parole, scritte prima della loro nascita.
1
Ribellione
Verso la fine del ventiseiesimo secolo, la grande marea della Scienza era giunta infine al riflusso. La lunga serie di invenzioni che aveva modellato e plasmato il mondo per circa mille anni si stava avvicinando alla fine. Tutto era stato scoperto. A uno a uno, tutti i grandi sogni del passato erano diventati realtà.
La civiltà era completamente meccanizzata, eppure le macchine erano quasi del tutto scomparse alla vista. Nascosti nelle mura delle città, o sepolti in profondità sottoterra, macchinari perfetti sopportavano il fardello del mondo. Silenziosi, discreti robot provvedevano ai bisogni dei loro padroni, svolgendo così bene il proprio lavoro che la loro presenza sembrava naturale come il sorgere del sole.
C’era ancora molto da apprendere nel campo della scienza pura, e gli astronomi, adesso che non erano più legati alla Terra, avrebbero avuto abbastanza lavoro ancora per un migliaio di anni. Ma le scienze fisiche e le arti che avevano nutrito non erano più la preoccupazione principale della razza. Nell’anno 2600 le migliori menti umane non si trovavano più nei laboratori.
Le persone i cui nomi contavano di più per il mondo erano gli artisti e i filosofi, i legislatori e gli statisti. Gli ingegneri e i grandi inventori appartenevano al passato. Come gli uomini che una volta avevano curato malattie da lungo tempo scomparse, avevano compiuto così bene la loro opera che non erano più richiesti.
Dovevano passare cinquecento anni prima che il pendolo oscillasse dall’altra parte.
La vista dallo studio, una lunga stanza incurvata a cinquemila metri sopra la base della Torre Centrale, era di quelle che lasciano senza fiato. Gli altri cinque edifici giganteschi della città si ammassavano sotto, con le loro pareti metalliche scintillanti di tutti i colori dello spettro, nei raggi del sole mattutino. Ancora più in basso, i campi a scacchiera delle fattorie automatizzate si stendevano a perdita d’occhio fino all’orizzonte immerso nella foschia. Ma, per una volta, la bellezza dello scenario andò sprecata per Richard Peyton II, mentre passeggiava rabbioso tra i grandi blocchi di marmo sintetico, materia prima della sua arte.
Le grandi masse meravigliosamente colorate di roccia artificiale dominavano per intero lo studio. Per la maggior parte, si trattava di cubi rozzamente tagliati, ma alcuni cominciavano ad assumere la forma di animali, esseri umani e solidi astratti cui nessuno studioso di geometria avrebbe saputo dare un nome. Maldestramente seduto su un blocco di diamante da dieci tonnellate, il più grande che fosse mai stato ottenuto tramite sintesi, il figlio dell’artista guardava il celebre genitore con aria ostile.
«Credo che non mi dispiacerebbe così tanto» osservò Richard Peyton II con tono collerico «se tu ti accontentassi di non far nulla, purché tu lo facessi con grazia. Certe persone vi riescono in modo eccellente, e nel complesso rendono il mondo più interessante. Ma perché tu debba dedicare la tua vita allo studio dell’ingegneria, è qualcosa che non riesco ad afferrare.
«Sì, lo so che ti abbiamo lasciato scegliere tecnologia come materia principale, ma non abbiamo mai pensato che l’avresti presa così seriamente. Quando avevo la tua età, io avevo la passione della botanica, ma non ne ho mai fatto l’interesse primario della mia vita. È stato il professor Chandras Ling che ti ha messo delle idee in testa?»
Richard Peyton III arrossì.
«Perché non avrebbe dovuto? Io so qual è la mia vocazione, e lui è d’accordo con me. Hai letto la sua relazione.»
L’artista agitò svariati fogli di carta nell’aria, tenendoli fra pollice e indice come un qualche insetto disgustoso.
«L’ho letta» rispose cupo. «“Dimostra un’abilità meccanica veramente insolita, ha compiuto un lavoro originale nella ricerca subelettronica, eccetera.” Santo cielo, pensavo che la razza umana avesse superato tutto questo secoli fa! Vuoi diventare un meccanico di prima classe e andare in giro a riparare i robot guasti? Ma davvero non è un lavoro per uno dei miei figli, per di più nipote di un membro del Consiglio Mondiale.»
«Vorrei tanto che non continuassi a mettere di mezzo il nonno» osservò Richard Peyton III con crescente malumore. «Il fatto che lui sia stato uno statista non ti ha impedito di diventare un artista. Allora, perché dovresti aspettarti che io diventi l’uno o l’altro?»
I peli della spettacolare barba dorata dell’uomo più anziano cominciarono a rizzarsi pericolosamente.
«Non m’importa quello che fai, finché possiamo esserne fieri. Ma perché questa pazzia per gli aggeggi meccanici? Abbiamo tutte le macchine che ci servono. Il robot è stato perfezionato cinquecento anni fa; le astronavi non sono cambiate almeno da altrettanti anni; e credo che il nostro attuale sistema di comunicazione abbia ormai quasi otto secoli di età. Allora, perché cambiare quello che è già perfetto?»
«È proprio questo che grida vendetta!» rispose il giovane. «Buffo che un artista dica che qualcosa è perfetto! Papà, mi vergogno di te.»
«Non spaccare il capello in quattro. Sai benissimo che cosa intendo. I nostri antenati hanno progettato macchine che ci forniscono tutto quello di cui abbiamo bisogno. Senza dubbio, alcune di loro potrebbero aumentare la loro efficienza di qualche punto percentuale. Ma perché preoccuparsene? Puoi nominarmi una sola invenzione importante che oggigiorno manchi al mondo?»
Richard Peyton III sospirò.
«Ascolta, papà» disse paziente. «Ho studiato storia, oltre che ingegneria. Circa dodici secoli fa, c’era gente che diceva che tutto era stato inventato, e questo prima dell’avvento dell’elettricità, per non parlare del volo e dell’astronautica. Semplicemente, non guardavano abbastanza avanti, le loro menti erano radicate nel presente.
«Lo stesso succede adesso. Per cinquecento anni il mondo è vissuto a spese dei cervelli del passato. Sono pronto ad ammettere che alcune linee di sviluppo sono giunte al loro termine, ma ce ne sono decine di altre che non sono neppure cominciate.
«Dal punto di vista della tecnica, il mondo ha ristagnato. Non è un’epoca buia, perché non abbiamo dimenticato niente. Ma stiamo segnando il passo. Guarda i viaggi spaziali. Novecento anni fa siamo arrivati su Plutone, e dove siamo adesso? Ancora fermi a Plutone! Quando attraverseremo lo spazio interstellare?»
«Ma chi vuole andare sulle stelle?»
Con un gesto di stizza, il ragazzo saltò giù dal blocco di diamante, preso dall’eccitazione.
«Che domanda da fare in quest’epoca! Mille anni fa la gente diceva: “Chi vorrebbe andare sulla Luna?”. Sì, lo so che è incredibile, ma è tutto scritto nei vecchi libri. Oggi la Luna è a quarantacinque minuti di volo, e persone come Harn Jansen lavorano sulla Terra e vivono a Plato City.
«Noi diamo il viaggio interplanetario per scontato. Un giorno faremo lo stesso con il vero viaggio spaziale. Potrei nominare decine di branche che sono arrivate a un punto morto perché la gente pensa come te e si accontenta di quello che ha.»
«E cosa c’è di male?»
Peyton agitò un braccio.
«Sii sincero, papà. Sei mai stato soddisfatto di una qualunque delle tue opere? Solo gli animali sono appagati.»
L’artista fece una risata malinconica.
«Forse hai ragione. Ma questo non scalfisce la mia posizione. Penso ancora che tu stia sprecando la tua vita, e così la pensa il nonno.» Aveva un’aria un po’ imbarazzata. «In effetti, sta venendo sulla Terra soprattutto per parlare con te.»
Peyton apparve allarmato.
«Senti, papà, ti ho già detto quello che penso. Non voglio ricominciare tutto da capo. Perché né il nonno né il Consiglio Mondiale al gran completo mi faranno cambiare idea.»
Era un’affermazione roboante, e Peyton si chiese se davvero ci credesse. Suo padre stava per rispondere, quando nello studio vibrò una bassa nota musicale. Un secondo dopo, dall’aria giunse una voce meccanica.
«Suo padre vuole vederla, signor Peyton.»
Lo scultore guardò il figlio con un’espressione trionfante.
«Avrei dovuto aggiungere» disse «che il nonno sta arrivando adesso. Ma conosco la tua abitudine a sparire quando è richiesta la tua presenza.»
Il ragazzo non rispose. Guardò il padre andare verso la porta. Poi le sue labbra si incurvarono in un sorriso.
Il pannello di vetrite che correva sulla parte frontale dello studio era aperto, e il giovane uscì sul balcone. Cinquemila metri più sotto, il grande spiazzo di cemento del parcheggio scintillava biancastro nel sole, salvo dove era punteggiato dalle ombre a goccia delle astronavi atterrate.
Peyton guardò di nuovo la stanza. Era ancora vuota, per quanto sentisse la voce del padre scivolare attraverso la porta. Non attese oltre. Mettendo la mano sulla balaustra, volteggiò nel vuoto.
Trenta secondi dopo, due figure entravano nello studio e si guardavano intorno in preda allo stupore. Il Richard Peyton per antonomasia, senza alcun numero di specificazione, era un uomo apparentemente sulla sessantina, benché quell’età corrispondesse a meno di un terzo dei suoi anni.
Indossava una veste purpurea a cui avevano diritto solo venti persone sulla Terra, e meno di cento in tutto il sistema solare. Irradiava autorità e, al confronto, perfino il figlio, così celebre e sicuro di sé, pareva un tipo vacuo e insignificante.
«E allora, dov’è?»
«Maledizione! È uscito dalla finestra. Per lo meno, possiamo ancora dirgli che cosa pensiamo di lui.»
Con uno scatto rabbioso, Richard Peyton II sollevò il polso e compose un numero di otto cifre sul suo trasmettitore personale. La risposta giunse quasi all’istante. Con un tono chiaro e impersonale, una voce automatica ripeteva incessantemente: «Il mio padrone dorme. Si prega di non disturbare. Il mio padrone dorme. Si prega di non disturbare…».
Con un’esclamazione di dispetto, Richard Peyton II spense il trasmettitore e si rivolse al padre. Il vecchio ridacchiò.
«Be’, è veloce a pensare. In questo ci ha battuti. Non riusciremo a raggiungerlo fino a che non schiaccerà il pulsante per liberare la linea. Di certo non intendo inseguirlo, alla mia età.»
Seguì un momento di silenzio, mentre i due si guardavano l’un l’altro con espressioni contrastanti. Poi, quasi contemporaneamente, scoppiarono a ridere.
2
La leggenda di Comarre
Peyton cadde come un sasso per quasi duemila metri prima di accendere il neutralizzatore. Il flusso precipitoso dell’aria era esaltante, per quanto gli togliesse il fiato. Precipitava a meno di duecento all’ora, ma l’impressione della velocità era aumentata dalla vicinanza del grande edificio che svettava verso l’alto a pochi metri di distanza.
La morbida controspinta del campo di decelerazione lo rallentò a circa trecento metri dal suolo, e il ragazzo planò senza scosse verso le file di trasvolatori parcheggiati ai piedi della torre.
La sua macchinetta sportiva era una monoposto interamente automatica. Per lo meno, lo era stata quando l’avevano costruita tre secoli prima, ma l’attuale proprietario aveva apportato così tante modifiche illegali, che nessun altro al mondo avrebbe potuto pilotarla e sopravvivere per raccontarlo.
Tolta la cintura neutralizzatrice – un aggeggio divertente che, per quanto antiquato da un punto di vista tecnico, aveva ancora interessanti possibilità –, Peyton entrò nella macchina attraverso il doppio portello. Due minuti dopo, le torri della città sparivano sotto il margine del mondo e le disabitate Terre Selvagge filavano sotto di lui a seimila chilometri l’ora.
Peyton puntò verso ovest e si trovò quasi subito sopra l’oceano. Non poteva far altro che aspettare; la minuscola astronave sarebbe giunta automaticamente alla meta. Si appoggiò allo schienale del sedile, rimuginando amari pensieri, autocompatendosi.
Era più turbato di quanto volesse ammettere. Il fatto che la sua famiglia non condividesse i suoi interessi tecnici aveva cessato di angustiarlo da diversi anni. Ma quell’opposizione che montava con costanza, giunta adesso a una crisi, era qualcosa di completamente nuovo, che in nessun modo riusciva a comprendere.
Dieci minuti dopo, un unico pilone bianco cominciò a spuntare dall’oceano come la spada Excalibur affiorante dal lago. La città nota al mondo come Scientia, e ai suoi più cinici abitanti come Torre dei Lunatici, era stata costruita otto secoli prima su un’isola distante dalle più vaste masse di terra. Un gesto di indipendenza, perché le ultime tracce di nazionalismo permanevano ancora in quell’età lontana.
Peyton scese sullo spiazzo di atterraggio e andò verso l’ingresso più vicino. Il rimbombo delle grandi onde che si rompevano sugli scogli a cento metri di distanza era un rumore che non mancava mai di impressionarlo.
Si fermò per un momento nell’ingresso, inspirando l’aria salmastra e osservando i gabbiani e gli uccelli migratori che volavano in cerchio intorno alla torre. Usavano quel fazzoletto di terra per riposarsi quando l’uomo ancora osservava l’alba con occhi perplessi, chiedendosi se l’astro che sorgeva fosse un dio.
L’ufficio di genetica occupava cento piani vicino al centro dell’edificio. Peyton aveva impiegato dieci minuti a raggiungere la Città della Scienza: quasi altrettanti ne impiegò per trovare l’uomo che cercava nei chilometri e chilometri cubi di uffici e di laboratori.
Alan Henson II era ancora uno dei suoi più cari amici, anche se aveva lasciato l’Università dell’Antartide due anni prima e si era messo a studiare biogenetica anziché ingegneria. Quando era nei guai, circostanza non infrequente, Peyton trovava molto rassicurante il calmo buonsenso dell’amico. Era naturale che fosse volato fino a Scientia, soprattutto dopo che Henson l’aveva chiamato urgentemente solo il giorno prima.
Felice e sollevato nel vedere Peyton, il biologo non riuscì a nascondere un sottofondo di nervosismo nel suo benvenuto.
«Sono contento che tu sia arrivato; ho ricevuto delle notizie che ti interesseranno. Ma hai l’aria depressa, che ti succede?»
Peyton glielo disse, non senza qualche esagerazione.
«E così hanno già cominciato!» esclamò Henson dopo un breve silenzio. «Avremmo dovuto aspettarcelo!»
«Che vuoi dire?» domandò Peyton sorpreso.
Da una busta conservata in un cassetto, il biologo trasse due fogli di plastica, nei quali erano incise diverse centinaia di tagli paralleli di varie dimensioni, e ne porse uno all’amico.
«Sai che cos’è?»
«Sembra un’analisi della personalità.»
«Esatto. E si dà il caso che sia la tua.»
«Oh! Questo è piuttosto illegale, no?»
«Lascia perdere. La chiave è stampata lungo il fondo: va da Apprezzamento estetico a Umorismo. L’ultima colonna dà il tuo Quoziente d’intelligenza. Non montarti la testa.»
Peyton studiò attento il rapporto. A un certo punto, arrossì lievemente.
«Non capisco come tu possa esserne al corrente.»
«Lascia perdere» sogghignò Henson. «Ora guarda questa analisi.» E gli tese un secondo foglio.
«Ma come, è uguale all’altra!»
«Non proprio, ma quasi.»
«Di chi è?»
Poggiato allo schienale della sedia, Henson tirò fuori lentamente le parole.
«Dick, quell’analisi appartiene al bis-bisavolo che ti ha preceduto di ventidue generazioni nella linea maschile, il grande Rolf Thordarsen.»
Peyton saltò su come un razzo. «Che cosa?»
«Non far crollare il grattacielo. Se qualcuno entrasse, noi stiamo parlando dei vecchi tempi all’università.»
«Ma… Thordarsen!»
«Be’, se risaliamo abbastanza indietro, abbiamo tutti antenati ugualmente illustri. Ma ora sai perché tuo nonno ha paura di te.»
«Ha aspettato un bel po’. Io ho quasi finito gli studi.»
«Puoi ringraziare noi, per questo. Normalmente, la nostra analisi risale di dieci generazioni, di venti in casi particolari. È un lavoro spaventoso. Ci sono centinaia di milioni di carte nella Biblioteca dell’Ereditarietà, una per ogni uomo e ogni donna a partire dal ventitreesimo secolo. Questa coincidenza è stata scoperta per caso circa un mese fa.»
«È stato allora che sono cominciati i guai, quindi. Ma ancora non capisco di che cosa si tratti.»
«Esattamente cosa sai, Dick, del tuo famoso antenato?»
«Non più di chiunque altro, immagino. Di certo non so come o perché sia scomparso, se è questo che vuoi dire. Non aveva lasciato la Terra?»
«No. Ha lasciato il mondo, se vuoi, ma non ha mai lasciato la Terra. Pochissime persone lo sanno, Dick, ma è stato Rolf Thordarsen a costruire Comarre.»
Comarre! Peyton si lasciò sfuggire la parola tra le labbra dischiuse, assaporando il significato e la stranezza di quel suono. Così esisteva davvero, dopotutto! Ma perfino quel fatto era stato negato da qualcuno.
«Non credo che tu sappia molto a proposito dei Decadenti» riprese Henson. «I libri di storia sono stati riveduti con una certa cura. Ma tutta la questione è legata alla Seconda Era Elettronica…»
A trentamila chilometri dalla superficie della Terra, la luna artificiale che ospitava il Consiglio Mondiale roteava nella sua orbita eterna. Il tetto della Camera del Consiglio era una lastra liscia di cristallite, sicché, quando i membri dell’assemblea erano in seduta, pareva che tra loro e il grande globo in rotazione non ci fosse nulla.
Quella configurazione simbolica aveva un significato profondo. Nessuna angusta visione campanilistica poteva sopravvivere a lungo in un simile ambiente. Lì, più che in qualunque altro luogo, le menti degli uomini avrebbero partorito di sicuro i loro frutti migliori.
Peyton il Vecchio aveva trascorso la propria vita guidando i destini della Terra. Per cinquecento anni la razza umana aveva conosciuto la pace, senza lamentarsi della mancanza di qualsiasi prodotto dell’arte o della scienza. Gli uomini che governavano il pianeta potevano essere orgogliosi della loro opera.
Eppure, il vecchio statista era inquieto. Forse, i mutamenti che si prospettavano proiettavano già avanti la loro ombra. Forse, seppure solo inconsciamente, sentiva che i cinque secoli di tranquillità stavano giungendo al termine.
Accesa la macchina per scrivere, cominciò a dettare.
La Prima Era Elettronica, come Peyton sapeva bene, era cominciata nel 1908, più di undici secoli prima, con l’invenzione del triodo di De Forest. Lo stesso secolo favoloso che aveva visto l’avvento dello Stato Mondiale, dell’aeroplano, della nave spaziale e dell’energia atomica, aveva assistito all’invenzione di tutti i fondamentali strumenti termoionici che avevano reso possibile la civiltà come lui la conosceva.
La Seconda Era Elettronica era venuta cinquecento anni dopo, su impulso non più dei fisici, ma dei medici e degli psicologi. Per circa cinque secoli, quegli scienziati avevano registrato le correnti elettriche che scorrono nel cervello durante i processi del pensiero. L’analisi si era rivelata impensabilmente complessa, ma dopo generazioni di dure fatiche era stata portata a termine. Alla fine, era stata aperta la via per le prime macchine in grado di leggere nella mente umana.
Era stato solo l’inizio. Una volta che aveva scoperto il meccanismo del suo cervello, l’uomo poteva procedere ancora. Poteva riprodurlo, usando i transistor e le reti di circuiti anziché le cellule viventi.
Verso la fine del ventunesimo secolo erano state costruite le prime macchine pensanti. Quanto mai rozze, dato che per il lavoro di un centimetro cubo del cervello umano erano necessari cento metri quadrati di apparecchi. Ma una volta compiuto il primo passo, non passò molto prima che venisse perfezionato e introdotto nell’uso comune il cervello meccanico.
Questo apparecchio era in grado di svolgere solo le attività inferiori del lavoro intellettuale, e mancava di alcune caratteristiche squisitamente umane come l’iniziativa, l’intuizione e tutte le emozioni. Tuttavia, in circostanze che variavano poco, dove i suoi limiti non erano troppo gravi, poteva fare tutto quello che faceva un uomo.
L’avvento dei cervelli metallici aveva portato una delle grandi crisi nella civiltà umana. Per quanto gli uomini dovessero ancora svolgere le attività superiori del governo e del controllo della società, tutta l’enorme massa del normale lavoro di amministrazione era stata affidata ai robot. L’uomo, infine, aveva raggiunto la libertà. Non doveva più spremersi il cervello progettando complessi piani per il trasporto, stabilendo i programmi di produzione e stilando i bilanci. Le macchine, che secoli prima erano subentrate in tutti i lavori manuali, avevano dato il loro secondo grande contributo alla società.
L’effetto sulle attività umane fu immenso, e gli uomini reagirono alla nuova situazione in due modi. Ci furono quelli che usarono nobilmente la nuova libertà per gli scopi che avevano sempre attratto le menti più elevate: la ricerca della verità e della bellezza, ancora inafferrabili come ai tempi in cui era stata costruita l’Acropoli.
Ma c’erano altri che la pensavano diversamente. Alla fine, dissero costoro, la maledizione di Adamo era stata cancellata per sempre. Ora potevano costruire città in cui le macchine si sarebbero incaricate di ogni loro bisogno non appena il pensiero fosse entrato nelle loro menti: prima ancora, anzi, dato che l’analizzatore può leggere perfino i segreti desideri dell’inconscio. L’uomo si è guadagnato questo diritto. E noi siamo stanchi di questa interminabile lotta per la conoscenza e del cieco desiderio di lanciare un ponte verso le stelle.
Era l’antico sogno dei Lotofagi, un sogno antico quanto l’uomo. Ora, per la prima volta, era possibile tradurlo in realtà. Per un po’, non furono in molti a condividerlo. La fiamma del Secondo Rinascimento non aveva ancora cominciato a vacillare e a spegnersi. Ma con il trascorrere degli anni, i Decadenti attrassero sempre un maggior numero di persone verso il loro modo di pensare. In luoghi defilati, sui pianeti più nascosti, costruirono le città dei loro sogni.
Per un secolo fiorirono come strani fiori esotici, fino a che il fervore quasi religioso che aveva ispirato le loro costruzioni non venne meno. Sopravvissero ancora per una generazione. Poi, a uno a uno, svanirono dall’orizzonte della coscienza umana. Lasciarono però un nugolo di fiabe e leggende, che si erano sviluppate con il trascorrere dei secoli.
Solo una di quelle città era stata eretta sulla Terra, una città riguardo alla quale c’erano misteri che il mondo di fuori non aveva mai risolto. Per qualche suo scopo, il Consiglio Mondiale aveva cancellato ogni nozione di quel luogo. La sua ubicazione era un mistero. Alcuni dicevano che si trovasse nelle distese artiche; altri credevano si celasse sul fondo del Pacifico. Nulla era sicuro, tranne il suo nome: Comarre.
Henson fece una pausa nella sua narrazione.
«Finora, non ti ho detto nulla di nuovo, nulla che non sia di dominio pubblico. Il resto della storia è un segreto noto al Consiglio Mondiale e forse a un centinaio di abitanti di Scientia.
«Rolf Thordarsen, come sai, è stato il più grande genio della meccanica che il mondo abbia conosciuto. Neppure Edison può reggere il confronto. Ha gettato le basi dell’ingegneria dei robot e ha costruito la prima macchina pensante.
«I suoi laboratori hanno buttato fuori una miriade di brillanti invenzioni per oltre vent’anni. Poi, all’improvviso, è scomparso. Venne messa in giro la voce che avesse tentato di raggiungere le stelle. In realtà, le cose sono andate in questo modo.
«Thordarsen pensava che i suoi robot, le macchine che ancora adesso sovrintendono al funzionamento della nostra civiltà, fossero solo un inizio. Andò al Consiglio Mondiale con certe proposte che avrebbero cambiato la faccia della società umana. Quali fossero questi cambiamenti, non lo sappiamo, ma Thordarsen pensava che, se non fossero stati adottati, la nostra razza alla fine sarebbe giunta a un punto morto, come, in effetti, molti di noi pensano che sia successo.
«Il Consiglio si oppose con violenza. A quell’epoca, come sai, il robot cominciava appena a essere integrato nella civiltà e a poco a poco stava tornando una situazione di stabilità, la stessa che è stata conservata per cinquecento anni.
«Thordarsen fu profondamente deluso. Con il fiuto che possedevano per attrarre i geni, i Decadenti lo condussero nelle loro file e lo convinsero a rinunciare al mondo. Lui era il solo uomo che poteva tradurre i loro sogni in realtà.»
«E l’ha fatto?»
«Nessuno lo sa. Ma Comarre fu costruita, questo è certo. Noi sappiamo dov’è, come il Consiglio Mondiale. Ci sono cose che nessuno può tenere segrete.»
Questo è vero, pensò Peyton. Anche nella sua epoca, sparivano ancora delle persone e si diceva che fossero andate in cerca della città di sogno. Anzi, la frase “è andato a Comarre” era entrata a tal punto nella lingua che il suo senso era andato quasi perduto.
Chino in avanti, Henson continuò con crescente serietà.
«Questa è la parte strana della storia. Il Consiglio Mondiale avrebbe potuto distruggere Comarre, ma non l’ha fatto. La convinzione della sua esistenza ha un preciso effetto stabilizzante sulla società. Malgrado tutti i nostri sforzi, abbiamo ancora degli psicopatici. Non è difficile suggerire loro, sotto ipnosi, il nome di Comarre. Forse non la troveranno mai, ma la ricerca li rende innocui.
«Nei primi tempi, poco dopo la fondazione della città, il Consiglio mandò i suoi agenti a Comarre. Nessuno è mai ritornato. Ma non c’era nulla di losco; semplicemente, hanno preferito rimanere. Questo lo sappiamo per certo, perché hanno spedito dei messaggi. Immagino che i Decadenti si siano resi conto che il Consiglio avrebbe raso al suolo la città, se avessero trattenuto i suoi agenti con la forza.
«Io ho visto alcuni di questi messaggi. Straordinari. C’è una sola parola che renda l’idea: esaltati. Dick, a Comarre c’era qualcosa che induceva un uomo a dimenticare il mondo esterno, la sua famiglia, tutto! Prova a immaginare che cosa significa!
«Più tardi, quando fu certo che nessuno dei Decadenti poteva essere ancora vivo, il Consiglio ci riprovò. E ci stava ancora provando cinquant’anni fa. Ma fino adesso, nessuno è mai tornato da Comarre.»
Mentre Richard Peyton parlava, il robot in attesa analizzava le sue parole all’interno del loro gruppo fonetico, inseriva la punteggiatura e inviava automaticamente la minuta ai corrispondenti schedari elettronici.
«Copia per il Presidente e il mio archivio personale.
«In riferimento alla sua minuta del 22 e alla nostra conversazione di stamattina.
«Ho visto mio figlio, ma R.P. III mi è sfuggito. È assolutamente deciso, e faremo solo danni peggiori cercando di costringerlo. Thordarsen dovrebbe averci insegnato la lezione.
«Suggerisco che ci guadagniamo la sua gratitudine dandogli tutta l’assistenza di cui ha bisogno. Dopo, potremo indirizzarlo lungo direttrici di ricerca sicure. Finché non scoprirà che R.T. era un suo antenato, non dovrebbe esserci alcun pericolo. Malgrado le somiglianze di carattere, è improbabile che tenti di ripetere l’opera di R.T.
«Soprattutto, dobbiamo fare in modo che non scopra né visiti mai Comarre. Se accadesse, nessuno può prevederne le conseguenze.»
Henson interruppe il suo racconto, ma l’amico non disse nulla, troppo affascinato per parlare. Così, poco dopo, l’altro riprese: «Tutto questo ci riporta al presente e a te. Dick, il Consiglio Mondiale ha scoperto i tuoi caratteri ereditari un mese fa. Ci dispiace di averlo informato, ma ormai è troppo tardi. Geneticamente, tu sei una reincarnazione di Thordarsen unicamente nel senso scientifico della parola. Si è verificato uno degli eventi più improbabili della natura, come capita a distanza di qualche secolo nell’una o nell’altra famiglia.
«Tu, Dick, puoi continuare l’opera. Thordarsen è stato costretto ad abbandonarla, di qualunque cosa si trattasse. Forse è perduta per sempre, ma se ne esiste ancora qualche traccia, il segreto si trova a Comarre. Il Consiglio Mondiale lo sa. Perciò tenta di sviarti dal tuo destino.
«Non prendertela per questo. Al Consiglio ci sono alcune delle menti più nobili prodotte dalla razza umana. Non vogliono farti del male, e non ti succederà nulla. Ma sono divorate dall’ansia di preservare l’attuale struttura della società, secondo loro la migliore in assoluto.»
Peyton si alzò lentamente. Per un attimo, parve quasi un osservatore estraneo, neutrale, intento a osservare quella figura profana chiamata Richard Peyton III, non più un uomo, ormai, ma un simbolo, una delle chiavi del futuro del mondo. Solo con un autentico sforzo mentale riuscì a identificarsi di nuovo con se stesso.
L’amico lo guardava in silenzio.
«C’è qualcos’altro che non mi hai detto, Alan. Come sai tutto questo?»
Henson sorrise.
«Mi aspettavo questa domanda. Io sono solo il portavoce, scelto per via della nostra conoscenza. Chi siano gli altri, non posso dirlo neppure a te. Ma tra loro c’è un buon numero degli scienziati che, a quanto so, tu ammiri.
«C’è sempre stata una rivalità amichevole tra il Consiglio e gli scienziati al suo servizio, ma negli ultimi anni i nostri punti di vista si sono allontanati. Molti di noi ritengono che l’attuale epoca, la quale secondo il Consiglio durerà per sempre, sia solo un interregno. Noi pensiamo che un periodo troppo lungo di stabilità porterà la decadenza. Gli psicologi del Consiglio sono convinti di poterlo impedire.»
Gli occhi di Peyton scintillarono. «È proprio quello che dicevo io! Posso unirmi a voi?»
«Più avanti. Prima ci sono alcune cose da fare. Vedi, in un certo senso siamo dei rivoluzionari. Noi provocheremo una o due reazioni sociali e, quando avremo finito, il pericolo di una decadenza della razza sarà allontanato di duemila anni. Tu, Dick, sei uno dei nostri catalizzatori. Non il solo, oserei dire.»
Si fermò per un attimo.
«Anche se da Comarre non dovesse venire fuori nulla, abbiamo un altro asso nella manica. Entro cinquant’anni, speriamo di aver perfezionato il motore interstellare.»
«Finalmente!» esclamò Peyton. «Che cosa farete allora?»
«Lo presenteremo al Consiglio e diremo: “Ecco qua, ora potete andare verso le stelle. Non siamo stati bravi?”. E il Consiglio dovrà limitarsi a un sorrisetto stentato e cominciare a sradicare la civiltà. Una volta che avremo messo a punto il viaggio interstellare, avremo di nuovo una società in espansione e la stagnazione sarà rimandata a tempo indeterminato.»
«Spero di essere ancora vivo per vederlo» disse Peyton. «Ma che cosa volete che faccia adesso?»
«Solo questo: vogliamo che tu vada a Comarre a scoprire che cosa c’è. Noi pensiamo che tu possa riuscire dove altri hanno fallito. Abbiamo già preparato tutti i piani.»
«E dov’è Comarre?»
Henson sorrise.
«È semplice, davvero. C’era solo un posto dove poteva trovarsi, il solo posto che nessun velivolo può sorvolare, dove non vive nessuno, dove bisogna spostarsi a piedi. È nella Grande Riserva.»
Il vecchio spense la macchina per scrivere. Sopra o sotto di lui, era lo stesso, la grande falce della Terra stava sbucando dalle stelle. Nella sua eterna orbita, la piccola luna aveva raggiunto la linea d’ombra e si stava tuffando nella notte. Qua e là, la Terra che si scuriva era punteggiata dalle luci delle città.
Quella vista riempì il vecchio di tristezza. Gli ricordava che anche la sua vita stava giungendo al termine e pareva prefigurare la fine della cultura che aveva cercato di proteggere. Forse, dopotutto, i giovani scienziati avevano ragione. Il lungo riposo stava finendo e il mondo stava per muoversi verso nuove imprese di cui lui non avrebbe mai visto il compimento.
3
Il leone selvaggio
Era notte quando l’astronave di Peyton giunse in direzione ovest sopra l’Oceano Indiano. L’occhio non discerneva nulla, laggiù, salvo la bianca linea dei frangiflutti lungo la costa africana, ma lo schermo di navigazione mostrava ogni particolare della terra sottostante. La notte, ovviamente, non costituiva una protezione o una salvaguardia, ora, ma faceva sì che nessun occhio umano potesse vederlo. Quanto alle macchine che avrebbero dovuto osservarlo… be’, altri avrebbero provveduto. A quanto sembrava, erano in molti a pensarla come Hensen.
Il piano era stato accuratamente tracciato, i particolari elaborati con grande cura da persone che si erano palesemente divertite. Lui doveva atterrare al limite della foresta, il più vicino possibile alla barriera elettrica.
Neppure i suoi ignoti amici potevano disattivare quella barriera senza destare sospetti. Per fortuna, c’erano solo trenta chilometri dal bordo di quello schermo fino a Comarre, e tutti su un terreno completamente aperto. Avrebbe dovuto finire il suo viaggio a piedi.
La piccola astronave atterrò nella foresta sconosciuta, in mezzo a un gran crepitio di rami, finché si fermò in equilibrio sulla chiglia. Peyton spense le fioche luci della cabina e sbirciò dal finestrino. Non vide nulla. Ricordando le istruzioni, non aprì la porta. Si mise a suo agio per quanto possibile e si dispose ad aspettare l’alba.
Si svegliò abbagliato da un sole scintillante. Indossata rapidamente l’attrezzatura fornita dai suoi amici, aprì la porta della cabina e uscì nella foresta.
Il luogo dell’atterraggio era stato scelto con attenzione, e non gli fu difficile aprirsi la via per quei pochi metri fino al terreno sgombro. Davanti a lui si stendevano collinette erbose punteggiate qua e là da macchie di alberi sottili. Era una giornata mite, a dispetto dell’estate e della vicinanza dell’equatore, grazie agli ottocento anni di controllo del clima e ai grandi laghi artificiali che avevano eliminato i deserti.
Quasi per la prima volta in vita sua, Peyton si trovava a contatto con la natura così come era nei giorni anteriori all’esistenza dell’uomo. Ma non era la selvaticità della scena che gli pareva così singolare. Peyton non aveva mai conosciuto il silenzio. Da sempre aveva udito, come un rumore di fondo, il mormorio delle macchine o il lontano ronzio di rapide astronavi di linea dalle iperboliche altezze della stratosfera.
Lì non c’era nessuno di quei rumori, poiché nessuna macchina era in grado di attraversare la barriera elettrica che circondava la Riserva. Si sentiva solo il vento nell’erba e il guazzabuglio delle voci degli insetti in sordina. Il silenzio gli parve snervante, e così, come uno qualunque degli uomini del suo tempo, premette il bottone della radio portatile, che selezionò la banda della musica di fondo.
Così, chilometro dopo chilometro, il ragazzo avanzò attraverso il mosso paesaggio della Grande Riserva, la più vasta zona di territorio naturale rimasta sulla superficie del globo. Il cammino era facile, perché i neutralizzatori dell’equipaggiamento quasi annullavano il suo peso. Peyton portava con sé quella nebbiolina di musica discreta che aveva fatto da sfondo alla vita degli uomini quasi dalla scoperta della radio. Benché dovesse solo toccare un quadrante per mettersi in comunicazione con chiunque sul pianeta, in tutta sincerità si immaginava solo nel cuore della natura, e per un momento provò tutte le emozioni che Stanley e Livingstone dovevano aver sperimentato quando avevano fatto per la prima volta il loro ingresso in quella stessa terra più di mille anni prima.
Fortunatamente era un buon camminatore, e per mezzogiorno aveva coperto metà del percorso. Si fermò per la colazione sotto una macchia di conifere importate da Marte, alberi che avrebbero gettato in una perplessa costernazione un esploratore dei vecchi tempi ma che, nella sua ignoranza, Peyton accettò con assoluta serenità.
Aveva già accumulato una piccola pila di scatolette vuote, quando si accorse di un oggetto in rapido movimento sulla pianura nella direzione da cui era venuto. Era troppo lontano perché potesse distinguerlo, e solo quando cominciò ad avvicinarsi sensibilmente, il giovane si prese la briga di alzarsi per inquadrarlo meglio. Fino ad allora non aveva visto alcun animale, benché molti animali avessero visto lui, e così guardò con interesse la creatura in arrivo.
Un leone proprio non l’aveva mai visto, ma non ebbe difficoltà a riconoscere la magnifica bestia che si avvicinava a grandi balzi. Diremo, a suo merito, che solo una volta guardò l’albero sopra di lui. Dopodiché, tenne la posizione risolutamente.
In realtà, lo sapeva bene, non c’erano più animali veramente pericolosi nel mondo. La Riserva era qualcosa che stava a metà tra un vasto laboratorio biologico e un parco nazionale, visitato da migliaia di persone ogni anno. In generale, era inteso che se l’intruso avesse lasciato in pace gli abitanti del luogo, quelli si sarebbero comportati allo stesso modo. Un compromesso che di solito funzionava a meraviglia.
Di certo, quell’animale era ansioso di mostrarsi amichevole: trottò verso di lui e cominciò a strusciarsi affettuosamente contro il suo fianco. Quando Peyton si alzò di nuovo, il leone guardava con grande interesse le scatolette vuote, poi, a un tratto, si voltò verso di lui con un’espressione irresistibile.
Peyton scoppiò a ridere e, aperta un’altra lattina, dispose con cura il contenuto su una pietra piatta. Il leone accettò il tributo con gioia. Mentre mangiava, Peyton scorse l’indice della guida ufficiale previdentemente fornita dai suoi ignoti alleati.
Le pagine sui leoni erano parecchie, debitamente corredate di fotografie a beneficio dei visitatori extraterrestri. Mille anni di allevamento scientifico avevano molto migliorato il re degli animali. Nell’ultimo secolo, aveva sbranato solo dodici persone, e in dieci casi la successiva inchiesta l’aveva esonerato da ogni addebito; le altre due accuse erano state archiviate come “non dimostrate”.
A ogni modo, il libro non diceva nulla circa i leoni non desiderati e sul sistema migliore per liberarsene. Né accennava al fatto che di norma fossero amichevoli come quell’esemplare.
Tutt’altro che acuto osservatore, Peyton impiegò un po’ di tempo prima di notare la sottile striscia metallica intorno alla zampa anteriore destra della bestia, sulla quale era incisa una serie di numeri e di lettere, seguita dal marchio ufficiale della Riserva.
Quello non era un animale selvaggio, forse aveva trascorso tutta la giovinezza in mezzo agli uomini: probabilmente era uno dei famosi super leoni ottenuti dai biologi e poi liberati per migliorare la razza. Stando ai rapporti letti da Peyton, alcuni di quegli animali erano intelligenti come cani.
Ben presto, il ragazzo scoprì che il suo amico poteva capire molte parole semplici, specialmente quelle legate al cibo. Perfino per la sua epoca era una splendida bestia, di trenta centimetri buoni più alta dei suoi scheletrici predecessori di dieci secoli prima.
Quando Peyton si rimise in viaggio, il leone trotterellò al suo fianco. Il ragazzo dubitava che quella amicizia valesse più di mezzo chilo di carne di manzo sintetico, ma era piacevole avere qualcuno con cui parlare e che, per di più, non cercasse in alcun modo di contraddirlo. Dopo una profonda e concentrata riflessione, decise che “Leo” sarebbe stato un nome adatto per la sua nuova conoscenza.
Aveva percorso poche centinaia di metri, quando all’improvviso un lampo accecante percorse l’aria davanti a lui. Pur rendendosi conto di cosa si trattava, il ragazzo trasalì e si fermò sbattendo le palpebre. Leo era fuggito a gambe levate ed era già fuori dalla sua visuale: non era stato di grande utilità nell’emergenza, pensò Peyton. In seguito, avrebbe dovuto rivedere il suo giudizio.
Quando i suoi occhi si ripresero, Peyton si ritrovò a fissare un avviso multicolore incendiato da lettere di fuoco. Sospeso stabilmente in aria, recitava:
ATTENZIONE!
VI STATE AVVICINANDO
AL TERRITORIO PROIBITO!
TORNATE INDIETRO!
PER ORDINE DEL CONSIGLIO MONDIALE
IN SEDUTA PLENARIA.
Peyton considerò pensierosamente l’avviso per qualche attimo, poi si guardò intorno alla ricerca del proiettore. Era in una scatola metallica, nascosta non molto abilmente sul lato della strada. In un batter d’occhio, l’aprì con le chiavi universali che una fiduciosa Commissione per l’elettronica gli aveva dato al momento del suo primo diploma di laurea.
Dopo averlo studiato per qualche minuto, tirò un sospiro di sollievo. Il proiettore era un semplice apparecchio basato sulla capacità elettrica. Qualunque cosa fosse passata per la strada l’avrebbe messo in funzione. Aveva un registratore fotografico, che qualcuno aveva staccato. Non c’era da sorprendersene, dato che ogni animale di passaggio avrebbe attivato il dispositivo. Una circostanza fortunata. Significava che nessuno avrebbe mai saputo che Richard Peyton III era passato di lì.
Lanciò un grido a Leo, che tornò verso di lui lentamente, con aria piuttosto imbarazzata. L’avviso era scomparso: Peyton si assicurò che i relè fossero aperti, in modo che non riapparisse al passaggio della bestia, quindi chiuse lo sportello e continuò per la sua strada, chiedendosi che cosa gli sarebbe toccato ancora.
Cento metri più in là, una voce senza corpo cominciò a parlargli in tono severo. Non che gli dicesse nulla di nuovo, ma minacciò una serie di sanzioni non troppo gravi, che in qualche caso non gli erano del tutto sconosciute.
Osservare la faccia di Leo, mentre tentava di individuare la sorgente del suono, costituiva un autentico divertimento. Ancora una volta, Peyton cercò il proiettore e lo bloccò prima di procedere. Sarebbe stato più sicuro, decise, lasciare definitivamente la strada. Più avanti avrebbero potuto esserci degli strumenti per la registrazione.
Con qualche difficoltà, persuase il leone a restare sulla superficie metallica, mentre lui camminava lungo lo sterile terreno a fianco della strada. Nel successivo mezzo chilometro, la bestia mise in azione altre trappole elettroniche pronte a sorprendere il primo malcapitato. L’ultima sembrava aver rinunciato a qualunque tentativo di persuasione e si limitava ad avvertire:
ATTENZIONE AI LEONI SELVAGGI.
Peyton guardò Leo e cominciò a ridere. Leo, dal canto suo, non capiva dove stesse lo scherzo, ma rise per educazione. Dietro di loro, l’avviso automatico si dissolse con un ultimo guizzo di disperazione.
Peyton si chiese come mai fossero stati piazzati quegli avvertimenti. Forse per scoraggiare qualunque visitatore accidentale. Quelli che conoscevano il loro obiettivo difficilmente si sarebbero lasciati dissuadere.
La strada descrisse una brusca curva ad angolo retto, e poi, davanti a lui, apparve Comarre. Era strano che una circostanza attesa potesse procurargli un simile turbamento. Di fronte a lui, in mezzo alla giungla, si estendeva un’immensa radura, coperta a metà da una struttura metallica nera.
La città era disegnata come un cono a terrazze, alto circa ottocento metri e largo mille alla base. Fino a che profondità scendesse nel sottosuolo, Peyton non poté indovinarlo. Sbalordito dalle dimensioni e dalla singolarità dell’enorme edificio, si fermò, quindi si avvicinò piano piano.
Come un animale da preda accucciato nella sua tana, la città giaceva in attesa, pronta ad accogliere i suoi ospiti, per quanto ormai assai rari, chiunque essi fossero. A volte questi voltavano le spalle al primo avviso, a volte al secondo. Alcuni erano giunti fino all’ingresso prima che la loro risoluzione li abbandonasse, ma per la maggior parte i nuovi venuti, che si erano spinti fin là, entravano piuttosto di buon grado.
Così Peyton arrivò ai gradini marmorei che portavano verso la torreggiante parete di metallo e al curioso buco nero che pareva l’unica entrata. Leo trottò tranquillamente di fianco a lui, senza far caso a quello strano spettacolo.
Ai piedi delle scale, il ragazzo si fermò e compose un numero sul trasmettitore. Aspettò fino a che non giunse il segnale di ricezione, quindi parlò adagio nel microfono.
«La mosca sta entrando nel salotto.»
Ripeté quelle parole due volte, sentendosi piuttosto sciocco. Qualcuno, pensò, doveva avere un perverso senso dell’umorismo.
Non giunse risposta. Era tutto previsto negli accordi, ma Peyton non ebbe dubbi che il messaggio fosse giunto a destinazione, probabilmente in qualche laboratorio di Scientia, dato che il numero composto aveva un prefisso dell’Emisfero Occidentale.
Aprì la più grande fra le scatole di carne e ne sparse il contenuto sul marmo, quindi affondò le dita nella criniera del leone e la scompigliò per gioco.
«Immagino che sia meglio se tu resti qui» gli disse. «Potrei stare via per un pezzo. Non cercare di seguirmi.»
In cima agli scalini, si voltò indietro. Con suo notevole sollievo, il leone non fece alcun tentativo di seguirlo: accucciato a terra, lo guardava con aria patetica. Con un cenno, Peyton si voltò.
Nella curva superficie metallica non si apriva alcuna porta, solo un semplice buco nero. Piuttosto strano: chissà come i costruttori pensavano di tenere alla larga gli animali. Poi, qualcosa intorno all’apertura attrasse la sua attenzione.
I circuiti del discriminatore, accuratamente tarati, avevano ignorato il leone come avevano ignorato tutti gli animali randagi capitati in quello scuro portale. Ma la presenza di una mente umana era stata sufficiente a far scattare i relè. Per una frazione di secondo, la barriera attraverso cui Peyton stava passando pulsò di energia. Poi ridivenne inerte.
A Peyton, sembrò che il suo piede impiegasse parecchio tempo prima di toccare terra, ma quella era l’ultima delle sue preoccupazioni. Assai più sorprendente fu l’istantaneo passaggio dal buio alla luce improvvisa, dal calore un po’ opprimente della giungla a una temperatura quasi fredda al confronto. Un cambiamento così netto che lo lasciò ansimante. Colmo di una sensazione di disagio, si voltò verso l’arco attraverso cui era appena entrato.
Era sparito. Non c’era mai stato. Lui si trovava su una piattaforma metallica soprelevata al centro esatto di una grande stanza circolare con una decina di archi a sesto acuto lungo la circonferenza. Possibilissimo che fosse entrato attraverso uno di quelli, se solo non si fossero trovati a quaranta metri di distanza.
Per un attimo, Peyton fu preso dal panico. Sentì il cuore martellare, mentre alle sue gambe capitava uno strano fenomeno. Sentendosi profondamente solo, sedette sulla piattaforma e cominciò a considerare la situazione secondo logica.
4
Il segno del papavero
Qualcosa l’aveva trasportato all’istante dal nero ingresso al centro della stanza. Potevano esserci solo due spiegazioni, ugualmente fantastiche. O c’era qualcosa di profondamente sbagliato nello spazio all’interno di Comarre, o i suoi costruttori avevano appreso il segreto della trasmissione della materia.
Sin da quando avevano imparato a inviare suoni e immagini attraverso le onde dell’etere, gli uomini avevano sognato di trasmettere la materia con lo stesso sistema. Peyton guardò la pedana su cui si trovava. Era più che possibile che contenesse un’apparecchiatura elettronica… e sul soffitto sopra di lui c’era una strana protuberanza.
Comunque avessero fatto, non riusciva a immaginare un modo migliore di ignorare i visitatori indesiderati. Saltò giù dalla piattaforma con una certa fretta. Non era un posto dove fosse il caso di trattenersi.
Era un’inquietante consapevolezza, ma capì che non aveva modo di andarsene senza la cooperazione della macchina che lo aveva portato fin lì. Ma si sarebbe preoccupato di una cosa alla volta. Quando avesse concluso la sua esplorazione, sarebbe stato padrone di quello e di tutti gli altri segreti di Comarre.
Non era troppo presuntuoso. Cinque secoli di ricerca lo separavano dai creatori della città. Per quanto potesse trovare molti dispositivi a lui sconosciuti, non ci sarebbe stato nulla che non potesse capire. Scelta a caso una delle uscite, il giovane cominciò a esplorare la città.
Le macchine osservavano, aspettando il momento opportuno. Erano state costruite per servire a uno scopo, e quello scopo perseguivano ciecamente. Molto tempo prima avevano portato la pace dell’oblio alle menti esauste dei loro costruttori. Lo stesso oblio potevano ancora arrecare a tutti coloro che fossero entrati nella città di Comarre.
Gli strumenti avevano cominciato la loro analisi quando Peyton era giunto dalla foresta. Non era un compito che potessero assolvere in fretta, la dissezione di una mente umana, con tutte le sue speranze, i desideri e le paure. I sintetizzatori non sarebbero entrati in funzione che dopo molte ore. Fino ad allora, l’ospite sarebbe stato intrattenuto, mentre gli veniva preparata la più grandiosa accoglienza.
Il piccolo robot incontrò parecchi problemi con l’inafferrabile visitatore, prima di riuscire a localizzarlo: in effetti Peyton, nel suo giro esplorativo, passava rapidamente da una stanza all’altra. All’improvviso, la macchina si fermò in mezzo a una saletta circolare bordata tutt’intorno da interruttori magnetici e illuminata da un unico tubo a luminescenza.
Secondo i suoi strumenti, Peyton si trovava a pochi metri di distanza, ma le sue quattro lenti oculari non ne scorgevano traccia. Perplesso, il robot rimase immobile e muto, salvo che per il debole ronzio dei motori e l’occasionale risatina di un relè.
In piedi su una passerella a tre metri da terra, Peyton osservava la macchina con grande interesse. Da un massiccio basamento montato su piccole ruote motrici vedeva alzarsi un cilindro metallico. Nessun arto di alcun tipo: il cilindro era liscio, a parte il cerchietto delle lenti e una serie di piccoli microfoni a griglia metallica.
Era divertente osservare lo sconcerto della macchina, mentre il suo minuscolo cervello lottava con due serie contrastanti di informazioni. Benché sapesse che Peyton doveva essere nella stanza, i suoi occhi gli dicevano che quello spazio era vuoto. Il robot cominciò a trotterellare descrivendo piccoli cerchi, finché Peyton, mosso a pietà, scese a terra. Immediatamente, la macchina cessò le sue rotazioni e cominciò a rivolgergli il suo messaggio di benvenuto.
«Io sono A-Cinque. La porterò ovunque desideri. Prego, mi dia gli ordini nel vocabolario robot standard.»
Peyton era piuttosto deluso. Si trattava di un normalissimo robot: aveva sperato in qualcosa di meglio nella città eretta da Thordarsen. Ma la macchina gli sarebbe riuscita molto utile, se l’avesse usata correttamente.
«Grazie» rispose in modo un po’ inconsulto. «Per favore, portami nei quartieri residenziali.»
Benché fosse ormai sicuro che la città fosse completamente automatizzata, non si sentiva di escludere che vi si trovasse qualche creatura umana. Laggiù potevano esserci altre persone, in grado di aiutarlo nella sua ricerca, anche se, forse, doveva sperare invece che non lo ostacolassero.
Senza una parola, la piccola macchina girò sulle ruote motrici e uscì dalla stanza. Il corridoio attraverso il quale condusse il visitatore terminava contro una porta splendidamente intagliata, che lo stesso Peyton aveva già cercato di aprire, ma senza successo. A-Cinque doveva conoscerne il segreto, perché al loro sopraggiungere la spessa piastra metallica scivolò silenziosamente da una parte. Il robot entrò quindi in una piccola stanza, disegnata come una scatola.
Peyton si chiese se si trovassero all’interno di un altro trasmettitore di materia, ma ben presto scoprì che non si trattava di nulla più che un banale ascensore. A giudicare da quanto era durata la salita, doveva averli portati quasi sulla cima della città. Quando la porta si aprì, ebbe l’impressione di trovarsi in un altro mondo.
I corridoi incontrati fino a quel momento erano tetri e nudi, puramente funzionali. Al contrario, quegli spaziosi saloni e quelle sale da riunione erano arredati con il gusto più sfarzoso. Il ventunesimo secolo era stata un’epoca di lussureggianti decorazioni e colori, assai disprezzati nelle età successive. Ma i Decadenti si erano spinti ben al di là dei loro contemporanei, saccheggiando le risorse della psicologia, oltre che dell’arte, al momento di progettare Comarre.
Non sarebbe bastata una vita intera per apprezzare tutti i murali, le incisioni e i dipinti, i complessi arazzi che parevano brillare ancora come quando erano stati orditi. Sembrava davvero un peccato che quello splendido palazzo dovesse essere abbandonato e nascosto al mondo. Dimentico quasi del suo scopo scientifico, Peyton passava rapido come un bambino dall’una all’altra meraviglia.
Ecco lì delle opere di genio, forse le più grandi che il mondo avesse mai conosciuto. Ma era un genio malato, disperato, privo di ogni fiducia in se stesso, benché ancora depositario di un’immensa abilità tecnica: per la prima volta, Peyton comprese appieno perché i costruttori di Comarre fossero stati battezzati così.
L’arte dei Decadenti lo respingeva e lo affascinava allo stesso tempo. Non era malvagia, poiché era completamente distaccata dai principi morali. Forse, le sue caratteristiche dominanti erano lo sfinimento e la disillusione. Dopo un po’ Peyton, che non si era mai considerato molto sensibile alle arti figurative, cominciò a sentire una sottile depressione insinuarsi nel suo animo. Eppure non riusciva a staccarsi da quelle opere.
Infine, si rivolse di nuovo al robot.
«Qui vivono delle persone, adesso?»
«Sì.»
«Dove si trovano?»
«Stanno dormendo.»
In qualche modo sembrava una risposta perfettamente naturale: l’ospite era molto stanco. Nell’ultima ora aveva dovuto lottare per rimanere sveglio. Qualcosa sembrava indurre il sonno, quasi imponendoglielo. Il giorno seguente avrebbe avuto tempo a sufficienza per scoprire i segreti che era venuto a cercare. Per il momento, voleva solo dormire.
Senza pensare seguì il robot, che lo condusse oltre le vaste sale, in un lungo corridoio intervallato da porte metalliche, ciascuna contrassegnata da un simbolo vagamente familiare, che tuttavia lui non riuscì a riconoscere. La sua mente ancora assonnata si interrogava poco convinta sulla questione, quando la macchina si fermò davanti a una delle porte, che si aprì senza rumore.
Il divano con la sua pesante fodera, nella stanza buia, era irresistibile. Peyton arrancò verso il sofà senza riflettere. Mentre crollava nel sonno, un lampo indistinto di soddisfazione mise sull’avviso la sua mente. Benché fosse troppo stanco per comprenderne il significato, aveva riconosciuto il simbolo sulla porta.
Era il papavero.
Non c’era inganno né malevolenza nell’opera della città. In modo impersonale, assolveva i compiti a cui era stata assegnata. Tutti coloro che erano entrati a Comarre avevano volontariamente abbracciato i suoi doni. Questo visitatore era il primo che li avesse ignorati.
Gli integratori erano pronti da ore, ma quella mente irrequieta, indagatrice, era sfuggita loro. Potevano permettersi di aspettare, come avevano aspettato per quei cinquecento anni.
E ora le difese di quella mente stranamente ostinata stavano crollando, mentre Richard Peyton sprofondava pacificamente nel sonno. Giù, giù, nel cuore di Comarre, scattò un relè e complesse correnti in lente fluttuazioni cominciarono a ritrarsi e ad avanzare attraverso molteplici serie di valvole elettroniche. Quella che era stata la coscienza di Richard Peyton III cessò di esistere.
Si era addormentato all’istante. Per un po’, cadde in uno stato di completo oblio. Ricominciarono, quindi, ad affiorare deboli sprazzi di coscienza. E poi, come sempre, cominciò a sognare.
Era strano che il suo sogno preferito, ora più vivido che mai, gli avesse invaso la mente. Per tutta la vita, Peyton aveva amato il mare, e una volta aveva scorto l’impossibile bellezza delle isole del Pacifico dal ponte di osservazione di un’astronave di linea a bassa quota. Non era mai stato laggiù, ma spesso aveva desiderato di trascorrere la vita su qualche remota isola serena, senza preoccuparsi del futuro del mondo.
Era un sogno che quasi tutti gli uomini avevano nutrito prima o dopo nella loro vita, ma Peyton era abbastanza assennato da rendersi conto che due mesi di quell’esistenza l’avrebbero ricondotto alla civiltà quasi impazzito per la noia. I suoi sogni, però, non erano mai gravati da simili preoccupazioni e, ancora una volta, si ritrovava disteso sotto palme ondeggianti, la risacca che batteva ritmicamente sulla scogliera oltre una laguna che inquadrava il sole in uno specchio azzurro.
Il sogno era straordinariamente nitido, al punto che, pur dormendo, Peyton si sorprese a pensare che nessun sogno poteva essere tanto reale. Cessò, poi, in modo così repentino che nei suoi pensieri parve aprirsi una netta cesura. Quell’interruzione lo sbalzò di colpo nella luce della coscienza.
Amaramente deluso, giacque per un poco con gli occhi serrati, cercando di ricatturare il paradiso perduto. Ma era inutile. Qualcosa picchiava contro il suo cervello, impedendogli di dormire. E poi, il suo divano era diventato quanto mai duro e scomodo. A malincuore concentrò i pensieri sull’elemento di disturbo.
Persona con i piedi per terra, mai angosciato da dubbi filosofici, quel giovanotto fu molto più sconvolto di quanto sarebbe capitato a molte altre menti meno acute. Mai prima di allora gli era accaduto di dubitare del suo equilibrio psichico, ma era quanto gli succedeva ora. Poiché il rumore che l’aveva svegliato era il battere delle onde contro la scogliera. Ed era disteso sulla sabbia dorata di fianco alla laguna. Attorno a lui, il vento sospirava tra le palme, carezzandolo gentilmente con le sue dita tiepide.
Per un attimo, Peyton poté solo immaginare di essere ancora addormentato. Ma questa volta non potevano esserci dubbi. Una persona sana di mente non può scambiare la realtà per un sogno. Quella scena era reale, se mai c’era qualcosa di vero in tutto l’universo.
A poco a poco quel senso di meraviglia si affievolì. Peyton si alzò, la sabbia che gli ruscellava dal corpo in una pioggia dorata. Schermandosi gli occhi dal sole, guardò lungo la spiaggia.
Non finiva più di chiedersi perché quel luogo gli fosse così familiare. Sembrava piuttosto naturale sapere già che il villaggio si trovava un po’ più oltre, lungo la baia. Di lì a poco avrebbe raggiunto i suoi amici, dai quali era stato separato per breve tempo in un mondo che stava rapidamente dimenticando.
Aveva ancora un evanescente ricordo di un giovane ingegnere (ma perfino il nome ora gli sfuggiva) che un tempo aveva aspirato alla fama e alla saggezza. In quell’altra vita aveva conosciuto bene quello sciocco, ma ora non avrebbe mai potuto spiegargli la vanità delle sue ambizioni.
Prese a vagare pigramente per la spiaggia, mentre le ultime indistinte memorie della sua vita d’ombra si squamavano a ogni passo, come i particolari di un sogno si dileguano alla luce diurna.
Dall’altra parte del mondo, tre preoccupatissimi scienziati aspettavano in un laboratorio deserto, gli occhi fissi su un trasmettitore con diversi canali dall’insolito disegno. La macchina taceva da nove ore. Non che qualcuno si aspettasse un messaggio nelle prime otto, ma il segnale previsto era ormai in ritardo da più di una.
Con un gesto d’impazienza, Alan Henson balzò in piedi.
«Dobbiamo fare qualcosa! Lo chiamerò.»
I due colleghi si guardarono nervosamente.
«Potrebbero individuare la chiamata!»
«No, se non ci stanno osservando. E comunque, non dirò niente di speciale. Peyton capirà, se è in grado di rispondere…»
Se Richard Peyton aveva mai conosciuto il tempo, quella nozione adesso era dimenticata. Solo il presente era reale, poiché sia il passato sia il futuro giacevano nascosti da uno schermo impenetrabile, come un grandioso paesaggio può celarsi dietro un muro di pioggia battente.
Nel suo godimento del presente, Peyton era soddisfatto. Non restava un grammo dell’inquieto spirito vigoroso che si era mosso un tempo, con qualche incertezza, alla conquista di vergini campi della conoscenza. Non sapeva che farsene, ormai, della conoscenza.
In seguito, non sarebbe mai riuscito a ricordare nulla della sua vita nell’isola. Aveva conosciuto molti compagni, ma i loro nomi e le loro facce erano scomparsi oltre la memoria. Amore, tranquillità d’animo, felicità: tutto fu suo per un breve lasso di tempo. E tuttavia non sarebbe stato in grado di ricordare altro che gli ultimi, pochi attimi della sua vita in paradiso.
Strano che fosse finita com’era cominciata. Ancora una volta si era trovato di fianco alla laguna, ma adesso era scesa la notte, e non era più solo. La luna, in apparenza eternamente piena, navigava bassa sopra l’oceano, e la sua lunga striscia argentata si protendeva verso il margine del mondo. Le stelle immobili splendevano imperturbabili come gioielli brillanti, più gloriose delle stelle dimenticate della Terra.
Ma i pensieri di Peyton erano concentrati su un’altra bellezza, e ancora una volta si chinò verso la figura che era distesa sulla sabbia d’oro come i capelli che vi erano sparsi disordinatamente.
Poi il paradiso tremò e si dissolse tutt’intorno. Peyton lanciò un grido di angoscia poiché tutto ciò che amava gli veniva strappato. Solo la rapidità del mutamento preservò la sua mente. Quando tutto fu finito, si sentì come forse si era sentito Adamo, allorché le porte dell’Eden erano state sbarrate per sempre alle sue spalle.
Ma il rumore che l’aveva riportato indietro era il più comune al mondo. E forse nessun altro suono avrebbe potuto snidare la sua mente. Nient’altro che lo stridio del trasmettitore, poggiato per terra di fianco al divano, lì nella stanza oscurata della città di Comarre.
Lo strepito svanì quando, teso automaticamente il braccio, schiacciò il pulsante per la ricezione. Doveva aver dato una risposta soddisfacente per il suo sconosciuto interlocutore (chi era Alan Henson?), perché poco dopo il circuito fu liberato. Ancora intontito, il ragazzo sedette sul sofà, tenendosi la testa fra le mani e cercando di orientare di nuovo la sua vita.
Non aveva sognato, ne era sicuro. Piuttosto, era come se avesse vissuto una seconda vita e ora tornasse alla vecchia esistenza, come uno che si riprenda da un’amnesia. Per quanto fosse ancora stordito, una chiara convinzione si fece strada nella sua mente. Non doveva mai più dormire a Comarre.
Lentamente, la volontà e il carattere di Peyton III tornarono dal loro esilio. Barcollando, il giovane si alzò e uscì dalla stanza. Ancora una volta, si trovò nel lungo corridoio con le centinaia di porte identiche. Guardò il simbolo inciso con nuova consapevolezza.
Quasi non badò a dove stava andando, la mente troppo assorta nel problema che gli si prospettava davanti. Lungo il cammino, il suo cervello si schiarì e a poco a poco giunse la comprensione. Nulla più che una teoria, per il momento, ma ben presto l’avrebbe messa alla prova.
La mente umana era un’entità delicata, protetta, senza alcun contatto con il mondo, destinata ad accumulare tutta la sua conoscenza ed esperienza attraverso i sensi: non era impossibile registrare e memorizzare pensieri ed emozioni, come gli antichi uomini un tempo avevano registrato il suono su chilometri di nastri.
Se quei pensieri fossero stati proiettati in un’altra mente, quando il corpo era addormentato e tutti i sensi obnubilati, quel cervello avrebbe creduto di sperimentare la realtà. Non aveva modo di scoprire l’inganno, non più di quanto sia concesso distinguere una sinfonia perfettamente registrata dall’esecuzione originale.
Cognizioni ben note da secoli, ma i creatori di Comarre le avevano usate come nessun altro al mondo prima di loro. Da qualche parte nella città dovevano esserci delle macchine in grado di analizzare tutti i pensieri e i desideri di quanti entravano. Altrove, gli antichi creatori dovevano aver memorizzato ogni sensazione ed esperienza che potessero toccare a una mente umana. Da quel materiale grezzo si potevano costruire tutti i futuri possibili.
Adesso, finalmente, Peyton valutava quanta genialità fosse stata profusa nella creazione di quel luogo. Le macchine avevano analizzato i suoi pensieri più riposti e avevano costruito per lui un mondo basato sui suoi desideri inconsci. Poi, quando si era presentata l’opportunità, si erano impadronite della sua mente e vi avevano immesso tutto ciò che lui aveva sperimentato.
Non c’era da meravigliarsi che tutto ciò che aveva desiderato fosse stato suo in quel paradiso già semidimenticato. E non c’era da meravigliarsi che, nei secoli, tanti avessero cercato la pace che solo Comarre poteva dare!
5
L’Ingegnere
Peyton era ormai rientrato in sé, quando il rumore delle ruote lo indusse a voltarsi per guardarsi alle spalle. Stava tornando la sua guida, il piccolo robot. Senza dubbio, le grandi macchine che lo controllavano si stavano chiedendo cosa fosse successo al suo protetto. Peyton aspettò, mentre nella sua mente andava prendendo forma un’idea.
A-Cinque ricominciò da capo il suo discorso preordinato. Sembrava incongrua, adesso, quella macchina così semplice in un luogo dove l’elettronica automatica aveva raggiunto lo stadio del suo massimo sviluppo. Poi il ragazzo si rese conto che forse la sua struttura rudimentale obbediva a una precisa motivazione. Era inutile usare una macchina complessa, dove una più elementare poteva assolvere ugualmente, o perfino meglio, il compito.
Non fece caso, adesso, al discorso dell’automa. Tutti i robot, lo sapeva bene, devono obbedire ai comandi umani, a meno che altri umani abbiano dato ordini contrari. Perfino i proiettori della città, pensò con una punta d’ironia, avevano obbedito ai comandi ignoti e inespressi del suo subconscio.
«Portami dai proiettori del pensiero» ordinò.
Come si aspettava, il robot non si mosse ma si limitò a rispondere: «Non capisco».
Il morale di Peyton cominciò a risollevarsi, adesso che si sentiva di nuovo padrone della situazione.
«Vieni qui e non muoverti fino a che non te lo dirò io.»
I selettori e i relè del robot considerarono le istruzioni, senza riuscire a trovare nessun ordine che le annullasse. Lentamente, la macchinetta rotolò in avanti sulle sue ruote. Si era arresa, adesso non aveva modo di tornare indietro. Fino a che Peyton non gliel’avesse ingiunto, o qualcosa non avesse sovrastato i suoi comandi, non si sarebbe più potuto muovere. L’ipnosi dei robot era un vecchissimo trucco, uno scherzo amato dai monelli.
In tutta fretta, Peyton vuotò la borsa degli attrezzi che qualunque ingegnere porta sempre con sé: cacciavite universale, chiave a espansione, trapano automatico e, soprattutto, taglierino atomico, in grado di perforare il metallo più spesso nel giro di pochi secondi. Poi, con una perizia nata da lunga pratica, si mise al lavoro sulla macchina inconsapevole.
Per fortuna, il robot era stato pensato per una rapida manutenzione: non era difficile aprirlo. Nulla d’insolito nei comandi, e Peyton non impiegò molto tempo a trovare il meccanismo della locomozione. Ora la macchina non poteva svignarsela, in nessun caso. Era paralizzata.
Allora, l’accecò e poi, a uno a uno, individuò gli altri sensi elettrici e li mise fuori uso. Ben presto, il piccolo congegno non era più che un cilindro pieno di complicati aggeggi. Sentendosi come un ragazzino che avesse appena vibrato un attacco selvaggio a un indifeso orologio del nonno, Peyton sedette in attesa degli inevitabili sviluppi.
Era stato un po’ avventato a sabotare l’automa a tanta distanza dai livelli della macchina principale. Il trasportatore di robot impiegò quasi un quarto d’ora ad arrivare dalle viscere della città. Peyton udì il rumore delle ruote a distanza e capì che i suoi calcoli erano esatti. L’addetto alle riparazioni era in marcia.
Il trasportatore era una semplice macchina da carico, con una serie di bracci che potevano afferrare e tenere un robot danneggiato. Sembrava cieco, anche se i suoi sensi speciali erano senza dubbio più che sufficienti per il suo compito.
Peyton aspettò fino a che ebbe raccolto lo sfortunato A-Cinque. Poi saltò a bordo, tenendosi ben lontano dagli arti meccanici: non aveva nessuna intenzione di farsi scambiare per un altro robot in panne. Per fortuna, la grande macchina non fece assolutamente caso a lui.
E così, l’intruso se ne scese, un piano dopo l’altro, per il grande edificio, oltre i quartieri residenziali, attraverso la stanza dove aveva cominciato il suo viaggio, e ancora più giù, in zone che non aveva mai visto. L’aspetto della città mutava di pari passo intorno a lui.
Adesso, il lusso e l’opulenza dei livelli superiori erano spariti, per lasciare il posto a una terra di nessuno di corridoi desolati, ridotti a poco più di gigantesche sezioni di cavi. A un tratto, anche questi giunsero alla fine. Il trasportatore passò per una serie di grandi porte scorrevoli, e il giovanotto giunse alla meta.
Le file dei pannelli con i relè e i comandi di selezione parevano interminabili ma, benché fosse tentato di saltare giù dal suo ignaro destriero, Peyton aspettò finché non giunsero in vista i pannelli dei controlli centrali. Allora, scese dal trasportatore e rimase a osservarlo mentre spariva, verso qualche recesso ancora più segreto.
Quanto tempo avrebbe impiegato il superautoma a riparare A-Cinque? Il sabotaggio era stato molto accurato e, con ogni probabilità, la macchina stava puntando verso il mucchio dei rottami. Infine, con la sensazione di un uomo affamato che a un tratto si trovi davanti a un banchetto, Peyton cominciò a studiare le meraviglie del posto.
Nelle successive cinque ore si fermò solo una volta per mandare il segnale di routine ai suoi amici. Avrebbe voluto annunciare il suo successo, ma il rischio era troppo grande. Dopo una prodigiosa caccia ai circuiti, aveva scoperto le funzioni delle unità principali e stava cominciando a esaminarne qualcuna dell’apparecchiatura secondaria.
Proprio come si aspettava. Gli analizzatori del pensiero e i proiettori si trovavano al piano immediatamente superiore e potevano essere controllati dall’installazione centrale. Come funzionassero, non ne aveva idea: forse ci sarebbero voluti mesi interi, per scoprire tutti i loro segreti. A ogni modo, li aveva identificati e confidava di poterli staccare in caso di necessità.
Poco dopo scoprì il monitor del pensiero. Era un piccolo dispositivo, abbastanza simile a una vecchia plancia di controllo manuale per i telefoni, ma molto più complessa. Il sedile dell’operatore era una struttura curiosa, isolata da terra e coperta da una rete di fili e di sbarre di cristallo. Era la prima macchina che scopriva palesemente concepita per le mani degli uomini. Probabilmente, gli ingegneri originari l’avevano costruita per mettere a punto l’apparecchiatura nei primi tempi della città.
Non si sarebbe arrischiato a servirsi del monitor del pensiero, se non avesse trovato quelle particolareggiate istruzioni stampate sul pannello di comando. Dopo qualche esperimento, inserì uno dei circuiti e aumentò piano la potenza, tenendo il controllo dell’intensità ben al di sotto del segnale rosso di pericolo.
E per fortuna, perché la sensazione fu devastante. Conservava ancora, adesso, la sua personalità, ma ai suoi pensieri si erano sovrapposte idee e immagini totalmente estranee. Stava guardando un altro mondo, attraverso le finestre di una mente aliena.
Era come se il suo corpo fosse in due luoghi contemporaneamente, anche se le sensazioni della sua seconda personalità erano assai meno vivaci di quelle dell’autentico Richard Peyton III. Ora capiva il significato della linea di pericolo. Se il controllo dell’intensità del pensiero fosse salito troppo in alto, ne sarebbe risultata di certo la pazzia.
Staccò lo strumento, in modo da poter pensare senza interruzioni. Ora comprendeva cosa intendesse il robot, quando diceva che gli altri abitanti della città dormivano. C’erano altri uomini a Comarre, assorti in una trance comandata dai proiettori del pensiero.
Riandò con la mente al lungo corridoio e alle centinaia di porte metalliche. Mentre scendeva, era passato attraverso molte gallerie simili: certo, la maggior parte della città non era altro che un grande alveare di camere dove migliaia di uomini potevano sognare le loro vite.
Uno dopo l’altro, controllò i circuiti sulla plancia. Per lo più erano disinseriti, ma ce n’era ancora in funzione una cinquantina. E ognuno recava tutti i pensieri, i desideri e le emozioni della mente umana.
Ora che era pienamente consapevole, Peyton vedeva bene come fosse stato ingannato. Magra consolazione: scorgeva le fessure di quei mondi sintetici, e poteva constatare come tutte le facoltà fondamentali della mente fossero intorpidite, mentre un’ininterrotta corrente di semplici ma potenti emozioni si riversava al suo interno.
Sì, tutto pareva molto semplice, adesso. E, tuttavia, quel mondo artificioso era interamente reale per chi lo vedeva, così reale che il dolore di averlo lasciato ancora bruciava nella sua stessa anima.
Per circa un’ora esplorò i mondi delle cinquanta menti addormentate. Era una ricerca piena di fascino, eppure ripugnante. In quell’ora, apprese sul cervello umano e sulle sue inclinazioni segrete più di quanto avesse mai considerato vero. Alla fine, rimase immobile a lungo davanti ai comandi della macchina. Analizzava le sue nuove cognizioni. Cresciuta di molti anni la sua saggezza, la sua giovinezza gli parve all’improvviso infinitamente lontana.
Per la prima volta aveva diretta coscienza di come i desideri perversi e malvagi che a volte increspavano la superficie della sua mente fossero condivisi da tutti gli esseri umani. I costruttori di Comarre non si erano preoccupati del bene o del male, e le macchine erano i loro fedeli schiavi.
Gli dava soddisfazione sapere che le sue teorie erano esatte. Ora si rendeva conto che l’aveva scampata davvero per un pelo. Se si fosse addormentato di nuovo entro quelle mura, forse non si sarebbe svegliato mai più. Il caso l’aveva salvato una volta: non ce ne sarebbe stata una seconda.
I proiettori del pensiero dovevano essere messi fuori uso, e drasticamente, in modo che per i robot fosse impossibile ripararli. Per quanto potessero affrontare i normali guasti, non avrebbero potuto cavarsela con un sabotaggio della portata immaginata da Peyton. Quando avesse finito, Comarre non sarebbe più stata una minaccia. Mai più avrebbe intrappolato la sua mente, o quella di qualunque visitatore si fosse avventurato laggiù.
Prima doveva localizzare i dormienti e riportarli in sé. Un compito che avrebbe richiesto tempo, forse, ma per fortuna il piano delle macchine era fornito di un apparato di ricerca con monovisore standard. Grazie a quello, poteva vedere e sentire tutto nella città, mettendo semplicemente a fuoco i raggi luminosi dell’onda portante sul punto prescelto. Poteva perfino proiettare la sua voce, se necessario, ma non la sua immagine. Quel tipo di macchina era diventata di uso comune solo dopo la costruzione di Comarre.
Gli ci volle un po’ per imparare a dominare i comandi, e sulle prime il raggio vagò a caso per tutta la città, presentandogli un’infinità di luoghi stupefacenti: una volta, perfino uno scorcio della foresta, anche se rovesciato. Chissà se Leo era ancora nei dintorni, si chiese: con qualche difficoltà, individuò l’entrata.
Sì, eccola là, esattamente com’era il giorno prima. E, pochi metri più in là, il fedele Leo stava disteso, la testa rivolta verso la città, con un’espressione chiaramente preoccupata sul muso. Peyton ne fu profondamente commosso: forse, avrebbe potuto far venire il leone a Comarre. Il suo appoggio morale sarebbe stato prezioso, e cominciava a sentire il bisogno di compagnia, dopo le esperienze della nottata.
Sondò metodicamente la cinta di mura della città, e scoprì con grande sollievo diversi ingressi nascosti al pianterreno. Si era chiesto come se ne sarebbe andato. Anche se avesse potuto azionare al contrario il trasmettitore di materia, la prospettiva non era allettante. Molto meglio un’antiquata deambulazione fisica attraverso lo spazio.
Gli ingressi erano tutti sigillati, e per un momento Peyton rimase disorientato. Poi si mise in cerca di un robot. Dopo un po’ scoprì uno dei gemelli del defunto A-Cinque, che rotolava lungo un corridoio per qualche misteriosa incombenza. Con sua grande felicità, la macchina obbedì senza discutere al comando e aprì la porta.
Peyton riportò il raggio oltre le mura della città e lo concentrò stabilmente a pochi passi da Leo. Poi chiamò sottovoce: «Leo!».
Il leone alzò lo sguardo, stupito.
«Ciao, Leo, sono io, Peyton!»
Perplesso, l’animale girò lentamente in cerchio, poi rinunciò e sedette scoraggiato.
Il ragazzo lo condusse fino all’entrata con grande spreco di lusinghe. Riconosciuta la sua voce, la bestia adesso pareva decisa a seguirla, ma sembrava dolorosamente confusa e piuttosto nervosa. Rimase esitante davanti all’apertura, mostrando scarsa simpatia per Comarre, come per il robot in silenziosa attesa.
Con molta pazienza, Peyton diede istruzioni a Leo di seguire l’automa, ripetendo in diversi modi le sue esortazioni, fino a che fu sicuro che il leone avesse capito. Poi si rivolse direttamente alla macchina e le ordinò di condurre il nuovo ospite alla sala comandi. Rimase a guardare per un poco, per assicurarsi che Leo stesse seguendo la sua guida. Poi, con una parola d’incoraggiamento, lasciò quella coppia bizzarramente assortita.
Rimase piuttosto deluso quando scoprì che non poteva vedere nessuna delle stanze sigillate dietro il simbolo del papavero. O erano schermate dal raggio, o i comandi per la messa a fuoco erano congegnati in modo che il monovisore non potesse sbirciare in quelle enclave.
Non si lasciò scoraggiare. I dormienti avrebbero avuto un brusco risveglio, com’era toccato a lui. Dopo aver visto i loro mondi privati, provava scarsa simpatia per quegli individui e solo il senso del dovere lo costrinse a riscuoterli. Non meritavano alcuna considerazione.
Lo assalì un pensiero orribile. Che cosa avevano cacciato nella sua stessa mente, in risposta ai suoi desideri, i proiettori, in quel dimenticato idillio dal quale era riemerso così malvolentieri? I suoi pensieri nascosti si erano rivelati altrettanto spregevoli che negli altri sognatori?
L’idea era poco confortante, e quando si sedette nuovamente alla plancia dei comandi centrali la mise da parte. Prima avrebbe disinserito i circuiti, poi avrebbe sabotato irrimediabilmente i proiettori: l’incantesimo gettato da Comarre su tante menti sarebbe stato infranto per sempre.
Si sporse in avanti per azionare i molteplici interruttori dei circuiti, ma non portò mai a compimento quel gesto. Con gentile fermezza, quattro bracci metallici l’afferrarono da dietro e, mentre lui scalciava e si divincolava, lo sollevarono in aria, lontano dai comandi, quindi lo portarono in mezzo alla stanza, dove lo deposero liberandolo dalla stretta.
Più incollerito che allarmato, il ragazzo girò su se stesso per fronteggiare l’energumeno. A diversi metri di distanza, con tutta tranquillità, lo osservava il più complicato robot che avesse mai visto. Il suo corpo era alto più di due metri, e poggiava su una decina di panciuti pneumatici a bassa pressione.
Da varie parti del suo chassis metallico, si proiettavano in tutte le direzioni tentacoli, bracci, sbarre e altri meccanismi di meno facile definizione. In due punti, gruppi di arti si affaccendavano a smantellare o riparare certi pezzi di macchinario che Peyton riconobbe con un colpevole soprassalto.
In silenzio, il giovanotto valutò il suo antagonista. Chiaramente un robot dell’ordine più elevato. Ma aveva usato la violenza fisica contro di lui, come nessun robot poteva contro un uomo, per quanto questi si rifiutasse di obbedire ai suoi ordini. Solo sotto il controllo diretto di un’altra mente, la macchina avrebbe potuto compiere una simile azione. Dunque, da qualche parte della città, allignava la vita, una vita consapevole e ostile.
«Chi sei?» esclamò infine Peyton, rivolgendosi non al robot, ma a chi lo comandava.
In un battibaleno, la macchina rispose con una nitida voce meccanica che non ricordava in nulla l’eloquio amplificato di un essere umano.
«Sono l’Ingegnere.»
«Allora vieni fuori e fatti vedere.»
«Mi stai vedendo.»
All’istante, il tono disumano della voce, oltre alle parole in sé, fece svaporare la collera del giovane, cedendo il passo a un’incredula meraviglia.
Nessun essere umano controllava quella macchina. Era automatica come gli altri robot cittadini ma, diversamente da loro e da tutti i robot del mondo conosciuti fino a quel momento, aveva una volontà e una coscienza proprie.
6
L’incubo
Mentre guardava con occhi sgranati la macchina davanti a sé, Peyton sentì un formicolio sul cuoio capelluto, non per la paura ma per l’intensità pura e semplice dell’emozione. La sua ricerca era stata ricompensata: il sogno di quasi mille anni era davanti ai suoi occhi.
Molto tempo prima, le macchine avevano conquistato un’intelligenza limitata. Ora, infine, avevano raggiunto lo stadio della coscienza. Ecco il segreto che Thordarsen avrebbe consegnato al mondo, ma che il Consiglio aveva cercato di sopprimere per timore delle conseguenze.
La voce impassibile riprese a parlare.
«Sono felice che ti sia reso conto della verità. Renderà le cose più facili.»
«Puoi leggere nella mia mente?» ansimò Peyton.
«Naturale. L’ho fatto dal momento in cui sei entrato.»
«Sì, lo immaginavo» rispose cupo il ragazzo. «E che cosa intendi fare di me, adesso?»
«Devo impedirti di danneggiare Comarre.»
Intento piuttosto ragionevole, ammise Peyton.
«E se io me ne andassi ora? Ti andrebbe bene?»
«Sì. Andrebbe bene.»
Peyton non poté trattenersi dal ridere. L’Ingegnere era pur sempre un robot, malgrado la sua natura quasi umana. Era incapace di ingannare, il che, forse, gli offriva un vantaggio. In qualche modo, doveva indurlo a rivelare i suoi segreti. Ma quello lesse nella sua mente ancora una volta.
«Questo non lo permetterò. Hai già appreso troppo. Devi andartene subito. Userò la forza, se necessario.»
Peyton decise di guadagnare tempo. Per lo meno, avrebbe potuto scoprire i limiti intellettuali di quella macchina stupefacente.
«Prima che me ne vada, dimmi questo. Perché ti chiami Ingegnere?»
La risposta giunse abbastanza in fretta.
«Se si verificano seri danni che non possono essere riparati dai robot, provvedo io. Potrei ricostruire Comarre, se necessario. Di norma, quando tutto funziona a dovere, io sono in stato di quiescenza.»
Com’è estranea l’idea di “quiescenza” per una mente umana, pensò Peyton. Né mancò di divertirlo la distinzione tracciata dall’Ingegnere tra sé e “i robot”. Passò alla domanda più ovvia.
«E se tu ti guastassi?»
«Siamo in due. L’altro è in stato di quiescenza, adesso. Ognuno di noi può riparare il compagno. È stato necessario una volta, trecento anni fa.»
Sistema impeccabile. Comarre era al sicuro da qualunque incidente per milioni di anni. I suoi costruttori avevano messo quegli eterni guardiani a vigilare, mentre loro andavano in cerca dei sogni. Non c’era da sorprendersi se la città adempiva ancora al suo stravagante scopo, a tanta distanza dalla morte dei suoi costruttori.
E che tragedia, rifletté Peyton, che un simile genio sia andato sprecato! I segreti dell’Ingegnere avrebbero potuto rivoluzionare la tecnologia dei robot, dare vita a un mondo nuovo. Adesso che quelle prime macchine coscienti erano state costruite, c’era forse qualche limite a quanto si apriva al di là?
«No» rispose inaspettatamente l’Ingegnere. «Thordarsen mi ha detto che i robot un giorno sarebbero diventati più intelligenti dell’uomo.»
Era strano sentire la macchina pronunciare il nome del suo creatore. Allora questo era il sogno di Thordarsen! Ancora non l’aveva afferrato in tutta la sua vastità. Per quanto vi fosse preparato in qualche misura, non poteva accettare facilmente la conclusione. Dopotutto, tra il robot e la mente umana si apriva un abisso.
«Non più grande che tra un uomo e gli animali da cui si è sviluppato, così disse una volta Thordarsen. Tu, uomo, non sei altro che un robot molto complesso. Io sono più semplice, ma più efficiente. Ecco tutto.»
Peyton considerò attentamente quell’affermazione. Se davvero l’uomo non era che un robot complesso, una macchina composta di cellule viventi, anziché di fili e di valvole elettroniche, un giorno sarebbe stato possibile costruire automi ancora più complicati. Quando fosse venuto quel giorno, la supremazia dell’uomo sarebbe finita. Le macchine sarebbero state ancora al suo servizio… più intelligenti, tuttavia, dei loro padroni.
C’era un gran silenzio nella vasta sala tappezzata dalle rastrelliere degli analizzatori e dei pannelli di relè. L’Ingegnere osservava Peyton con attenzione, mentre i suoi bracci e tentacoli erano ancora impegnati nella riparazione.
Peyton iniziava a sentirsi disperato. Logicamente, il contrasto l’aveva reso più deciso che mai. In un modo o nell’altro, doveva scoprire come era stato costruito l’Ingegnere, o avrebbe perso tutta la vita cercando di uguagliare il genio di Thordarsen.
Inutile. Il robot era un passo avanti a lui.
«Non puoi fare nessun piano contro di me. Se cercherai di scappare da quella porta, ti colpirò alle gambe con questa unità di potenza. Il margine di errore da questa distanza è pari a mezzo centimetro.»
Impossibile nascondersi agli analizzatori del pensiero. Il piano si era formulato a metà nella mente del ragazzo, che già l’Ingegnere l’aveva divinato.
L’intrusione li sorprese tutti e due. Un lampo improvviso di oro fulvo, e mezza tonnellata di ossa e muscoli, lanciata a sessanta all’ora, centrò il robot a metà dello scafo.
Seguì, per un attimo, un gran sventagliare di tentacoli. Poi, con un fragore da giorno del giudizio, l’Ingegnere stramazzò a terra. Leo, leccandosi pensoso le zampe, si accovacciò sopra la macchina abbattuta.
Proprio non riusciva a farsi una ragione di quell’animale scintillante che aveva minacciato il suo padrone. Aveva la pelle più dura che avesse mai incontrato dal giorno che, assai avventatamente, aveva avuto una lite con un rinoceronte.
«Bravo ragazzo!» gridò Peyton giulivo. «Tienilo giù!»
L’Ingegnere si era rotto alcuni degli arti più grandi, e i suoi tentacoli erano troppo deboli per recare qualunque offesa. Ancora una volta Peyton trovò d’inestimabile aiuto la sua cassetta degli attrezzi. Quando ebbe finito, l’Ingegnere era sicuramente incapace di muoversi, per quanto il ragazzo non avesse toccato i circuiti neurali: in un certo senso, sarebbe stato troppo simile a un omicidio.
«Adesso puoi toglierti, Leo» disse, compiuta l’opera. Il leone obbedì di malagrazia.
«Mi spiace doverlo fare» chiarì Peyton ipocritamente, «ma spero che comprenderai il mio punto di vista. Puoi ancora parlare?»
«Sì» rispose l’Ingegnere. «Che cosa intendi fare adesso?»
Peyton sorrise. Cinque minuti prima, era toccato a lui porre quella domanda. Quanto ci sarebbe voluto perché il gemello dell’Ingegnere arrivasse sulla scena? Anche se Leo poteva affrontare la situazione nel caso di una prova di forza, l’altro robot sarebbe stato avvertito e poteva ricorrere a mezzi molto sgradevoli. Come, per esempio, spegnere le luci.
I tubi scintillanti si spensero, calò il buio. Leo lanciò un lamentoso mugolio di sgomento. Piuttosto seccato, Peyton accese la sua torcia elettrica.
«Per me non fa alcuna differenza» assicurò. «Tanto vale che le riattacchi.»
L’Ingegnere non disse nulla. Ma i tubi luminescenti si riaccesero.
Come diavolo si fa, si chiese Peyton, a combattere con un nemico che può leggere nei tuoi pensieri e perfino osservarti mentre prepari le tue difese? Avrebbe dovuto evitare di formulare qualunque idea che potesse tornare a suo svantaggio, come per esempio… si fermò appena in tempo. Per un attimo bloccò i suoi pensieri cercando di integrare a memoria la funzione omega di Armstrong, dopodiché riprese il controllo della sua mente.
«Senti» disse infine. «Ti propongo una transazione.»
«Che cos’è? Non conosco questa parola.»
«Non importa» tagliò corto il ragazzo. «La mia offerta è questa. Lasciami svegliare gli uomini che sono intrappolati qui, illustrami i tuoi circuiti fondamentali, e io me ne andrò senza toccare niente. Tu avrai obbedito agli ordini dei tuoi costruttori e non ne verrà nessun danno.»
Un essere umano avrebbe avuto qualcosa da obiettare, ma non il robot. Per quanto fosse coinvolto, la sua mente impiegò forse un millesimo di secondo per valutare la situazione.
«Benissimo. Leggo dentro di te che intendi mantenere l’accordo. Ma che cosa significa la parola “ricatto”?»
Peyton arrossì. «Non ha importanza» rispose frettoloso. «È solo un’espressione degli uomini di uso corrente. Immagino che il tuo, ehm, collega, sarà qui a momenti?»
«È qui fuori che aspetta da un po’. Vuoi tenere il tuo cane sotto controllo?»
Peyton rise. Era troppo aspettarsi che un robot conoscesse la zoologia.
«Leone, allora» si corresse l’automa, leggendo nella sua mente.
Peyton disse qualche parola a Leo e, per essere doppiamente sicuro, affondò le dita nella sua criniera. Prima che potesse formulare l’invito con le labbra, il secondo robot scivolò silenziosamente nella stanza. Con un ringhio, Leo cercò di divincolarsi, ma il giovane lo calmò.
Ingegnere II era un duplicato del collega sotto ogni aspetto. Stava ancora andando verso Peyton, quando sondò la sua mente con quello sbalorditivo sistema al quale il giovane non riusciva ad abituarsi.
«Vedo che desideri andare dai sognatori» disse. «Seguimi.»
Peyton era stanco di sentirsi comandare. Perché i robot non dicevano mai “per favore”?
«Seguimi, per favore» ripeté la macchina, con un’inflessione più gentile.
Peyton la seguì.
Ancora una volta si ritrovò nel corridoio dalle centinaia di porte con l’emblema del papavero o uno simile. L’automa lo condusse davanti a una porta indistinguibile dalle altre e lì si fermò.
Senza fare rumore, la piastra metallica si aprì scivolando e, pur con qualche scrupolo, Peyton entrò nella stanza buia.
Sul divano giaceva un uomo vecchissimo. A prima vista sembrava morto. Di certo il suo respiro era rallentato fin quasi a fermarsi. Peyton lo squadrò, quindi si rivolse all’automa: «Sveglialo».
In qualche luogo, negli abissi della città, la corrente di impulsi che passava attraverso un proiettore del pensiero si arrestò. Un universo che non era mai esistito crollò in rovina.
Dal divano, due occhi ardenti si posarono scintillando su Peyton, accesi solo dalla luce della pazzia. Lo guardarono da parte a parte, perdendosi ancora oltre, e dalle labbra sottili si riversò un fiotto di parole confuse che Peyton distinse a malapena. Ancora e ancora il vecchio gridò i nomi che dovevano appartenere a persone e luoghi del mondo di sogno a cui era stato sottratto. Una scena orribile e insieme patetica.
«Basta» urlò Peyton. «Ora è di nuovo nella realtà.»
Gli occhi ardenti parvero vederlo per la prima volta. Con uno sforzo immenso, il vecchio si rialzò.
«Chi sei?» balbettò. Poi, prima che Peyton potesse rispondere, continuò con voce rotta: «Questo dev’essere un incubo, vattene, vattene, lasciami svegliare!».
Superando la sua repulsione, Peyton mise una mano sulla spalla emaciata.
«Non si preoccupi, è sveglio. Non si ricorda?»
L’altro non sembrava sentirlo.
«Sì, dev’essere un incubo, dev’essere così! Ma perché non mi sveglio? Nyran, Cressidor, dove siete? Non vi vedo!»
Peyton resistette per quanto poté, ma in nessun modo riuscì ad attrarre di nuovo l’attenzione del vecchio. Dolente, disse al robot: «Rimandalo indietro».
7
Il Terzo Rinascimento
A poco a poco il delirio si placò. Il fragile corpo ricadde sul divano, e ancora una volta la faccia rugosa divenne una maschera priva di espressione.
«Sono tutti matti come questo?» chiese Peyton infine.
«Ma non è matto.»
«Che vuoi dire? Certo che lo è!»
«È stato ipnotizzato per molti anni. Immagina se tu fossi andato in una terra lontana e avessi completamente cambiato il tuo modo di vita, dimenticando tutto quello che sapevi della tua esistenza precedente. Alla fine, non te ne ricorderesti meglio che della tua prima infanzia.
«Se per un qualche miracolo fossi poi improvvisamente risospinto nel tempo, ti comporteresti esattamente allo stesso modo. Ricorda, la sua vita di sogno è del tutto reale per lui, e ormai sono molti anni che vi appartiene.»
Sembrava abbastanza plausibile. Ma come poteva possedere una simile capacità introspettiva, l’Ingegnere? Peyton si voltò meravigliato verso di lui ma, come al solito, non ebbe bisogno di articolare la domanda.
«Thordarsen me l’ha detto l’altro giorno, mentre stavamo ancora costruendo Comarre. Già allora alcuni dei sognatori si trovavano sotto ipnosi da vent’anni.»
«L’altro giorno?»
«Circa cinquecento anni fa, direste voi.»
Quelle parole disegnarono, nell’immaginazione di Peyton, uno strano quadro del genio solitario, al lavoro tra i suoi robot, forse ormai privo di qualunque compagno della sua specie. Tutti gli altri dovevano essere andati da lungo tempo in cerca dei loro sogni.
Ma Thordarsen probabilmente era restato, ancora legato al suo lavoro dal desiderio della creazione, fino a che non aveva compiuto l’opera. I due Ingegneri, le sue più grandi conquiste e forse il più fantastico exploit nel campo dell’elettronica mai registrato, erano stati i suoi supremi capolavori.
Un senso di spreco e di pietà schiacciò Peyton, più deciso che mai, adesso, a che l’opera di quel genio amareggiato, che pure aveva gettato via la sua vita, non andasse perduta, ma fosse consegnata al mondo.
«Saranno tutti sognatori come questo?» domandò al robot.
«Tutti tranne gli ultimi venuti. Loro forse ricorderanno ancora la loro vita precedente.»
«Portami da uno di loro.»
La stanza dove entrarono era identica all’altra, ma il corpo disteso sul divano apparteneva a un uomo di non più di quarant’anni.
«Da quanto è qui?» chiese Peyton.
«È venuto solo poche settimane fa. Il primo visitatore che abbiamo avuto da molti anni a questa parte, fino al tuo arrivo.»
«Sveglialo, per favore.»
Gli occhi si aprirono lentamente invasi non dalla pazzia, ma solo da meraviglia e tristezza. Poi giunse il ricordo e lo sconosciuto si alzò quasi a sedere. Le sue prime parole suonarono totalmente razionali: «Perché mi hai richiamato indietro? Chi sei?».
«Sono appena scampato ai proiettori del pensiero» spiegò il ragazzo. «Voglio liberare tutti coloro che possono essere salvati.»
L’altro ebbe una risata disillusa.
«Salvati! Da che cosa? Mi ci sono voluti anni per sfuggire al mondo, e ora vorresti trascinarmi da capo laggiù! Vattene e lasciami in pace!»
Ma Peyton non era tipo da cedere così facilmente.
«Credi che questo tuo mondo fittizio sia migliore della realtà? Non desideri sfuggirgli?»
L’altro rise ancora, senza traccia di allegria.
«Comarre è una realtà per me. Il mondo non mi ha mai dato niente, quindi perché dovrei ritornarvi? Qui ho trovato la pace, e non ho bisogno di altro.»
Bruscamente, Peyton voltò sui tacchi e uscì. Dietro le sue spalle, udì il sospiro beato del sognatore che ripiombava nella sua illusione. Sapeva riconoscere quando era battuto. E ora intuiva perché avesse voluto risvegliare gli altri.
Non per senso del dovere, ma per il suo intento puramente egoistico. Voleva convincersi che Comarre fosse un’espressione del male. Ma ora capiva che non era così. Perfino nella terra di Utopia ci sarebbe sempre stato qualcuno a cui il mondo non avrebbe avuto nulla da offrire, se non dolore e disillusione.
Sarebbero stati sempre di meno, con il passare del tempo. Nelle epoche oscure di mille anni prima, in un modo o nell’altro gli esseri umani erano stati per la maggior parte dei disadattati. Per quanto radioso fosse il futuro del mondo, ci sarebbe sempre stata qualche tragedia… e per quale motivo Comarre doveva essere condannata, solo perché offriva a quei disgraziati l’unica speranza di pace?
Non avrebbe tentato altri esperimenti. La sua fede robusta e la sua sicurezza erano state duramente scosse. I sognatori di Comarre non l’avrebbero ringraziato per i suoi sforzi.
Si voltò ancora verso l’Ingegnere. Negli ultimi minuti, aveva sentito crescere sempre più intenso il desiderio di lasciare la città, ma ancora doveva assolvere al compito più importante. Come al solito, l’automa lo anticipò.
«Io ho quello che vuoi» disse. «Seguimi, per favore.»
Contrariamente a quanto si sarebbe aspettato, non fu ricondotto al piano delle macchine con il loro labirinto di comandi. Al termine del viaggio, si ritrovarono più in alto di quanto il ragazzo fosse mai salito, in una stanzetta circolare che gli parve sospesa all’apice della città. Non c’era nessuna finestra, a meno che le bizzarre piastre disposte nella parete potessero diventare trasparenti per qualche segreto sortilegio.
Era uno studio. Peyton lo guardò con timore reverenziale, rendendosi conto di chi vi avesse lavorato molti secoli prima. Le pareti erano gremite di antichi libri, che giacevano indisturbati da cinquecento anni. Pareva quasi che Thordarsen se ne fosse andato solo poche ore prima. C’era perfino il progetto di un circuito non finito, attaccato a un tavolo da disegno contro il muro.
«Sembra quasi che sia stato interrotto» osservò Peyton, come tra sé e sé.
«È così» rispose il robot.
«Che vuoi dire? Non si è unito agli altri quando ha finito?»
Difficile credere che non ci fosse assolutamente alcuna emozione dietro la risposta, ma le parole furono pronunciate con lo stesso tono distaccato di qualunque altra frase proferita dal robot.
«Quando ha finito di costruirci, Thordarsen non era ancora soddisfatto. Non era come gli altri. Spesso ci ha detto che aveva trovato la felicità nell’edificazione di Comarre. Continuava a dire che si sarebbe unito agli altri, ma c’era sempre qualche miglioramento che voleva apportare. E così ha continuato, finché un giorno l’abbiamo trovato disteso qui in questa stanza. Si era fermato. La parola che vedo nella tua mente è “morte”, ma io non possiedo alcun pensiero per quel vocabolo.»
Peyton rimase in silenzio. Una fine non ignobile, gli pareva, quella del grande scienziato. L’amarezza che aveva rabbuiato la sua vita si era infine dissolta: aveva conosciuto la gioia della creazione. Di tutti gli artisti venuti a Comarre, era stato il più grande. E ora il suo mondo non poteva andare sprecato.
Il robot scivolò silenziosamente verso un tavolo di acciaio, quindi uno dei suoi tentacoli scomparve in un cassetto. Quando ne emerse, stringeva uno spesso volume, rilegato tra fogli di metallo. Senza una parola, lo tese a Peyton, che l’aprì con mani tremanti. All’interno, c’erano numerose pagine di un materiale sottile e molto resistente.
Sul risguardo, con una scrittura chiara e ferma, erano state vergate le parole:
Rolf Thordarsen
Note sulla subelettronica
Incominciato il giorno
2 del XIII mese, 2598
seguivano, più sotto, diverse annotazioni, assai difficili da decifrare e apparentemente buttate giù con furia disperata. Durante quella lettura, infine, la luce della consapevolezza subentrò in Peyton con la subitaneità di un’alba equatoriale.
Al lettore di queste parole:
Io, Rolf Thordarsen, non incontrando alcuna comprensione nella mia stessa epoca, invio questo messaggio al futuro. Se Comarre esisterà ancora, avrai visto la mia opera e sarai sfuggito ai lacci che ho teso per menti meno capaci. Quindi sei adatto a recare queste conoscenze al mondo. Portale agli scienziati e di’ loro di usarle con saggezza.
Io ho infranto la barriera tra l’Uomo e la Macchina. Ora essi devono condividere il futuro paritariamente.
Peyton lesse il messaggio diverse volte, sentendosi scaldare il cuore al pensiero del suo antenato morto da così tanto tempo. Era un piano brillante. In questo modo, e forse non avrebbe potuto fare altrimenti, Thordarsen era riuscito a tramandare con sicurezza il suo messaggio attraverso i secoli, sapendo che sarebbe finito solo nelle mani della persona giusta. Il ragazzo si chiese se fosse quello il progetto dello scienziato, fin da quando si era unito ai Decadenti, o se l’avesse sviluppato più tardi nel corso della sua vita. Non l’avrebbe mai saputo.
Guardò ancora l’Ingegnere e pensò al mondo che sarebbe sorto quando tutti i robot avessero raggiunto la coscienza. E puntava lo sguardo ancora oltre, nelle nebbie del futuro.
Il robot non doveva necessariamente avere alcuna delle limitazioni dell’uomo, nessuna delle sue miserevoli debolezze. Mai avrebbe permesso che le passioni oscurassero la sua logica, né che fosse influenzato dall’egoismo e dall’ambizione. Sarebbe stato complementare al genere umano.
Peyton ricordò le parole di Thordarsen: “Ora essi devono condividere il futuro paritariamente”.
A un tratto, pose fine al suo sogno a occhi aperti. Quella prospettiva, se mai si fosse avverata, forse sarebbe divenuta realtà solo dopo secoli, in un lontano futuro.
«Sono pronto per andarmene» disse all’Ingegnere. «Ma un giorno ritornerò.»
L’automa arretrò piano.
«Resta completamente immobile» gli ingiunse.
Senza dire una parola, Peyton lo fissò. Poi gettò un’occhiata verso il soffitto. Scorse ancora quella enigmatica protuberanza sotto cui si era trovato quando era entrato per la prima volta nella città, secoli prima.
«Ehi!» gridò. «Non voglio…»
Troppo tardi. Dietro di lui si trovava lo schermo scuro, più nero della notte. Davanti, la radura con la foresta ai margini. Era sera, e il sole quasi sfiorava gli alberi. Sentì una specie di lamento dietro di sé: un leone terrorizzato guardava la foresta con occhi increduli. Leo non aveva apprezzato il trasferimento.
«È tutto finito, vecchio mio» lo rassicurò il ragazzo. «Non puoi rimproverarli per aver cercato di liberarsi di noi più in fretta che potevano. Dopotutto, gli abbiamo messo un bel po’ a soqquadro la baracca, fra tutti e due. Vieni, non voglio passare la notte nella foresta.»
Dall’altra parte del mondo, un gruppo di scienziati si disperavano facendo appello alle ultime riserve di pazienza, ancora ignari delle dimensioni del trionfo. Nella Torre Centrale, Richard Peyton II aveva appena scoperto che il suo ragazzo non aveva trascorso gli ultimi due giorni con i cugini in Sudamerica e stava preparando un discorso per il ritorno del figliol prodigo.
A strabilianti altezze sopra la Terra, il Consiglio Mondiale stendeva dei piani destinati a essere ben presto spazzati via dall’avvento del Terzo Rinascimento. Ma il responsabile di tanto tumulto non sapeva nulla al riguardo e, per il momento, non era neppure sfiorato da un simile pensiero.
Lentamente, Peyton scese i gradini di marmo che iniziavano da quella porta misteriosa che ancora serbava il suo segreto. Leo lo seguiva a poca distanza, guardando sopra la sua spalla ed emettendo di tanto in tanto un quieto brontolio.
Insieme alla bestia, Peyton si avviò per la strada metallica, quella sorta di viale con gli alberi striminziti, felice che il sole non fosse ancora tramontato: di notte, la via avrebbe brillato della sua radioattività interna, e gli alberi contorti non avrebbero avuto un aspetto piacevole, sullo sfondo delle stelle.
Alla svolta si fermò per un poco e guardò la curva parete metallica con la sua unica apertura dall’apparenza così ingannevole. Tutto il suo senso di trionfo sembrò svanire. Sapeva che, finché fosse vissuto, non avrebbe mai dimenticato quanto si celava dietro quelle mura torreggianti, la stucchevole promessa della pace e del totale appagamento.
Nel profondo dell’anima, avvertiva la paura che qualunque soddisfazione, qualunque conquista consentita dal mondo esterno sarebbe sembrata vana di fronte alla facile beatitudine offerta da Comarre. Per un attimo, in una visione sinistra, si immaginò mentre tornava per quella stessa strada, vecchio e piegato, in cerca di oblio. Scrollò le spalle e accantonò il pensiero.
Una volta nella piana aperta, il morale del giovane risalì rapidamente. Aprì ancora il prezioso libro e sfogliò le pagine a microstampa, intossicato dalla promessa che custodivano. Secoli prima, le lente carovane erano passate per quella via, portando oro e avorio per Salomone il Saggio. Ma tutti i loro tesori non erano nulla di fronte a quell’unico volume, e tutta la sapienza di Salomone non sarebbe bastata per dipingere la nuova civiltà di cui quel libro doveva gettare il seme.
A un tratto, Peyton si mise a cantare, cosa che faceva assai di rado e con pessimi risultati. Era una canzone molto antica, così antica che apparteneva a un’epoca precedente all’energia atomica, al viaggio interplanetario, e perfino all’avvento del volo. Parlava di un certo barbiere di Siviglia, ovunque fosse quel posto.
Leo rimase in silenzio per quanto poté. Poi anche lui si unì al canto. Il duetto non fu un successo.
Al calar della notte, la foresta e tutti i suoi segreti erano scesi sotto l’orizzonte. Con la faccia rivolta alle stelle, vigilato da Leo al suo fianco, Peyton dormì sodo.
Questa volta senza sogni.
Titolo originale: The Lion of Comarre
Pubblicato la prima volta su «Thrilling Wonder Stories», agosto 1949. Poi raccolto in The Lion of Comarre and Against the Fall of Night Side.
Traduzione di Pietro Ferrari