domenica 6 febbraio 2022

IL PROFESSORE DI DESIDERIO Philip Roth



IL PROFESSORE DI DESIDERIO 
Philip Roth

Recensione 
Il romanzo è del 1977 e il lettore vi ritrova la musica rothiana della armonia e della disarmonia di pulsioni erotiche, desideri affaticati di felicità, radici tenaci e tradite a singhiozzo, sentimento malinconico per la vita ineffabile che ti sguscia tra le mani, nostalgia.
Roth scrive quando è appena alla spalle la vicenda della Rivoluzione sessuale occidentale, la comparsa della pillola anticoncezionale ha cambiato sostanzialmente i rapporti tra i ragazzi. Solo otto anni lo separano da The Portnoy’s Complaint,  il romanzo che gli aveva dato fama e ricchezza, una fortuna commerciale dovuta anche in parte al fatto che, si è detto, si trattava “del libro più zozzo mai stampato fino allora da un editore rispettabile”.
Il libro trasuda citazioni letterarie: la professione di Kepesh offre a Roth il destro per nominare almeno nel romanzo la maggioranza dei propri autori di riferimento: Sofocle, Dostoevskij, Shakespeare, James Joyce, Maupassant, Mark Twain, Gogol, Henry James, Thomas Mann, Hemingway, Checov, Jean Genet, Kundera, Melville, John Updike, Henry Miller ed i due autori che Roth sente più vicini, Franz Kafka e Saul Bellow …
David Kepesh, professore di letteratura in un campus americano, ha un rapporto complesso con le donne. Kepesh è un ebreo ben secolarizzato, senza sinagoga e senza troppe remore in campo di morale sessuale. Ma non scampa del tutto alla propria radice familiare e di appartenenza, come sempre accade ai personaggi di Philip Roth. Indossa volentieri su di sé una definizione di Mcaulay (“studioso di giorno, dissoluto di notte”) e si definisce erudito fra i libertini e libertino fra gli eruditi”. Da ragazzo voleva fare l’attore, ma poi aveva deciso di recitare nella vita un’altra parte, quella di letterato. Quando era studente lui puntava le ragazze, anche in senso fisico, usando la sua abilità nella parola. Ma quelle gli rispondevano: “perché non ti limiti a parlare e a essere carino?”. Lo adoravano ma non si concedevano. Quando invece arriva a Londra per un anno di Erasmus, David cambia marcia, si fa più ardito e incontra le tipe giuste, imbarcandosi in un bizzarro ménage a tre con molte capriole e curiosità erotiche. Ma la cosa è stancante e alla fine poco entusiasmante. Torna in America, si appassiona a una donna di temperamento forte e di complicazioni recondite. Che sia l’amore vero? In ogni caso, è sfibrante, si impiglia in vicende strane. La peregrinazione indecisa del professor Kepesch fra amour passion e stabilità sentimentale sembra calmarsi nella riposante sosta di Clarissa, ragazza americana solare e perfetta, da amare quietamente. Ma David è un incostante inquieto e quando si guarda allo specchio interiore nel momento dell’appagamento felice di intellettuale americano da barbecue rassicurante con la compagna virtuosa, si sgomenta un poco: “ovvero, come David Kepesh è finito su una sedia a dondolo in una veranda sulle Catskill Mountains a guardare compiaciuto una astemia insegnante venticinquenne dello stato di New York che si aggira carponi per il giardino con una tuta che sembra presa a prestito da Tom Sawyer in persona, i capelli trattenuti sulla nuca da un pezzo della stessa corda verde con cui lega le sue svenevoli begonie, e un delicato, innocente viso protestante-mennonita, piccolo e intelligente come quello di un procione, sporco di terra come in vista di una notte indiana al campo estivo femminile degli scout. E la felicità di lui nelle sue mani…” In questo scampolo di feroce prosa rothiana c’è tutta l’ambiguità del desiderio erotico ed esistenziale del professor Kepesh. Il quale peraltro deve fare i conti con l’attrazione femminile da una parte, e dall’altra con il fastidioso ma avvolgente cordone ombelicale che lo lega ai propri genitori anziani e infragiliti, ossessivamente trepidi e amorosi con lui, che se li sente addosso ma ai quali non sa rinunciare nel suo profondo affetto. Le pagine sui genitori, sulla mamma malata e sul padre orgoglioso e indebolito sono fra le più belle del romanzo, fino alla commozione. Un giorno il padre si reca a visitare il figlio e sta un po’ con lui, si vogliono bene e si sopportano poco. Il padre deve ripartire e il figlio medita addolorato: “-Va bene, resta per sempre, non devi andartene più -. Invece fra poche ore dovremo andarcene tutti. E – finché morte non ci separi – la tremenda vicinanza e la tremenda distanza fra mio padre e me riassumerà le abituali problematiche proporzioni”. Solo uno scrittore grande sa riassumere la complessità dolorosa e altalenante, ambigua e avvolgente di certi rapporti familiari di sangue e di affetto, di tenerezza e di stizza, nella sintesi fulminante rothiana: “la tremenda distanza e la tremenda vicinanza”. Per il resto, attraverso il suo professore, Philip Roth riesce anche a regalarci intuizioni originali e non scontate a proposito di scrittori, per esempio Kafka e soprattutto Cechov, sul quale Kepesh sta scrivendo un interminabile libro. 

IL PROFESSORE DEL DESIDERIO 
La tentazione viene a me per la prima volta nelle sgargianti vesti di Herbie Bratasky, intrattenitore, direttore d’orchestra, cantante sentimentale, comico e maestro di cerimonie nell’albergo dei miei genitori in una località turistica montana. Quando non è fasciato dai calzoncini elasticizzati da nuotatore professionista che sfoggia per condurre le lezioni di rumba sul bordo della piscina, si veste in pompa magna, cioè in giacca casual bicolore crema e cremisi, e pantaloni flosci giallo canarino che si stringono progressivamente fino a incatenarlo appena sopra le scarpe bianche traforate del baro di mestiere. Una gomma da masticare Black Jack ancora incartata lo attende in tasca mentre un’altra viene assaporata con un lento movimento allusivo delle mascelle, in quella che mia madre definisce con sprezzo la «boccaccia» di Herbie. Sotto la sottile cintura di alligatore all’ultima moda penzola la catenina d’oro delle chiavi, e un ginocchio freme dentro i pantaloni, al ritmo di tamburi che solo Herbie sente suonare in quel Congo che è il suo cervello. Il nostro opuscolo promozionale (a partire dalla quarta elementare redatto da me in collaborazione con il titolare) pubblicizza Herbie come «il nostro Cugat ebreo, il nostro Krupa ebreo – tutto in uno!»; piú avanti lo proclama «novello Danny Kaye», e infine, cosí che sia chiaro a tutti che questo ventenne da sessanta chili non è un signor nessuno e l’Hungarian Royale dei Kepesh non è propriamente fuorimano, «un nuovo Tony Martin». I nostri ospiti sono affascinati dallo sfrontato esibizionismo di Herbie quasi quanto lo sono io. Il cliente appena arrivato non fa in tempo ad accomodarsi in veranda su una delle sedie a dondolo in vimini smaltato che un habitué giunto la settimana prima dall’afosa città lo mette al corrente di questo prodigioso esemplare della nostra tribú: – E devi vedere che abbronzatura. Ha una pelle che non si brucia mai, si abbronza subito. Basta un giorno di sole. La pelle di quel ragazzo è uscita dritta dritta dai tempi della Bibbia. A causa di un timpano lesionato, il nostro asso nella manica – come Herbie ama definirsi, piú che altro per far rabbia a mia madre – rimane con noi durante tutta la seconda guerra mondiale. Fra le sedie a dondolo e i tavoli verdi si tengono interminabili diatribe sull’origine della sua invalidità: congenita o autoinflitta? L’insinuazione che non sia stata Madre Natura a impedire a Herbie di combattere Tojo, Mussolini e Hitler… be’, la sola idea è per me un oltraggio, un’offesa personale. D’altro canto è allettante immaginare Herbie che stringe fra le mani uno spillone o uno stuzzicadenti – o uno spuntone rompighiaccio! – e si procura una mutilazione per farla in barba alla commissione di leva. – Da lui non mi stupirebbe, – dice l’ospite A-owitz, – quel volpone sarebbe capace di tutto. È un furbastro, quello! – Andiamo, non può averlo fatto. Quel ragazzo ama la patria come chiunque altro. Te lo dico io come ha fatto a diventare mezzo sordo, e chiedi al dottore qui se non ho ragione: a forza di battere su quei tamburi, – dice l’ospite B-owitz. – Oh, e come li suona, i tamburi, – dice l’ospite C-owitz, – potrebbe essere sul palcoscenico del Roxy, se non fosse che, come dici tu, è proprio a causa dei tamburi che non ci sente bene. – Però, – dice D-owitz, – non ha mai negato, e neppure confermato, di averlo fatto lui con qualche aggeggio. – È un uomo di spettacolo, perciò ci tiene alla suspense. Il suo repertorio consiste proprio in questo: lasciarsi credere cosí pazzo da essere capace di tutto. – Non dovresti dirlo neanche per scherzo. Gli ebrei hanno già abbastanza guai. – Ma per favore, un ragazzo che si veste cosí, con quella catenina per le chiavi, e con un fisico come il suo, su cui lavora giorno e notte, e in piú quei tamburi, credi che si procurerebbe mai una grave lesione fisica solo per sottrarsi allo sforzo bellico? – Sono d’accordo, al cento per cento. A proposito, ramino. – Oh, mi hai preso alla sprovvista, figlio di puttana. Perché diavolo non li ho calati questi fanti, mi domando e dico? La sapete una cosa? Un ragazzo cosí bello e cosí divertente non lo trovi tutti i giorni. Avere quell’aspetto, e saper far ridere, e scatenarsi con quei tamburi… è una cosa piú unica che rara negli annali dello show business. – E quello che sa fare in piscina? E al trampolino? Se Billy Rose gli mette gli occhi addosso e lo vede fare il pagliaccio nell’acqua a quel modo, lo ingaggia subito per l’Aquacade. – E la voce che ha? – Se solo non la sprecasse per fare il buffone… se solo cantasse sul serio. – Se cantasse sul serio, quel ragazzo sarebbe già alla Metropolitan Opera. – Cristo santo, se cantasse sul serio potrebbe fare il cantore in sinagoga. Spezzerebbe il cuore a tutti. Quanto gli donerebbe il talled bianco, con quell’abbronzatura! – E a quel punto mi sorprendono a origliare mentre lavoro su un modellino di Spitfire della Raf al fondo della veranda. – Ehi, piccolo Kepesh, vieni qui, ficcanaso che non sei altro. A chi vorresti somigliare da grande? Ascoltatelo… piantala un momento di mischiare le carte. Chi è il tuo eroe, marmocchio? Non ho bisogno di pensarci due volte, anzi non ho bisogno di pensarci affatto. – Herbie, – rispondo, con gran divertimento dei presenti. Solo le madri sembrano un po’ costernate. Ma signore mie, chi altro potrebbe essere? Chi altro sarebbe in grado di imitare l’accento di Cugie, lo squillo dello shofar, nonché, su mia richiesta, un caccia che scende in picchiata su Berchtesgaden – e nello stesso tempo il Führer sotto che dà di matto? L’entusiastico virtuosismo di Herbie è tale che mio padre deve intimargli di tenere per sé alcune delle sue imitazioni, per quanto originali siano. – Ma, – protesta Herbie, – la mia scoreggia è perfetta. – Sarà, – replica il capo, – però non è adatta a un pubblico misto. – Ma ci lavoro da mesi. Ascolta! – Oh, risparmiami, Bratasky, per carità. Non è quel che vuol sentire dopo cena un ospite affaticato mentre gioca al casinò. A questo ci puoi arrivare anche tu. O no? A volte non capisco dove hai la testa. Non ti rendi conto che questa è gente kasher? Non vedi che ci sono donne e bambini? Amico mio, è semplice: lo shofar va bene per le feste solenni, e l’altra roba va bene per il cesso. Punto, Herbie. Discorso chiuso. Perciò si rivolge a me, il suo riverente accolito, per imitare le flatulenze proibitegli in pubblico dal mio mosaico padre. Scopro cosí che non solo è in grado di simulare l’intera panoplia di suoni – dal piú impercettibile zefiro primaverile alla salva dei ventuno colpi di cannone – con cui il genere umano emette i propri gas, ma sa anche «fare la diarrea». Non solo, si affretta a precisare, un povero shlimazel in preda agli spasmi – che già padroneggia alla perfezione fin dai tempi delle superiori –, ma l’intera sinfonia wagneriana dello Sturm und Drang fecale. – Potrei apparire in Strano ma Vero, – mi dice. – Lo leggi Strano ma Vero, no? Allora giudica da te! – Sento il fruscio di una cerniera lampo che viene abbassata. Poi uno scroscio di tutto rispetto contro una tazza smaltata. Poi il rombo dello sciacquone, seguito dal gorgoglio e dai singulti di un rubinetto difettoso. E il tutto proviene dalla bocca di Herbie. Mi getterei adorante ai suoi piedi. – E senti questo! – Sono due mani che si insaponano l’un l’altra, nella bocca di Herbie. – Per tutto l’inverno vado in bagno all’Automat e me ne sto lí seduto ad ascoltare. – Davvero? – Certo. Ascolto anche i rumori che faccio io ogni volta che vado al cesso. – Veramente? – Però per il tuo vecchio, lui che se ne intende, sono tutte porcherie! «Discorso chiuso!» – aggiunge Herbie, con una voce esattamente uguale a quella del mio vecchio! E parla sul serio. Com’è possibile, mi chiedo. Come può Herbie aver accumulato una tale dose di sapienza e vivo interesse nel campo dei tintinnii della latrina? E perché ottusi filistei come mio padre gli rendono cosí poco onore? Tutto ciò in estate, quando mi trovo sotto l’incantesimo del demoniaco percussionista. Poi viene Yom Kippur e Bratasky se ne va, e a cosa mi serve aver imparato quel che uno come lui ha da insegnare a un ragazzo nell’età dello sviluppo? Da un giorno all’altro i nostri -witz, -berg e -stein si disperdono in regioni per me altrettanto remote di Babilonia – giardini pensili chiamati Pelham e Queens e Hackensack – e a riguadagnare il terreno locale sono i nativi che coltivano i campi, mungono le vacche, gestiscono i negozi e lavorano per la contea o per lo stato. Io sono uno degli unici due ebrei in una classe di venticinque alunni e, per quanto sia tentato di dar fiato alle trombe e mostrare a quei buzzurri i fuochi d’artificio di Herbie, il rispetto delle regole e delle convenienze sociali (a quanto pare altrettanto radicato in me dell’attrazione per il delirante, il pomposo, il bizzarro) mi impone di non distinguermi dai miei compagni di classe in alcun modo, se non per i voti in pagella. Fare altrimenti, lo so bene – senza che mio padre abbia bisogno di ricordarmelo –, non mi porterebbe da nessuna parte. E da nessuna parte non è il posto dove ci si aspetta che io vada. Cosí, come un bambino nell’illustrazione di un calendario, mi trascino per quasi tre chilometri attraverso ondeggianti cumuli di neve giú per la nostra strada di montagna fino alla scuola dove passo l’inverno a eccellere, mentre molto piú a sud, nella piú grande delle città, là dove ogni cosa accade, Herbie (che di giorno vende linoleum per uno zio e nei fine settimana suona con un combo latinoamericano) si sforza di perfezionare le sue ultime impressioni scatologiche. Mi descrive i suoi progressi in una lettera che tengo nascosta nella tasca posteriore abbottonata dei calzoncini, e rileggo ogni volta che ne ho l’opportunità; a parte i biglietti di auguri per il compleanno e i francobolli da collezione, è l’unica missiva che abbia mai ricevuto. Naturalmente ho il terrore che, se affogassi mentre pattino sul ghiaccio o mi rompessi il collo mentre vado in slitta, la busta con il timbro postale di BROOKLYN, NY verrebbe trovata da uno dei miei compagni, e tutti si radunerebbero intorno al mio cadavere tappandosi il naso. Mia madre e mio padre morirebbero dalla vergogna. L’Hungarian Royale perderebbe il suo buon nome e farebbe bancarotta. Con ogni probabilità non mi sarebbe concessa sepoltura fra le mura del cimitero ebraico. E tutto a causa di quel che Herbie ha osato scrivere su un pezzo di carta e poi spedire attraverso un ufficio postale governativo a un ragazzino di nove anni, che il mondo che lo circonda (e quindi anche lui stesso) considera puro. Possibile che Bratasky ignori in quel modo il punto di vista delle persone rispettabili? Non capisce che mandare una lettera come quella probabilmente significa violare la legge, rendendomi suo complice? Ma se è cosí, perché mi ostino a portarmi dietro il documento incriminante per tutta la giornata? Lo tengo in tasca anche quando sono impegnato a competere per il primo posto nella gara settimanale di ortografia contro l’altra finalista, la mia correligionaria dai capelli ricci e futura pianista concertista, la brillante Madeline Levine; di notte lo tengo nella tasca del pigiama, per poterlo leggere sotto le coperte alla luce di una torcia elettrica, e poi dormirci insieme stringendolo al cuore. «Sto arrivando all’esatta comprensione del rumore del pezzo di carta igienica che si stacca dal rotolo. Il che significa che ho quasi completato l’impresa, ragazzo. Adesso Herbert L. Bratasky e nessun altro al mondo sa fare una pisciata, una cagata, la diarrea – e anche la carta che si srotola. A questo punto non mi resta che un’ultima montagna da scalare: la pulizia del culo!» Quando ho diciott’anni e sono matricola a Syracuse, la mia passione per la mimica rivaleggia ormai con quella del mio mentore, solo che, invece di produrmi in numeri alla Bratasky, faccio Bratasky, gli ospiti e il personale dell’albergo. Imito il capocameriere rumeno in smoking che fa il gran signore in sala da pranzo – «Da questa parte, prego, Monsieur Kornfeld… Madame, altro kishke?» – per poi, tornato in cucina, imprecare nell’yiddish piú scurrile contro il cuoco ubriaco minacciando di strangolarlo. Imito i nostri gentili, il goffo factotum George che contempla timidamente le signore a lezione di rumba accanto alla piscina, e Big Bud, il non piú giovane ma ancora muscoloso bagnino (e addetto alla manutenzione) che abborda languidamente la casalinga in vacanza e a seguire, se possibile, la nubile figliola che si abbronza il naso appena rifatto. Mi esibisco anche in un lungo dialogo (idillico-storico-tragicomico) fra i miei esausti genitori che si preparano ad andare a letto la sera della chiusura della stagione. Mi sbalordisce scoprire che, agli occhi degli altri, i piú ordinari eventi della mia vita precedente appaiono tanto spassosi – sulle prime mi stupisce anche apprendere che non tutti hanno avuto anni formativi cosí popolati di tipi pittoreschi. E non mi era mai passato per la testa di essere anch’io un tipo pittoresco. Durante i primi semestri al college mi viene assegnato il ruolo principale nelle produzioni universitarie di drammi di Giraudoux, Sofocle e Congreve. Appaio in una commedia musicale, in cui canto e ballo alla mia maniera. A quanto pare non c’è nulla che io non sappia fare su un palcoscenico – e soprattutto nulla che sappia trattenermi dal salire sul palcoscenico. All’inizio del secondo anno i miei genitori vengono a trovarmi al college per vedermi recitare Tiresia – piú vecchio, nella mia interpretazione del ruolo, di loro due messi insieme – e piú tardi, alla festa per la prima, assistono apprensivi alla mia imitazione a grande richiesta del principesco rabbino con la dizione perfetta che ogni anno si fa «tutta la strada» da Poughkeepsie per presiedere ai riti delle feste solenni nel casinò dell’albergo. La mattina dopo li accompagno a fare un giro del campus. Mentre ci dirigiamo verso la biblioteca diversi studenti si complimentano con me per la mia sbalorditiva resa della vecchiaia la sera prima. Impressionata – pur ricordandomi, con la sua tipica ironia, che non molto tempo fa era lei a cambiare e lavare i pannolini di questo divo del palcoscenico –, mia madre commenta: – Ti conoscono tutti, sei famoso, – mentre mio padre, cercando di tenera a bada la delusione, domanda di nuovo: – Allora non fai piú medicina? – Al che ribadisco per la decima volta, ribadendo che è la decima volta: – Voglio fare l’attore, – e ci credo davvero, fino al giorno in cui tutt’a un tratto recitare, alla mia maniera, mi sembra la piú inconcludente, effimera, patetica e narcisistica delle vocazioni. Mi prende una feroce rabbia contro me stesso per essermi fatto conoscere da tutti, per aver fatto mostra della mia stupida vanità, che in precedenza l’angustia del mio nido sepolto nella campagna mi aveva impedito di manifestare, anche a me stesso. Mi umilia a tal punto essermi denudato a quel modo che medito di trasferirmi in un’altra scuola, e lí ricominciare da capo, puro e immacolato di fronte a occhi ignari della mia egocentrica bramosia di applausi e luci della ribalta. Seguono mesi in cui ogni due settimane abbraccio un nuovo proposito penitenziale. Farò medicina – e studierò da chirurgo. O forse da psichiatra, se voglio davvero fare del bene all’umanità. Diventerò avvocato… diplomatico… o addirittura rabbino, un rabbino erudito, contemplativo, profondo… Leggo Io e tu e i racconti dei chassidim, e a casa in vacanza interrogo i miei genitori sulla storia della famiglia nel vecchio mondo. Ma sono piú di cinquant’anni che i miei nonni sono emigrati in America, e ormai sono morti, e i loro figli non nutrono che un interesse puramente sentimentale per le origini mitteleuropee, perciò alla fine abbandono l’inchiesta, e con essa anche la fantasticheria rabbinica. Ma non il tentativo di darmi solide fondamenta. Ripenso con disgusto alla mia decrepitezza in Edipo re, al mio fascino canagliesco in Sulle ali dell’arcobaleno – tutto quel nauseante recitare! Basta con la frivolezza e il maniacale esibizionismo! Ho vent’anni, è ora di smetterla di impersonare altri, è ora di Diventare Me Stesso. O almeno di cominciare a impersonare il me stesso che ritengo di dover essere. Lui – il successivo me stesso – si rivela un serio, solitario, alquanto raffinato giovane devoto alle lingue e letterature europee. I miei colleghi attori sono divertiti da come abbandono il palcoscenico per ritirarmi in una pensione con la sola compagnia di quei sommi scrittori che, da studente, amo chiamare «gli architetti della mia mente». «David si è ritirato dal mondo, – pare annunci il mio rivale nella compagnia di teatro, – ha deciso di mettere l’abito». Be’, mi do delle arie, lo ammetto, e so come drammatizzare me stesso e le mie scelte, ma piú che altro sono un assolutista – un giovane assolutista – e non conosco altro modo per cambiar pelle se non inserire il bisturi e lacerarmi da cima a fondo. O sono una cosa o l’altra. Cosí, a vent’anni, sono ben deciso a disfarmi delle contraddizioni e lasciarmi alle spalle le incertezze. Nei restanti anni di college vivo piú o meno come durante gli inverni della mia infanzia, quando l’albergo era chiuso e io leggevo centinaia di libri della biblioteca nel corso di centinaia di bufere di neve. Durante i mesi artici i lavori di manutenzione e ristrutturazione occupano ogni giornata – odo il suono delle catene dei pneumatici che graffiano il fondo stradale, odo il rumore delle assi di legno che cadono nella neve dal pianale del pick-up, e i ritmi semplici e rincuoranti del martello e della sega. Oltre i davanzali incrostati di neve vedo George e Big Bud che arrivano in macchina per riattare le cabine accanto alla piscina coperta. Faccio un cenno di saluto, George suona il clacson… e in quei momenti è come se i Kepesh fossero tre animali in intima, indisturbata ibernazione. Mamma, papà e il piccolino in letargo, al sicuro nel Paradiso di Famiglia. Invece dei pittoreschi ospiti in persona, in inverno abbiamo con noi le loro lettere, altrettanto pittoresche e numerose, lette ad alta voce da mio padre dopo cena. Sapersi valorizzare è la sua specialità, per come la vede lui; nonché garantire un sano divertimento, e, per quanto maleducati gli ospiti possano essere, trattarli come esseri umani. Fuori stagione però l’equilibrio dei poteri si modifica un po’, e i clienti, in preda alla nostalgia per il sole, le risate e il cavolo ripieno, si spogliano della propria esigente imperiosità – «Firmano il registro, – dice mia madre, – e quei ballagula con le loro mogli shtunk subito si credono il Duca e la Duchessa di Windsor» – e cominciano a trattare mio padre come se anche lui fosse un esponente a pieno titolo della specie, e non il bersaglio del loro scontento o la spalla per le loro grottesche abitudini regali. Quando la neve è piú alta, a volte arrivano anche quattro o cinque lettere alla settimana, piene di notizie: un fidanzamento a Jackson Heights, un trasferimento a Miami per motivi di salute, l’apertura di un secondo negozio a White Plains… Oh, mio padre adora ricevere notizie, buone o cattive che siano. Quelle lettere sono una dimostrazione di cosa significa per la gente l’Hungarian Royale – anzi, sono una dimostrazione non solo di questa ma di molte altre cose. Dopo aver letto le missive, sgombra un capo del tavolo, e a fianco di un piatto pieno del rugalech di mia madre, compone le risposte nella sua calligrafia sconnessa. Io correggo l’ortografia e inserisco la punteggiatura dove lui ha tracciato le lineette che suddividono il lungo paragrafo senza a capi in irregolari brandelli di filosofia spicciola, reminiscenze, profezie, perle di saggezza, analisi politiche, condoglianze e congratulazioni. Poi mia madre batte a macchina ogni lettera sulla carta intestata dell’Hungarian Royale – sotto l’iscrizione che recita Ospitalità Vecchio Mondo In Uno Splendido Scenario Montano. Regole Alimentari Rigidamente Osservate. I Vostri Titolari, Abe e Belle Kepesh – e aggiunge il P.S. confermando la prenotazione per l’estate a venire e richiedendo un piccolo acconto. Prima di incontrare mio padre nel corso di una vacanza su queste stesse colline – lui aveva ventun anni, era disoccupato e faceva la stagione come cuoco di piatti veloci –, mia madre aveva lavorato, nei primi tre anni dopo le superiori, come segretaria in uno studio legale. Secondo la leggenda era una giovane donna meticolosa e coscienziosa, di sbalorditiva competenza, che viveva solo per servire i patrizi avvocati di Wall Street presso cui lavorava, uomini della cui statura – morale e fisica – parlerà con riverenza fino alla morte. Il suo Mr Clark, nipote del fondatore dello studio, continua a mandarle un telegramma con gli auguri a ogni compleanno, anche dopo essersi trasferito in Arizona al momento della pensione, e ogni anno, stringendo il telegramma fra le mani, lei dice con voce sognante al mio stempiato padre e a me piccolino: – Oh, era un uomo cosí alto, cosí bello. Cosí pieno di dignità. Ricordo ancora come si è alzato da dietro la scrivania quando sono entrata nel suo ufficio per il colloquio. Non dimenticherò mai il suo portamento –. Ma destino volle che a notarla appoggiata a un pianoforte mentre cantava Amapola insieme a un gruppo di vacanzieri metropolitani, e a dirsi all’istante: «Io sposerò quella ragazza», fosse un uomo tarchiato e irsuto, con un possente torace, bicipiti alla Braccio di Ferro e nessuna credenziale di classe. Lei aveva occhi e capelli cosí scuri, e gambe e seno cosí ben torniti e «sviluppati», che sulle prime lui la scambiò per una spagnola. E l’inveterata passione per l’impeccabilità che l’aveva resa tanto cara a Mr Clark junior la fece apparire ancora piú provocante agli occhi dell’energico giovane intraprendente con non poco dello schiavista nella propria anima servile. Purtroppo, una volta sposata, le qualità che avevano fatto di lei la pupilla dell’austero boss gentile la spingono a un passo dall’esaurimento nervoso entro la fine di ogni estate – perché anche in un piccolo albergo a conduzione famigliare come il nostro c’è sempre un reclamo su cui indagare, un dipendente da tenere d’occhio, biancheria da elencare, cibo da assaggiare, conti da preparare… e avanti e avanti e avanti e, ahimè, mai che sia possibile lasciar fare un lavoro alla persona che lo dovrebbe fare, dal momento che non viene mai Fatto Bene. Solo in inverno, quando mio padre e io ci troviamo a rivestire gli improbabili ruoli di Clark père e fils, e lei siede in perfetta postura da dattilografa alla grossa Remington Noiseless nera trascrivendo con puntigliosità le sue verbose risposte, intravedo la contegnosa e felice señorita di cui mio padre si è innamorato a prima vista. A volte dopo cena invita addirittura me, un bambino delle elementari, a fingere di essere un uomo d’affari e a dettarle una lettera, cosí da potermi mostrare la sua magica stenografia. – Sei il proprietario di un’impresa di trasporti, – mi dice, anche se in realtà mi è appena stato permesso di comprarmi il primo coltellino tascabile. – Avanti, comincia –. Con una certa regolarità mi ricorda la differenza fra una normale segretaria e quello che lei era, e cioè una segretaria legale. Mio padre conferma con fierezza che è davvero stata la piú impeccabile segretaria legale che abbia mai lavorato in quello studio – Mr Clark in persona l’ha ribadito in una lettera di congratulazioni in occasione del fidanzamento. Poi un inverno, quando a quanto pare ho l’età giusta, mi insegna a battere a macchina. Nessuno, prima o dopo, mi ha mai insegnato qualcosa con altrettanta innocenza e convinzione. Ma è inverno, la stagione segreta. D’estate mia madre è sotto assedio, i suoi occhi scuri dardeggiano frenetici, e lei guaisce e mugola come un cane pastore la cui ragione di vita sia condurre al mercato il riottoso gregge del padrone. Un singolo agnellino che si allontana di qualche metro la spedisce a tutta velocità giú per l’impervia pendice – un belato da un’altra parte, ed ecco che scatta nella direzione opposta. E non c’è un momento di tregua fino al termine delle feste solenni, e anche allora non c’è tregua. Perché quand’è partito l’ultimo ospite si deve fare l’inventario – subito! senza indugio! Quel che è stato rotto, strappato, macchiato, scheggiato, sciupato, rovinato, spezzato, rubato; quel che dev’essere riparato, sostituito, ridipinto, gettato via; l’ammontare delle «perdite». Su questa donnina semplice e ordinata che piú di ogni altra cosa al mondo ama la vista di una perfetta copia carbone priva di sbavature ricade il compito di andare di stanza in stanza a prendere nota sul registro della portata della violenza esercitata sulla nostra roccaforte montana dalle orde di vandali che mio padreinsiste nel considerare – nonostante il veemente disaccordo di lei – alla stregua di esseri umani. Come gli inclementi inverni delle Catskill trasformano ognuno di noi in un Kepesh piú dolce, sano, innocente e sentimentale, cosí nella mia stanza a Syracuse la solitudine agisce su di me finché il me stesso vanesio e superficiale comincia a prendere congedo. Non che, nonostante tutto il mio leggere, sottolineare e prendere appunti, io sia diventato del tutto altruista. Un detto attribuito a un egotista di chiara fama come Lord Byron fa colpo su di me con la sua melliflua saggezza, riassumendo in sole sei parole quello che già allora mi sembra un dilemma morale di insuperabili proporzioni. Con una certa audacia strategica, lo cito ad alta voce alle compagne che mi resistono sostenendo che sono troppo intelligente per certe cose. – Studioso di giorno, – le informo, – dissoluto di notte –. Scopro presto che è meglio sostituire «dissoluto» con «voglioso» – dopotutto non mi trovo in un palazzo veneziano, ma in un campus nel Nord dello Stato di New York, e non mi posso permettere di sconvolgere queste ragazze piú di quanto già non faccia con il mio «vocabolario» e la mia crescente reputazione di «solitario». Leggendo Macaulay per Inglese 203, mi imbatto nella sua definizione di Steele, il collaboratore di Addison, e «Eureka!», esclamo, perché ecco un’altra prestigiosa giustificazione per i miei alti voti e i miei bassi desideri. «Un libertino fra gli eruditi, un erudito fra i libertini». Perfetto! Me lo attacco in bacheca, accanto alla citazione da Byron, subito sopra i nomi delle ragazze che ho in mente di sedurre, una parola le cui piú profonde risonanze non derivano per me dalla pornografia e neppure dai rotocalchi, ma dalla tormentata lettura di Enten-Eller di Kierkegaard. Ho un unico amico maschio che vedo con regolarità, un nervoso, imbranato e brutto laureando in filosofia di nome Louis Jelinek, ed è stato lui a introdurmi a Kierkegaard. Come me, Louis affitta una stanza in città per non stare nel dormitorio del college insieme a ragazzi i cui rituali camerateschi anche lui considera deplorevoli. Si mantiene agli studi lavorando in un fast food (piuttosto che accettare soldi dai disprezzati genitori di Scarsdale) e se ne porta dietro l’odore ovunque vada. Quando mi capita di toccarlo, per caso, per affetto o nella foga del discorso, lui balza indietro come se temesse di contaminare i suoi fetidi stracci. – Giú le mani, – ringhia. – Che vuoi, cazzo, ti sei candidato alle elezioni, Kepesh? – Davvero? Non lo sapevo. E quali elezioni? Stranamente, qualunque cosa Louis dica di me, anche solo per stizza o nel corso di una delle sue tirate, assume un peculiare significato in vista del mio solenne proposito di «comprendere me stesso». Perché lui, è evidente, non vuole compiacere nessuno – famiglia, facoltà, padrona di casa, negozianti, men che meno quei «barbari borghesi» dei nostri compagni di studi – ed è per questo che lo considero in contatto piú intimo con la «realtà» di quanto non lo sia io. Io sono uno di quei ragazzi alti con i capelli ondulati e una fossetta sul mento che alle superiori hanno sviluppato dei modi vincenti, e per quanto mi sforzi non riesco a disfarmene. Soprattutto accanto a Louis mi sento pietosamente banale: cosí lindo e pulito, cosí incantevole in caso di necessità, e nonostante quel che sostengo, ben poco indifferente alle apparenze e alla reputazione. Perché non riesco a essere come Jelinek, olezzante di cipolle fritte e capace di guardare dall’alto in basso il mondo intero? Qualunque stanza in cui Louis abiti si trasforma in una pattumiera! Croste e torsoli e bucce e confezioni di cibo – il perfetto mondezzaio! Basta guardare il grumo di kleenex sotto il suo letto devastato, kleenex che si appiccicano alle sbrindellate pantofole. Pochi secondi dopo l’orgasmo, anche nel privato della mia stanza chiusa a chiave, io scaglio automaticamente nel cestino della carta straccia le prove della masturbazione, mentre Jelinek – l’eccentrico, sprezzante, indipendente e inattaccabile Jelinek – sembra fregarsene bellamente di cosa pensa il mondo delle sue copiose eiaculazioni. Sono stupefatto, non riesco ad accettarlo, per settimane continuerò a non crederci quando uno studente di filosofia mi dice che «palesemente» il mio amico è un omosessuale «praticante». Il mio amico? Non può essere. Con le «checche», ovviamente, ho una certa familiarità. Ogni estate ne arrivavano all’albergo alcune di quelle famose, piccoli pascià ebrei in vacanza, su cui Herbie B. indirizzava la mia attenzione. Li guardavo affascinato mentre, senza smettere per un istante di assaporare dolci bevande al cioccolato attraverso un paio di cannucce, venivano condotti al riparo dalla luce del sole, dove zigomi e gote gli venivano nettati e asciugati dai fazzoletti di un manipolo di schiave chiamate nonna, mamma e zia. E poi c’erano i pochi sventurati a scuola, ragazzi nati con le braccia che mulinavano come quelle delle ragazze, incapaci di lanciare dritta una palla nonostante le ore e ore di pazienti istruzioni in privato che tu dedicavi loro. Ma un omosessuale praticante? Mai, mai, in tutti i diciannove anni della mia vita. Eccetto, ovviamente, quella volta subito dopo il bar mitzvah, quando avevo preso da solo il pullman per una fiera filatelica ad Albany, e al vespasiano del terminal del Greyhound ero stato avvicinato da un uomo di mezza età in giacca e cravatta che mi aveva sussurrato dietro le spalle: – Ehi, ragazzo, vuoi che te lo succhi? – No, no, grazie, – avevo risposto, e piú in fretta che potevo (pur cercando di non essere offensivo) ero uscito dal bagno degli uomini e dal terminal, e mi ero diretto al piú vicino centro commerciale, per mimetizzarmi in mezzo alla folla di acquirenti eterosessuali. Negli anni successivi però nessun altro omosessuale mi ha mai rivolto la parola, almeno che io sappia. Fino a Louis. Oddio, questo spiega perché mi dice di tenere le mani a posto quando le maniche delle nostre camicie a malapena si sfiorano? È che per lui essere toccato da un ragazzo comporta le piú serie implicazioni? Ma se cosí fosse, una persona schietta e anticonvenzionale come Jelinek non metterebbe le cose in chiaro? O forse mentre il mio ignominioso segreto con lui è quello di essere sotto sotto un ragazzo convenzionale e rispettabile, un Joe College che non ha fatto il coming-out, quello di Louis con me è di essere un finocchio? A dimostrazione di quanto sono convenzionale e rispettabile, io non glielo chiedo. Attendo invece nel terrore il giorno in cui qualcosa che Jelinek dirà o farà mi rivelerà la verità su di lui. O forse questa verità la conosco da sempre? Ma certo! Quei grumi di kleenex sparsi per la stanza come mazzolini di fiori… non equivalgono a un’esplicita dichiarazione? a un invito?… Chi può escludere che una sera questa cervellotica creatura dal naso a becco, che ignora per principio l’uso del deodorante per le ascelle e sta già cominciando a perdere i capelli, nel bel mezzo di una delle sue conferenze su Dostoevskij salti su con le sue goffe movenze da dietro la scrivania e cerchi di stringermi in un abbraccio? Mi dirà che mi ama e mi ficcherà la lingua in bocca? E io come reagirò? Con le parole che dicono a me le innocenti ragazze oggetto delle mie brame? «No, no, ti prego! Oh, Louis, sei troppo intelligente per certe cose! Non possiamo limitarci a parlare di libri?» Ma proprio perché l’idea mi spaventa a tal punto – proprio perché temo di essere davvero «buzzurro» e «bifolco» come lui ama chiamarmi quando dissentiamo in merito al profondo significato di qualche capolavoro –, continuo ad andarlo a trovare nella sua stanza olezzante e mi siedo davanti a lui in mezzo all’immondizia parlando a gran voce per ore e ore delle idee piú assurde ed esasperanti, e pregando che non faccia il primo passo. Non ne ha comunque il tempo perché viene cacciato dall’università per non essersi presentato a nemmeno una lezione per tutto il primo semestre, e per non essersi nemmeno degnato di rispondere alle missive del consigliere per gli studenti che gli chiedeva un colloquio per affrontare il problema. Sarcastico, disgustato, indignato, Louis sbotta: – Quale problema? – e inclina la testa di lato scrutando il soffitto come se, per quel che ne sa lui, il «problema» potesse celarsi da qualche parte nell’aria sopra di noi. Benché tutti concordino sul fatto che quella di Louis è una mente straordinaria, la sua iscrizione al secondo semestre del primo anno non viene accettata. Da un giorno all’altro scompare da Syracuse (senza salutare, manco a dirlo) e quasi immediatamente viene chiamato alla visita di leva. Lo vengo a scoprire quando un agente dell’Fbi dallo sguardo indistoglibile viene a interrogarmi dopo che Louis ha disertato l’addestramento di base e (cosí immagino) è andato a rifugiarsi in uno slum insieme al suo Kierkegaard e ai suoi kleenex per evitare la guerra di Corea. L’agente McCormack chiede: – Dave, cosa mi dici dei suoi trascorsi omosessuali? – Arrossendo, rispondo: – Non ne so niente –. McCormack dice: – Però mi dicono che eri il suo amichetto. – Dicono? Non capisco a chi si riferisce. – I ragazzi del campus. – È una perfida diceria… non è assolutamente vero. – Che eri il suo amichetto? – No, signore, – dico, sentendomi di nuovo avvampare la fronte, – che avesse dei «trascorsi omosessuali». Lo dicono perché era un tipo con cui era difficile andare d’accordo. Era una persona insolita, soprattutto da queste parti. – Però tu ci andavi d’accordo, no? – Sí, perché non avrei dovuto? – Nessuno dice che non avresti dovuto. Senti un po’, a quanto mi dicono sei un gran casanova. – Ah sí? – Già. Corri dietro alle gonnelle, non è vero? – Direi di sí, – distogliendo lo sguardo dai suoi occhi, e dall’implicita insinuazione che si tratti solo di una copertura. – Louis invece non lo faceva, – dice l’agente in tono ambiguo. – E con questo? – Dave, dimmi una cosa. Siamo franchi. Secondo te dov’è? – Non lo so. – Ma se tu lo sapessi mi metteresti al corrente, vero? – Sissignore. – Bene. Ecco il mio biglietto da visita, se magari scopri qualcosa. – Sissignore. Grazie, signore. – E dopo che se n’è andato sono disgustato dal mio comportamento: il terrore della prigione, i modi da Piccolo Lord, gli istinti collaborazionisti – e la vergogna che provo per praticamente qualunque cosa. Le ragazze a cui corro dietro. Di solito le rimorchio (o quantomeno le abbordo) nella sala di lettura della biblioteca, un luogo paragonabile al palcoscenico di un locale di spogliarello per il suo potere di stimolare e focalizzare il mio desiderio. Quel che non è stato del tutto soppresso in queste borghesi ragazze americane ben educate e ben vestite si palesa all’istante (o piuttosto si immagina all’istante) in quest’atmosfera di rigida compostezza accademica. Contemplo ammaliato la ragazza che si tormenta una ciocca di capelli mentre fa mostra di studiare il suo libro di storia – mentre io faccio mostra di studiare il mio. Un’altra ragazza, che il giorno prima nel suo banco a lezione avevo trovato del tutto ordinaria, dondola una gamba sotto il tavolo della biblioteca mentre sfoglia pigramente un numero di «Look», e il mio ardore non conosce limiti. Una terza ragazza si china sul quaderno, e con un gemito soffocato, come se mi stessero impalando, osservo il seno sotto la camicetta dolcemente premuto fra le braccia incrociate. Come vorrei essere quelle braccia! Sí, basta davvero poco per lanciarmi alla conquista di una perfetta sconosciuta, mi basta notare che, mentre con la mano destra prende appunti dall’enciclopedia, non riesce a impedire che l’indice della mano sinistra accarezzi il contorno delle labbra. Mi rifiuto – sulla base di una debolezza di cui mi sono fatto un principio – di resistere a ciò che trovo irresistibile, per quanto inconsistente e stramba o infantile e perversa chiunque altro possa considerare la fonte della mia attrazione. Naturalmente questo mi porta a mettere gli occhi su ragazze che per altri versi potrei trovare ottuse o sciocche o insulse, ma sono convinto che oltre all’insulsaggine qualcos’altro debba pur esserci, e poi il mio desiderio, dal momento che è un desiderio, non dev’essere sminuito o disprezzato. – Ti prego, – mi supplicano, – perché non ti limiti a parlare e a essere carino? Sai essere cosí carino, quando vuoi. – Sí, me lo dicono tutte. – Non capisci che questo è solo il mio corpo. Non voglio relazionarmi con te a questo livello. – Mi spiace per te, ma non ci puoi fare niente. Hai un corpo sensazionale. – Oh, non ricominciare con questa storia. – Hai un culo sensazionale. – Per favore non essere volgare. A lezione non parli cosí. Mi piace tanto ascoltarti, ma non quando mi insulti in questo modo. – Ti insulto? Ti sto facendo un gran complimento. Hai un culo meraviglioso. Perfetto. Dovresti esserne entusiasta. – Serve solo per sedercisi su, David. – Col cavolo. Chiedi a una ragazza che ce l’ha tutto diverso se le piacerebbe fare cambio. Forse allora aprirai gli occhi. – Per favore, smettila di prendermi in giro e di usare questo tono sarcastico. Per favore. – Non ti sto prendendo in giro. Ti sto prendendo sul serio come nessuno ti ha mai presa sul serio in vita tua. Hai un culo che è un capolavoro. Non c’è da stupirsi se entro l’ultimo anno mi sono fatto una «terribile» reputazione fra le congregazioni di studentesse per aver cercato di sedurre qualche «sorella» con il mio aggressivo candore. Con una simile reputazione avrei dovuto ridurne centinaia al meretricio, mentre di fatto nel giro di quattro anni sono riuscito a ottenere una penetrazione completa in due sole occasioni, e qualcosa di vagamente simile a una penetrazione in altre due. Il piú delle volte, laddove dovrebbe esserci un rapimento fisico, c’è invece un discorso logico (o illogico). Ma non posso certo essere accusato di ingannarle circa la natura del mio desiderio o della loro desiderabilità, e lungi dallo «sfruttarle» mi considero una delle poche persone oneste in circolazione. In un impeto di sincerità calcolata – calcolata male, come si vedrà – confido a una delle ragazze come la vista dei suoi seni premuti fra le braccia mi abbia fatto desiderare di essere quelle braccia. Ed è poi cosí diverso, le chiedo cercando di affascinarla, da Romeo che, sotto il balcone di Giulietta, sussurra: «Vedi come appoggia la guancia sulla mano? Oh, foss’io il guanto su quella mano e sentire la sua guancia!» Ma a quanto pare è molto diverso. Nel corso dell’ultimo anno di college mi succede spesso che all’altro capo riattacchino non appena al telefono annuncio il mio nome, e le poche ragazze cosí gentili da correre il rischio di uscire sole con me sono, a quanto mi dicono le ragazze stesse, considerate aspiranti suicide. Continuo anche a guadagnarmi il divertito disprezzo dei miei magnanimi amici della compagnia teatrale. Adesso i soliti spiritosoni dicono che ho abbandonato gli ordini sacri e sto cercando di rimorchiare la squadra delle ragazze ponpon al gran completo, e che c’è una bella differenza dal mettere in scena l’angoscia sessuale di Strindberg e O’Neill, o almeno cosí sostengono loro. In realtà nella mia vita c’è un’unica ragazza ponpon, che mi offre la squisita agonia di una suprema frustrazione e ridicolizza i miei sogni dissoluti, una certa Marcella «Seta» Walsh, di Plattsburgh, New York. Il mio bramarla invano ha inizio quando una sera vado a vedere una partita di basket per assistere alla sua esibizione, dopo averla incontrata nel pomeriggio in fila alla mensa universitaria e aver ammirato da vicino il delizioso cuscinetto del suo labbro inferiore, la piú irresistibile delle caramelle. C’è un numero in cui le ragazze ponpon si puntano un pugno sull’anca e con l’altro percuotono ritmicamente l’aria, arcuando nel frattempo la vita per piegarsi sempre piú all’indietro. Le altre sette ragazze in gonnellino bianco pieghettato e maglione bianco eseguono questa sequenza di movimenti come se non fosse altro che un’energica prestazione ginnica, da eseguirsi senza risparmiare le forze e trattenendo le risate. Solo nel lento protendersi del ventre di Marcella Walsh c’è l’ardente suggerimento (per me assolutamente palese) di un’offerta, di un invito, di una lussuria sfrenata, inconscia, che (ai miei occhi) implora di essere soddisfatta. Solo lei sembra (a me, a me) percepire che la trattenuta e mansueta veemenza di quell’insipida esibizione non è che un’esile maschera della cruda salmodia che proromperebbe da lei se un pene mandasse in estasi quel suo inguine sussultante. Oddio, come può il mio concupire quell’inguine dato in pasto alle fauci della folla ululante, come può il mio concupire quei pugnetti contratti che a me parlano della piú incantevole delle lotte, come può il mio concupire quelle lunghe e forti gambe da monella scosse da un lieve fremito allorché la schiena si inarca e i capelli di seta (da cui il nomignolo) sfiorano il pavimento della palestra – come può il mio concupire le piú minute pulsazioni della sua persona essere «dissennato» o «futile», «indegno» di me o di lei, mentre fare un tifo smodato perché il Syracuse vinca il campionato di basket interuniversitario avrebbe un gran senso? È questo il filo del ragionamento che espongo a Seta, un ragionamento grazie al quale spero prima o poi (oh, il tempo! le ore perse a discutere, e che tanto meglio sarebbero state impiegate incitandoci l’un l’altra con sussulti inguinali culminanti in orgasmi oceanici!) di aprirmi la strada verso quei lancinanti piaceri erotici che ancora mi sono ignoti. Devo invece accantonare la logica, l’arguzia, la franchezza, e sí, anche l’erudizione letteraria, accantonare ogni ragionevole tentativo di persuasione – nonché alla fin fine ogni dignità –, devo insomma comportarmi come un patetico trovatello affamato nel bel mezzo di una carestia prima che Seta, che probabilmente non ha mai assistito prima a una scena tanto penosa, mi permetta di tempestarle di baci l’addome nudo. Poiché ella è davvero la piú dolce e generosa delle fanciulle, non certo cosí fredda o crudele da trasformare un Romeo dall’animo scurrile, un Barbablú primo della classe, un Don Giovanni in erba, un Johannes il Seduttore, in un abietto mendicante, mi è concesso di baciare il ventre di cui ho parlato in modo tanto «ossessivo», ma niente di piú. – Né piú in alto né piú in basso, – mi sussurra, da dove l’ho fatta piegare all’indietro su un acquaio nella fitta oscurità della lavanderia nel seminterrato del suo dormitorio. – David, non piú in basso di cosí, ho detto. Come può anche solo venirti in mente di fare una cosa simile? Cosí il mio mondo frappone le proprie ragioni e i propri impedimenti fra i miei ardori e la miriade di oggetti del desiderio. Mio padre non mi capisce, l’Fbi non mi capisce, Seta Walsh non mi capisce, nemmeno le ragazze della congregazione studentesca mi capiscono, e neppure i bohémien – neanche Louis Jelinek mi capiva davvero, benché, per quanto suoni improbabile, questo presunto omosessuale (ricercato dalla polizia) sia stato il mio piú caro amico. No, nessuno mi capisce, neanche io mi capisco. Arrivo a Londra con la mia borsa di studio dopo sei giorni di nave, un viaggio in treno da Southampton e una lunga corsa in metropolitana fino a un quartiere chiamato Tooting Bec. L’ufficio per gli alloggi del King’s College mi ha trovato una sistemazione in una casa privata in questa sconfinata distesa di palazzine finto Tudor, e non a Bloomsbury come avevo chiesto io. L’ex capitano dell’esercito e relativa moglie proprietari di questa casa linda e soffocante – con loro, scopro, prenderò i miei pasti serali – mi mostrano la piccola e tetra camera nell’attico destinata a me, e guardando il letto di ferro su cui trascorrerò le prossime trecento e piú notti, perdo all’istante il buonumore che mi ha accompagnato da quando ho attraversato l’Atlantico, la pura gioia con cui mi ero lasciato alle spalle i costrittivi rituali della vita studentesca e le tediose ansie del padre e della madre da cui non mi sento piú nutrito. Ma Tooting Bec? Questa stanza minuscola? I pasti al cospetto dei sottili baffi del capitano? E a che scopo? Studiare leggende arturiane e saghe islandesi? È questo che ci si guadagna a essere intelligenti? La mia delusione è atroce e colossale. Nel portafoglio ho il numero di telefono di un insegnante di paleografia del King’s fornitomi da un suo amico, uno dei miei professori di Syracuse. Ma come posso telefonare a questo esimio studioso e raccontargli che ad appena un’ora dal mio arrivo voglio restituire la Fulbright e tornarmene a casa? «Hanno scelto il candidato sbagliato. Io non sono abbastanza serio per soffrire cosí!» Con l’assistenza della cortese e grassoccia moglie del capitano – dalla mia carnagione si è fatta l’idea che io sia armeno, e continua a biascicare di nuovi tappeti per il salotto – trovo il telefono nell’ingresso e compongo il numero. Sono sull’orlo delle lacrime (sono sull’orlo di fare una telefonata a carico del destinatario nelle Catskill), ma per quanto triste e spaventato, scopro di essere ancora piú spaventato dall’idea di confessare di essere triste e spaventato, perché quando il professore risponde, io riattacco. Quattro o cinque ore dopo – sull’Europa Occidentale è calata la notte e io ho piú o meno digerito il mio primo pasto inglese a base di spaghetti in scatola su pane tostato – mi dirigo verso un indirizzo londinese di cui sono venuto a conoscenza nel corso della traversata. Shepherd Market mi regala un’esperienza che modifica sensibilmente il mio atteggiamento verso la borsa di studio. Sí, ancor prima di aver cominciato a frequentare le lezioni sull’epica e il romance, scopro che per un giovane sconosciuto approdare a una terra sconosciuta può non essere stato del tutto uno sbaglio. Certo, ho il terrore di morire come Maupassant; nondimeno, pochi minuti dopo aver sbirciato timidamente nella famigerata viuzza, mi sono già trovato una prostituta – la prima puttana della mia vita, e soprattutto la prima delle mie tre partner sessuali nate fuori dagli Stati Uniti continentali (fuori dallo Stato di New York, per essere esatti) e in un anno precedente a quello della mia nascita. Anzi, quando si trova a cavalcioni su di me e a un tratto è la gravità a fare quel che deve, mi rendo conto con uno strano brivido di repulsione che questa donna i cui seni collidono sopra la mia testa come paioli – e che ho scelto fra le concorrenti proprio sulla base di questi seni titanici e di un posteriore non meno possente – probabilmente è nata prima dello scoppio della prima guerra mondiale. Pensate un po’, prima della pubblicazione dell’Ulisse, prima… ma mentre ancora sto cercando di collocarla nel secolo, mi accorgo che molto piú in fretta di quanto avevo programmato – come se uno di noi due stesse correndo per non perdere un treno – vengo spinto verso il gran finale con il non richiesto aiuto di una mano esperta, rapida, priva di sentimento. La sera dopo scopro Soho. Scopro anche, nell’Enciclopedia Columbia che mi sono portato oltreoceano insieme alla Storia letteraria dell’Inghilterra di Baugh e ai tre volumi tascabili di Trevelyan, che gli stadi finali della sua malattia venerea stroncarono Maupassant a quarantatre anni. Ciononostante, non riesco a pensare a nessun altro luogo in cui vorrei essere, in coda alla cena con il capitano e la moglie del capitano, se non in una camera insieme a una puttana disposta a fare qualunque cosa io desideri – eh no, non dopo aver sognato di pagare per questo privilegio fin da quando avevo dodici anni e mettevoda parte la mia paghetta di un dollaro alla settimana. Certo, se scegliessi puttane dall’aria meno puttanesca le mie probabilità di morire di sifilide invece che di vecchiaia dovrebbero diminuire sensibilmente. Ma che senso ha prendere una puttana che non ha l’aspetto, i modi e la parlata di una puttana? Dopotutto non sono alla ricerca di una ragazza fissa, proprio no. E quando mi sento pronto per una spasimante non vado a Soho, ma a mangiare aringa in un ristorante vicino a Harrods chiamato Midnight Sun. La mitologia del a ragazza svedese e del a sua libertà sessuale vive in quegli anni il suo primo fulgore, e nonostante il naturale scetticismo che provocano in me i racconti di insaziabili appetiti e bizzarre tendenze sessuali che ho orecchiato al col ege, taglio volentieri le lezioni di norvegese antico per scoprire da me quanta verità sia contenuta in quel e titil anti fantasticherie da scolaretti. Eccomi allora diretto al Midnight Sun, dove a quanto si dice le cameriere sono giovani dee del sesso scandinave che servono i loro piatti tipici vestite in pittoreschi abiti folclorici, zoccoli di legno dipinti che valorizzano le nude gambe dorate, e corpetti campagnoli chiusi sul davanti da legacci che strizzano i seni offrendo alla vista eccitanti rotondità. E’ qui che incontro Elisabeth Elverskog - e che la povera Elisabeth incontra me. Elisabeth si è presa un anno libero dall’università di Lund allo scopo di migliorare il suo inglese, e vive insieme a un’altra svedese, figlia di amici di famiglia, che due anni prima ha lasciato l’università di Uppsala per migliorare il suo inglese, e ancora non si è convinta a tornare a casa. Birgitta, che è arrivata in Inghilterra come studentessa e in teoria frequenterebbe la London University, a Green Park raccoglie i penny per l’affitto del e sedie a sdraio e, all’insaputa del a famiglia di Elisabeth, raccoglie avventure. L’appartamento nel seminterrato che Elisabeth condivide con Birgitta si trova in una pensione dalle parti di Earl’s Court Road abitata perlopiù da studenti dalla pel e molto più scura di quel a del e due ragazze. Elisabeth mi confessa che quel posto non le va a genio - gli indiani, verso cui non nutre alcun pregiudizio razziale, le danno noia cucinando piatti al curry nel e loro camere a ogni ora del a notte, mentre gli africani, verso cui pure non nutre alcun pregiudizio razziale, allungano le mani per toccarle i capel i quando li incrocia nel corridoio, e benché lei ne comprenda la ragione, e si renda conto che lo fanno senza cattive intenzioni, tuttavia ha un brivido ogni volta che accade. Però, alla sua maniera compiacente e bonaria, Elisabeth ha deciso di accettare questi piccoli soprusi da parte dei vicini - e il generale squallore del quartiere - come parte del ‘avventura di vivere all’estero fino a giugno, quando tornerà a passare l’estate con la famiglia nel a casa di vacanze nel ‘arcipelago di Stoccolma. Descrivo a Elisabeth il mio alloggio monacale e faccio un’imitazione che la diverte enormemente del capitano e del a moglie che mi spiegano come in quel a casa non permettano promiscuità, nemmeno fra loro stessi. E quando passo a un’imitazione del suo inglese cantilenante, lei ride ancora di più. Durante le prime settimane la piccola Birgitta con i suoi capel i scuri e la sua (a mio modo di vedere) seducente dentatura cavallina finge di dormire quando io ed Elisabeth entriamo nel a stanza nel seminterrato e fingiamo di non fare l’amore. E quando alla fine tutt’e tre smettiamo di fingere provo un’eccitazione non più grande di quel a che provavo quando trattenevamo il fiato e fingevamo che non stesse accadendo niente di fuori dall’ordinario. Sono talmente sol evato dal vertiginoso cambiamento avvenuto nel a mia vita da quando ho avuto l’idea di andare a pranzo al Midnight Sun - anzi, da quando ho sconfitto le mie paure e ho messo piede in Shepherd Market per scegliermi la più puttanesca del e puttane -, sono in preda a una tale egoistica frenesia per l’improbabile cosa che mi sta accadendo, con non una ma ben due ragazze svedesi (o se preferite, europee), che non mi accorgo di come a poco a poco Elisabeth stia andando in pezzi per lo sforzo che le costa fare la sua parte di peccatrice nel nostro ménage intercontinentale, essere la metà di quel o che non posso che definire il mio harem. Forse non me ne accorgo perché anche lei è in preda a una sorta di frenesia - una frenesia da annegamento, un disperato dibattersi cercando di restare a galla - e di conseguenza sembra spesso che se la stia godendo anche lei; scambio cioè l’agitazione per eccitazione, o almeno così accade la domenica che trascorriamo tutt’e tre insieme a Hampstead Heath con un cestino da picnic e una palla da tennis. Insegno alle ragazze a «correre alla base»- e cosa potrebbe deliziare Elisabeth più di trovarsi presa in mezzo fra me e Birgitta in un ilare, ululante run-down? -, poi loro insegnano a me il brannbol , una via di mezzo fra la palla avvelenata e lo stickball, un gioco che facevano da bambine a scuola a Stoccolma. Quando piove giochiamo a carte, a ramino o canasta. Il vecchio re, Gustavo V, era un appassionato giocatore di ramino, mi raccontano, come lo sono la madre e il padre e il fratel o e la sorel a di Birgitta. Elisabeth, il cui circolo di amici del liceo ha dedicato centinaia di pomeriggi alla canasta, afferra le regole del ramino dopo qualche partita fra me e Birgitta. E affascinata dal gergo che uso durante il gioco, e comincia a usarlo anche lei - come avevo fatto io quando avevo otto anni e l’avevo imparato ai piedi di Klotzer il Re del a Gazzosa (a detta di mia madre, l’ospite più grasso nel a storia del ‘Hungarian Royale - quando Mr Klotzer posava il suo posteriore sul a nostra sedia di vimini, lei non poteva evitare di coprirsi gli occhi - nonché maratoneta del patimento e del monologo al tavolo verde). Dice Elisabeth, sistemando e risistemando con aria sconfortata le carte che Birgitta le ha distribuito: - Questa non è una mano, è un piede, - e quando cala le sue combinazioni con aria trionfante, le fa uno sconfinato piacere - fa a me uno sconfinato piacere - sentirla chiedere al suo avversario: - Al ora, amico, lo sai, sì?, a che gioco stiamo giocando? - Oh, e quando a canasta chiama«yoker» la matta, be’, è davvero uno spasso. Come diavolo potrei capire che sta andando in pezzi? Io non sto andando in pezzi! E che dire del e nostre serie e maceranti discussioni sul a seconda guerra mondiale, nel corso del e quali cerco di spiegare - non sempre in tono cortese - a queste due sentenziose neutraliste ciò che stava accadendo in Europa quando eravamo bambini? Non è forse Elisabeth a essere ancora più veemente (e candidamente ingenua) di Birgitta nel ‘insistere, anche quando praticamente la minaccio di prenderla a ceffoni, che la guerra è stata «colpa di tutti?» Come potrei capire che non solo sta andando in pezzi ma pensa dalla mattina alla sera al modo di farsi fuori? Dopo l’«incidente» - così definiamo nel telegramma ai suoi genitori il braccio rotto e la lieve commozione cerebrale che Elisabeth si è procurata buttandosi sotto un camion sedici giorni dopo il mio trasferimento da Tooting Bec al seminterrato del e due ragazze -continuo ad appendere la mia giacca di tweed nel suo armadio e a dormire, o quantomeno a provarci, nel suo letto. E credo sinceramente di restare qui perché sono così traumatizzato che mi è semplicemente impossibile trasferirmi da qualche altra parte. Notte dopo notte, sotto il naso di Birgitta, scrivo lettere a Stoccolma in cui mi sforzo di spiegare me stesso a Elisabeth; in realtà mi siedo alla scrivania con l’intenzione di cominciare la tesi sul declino del a poesia scaldica causato dall’abuso del kenning che dovrò presto consegnare al mio professore di saghe islandesi, ma poi finisco per raccontare a Elisabeth che non mi ero reso conto che cercava solo di compiacermi, ma che in modo del tutto innocente - per quanto «del tutto imperdonabile» -credevo che anche lei, come me e Birgitta, cercasse prima di tutto di compiacere se stessa. Ogni occasione è buona - in metropolitana, al pub, durante una lezione - per tirar fuori la sua prima lettera, scritta dalla sua camera appena tornata a casa, e aprirmela davanti per rileggere quel e frasi da prima elementare che ogni volta su di me producono l’effetto Sacco e Vanzetti: che idiota sono stato, che stolido, che cieco! «Alskade David!», comincia, e poi, nel suo peculiare inglese, passa a spiegare di essersi innamorata di me, non di Gittan, e di essere venuta a letto con entrambi solo perché lo volevo io, e che avrebbe fatto qualunque cosa per me. . e poi aggiunge in una scrittura microscopica di aver paura di ricaderci se dovesse tornare a Londra.. Io non sono forte come Gittan. Io sono solo una debole Bettan, e non posso fare niente per questo. Era come se ero all’inferno. Ero innamorata e quel o che facevo non era l’amore. Era come che non ero più un essere umano. Sono così stupida e il mio inglese è così strano quando scrivo. Mi dispiace. Ma so che non devo fare mai per tutta la vita più quel o che facevamo noi tre. Così la sciocca ragazza ha imparato qualcosa. Din BettanE al di sotto, l’indulgente ripensamento di Bettan: «Tusen pussar och kramar» - mil e baci e abbracci. Nel e mie lettere ribadisco di essere stato cieco di fronte alla natura dei suoi reali sentimenti per me - cieco di fronte alla profondità dei miei sentimenti per lei. Definisco imperdonabile anche questo, e«triste» e «strano», e quando la contemplazione di questa mia ignoranza mi porta quasi alle lacrime, lo definisco «terrificante» - e dico sul serio. Da questo passo a dare a entrambi noi qualche speranza raccontandole di aver trovato una stanza tutta per me (nel giro di qualche giorno intendo davvero cominciare a cercarla) in una residenza universitaria, e che quindi deve scrivermi li - se mai ha intenzione di scrivermi ancora - invece che al vecchio indirizzo presso Birgitta.. Eproprio mentre compongo queste schiette apologie e richieste di perdono, vengo sopraffatto dalle emozioni più sregolate e contraddittorie: indegnità, spregevolezza, vergogna e sincero rimorso, e nel o stesso tempo l’altrettanto forte convinzione di non avere alcuna colpa, che se l’innocente, indifesa Elisabeth si è buttata sotto un camion io non ne ho più responsabilità di quegli indiani che cucinano il riso al curry alle due di notte. E che dire di Birgitta, che avrebbe dovuto essere la protettrice di Elisabeth, e che adesso si limita a starsene sdraiata sul suo letto all’altro capo del a stanza studiando la sua grammatica inglese, del tutto indifferente - almeno in apparenza - al mio drammatico disgusto per me stesso? Come se, visto che Elisabeth sotto il camion si è rotta il braccio, e non il col o, lei non avesse niente di cui preoccuparsi! Come se il comportamento di Elisabeth con noi riguardasse solo la coscienza di Elisabeth. . e non la sua.. e non la mia. Ma certo, certo, Birgitta non è meno colpevole di me per aver abusato del a natura remissiva di Elisabeth. Ono? Non era a Birgitta più che a me che Elisabeth istintivamente si rivolgeva quando più aveva bisogno di affetto? Quando, svuotati, giacevamo sul tappeto consunto -perché il nostro altare sacrificale era perlopiù il pavimento, non il letto -, quando ce ne stavamo lì distesi, membra fiacche in mezzo a piccoli capi di biancheria intima, ebbri, sazi e confusi, era invariabilmente Birgitta che sosteneva il capo a Elisabeth e le carezzava dolcemente il viso sussurrandole una ninnananna come la più tenera del e madri. In quei momenti le mie braccia, le mie mani e le mie parole parevano non servire a nessuno. Le mie braccia, mani e parole erano tutto fino a quando venivo, poi le due ragazze si rannicchiavano una contro l’altra come amichette del cuore in una casa sul ‘albero, o in una tenda dove non c’è spazio per nessun altro. . Lasciando a metà la mia lettera, mi precipito in strada e faccio metà Londra a piedi (di solito in direzione di Soho) cercando di riprendere il control o. Nel corso di questi vagabondaggi alla Raskòl’nikov (un Raskòl’nikov, devo riconoscerlo, interpretato da Wilson lo Svitato), cerco di «mettere ordine nei pensieri». Dovrei cioè, se solo ci riuscissi, affrontare il nuovo imprevedibile corso degli eventi al modo di Birgitta. E dato che spontaneamente non riesco a raggiungere quel genere di equanimità -né a trovare in me quel genere di forza, se di forza si tratta -, forse dovrei ragionare come ragiona lei. Sì, mettere a buon frutto il mio cervel o da borsista Fulbright - servirà pur a qualcosa! Metti ordine nei pensieri, dannazione! Non è così difficile. Non ti sei rotolato con queste due ragazze per inaugurare una carriera di santità! Ben lungi!Non hai escogitato quel che hai escogitato per far piacere ai tuoi vecchi a casa! Ben lungi! Al ora o te ne torni a giocare a batti batti le manine con Seta Walsh oppure resti dove sei e fai quel che vuoi! Anche Birgitta è umana, lo sai! Anche la forza e la lucidità (se di forza e lucidità si tratta) sono umane, e quando non hai più quattro anni non è più il caso di frignare tanto! Eneanche di farsi la ramanzina! Elisabeth ha perfettamente ragione: Gittan è Gittan, Bettan è Bettan, e adesso è ora che tu sia tu! A forza di «mettere ordine nei pensieri» mi torna in mente quel a notte quando io e Birgitta continuavamo a interrogare Elisabeth - a tormentare Elisabeth - perché rispondesse alla domanda a cui io e lei avevamo già risposto: qual era il suo desiderio più recondito, la cosa che solo dentro di sé osava pensare ma non aveva mai avuto il coraggio di fare o farsi fare? - Cos’è che non sei mai riuscita ad ammettere con nessuno, Elisabeth, nemmeno con te stessa? - Aggrappandosi con dieci dita alla coperta tirata giù dal letto per coprire i nostri corpi sul pavimento, Elisabeth aveva cominciato a piangere in silenzio, e nel suo affascinante, musicale inglese aveva ammesso che voleva essere presa da dietro mentre stava china su una sedia. La sua risposta non mi bastava. Solo dopo aver insistito ancora, solo dopo aver domandato: «Ma ci dev’essere qualcos’altro. . questo è niente!», solo allora era crol ata e aveva«confessato» che voleva che la prendessi legata mani e piedi. E che forse lo voleva e forse no. . Mentre attraverso Piccadil y, compongo un altro paragrafo di meditazione morale per l’ultima lettera volta all’educazione del a mia vittima innocente, nonché di me stesso. In verità sto attingendo a tutta la mia saggezza - e alle mie doti di prosatore e ai miei model i letterari - per capire se sono stato o meno quel che i cristiani definiscono malvagio e io preferisco definire inumano. «Anche se tu avessi davvero voluto quel che dicevi di volere, quale legge prescrive di soddisfare all’istante qualunque segreta bramosia chieda di essere soddisfatta?» Avevamo usato la cintura dei miei pantaloni e una cinghia del o zaino di Birgitta per legare Elisabeth a una sedia con lo schienale rigido. Di nuovo il suo viso si era rigato di lacrime, per cui Birgitta le aveva carezzato una guancia e le aveva chiesto: - Bettan, vuoi che smettiamo? - Ma le ciocche fluenti di Elisabeth, quel a lunga capigliatura ambrata da bambina, avevano sferzato la schiena nuda con veemenza mentre lei scuoteva il capo in segno di sfida. Di sfida verso chi, mi domando. O verso cosa? Be’, non ci capisco niente di quel a ragazza! - No, - aveva sussurrato Elisabeth. L’unica parola da lei pronunciata, dall’inizio alla fine. - Non vuoi che smettiamo? Onon vuoi che continuiamo? Elisabeth, mi capisci?. . Chiediglielo in svedese, chiediglielo. . - Ma «no» sarebbe stata la sua unica risposta; «no» e «no» e ancora «no». E così avevo eseguito quel che  in un certo senso ritenevo di essere guidato a fare. Elisabeth piange, Birgitta guarda, e a un tratto io sono così eccitato da tutto quanto - dai suoni ansimanti, da cani, che tutt’e tre stiamo emettendo, da quel che tutt’e tre stiamo facendo - che ogni minima riluttanza scompare, e so che potrei fare qualunque cosa, che voglio farla, che la farò! Perché non quattro ragazze, perché non cinque. . «E chi se non un malvagio sosterrebbe che qualunque bramosia chieda di essere soddisfatta debba essere per ciò stesso soddisfatta? Sì, cara, dolce, preziosa ragazza, a quanto pare era questa la legge in base a cui noi tre avevamo deciso - avevamo convenuto -di vivere!» E adesso mi trovo in un vestibolo in Greek Street, dove alla fine smetto di pensare a cos’altro scrivere a Elisabeth sul ‘insondabile tema del a mia iniquità, e anche di pensare all’insondabile Birgitta - ma non ha alcun rimorso? alcuna vergogna? alcuna lealtà? alcun limite? - che ormai avrà letto l’abbozzo di lettera che ho lasciato nel a mia Olivetti (e che sono certo le farà comprendere che sultano profondo io sia). In una stanzetta sopra la lavanderia cinese, tento la sorte con una puttana da trenta scel ini, un’avvizzita mungitrice cockney detta Terry la Troia che mi considera«un bashtardo sexy» e la cui intrepida lascivia ha avuto, nel tempo che fu, un effetto sbalorditivo sul a fuoriuscita del mio seme. Stavolta anche la perizia di Terry fa cilecca. Mi mostra la sua straordinaria col ezione di fotografie oscene; mi descrive, con un’immaginazione degna di Mrs Browning, i modi in cui mi amerà; infine rivolge al cielo lodi inusitate per la grossezza e lunghezza del mio membro e per le profondità a cui penetra se mai si drizza; ma i quindici minuti di duro lavoro che dedica a stanare il timido mol usco non producono alcun risultato significativo. Cercando di consolarmi con le tenere parole con cui Terry ha gettato la spugna - «Spiacente, mister, ma stasera se la dorme del a grossa» -, ripercorro le vie di Londra in direzione del nostro seminterrato, terminando nel frattempo la cogitazione sul male che posso o non posso aver fatto. Tutto sommato avrei fatto meglio a concentrarmi sul ‘abuso del kenning nel a seconda metà del dodicesimo secolo in Islanda. Dedicandoci un po’ di tempo ne avrei ricavato qualcosa di sensato, mentre nel e prolisse lettere che regolarmente spedisco a Stoccolma mi sembra di non avvicinarmi di un mil imetro alla verità. Invece l’erudita tesina che infine leggo al seminario spinge il mio tutor a convocarmi nel suo ufficio dopo la lezione, a farmi accomodare su una sedia e a chiedermi, con una lievissima ombra di sarcasmo: - Mi dica, Mr Kepesh, è sicuro di essere davvero interessato alla poesia islandese? Una sgridata da un professore! Altrettanto inimmaginabile di sedici giorni in una stanza insieme a due ragazze! Del tentato suicidio di Elisabeth Elverskog! Sono così sorpreso e umiliato da questo rimprovero (soprattutto perché segue a ruota le accuse che rivolgo a me stesso nel ruolo di avvocato del a famiglia di Elisabeth) che non riesco a trovare il coraggio di ripresentarmi a lezione; al pari di Louis Jelinek non rispondo neanche alle missive che mi chiedono di andare a parlare del e mie assenze con il tutor. Può davvero succedere? Sono in procinto di essere bocciato? In nome di Dio, e poi cos’altro? Questo. Una sera Birgitta mi racconta che mentre io me ne stavo cupamente riverso sul letto di Elisabeth interpretando il «prete caduto nel peccato», lei ha fatto qualcosa di«un po’ perverso». Per la verità è da un po’ che lo fa, da quando due anni prima, appena arrivata a Londra, si è fatta visitare da un medico per un problema digestivo. Il medico le ha detto che per fare una diagnosi era necessario uno striscio vaginale. Le ha chiesto di spogliarsi e di accomodarsi sul lettino, poi, o con la mano o con uno strumento, al tempo ne era stata così sconvolta che non ne aveva la certezza -, aveva cominciato a massaggiarla fra le gambe. - Scusi, cosa fa? - gli aveva chiesto lei. Secondo Birgitta, lui aveva avuto la faccia di rispondere: - Senta, crede che mi piaccia? Ho mal di schiena, cara mia, e questa posizione è un tormento. Ma mi serve un campione, e questo è l’unico modo per poterlo prelevare. -L’hai lasciato continuare? - Non sapevo che altro fare. Come potevo dirgli di smettere? Ero arrivata solo da tre giorni. Ero un po’ spaventata, sai, e non ero sicura di aver capito bene il suo inglese. E lui aveva proprio l’aria di un medico. Alto e bel o e gentile. E molto ben vestito. Ho pensato che magari qui si faceva così. Lui continuava a dire: «Cominci a sentire gli spasmi, cara?» Sul e prime non capivo cosa significasse, poi mi sono rivestita e me ne sono andata. C’era gente in sala d’aspetto, c’era un’infermiera.. Mi ha mandato una parcel a di due ghinee. -Davvero? E tu l’hai pagata? - chiedo. - No. - E? - chiedo, ondeggiando fra incredulità ed eccitazione. - Lo scorso mese, - dice Birgitta, e il suo particolare inglese emerge più marcato del solito, - sono tornata da lui. Ho cominciato a pensarci tutto il tempo. E’ a questo che penso mentre tu scrivi le tue lettere a Bettan -. É vero, mi chiedo. . c’è qualcosa di vero? - E? - dico. - Ora vado nel suo studio una volta alla settimana. In pausa pranzo. E lui ti masturba? Ti lasci masturbare da lui? - Sì. - E’ la verità, Gittan? - Sì, io chiudo gli occhi e lui me lo fa con la mano. - E.. poi? - Mi rivesto e torno al parco -. Vorrei altri dettagli, dettagli ancora più osceni, ma non ce ne sono. La masturba, poi la lascia andare. Può essere vero? Accadono davvero queste cose? - Come si chiama? Dov’è il suo studio? - Con mia sorpresa, senza alcuna riluttanza Birgitta me lo dice. Alcune ore dopo, non essendo riuscito a comprendere neanche un paragrafo di La tradizione arturiana e Chrétien de Troyes (una fonte preziosa, mi è stato detto, per la tesina che devo preparare per l’altro seminario), corro a una cabina telefonica al fondo del a nostra strada e cerco il nome del medico sul a guida telefonica - e lo trovo, e proprio all’indirizzo di Brompton Road!Domattina per prima cosa lo chiamerò - dirò (magari col mio accento svedese):«Dottor Leigh, è meglio che stia attento, è meglio che lasci stare le ragazzine straniere se non vuole ficcarsi in guai seri». Ma quel o che voglio davvero non è redarguire il medico lascivo, è scoprire (per quanto possibile) se la storia di Birgitta è vera. Non so neanche se vorrei che lo fosse. Non sarebbe meglio per me se non lo fosse? Quando torno all’appartamento la spoglio. E lei si sottomette. Con quale padronanza di sé si sottomette - lei e la sottomissione sono fatte l’una per l’altra! Siamo entrambi molto eccitati, e ansimanti. Io sono vestito e lei è nuda. La chiamo puttanel a. Lei mi supplica di tirarle i capel i. Non so quanto forte vuole che glieli tiri - nessuno prima mi ha mai chiesto una cosa simile. Dio, ne ho fatta di strada da quando baciavo l’ombelico di Seta nel a lavanderia del dormitorio la primavera scorsa! - Voglio sentire che ci sei, - grida lei, -più forte! - Così? -Sì! - Così, puttanel a mia? Birgitta, lurida puttana! - Ah, sì! Ah, sì, sì! Un’ora prima temevo che mi ci sarebbero voluti decenni a sconfiggere l’impotenza, che il mio castigo, se tale era, sarebbe durato per sempre. Adesso per una notte intera sono travolto da una passione le cui selvagge energie non mi ero mai concesso di esplorare; o forse è solo che non avevo mai conosciuto una ragazza del a mia età per cui modi tanto risoluti fossero qualcosa di diverso da un abuso. Ero così impegnato a farmi strada verso il piacere a forza di suppliche e blandizie e moine da non essermi mai accorto di essere capace di un tale assoggettamento di un’altra persona, e di desiderare a mia volta di essere assoggettato e aggredito. Stringendole la testa fra le gambe, forzo il mio membro nel a sua bocca come se fosse al tempo stesso la gomena cui si aggrapperà per non annegare e lo strumento che la soffocherà. Poi, come se io fossi la sua sel a, lei monta sul a mia faccia e cavalca e cavalca e cavalca. - Dimmi del e cose! - grida Birgitta, - mi piace che mi dici del e cose! Dimmi ogni sorta di cose! -E la mattina non proviamo alcun rimorso per quel che abbiamo detto o fatto, anzi. -A quanto pare ci siamo trovati, - dico. Lei ride: - E da un bel po’ che me ne sono accorta. - Eper questo che sono rimasto, sai. - Sì, - replica lei, - lo so. Tuttavia continuo a scrivere a Elisabeth (anche se non più in presenza di Birgitta). Presso una residenza universitaria - ho chiesto a un amico americano di ricevere la mia corrispondenza nel a sua casel a postale e poi di passarmela - Elisabeth mi manda un’istantanea da cui si vede che non ha più il braccio ingessato. Sul retro ha glossato:«Io». Scrivo immediatamente per ringraziarla del a fotografia e rallegrarmi di vederla di nuovo in salute. Le racconto che faccio progressi con la grammatica svedese, che ogni 18settimana prendo lo «Svenska Dagbladet» a Charing Cross Road e cerco di leggere almeno gli articoli in prima pagina con l’aiuto del dizionario tascabile inglese-svedese che mi ha regalato lei. E benché in realtà sia il giornale di Birgitta quel o che tento di tradurre - nel tempo precedentemente dedicato a sgobbare sul ‘Edda -, mentre scrivo a Elisabeth credo davvero di farlo per lei, per il nostro futuro, così da poterla sposare e stabilirmi nel a sua madrepatria, magari a insegnare letteratura americana. Sì, nonostante tutto credo di potermi innamorare di questa ragazza che porta al col o un medaglione con la fotografia del padre. . anzi, che già avrei dovuto farlo. Anche solo il suo viso è così adorabile! Guarda, mi dico - guardala, idiota! Denti che non potrebbero essere più bianchi, la curva generosa del e gote, enormi occhi azzurri, e i capel i ambrati che una volta ho definito - era la sera in cui avevo ricevuto il piccolo dizionario con la dedica «da me a te» - «boccoli», una parola desueta, un po’ poetica. «Prosaico» è la parola che sceglie lei (dopo un’occhiata al dizionario) per definire il suo naso. - Un naso da contadina, - dice, - come quel e cose che pianti nel a terra per far crescere i tulipani. - Non direi. - Come si chiamano? - Bulbi di tulipano. - Sì. A quarantanni sarò orribile con questo bulbo di tulipano-. Ma il suo naso è il naso di milioni e milioni di persone, e su Elisabeth è quasi commovente nel a sua mancanza di vanagloria o supponenza. Oh, che viso dolce, su cui risplende tutta la felicità del ‘infanzia! e che risata spumeggiante! che cuore innocente! Questa ragazza che mi faceva ridere a crepapel e solo dicendo: «Questa non è una mano, è un piede!» Oh, che cosa incredibilmente commovente, l’innocenza di una persona! Ogni volta mi coglie alla sprovvista, quel ‘espressione di disarmata fiducia! Eppure, per quanto mi possa scaldare sul a sua fotografia, è con la flessuosa piccola Birgitta, una ragazza molto meno innocente e vulnerabile - una ragazza che affronta il mondo con un affusolato viso volpino, un naso delicatamente a punta e un labbro superiore un poco sporgente, una bocca pronta, in caso di necessità, a ribattere a un’accusa o a lanciare una sfida -, che continuo a trascorrere il mio anno di borsa di studio in erotica sfrenatezza. Ovviamente, mentre passeggia per Green Park affittando sedie a sdraio ai passanti, Birgitta viene avvicinata quasi ogni giorno da uomini in visita a Londra come turisti, o uomini a zonzo in pausa pranzo o uomini diretti a casa da moglie e figli a fine giornata. Date le opportunità di eccitazione e piacere garantite da questi incontri, ha deciso di non tornare a Uppsala allo scadere del suo anno all’estero, e ha lasciato perdere anche le lezioni a Londra. - L’inglese lo imparo meglio così, - dice. Un pomeriggio di marzo, quando a un tratto appare il sole, inatteso nel cupo cielo londinese, prendo la metropolitana fino al parco e, seduto sotto un albero  la guardo, qualche centinaio di metri più in là, conversare con un signore quasi tre volte più vecchio di me, mol emente adagiato su una del e sedie a sdraio. Passa quasi un’ora prima che la conversazione abbia termine, il signore si alzi, si congedi con un formale inchino e se ne vada. E qualcuno che conosce? Un suo compatriota? Magari il dottor Leigh di Brompton Road? A sua insaputa, per quasi una settimana ogni pomeriggio mi presento al parco e, celato all’ombra degli alberi, la spio mentre fa il suo lavoro. Sul e prime mi sorprende scoprirmi tanto eccitato ogni volta che vedo Birgitta accanto a una sdraio su cui è seduto un uomo. Ovviamente si limitano a parlare. Non vedo altro. Mai una volta sorprendo un uomo che tocchi Birgitta o Birgitta che tocchi un uomo. E sono quasi certo che non prenda appuntamenti per vedersi con qualcuno dopo il lavoro. Ma quel che mi eccita è che potrebbe, che sarebbe capace di farlo. . che se glielo proponessi, probabilmente lo farebbe. - Che giornata, - dice una sera a cena. - C’era la marina portoghese al gran completo. Accipicchia! Che uomini! - Ma se io le dicessi. . Qualche settimana dopo, una sera mi fa sobbalzare dicendo: - Lo sai chi mi è venuto a trovare oggi? Mr Elverskog. - Chi? - Il padre di Bettan -. Penso: Hanno trovato le mie lettere! Oh, perché ho scritto di quando le abbiamo legato le mani alla sedia! E’ a me che danno la caccia, entrambe le famiglie! - E venuto a cercarti qui? - Sa dove lavoro, - dice Birgitta, - è venuto li -. 19Birgitta mi sta mentendo, sta di nuovo facendo qualcosa di «un po’ perverso?» Ma come fa a sapere che per tutto questo tempo ho avuto il terrore che Elisabeth sia crol ata e ci abbia denunciato, e che suo padre si presenti qui con un ispettore di Scotland Yard, o con una frusta.. - Cosa ci fa a Londra? - Oh, è qui per affari. . non lo so. E’ solo venuto al parco a salutarmi -. E tu ti sei precipitata in albergo con lui, Gittan? Ti piacerebbe fare l’amore con il padre di Elisabeth? Era lui l’uomo alto dall’aria distinta che ti ha salutato con un inchino in quel ‘assolata giornata di marzo? Era lui l’uomo anziano le cui parole ascoltavi tanto avidamente alcuni mesi fa? O quel o era il dottore a cui piace giocare al dottore con te nel suo studio? Cosa ti stava dicendo quel ‘uomo, che proposta ti ha fatto per meritarsi così la tua attenzione? Non so cosa pensare, perciò tutto mi sembra possibile. Più tardi a letto, quando vuole essere eccitata ascoltando «ogni sorta di cose», io sto quasi per dirle: «Lo faresti con Mr Elverskog? Lo faresti con un marinaio, se te lo chiedessi? Lo faresti per denaro?» Non lo dico, non solo per timore che lei risponda di sì (e potrebbe, anche solo per il brivido di sentirselo dire), ma perché io potrei ribattere:«Al ora facciamolo, puttanel a mia». Al a fine del semestre, io e Birgitta facciamo un giro in autostop per il Continente. Di giorno visitiamo musei e cattedrali, poi, quando calano le tenebre, adocchiamo le ragazze nei bar, nelle caves e nelle osterie.Nel ‘indurre Birgitta a questo non mi faccio gli scrupoli che a Londra mi avevano trattenuto dal chiederle di andare a trovare in albergo Mr Elverskog. «Un’altra ragazza» è una di quel e «cose» con cui ci siamo ripetutamente eccitati a vicenda nei mesi dopo la partenza di Elisabeth. Trovare un’altra ragazza è proprio una del e ragioni per cui siamo qui in vacanza. E ci sappiamo fare. A dirla tutta, né io né Birgitta da soli siamo così scaltri o arditi, ma insieme la nostra disinvoltura si rafforza e, di sera in sera, siamo sempre più abili nel sedurre perfette sconosciute. Eppure, nonostante tutta la destrezza, tutta la professionalità del nostro gioco di squadra, ogni volta mi gira la testa quando riusciamo a trovare una ragazza disponibile e tutt’e tre ci alziamo all’unisono per andare in un posto più tranquil o. Anche Birgitta accusa sintomi simili- però per strada si conquista la mia ammirazione trovando il coraggio di allungare una mano e scostare dal viso i capel i di una disinibita giovane studentessa che ha il coraggio di vedere come si metteranno le cose. Sì, quando vedo la mia partner così sfrontata e risoluta recupero le mie facoltà - e il mio equilibrio - e do il braccio alle due ragazze e, adesso senza neppure un tremito nel a voce, dico con il mio mondano miscuglio di ironia e bonarietà: - Andiamo, amiche. . in marcia! - E per tutto il tempo penso quel che penso da mesi: Sta accadendo davvero? Anche questo? Perché nel mio portafoglio accanto alla fotografia di Elisabeth c’è un’istantanea del a casa al mare del a sua famiglia, arrivata per posta poco prima che ricevessi i miei voti pietosi e prendessi il traghetto con Birgitta. Sono stato invitato ad andarla a trovare nel a minuscola Tràngholmen e a restare sul ‘isola quanto voglio. Perché non lo faccio? Potrei sposarla proprio li! Il padre non sa niente, e non lo saprà mai. La frusta, l’ispettore, le scene di vendetta e furia omicida, il complotto segreto per farmi pagare quel che ho fatto a sua figlia. . era solo la mia sfrenata immaginazione. Perché non lasciare che la mia immaginazione porti da un’altra parte? Perché non immaginare io ed Elisabeth che remiamo oltre le scogliere rocciose e gli alti pini, costeggiando l’isola fino al porto dove ogni giorno attracca il traghetto da Vaxholm? Perché non immaginare la sua famiglia che ci accoglie con un saluto e un sorriso radioso quando torniamo in barca con il latte e la posta? Perché non immaginare la dolce Elisabeth nel a veranda del a bel a casetta di legno rosso degli Elverskog, incinta del primo dei nostri figli ebrei-svedesi? Sì, c’è il meraviglioso e insondabile amore di Elisabeth e c’è il meraviglioso e insondabile ardimento di Birgitta, e io 20posso avere quel o che preferisco. Ecco, questo sì che è insondabile! La fornace oppure il focolare! Ah, dev’essere questo quel che si intende con le possibilità del a giovinezza. Ulteriori possibilità del a giovinezza: a Parigi, in un bar non lontano dalla Bastiglia, dove il famigerato marchese ha scontato la pena per i suoi abietti e audaci crimini, una prostituta è seduta in un angolo con noi e, mentre scherza con me in francese sul mio taglio di capel i, accarezza Birgitta sotto il tavolo. Nel mezzo del a nostra eccitazione - perché anch’io ho una mano che si muove sotto il tavolo - compare un uomo, che mi rimprovera per l’indegno trattamento a cui sottopongo la mia giovane moglie. Mi alzo con il cuore in gola e spiego che non siamo affatto marito e moglie, che siamo studenti, che quel o che facciamo sono affari nostri - ma, nonostante la mia eccel ente pronuncia e le perfette costruzioni grammaticali, lui tira fuori un martel o dalla tuta e lo sol eva in aria. - Salaud! - grida. -Espèce de con! - Mano nel a mano con Birgitta, per la prima volta in vita mia, scappo a gambe levate per mettermi in salvo. Fra noi non parliamo di cosa succederà alla fine del mese. Ciascuno dei due però pensa: Dato quel che è stato, cos’altro potrebbe essere? Cioè, io presumo che tornerò in America da solo per terminare gli studi, questa volta sul serio, e Birgitta presume che quando me ne partirò lei prenderà il suo zaino e verrà con me. I genitori di Birgitta sono già informati che la figlia intende andare a studiare per un anno in America, e a quanto pare non hanno nul a da eccepire. E se anche così non fosse, Birgitta farebbe come le pare e piace. Quando ripasso la difficile conversazione che prima o poi dovrà aver luogo, mi sento parlare con voce debole e lamentosa. Niente di quel che dico viene fuori nel modo giusto, niente di quel che dice lei suona sbagliato, nonostante sia io, ovviamente, a inventare il dialogo. - Vado a Stanford. Voglio laurearmi. - E allora? - Faccio sogni terribili sul a scuola, Gittan. Non mi è mai successa una cosa simile. Ho sprecato la mia Fulbright. -Davvero? - E, quanto a noi due. . - Sì? - Be’, non credo che abbiamo un futuro. Non sei d’accordo? Non potremmo mai tornare al sesso normale. Non potrebbe più funzionare. . abbiamo alzato troppo la posta. Ci siamo spinti troppo in là per poter tornare indietro. - Dici? - Credo proprio di sì. - Ma non è stata solo una mia idea, mi pare. - Non ho detto questo. - Be’, allora smettiamo di spingerci troppo in là. -Ma noi non possiamo, lo sai benissimo. - Ma io faccio quel che vuoi tu. - Questo non è più possibile. O vuoi dire che ti ho sempre tenuta in mio potere, che sei un’altra Elisabeth che io ho corrotto? - Mi rivolge il suo seducente sorriso cavallino. - Chi è allora l’altra Elisabeth? -chiede. - Tu? Oh, no di certo. Lo dici anche tu. Sei un puttaniere di natura, sei poligamo di natura, sei anche un po’ stupratore. . - Be’, si vede che ho cambiato idea. Forse era solo un mucchio di sciocchezze. - Ma come puoi cambiare idea su quel a che è la tua natura? -chiede lei. In realtà, per tornare a casa a riprendere seriamente gli studi, non ho alcun bisogno di superare, a suon di frasi sciocche e impotenti, questo fuoco di fila di lusinghiere obiezioni. No, non è necessaria nessuna estenuante discussione sul a mia «natura» per liberarmi di lei e del a nostra fantastica vita di piaceri elettrizzanti - quantomeno non qui e adesso. Ci stiamo spogliando per andare a letto nel a camera affittata per la notte in una cittadina nel a valle del a Senna, a una trentina di chilometri da Rouen dove l’indomani intendo visitare la casa natale di Flaubert, quando Birgitta comincia a parlare degli ingenui sogni evocati in lei da adolescente dal nome California: auto sportive, milionari, James Dean. . La interrompo: - In California ci vado da solo. Ci vado da solo. . per conto mio. Qualche minuto dopo è di nuovo vestita, con lo zaino pronto. Mio Dio, è ancora più audace di quando immaginassi! Quante ragazze come lei possono esserci al mondo? Avrebbe il coraggio di fare qualunque cosa, eppure è altrettanto sana di me. Sana, intel igente, coraggiosa, padrona di sé - e fol emente lasciva! Proprio quel che ho sempre desiderato. Perché allora sto scappando? In nome di cosa? Altre leggende arturiane e saghe islandesi? 21Se solo mi svuotassi le tasche dalle lettere di Elisabeth e dalle fotografie di Elisabeth - e mi svuotassi l’immaginazione dal padre di Elisabeth -, se mi lasciassi del tutto andare a ciò che ho, alla persona con cui sono, a quel a che potrebbe davvero essere la mia natura.. - Non essere ridicola, - dico, - dove la trovi una camera a quest’ora? Oh, dannazione, Gittan, devo andarci da solo in California! Devo rimettermi a studiare! In risposta, niente lacrime, niente rabbia, neanche un’ombra di disprezzo. Anche se non si tratta tanto di ammirazione per me quanto di impudica energia carnale. Dice dalla porta: - Come hai fatto a piacermi così tanto? Sei solo un ragazzino, - ed è il suo unico contributo alla diatriba sul mio carattere, tutto ciò che, a quanto pare, la sua dignità richiede o permette. Non il magistrale addestratore di concubine e puttane, non il precoce drammaturgo del satirico e del ‘osceno, e neppure lo stupratore in erba - no, solo «un ragazzino». E poi, con delicatezza, con estrema delicatezza (perché nonostante sia una ragazza che geme quando le si tirano i capel i e grida «ancora» quando la sua carne freme dal dolore, nonostante la sua sicurezza da amazzone nel e più oscure bettole e i nervi di ferro che esibisce nel rischioso mondo del ‘autostop, accanto allo sconvolgente senso di inalienabile diritto con cui fa quel che vuole, alla totale immunità al rimorso o al dubbio che più di ogni altra cosa mi affascina in lei, Birgitta è anche cortese, rispettosa e amichevole, l’educatissima figlia di un medico di Stoccolma e di sua moglie), si chiude la porta alle spalle in modo da non svegliare la famiglia da cui abbiamo affittato la camera. Sì, con cotanta disinvoltura la giovane Birgitta Svanstròm e il giovane David Kepesh si sbarazzano l’uno del ‘altra. Sbarazzarsi del a sua natura potrebbe essere più difficile, dato che il giovane Kepesh non sembra aver molto chiaro, per il momento, quale sia davvero la sua natura. Resta sveglio tutta la notte domandandosi cosa farà se Birgitta dovesse insinuarsi di nuovo in camera prima del ‘alba: si domanda se non dovrebbe andare a chiudere a chiave la porta. Poi, quando arriva l’alba, quando arriva mezzogiorno, e di lei non c’è traccia, né nel a cittadina di Les Andelys né a Rouen - né al Grosse Horloge, né alla cattedrale, né alla casa natale di Flaubert o nel luogo in cui Giovanna d’Arco fu data alle fiamme -, si domanda se conoscerà mai più qualcosa di simile a lei e alla loro avventura. Helen Baird compare qualche anno più tardi, quando sto per terminare il dottorato in Letterature comparate e sono fiero del a determinazione che ho dimostrato. Più o meno allo scadere di ogni semestre la noia, l’irrequietezza e l’impazienza - nonché il crescente imbarazzo che provo sapendo di essere troppo vecchio per starmene ancora seduto in un banco a farmi interrogare - mi hanno quasi indotto a lasciar perdere tutto. Ma adesso che il traguardo è in vista mi congratulo ad alta voce con me stesso mentre faccio la doccia a fine giornata, esaltandomi con semplici affermazioni tipo «Ce l’ho fatta» e «Ho tenuto duro», come se per accedere agli orali avessi dovuto scalare il Cervino. In seguito all’anno con Birgitta, sono giunto alla conclusione che per raggiungere qualcosa di duraturo dovrò tenere a freno quel lato di me stesso fortemente attratto dalle tentazioni più sbalorditive e debilitanti, tentazioni che fin dalla notte alle porte di Rouen considero in contraddizione con i miei interessi prevalenti. Perché, per quanto con Birgitta mi sia spinto in là, so quanto mi sarebbe facile spingermi ancora più in là - ricordo il brivido che ho provato più di una volta immaginandola insieme ad altri uomini, immaginandola che intascava i soldi e me li portava a casa.. Ma davvero lo avrei fatto con tanta disinvoltura? Sarei diventato il magnaccia di Birgitta? Be’, per quanto talento possa avere per quel a professione, certo il dottorato mi ha dissuaso dal coltivarlo. . Sì, adesso che la battaglia appare ormai vinta, mi consola la mia capacità di padroneggiare il buonsenso ponendolo al servizio di una vocazione seria - sono addirittura commosso dalla mia virtù. Poi compare Helen a farmi capire, con il suo esempio e a chiare lettere, che mi sono tristemente il uso e ingannato. E per non dimenticare mai quest’accusa che la sposo? Il suo è un eroismo di impronta differente da quel o che, al 22tempo, ritengo sia il mio - ne è anzi l’antitesi. Un anno alla University of Southern California quand’era diciottenne, per poi fuggire con un giornalista del doppio dei suoi anni a Hong Kong, dove lui viveva con la moglie e tre figli. Armata di una stupefacente avvenenza, una maschera di spavalderia e un temperamento fortemente romantico, aveva lasciato gli studi, il fidanzato e la paghetta settimanale e, senza una parola di scusa o una spiegazione per i genitori sconcertati e mortificati (che per una settimana avevano pensato che fosse stata rapita o uccisa), si era lanciata verso un destino più esaltante del secondo anno di college in seno alla congregazione studentesca femminile. Un destino che aveva affrontato a viso aperto - e a cui si era sottratta solo di recente. Da sei mesi, mi racconta, ha rinunciato a tutti e a tutto quel di cui era andata in cerca otto anni prima - al piacere e all’eccitazione di vagabondare fra le antichità e immergersi nel fascino esotico di luoghi meravigliosi e sconosciuti - per tornare in California e ripartire da zero. - Spero di non passare mai più un anno come quest’ultimo, - è fra le prime cose che mi dice la sera in cui ci incontriamo a un party organizzato dai giovani e ricchi finanziatori di una nuova rivista«artistica» di San Francisco. Scopro che Helen è pronta a raccontare la propria storia senza ombra di pudore; ma del resto anche a me non è mancata la spudoratezza, dopo che ci hanno presentato, di seminare la ragazza con cui mi accompagnavo per dar la caccia a lei in mezzo alle centinaia di persone di cui brulicavano i tre piani del a casa. -Perché? - le domando, ed è il primo dei miei perché e quando e come cui avrà la cortesia di rispondere. - Com’è andato l’ultimo anno? Cosa ti è successo di male? - Be’, tanto per cominciare, era da quando ho smesso di studiare che non stavo più nel o stesso posto per sei mesi di fila. -Perché allora sei tornata? - Uomini. Amore. Mi è sfuggito tutto di mano-. Al ‘istante sono pronto ad attribuire il suo «candore» a una mentalità da settimanale femminile, nonché a una pura e semplice predilezione per la promiscuità. Oddio, penso, così bel a, e così melensa. Dalle storie che continua a raccontarmi sembra che abbia già avuto una cinquantina di appassionate relazioni - su una cinquantina di panfili in navigazione sul Mar del a Cina con uomini che la coprono di antichi gioiel i ma sono sposati con un’altra. - Senti, - dice, essendosi fatta un’idea del ‘idea che io mi sono fatta di una tale esistenza, - cos’hai contro la passione? Cos’è quel calcolato distacco, Mr Kepesh? Vuoi sapere chi sono. . be’, te lo sto spiegando. - E una vera saga, - dico io. Lei domanda con un sorriso: - Perché non dovrebbe esserlo? Meglio una «saga» che un sacco di altre cose che mi vengono in mente. Andiamo, cos’hai contro la passione? Che male ti ha fatto? O forse dovrei dire, che bene ti ha fatto? - Adesso la domanda pertinente è quale male o bene ha fatto a te. - Un gran bene. Un bene meraviglioso. Lo sa Dio, niente di cui vergognarmi. - Al ora perché sei qui e non laggiù a farti travolgere dalla passione? - Perché, - risponde Helen, senza nascondersi dietro alcuna ironia, ed è forse per questo che io comincio a rinunciare a parte del a mia, e a vedere che lei non solo è di una strepitosa avvenenza, ma è anche vera, ed è lì con me, ed è forse anche mia se solo la volessi. - Perché - mi dice - sto invecchiando. Ha ventisei anni, e sta invecchiando. Laddove la ventiquattrenne candidata al dottorato con cui ero uscito quel a sera - e che alla fine se ne va stizzita, senza di me - mi stava giusto dicendo che, mentre quel pomeriggio riordinava lo schedario in biblioteca, si chiedeva se e quando la sua vita sarebbe davvero cominciata. Chiedo a Helen com’è stato tornare. Adesso ci siamo allontanati dalla festa, e siamo seduti uno di fronte all’altra in un bar nel e vicinanze. Meno passivamente di me, anche lei ha congedato l’accompagnatore con cui aveva cominciato la serata. Se la volessi. . ma la voglio? Dovrei volerla? Sentiamo prima com’è stato tornare dopo essere fuggita. Per me ovviamente il sol ievo è stato maggiore del a delusione, ed era solo da un anno che andavo alla deriva. - Be’, ho firmato un armistizio con la mia povera madre, e le mie sorel ine hanno preso a venirmi dietro adoranti come se fossi una star del cinema. Il resto 23del a famiglia è rimasta a bocca aperta. Le brave ragazze repubblicane non fanno quel o che ho fatto io. Se non che ovunque andassi ne incontravo a bizzeffe, dal Nepal a Singapore. Laggiù c’è un piccolo esercito di noialtre, sai. Metà del e ragazze che volano sul trabiccolo che fa la spola fra Rangoon e Mandalay vengono da Shaker Heights. - E adesso cosa fai? -Prima di tutto dovrò escogitare un modo per smettere di piangere. I primi mesi dopo il ritorno piangevo ogni santo giorno. Adesso a quanto pare ho smesso, ma francamente, da come mi sento quando mi alzo la mattina, tanto varrebbe piangere. E che là era tutto così bel o. Vivere in mezzo a tutta quel a grazia.. era travolgente. Ero sempre elettrizzata. Ogni primavera andavo ad Angkor, e in Thailandia volavamo da Bangkok a Chiang Mai insieme a un principe che aveva degli elefanti. Avresti dovuto vederlo con tutti i suoi elefanti. Un vecchietto color nocciola che si muoveva come un ragno in mezzo a un branco di quegli animali giganteschi. Avrebbero potuto avvolgerlo due volte in una del e loro orecchie. Loro barrivano in continuazione e lui continuava a camminare tutto tranquil o. Forse tu pensi che vedere una cosa del genere sia, be’, vederlo e basta. Io la pensavo diversamente. Pensavo: «Questa è la vita». Quand’ero a Hong Kong, a fine giornata andavo a prendere il mio amico al lavoro in barca a vela. La mattina lo portava in barca il ragazzo, e la sera ci andavamo a casa insieme, passando in mezzo alle giunche e ai cacciatorpediniere statunitensi. -La bel a vita del e colonie. Mica per niente gli spiace tanto rinunciare ai loro imperi.Ma ancora non capisco perché tu hai rinunciato al tuo. Nel e settimane successive continuo a trovare difficile credere -nonostante i piccoli Buddha d’avorio, le sculture di giada e la fila di pesi da oppio a forma di gallo che ha sistemato sul comodino - che sia stato davvero quel o il suo stile di vita. Chiang Mai, Rangoon, Singapore, Mandalay. . perché non Giove, perché non Marte? Certo, lo so che questi posti esistono, non solo sul a mappa Rand McNally su cui traccio il corso del e sue avventure (come una volta avevo rintracciato il molestatore di Birgitta sul a guida telefonica di Londra) e nei romanzi di Conrad dove mi ci sono imbattuto per la prima volta - e so pure che esistono «personaggi» in carne e ossa che hanno scelto di andare incontro al proprio destino nel e più bizzarre città del mondo. . Perché allora non riesco a persuadermi che la Helen in carne e ossa sia una di loro? E io dovrei mettermi con lei? Il personaggio incredibile è Helen con i suoi orecchini di bril anti a lobo o è piuttosto il coscienzioso assistente universitario nel suo completo in cotone rigato lava e indossa? Comincio a essere sospettoso e critico anche verso la sua serena bel ezza muliebre, o piuttosto verso la considerazione in cui tiene i propri occhi, naso, gola, seni, fianchi e gambe - anche i suoi piedi rappresentano per lei piccoli affascinanti trionfi che devono essere celebrati. Da dove le viene questo portamento regale, questo aristocratico senso di sé che si fonda semplicemente sul a levigatezza del a pel e, sul a lunghezza degli arti, sul a larghezza del a bocca e sul a distanza fra gli occhi, nonché sul a fossetta proprio in punta a quel o che lei definisce, senza battere ciglio (ciglio ombreggiato da un lievissimo verde), il suo naso «fiammingo?» Io non sono abituato a una persona che esibisca la propria bellezza con tale compiacimento e tanta autostima. La mia esperienza - che va dalle studentesse di Syracuse che non volevano «relazionarsi» con me«a quel livello» fino a Birgitta Svanstròm, per cui la carne non era altro che un territorio da esplorare alla ricerca di fremiti - consiste in giovani donne che non fanno gran caso al proprio aspetto, o che quantomeno ritengono indecoroso dar mostra di farci caso. E vero, Birgitta sapeva bene che il taglio corto e sbarazzino dei suoi capelli incrementava il suo fascino volpino, ma quanto al resto non si dava gran pensiero di come incorniciare il proprio viso acqua e sapone. Ed Elisabeth, con capel i non meno fluenti e degni di nota di quel i di Helen, se li pettinava dritti lungo la schiena, lasciandoli a penzolare come faceva da quando aveva sei anni. 24Per Helen invece i suoi meravigliosi capel i - di una sfumatura che ricorda un setter irlandese, sono una sorta di corona, o guglia, o aureola, che non solo adorna e abbel isce, ma esprime, simbolizza. Forse questo dà la misura di quanto sia diventata angusta e claustrale la mia vita - o forse dà la misura del ‘energia da cortigiana che emana da Helen come da un oggetto idolatrato che potrebbe essere stato scolpito con cinquanta chili di giada -, ma quando si raccoglie i capel i in una morbida crocchia sul a nuca e traccia una linea nera sopra le ciglia -sopra occhi di per sé non più grandi e non più azzurri di quel i di Elisabeth -, quando si infila una dozzina di braccialetti e come una Carmen si annoda intorno ai fianchi un foulard di seta con le frange solo per andare a comprare le arance per colazione, io non resto indifferente. Niente affatto. Da sempre mi lascio sopraffare dalla bel ezza fisica nel e donne, ma da Helen non sono solo attratto ed eccitato, sono anche allarmato, e reso profondamente, profondamente incerto - del tutto soggiogato dall’autorevolezza con cui lei rivendica e conferma e rende peculiare la propria avvenenza, eppure sospettoso al massimo grado del e prerogative, del posto, che lei conferisce a se stessa nel a propria immaginazione. La sua concezione di sé e del ‘esperienza a volte mi sembra così banale, eppure nel o stesso tempo la trovo ammaliante e piena di fascino. Per quanto ne so, magari ha ragione. - Com’è, - domando, continuo a domandare, ancora sperando di portare alla luce la parte di finzione nel favoloso personaggio che dice di essere e nel a romantica avventura asiatica che rivendica come proprio passato. - Com’è che hai rinunciato alla bel a vita del e colonie, Helen? - Ho dovuto. - Perché i soldi del ‘eredità ti avevano resa indipendente? - Sono seimila pidocchiosi dol ari all’anno, David. Li guadagna persino un ascetico professore di col ege. - Volevo solo dire che forse hai deciso che non avresti potuto contare per sempre sul a giovinezza e la bel ezza. - Senti, ero una bambina, e per me la scuola non significava niente, e la mia famiglia era come quel a di chiunque53 altro, dolce, noiosa e rispettabile, e vivevamo anno dopo anno sotto una coltre di ghiaccio al 18 di Fern Hil Manor Road. L’unico momento eccitante erano i pasti. Ogni sera quando arrivavamo al dessert mio padre diceva: «Tutto qui?», e mia madre scoppiava in lacrime. Così a diciott’anni ho incontrato un uomo fatto, ed era bel issimo, e sapeva parlare bene, e aveva tante cose da insegnarmi, e capiva tutto di me, quel o che nessun altro capiva, e aveva modi distinti, meravigliosi, e non era certo un brutale tiranno, pur essendo un tiranno; e mi sono innamorata di lui - sì, in due settimane, capita, e non solo alle scolarette - e lui ha detto: «Perché non vieni via con me?», e io ho detto di sì. . e sono partita. - Su un «trabiccolo?» - Quel a volta no. Pàté sul Pacifico e fel atio nel a toilette di prima classe. Lasciamelo dire, i primi sei mesi non sono stati una passeggiata. Non li rimpiango affatto. Sai, ero solo una ragazza di buona famiglia di Pasadena, con tanto di gonna scozzese e mocassini di cuoio - le figlie del mio amico avevano più o meno la mia età. Oh, erano splendidamente nevrotiche, ma non più giovani di me. Non riuscivo neanche a imparare a mangiare con i bastoncini, talmente avevo paura. Ricordo una sera, la mia prima grande festa a base di oppio. In qualche modo sono finita in una limousine insieme a quattro finocchi scatenati, quattro inglesi, in abito da donna e scarpette dorate. Non riuscivo a smettere di ridere. «E surreale, -continuavo a dire, - è surreale», finché il più grasso dei quattro ha abbassato la lorgnette e ha detto: «Certo che è surreale, mia cara, hai diciannove anni». - Però sei tornata. Perché? - Non me la sento di raccontarlo. - Chi era quel ‘uomo? - Oh, stai diventando uno studente cum laude del a vita reale, David. - Sbagliato. Ho imparato tutto ai piedi di Tolstoj. Le do da leggere Anna Karenina. Dice: - Non male. . solo che non era un Vrònskij, grazie a Dio. Di Vrònskij ce n’è un tanto al chilo, amico mio, e ti annoiano a morte. Era un uomo. . una sorta di Karenin, in effetti. Però per nul a patetico, ci tengo a precisare -. 25Questo mi lascia interdetto: che modo originale di vedere il celebre triangolo! - Un altro marito, - dico. - Ben più di questo. - Suona misterioso, suona come un dramma sublime. Forse dovresti scrivere. -Invece tu dovresti piantarla di leggere tutto ciò che è stato scritto. -E cosa dovrei fare nel tempo libero? - Immergerti nel a vita vera. - C’è un libro che parla proprio di questo, sai. Si intitola Gli ambasciatori-. Penso: E c’è anche un libro che parla di te. Si intitola Fiesta e la protagonista si chiama Brett, ed è altrettanto superficiale di te. Ecosì tutti i suoi compari, proprio come i tuoi. - Ci scommetto che c’è un libro che ne parla, - dice Helen, abboccando beatamente all’esca con un sorriso fiducioso. - Scommetto che ci sono migliaia di libri. Me li ricordo allineati in ordine alfabetico nel a biblioteca. Senti, in modo da sgombrare il campo da ogni fraintendimento, lascia che ti spieghi una cosa, esagerando giusto un po’: io odio le biblioteche, odio i libri e odio le scuole. A quanto ricordo, tendono a trasformare tutto quel che riguarda la vita in qualcosa di leggermente diverso - «leggermente»quando va bene. Ci pensano poi quei poveri innocenti insegnanti, topi di biblioteca infarciti di teorie, a trasformarla in qualcosa di peggio. Qualcosa di orrendo, a ben pensarci. - E allora cosa ci vedi in me? -Be’, anche tu li odi. Per quel o che ti hanno fatto. - E cioè? - Ti hanno trasformato in qualcosa di. . - Orrendo? - dico con una risata (perché questo piccolo duel o si svolge sotto le lenzuola nel letto accanto ai piccoli pesi da oppio in bronzo). - No, non proprio. In qualcosa di leggermente diverso, di leggermente. . sbagliato. Tutto ciò che ti riguarda è un po’ una bugia.. eccetto i tuoi occhi. Li ci sei tu. Non riesco a sostenere il tuo sguardo troppo a lungo. E come ficcare la mano in un lavandino pieno d’acqua bol ente per togliere il tappo. -Hai una vivida immaginazione. Sei una creatura vivida. Anch’io ho notato i tuoi occhi. - Fai cattivo uso di te stesso, David. Cerchi55disperatamente di essere qualcosa che non sei. Ho la sensazione che ci sia una brutta caduta in serbo per te. Il tuo primo errore è stato abbandonare quel a temeraria svedese con lo zaino. Doveva essere un po’ rozza e, lasciamelo dire, quanto a bocca ricordava vagamente un roditore, a giudicare dalla foto, però almeno con lei ti divertivi. Ma certo, questa è una parola che disprezzi, giusto? Come «trabiccolo» per dire un aeroplano scalcinato. Ogni volta che dico«divertirsi», hai una fitta di dolore. Dio, ti hanno veramente ridotto male. Ti dai tante di quel e arie, eppure mi sa che sotto sotto lo sai di aver perso il tuo nerbo. - Oh non farmi tanto semplice. E non fare la romantica sul mio«nerbo», per favore. Ogni tanto mi piace passarmela bene. Fra l’altro me la passo bene venendo a letto con te. - Fra l’altro non te la passi«bene» venendo a letto con me: te la passi meglio che con chiunque altra. E, caro amico mio, - aggiunge, - non farmi tanto semplice neanche tu. - Oh, Dio mio, - dice Helen la mattina dopo stirandosi languida, -scopare è una cosa così piacevole. E’ vero, vero, vero, vero, vero. La passione è smodata, inesauribile e, nel a mia esperienza, particolarmente appagante. Ripensando a Birgitta, mi sembra, col senno di poi, che fra le altre cose ci aiutassimo, all’età di ventidue anni, a trasformarci in qualcosa di lievemente corrotto, ciascuno lo schiavo e lo schiavista del ‘altro, ciascuno il piromane e l’incendiato. Esercitando un potere sessuale così forte l’uno sul ‘altra, nonché su perfetti sconosciuti, avevamo creato un’atmosfera profondamente ipnotica, che però permeava innanzitutto la mente inesperta: io ero affascinato ed elettrizzato prima di tutto dall’idea di quel che stavamo facendo, e poi dalle sensazioni, da ciò che provavo e che vedevo. Con 26Helen non è così. Certo, prima devo abituarmi a ciò che va a cozzare contro la mia diffidenza di fronte a un esibizionismo tanto teatrale; ma presto, col crescere del a comprensione, col crescere del a familiarità, e anche del sentimento, comincio ad accantonare parte dei miei sospetti, a dare un taglio ai miei interrogatori, e a vedere quel e appassionate prestazioni come derivanti da quel a stessa spavalderia che mi ha tanto attratto in lei, da quel peculiare abbandono con cui si concede a qualunque cosa la richiami con forza, incurante di quanto dolore o quanto piacere ne deriverà. Ero nel torto marcio, mi dico, nel disprezzare la sua mentalità melensa e triviale come se provenisse dalle pagine di «Screen Romance» - in realtà lei è priva di fantasia, non ha spazio per la fantasia, tanto esclusiva è la sua concentrazione, e l’ingenuità con cui sonda il proprio desiderio. Adesso, dopo l’orgasmo, cedo alla gratitudine e a un profondo sentimento di resa incondizionata. Sono il meno protetto, se non il più semplice, organismo sul a terra. In tali momenti non so neppure cosa dire. Helen invece sì. Sì, ci sono cose che questa ragazza sa e sa e sa. -Ti amo, - mi dice. Bene, se qualcosa dev’essere detto, cosa c’è di più sensato? Così cominciamo a dirci a vicenda che siamo amanti che si amano, anche se a ogni conversazione si rinnova la mia idea che siamo su due strade assai divergenti. Per quanto possa essere convinto che alla base del nostro rapporto passionale esiste un’affinità rara e preziosa, non riesco a liberarmi dall’enorme disagio che Helen continua a suscitare in me. Altrimenti perché non riusciamo a smetterla - non riesco a smetterla - con le nostre schermaglie? Al a fine acconsente a raccontarmi perché ha rinunciato a tutto ciò che aveva in Estremo Oriente, non so se per sbaragliare i miei sospetti oppure per alimentare quel a fascinosa mistica cui a quanto pare non so resistere. Il suo amante, l’ultimo dei suoi Karenin, stava architettando un piano per simulare un «incidente» in cui sua moglie avrebbe perso la vita. -Chi era? - Un uomo importante e molto noto, - è l’unica cosa che è disposta a dire. L’inghiotto e domando: -Adessovdov’è? - E ancora li. - Non ha cercato di rivederti? - E’ venuto qui per una settimana. - E sei andata a letto con lui? - Certo che sono andata a letto con lui. Come avrei potuto non farlo? Ma alla fine l’ho rimandato a casa. A momenti ne morivo. E stato atroce, vederlo andarsene per sempre. - Be’, magari non mol a l’osso e fa uccidere lo stesso la moglie, per farti un regalino. . - Perché devi prenderti gioco di lui? E’ così difficile capire che anche lui è umano come te? - Helen, esistono altri modi di sbarazzarsi di una compagna indesiderata, oltre all’omicidio. Ad esempio puoi andartene e basta. - Andartene «e basta?»E’ così che si fa al dipartimento di Letterature comparate? Mi chiedo come sarà per te, - dice, - quando non riuscirai a ottenere qualcosa che desideri. - Farò saltare le cervel a a qualcuno? Butterò giù qualcuno nel a colonna del ‘ascensore? Tu che dici? - Senti, sono io quel a che ha rinunciato a tutto e ne è quasi morta.. perché non sopportavo neanche di sentirlo dire. Ero terrorizzata all’idea che potesse anche solo avere un pensiero simile. Oforse la tentazione era così irresistibile che per questo sono scappata. Perché sarebbe bastato che dicessi di si; non aspettava altro. Era disposto a tutto, David, faceva sul serio. Esai quanto sarebbe stato facile dire quel che lui voleva sentire? E solo una parolina, basta un decimo di secondo: sì. - Magari però te l’ha chiesto perché era sicuro che avresti detto di no. - Non poteva esserne sicuro. Io stessa non ne ero sicura. - Ma un uomo così noto e importante avrebbe potuto non mol are e fare di testa sua, non credi?. . e senza che nessuno scoprisse che c’era il suo zampino. Di certo un uomo così noto e importante ha tutti i mezzi necessari per far fuori una miserabile moglie: limousine che vanno a sbattere, barche che affondano, aeroplani che esplodono in aria. Se lo avesse fatto senza consultarti, quel o che tu pensavi in proposito non sarebbe mai venuto fuori. Se ha chiesto la tua opinione, forse è stato perché voleva sentirsi dire di no. - Oh, interessante. Continua. Io dico no, e lui cosa ci guadagna? - Quel o che ha: la moglie e te. Continua a tenersi tutto quanto, e ha pure 27fatto il grandioso. Che tu scappassi, che la sua idea assumesse consistenza ai tuoi occhi, che avesse del e conseguenze morali su di te. . be’, probabilmente non immaginava una reazione simile da una bel a e avventurosa fuggiasca americana. - Davvero molto arguto. Dieci e lode, soprattutto la parte sul e «conseguenze morali». L’unica pecca è che tu non hai la minima idea di quel o che c’era fra noi. Solo perché è un uomo che ha potere, pensi che non abbia sentimenti. Ma esistono uomini, devi sapere, che hanno entrambe le cose. Per due anni ci siamo visti due volte alla settimana. A volte di più, mai di meno. Enon è mai cambiato. E sempre stato semplicemente perfetto. Tu non credi che tali cose possano accadere, vero? O se anche accadono, non vuoi credere che abbiano importanza. Ma è accaduto, e per me e per lui aveva più importanza di qualunque altra cosa. - Ma è accaduto anche che sei tornata. Ed è accaduto che l’hai mandato via. Eaccaduto che hai avuto paura, e repulsione. Il punto non sono le macchinazioni di quel ‘uomo. Quel che importava per te, Helen, era che i tuoi limiti erano stati raggiunti. - Forse mi sono ingannata, è stato un eccesso di sentimentalismo su me stessa. O una sorta di speranza infantile. Magari avrei dovuto rimanere, andare oltre i miei limiti. . e scoprire che dopotutto non era troppo per me. - Non potevi, - dico, - e non l’hai fatto. E chi, oh, chi è adesso a peccare di sentimentalismo? Ormai mi è chiaro che è la sua capacità di dolorosa rinuncia, unita alla virtù del ‘abbandono sensuale, a rendere irresistibile la sua attrattiva. Non riusciamo mai a intenderci del tutto, non mi sento mai veramente sicuro, in qualche modo lei manca di profondità, la sua vanità è sconfinata, certo, ma tutto questo non conta nul a - vero? - in confronto alla stima che sono giunto ad avere per questa bel a e drammatica giovane eroina che ha già rischiato e vinto e perso così tanto, pur di guardare dritti in faccia i propri appetiti. E poi c’è la sua bel ezza. Non è forse la più desiderabile creatura che io abbia mai conosciuto? Con una donna fisicamente tanto accattivante, una donna cui non riesco a togliere gli occhi di dosso neanche quando beve il caffè o fa una telefonata, una donna il cui minimo movimento del e membra esercita una così possente presa sessuale su di me, non corro il rischio di cedere alla tentazione di riprendere le mie avventure nel sordido e nel o sconcertante. Non è forse Helen l’incantatrice di cui vado alla ricerca fin dai tempi del col ege, quando il labbro inferiore di Seta Walsh mi spingeva a darle la caccia dalla mensa universitaria alla palestra e alla lavanderia del dormitorio - una creatura per me così bel a da poter concentrare su di lei, e solo su di lei, tutta la mia bramosia, tutta la mia adorazione, tutta la mia curiosità, tutta la mia lussuria? E se non Helen, allora chi? Da chi sarò mai altrettanto stuzzicato? Eh, ahimè, ho ancora tanto bisogno di essere stuzzicato. Se ci sposassimo. . be’, il lato cavil oso del a nostra relazione non finirebbe per svanire, lasciando il posto a una sempre più profonda intimità, alla certezza del a stabilità, dissolvendo qualunque residuo impulso alla presunzione e all’autodifesa? Certo non sarebbe così azzardato se solo Helen fosse un po’ più così e un po’ meno cosà; ma, come mi appresto a ricordare a me stesso -immaginando di assumere così una posizione matura -, non è questo che dobbiamo aspettarci l’un l’altra nel mondo che sta al di qua dei sogni. Inoltre, ciò che io definisco la sua «vanità» e la sua «mancanza di profondità» è proprio ciò che la rende così interessante! Perciò posso solo sperare che le mere divergenze di «opinione» (che, lo ammetto - se questo può aiutare -, sono spesso io il primo a sottolineare e a drammatizzare) finiscano per passare in secondo piano rispetto al legame passionale che, finora, è rimasto immutato nonostante i nostri caustici, e piuttosto evangelici, dialoghi. Posso solo sperare che, così come in precedenza mi sono ingannato riguardo ai suoi moventi, mi sbaglio anche quando la sospetto di voler con il matrimonio porre fine alla sua storia d’amore con il nient’affatto patetico Karenin di Hong Kong. Posso 28solo sperare che sposerà davvero me e non l’argine che potrei costituire contro il passato la cui perdita l’ha quasi uccisa. Posso solo sperare . (perché non lo potrò mai sapere) che vada davvero a letto con me, e non con i ricordi del a bocca e del e mani e del membro del più perfetto di tutti gli amanti, colui che sarebbe disposto ad ammazzare la moglie pur di far sua la propria concubina. Così, pieno di dubbi e speranze, di desideri e timori (e passando in continuazione dalle più rosee previsioni di un radioso futuro a quel e più terrificanti), sposo Helen Baird, dopo quasi tre anni di dubbi-speranze-desideri-e-timori. C’è a chi, come a mio padre, basta vedere una donna che canta Amapola accanto a un pianoforte per decidere in un lampo: «Ecco. . ecco mia moglie», e c’è chi arriva a sospirare «Sì, è lei» solo dopo un interminabile dramma di incertezze che l’ha portato all’ineluttabile conclusione che quel a donna non dovrebbe mai più vederla. Sposo Helen quando il peso del ‘esperienza richiesta per raggiungere la monumentale decisione di rinunciare a lei per sempre si rivela così gigantesco e così commovente che non riesco più a immaginare di vivere senza di lei. Solo quando finalmente so per certo che questo deve finire subito, solo allora mi rendo conto di quanto io sia già profondamente sposato dai miei mil e giorni di indecisione, dallo scrupoloso esame di ogni possibile eventualità, così che una relazione del a durata di tre anni mi sembra ormai ricca di eventi umani quanto un matrimonio lungo mezzo secolo. Sposo Helen - e lei mi sposa - nel momento di impasse e stanchezza che prima o poi arriva per tutti coloro che hanno dedicato anni e anni e anni a far patti chiari e accordi complicati a base di appartamenti separati e vacanze in comune, profferte di fedeltà e serate libere pianificate in anticipo; relazioni terminate con sol ievo ogni cinque o sei mesi e felicemente dimenticate per settantadue ore, per poi ricominciare, spesso con una deliziosa, per quanto effimera, frenesia sessuale, in seguito a un incontro semifortuito al supermercato; o ripartite da zero dopo una telefonata fatta nel solo intento di comunicare alla compagna abbandonata il passaggio, quel a sera alle dieci, di un bel documentario alla Tv; o in seguito a una cena cui la coppia aveva promesso di partecipare così tanto tempo prima che sarebbe stato sconveniente non adempiere insieme a quel ‘ultimo obbligo mondano. Certo, uno dei due avrebbe potuto andare alla cena da solo, ma da solo non avrebbe avuto un complice al di là del tavolo con cui scambiare segnali di noia e divertimento, e più tardi, al momento di tornare a casa in macchina, non ci sarebbe stata una persona di mentalità affine con cui passare in rassegna le attrattive e le carenze degli altri ospiti; e neppure, al momento di spogliarsi per andare a letto, ci sarebbe stata un’amica bramosa e sorridente sdraiata nuda sopra le lenzuola con cui concordare sul fatto che l’unica persona davvero interessante presente alla cena era proprio il precedentemente sottovalutato ex partner. Ci sposiamo e, come avrei dovuto sapere e non potevo non sapere e forse ho sempre saputo, la disapprovazione e le reciproche critiche continuano ad avvelenare la nostra vita, a dimostrazione non solo del profondo baratro caratteriale presente fin dall’inizio, ma anche del a mia persistente sensazione che un altro uomo eserciti ancora le sue pretese sui più profondi sentimenti di lei, e che, per quanto possa tentare di nascondere questa triste verità e di occuparsi di me e del a nostra vita, lei sa altrettanto bene di me che è mia moglie solo perché non esisteva altro mezzo se non l’omicidio (o almeno cosi pare) perché lei potesse diventare la moglie di quel suo importante e molto noto amante. Quando siamo al nostro meglio, quando tocchiamo il vertice del coraggio, del ‘assennatezza e del a devozione, ci sforziamo di odiare ciò che ci divide invece di odiarci a vicenda. Se solo il suo passato non fosse così vivido, così grandioso, così melodrammatico - se in qualche modo uno di noi due riuscisse a dimenticarlo! Se io riuscissi a colmare quel ‘assurdo baratro di sfiducia che si spalanca fra di noi! O a ignorarlo! A vivere al di là di esso! Quando siamo al nostro meglio prendiamo del e decisioni, ci 29offriamo le reciproche scuse, cerchiamo di rimediare, facciamo l’amore. Ma quando siamo al nostro peggio. . be’, il nostro peggio è schifoso come quel o di chiunque altro, presumo. Su cos’è che litighiamo di più? Al principio - come c’era da immaginarsi per chi, dopo tre anni di indugi, si getta a testa bassa e con scarsa convinzione nel e fiamme del matrimonio - litighiamo per il pane tostato. Perché, mi domando e chiedo, non tostare il pane mentre cuociono le uova, invece che prima? In questo modo potremmo mangiarlo caldo invece che freddo. - Non posso credere che stiamo litigando su questo, - dice lei. - La vita non è un toast! - finisce per sbottare. -E invece sì! - mi sento sostenere. - Quando ti metti a tavola a mangiare un toast, la vita è un toast. E quando porti fuori la spazzatura, la vita è spazzatura. Non puoi lasciare la spazzatura a metà scala, Helen. Deve arrivare fino al bidone in cortile. E il bidone va chiuso. - L’ho dimenticata. -Come hai fatto a dimenticartela, se ce l’avevi in mano? -Forse, caro, perché è solo spazzatura.. e comunque che differenza fa! -Dimentica di firmare gli assegni che compila e di affrancare le lettere che spedisce, mentre le lettere che le do da spedire per me o per la famiglia saltano fuori con una certa regolarità dalle tasche di impermeabili e calzoni mesi dopo che è uscita di casa per imbucarle. -Cosa ti salta in mente mentre vai da Qui a Li? Come puoi essere così distratta, Helen? E la nostalgia per la vecchia Mandalay? I ricordi del«trabiccolo», del e lagune e degli elefanti, del ‘alba che sorge in un lampo. . - Non posso mica pensare alle tue lettere per tutto il tragitto. - Ma allora cosa esci a fare con la lettera in mano? - Vado a prendere un po’ d’aria, ecco cosa! A vedere il cielo! A respirare! Ben presto, piuttosto che sottolineare i suoi errori e le sue sviste, o ripercorrere i suoi passi, o raccogliere i suoi cocci, o trattenere la rabbia (per poi sfogarmi a maledirla dietro la porta del bagno), tosto io il pane, friggo le uova, porto giù la spazzatura, pago le bol ette e spedisco le lettere. Anche quando lei ha la cortesia di dire (nel tentativo di superare lo spaventoso baratro dalla sua sponda): «Vado a fare la spesa, vuoi che faccia un salto. .», l’esperienza, se non la saggezza, mi porta a dire: «No. . no, grazie». Dal giorno in cui perde il portafoglio dopo aver fatto un prelievo dal conto corrente, mi incarico io anche del e transazioni con la banca. Dal giorno in cui lascia il pesce a marcire sotto il sedile anteriore del ‘auto dopo essere uscita la mattina a comprare il filetto di salmone per cena, mi incarico del a spesa. Dal giorno in cui fa lavare ad acqua la camicia di lana che andava pulita a secco, mi incarico del e consegne alla lavanderia. Col risultato che nel giro di un anno sono occupato - e lieto di esserlo - sedici ore al giorno, fra l’insegnamento e il libro in cui sto trasformando la mia tesi sul a disil usione romantica nei racconti di Anton Cechov (un argomento scelto prima ancora di incontrare mia moglie), mentre Helen ha preso a bere e a farsi le canne. Le sue giornate cominciano in acque aromatizzate al gelsomino. Con olio d’oliva nei capel i per renderli luccicanti dopo il lavaggio, e il viso unto da creme vitaminiche, ogni mattina si adagia per venti minuti nel a vasca da bagno, con gli occhi chiusi e il prezioso cranio posato su un cuscinetto gonfiabile; si muove solo per strofinarsi dolcemente con la pietra pomice la ruvida pel e dei piedini. Tre volte alla settimana il bagno è seguito dalla sauna facciale: nel kimono di seta blu mezzanotte, ricamato con papaveri rosa e rossi e uccel i gialli mai visti né in terra né in mare, siede al bancone del nostro minuscolo cucinino, il capo avvolto in un turbante e reclinato su una tazza d’acqua bol ente aromatizzata al 30rosmarino, alla camomil a e ai fiori di sambuco. Poi, suffumigata e truccata e pettinata, è pronta a vestirsi per la palestra- o per dove diavolo va mentre io sono a lezione: abito cinese aderente in seta blu marina col col o alto e uno spacco sul e cosce, orecchini di bril anti a lobo, braccialetti di giada e oro, il suo anel o di giada, i suoi sandali, la sua borsa di paglia. Quando più tardi rincasa - dopo lo yoga ha deciso di andare a San Francisco «a dare un’occhiata in giro»: ha in mente (ce l’ha in mente da anni) di aprire in centro un negozio di antichità del ‘Estremo Oriente -è già un po’ su di giri, e per l’ora di cena è tutta sorrisi: allegra, sbronza, sarcastica. -La vita è un toast, - sorseggiando quattro dita di rum mentre io condisco le costolette d’agnel o. - La vita sono le croste e gli avanzi. La vita sono suole di cuoio e tacchi di gomma. La vita è riportare il saldo nel nuovo libretto degli assegni. La vita è scrivere nel a matrice la cifra esatta che hai pagato. E il giorno, mese e anno esatti. - Tutto vero, - dico io. - Ah, - dice lei, standomi a guardare mentre apparecchio, - se solo sua moglie non si dimenticasse di aver messo la roba sul fuoco e non facesse bruciare tutto; se solo sua moglie si ricordasse che quando David cenava in Arcadia, la madre metteva sempre la forchetta a sinistra e il cucchiaio a destra e mai, mai dallo stesso lato. Oh, se solo sua moglie sapesse arrostirgli e imburrargli le patate come faceva mammina in quei lunghi inverni. Passati i trent’anni la nostra reciproca insofferenza si è talmente esacerbata da ridurre ciascuno dei due esattamente a ciò che l’altro temeva fin dal principio. La«presunzione» e il «perbenismo» per cui Helen mi detesta con tutte le sue forze -«Finalmente c’è l’hai fatta, David. . sei diventato a tutti gli effetti un giovane parruccone» -non sono meno evidenti del a sua «assoluta noncuranza», «stupida dissipatezza», «adolescenziale trasognatezza», eccetera. Però non riesco a lasciarla, né lei a lasciare me, fino a quando un completo disastro non rende semplicemente ridicolo continuare ad attendere la miracolosa conversione del ‘altro. Con grande meraviglia nostra e di chiunque altro, restiamo sposati quasi altrettanto a lungo di quanto siamo stati insieme come amanti, forse a causa del ‘opportunità che questo matrimonio ci offre di scagliarci a testa bassa contro quel o che ciascuno ritiene il proprio demone (mentre sul e prime pareva un’opportunità di salvezza!) Passano i mesi e noi rimaniamo insieme, domandandoci se un figlio ci farebbe superare questa assurda situazione di stallo. . oppure un negozio di antiquariato per Helen. . o una gioiel eria.. o la psicoterapia per entrambi. Gli altri continuano a vederci come una coppia incredibilmente «attraente»: ben vestiti, con esperienze all’estero, intel igenti, mondani (soprattutto in confronto alle giovani coppie di universitari), una rendita complessiva di dodicimila dol ari all’anno. . eppure la vita è semplicemente atroce. Negli ultimi mesi di matrimonio il poco spirito che in me ancora cova sotto le ceneri emerge solo a lezione; altrimenti sono così apatico e passivo che fra i miei col eghi più giovani gira voce che io sia «sotto sedativi». Da quando ho concluso il dottorato insegno, oltre al corso per matricole «Introduzione alla Narrativa», anche due parti del corso del secondo anno di letteratura «generale». Nel e settimane conclusive del semestre, mentre affrontiamo i racconti di Cechov, scopro, leggendo ad alta voce agli studenti i passaggi su cui voglio che si concentrino, che ogni singola frase mi sembra alludere alla mia specifica situazione, come se ormai ogni sil aba che penso o pronuncio dovesse prima essere filtrata dai miei problemi. E poi ci sono i sogni a occhi aperti durante le lezioni, a un tratto tanto frequenti quanto irreprensibili, e così esplicitamente ispirati alla smania di una miracolosa salvezza -31ritrovare una vita perduta molto tempo fa, reincarnarmi in un essere completamente diverso da me -, che in un certo senso sono grato di essere depresso, privo del a forza di volontà di mettere in atto anche la più morigerata del e fantasie. «Capi che quando si ama, nei propri ragionamenti su questo amore bisogna partire da qualcosa che sta più in alto, che è più importante dei concetti di felicità o infelicità, di peccato o di buona condotta nel e loro accezioni correnti o non bisogna ragionarci affatto»1. Chiedo ai miei studenti cosa significa questo brano, e mentre me lo spiegano, noto che in fondo all’aula la ragazza posata e dalla voce sommessa che è la mia studentessa più intel igente e carina -nonché più arrogante e annoiata - sta terminando il suo pranzo a base di Coca-Cola e barrette di croccante ricoperto Peanut Chews. «Oh, non mangiare schifezze», le dico in silenzio, e vedo me e lei sul a terrazza del Gritti che strizziamo gli occhi nel luccichio del Canal Grande ammirando la facciata ocra del perfetto piccolo palazzo sul ‘altro lato in cui abbiamo preso una camera appartata.. consumiamo il nostro pranzo a base di pasta al sugo e scaloppine di vitel o al limone. . al medesimo tavolo a cui io e Birgitta, giovinastri arroganti e sfacciati, pressappoco del ‘età di questi ragazzi e ragazze, ci eravamo seduti una sera a mangiare mettendo insieme buona parte del e nostre ricchezze per celebrare l’arrivo nel ‘Italia di Byron. . Nel frattempo il mio altro studente bril ante sta spiegando cosa intende dire il proprietario terriero Alèchin quando, alla fine di Del ‘amore, parla di «qualcosa che sta più in alto. . dei concetti di felicità o infelicità, di peccato o buona condotta nel e loro accezioni correnti». Il ragazzo dice: - Alèchin rimpiange di non aver dato ascolto ai propri sentimenti e non essere fuggito con la donna di cui si è innamorato. Adesso che lei se ne sta andando, lui è triste per aver permesso che i suoi scrupoli di coscienza, e la sua timidezza, lo trattenessero dal confessare il proprio amore solo perché lei è già moglie e madre -. Annuisco, ma evidentemente senza comprendere, e il ragazzo intel igente sembra costernato. - Mi sbaglio? - chiede, arrossendo. - No, no, - dico io, però nel frattempo sto pensando: «Ma cosa fa, Miss Rodgers, sgranocchia Peanut Chews? Dovremmo invece sorseggiare vino bianco. .»Poi mi viene in mente che probabilmente Helen aveva la stessa aria annoiata di Miss Rodgers quando studiava alla University of Southern California, nei mesi prima che quel ‘uomo più vecchio - un uomo all’incirca del a mia età! - la distogliesse dai suoi studi per trascinarla in una vita romantica e avventurosa.. Più tardi alzo gli occhi dalla lettura ad alta voce del a Signora col cagnolino e mi trovo davanti lo sguardo puro e innocente del a florida, buona, zelante ragazza ebrea di Beverly Hil s che dall’inizio del ‘anno siede al primo banco e scrive tutto ciò che dico. Leggo alla classe l’ultimo paragrafo del racconto, in cui la coppia adultera, turbata dallo scoprire quanto è profondo l’amore che la unisce, cerca invano di capire «perché lui fosse ammogliato e lei maritata». - «E sembrava che, ancora un poco, e la soluzione si sarebbe trovata, e allora sarebbe iniziata una vita nuova, meravigliosa; e a entrambi era chiaro che mancava molto, molto tempo alla fine, e che la parte più complessa e difficile stava solo iniziando»1 -. Odo me stesso parlare del a toccante trasparenza di questa conclusione: niente falsi misteri, solo i fatti nudi e crudi, esposti in modo diretto. Parlo del a quantità di storia umana che Cechov riesce a racchiudere in quindici pagine, di come il ridicolo e l’ironia cedono a poco a poco il passo, pur in uno spazio così ridotto, al pathos e alla sofferenza, del a sua abilità nel rendere il momento del a disil usione e i processi attraverso cui la realtà sembra frustrare anche le nostre più innocue il usioni, per non dire dei grandi sogni di appagamento e avventura. Parlo del suo pessimismo riguardo a quel a che lui definisce «la questione del a felicità personale», e per tutto il tempo vorrei chiedere alla ragazza paffutel a del primo banco, che prende febbrilmente nota del e mie parole sul suo quaderno, di diventare mia figlia. Vorrei occuparmi di lei, assicurarmi che sia 32tranquil a e felice. Vorrei comprarle i vestiti e pagarle le visite mediche, e vorrei che venisse a gettarmi le braccia al col o quando si sente triste e incompresa. Se solo fossimo stati io e Helen a crescere una ragazza così dolce! Ma come potremmo io e lei crescere qualunque cosa? Più tardi ancora, quando la incrocio lungo una strada del campus, provo di nuovo l’impeto di dirle, anche se non ha che dieci o dodici anni meno di me, che vorrei adottarla, che vorrei che dimenticasse i propri genitori, di cui non so niente, e lasciasse che fossi io a proteggerla e a farle da padre. - Salve, Mr Kepesh, - dice lei con un piccolo cenno di saluto, e quel gesto caloroso produce il suo effetto. Mi sento diventare sempre più leggero, mi sento invadere da un’emozione che mi sol everà in aria e mi trasporterà lontano per depositarmi chissà dove. Sto per avere una crisi di nervi proprio qui sul viottolo di fronte alla biblioteca? Le prendo una mano fra le mie e dico, con un groppo di commozione in gola:- Sei una brava ragazza, Kathie -. Lei inclina la testa, e le si imporpora la fronte. - Be’, - dice, - sono lieta di piacere a qualcuno. - Sei una brava ragazza, - ripeto, poi le lascio la soffice mano e vado a casa a vedere se la mia Helen senza figli è abbastanza sobria da preparare una cena per due. Al ‘incirca in questo periodo ci passa a trovare un finanziere inglese di nome Donald Garland, il primo dei suoi amici di Hong Kong a venire a cena da noi. Certo, è già capitato che Helen si facesse spettacolarmente bel a per andare in città a pranzare con qualche emissario del suo paradiso perduto, ma non l’ho mai vista prepararsi a un incontro con una tale gioiosa, quasi infantile aspettativa. In passato è anzi accaduto che, dopo aver trascorso ore e ore a imbel ettarsi per l’appuntamento a pranzo, emergesse dal bagno nel a sua vestaglia più scialba e annunciasse di non essere in grado di uscire né di vedere nessuno. - Sono orrenda.
- Non è affatto vero. -Invece sì, - e con questo se ne tornasse a letto per tutto il giorno. Donald Garland, mi dice adesso, è «l’uomo più gentile» che abbia mai conosciuto. -La prima settimana che ero a Hong Kong mi ha subito invitata a pranzo a casa sua, e da allora è stato il mio migliore amico. Ci siamo subito adorati. Il centrotavola era cosparso di orchidee raccolte dal suo giardino - in mio onore, aveva detto - e il patio dove mangiavamo si affacciava sul a mezzaluna di Repulse Bay. Avevo diciotto anni. Lui doveva averne cinquantacinque. Mio Dio. Adesso ne avrà una settantina! Mi sembrava impossibile che ne avesse più di quaranta; era sempre così allegro, così giovanile, così entusiasta di ogni cosa. Viveva con un ragazzo americano con un carattere meraviglioso, un cuore d’oro. Chips allora doveva avere ventisei o ventisette anni. Questo pomeriggio Donald al telefono mi ha dato una notizia terribile - una mattina, due mesi fa, Chips è morto di aneurisma mentre faceva colazione; è stramazzato al suolo, morto sul colpo. Donald ha riportato il corpo a Wilmington, Delaware, e l’ha sepolto, poi non è riuscito a venir via. Continuava a prenotare i voli e poi a cancel arli. Adesso, finalmente, è sul a strada del ritorno. Chips, Donald, Edgar, Brian, Colin. . Non ho alcuna reazione, alcuna domanda, alcun contraddittorio, niente di vagamente simile a comprensione, curiosità o interesse. Opazienza. Già da tempo ho sentito tutto ciò che potevo sopportare del e imprese del circolo di ricchi omosessuali inglesi di Hong Kong che la«adoravano». Non lascio trasparire altro che uno zotico moto di sorpresa nel o scoprire che sarò anch’io parte di questa rimpatriata tanto eccezionale. Lei serra forte gli occhi, come se avesse bisogno di cancel armi per un momento dalla vista per poter sopravvivere. - Non parlarmi così. Non assumere quel tono orribile. Era il mio più caro amico. Mi ha salvato la vita centinaia di volte -.E tu perché l’hai messa a repentaglio centinaia di volte? Ma questa domanda accusatoria, con il tono orribile che l’accompagna, riesco a rimangiarmela, perché ormai persino io ho capito che ci rimetto molto più arrabbiandomi per qualunque cosa lei faccia o abbia fatto in passato piuttosto che 33sopportando i suoi atteggiamenti, che da molto, molto tempo dovrei aver imparato a ignorare, se non ad accettare con una certa grazia.. Solo col trascinarsi del a serata, mentre Garland si fa sempre più ispirato nel e sue reminiscenze, io mi domando se lo abbia invitato da noi per farmi capire di prima mano quanto in basso l’abbia fatta cadere la fol e decisione di unire il suo destino a un parruccone come me. Sia o meno tale la sua intenzione, di sicuro tale è il risultato. In loro compagnia non mi rivelo un Chips dal meraviglioso carattere, dal cuore d’oro, ma piuttosto un rigido maestro vittoriano il cui spirito si anima solo allo schiocco del a frusta o al sibilo del a bacchetta. Nel vano tentativo di liberarmi dal ruolo di pedante, acido e censorio moralista, faccio il possibile per convincermi che Helen vuole solo mostrare a quest’uomo che ha significato così tanto per lei ed è stato così gentile con lei, e che ha appena subito un terribile colpo, che nel a sua vita va tutto bene, che lei e il marito vivono in armonia e amicizia, e che il suo protettore non deve più essere in pensiero per lei. Sì, Helen si sta comportando come farebbe qualunque figlia devota che desideri risparmiare all’amato genitore una dura verità.. In breve: per quanto semplice potrebbe sembrare a qualcun altro la ragione del a presenza di Garland, a me sfugge del tutto, come se adesso che la vita con Helen non ha più il minimo senso, non ci fosse per me più modo di distinguere cosa è vero e cosa no. A settant’anni, il delicato, minuto Garland ha ancora un certo fascino giovanile, e un modo di fare smaliziato e allo stesso tempo fanciul esco. Ha una fronte dall’aspetto così fragile che basterebbe un cucchiaino per romperla, o almeno così sembra, e le gote sono le piccole gote rotonde e vitree di un Cupido di alabastro. Sopra la camicia aperta, porta al col o un foulard rosa pallido, che cela alla vista la gola, le cui grinze sono l’unico segno del a sua età. In questo volto stranamente giovanile l’unico barlume di dolore proviene dagli occhi, dolci, marroni, e inondati dal sentimento anche quando dal suo accento crepitante non traspare la minima afflizione. - Il povero Derek è stato ucciso, sai -. Helen non lo sapeva. Si copre la bocca con una mano. - Ma come Derek, - dice rivolgendosi a me -, era un socio di Donald. A volte faceva del e sciocchezze, era un gran pasticcione, però aveva un cuore grande così, davvero. . - La mia espressione cadaverica la riporta in fretta a Garland. - Sì, - dice lui, - era una persona molto gentile, e io gli ero affezionato. Oh, quando si metteva a chiacchierare. . però bastava dirgli: «Derek, adesso basta», e lui subito la piantava. Be’, due ragazzi cinesi hanno pensato che non gli avesse dato abbastanza soldi, e l’hanno buttato a calci giù da una rampa di scale. Derek si è rotto l’osso del col o. - E’ terribile. Atroce. Povero, povero Derek. E tutti i suoi animali, - chiede Helen, - che fine hanno fatto? -Gli uccel i sono spariti. Un qualche virus li ha spazzati via la settimana dopo la morte di Derek. Gli altri li ha adottati Madge. Madge li ha adottati e Patricia se ne occupa. Se non fosse per gli animali, quel e due non si rivolgerebbero neanche la parola. - Ancora? -Oh sì. Quando vuole, quel a Madge sa essere una vera carogna. Un anno fa, quando Chips le ha ristrutturato la casa, lei l’ha fatto impazzire con il bagno di sopra -. Helen fa un altro tentativo di riportarmi nel novero dei viventi: spiega che Madge e Patricia, che abitano vicino a Donald lungo la baia, erano star del cinema inglese negli anni Quaranta. Donald snocciola i titoli dei film che hanno fatto. Io continuo ad annuire, proprio come una persona ammodo, ma il sorriso che vorrei rivolgergli non riesce a farsi strada sul e mie labbra. Lo sguardo che Helen mi scocca riesce invece nel suo intento. - E com’è adesso Madge? -gli chiede Helen.- Be’, quando si trucca fa ancora una gran figura. Certo però sarebbe meglio se non si mettesse in bikini -. Io dico: -Perché? - ma nessuno mi sente. La serata si conclude con Garland, a questo punto un po’ ubriaco, che tiene la mano di Helen e mi racconta di un famoso ballo in maschera in una radura nel a giungla su un’isoletta del Golfo del Siam di proprietà di un suo amico thai, 34un chilometro al largo del a punta meridionale del a Thailandia. Il costume di Helen l’aveva disegnato Chips: tutta in bianco, come il principe Ivan neh” Uccel o di fuoco. - Era uno schianto. Una camicia di seta da cosacca e calzoni di seta infilati in morbidi stivaletti di capretto color argento, e un turbante in tinta con una spil a di diamante. E intorno alla vita una cintura tempestata di smeraldi -. Smeraldi? Comprati da chi? Ovviamente da Karenin. Adesso dov’è la cintura?, mi chiedo. Cos’hai dovuto restituire e cos’hai potuto tenere? Sicuramente ti sono rimasti i ricordi, questo è certo. - Una principessina thai è scoppiata in lacrime appena l’ha vista. Povera piccola. Era venuta alla festa indossando tutto quel o che aveva tranne il fornel o da cucina e si aspettava che la gente la guardasse estasiata. Ma quel a sera la reginetta era questa cara ragazza. Oh, ha fatto davvero furore. Helen non ti ha mai fatto vedere le fotografie? Non hai del e fotografie, tesoro? - No, - dice lei, - non più. - Oh, perché non ho portato le mie? Ma non avrei mai pensato di vederti. . quando sono partito da casa non sapevo neanche più chi ero. E te li ricordi i ragazzini? - dice, dopo una lunga sorsata dal suo bicchiere di brandy. -Naturalmente Chips tutti quei ragazzini indigeni li ha messi nudi, con solo un piccolo guscio di cocco davanti ai loro affarini, e stel e filanti al col o. Che spettacolo erano quando si alzava il vento! Be’, la barca è approdata e c’erano questi fanciul i che ci hanno dato il benvenuto e ci hanno scortato lungo un sentiero fiancheggiato di torce fino alla radura dove si sarebbe tenuto il banchetto. Oh, già, dimenticavo. . Madge si è presentata con il vestito che Derek aveva messo per la sua festa dei quarant’anni. Mai che spenda un soldo, se può evitarlo. Sempre arrabbiata per qualcosa, ma soprattutto per i soldi che secondo lei tutti le portano via. Aveva detto: «Non è che ci si possa mettere una cosa qualsiasi, bisogna indossare qualcosa di speciale». Così io le ho detto, ma solo per scherzo: «Perché non ti metti il vestito di Derek? E di chiffon bianco coperto di lustrini,
 con un lungo strascico. Ed è molto scol ato sul a schiena. Ti starebbe a meraviglia, tesoro». E Madge ha risposto: «Come può essere scol ato dietro, Donald? Derek non avrebbe mai avuto la faccia tosta di indossarlo, con tutti i peli che ha sul a schiena. Che disgusto». E io ho detto: «Oh, cara, gli basta radersi una volta ogni tre anni». Vedi, - mi dice Garland, - Derek sembrava un ufficiale del a guardia reale. . snel o, elegante, con una carnagione rosea, e soprattutto completamente glabro. Oh, c’è una fotografia di Helen che dovresti vedere, David. Te la devo mandare. E Helen che scende dalla barca scortata da quegli incantevoli piccoli indigeni con le stel e filanti al col o. Con le sue gambe lunghe e la seta che la fascia stretta stretta, oh, è la perfezione assoluta. E il suo viso. . il suo viso in quel a fotografia è classico. Devo spedirtela, devi assolutamente averla. Helen era davvero strepitosa. La prima volta che ha posato gli occhi su di lei - eravamo a pranzo a casa mia, e la povera cara aveva ancora addosso uno dei suoi umili vestitini -, Patricia ha detto che Helen aveva la stoffa di una diva, che avrebbe potuto essere una stel a del cinema. E in effetti è vero. La stoffa ce l’ha ancora. Ce l’avrà sempre. - Lo so, - replica il maestro vittoriano, facendo sibilare in silenzio la bacchetta. Dopo che se n’è andato, Helen dice: - Be’, inutile che ti chieda cosa pensi di lui, no?- E come mi avevi detto: ti adora.- Sul serio, cos’è che ti autorizza a ergerti a giudice del e passioni altrui? Non hai sentito? Il mondo è grande, c’è abbastanza spazio perché ognuno faccia quel che gli pare. Anche tu una volta facevi quel che ti pareva, David. O almeno così vuole la leggenda. - Io non mi ergo a giudice di niente e nessuno. Se ti dicessi la sola cosa di cui mi ergo a giudice, non ci crederesti mai. - Ah, di te stesso. Sei esigente solo con te stesso. Me n’ero scordata. - Io sono stato ad ascoltare da bravo, Helen, e non ricordo di aver detto niente sul e passioni o preferenze o parti intime di nessuno da qui al Nepal. -Donald Garland è l’uomo più gentile sul a faccia del a terra. -Benissimo. - Quando avevo bisogno di qualcuno, lui c’era. Per intere settimane mi sono trasferita a vivere da lui. Mi ha protetta da persone terribili -. E perché non ti 35proteggevi da sola standotene lontana da loro? - Bene, - dico, - per fortuna che conoscevi lui. - Gli piace spettegolare e ricordare i vecchi tempi, e ovviamente stasera era un po’ lacrimoso. . se pensi a quel o che ha passato. Ma è uno che sa leggere dentro le persone, nei loro pregi e nei loro difetti - ed è devoto ai suoi amici, anche ai più scapestrati. La lealtà di persone come lui è una cosa straordinaria, e nessuno ha il diritto di infangarla. Enon devi lasciarti ingannare dalle apparenze. Quando sta bene sa essere duro come il ferro. Sa essere irremovibile, e sublime. - Non metto in dubbio che per te sia stato uno splendido amico. - Lo è ancora! - Senti, cosa stai cercando di dirmi? In questi giorni a volte non mi raccapezzo. Gira voce che saranno gli studenti a interrogare me alla finedel ‘anno, per vedere se sono riusciti a ficcarmi qualcosa nel a cucuzza. Di cosa stiamo parlando, esattamente? - Del fatto che agli occhi di alcune persone io sono ancora una persona di valore, anche se tu e i tuoi eruditi col eghi e le loro vispe e dozzinali mogliettine non fate altro che disprezzarmi. E’ vero che non sono abbastanza intel igente da preparare il pane di banane e il pane di carote e coltivare i germogli di soia e fare da «uditrice» ai seminari e«capitanare» un comitato per bandire la guerra per sempre, però la gente si volta ancora a guardarmi, David, ovunque io vada. Avrei potuto sposare uno di quegli uomini che fanno girare il mondo! Non avrei nemmeno dovuto guardarmi tanto intorno. Odio dover parlare di me in modo così volgare e dozzinale, ma è a questo che ti riduci quando parli con qualcuno che ti trova ripugnante. - Io non ti trovo ripugnante. Mi riempie ancora di stupore che tu abbia scelto me invece del presidente del a Itt. Come potrebbe un uomo che non riesce neppure a concludere un libercolo su Anton Cechov non essere colmo di gratitudine per il fatto di vivere con la finalista per il titolo di regina del Tibet? E per me un onore essere stato scelto come tuo personale cilicio. - Bisognerebbe discutere su chi sia qui il cilicio. Tu mi trovi ripugnante, David, e trovi ripugnante anche Donald. . - Helen, quel tipo non mi è né piaciuto né dispiaciuto. Cazzo, ho cercato di fare del mio meglio. Senti, già ai tempi del col ege il mio migliore amico era l’unico finocchio in circolazione. Avevo un amico finocchio nel 1950. . quando ancora non ne esistevano! Non sapevo neanche cosa fossero, ma ne avevo uno come amico. Però non me ne frega niente di chi indossa il vestito di chi. . oh, cazzo, lasciamo perdere, mi arrendo. Poi, un sabato mattina di primavera inoltrata, proprio mentre sono seduto alla scrivania e mi accingo a correggere le prove d’esame, sento la porta del nostro appartamento che si apre e si richiude - e finalmente ha inizio la dissoluzione di questo matrimonio pazzescamente male assortito. Helen se n’è andata. Trascorrono diversi giorni - giorni spaventosi, che comprendono due visite all’obitorio di San Francisco, di cui una in compagnia del a sconcertata, contegnosa madre di Helen, che insiste per venire in aereo da Pasadena a dare un’occhiata al corpo straziato di una donna «caucasica» morta affogata, di un’età fra i trenta e i trentacinque anni - prima che io venga a sapere dove si trova. La prima telefonata - che mi informa che la mia sposa è detenuta in un carcere di Hong Kong - viene dal Dipartimento di Stato. La seconda viene da Garland, che aggiunge alcuni dettagli sordidi e chiarificatori: arrivata all’aeroporto di Hong Kong, ha preso un taxi e si è fatta portare a Kowloon alla vil a del suo ben noto ex amante. Si tratta del ‘Onassis inglese, mi dice, figlio ed erede del fondatore del a MacDonald-Metcalf Line, e re del e rotte Mercantili dal Capo di Buona Speranza alla baia di Manila.A casa di Jimmy Metcalf non le è stato permesso di superare il servitore di guardia all’ingresso, non dopo che il suo nome è stato annunciato alla moglie di Metcalf. Equando, qualche ora dopo, ha lasciato l’albergo per raccontare alla polizia il piano architettato alcuni anni prima dal presidente del a MacDonald-Metcalf per far ammazzare la moglie simulando un incidente, l’agente in servizio alla stazione di polizia ha fatto una telefonata in seguito alla guale nel a sua borsa è stato trovato un pacchetto di cocaina. - Eadesso cosa capita? - gli domando. - Mio Dio, Donald, e adesso? - La tiro fuori io, - dice 36Garland. - Si può fare? - Sì. - Ecome? - Secondo te? Soldi? Ricatto? Ragazze? Ragazzi? Non lo so, non mi importa, meglio non chiedere. Sia quel che sia, purché funzioni. - La domanda è, - dice Garland, - cosa succede quando Helen torna libera? Le posso trovare una sistemazione qui. Posso fornirle tutto ciò di cui ha bisogno per rimettersi in piedi e tirare avanti. Però vorrei sapere cosa è meglio secondo te. Non reggerebbe a trovarsi di nuovo presa in mezzo. - In mezzo fra cosa? Donald, è tutto così confuso. Francamente non ho idea di cosa sia meglio. Per favore, spiegami perché non è venuta da te quando è arrivata li. - Perché aveva in mente di vedere Jimmy. Sapeva che se fosse venuta da me io non le avrei mai permesso di avvicinarsi a lui. Io lo conosco, meglio di quanto lo conosca lei. - E lo sapevi che sarebbe arrivata? - Sì, certo. - Già la sera in cui sei venuto a cena da noi? - No, no, caro ragazzo mio. Solo una settimana fa. Ma avrebbe dovuto mandarmi un telegramma. Sarei andato a prenderla all’aeroporto. Invece ha voluto fare a modo suo. - Non avrebbe dovuto, - borbotto io. -La domanda è: Helen torna da te o rimane con me? Vorrei che tu mi dicessi cosa ritieni meglio. - Sei sicuro che uscirà di prigione, sei sicuro che le accuse verranno lasciate cadere. . - Altrimenti non ti avrei telefonato per dirti quel o che ti sto dicendo. - Al ora quel o che succederà.. be’, spetta a Helen deciderlo, no? Cioè, dovrei prima parlare con lei. - Ma non puoi. E’ una fortuna che abbia potuto farlo io. E una fortuna che non sia in catene, o in volo per la Malesia. Il nostro capo del a polizia non è un uomo caritatevole, se non verso se stesso. E il tuo rivale non è Albert Schweitzer. - Questo è evidente. -Mi diceva sempre: «E’ così difficile andare a far compere con Jimmy. Se vedo una cosa che mi piace, lui me ne compera dodici». Lei gli diceva:«Ma Jimmy, posso indossarne solo uno alla volta». Però Jimmy non capiva, Mr Kepesh. Lui moltiplica tutto per dodici. - Okay, è chiaro. - Non voglio che le capiti più niente di male. . mai più, - dice Garland. -Voglio sapere esattamente come stanno le cose per lei. E lo voglio sapere adesso. Ha passato anni d’inferno. Era una creatura meravigliosa, sfolgorante, e la vita l’ha trattata in modo ignobile. Non permetterò a nessuno di voi due di torturarla ancora. Ma io non lo so come stanno le cose per lei - non so neppure come stanno le cose per me. Prima di tutto, dico, devo chiamare i genitori di Helen e rassicurarli. Poi mi farò risentire. Mi farò risentire? E perché? Come se le avessi comunicato che la figlia si è trattenuta a una riunione dopo la scuola, la madre di Helen dice in tono cortese: - E quando torna a casa? - Non lo so. Ma a quanto pare neppure questo scoraggia la madre del ‘avventuriera. - Spero che mi terrà informata, - dice in tono vivace. - Certo. - Be’, grazie del a chiamata, David. Cos’altro può fare la madre di un’avventuriera se non ringraziare la gente di chiamarla e tenerla informata? E cosa fa il marito di un’avventuriera mentre la moglie è agli arresti in Estremo Oriente? Be’, per cena mi preparo un’omelette, la cucino per bene, alla temperatura giusta, e me la servo con un po’ di prezzemolo tritato, un bicchiere di vino e una fetta di pane tostato e imburrato. Poi mi faccio una lunga doccia calda. Lui non vuole più che io la torturi; benissimo, non la torturerò - ma soprattutto, non torturerò me stesso. Dopo la doccia decido di infilarmi il pigiama e di dedicarmi alla lettura serale, a letto, tutto solo. Niente ragazza, per il momento. Ogni cosa a suo tempo. Sta accadendo davvero? Sono tornato al punto di sei anni fa, la sera prima di aver mol ato la mia sensibile partner ed essermi portato a casa da quel a festa la Helen di Hong Kong. Eccetto che adesso ho il mio lavoro, ho il mio libro da concludere, e a quanto pare ho questo appartamento confortevole, arredato in modo così elegante e raffinato, tutto per me. Com’è quel a frase di Mauriac? «Mi crogiolo nei piaceri di un letto incondiviso». Per qualche ora la mia felicità è completa. Ho mai letto o sentito raccontare una cosa del genere, una persona catapultata direttamente dalla sventura alla beatitudine? Il senso comune dice che funziona all’inverso. Be’, io posso testimoniare che in qualche raro caso funziona anche così. Mio Dio, come mi sento bene. Non torturerò mai più né lei né me. Affare fatto. Duecentoquaranta minuti così, più o meno. Il giorno dopo, grazie a un prestito di Arthur Schonbrunn, il correlatore del a mia tesi, acquisto un biglietto di andata e ritorno per l’Asia e parto. (Al a banca scopro che l’intero ammontare dei nostri risparmi è stato ritirato da Helen la settimana prima, per il suo volo di sola andata verso una nuova vita). Sul ‘aereo ho tempo per pensare - e pensare e pensare e pensare. Evidentemente la rivoglio con me, non riesco a rinunciare a lei, che me ne renda conto o meno sono innamorato, lei è il mio destino. . Non una sola parola di questa manfrina mi convince. Sono parole che disprezzo: il tipo di parole che usa Helen, il tipo di ragionamenti che fa Helen. Non posso vivere senza questo, non posso vivere senza quel o, la mia donna, il mio uomo, il mio destino. . Roba infantile! Roba da film! «Screen Romance»! Ma se questa donna non è la mia donna, cosa ci faccio qui? Se non è il mio destino, perché sono stato al telefono dalle due alle cinque del a mattina? E’ solo l’orgoglio a impedirmi di abdicare a favore del suo protettore omosessuale? No, le cose non stanno così. Eneppure sto Agendo in Modo Responsabile, o spinto dalla vergogna, o dal masochismo, o dall’euforia vendicativa.. Perciò rimane solo l’amore. Amore! A questo punto! Amore! Dopo tutto quel che abbiamo fatto per distruggerlo! Più amore, tutt’a un tratto, di quanto ce ne sia mai stato in tutto questo tempo! Trascorro il resto del e mie ore di veglia su quel volo ricordando ogni singola parola dolce, incantevole, seducente che lei abbia mai pronunciato. Al ‘aeroporto mi viene a prendere Garland- mesto, cortese, impeccabile, un vero banchiere e uomo d’affari, adesso- con un ispettore del a polizia di Hong Kong e un giovanotto ammodo del consolato americano, e tutti insieme mi accompagnano al carcere a vedere mia moglie. Mentre lasciamo il terminal per andare all’auto, dico a Garland: - Pensavo che ormai fosse fuori. - I negoziati vanno per le lunghe, - dice lui, - ci sono più parti in causa del previsto. - Hong Kong- mi informa con una smorfia divertita il giovane funzionario del consolato - è la patria del a contrattazione col ettiva -. Tutti in quel ‘auto sembrano conoscere la posta in gioco, tutti tranne me. Vengo perquisito, poi mi viene concesso di incontrarla in una stanzetta la cui porta viene drammaticamente sprangata alle nostre spalle. Il rumore del chiavistel o la spinge ad afferrarmi convulsamente la mano. Ha il viso chiazzato, le labbra piene di vesciche, e gli occhi. . non riesco a guardarla negli occhi senza che mi si torcano le budel a. Epoi Helen puzza. E nonostante tutto ciò che provavo per lei quand’ero in mezzo alle nuvole, adesso che sono di nuovo coi piedi per terra non riesco proprio ad amarla. Non l’ho mai amata davvero, coi piedi per terra, e non comincerò adesso, in una prigione. Non sono quel tipo di idiota. Il che forse mi rende un idiota di un altro tipo. . ma questo lo scoprirò solo in seguito. - Me l’hanno messa addosso loro la cocaina. - Lo so. -Lui non la passerà liscia, - dice. - No. E Donald ti tirerà fuori da qui. - Deve farlo! - Sì, e lo farà. Perciò non preoccuparti. Uscirai molto presto. - Devo raccontarti una cosa terribile. Tutto il nostro denaro è sparito, se l’è rubato la polizia. E’ stato lui a dirgli cosa fare di me. . e loro l’hanno fatto. Mi hanno riso in faccia. Mi hanno toccata. - Helen, adesso dimmi la verità. Devo saperla. Tutti noi dobbiamo saperla. Quando uscirai da qui, vuoi restare con Donald a casa sua? Dice che si occuperà lui di te. . - Ma non posso! No! Oh, non lasciarmi qui, ti prego! Jimmy mi ucciderà! Durante il volo di ritorno Helen beve finché l’hostess si rifiuta di servirla ancora. - Scommetto che mi sei anche stato fedele, - dice, 38all’improvviso stranamente«ciarliera». - Sì, ci scommetto, - ripete, in una sorta di serenità narcotizzata adesso che il whiskey ha in qualche modo attenuato gli orrori del a carcerazione e lei si è lasciata alle spalle l’incubo del a vendetta di Jimmy Metcalf. Non rispondo né sì né no. Sul e due insignificanti copulazioni del ‘ultimo anno non c’è niente da dire; scoppierebbe a ridere se le raccontassi chi sono state le sue rivali. Né mi aspetto una gran comprensione se le spiegassi quanto è stato insoddisfacente tradirla con donne che non avevano neppure un centesimo del suo fascino - neppure un centesimo del suo carattere, per non parlare del a sua avvenenza - e a cui avrei sputato in faccia una volta compreso quanto la loro soddisfazione derivasse dall’essersi prese una rivincita su Helen Kepesh. Abbastanza presto - quasi abbastanza presto -mi sono reso conto che era impossibile tradire una moglie detestata dalle altre donne quanto Helen senza ricavarne un’umiliazione. Non ho il dono di Jimmy Metcalf, non so contrattaccare con freddezza sferrando un grandioso colpo letale alla mia avversaria; no, il suo stile è la vendetta, il mio una bisbetica malinconia.. Mentre parla, Helen farfuglia pesantemente per effetto del ‘alcol e del a stanchezza, ma adesso che ha fatto un bagno, ha pranzato, si è cambiata d’abito e si è rifatta il trucco, ha voglia di fare conversazione, dopo giorni e giorni che non parla con nessuno. Intende riprendere il proprio posto nel mondo, e non nel ruolo del a perdente, ma nel ruolo di se stessa. - Sai, - dice, - non c’era bisogno che facessi tanto il bravo ragazzo. Avresti potuto farti le tue storie, se questo ti rendeva più felice. L’avrei accettato. - Buono a sapersi, - dico. - Sei tu, David, che non ne saresti uscito vivo. Vedi, io ti sono stata fedele, che tu ci creda o meno. L’unico uomo a cui sia stata fedele in vita mia -. Ci devo credere? Ci posso credere? E se anche ci credessi? Dove mi porta tutto questo? Non dico niente. - Non lo sai ancora dove andavo a volte dopo la palestra. - No, non lo so. - Non sai perché la mattina uscivo indossando il mio abito preferito. - Mi sono fatto le mie idee. - Be’, erano sbagliate. Non ho mai avuto un amante. Mai, mai mentre stavo con te. Mai, perché sarebbe stato troppo odioso. Tu non l’avresti sopportato, perciò non l’ho fatto. Ti avrebbe distrutto; mi avresti perdonata ma non saresti mai più stato lo stesso. Le tue ferite non si sarebbero più richiuse. - In ogni caso non si sono più richiuse. E neanche le tue. Dove te ne andavi tutta in ghingheri?- Andavo all’aeroporto.- E?- Esedevo nel a sala d’attesa del a Pan Am. Avevo il passaporto nel a borsetta. E i miei gioiel i. Me ne stavo li a leggere il giornale finché qualcuno mi chiedeva se volevo bere qualcosa nel a sala di prima classe. - E scommetto che arrivava sempre qualcuno. - Sempre. . è vero. E io andavo a bere qualcosa. Parlavamo. . poi quegli uomini mi chiedevano di partire con loro. Per il Sudamerica, per l’Africa, qualunque posto. Un uomo mi ha anche chiesto di accompagnarlo in viaggio d’affari a Hong Kong. Ma io non ho mai accettato. Mai, mai con te. Invece tornavo a casa a sentire i tuoi predicozzi sul e matrici degli assegni. - L’hai fatto spesso? - Abbastanza spesso, - replica lei. - Abbastanza per cosa, per vedere se avevi ancora il potere? - No, idiota, per vedere se tu avevi ancora il potere -. Comincia a singhiozzare. - Ti stupisce - chiede - se ti dico che avremmo dovuto averlo quel bambino? - Non avrei mai corso un tale rischio, non con te -. Le mie parole le mozzano il fiato, il poco fiato che le è rimasto. - Oh, che stronzo, non ce n’era bisogno. Ci sono modi meno crudeli. . - dice. - Oh, perché non ho lasciato che Jimmy la ammazzasse quand’era disposto a farlo! - grida. - Abbassa la voce, Helen. - Dovresti vederla adesso. . se ne stava li in piedi tre metri dentro casa, e mi guardava in un modo! Dovresti vederla, sembra una balena. Quel ‘uomo così bel o va a letto con una balena. - Ti ho detto di abbassare la voce. - E’ stato lui a dir loro di mettermi addosso la cocaina, a me, la persona che ama! Ha permesso che mi prendessero la borsa e mi rubassero i soldi! A me, 39che lo amavo tanto! Se l’ho lasciato è stato solo per impedire che commettesse un omicidio! E adesso lui mi odia perché sono troppo rispettabile, e tu mi disprezzi perché lo sono troppo poco, e la verità è che io sono migliore e più forte e coraggiosa di voi due messi insieme. O mie emozioni leggendo con cura ogni pagina di Kathie, correggendo ogni minima virgola, ricordandole il suo problema con i participi posizionati in modo ambiguo, e riempiendo doverosamente i margini di commenti e domande. Io e i miei esami finali, la mia penna indelebile e le mie graffette. Che spettacolo divertente per l’imperatore Metcalf - e anche per Donald Garland e il suo spietato capo del a polizia! Forse dovrei farmi anch’io una risata; ma dato che sono un professore di letteratura e non un poliziotto, e da tempo ormai mi sono sbarazzato - forse un po’ troppo frettolosamente - di quel po’ di tiranno che c’era in me, invece di farmi una risata giungo alla frase conclusiva di Kathie, e crol o. La padronanza che ho mantenuto dal momento del a scomparsa di Helen si dissolve, e devo voltarmi dall’altra parte e premere il viso contro il finestrino oscurato del ‘aereo ronzante che ci riporta a casa, dove avremo da districare, in modo ordinato e legale, il garbuglio del e nostre due vite allo sbando. Piango per me stesso, piango per Helen, e soprattutto piango perché non ogni singola cosa è stata distrutta e - nonostante la mia logorante ossessione per l’infelicità maritale e il mio languido desiderio di rivolgermi alle giovani studentesse in cerca di aiuto -in qualche modo sono riuscito a ottenere che una dolce, paffuta, disarmata e ancora ingenua figlia di Beverly Hil s concludesse il suo secondo anno di col ege componendo questa triste e bel issima elegia per quel a che lei definisce «la globale filosofia del a vita di Anton Cechov». Ma può essere stato il professor Kepesh a insegnarle tutto questo? Come? Come? Io quela filosofia sto cominciando a comprenderla appena adesso, su questo volo! «Nasciamo innocenti, - ha scritto la ragazza, - patiamo atroci disil usioni prima di accedere alla saggezza, viviamo nel a paura del a morte. . e a compensare il dolore non abbiamo che frammenti di felicità». Vengo finalmente estratto dalle macerie del divorzio grazie a un’offerta di lavoro da parte di Arthur Schonbrunn, che ha lasciato Stanford ed è ora direttore del dipartimento di Letterature comparate alla State University di New York, a Long Island. Quand’ero ancora a San Francisco ho cominciato ad andare dallo psicanalista - poco dopo aver cominciato ad andare dall’avvocato - ed è lui che mi consiglia, una volta tornato a est, di continuare la terapia con un certo dottor Frederick Klinger, uno che non ha paura di dire ai suoi pazienti le cose come stanno, «un uomo solido e ragionevole», così lo definisce, «uno specialista in buonsenso». Ma la ragione e il buonsenso sono quel o che mi serve? Se mi sono rovinato la vita, non è proprio per un eccesso di devozione a questi due attributi? Frederick Klinger è solido, senza dubbio: un tipo dal viso tondo, affabile e dinamico, che, con il mio permesso, fuma il sigaro per l’intera seduta. Non posso dire che quel ‘odore mi piaccia, ma lo sopporto perché fumare sembra acuire ancora di più la perspicacia con cui Klinger si prende cura del a mia disperazione. Non molto più vecchio di me, e con meno capel i grigi di quanti ormai ne abbia io, trasmette il senso di appagamento e sicurezza di un uomo di successo giunto alla mezza età. Dalle telefonate a cui, con mio gran dispetto, risponde durante la mia ora, mi rendo conto che è già una figura di spicco nei circoli psicanalitici, che appartiene ai corpi dirigenti di scuole, case editrici, riviste e istituti di ricerca, ed è soprattutto l’ultima fonte di speranza per un gran numero di anime in rovina. Sul e prime mi lascia un po’ sconcertato l’estremo godimento con cui il dottore pare divorare le sue responsabilità - mi lascia sconcertato, a dire il vero, quasi tutto ciò che lo riguarda: il doppiopetto gessato e il farfallino floscio, il logoro soprabito Chesterfield che tira sul ventre grassoccio, le ben due valigette straboccanti sul ‘appendiabiti, le foto dei figli sorridenti e pieni di salute sul a scrivania carica di libri, la racchetta da tennis nel portaombrel i - mi lascia sconcertato anche la borsa per la palestra infilata dietro la grossa e lisa poltrona Eames da cui, sigaro in mano, lui affronta la mia confusione. Come può questo conquistador sciccoso ed energico capire che ci sono giorni in cui, sul a strada dal letto allo spazzolino da denti, fatico a non lasciarmi cadere a terra e rannicchiarmi sul pavimento del soggiorno? Io stesso non comprendo appieno il baratro in cui sono precipitato. Non sono stato capace di essere un marito per Helen - non sono stato capace di escogitare un modo per fare di Helen una moglie - e adesso la mia vita più che viverla la trascorrerei dormendo. Ad esempio, come ho fatto a ridurmi in questo stato nel mio rapporto con la sensualità? - Proprio lei, - replica il dottor Klinger, - lei che ha sposato una femme fatale? - Ma solo per sfatalizzarla, per levarle le zanne. Tutte quel e scenate per la spazzatura e il bucato e il toast a colazione. Mia madre non avrebbe saputo fare di meglio. Mi attaccavo a ogni piccolezza! - E lei era troppo divina per tali piccolezze? Sa, non è la Elena nata da Leda e Zeus. E una creatura del a terra, Mr Kepesh, una gentile, una Helen nata in grembo alla piccola borghesia di Pasadena, California, abbastanza carina da rimediare ogni anno un viaggio gratis fino ad Angkor Wat, ma nul a di più quanto a imprese soprannaturali. E un toast freddo è un toast freddo, non importa quanti gioiel i la cuoca abbia ricevuto in dono nel corso degli anni da ricchi uomini sposati con un debole per le ragazzine. - Mi faceva paura. - Lo credo bene -. Gli squil a il telefono. No, non può assolutamente arrivare in ospedale prima di mezzogiorno. Sì, ha visto il marito. No, il signore non sembra disposto a col aborare. Sì, è un gran peccato. Ora torniamo a quest’altro signore poco col aborativo. -Lo credo che le faceva paura, - dice, - non poteva fidarsi di lei. - Non volevo fidarmi di lei. Elei mi è stata fedele. Ne sono convinto. - Non è questo il punto. Quel o era solo un giochetto che lei faceva con se stessa. E poi che importanza ha, dal momento che voi due non avete mai avuto niente in comune? A quanto pare l’unica cosa del tutto fuori dal personaggio che avete fatto è stata sposarvi. - Anche Birgitta mi faceva paura. - Mio Dio, - esclama, - a chi non avrebbe fatto paura? - Senta, o non mi spiego bene oppure lei non fa alcuno sforzo per capirmi. Le dico che si trattava di creature speciali, piene di audacia e di curiosità.. creature libere. Non erano giovani donne qualunque. - Oh, capisco. - Davvero? A volte mi sembra che lei preferisca liquidarle mettendole nel novero del e persone dozzinali. Ma quel che le rendeva speciali è che non erano dozzinali, non per me, nessuna del e due. Erano eccezionali. - Garantito -. Squil a il telefono. Sì, che c’è? Sono in seduta, sì. No, no, dica pure. Sì. Sì. Certo che capisce. No, no, è un bluff, non ci badi. Sì, aumenti la dose a quattro al giorno. Non di più. E mi chiami se continua a piangere. Mi chiami in ogni caso. Arrivederci. -Garantito, - dice, - ma cosa credeva di fare, sposando una di queste «creature speciali?»Passare tutto il giorno e tutta la notte ad accarezzare i suoi seni perfetti? Unirsi a lei nel a fumeria d’oppio? L’altro giorno mi ha detto che l’unica cosa che ha imparato in sei anni con Helen è stata rol are le canne. - L’avrò detto per blandire l’analista. Invece ho imparato un sacco di cose. -Resta il fatto che lei aveva il suo lavoro da fare. - Il lavoro è solo un’abitudine, - dico, senza nascondere il fastidio per la sua implacabile «smitizzazione». - Forse, - suggerisco fiaccamente, -leggere libri è l’oppio del e classi colte. - Lei dice? Ha in mente di diventare un figlio dei fiori? - mi chiede accendendosi un altro sigaro. - Una volta io e Helen stavamo prendendo il sole nudi su una spiaggia in Oregon. Eravamo in vacanza, diretti a nord. Dopo un po’ ci siamo accorti che fra i cespugli c’era un uomo che ci guardava. Abbiamo fatto per coprirci, ma lui è venuto fuori e ci ha chiesto se 42eravamo nudisti. Quando ho detto di no, lui ci ha dato una copia del suo giornale nudista chiedendoci se volevamo abbonarci -. Klinger si fa una risata. - Helen ha commentato che doveva essere stato Dio in persona a mandarlo, perché era da almeno un’ora e mezza che non leggevo niente -. Di nuovo Klinger si fa una risata di gusto. - Senta, - gli dico, - lei non sa cos’ha significato per me incontrare Helen. Non può sottovalutare la cosa. Lei non sa com’ero allora, non può vedermi com’ero. . neppure io posso più farlo. Ma a vent’anni ero un ragazzo spavaldo. Più audace dei miei coetanei, soprattutto in quel ‘era desolata del a storia del piacere. Io facevo quel che gli artisti del a masturbazione si limitano a sognare. Quando ho debuttato nel mondo ero, se così posso dire, una sorta di prodigio sessuale. - E vorrebbe tornare a esserlo, ora che ha passato i trenta? - Non mi do neanche la pena di rispondere, tanto mi sembra meschino e fuori luogo il buonsenso padroneggiato dal mio analista. -Perché permette a Helen, - continua Klinger, - che si è a tal punto degradata nel frenetico sforzo di diventare la grande sacerdotessa del ‘Eros, che è arrivata quasi a distruggerla con i suoi proclami solenni e le sue insinuazioni, perché permetterle ancora di giudicarla? Ha ancora intenzione di lasciarsi rimproverare da lei nei momenti di debolezza? Ha ancora intenzione di sentirsi debole a causa di tali assurdità? In cosa consisteva questa sua«audace» ricerca?. . - Il telefono. - Mi scusi, - dice. Sì, sono io. Sì, dica pure. Salve. . sì, ti sento bene. Com’è Madrid? Cosa? Be’, certo che ha dei sospetti, ci mancherebbe. Tu digli che è uno stupido a comportarsi così e poi lascia perdere. No, certo che non vuoi litigare. Capisco. Diglielo e basta, poi cerca di farti coraggio. Gli puoi tenere testa. Torna in quel a stanza e diglielo. Su, forza, sai benissimo di potercela fare. Bene. Buona fortuna. Divertiti. Ho detto divertiti. Arrivederci. - In cosa consisteva la sua ricerca, - dice, - se non in un’evasione, un’infantile fuga dai veri progetti che si possono realizzare nel a vita? - Però, d’altro canto, -dico, - i «progetti» potrebbero essere una fuga dalla ricerca. - Senta, le piace leggere libri e le piace scriverne. Questo, per sua stessa ammissione, le dà enorme soddisfazione. . gliel’ha data in passato e continuerà a dargliela in futuro. In questo momento lei è stufo di tutto. Però le piace insegnare, giusto? E mi sembra di capire che non le manchi il talento. Ancora non capisco quali alternative ha in mente. Vuole trasferirsi nei Mari del Sud e insegnare i grandi libri alle ragazze in sarong all’università di Tahiti? Vuole di nuovo mettere su un harem? Tornare a essere un prodigio di spavalderia, fare le porcherie con la sua piccola scavezzacol o svedese nei bar dei quartieri operai di Parigi? Vuole di nuovo un martel o sul a testa.. e che questa volta lasci il segno? - Mettendo in ridicolo quel che le racconto non mi fa alcun bene. Tornare con Birgitta non è quel o che ho in mente. Epiuttosto come andare avanti. Non riesco ad andare avanti. - Forse andare avanti, quantomeno su quel a strada, è un’il usione. - Dottor Klinger, le assicuro di essere abbastanza imbevuto di pregiudizi cechoviani da averne anch’io il sospetto. Dal Duel o e da altri racconti ho imparato tutto ciò che c’è da sapere sul a fallacia del a libidine. Ho anche letto e studiato la sapienza occidentale in merito. L’ho anche insegnata. L’ho addirittura praticata. Ma, se mi è concesso, come lo stesso Cechov ha avuto il buonsenso di scrivere: nel e questioni psicologiche «Dio ci salvi dalle generalizzazioni». -Grazie per la sua lezione di letteratura. Mi dica una cosa, Mr Kepesh: è davvero così depresso per quel o che è capitato a Helen, per quel o che lei sembra credere di averle«fatto», o sta solo cercando di dimostrare di essere un uomo sensibile e coscienzioso? Se è così, non esageri. Perché era inevitabile che questa Helen trascorresse prima o poi una notte in guardina. Era un destino che la attendeva da ben prima di incontrare lei. A quanto pare Helen ha fatto rotta su di lei proprio nel a speranza di essere salvata dalla gattabuia e 43dalle altre inevitabili umiliazioni. E questo lei lo sa quanto me. Ma qualunque cosa lui dica, per quanto si sforzi, strattonandomi, sbeffeggiandomi o perfino tentando la via del a lusinga, di convincermi a lasciare alle spalle il matrimonio e il divorzio, non riesco a non sentirmi in colpa quando mi giungono all’orecchio le traversie che stanno trasformando l’ex principessa occidentale del ‘Oriente in una megera inacidita. Vengo a conoscenza diuna rinite debilitante che nessun farmaco tiene a bada e che la costringe a soffiarsi continuamente il naso - quel e narici scolpite che si dilatavano come se si riempissero di vento quando Helen raggiungeva l’acme del piacere. Vengo a conoscenza di estese eruzioni cutanee, sul e sue abili dita («Ti piace così?. . e così?. . oh, sì, ti piace, caro mio!»), e sul e sue carnose, adorabili labbra («Qual è la prima cosa che noti su una faccia? Gli occhi o la bocca? Mi piace che tu abbia scoperto per prima la mia bocca»). Del resto Helen non è l’unica la cui carne sta a poco a poco prendendosi una rivincita, o facendo penitenza, o perdendosi d’animo, o tirandosi in disparte. Io da quando ho divorziato non mangio quasi più, così ormai peso quanto uno spaventapasseri, e per la seconda volta nel a mia vita sono impotente, non riesco a portare a termine neanche un semplice intrattenimento privo d’ambizioni come l’amore solitario. -Non avrei mai dovuto tornare a casa dall’Europa, -dico a Klinger, che su mia richiesta mi ha prescritto un farmaco antidepressivo che la mattina mi tira su dal letto ma poi mi lascia per il resto del a giornata con la sensazione vaga e straniante di trovarmi in un bozzolo, come se sconfinate distese mi separassero dalle orde di gente vigorosa. - Avrei dovuto andare fino in fondo e diventare il magnaccia di Birgitta. Sarei un esponente del a società più felice e più sano. Qualcun altro potrebbe insegnare i grandi capolavori del a disil usione e del a rinuncia. - Davvero? Preferirebbe essere un magnaccia che un professore universitario? - Se vuol metterla così. . -La metta come vuole lei. - Questa cosa dentro di me contro cui mi sono rivoltato, -dico in un attacco di disperazione, - prima ancora di averla compresa, o di averla fatta vivere. . l’ho soffocata a morte. . da un giorno all’altro ho deciso di ammazzarla. Perché? Che bisogno c’era di un assassinio? Nel e settimane seguenti cerco, fra una sua telefonata e l’altra, di ricostruire la storia di questa cosa che, nel mio stato di disperazione e spossatezza, continuo a pensare di aver«assassinato». Adesso parlo a lungo non solo di Helen ma anche di Birgitta. Rispolvero Louis Jelinek, addirittura Herbie Bratasky, spiego cosa ognuno di loro ha significato per me, quali desideri e paure hanno suscitato in me, e come ho affrontato, a mio modo, ognuno di loro. - La galleria del e sue canaglie, - la definisce Klinger alla ventesima o trentesima settimana del nostro argomentare. - La delinquenza morale -osserva - esercita un singolare fascino su di lei. - Lo esercita anche -osservo io - sugli autori di Macbeth e di Delitto e castigo. Mi scusi se ho nominato due opere d’arte, dottore. - Non si preoccupi. Qui ne sento di tutti i colori. Ci sono abituato. - Ho l’impressione che sia contro il regolamento chiamare a soccorso i miei rinforzi letterari nel e nostre schermaglie, ma volevo dire che da molto tempo le persone serie sono interessate alla «delinquenza morale». E poi perché definirli«delinquenti?» Perché non «spiriti indipendenti?» Non sarebbe meno accurato. -Intendevo solo suggerire che non sono tipi del tutto innocui. - I tipi del tutto innocui tendono a condurre vite piuttosto anguste, non crede? - D’altro canto non bisogna sottovalutare il dolore, l’isolamento, la confusione e tutte le altre conseguenze sgradevoli di questo tipo di «indipendenza». Guardi come si è ridotta Helen. - Guardi me, allora. - Lo faccio. Ma Helen mi sembra messa peggio. Almeno lei non ha rotto tutte le uova del suo paniere. - Non riesco a mantenere un’erezione, dottor Klinger. Del resto non riesco neppure 44a mantenere un sorriso -. Ed ecco che squil a il telefono. Ho mol ato gli ormeggi che mi legavano a qualunque cosa o persona, vado alla deriva, alla deriva, a volte con la terrificante sensazione di affondare; e intanto continuo, con l’arguto e benpensante dottore, a discutere, disputare e dibattere, tornando in continuazione sul ‘argomento che è stato la causa di tanta amarezza matrimoniale - solo che da sdraiato di solito sono io che faccio la parte di Helen, mentre lui che sta seduto fa la mia. Ogni inverno i miei genitori scendono tre o quattro giorni a New York per far visita a parenti, amici e clienti affezionati. In tempi ormai lontani alloggiavamo tutti in West End Avenue con il fratel o minore di mio padre, Larry, un prospero organizzatore di banchetti kasher, e sua moglie Sylvia, la Benvenuto Cel ini del o strudel, nonché, da bambino, la mia zia preferita. Fino a quattordici anni, ogni volta, con mia stupefatta delizia, venivo messo a dormire nel a stessa camera di mia cugina Lorraine. Dormire accanto a un letto che ospita una ragazza in carne e ossa - e una ragazza nel a fase«del o sviluppo» -, andare a cena da Moskowitz e Lupowitz (dove, così diceva mio padre, si mangiava quasi bene come all’Hungarian Royale), aspettare con temperature sotto lo zero di entrare a vedere le Rockettes, sorseggiare una cioccolata fra i pesanti tendaggi e l’imponente mobilio di merciai e grossisti che fino ad allora avevo visto solo in camicia con le maniche corte o in costume da bagno, e che mio padre chiamava il Re del e Mele e il Re del e Aringhe e il Re dei Pigiami - tutto in quel e visite a New York aveva in serbo per me un brivido segreto, e ogni volta la «sovreccitazione»faceva sì che sul a via di casa mi prendesse uno «streptococco alla gola», così che tornati in vetta alla nostra montagna mi toccava stare due o tre giorni a letto per riprendermi. - Non siamo passati a trovare Herbie, - dicevo imbronciato, pochi secondi prima di lasciare la città. Al che mia madre invariabilmente rispondeva: - L’estate con lui basta e avanza. Dobbiamo pure andare apposta fino a Brooklyn? - Bel e, ti prende in giro, - diceva mio padre, e intanto di nascosto mi mostrava il pugno, come se, solo per aver ricordato a mia madre il Re del e Scoregge, meritassi un cazzotto in testa. Adesso che io sono di nuovo nel ‘Est e lo zio e la zia vivono a Cedarhurst, Long Island, rispondo per telefono a una lettera di mio padre e invito i miei genitori a stare da me invece che in albergo quando scenderanno in città il prossimo inverno per la loro visita annuale. Le due stanze su West Seventy-fifth Street non sono propriamente mie, ma, tramite annuncio sul «Times», mi sono state subaffittate, arredate, da un giovane attore partito per tentare la sorte a Hol ywood. Le pareti del a camera da letto sono tappezzate di damasco cremisi, su una mensola in bagno sono allineate boccette di profumo e, in scatole che scopro in fondo all’armadio del a biancheria, ci sono cinque o sei parrucche. La sera in cui le trovo mi lascio prendere dalla curiosità e ne provo un paio. Sembro la sorel a di mia madre. Abito li da poco quando una sera squil a il telefono e un uomo chiede: - Dov’è Mark? - E’ in California. Ci resta un paio d’anni. -Già, come no. Senti, digli che è arrivato Wally in città.- Ma non c’è. Ho il suo nuovo indirizzo -. Comincio a dettarlo, però la voce, adesso roca e ansimante, mi interrompe: - E allora tu chi sei? - Il suo affittuario. - E’ così che si dice fra la gente di teatro? E tu come sei fatto, zuccherino? Hai anche tu gli occhioni azzurri? - Quando le chiamate continuano, mi faccio cambiare il numero di telefono, ma a quel punto la commedia continua attraverso il citofono che col ega l’appartamento all’ingresso del palazzo. - Di’ al tuo amichetto. . -Mark è in California, puoi cercarlo li. - Ah ah. . questa è buona. Tu come ti chiami, coccobel o? Scendi un po’ giù e vediamo se ti prendo. -Dai, Wally, lasciami in pace. Non c’è. Vattene. - Anche a te piacciono le maniere forti? - Oh, la vuoi piantare? - Piantarla, zuccherino? Edove vuoi che te la pianto? - E il corteggiamento continua su questo tono. Certe 45notti, quando mi sento davvero solo, quando comincio a parlare con me stesso e con persone che non sono presenti, devo soffocare l’impulso di chiedere aiuto al citofono. Quel o che mi blocca non è tanto che sia un segno di pazzia, quanto che uno dei miei vicini, o peggio ancora Wally il Tenace, potrebbe trovarsi nel ‘ingresso proprio nel momento in cui giungono i miei striduli lamenti; ho paura del tipo di aiuto che potrei ricevere - se non il mio pretendente omosessuale, il pronto soccorso psichiatrico del Bel evue. Perciò vado invece a chiudermi in bagno, e allungandomi verso lo specchio per osservare la mia faccia tirata, mi libero: - Voglio qualcuno! Voglio qualcuno! Voglio qualcuno! - A volte vado avanti così per interi minuti, nel tentativo di suscitare un attacco di pianto che mi lasci fiacco e, almeno per un po’, mi faccia passare la voglia di qualcuno. Però non sono ancora così ammattito da credere che singhiozzando in una stanza chiusa farò apparire quel qualcuno che voglio. Epoi, chi è che voglio? Se lo sapessi non avrei bisogno di ululare davanti allo specchio, potrei scrivere o telefonare. Voglio qualcuno, piagnucolo - e ad arrivare sono i miei genitori. Porto di sopra le loro valigie mentre mio padre trascina dentro la borsa termica in cui è stipata una decina di recipienti di plastica tondi pieni di zuppa di cavolo, polpette di matzoh in brodo, kugel e flanken, tutto surgelato e ben etichettato. Dentro l’appartamento mia madre tira fuori dalla borsa una busta -esattamente al centro c’è scritto a macchina «DAVID», sottolineato in rosso. La busta contiene del e istruzioni per me su carta intestata del ‘albergo: tempo necessario per scongelare e scaldare ogni piatto, dettagli riguardanti il condimento. - Leggi, - dice, - e dimmi se hai domande -. Mio padre interviene: - Perché prima non ti levi il cappotto e ti siedi? - Sto bene così, - dice lei. - Sei stanca, - ribatte lui. -David, hai abbastanza spazio nel congelatore? Non sapevo quanto fosse grosso il tuo congelatore. - Mamma, c’è spazio a sufficienza, - dico con leggerezza. Ma quando apro il frigo lei geme come se le avessero appena tagliato la gola. - Tutto qui? - stril a. - Guarda quel limone, è più vecchio di me. Ma cosa mangi? - Di solito mangio fuori. - E tuo padre mi diceva che esageravo. - Eri stanca, - interviene lui, - e hai esagerato. - Lo dicevo io che si trascurava, - continua lei. - Sei tu che ti trascuri, - dice lui. - Cosa c’è? - chiedo. - Cosa c’è che non va, mamma? - Ho avuto un po’ di pleurite, e tuo padre ne fa una questione capitale. Mi fa un po’ male se lavoro troppo a maglia. Ecco a cosa sono serviti tutti quei soldi buttati in medici ed esami. Non sa - e non lo so neanch’io, finché la mattina dopo mio padre mi accompagna a comprare il giornale e qualcosa per colazione e poi mi conduce con aria seria fino a dove Larry e Sylvia ci ospitavano tutti in West End Avenue, che sta morendo di un cancro che dal pancreas si è diffuso in tutto il corpo. Questo spiega la sua lettera che diceva: «Se magari questa volta potessimo stare da te. .» Spiega anche la richiesta di mia madre di visitare luoghi celebri che non vede da decenni? Forse anche lei sa cosa sta succedendo, e quel far mostra di esuberanza è solo perché lui non capisca che lei ha capito. Ciascuno protegge l’altro dall’orribile verità, e i miei genitori mi appaiono ora come due bambini coraggiosi e inermi. . E io mi sento impotente. - Sta morendo. . ma quanto le resta? - gli chiedo mentre torniamo, entrambi in lacrime, al mio appartamento. Resta a lungo in silenzio prima di rispondere. - Questo è l’aspetto peggiore, - riesce finalmente a dire. - Cinque settimane, cinque mesi, cinque anni. . cinque minuti. Ogni medico dice una cosa diversa! Tornati a casa, lei di nuovo mi chiede: - Ci porti al Greenwich Vil age? Ci porti al Metropolitan Museum of Art? Quando lavoravo per Mr Clark una del e ragazze andava sempre a mangiare dei deliziosi spaghetti verdi in un ristorante italiano al Greenwich Vil age. Se solo mi ricordassi come si chiamava. Forse era Tony’s, che dici Abe? -Tesoro, - dice mio padre, già con una sfumatura di lutto nel a voce, - dopo tutto questo tempo non ci sarà neanche più. - Possiamo verificare. . magari c’è ancora! -ribatte lei, rivolgendosi a me tutta eccitata. - Oh, David, quanto piaceva quel museo 46a Mr Clark! Quando i figli stavano crescendo li portava tutte le domeniche a vedere i quadri. Li accompagno dappertutto: a vedere i famosi Rembrandt al Metropolitan, a cercare un Tony’s che serve gli spaghetti verdi, a trovare gli amici più vecchi e più cari, alcuni che non vedo da quindici anni ma che mi baciano  mi abbracciano come se fossi ancora un bambino, e poi, dato che sono un professore, mi pongono domande serie sul a situazione mondiale. Andiamo come un tempo allo zoo e al planetario, e infine in pel egrinaggio all’edificio dove una volta mia madre è stata segretaria legale. Dopo un pranzo a Chinatown, ci troviamo all’angolo fra Broadway e Wall Street in una gelida domenica pomeriggio, e come sempre con perfetta innocenza lei si abbandona ai ricordi dei bei tempi andati, quand’era ancora allo studio legale. Come sarebbe stato diverso per lei, rifletto, se fosse rimasta per tutta la vita una del e ragazze di Mr Clark, una di quel e zitel e vergini che adorano il loro paterno capo e durante le vacanze fanno da ziette ai suoi figli. Senza le estenuanti responsabilità di un albergo a gestione famigliare, magari avrebbe avuto un po’ di serenità, avrebbe vissuto in armonia con il suo umile talento per l’ordine e la precisione, piuttosto che alla sua mercé. D’altro canto non avrebbe mai conosciuto mio padre e me -noi non saremmo mai esistiti. Se solo, se solo. . Se solo cosa? Ha il cancro. Dormono nel letto matrimoniale in camera mia mentre io resto sveglio sotto una coperta sul divano del soggiorno. Mia madre sta per scomparire - tutto si riduce a questo. E il suo ultimo ricordo del ‘unico figlio sarà quest’esistenza scarna e sradicata, il suo ultimo ricordo sarà questo limone con cui vivo! Oh, con quanto disgusto e rimorso ripenso alla serie di errori - anzi, all’unico, eterno errore ricorrente - che ha fatto di queste due camere la mia casa. Invece di essere nemici, di fornire l’uno all’altra il nemico ideale, perché io e Helen non abbiamo concentrato i nostri sforzi sul soddisfarci a vicenda, sul costruirci una vita stabile e laboriosa? Sarebbe stato così difficile per due persone dotate di tanta forza di volontà? Avrei dovuto dire fin dall’inizio: «Senti, facciamo un figlio?»Mentre, sdraiato sul divano, ascolto gli (ultimi) respiri di mia madre, cerco di prendere una nuova risoluzione: devo assolutamente smetterla con questa assurda, vana.. e nei miei pensieri, fra tutte le persone, si fa strada Elisabeth, con il medaglione al col o e il braccio rotto ormai guarito. Quanto sarebbe stata dolce, accogliente, con mio padre vedovo! Ma senza una Elisabeth, cosa potrò fare per lui? Come farà a sopravvivere lassù da solo? Oh, perché nel a mia vita devono esserci Helen e Birgitta a un estremo e un limone all’altro? Mentre i minuti insonni trascorrono - o meglio, sembrano non trascorrere affatto -, tutti i pensieri capaci di angosciarmi si coagulano in una parola incomprensibile e priva di senso che non riesco più a togliermi dalla testa. Per liberarmi dalla sua insipida malia mi giro e mi rigiro sul divano. Mi sento mezzo dentro e mezzo fuori da una profonda anestesia -immerso nel a claustrofobica agonia dalla sala di risveglio postoperatorio, in cui sono stato l’ultima volta a dodici anni, dopo l’appendicectomia - finché la parola si rivela essere nul ‘altro che la fila di tasti, letti da sinistra a destra, su cui mia madre mi insegnava a posare i polpastrel i quando imparavo a battere a macchina con la Remington Noiseless del ‘albergo. Ma adesso che ho capito da dove viene questo banale scarabocchio alfabetico, è ancora peggio di prima. Come se dopotutto si trattasse davvero di una parola, una parola che nel e sue sil abe impronunciabili racchiude tutto il dolore del e energie sprecate e del a vita frenetica di lei. E anche il mio dolore. Al ‘improvviso mi vedo litigare con mio padre a proposito del ‘epitaffio: ci scagliamo addosso enormi macigni e io insisto con lo scalpel ino perché sotto il suo nome sul a lapide venga inciso asdfghjkl. Non riesco a dormire, mi chiedo se ci riuscirò mai più. Qualunque mio pensiero è sciocco oppure fol e, e dopo un po’ non colgo più la differenza. Voglio entrare in camera, ficcarmi nel loro letto. Architetto un piano. Per vincere la loro iniziale timidezza, sul e prime mi limiterò a sedermi sul bordo del letto raccontando come se niente fosse i momenti migliori del passato. 47Guardando i loro visi familiari uno accanto all’altro sul e federe fresche di bucato, i loro due visi che mi fissano da sopra il lenzuolo tirato fino al mento, ricorderò loro quanto tempo è passato dall’ultima volta che ci siamo rannicchiati tutt’e tre sotto un’unica coperta. Non fu in un bungalow poco fuori Lake Placid? Ricordate che stanza microscopica? Era il 1940 o il ‘41? Ed è vero che a papà era costata solo un dol aro a notte? Mamma pensava che mi avrebbe fatto piacere vedere le Thousand Islands e le cascate del Niagara durante le vacanze di Pasqua. Era lì che eravamo diretti, con la Dodge. Ricordi, ci raccontavi che Mr Clark ogni estate portava i suoi ragazzi a vedere i luoghi celebri del ‘Europa; ricordi tutte quel e cose che mi raccontavi e che non avevo mai sentito? Dio santo, vi ricordate di me, voi due, e la piccola Dodge, prima del a guerra.. e poi, quando staranno sorridendo, mi leverò la vestaglia e mi infilerò a letto in mezzo a loro. E prima che muoia ci terremo ancorastretti per un’ultima notte, fino al mattino. Nessuno verrà mai a saperlo, a parte Klinger, e non me ne importa niente di quel che potrebbe pensare, lui o chiunque altro. . E’ quasi mezzanotte quando squil a il citofono. Vado in cucinino, schiaccio il pulsante e chiedo: - Chi è? - L’idraulico, coccobel o. L’ultima volta non c’eri. Come va il rubinetto, perde ancora? Non rispondo. Mio padre è entrato in soggiorno, in veste da camera. -Qualcuno che conosci? A quest’ora? - E’ un idiota, - dico, mentre il campanel o adesso squil a al ritmo di Shave and a Haircut. - Che c’è? -chiede mia madre dalla camera da letto. - Niente, mamma. Dormi. Decido di parlare un’ultima volta nel citofono. - Dacci un taglio o chiamo la polizia. - E chiamala. Non sto mica commettendo un reato, ragazzino. Perché non mi fai salire? Non sono mezzo matto, sai. Sono matto del tutto. Mio padre, che adesso è in piedi di fianco a me, è impallidito. -Papà, - dico, - torna a letto. Sono cose che capitano a New York. Non ti preoccupare. - Ti conosce? -No. - Al ora cosa ci fa qui? Perché parla in questo modo? Una pausa, e il citofono torna a squil are. Ormai esasperato, dico: - Perché il tipo da cui subaffitto è omosessuale. . e a quanto ho capito questo è un suo amico. - Ebreo? - Quel o da cui affitto? Sì. - Gesù, - sbotta mio padre, - cosa diavolo gli passa per la testa, a certa gente? - Forse è meglio se scendo. - Da solo? - Andrà tutto bene. - Non scherzare. . due è meglio di uno. Vengo con te. -Papà, non c’è bisogno. Dalla camera mia madre chiama: - Al ora? -Niente, - dice mio padre. - Il campanel o si è incantato. Scendiamo a sistemarlo. - A quest’ora? - grida lei. - Torniamo subito, - replica mio padre. - Resta a letto -. A me sussurra:- Hai un bastone, una mazza o qualcosa? - No, no. . - E se è armato? Hai almeno un ombrel o? Nel frattempo gli squil i sono cessati. - Forse se n’è andato, - dico. Mio padre tende l’orecchio. - Andato, - dico. - Ha smesso. Mio padre però ormai non ha intenzione di tornare a letto. Chiudendo la porta del a camera, - Shhh, - sussurra a mia madre, - va tutto bene, dormi, - poi viene a sedersi di fronte al divano. Sento quant’è affannoso il suo respiro ora che si accinge a parlare. Neanch’io sono molto rilassato. Appoggio la schiena rigida contro il cuscino, nel ‘attesa che il campanel o si rimetta a squil are. - Forse ti sei cacciato in qualche impiccio, - si schiarisce la gola, - di cui mi vorresti parlare. . - Non dire sciocchezze. - Ci hai lasciato quando avevi diciassette anni, e da allora non ci siamo mai intromessi con le influenze che subisci. - Papà, non subisco nessuna«influenza». - Voglio farti una domanda. Diretta. -Dimmi. - Non si tratta di Helen. Non ti ho mai chiesto di lei, e non intendo cominciare adesso. L’ho sempre trattata da nuora. Io e tua madre l’abbiamo sempre rispettata, non è vero? - Sì, certo. - Ho tenuto a bada la lingua. Non volevamo mettercela contro. Non può avere niente da rimproverarci. Tutto considerato, direi che siamo stati impeccabili. Io sono una persona liberale, figliolo. . e in politica sono ancor più che liberale. 48Sai che nel 1924 ho votato per Norman Thomas come governatore di New York la prima volta che sono andato a votare? E nel ‘48 ho votato per Henry Wallace. . magari è stato un errore, un’assurdità, ma il punto è che sono stato forse l’unico albergatore del ‘intero paese a votare per un uomo a cui tutti davano del comunista. E non lo era.. ma il punto è che non sono mai stato un uomo dalle vedute ristrette, mai. Tu sai, e se non lo sai lo dovresti sapere, che quel che mi dava fastidio non era che fosse una shiksa. Le shiksa fanno parte del a vita, e non scompariranno solo perché così i genitori ebrei si sentirebbero meglio. Del resto perché dovrebbero? Io credo nel ‘armonica convivenza di tutte le razze e tutte le religioni, e per me e tua madre il problema non era che tu avessi sposato una gentile. Su questo punto siamo stati irreprensibili. Ma ciò non significa che io riuscissi a mandar giù tutto il resto, a cominciare dai suoi modi. La verità, se vuoi saperla, è che nei tre anni del tuo matrimonio non ho dormito tranquil o neanche una notte. - Be’, neppure io. -Davvero? E allora perché diavolo non te la sei filata? E soprattutto perché ti sei ficcato in quel pasticcio? -Vuoi proprio che ne parliamo? - No, no. . hai ragione. . al diavolo. Per quanto mi riguarda, se non dovessi mai più sentirla nominare sarebbe solo un sol ievo. E’ per te che mi preoccupo. - Cosa volevi chiedermi? -David, cos’è il Tofrinal? Nel ‘armadietto dei medicinali ne ho visto un flacone bel o grosso. Per cosa lo prendi? - E’ un antidepressivo. Tofranil. Sibila. Disgusto, frustrazione, incredulità, disprezzo. Quel suono l’ho sentito la prima volta un centinaio d’anni fa quando mio padre ha dovuto licenziare un cameriere che aveva bagnato il letto appestando la soffitta dove dormiva. - E perché ne hai bisogno? Chi ti ha detto di prendere una roba del genere e mandartela in circolo nel sangue? - Uno psichiatra. - Vai dallo psichiatra? - Sì? - Perché? -stril a. - Per tenermi a galla. Per fare chiarezza. Per avere qualcuno con cui parlare. . in confidenza. - Perché non ti prendi una moglie per confidarti? E’ a questo che servono le mogli! E intendo una moglie vera, non una che ti scialacqua l’intero stipendio in saloni di bel ezza. E’ tutto sbagliato, figliolo. Non è questo il modo giusto di vivere! Uno psichiatra, farmaci pesanti, gente che si fa viva a tutte le ore. . persone che non sono neanche persone. . - Non c’è niente per cui scaldarsi tanto. -C’è tutto per cui scaldarsi. - No, no, - dico abbassando la voce. - Papà, c’è solo mamma.. Si mette una mano sugli occhi e comincia a piangere in silenzio. L’altra mano la stringe a pugno e me la mostra. - Così ho dovuto essere per tutta la mia vita! Senza psichiatri, senza pil ole del a felicità! Non mi sono mai dato per vinto! Ancora una volta squil a il citofono. - Lascia stare. Lascia che suoni, papà. Se ne andrà. - Per poi tornare? Gli spacco la testa e allora, credimi, non si farà più vedere! A quel punto la porta del a camera si apre e appare mia madre in camicia da notte. - A chi spacchi la testa? - A una lurida checca che non lo lascia in pace! Di nuovo il campanel o: due brevi, una lunga; due brevi, una lunga. Wally è ubriaco. Adesso anche lei, la mia minuscola madre, ha le lacrime agli occhi, e dice: - Capita spesso? No. - Ma.. perché non lo denunci? - Perché prima che la polizia arrivi lui se n’è già andato. Per cose del genere non si chiama la polizia. - E mi giuri - dice mio padre - che non è una persona che conosci? - Te lo giuro. Mia madre entra in soggiorno e si siede accanto a me. Mi prende la mano e la stringe. Ascoltiamo tutt’e tre il campanel o: madre, padre e figlio. - Sai cosa ci vorrebbe per sistemare quel figlio di puttana una volta per sempre? - dice mio padre. - Acqua bol ente. - Abel - stril a mia madre. - Gli insegnerebbe a starsene al suo posto! - Papà, non farla più grossa di quel o che è. - E tu non farla più piccola! Perché giri con gente simile? - Ma non giro con loro. - Perché allora vivi in un posto come questo, dove vengono a darti il tormento? Devi proprio cacciarti in altri guai? - Calmati, ti prego, -49dice mia madre. - Non è colpa sua se un maniaco gli suona il campanel o. Siamo a New York. Te l’ha detto. Sono cose che capitano. - Ciò non significa che non bisogna difendersi, Bel e! - Balza in piedi, si precipita al citofono. - Ehi tu! - urla. - Dacci un taglio! Sono il padre di David. .! Io accarezzo il braccio, già scheletrico, di mia madre e sussurro: - Va tutto bene, in ogni caso non lo sa far funzionare. Mamma, non preoccuparti, quel o non lo sente. - . . se vuoi una scottatura di terzo grado, te la procuriamo subito! Fa’ quel che vuoi nel e fogne da cui sei uscito, ma da’ retta a me, è meglio che giri alla larga da mio figlio! Due mesi dopo, all’ospedale di Kingston, mia madre muore. Dopo che gli ospiti del funerale se ne sono andati, mio padre mi dice di prendere il cibo che lei mi ha surgelato appena un mese prima, le ultime cose da lei cucinate su questa terra. Dico: -E tu cosa mangerai? - Io preparavo piatti veloci prima ancora che tu nascessi. Prendile. Prendi le cose che ti ha cucinato. - Papà, come farai a vivere qui senza nessuno? Come te la caverai con la stagione? Perché hai cacciato via tutti? Non fare l’eroe. Non puoi stare qui da solo. - So badare a me stesso. La sua scomparsa non è giunta imprevista. Per favore, prendile. Prendi tutto quanto. Lei voleva così. Diceva che ogni volta che le veniva in mente l’interno del tuo frigorifero, vedeva rosso. Le ha cucinate per te, -dice con voce tremante, - e poi se n’è andata -. Comincia a singhiozzare. Lo abbraccio. - Nessuno la capiva, - dice lui, - gli ospiti non l’hanno mai capita, mai. Era una brava persona, Davey. Da giovane tutto la entusiasmava, anche le minime cose. La sua natura nervosa emergeva solo d’estate, quando il lavoro diventava frenetico, sfuggiva di mano. E loro la prendevano in giro. Ma ricordi l’inverno? La pace e la tranquil ità? Quanto ci divertivamo? Ricordi le lettere che leggevamo la sera? - E’ troppo: per la prima volta, dalla sua morte il giorno prima, scoppio a piangere. - Certo che me ne ricordo, certo. -Oh, figliolo, in quei momenti era se stessa. Però chi lo veniva a sapere? - Noi, -rispondo io, ma lui ripete con un singhiozzo rabbioso:- Chi lo veniva a sapere! Mi porta alla macchina il cibo surgelato in una borsa del a spesa. - Ecco, ti prego, alla sua memoria -. Così parto per New York con cinque o sei contenitori ognuno con la medesima etichetta scritta a macchina: «Lingua con la famosa salsa di uva passa del a nonna - 2 porzioni». Nel giro di una settimana, sono nuovamente di ritorno in montagna, questa volta insieme allo zio Larry, per accompagnare mio padre a Cedarhurst, dove si trasferirà a vivere col fratello e la cognata. Ma solo temporaneamente, dice mentre carichiamo in macchina la valigia; solo finché non si sarà ripreso dal trauma. Gli basterà qualche giorno per rimettersi in sesto. Deve farcela, punto e basta. - Lavoro da quando avevo quattordici anni. Non posso cedere adesso, - dice. - Bisogna stringere la cinghia e tirare avanti -. Inoltre è inverno, e lassù c’è sempre il rischio di un incendio. Sì, resteranno il factotum e la moglie, ma nul a vieta che l’albergo prenda fuoco durante la sua assenza. E’ vero, in effetti, che decine di alberghi e pensioni abbandonati sono bruciati in misteriosi incendi da quando la regione ha cominciato a passare di moda fra gli ebrei come località turistica estiva, all’incirca negli anni in cui io ero alcol ege; ma dato che lui e mia madre sono riusciti, anche in anni recenti, a conservare almeno una parte del a vecchia clientela così da mantenere in buono stato l’edificio principale e il terreno circostante, i piromani non gli sono mai sembrati una minaccia seria. Invece adesso, mentre scendiamo lungo la superstrada, non riesce a pensare ad altro. Nomina a me e a mio zio i teppisti locali - «Uomini fatti, uomini di trenta o quarantanni!» - su cui cadono i suoi sospetti. - No, no, - dice a mio zio che ha emesso il suo solito verdetto sul ‘origine del problema, - non sono neppure antisemiti. Troppo stupidi 50anche per quel o! Sono semplici idioti, dementi buoni a nul a che dovrebbero starsene in manicomio. Gente a cui piace vedere le fiamme! E quando tutto sarà in cenere, lo sapete chi accuseranno? E’ già successo un sacco di volte. Me! Diranno che l’ho fatto per l’assicurazione! Perché mia moglie se n’è andata e io volevo chiudere! Macchieranno il mio buon nome! A volte mi viene un sospetto. E se fossero i vigili del fuoco volontari? Sì. . così possono sfrecciare con i loro camion nel cuore del a notte e fare su e giù per le montagne in stivali ed elmetto!