sabato 5 febbraio 2022

L'UMILIAZIONE Philip Roth



 L'UMILIAZIONE 

 Philip Roth 

Recensione
In questo racconto, Philip Roth ci mostra l’uomo nella sua integrità, con tutte le sue debolezze, l’amore, il talento e le energie.
L’uomo che perde tutto e che deve trovare la forza dentro di sé per affrontare le umiliazioni che la vita spesso ci butta addosso.
Dopo Everyman e Indignazione, con L’umiliazione di Philip Roth continua questa carrellata dedicata ai molteplici modi in cui gli uomini possono andare incontro al fallimento. Questa è la storia di Simon Axler, attore di teatro ormai sessantacinquenne che, d’un tratto, subisce un crollo psichico dopo un clamoroso fallimento di recitazione durante una rappresentazione teatrale.
[...]Axler ce la metteva tutta per essere sincero e arrivare così alle origini della propria condizione – e con questo recuperare i suoi poteri -, ma aveva l’impressione che dalle cose che diceva rivolto alla figura attenta e comprensiva dello psichiatra non affiorasse alcuna causa dell'”incubo universale”. Il che rendeva l’incubo ancor più angoscioso. Nondimeno, continuava a parlare col dottore, ogni volta che si faceva vivo. Perché no? A un certo grado di infelicità, le provi tutte per spiegare cosa ti sta capitando, anche se sai che non spiegano nulla e che sono solo una sfilza di spiegazioni mancate.[...]
Cosa è l’umiliazione? Roth ci dice che è qualcosa che si fa largo ovunque prenda il sopravvento il sentimento di essere fuori posto, lì dove regna l’incertezza su di sé e la propria condizione. L’umiliazione è un improvviso crollo di sé, l'avanzare di una umiltà fasulla perché senza una consapevole adesione alla realtà. L’umiliazione è il franare della propria idea di sé che ci si auto-infligge. In questo senso L’umiliazione è, ciò che emerge anche dalle pagine di Everyman e Indignazione: La strada di un uomo è disseminata di trappole“. Fino ad arrivare  alla  trappola delle trappole, ossia alla morte, 

Capitolo primo

In aria sottile

Aveva perso la sua magia. L’impeto era venuto meno. In teatro non aveva mai fallito, tutto ciò che aveva fatto era stato valido e convincente, poi gli successe una cosa terribile: non era piú capace di recitare. Andare in scena divenne un tormento. Invece di avere la certezza che sarebbe stato magnifico, sapeva che avrebbe fatto fiasco. Accadde tre volte di seguito, e l’ultima volta Axler smise di interessare alla gente, e in teatro non venne piú nessuno. Non era piú capace di conquistare il pubblico. Il suo talento era morto.

Naturalmente, se un tempo ce l’avevi, in te ci sarà sempre qualcosa di diverso dagli altri. Io sarò sempre diverso dagli altri, diceva Axler tra sé, perché sono quello che sono. Me lo porto dentro, e la gente se ne ricorderà sempre. Ma l’aura che lo aveva circondato, tutti i suoi vezzi e le sue eccentricità e le sue personali specificità, tutto ciò che aveva funzionato per Falstaff, Peer Gynt e zio Vanja – ciò che aveva procurato a Simon Axler la reputazione di ultimo dei grandi attori del teatro classico americano –, nulla di tutto questo funzionava piú per alcun ruolo. Proprio ciò che prima aveva fatto di lui quel che era, adesso faceva di lui un pazzo. Era consapevole di ogni momento trascorso in scena, nel senso peggiore. In passato, quando recitava, non pensava a niente. Ciò che faceva bene, lo faceva per istinto. Ora pensava a tutto, annientando ogni forma di spontaneità e vitalità: cercava di controllarle col pensiero e invece le distruggeva. D’accordo, si diceva Axler, stava attraversando un momentaccio. Anche se aveva piú di sessant’anni, forse gli sarebbe passata mentre era ancora riconoscibilmente se stesso. Non era il primo attore consumato al quale fosse toccata una cosa simile. Capitava a un sacco di gente. Ci sono già passato, pensò, e troverò una soluzione. Non so dove andrò a prenderla, questa volta, ma la troverò: passerà.

Non passò. Non era capace di recitare. Come riusciva a catturare l’attenzione del pubblico, una volta! E ora temeva ogni rappresentazione, e la temeva per l’intera giornata. Prima di una rappresentazione pensava tutto il giorno a cose che non gli erano mai venute in mente in vita sua: non ce la farò, non ne sarò capace, mi hanno dato una parte sbagliata, sto facendo il passo piú lungo della gamba, sono un impostore, non so nemmeno come recitare la prima battuta. E intanto cercava di occupare le ore facendo, per prepararsi, cento cose in apparenza necessarie: devo dare un’altra occhiata a questo monologo, devo riposarmi, devo fare esercizio fisico, devo dare un’altra occhiata a quel monologo, e quando arrivava in teatro era sfinito. E terrorizzato all’idea di andare in scena. Sentiva avvicinarsi sempre piú il momento in cui gli avrebbero dato la battuta e sapeva che non ce l’avrebbe fatta. Aspettava la libertà di iniziare e il momento di diventare reale, aspettava di scordare chi era e diventare la persona che agiva, e invece stava là, completamente svuotato, recitando nel modo in cui si recita quando non sai quello che fai. Non era capace di dare né di trattenere; mancava di fluidità e mancava di riserbo. Recitare era diventata la fatica quotidiana di uno che cerca di passarla liscia.

Tutto era cominciato con la gente che gli si rivolgeva. Non poteva avere piú di tre o quattro anni, e già era ipnotizzato dalle parole che pronunciava e da quelle che gli venivano rivolte. Gli era sembrato fin dall’inizio di trovarsi in una recita. Sapeva servirsi dell’intensità dell’ascolto, della concentrazione, come gli attori meno grandi di lui si servivano di piú chiassosi virtuosismi. Aveva questo potere anche fuori dalla scena, soprattutto, quando era piú giovane, con le donne, che non si accorgevano di avere una storia fino al giorno in cui era lui a rivelare loro di avere una storia, una voce e uno stile che non apparteneva a nessun altro. Diventavano attrici con Axler, diventavano le eroine della propria vita. Pochi attori teatrali sapevano parlare e ascoltare come lui, ma ormai non era piú capace di fare né l’una né l’altra cosa. Era come se i suoni che un tempo gli entravano nell’orecchio ora ne uscissero, e ogni parola che pronunciava sembrava recitata anziché detta. La fonte originaria della sua recitazione era in ciò che udiva, il nocciolo era la sua reazione a ciò che udiva, e se non era piú capace di ascoltare, se non era piú capace di udire, non aveva piú niente su cui basarsi.

Gli chiesero di interpretare Prospero e Macbeth al Kennedy Center – difficile pensare a un doppio programma piú ambizioso – e lui fece miseramente fiasco in ambedue i ruoli, ma soprattutto in quello di Macbeth. Non era piú capace di fare uno Shakespeare a bassa intensità e non era piú capace di fare uno Shakespeare ad alta intensità, e pensare che aveva fatto Shakespeare per tutta la vita. Il suo Macbeth era ridicolo, e quelli che lo videro lo dissero senza eccezione, e altrettanto fecero molti che non lo avevano visto. «No, non hanno neanche bisogno di esserci stati – diceva lui – per insultarti». Molti attori, per aiutarsi, si sarebbero dati al bere; c’era una vecchia barzelletta su un attore che beveva sempre prima di andare in scena, e che quando lo esortarono a non bere replicò: «Come, dovrei andare là fuori da solo?» Ma Axler non beveva, e cosí invece crollò. Il suo crollo fu monumentale.

La cosa peggiore era che vedeva il proprio crollo con la stessa lucidità con cui si vedeva recitare. La sofferenza era atroce, e tuttavia lui dubitava che fosse genuina, il che la rendeva anche peggiore. Non sapeva come passare da un minuto all’altro, era come se la mente gli si stesse liquefacendo, aveva il terrore di stare da solo, non riusciva a dormire piú di due o tre ore per notte, mangiava appena, ogni giorno pensava di ammazzarsi con l’arma che aveva in solaio – un fucile a pompa Remington 870 che teneva nella casa isolata per autodifesa – e nondimeno gli sembrava tutta una commedia, una commedia recitata male. Quando reciti la parte di uno che sta crollando, la tua interpretazione ha un ordine e una coerenza; quando la persona che vedi crollare sei tu, e quella che stai recitando è la tua fine, è tutta un’altra cosa, una cosa spaventosa e terrorizzante.

Non riusciva a convincersi di essere impazzito, non piú di quanto fosse riuscito a convincere se stesso o chiunque altro di essere Prospero o Macbeth. Era artificiale anche come pazzo. L’unica parte disponibile per lui era quella di uno che interpreta una parte. Un uomo sano di mente nella parte di un alienato. Un uomo equilibrato nella parte di un folle. Un uomo controllato nella parte di un uomo incontrollabile. Un uomo di successo, un interprete di grande notorietà – un attore massiccio e corpulento alto quasi due metri, con una grossa testa calva e il fisico forte e peloso di un attaccabrighe, con una faccia capace di trasmettere una molteplicità di sentimenti, la mascella risoluta, due severi occhi scuri e una bocca piuttosto grande che sapeva torcere in qualunque direzione, e una voce bassa e imperiosa che veniva dai precordi e aveva sempre dentro una sorta di ringhio, un uomo che sapeva di essere grande e sembrava poter affrontare qualunque cosa e corrispondere a tutti i ruoli richiesti a un uomo, personificazione di una forza invulnerabile che pareva aver assorbito in se stessa l’egoismo di un gigante buono – nella parte di un ometto insignificante. Alte grida gli sfuggivano quando si svegliava durante la notte e scopriva di essere ancora imprigionato nella parte di un uomo che era stato privato di se stesso, del proprio talento e del posto che occupava nel mondo, un uomo disgustoso che non era altro che l’inventario dei propri difetti. La mattina se ne stava nascosto a letto per ore ma, invece di nascondersi da quel ruolo, recitava quel ruolo. E quando finalmente si alzava, l’unica cosa a cui riusciva a pensare era il suicidio, e non la sua simulazione. Un uomo che voleva vivere nella parte di un uomo che voleva morire.

Intanto, le piú famose parole di Prospero non lo lasciavano in pace, forse perché ne aveva fatto scempio di recente. Gli si ripetevano nella testa con tanta regolarità che ben presto diventarono una cacofonia di suoni tortuosamente privi di significato e di riferimenti ma con la forza di un incantesimo destinato proprio a lui. «Sono finiti i nostri giochi. Quegli attori, | Come ti avevo detto, erano solo fantasmi e | Si sono sciolti in aria, in aria sottile». Non poteva far niente per cancellare quelle tre parole, «in aria sottile», che gli si ripetevano caotiche nella testa mentre giaceva impotente nel suo letto la mattina, e che possedevano l’aura di un oscuro atto d’accusa, benché il loro significato gli sfuggisse sempre di piú. Tutta la sua complessa personalità era alla mercé di quell’«aria sottile».

Victoria, la moglie di Axler, non era piú in grado di occuparsi di lui e aveva ormai bisogno lei stessa di cure. Piangeva ogni volta che lo vedeva al tavolo della cucina, con la testa tra le mani, incapace di mangiare il pasto che lei aveva preparato. «Assaggia qualcosa», implorava, ma lui non mangiava niente, non diceva niente, e presto Victoria cominciò a spaventarsi. Non lo aveva mai visto cedere cosí, nemmeno otto anni prima, quando i suoi anziani genitori erano morti in un incidente stradale con suo padre al volante. Allora aveva pianto e aveva tirato avanti. Aveva sempre tirato avanti. Il colpo poteva essere duro, ma l’interpretazione non mostrava incertezze. E quando era Victoria a essere agitata, lui le faceva coraggio e l’aiutava a superare le difficoltà. C’era sempre stato un grosso problema di droga col figlio errabondo di lei. C’erano il continuo cruccio dell’invecchiare e la fine della sua carriera. Quante delusioni, ma lui era lí e Victoria le aveva sopportate. Ah, se ci fosse stato lui, ora che l’uomo su cui aveva sempre contato non c’era piú!

Negli anni Cinquanta Victoria Powers era stata la piú giovane favorita di Balanchine. Poi si fece male a un ginocchio, subí un’operazione, riprese a ballare, tornò a farsi male, subí un’altra operazione, e quando si fu rimessa per la seconda volta la piú giovane favorita di Balanchine era un’altra. Non recuperò piú il suo posto. Ci fu un matrimonio, il figlio, un divorzio, un secondo matrimonio, un secondo divorzio, poi Victoria si innamorò di Simon Axler che, quando vent’anni prima era venuto dal college a New York per fare carriera in teatro, andava al City Center a vederla danzare, non perché amasse il balletto ma per come Victoria riusciva a eccitare la sua concupiscenza giovanile toccando le corde delle piú tenere emozioni: in seguito lei gli rimase in mente per anni come l’incarnazione stessa del pathos erotico. Allorché si conobbero, da quarantenni, nei tardi anni Settanta, molto tempo era passato da quando le avevano offerto una parte, anche se lei andava risolutamente tutti i giorni ad allenarsi in uno studio della zona. Aveva fatto il possibile per tenersi in forma e conservare un aspetto giovanile, ma ormai il suo pathos superava qualunque capacità avesse mai avuto di dominarlo artisticamente.

Dopo la débâcle del Kennedy Center e il crollo inaspettato del marito, anche Victoria cedette, e fuggí in California per stare vicino a suo figlio.

Tutt’a un tratto Axler rimase solo nella casa di campagna, col terrore di togliersi la vita. Non c’era piú nulla

che glielo impedisse. Ora poteva fare ciò che non era riuscito a fare finché c’era Victoria: salire le scale che portavano in solaio, caricare il fucile, mettersi la canna in bocca e abbassare le lunghe braccia fino a raggiungere quel punto sensibile che è il grilletto. Dopo la moglie, il fucile. Ma quando lei se ne fu andata, lui non resse neppure un’ora da solo – non fece nemmeno la prima rampa delle scale che portavano in solaio – che già telefonava al medico per chiedergli di provvedere al suo ricovero in una clinica psichiatrica quel giorno stesso. Entro qualche minuto il medico gli aveva trovato un posto a Hammerton, un piccolo ospedale con una buona reputazione a qualche ora di strada verso nord.

Ci restò per ventisei giorni. Dopo aver avuto il colloquio, aver disfatto la valigia, aver consegnato ogni oggetto tagliente a un’infermiera e aver lasciato i preziosi in custodia alla segreteria, rimasto solo nella stanza che gli avevano assegnato, si mise a sedere sul letto e cercò di ricordare, uno dopo l’altro, tutti i ruoli che aveva interpretato con assoluta sicurezza da quando era diventato, a poco piú di vent’anni, attore professionista: cos’aveva distrutto, ora, quella sicurezza? Cosa ci faceva in quella stanza d’ospedale? Era nata una caricatura di se stesso che prima non esisteva, una caricatura senza fondamento, e quella caricatura di se stesso era lui: com’era potuto succedere? Era stato solo il passare del tempo a provocare la decadenza e il crollo? Era un effetto dell’età? Il suo fisico era ancora imponente. Le sue aspirazioni di attore non erano cambiate, e neppure il suo modo scrupoloso di prepararsi per una parte. Non c’era nessuno piú serio, piú diligente e piú meticoloso di lui, nessuno che si prendesse piú cura del proprio talento o che meglio di lui si fosse adattato alle mutevoli condizioni di una carriera teatrale nell’arco di tanti decenni. Smettere cosí precipitosamente di essere l’attore che era: inspiegabile, come se una notte mentre dormiva fosse stato disarmato del peso e della sostanza della sua esistenza professionale. La capacità di parlare e di ascoltare sulla scena: ecco di che si trattava, alla fin fine, ed era questo che non c’era piú.

Lo psichiatra che lo visitò, il dottor Farr, dubitava che quanto gli era accaduto potesse veramente essere fortuito, e nelle loro sedute bisettimanali gli chiese di esaminare le circostanze della sua vita che avevano preceduto l’improvviso manifestarsi di quello che il dottore definiva «un incubo universale». Con ciò intendeva dire che la disgrazia che aveva colpito l’attore – andare in scena e scoprirsi incapace di recitare, lo shock per quel senso di impotenza – era il contenuto dei sogni inquietanti di un gran numero di individui, individui che, diversamente da Simon Axler, non erano attori di professione. Andare in scena e scoprire di essere incapaci di recitare faceva parte del repertorio classico dei sogni che un giorno o l’altro quasi tutti i pazienti riferivano. Quello, e anche camminare nudi in un’affollata strada cittadina o presentarsi impreparati a un esame decisivo o cadere in un burrone o scoprire in autostrada che i freni non funzionano. Il dottor Farr chiese ad Axler di parlare del suo matrimonio, della morte dei genitori, dei rapporti col figliastro drogato, dell’infanzia, dell’adolescenza, degli esordi come attore, di una sorella maggiore che era morta di lupus quando lui aveva vent’anni. Il dottore volle sentire soprattutto i particolari delle settimane e dei mesi che avevano preceduto l’apparizione al Kennedy Center, e volle sapere se di quel periodo ricordava qualcosa di fuori dell’ordinario, grande o piccolo che fosse. Axler ce la metteva tutta per essere sincero e arrivare cosí alle origini della propria condizione – e con questo recuperare i suoi poteri –, ma aveva l’impressione che dalle cose che diceva rivolto alla figura attenta e comprensiva dello psichiatra non affiorasse alcuna causa dell’«incubo universale». Il che rendeva l’incubo ancora piú angoscioso. Nondimeno, continuava a parlare col dottore, ogni volta che si faceva vivo. Perché no? A un certo grado di infelicità, le provi tutte per spiegare cosa ti sta capitando, anche se sai che non spiegano nulla e che sono solo una filza di spiegazioni mancate.

Si trovava all’ospedale da una ventina di giorni quando venne una notte in cui, invece di svegliarsi alle due o alle tre e di giacere insonne e paralizzato dal terrore fino all’alba, dormí senza interruzione fino alle otto del mattino, cosí tardi per gli standard ospedalieri che un’infermiera dovette entrare nella sua stanza per svegliarlo in modo che potesse raggiungere gli altri pazienti in sala da pranzo per la colazione delle 7,45 e poi iniziare la giornata, che comprendeva terapia di gruppo, arteterapia, un consulto col dottor Farr e una seduta con la fisioterapista, che faceva del suo meglio per curargli i perenni dolori alla colonna vertebrale. Ogni ora di veglia era riempita da attività e appuntamenti per evitare che i pazienti si ritirassero nelle proprie stanze a stendersi sul letto depressi e infelici o si intrattenessero fra loro, come alcuni di essi facevano comunque la sera, per parlare dei modi in cui avevano cercato di uccidersi.

Diverse volte Axler si era seduto in un angolo della sala comune col gruppetto di pazienti che avevano tentato il suicidio per ascoltarli mentre ricordavano l’ardore con cui avevano deciso di morire e rimpiangevano di non esserci riusciti. Ognuno di essi restava immerso nella grandezza del proprio tentativo e nell’ignominia dell’esservi sopravvissuto. Erano affascinati dal fatto che la gente potesse farlo veramente, potesse controllare la propria morte: era il loro argomento naturale, come lo sport per i ragazzi. Alcuni raccontavano di essere stati presi, allorché avevano tentato di uccidere se stessi, da qualcosa di simile all’eccitazione che deve impadronirsi di uno psicopatico quando uccide un’altra persona. Una giovane donna disse: – A te stesso e a tutti coloro che ti circondano sembri paralizzato e del tutto impotente, eppure puoi decidere di compiere l’atto piú difficile che ci sia. È esaltante. È corroborante. È euforico. – Sí, – disse un altro, – c’è una macabra euforia. La tua vita sta andando a pezzi, non esiste piú un centro, e il suicidio è l’unica cosa che sei in grado di controllare –. Un uomo anziano, un insegnante in pensione che aveva cercato di impiccarsi nel garage, tenne loro una lezione su ciò che gli «estranei» pensano del suicidio. – L’unica cosa che ognuno vuole fare davanti al suicidio è spiegarlo. Spiegarlo e giudicarlo. È cosí agghiacciante per chi rimane indietro che deve pur esserci un modo di trovare una spiegazione. Alcuni lo considerano un atto di codardia. Alcuni lo considerano criminale, un crimine contro i superstiti. Un’altra scuola di pensiero lo trova eroico e lo considera un atto di coraggio. Poi ci sono i puristi. Per loro il problema è: era giustificato, c’era un motivo sufficiente? Il punto di vista piú clinico, che non è né punitivo né idealizzante, è quello dello psicologo, che tenta di descrivere lo stato d’animo del suicida, qual era il suo stato d’animo nel momento in cui l’ha fatto –. Andava avanti tediosamente in questa vena piú o meno tutte le sere, come se non fosse un paziente angosciato come gli altri ma un conferenziere invitato dall’ospedale a esprimersi sul tema che li ossessionava notte e giorno. Una sera Axler prese la parola: per esibirsi, si rese conto, davanti al suo pubblico piú numeroso da quando aveva smesso di recitare. – Il suicidio è il ruolo che scrivi per te stesso, – disse loro. – Tu entri nella parte e la reciti. Tutto viene allestito con cura: dove ti troveranno e come ti troveranno –. Poi soggiunse: – Però si va in scena una volta sola.

Nel corso di quelle conversazioni le cose piú intime venivano rivelate facilmente e senza vergogna; il suicidio sembrava una grandissima aspirazione e la vita, una condizione detestabile. Tra i pazienti incontrati da Axler ce n’erano alcuni che lo riconobbero subito per il pugno di film che aveva fatto, ma erano troppo immersi nei propri travagli per prestargli piú attenzione di quanta ne prestassero a chiunque altro tranne se stessi. E il personale era troppo indaffarato per lasciarsi distrarre a lungo dalla sua reputazione teatrale. Axler all’ospedale era quasi irriconoscibile, non solo per gli altri ma anche per se stesso.

Dal momento in cui aveva riscoperto il miracolo di una notte di sonno e aveva dovuto essere svegliato dall’infermiera per fare colazione, cominciò a sentire che la paura diminuiva. Gli avevano dato un antidepressivo che non era adatto a lui, poi un secondo, e infine un terzo che non aveva intollerabili effetti collaterali, ma se gli giovasse, non lo sapeva. Stentava a credere che quel miglioramento avesse qualcosa a che fare con le pillole o con le visite dello psichiatra o la terapia di gruppo o l’arteterapia, tutti esercizi che gli parevano inutili. La cosa che continuava a spaventarlo, mentre si avvicinava il giorno in cui lo avrebbero dimesso, era che nulla di ciò che gli stava capitando sembrava aver a che fare con tutto il resto. Come aveva spiegato al dottor Farr – convincendosene ulteriormente per aver cercato con tutte le sue forze di trovare una causa durante le loro sedute –, aveva perso la sua magia di attore senza una valida ragione, e fu altrettanto arbitrariamente che il desiderio di porre fine alla sua vita cominciò a scemare, almeno per il momento. – Niente ha una valida ragione per succedere, – disse quel giorno al medico. – Perdere, vincere, è tutto un capriccio. L’onnipotenza del capriccio. La probabilità dell’inversione. Sí, l’imprevedibile inversione e il suo potere.

Verso la fine del suo ricovero Axler si fece un’amica, e ogni sera che cenavano insieme lei gli ripeteva la propria storia. L’aveva incontrata per la prima volta ad arteterapia, e da allora sedevano in sala da pranzo l’uno davanti all’altra a un tavolo per due, chiacchierando come una coppia durante un appuntamento o – dati i trent’anni d’età che li separavano – come un padre e una figlia, ancorché del tentato suicidio di lei. Quando si erano conosciuti – un paio di giorni dopo l’arrivo della donna –, nell’aula d’arte c’erano soltanto loro due con la terapeuta, la quale, come se fossero bambini dell’asilo, aveva consegnato a ciascuno un foglio di carta bianca e una scatola di pastelli con cui giocare, e aveva detto loro di disegnare ciò che volevano. In quella stanza mancavano solo i tavolini bassi e le seggioline, pensò lui. Per soddisfare la terapeuta, lavorarono in silenzio per quindici minuti e poi, sempre per farla contenta, ascoltarono attentamente l’interpretazione che ciascuno dei due dava del disegno dell’altro. Lei aveva fatto una casa con giardino e lui un ritratto di se stesso che faceva un ritratto, «il disegno – spiegò alla terapeuta quando gli chiese cos’aveva disegnato – di un uomo che ha avuto un esaurimento nervoso e si fa ricoverare in un ospedale psichiatrico e va ad arteterapia e riceve dalla terapeuta la richiesta di fare un disegno». – E se lei dovesse dare un titolo al suo disegno, Simon? Quale sarebbe? – È facile. «Cosa diavolo ci faccio qui?»

Gli altri cinque pazienti che avrebbero dovuto partecipare alla seduta di arteterapia o erano tornati a letto, incapaci di far altro che stare là distesi e piangere, oppure, come fosse loro capitata un’emergenza, erano corsi senza appuntamento allo studio del loro medico e sedevano nella sala d’aspetto preparandosi a lamentarsi della moglie, del marito, del figlio, del capoufficio, della madre, del padre, del fidanzato, della fidanzata: chiunque fosse che non volevano vedere mai piú, o che sarebbero stati disposti a rivedere purché il medico fosse presente e non ci fossero urla o violenze o minacce di violenza, o di cui sentivano orribilmente la mancanza e senza cui non potevano vivere e avrebbero fatto qualunque cosa per riavere. Ciascuno di essi sedeva aspettando il suo turno per accusare un genitore, vilipendere un fratello, sminuire un compagno, giustificarsi o criticarsi aspramente o compatirsi. Uno o due di essi che erano ancora capaci di concentrarsi – o che fingevano di concentrarsi, o si sforzavano di concentrarsi – su qualcosa di diverso dall’inferno delle loro lamentele sfogliavano, aspettando il dottore, una copia di «Time» o di «Sports Illustrated» o prendevano in mano il giornale del posto e provavano a fare le parole crociate. Tutti gli altri sedevano in un cupo silenzio, internamente tesi e intenti a ripassare tra sé – nel lessico della psicologia pop o dell’oscenità da trivio o della cristiana sofferenza o della patologia paranoide – gli antichi temi della letteratura drammatica: incesto, tradimento, ingiustizia, crudeltà, vendetta, gelosia, rivalità, desiderio, perdita, disonore e lutto.

Lei era una bruna minuta e pallida con la fragilità ossea di una bambina malata di un quarto della sua età. Si chiamava Sybil Van Buren. Agli occhi dell’attore, il suo era il corpo di una trentacinquenne che non soltanto non voleva essere forte, ma temeva persino l’aspetto esteriore della forza. Eppure, per quanto fosse gracile e delicata, gli aveva detto, lungo il viottolo che da arteterapia portava all’edificio residenziale: – Vuoi cenare con me, Simon? – Sorprendente. C’era ancora in lei una sorta di desiderio di non essere inghiottita. O forse gli aveva chiesto di stare al suo fianco nella speranza che con un po’ di fortuna si accendesse tra loro qualcosa che avrebbe completato la sua distruzione. Axler era una balena abbastanza grossa per questo compito, piú che abbastanza per un mucchietto di relitti galleggianti come lei. Anche lí – dove, senza l’aiuto della farmacopea, qualunque ostentazione di stabilità, per non parlare di spavalderia, aveva poche probabilità di tenere a bada per molto tempo il mälström di terrore che ti prendeva allo stomaco – Axler non aveva perso l’andatura rilassata e baldanzosa dell’uomo inquietante che un tempo aveva contribuito a fare di lui un Otello cosí originale. Dunque, sí, se c’era ancora una speranza che lei colasse definitivamente a picco, questa forse consisteva nello strusciarsi contro di lui. O fu, comunque, ciò che Axler pensò all’inizio.

– Ero vissuta per tanto tempo negli impacci della circospezione, – gli disse Sybil a cena quella prima sera. – L’efficiente casalinga che cura il giardino e cuce e sa aggiustare qualsiasi cosa e per giunta dà pranzi favolosi. La fedele compagna dell’uomo ricco e potente, tranquilla e giudiziosa, con la sua inequivocabile e incondizionata devozione vecchio stile all’allevamento dei figli. L’ordinaria esistenza di una comune mortale. Ebbene, sono andata a far la spesa: cosa potrebbe esserci di piú banale? Perché chiunque al mondo dovrebbe preoccuparsene? Avevo lasciato mia figlia a giocare in cortile e il nostro bambino piccolo di sopra a dormire nella culla e il mio ricco e potente secondo marito a guardare un torneo di golf alla Tv. Ho fatto dietrofront e sono tornata a casa perché quando sono arrivata al supermercato mi sono accorta di essermi scordata il portafoglio. Il piccolino dormiva ancora. E nel soggiorno l’incontro di golf era ancora in pieno svolgimento, ma la mia bambina di otto anni, la mia piccola Alison, era seduta sul sofà senza mutande e il mio ricco e potente secondo marito era in ginocchio sul pavimento, con la testa tra le sue gambine cicciottelle.

– Che ci faceva lí?

– Quello che ci fanno gli uomini.

Axler la guardò piangere e non disse nulla.

– Hai visto la mia opera d’arte, – gli disse infine lei. – Il sole che splende su una graziosa casetta col giardino in piena fioritura. Tu mi conosci. Tutti mi conoscono. Io penso sempre il meglio di ogni cosa. Preferisco cosí, e cosí fanno tutti quelli che mi circondano. Lui si è raddrizzato, assolutamente imperturbabile, e mi ha detto che la bambina si era lamentata di un prurito e non la smetteva di grattarsi, e allora, prima che si facesse del male, le aveva dato un’occhiata per accertarsi che stesse bene. E stava bene, mi assicurò. Non si vedeva niente, non una pustola, non un graffio, non un arrossamento… Stava benissimo. «Bene, – dissi io. – Sono tornata indietro a recuperare il portafoglio». E invece di andare in cantina a prendere il suo fucile da caccia e imbottirlo di piombo, ho trovato il portafoglio in cucina, ho detto «Ciao ciao a tutti» e sono andata al supermercato come se quello a cui avevo assistito fosse l’avvenimento piú comune della terra. Stordita, sconvolta, ho riempito due carrelli. Ne avrei riempiti altri due, altri quattro, altri sei, se il direttore non mi avesse visto singhiozzare e non fosse venuto a chiedermi se stavo bene. Mi ha portato a casa con la sua macchina. Io ho lasciato la nostra al parcheggio e lui mi ha accompagnato a casa. Non sono neanche riuscita a fare le scale. Hanno dovuto portarmi a letto di peso. Ci sono rimasta per quattro giorni, senza potere né parlare né mangiare, capace a malapena di trascinarmi fino al bagno. La versione ufficiale diceva che mi era venuta una febbre da cavallo e che il medico mi aveva ordinato di stare a letto. Il mio ricco e potente secondo marito non avrebbe potuto essere piú premuroso. Quel tesoro della mia piccola Alison mi ha portato teneramente un vaso di fiori colti nel mio giardino. Non le potevo chiedere, non sono riuscita a costringermi a dire: «Chi ti ha tolto le mutandine? C’è qualcosa che vuoi raccontarmi? Se avevi davvero un po’ di prurito, avresti aspettato, non è vero, che io tornassi a casa dopo aver fatto la spesa per farmi vedere? Ma, cara, se non avevi prurito… cara, se c’è qualcosa che non mi dici perché hai paura…?» Ma quella che aveva paura ero io. Non potevo farlo. Il quarto giorno mi ero convinta di aver immaginato tutto, e due settimane dopo, mentre Alison era a scuola e lui al lavoro e il piccolo faceva il suo riposino, ho tirato fuori il vino, il Valium e il sacchetto di plastica. Però non ho resistito al soffocamento. Mi è venuto il panico. Ho preso le pillole e il vino, ma poi ricordo che non c’era piú aria e mi sono affrettata a strapparmi il sacchetto. E non so cosa rimpiango di piú: se avere tentato di farlo o non esserci riuscita. L’unica cosa che voglio fare è sparargli. Ma ora lui è con loro, da solo, e io sono qui. È solo soletto con la mia dolce bambina! Non è possibile! Ho telefonato a mia sorella e le ho chiesto di andare a stare con loro, ma lui non ha voluto che dormisse da noi. Ha detto che non ce n’era bisogno. E cosí lei se n’è andata. E io che posso fare? Io sono qui e Alison è là! Ero paralizzata! Non ho fatto niente di quello che avrei dovuto fare! Niente di quello che chiunque avrebbe fatto! Avrei dovuto portare di corsa Alison dal dottore! Avrei dovuto chiamare la polizia! Era un atto criminoso! Ci sono leggi contro queste cose! Invece non ho fatto niente! Ma lui ha detto che non è successo nulla, capisci? Dice che sono isterica, che mi invento tutto, che sono pazza… ma non è vero. Te lo giuro, Simon, io non sono pazza. Gliel’ho visto fare.

– È una cosa orribile. Una orribile trasgressione, – disse Axler. – Capisco bene perché ti ha ridotto cosí.

– È una malvagità. Ho bisogno di qualcuno – gli confidò lei in un mormorio – per uccidere quell’uomo malvagio.

– Sono certo che potresti trovare una persona bendisposta.

– Tu? – chiese Sybil con un filo di voce. – Pagherei.

– Se fossi un killer lo farei gratis, – disse lui, prendendo la mano che lei gli porgeva. – La gente impazzisce di rabbia quando viene violato un bimbo innocente. Ma io sono un attore disoccupato. Farei un pasticcio e finiremmo in galera tutt’e due.

– Oh, cosa dovrei fare? – gli chiese lei. – Tu che faresti?

– Rimettiti in forze. Collabora col medico e cerca di rimetterti in forze piú in fretta che puoi, per poter tornare a casa dai tuoi figli.

– Tu mi credi, vero?

– Sono certo che hai visto ciò che hai visto.

– Possiamo cenare insieme?

– Per tutto il tempo che passerò qui, – disse lui.

– Sapevo che avresti capito, ad arteterapia. C’è cosí tanta sofferenza nei tuoi occhi.

Axler aveva lasciato l’ospedale da qualche mese quando il figlio di sua moglie morí di overdose e il matrimonio della ballerina disoccupata con l’attore disoccupato finí con un divorzio, e giunse cosí a termine l’ennesima dei molti milioni di storie di uomini e donne infelicemente legati tra loro.

Un giorno, verso l’ora di pranzo, una sedanca de ville nera entrò nel vialetto e si fermò di fianco al fienile. Era una Mercedes con autista, e l’ometto dai capelli bianchi che si alzò dal sedile posteriore era Jerry Oppenheim, il suo agente. Dopo il suo ricovero all’ospedale, Jerry gli aveva telefonato ogni settimana da New York per sapere come stava, ma erano passati molti mesi senza che i due uomini si parlassero – avendo l’attore scelto a un certo punto di smettere di rispondere alle chiamate dell’agente insieme a quasi tutte le altre – e la visita era inattesa. Axler guardò Jerry, che aveva piú di ottant’anni e camminava con cautela, procedere lentamente sul sentiero lastricato fino alla porta d’ingresso, con un pacchetto in una mano e un mazzo di fiori nell’altra.

Aprí la porta prima che Jerry avesse la possibilità di bussare.

– E se non ero in casa? – disse, aiutandolo a scavalcare il gradino della soglia.

– Ho corso il rischio, – disse Jerry con un sorriso bonario. Tutta la faccia era bonaria e il comportamento cortese ma né l’una né l’altro riducevano la tenacia con cui badava agli interessi dei suoi clienti. – Be’, fisicamente mi sembri a posto, almeno. A parte quell’aria disperata che ti si legge in faccia, Simon, non hai una brutta cera, per niente.

– E tu… lucido come uno specchio, – disse Axler, che non si cambiava e non si radeva da parecchi giorni.

– Ti ho portato dei fiori. E un cestino di Dean & DeLuca. Hai già pranzato?

Non aveva nemmeno fatto colazione, quindi si limitò ad alzare le spalle e a prendere i regali, e aiutò Jerry a togliersi la giacca.

– Sei venuto fin qui da New York, – disse.

– Sí. A vedere come te la passi e per fare una chiacchierata faccia a faccia. Ho buone notizie per te. Il Guthrie vuol fare il Lungo viaggio. Mi hanno chiamato chiedendo di te.

– Perché proprio io? Non sono capace di recitare, Jerry, lo sanno tutti.

– Non è vero, nessuno lo sa. Forse sanno che hai avuto un crollo emotivo, ma questo non ti estromette dalla razza umana. Vogliono andare in scena l’inverno prossimo. Là fa un freddo terribile, ma tu saresti un magnifico James Tyrone.

– James Tyrone ha un sacco di battute da dire, e io non sono capace di dirle. James Tyrone è un personaggio in cui devi entrare, e io non sono capace di farlo. È impossibile che io riesca a interpretare James Tyrone. Non posso interpretare nessuno.

– Senti, a Washington hai fatto un capitombolo. Succede a tutti, praticamente, prima o poi. In nessuna arte c’è una sicurezza al cento per cento. Si va a sbattere contro un ostacolo per ragioni che nessuno conosce. Ma l’ostacolo è un impedimento temporaneo. L’ostacolo sparisce e si va avanti. Non esiste un solo grande attore che non si sia perso di coraggio e non abbia pensato che la sua carriera era finita e che non sarebbe piú uscito dal brutto periodo che stava attraversando. Non esiste un solo attore che a metà di un monologo non si sia dimenticato la battuta e non abbia piú capito dov’era. Ma ogni volta che vai in scena si presenta una nuova occasione. Gli attori possono ritrovare il loro talento. Non perdi le tue capacità, se sei stato là fuori per quarant’anni. Saprai sempre entrare in scena e sederti su una sedia. John Gielgud diceva sempre che c’erano momenti in cui avrebbe voluto essere come un pittore o uno scrittore. Cosí avrebbe potuto riprendersi la cattiva interpretazione che aveva fatto quella sera e tirarla fuori a mezzanotte per rifarla. Ma non era possibile. Doveva farla in quel momento, e là. Gielgud attraversò un bruttissimo periodo in cui non riusciva a combinare niente di buono. Anche Olivier. Anche Olivier ebbe un momentaccio. Aveva un problema terribile. Non riusciva a guardare negli occhi gli altri attori. Allora gli disse: «Per piacere non guardatemi, perché vado in confusione». Per qualche tempo non riusciva a stare solo in scena. Diceva agli altri attori: «Non lasciatemi solo, là fuori».

– Conosco queste storie, Jerry. Le ho sentite tutte. E non mi riguardano. In passato io non ho mai avuto piú di due o tre brutte serate da cui non riuscivo a riprendermi. Per due o tre sere pensavo: «So che sono in gamba, è che non ce la faccio». Forse tra il pubblico nessuno se ne accorgeva, ma io sí: non andava. E le sere in cui non va per te è un tormento, lo so, eppure in qualche modo te la cavi. Puoi diventare bravissimo a cavartela con quello che ti resta quando non hai altro. Ma è una cosa completamente diversa. Quando la mia interpretazione era stata veramente pessima, dopo passavo l’intera notte sveglio pensando: «L’ho perso, non ho talento, non posso farci niente». Ore e ore, ma poi tutt’a un tratto, alle cinque o alle sei del mattino, capivo cosa non aveva funzionato e non vedevo l’ora di essere in teatro quella sera per andare avanti. E andavo avanti e non potevo piú sbagliare. Una sensazione meravigliosa. Ci sono giorni in cui non vedi l’ora di essere là, quando il matrimonio fra te e la parte è perfetto e non c’è un solo momento in cui tu non sia felice di uscire sul palcoscenico. Sono giorni importanti. E per anni io ne ho avuti di continuo. Be’, è finita. Oggi, se dovessi uscire sul palcoscenico, non saprei cosa ci sono andato a fare. Non saprei da che parte cominciare. Una volta facevo tre ore di preparazione in teatro per lo spettacolo delle otto. Alle otto ero entrato nella parte: era come una trance, come un’utile trance. Nella Riunione di famiglia ero in teatro due ore e mezza prima della mia entrata, a prepararmi per quando vai in scena inseguito dalle Furie. Era dura, ma ce la facevo.

– Ce la puoi fare ancora, – disse Jerry. – Stai dimenticando chi sei e quello che hai raggiunto. La tua vita non finisce qui. Un’infinità di volte hai fatto, in scena, delle cose che non mi sarei mai aspettato, e questo nel corso degli anni ha emozionato migliaia di volte il pubblico, e ha emozionato sempre me. Ti allontanavi il piú possibile dalla cosa ovvia che avrebbe fatto ogni altro attore. Non battevi mai la stessa strada. Tu volevi andare dappertutto. Fuori, fuori, fuori, il piú lontano possibile. E il pubblico ha sempre creduto in te, ovunque tu lo portassi. Certo, nulla è garantito per sempre, ma allo stesso modo nulla è perduto per sempre. Devi solo ritrovare il tuo talento, tutto qui.

– No, se n’è andato, Jerry. Non sono piú capace di far nulla di tutto questo. O sei libero o non lo sei. O sei libero, e allora è genuino, è vero, è vivo, oppure non è niente. Io non sono piú libero.

– Okay, allora mangiamo qualcosa. E metti i fiori in un vaso. La casa sembra in buono stato. Tu sembri in buono stato. Un po’ troppo dimagrito, direi, ma sei sempre tu. Mangi, spero.

– Mangio.

Ma quando si sedettero in cucina per pranzare, con i fiori in un vaso tra loro, Axler non riuscí a mangiare nulla. Si vedeva andare in scena nella parte di James Tyrone, e il pubblico scoppiava a ridere. Tanto l’ansia e la paura erano evidenti. La gente rideva di lui perché era lui.

– Come passi il tempo? – domandò Jerry.

– Passeggio. Dormo. Guardo nel vuoto. Cerco di leggere. Cerco di dimenticare me stesso almeno per un minuto ogni ora. Guardo il telegiornale. Sono bene informato.

– Chi vedi?

– Te.

– Non è il modo di vivere, per uno del tuo livello.

– Sei stato gentile a venire fin qui, Jerry, ma io non posso fare il dramma al Guthrie. Ho chiuso con tutto questo.

– Non è vero. Hai solo paura di fare fiasco. Ma il peggio è passato. Non capisci quanto è diventata unilaterale e monomaniacale la tua prospettiva.

– Ho scritto io le critiche? Le ha scritte questo monomaniaco, quelle critiche? Ho scritto io le cose che hanno scritto del mio Macbeth? Ero ridicolo, ed è quello che hanno detto. Riuscivo solo a pensare: «Questa battuta l’ho detta, grazie a Dio l’ho detta». Cercavo di pensare: «Non è andata cosí male come ieri sera», quando in realtà era peggio. Tutto quello che facevo era falso, stonato. Lo sentivo questo tono spaventoso nella mia voce eppure niente poteva impedirmi di mandare tutto a puttane. Orribile. Orribile. Non ho mai fatto una buona interpretazione, non una.

– Dunque non sei riuscito a fare Macbeth in un modo per te soddisfacente. Be’, non sei il primo. È una persona orribile con cui vivere, per un attore. Sfido chiunque a interpretarlo senza soccombere. È un assassino, un omicida. Ogni cosa è ingigantita, in quella tragedia. Francamente, non ho mai compreso tutta quella malvagità. Dimentica Macbeth. Dimentica le critiche, – disse Jerry. – È ora di passare oltre. Dovresti venire giú a New York e metterti a lavorare con Vincent Daniels nel suo studio. Non saresti il primo a cui ha restituito la fiducia in se stesso. Guarda, tu hai fatto tutta quella roba tosta, Shakespeare, i classici… non ti può capitare una cosa come questa, con la tua biografia. Hai solo perso la fiducia in te stesso, temporaneamente.

– Non è una questione di fiducia, – ribatté Axler. – Ho sempre avuto il vago sospetto di non avere alcun talento.

– Be’, questa è una sciocchezza. Quella che parla, qui, è la depressione. Lo senti dire da un mucchio di attori, quando sono depressi come te. «In realtà, io non ho alcun talento. So solo memorizzare le battute. Ecco tutto». Mille volte l’ho sentito.

– No, ascoltami. Quando ero completamente onesto con me stesso pensavo: «Okay, d’accordo, ho un pizzico di talento, o almeno so imitare uno che ne ha». Ma era un puro caso, Jerry, un caso che il talento mi fosse stato dato, un caso che mi fosse stato tolto. Questa vita è un caso dall’inizio alla fine.

– Oh, smettila, Simon. Sai ancora tener desta l’attenzione sul palcoscenico come fanno i grandi attori. Sei un titano, per l’amor di Dio!

– No, è una questione di falsità, falsità pura e semplice e talmente pervasiva che l’unica cosa che posso fare è stare in scena e dire al pubblico: «Sono un bugiardo. E non so neppure mentir bene. Sono un impostore».

– E questa è un’altra sciocchezza. Pensa per un momento a tutti i cattivi attori: ce ne sono tanti e se la cavano, in un modo o nell’altro. Dunque, venirmi a raccontare che Simon Axler, – disse Jerry, – col suo talento, non se la cava è assurdo. Quante volte ti ho visto, in passato, momenti in cui non eri molto felice, momenti in cui per ogni altro verso eri straziato interiormente, eppure bastava metterti un copione sotto il naso, darti libero accesso a questa cosa che fai cosí splendidamente, lasciare che tu diventassi un’altra persona, e per te è sempre stato liberatorio. Ebbene, è già successo e può succedere ancora. L’amore per la cosa che fai bene… può tornare e tornerà. Senti, Vincent Daniels è eccezionale nell’affrontare problemi come i tuoi, è un maestro duro, astuto, intuitivo, ed è uno che non molla.

– Lo conosco di nome, – disse Axler. – Ma non l’ho mai incontrato. Non ho mai avuto bisogno di incontrarlo.

– È un anticonformista, un rissoso, e ti rimetterà sul ring. Ti farà tornare la voglia di combattere. Ripartirà da zero, se occorre. Ti porterà a rinunciare a tutto ciò che hai fatto prima, se vi è costretto. Sarà una lotta, ma alla fine ti farà tornare dove dovresti essere. Sono stato nel suo studio e ho guardato Vincent lavorare. «Prendi un solo momento, – dice. – Affrontiamo un momento per volta. Prendi quel momento, prendi tutto di quel momento, e poi passa al momento successivo. Non importa dove vai. Non preoccupartene. Va’ avanti cosí, momento per momento per momento. Il segreto è stare in quel momento, senza badare al resto e senz’avere idea di dove andrai dopo. Perché se riesci a far funzionare un momento, puoi arrivare dappertutto». Ecco, sembra, lo so, il concetto piú semplice che esista, ed è per questo che è difficile: è cosí semplice che nessuno ci bada. Io credo che Vincent Daniels sia l’uomo ideale per te in questa fase. Ho piena fiducia che possa aiutarti nella situazione in cui ti trovi. Ecco il suo biglietto. Sono venuto qui per darti questo.

Jerry gli porse il biglietto da visita, cosí lui lo prese nello stesso istante in cui diceva: – Non posso farlo.

– E allora che farai? Che farai di tutti i ruoli che sei pronto a sostenere? Mi si spezza il cuore quando penso a tutte le parti che sembrano fatte apposta per te. Se tu accettassi il ruolo di James Tyrone, poi potresti lavorare con Vincent e trovare insieme a lui il modo di venirne a capo. È il lavoro che fa ogni giorno con gli attori. Non so neanch’io quante volte ai Tony o agli Oscar ho sentito il vincitore dire: «Desidero ringraziare Vincent Daniels». È il migliore.

Per tutta risposta Axler si limitò a scuotere il capo.

– Senti, – disse Jerry, – tutti conoscono la sensazione di non essere piú capaci, la sensazione di venir smascherati per il falso che sono: è il terrore di ogni attore. «Mi hanno scoperto. Sono stato scoperto». Parliamoci chiaro, c’è un panico che viene con l’età. Io sono molto piú vecchio di te, e sono anni che lo tengo a bada. Primo, diventi piú lento. In tutto. Diventi piú lento anche nella lettura. Se io oggi leggo in fretta, tralascio troppe cose. La parola è piú lenta, la memoria è piú lenta. Cominciano a succedere tutte queste cose. E intanto inizi a perdere la fiducia in te stesso. Non sei piú svelto come una volta. E soprattutto se sei un attore. Eri un giovane attore e imparavi a memoria un copione dopo l’altro, e nemmeno ci pensavi. Era facile da fare, punto e basta. E poi, tutt’a un tratto, non è piú cosí facile, e le cose non vanno piú cosí veloci. La memoria diventa un grande motivo di ansia per gli attori di teatro che arrivano ai sessanta o settant’anni. Un tempo potevi imparare a memoria un copione in una giornata: ora sei fortunato se in una giornata impari una pagina. Cosí cominci a sentirti spaventato, a sentirti rammollito, a sentire che non hai piú quella forza bruta e dirompente. Ti terrorizza. Col risultato, come dici tu, che non sei piú libero. Non succede piú nulla… e questo è terrificante.

– Jerry, non posso continuare questa conversazione. Potremmo parlare per tutta la giornata, e non servirebbe a nulla. Sei stato gentile a venirmi a trovare e a portarmi il pranzo e i fiori e a cercare di aiutarmi e incoraggiarmi e confortarmi e farmi sentire meglio. È stato un gesto straordinariamente premuroso. Mi fa piacere constatare che stai bene. Ma la spinta vitale è la spinta vitale. In questo momento io sono incapace di recitare. È scomparso qualcosa di fondamentale. Forse doveva essere cosí. Le cose se ne vanno. Non pensare alla mia carriera come se qualcosa l’avesse troncata. Pensa a quanto sono durato. Quando ho iniziato, all’università, mi gingillavo e basta. Recitare era un modo per conoscere delle ragazze. Poi ho tirato il mio primo respiro teatrale. Improvvisamente ero vivo sulla scena e respiravo come un attore. Ho cominciato presto. Avevo ventidue anni e sono venuto a New York per un provino. E ho avuto la parte. Mi sono messo a seguire dei corsi. Esercizi senso-memoria. Impari a rendere reali le cose. Prima della rappresentazione crei una realtà in cui calarti. Ricordo che quando ho cominciato ad andare a lezione dovevamo fingere di avere in mano una tazza e di berci il tè. Quanto è calda, quanto è piena, se c’è il piattino, se c’è il cucchiaino, se vuoi metterci lo zucchero, quante zollette. E poi sorseggi il tuo tè, e gli altri si lasciavano incantare da questa roba, mentre io non l’ho mai trovata utile. Per giunta, non ero capace. Non ero bravo negli esercizi, non ero bravo per niente. Cercavo di fare quella roba e non funzionava mai. Se anche la facevo bene, era per istinto, e fare quegli esercizi e sapere quelle cose mi faceva sembrare un attore. Ero ridicolo mentre reggevo la mia tazza inesistente e fingevo di bere. Dentro di me c’era sempre una vocina che diceva: «Non c’è nessuna tazza». Be’, quella voce ora ha preso il sopravvento. Per quanto io mi prepari e qualunque cosa io cerchi di fare, una volta in scena c’è quella vocina: «Non c’è nessuna tazza». Jerry, è finita: non sono piú capace di rendere reale un dramma per la gente. Non sono piú capace di rendere reale un ruolo per me stesso.

Partito Jerry, Axler andò nello studio a cercare la sua copia del Lungo viaggio verso la notte. Provò a leggere, ma lo sforzo era intollerabile. Non andò oltre pagina 4, e là mise come segnalibro il biglietto da visita di Vincent Daniels. Al Kennedy Center si era sentito come se non avesse mai recitato prima, e adesso era come se non avesse mai letto un dramma: come se non avesse mai letto quel dramma. Le frasi gli sembravano senza senso. Non riusciva a capire chi diceva le battute. Là seduto tra i suoi libri, cercò di farsi venire in mente i drammi in cui c’è un personaggio che si suicida. Hedda in Hedda Gabler, Giulia nella Signorina Giulia, Fedra in Ippolito, Giocasta in Edipo re, quasi tutti in Antigone, Willy Loman in Morte di un commesso viaggiatore, Joe Keller in Erano tutti miei figli, Don Parritt in Arriva l’uomo del ghiaccio, Simon Stimson in Piccola città, Ofelia in Amleto, Otello in Otello, Cassio e Bruto in Giulio Cesare, Gonerilla in Re Lear, Antonio, Cleopatra, Enobarbo e Carmiana in Antonio e Cleopatra, il nonno in Svegliati e canta, Ivanov in Ivanov, Konstantin nel Gabbiano. E quell’elenco sbalorditivo comprendeva solo opere in cui lui aveva recitato almeno una volta. Ce n’erano altre, molte altre. La cosa notevole era la frequenza con cui il suicidio entra nel dramma, come se fosse una formula fondamentale per il dramma, non necessariamente corroborato dall’azione dettata dai meccanismi del genere in sé. Deirdre in Deirdre l’addolorata, Hedvig nell’Anitra selvatica, Rebekka West in Rosmersholm, Christine e Orin nel Lutto si addice ad Elettra, Romeo e Giulietta, l’Aiace di Sofocle. Quello del suicidio è un tema al quale i drammaturghi guardano con rispetto fin dal quinto secolo a.C., sedotti dagli esseri umani capaci di generare emozioni che possono ispirare questo atto assolutamente straordinario. Si prefisse di rileggere quelle opere. Sí, doveva affrontare a viso aperto quanto c’era di piú spaventoso. Nessuno doveva poter dire che non ci aveva riflettuto a fondo.

Jerry aveva portato una busta commerciale con un pugno di missive indirizzate a lui presso l’Oppenheim Agency. C’era stato un momento in cui con quel sistema gli arrivavano una dozzina di lettere di ammiratori ogni due settimane. Ora le poche nella busta erano tutte quelle che Jerry aveva ritirato per conto suo negli ultimi sei mesi. Si sedette nel soggiorno ad aprire pigramente le buste, leggendo le prime righe di ogni lettera per poi appallottolare il foglio e gettarlo sul pavimento. Erano tutte richieste di foto con autografo: tutte tranne una, che lo colse di sorpresa e che lesse per intero.

«Non so se ti ricorderai di me, – cominciava la lettera. – Ero una paziente di Hammerton. Ho cenato con te parecchie volte. Eravamo insieme ad arteterapia. Forse non ti ricordi piú di me. Ho appena finito di vedere un film della notte alla televisione e con mio grande stupore c’eri anche tu. Interpretavi un criminale incallito. È stata una grandissima sorpresa vederti sullo schermo, specie in un ruolo cosí minaccioso. Com’eri diverso dall’uomo che ho conosciuto io! Ricordo di averti raccontato la mia storia. Ricordo come mi ascoltavi, un pasto dopo l’altro. Non riuscivo a smettere di parlare. Soffrivo atrocemente. Credevo che la mia vita fosse finita. Volevo che finisse. Forse non lo sai, ma ascoltare la mia storia come hai fatto tu mi ha aiutato a farcela. Non che sia stato facile. Non che sia facile adesso. Non che lo sarà mai. Il mostro con cui ero sposata ha fatto alla mia famiglia un danno inestirpabile. Il disastro è stato peggiore di quanto sapessi quando mi trovavo all’ospedale. Cose terribili andavano avanti da molto tempo senza che io ne sapessi nulla. Cose tragiche riguardanti la mia bambina. Ricordo di averti chiesto se lo avresti ucciso per me. Ti dissi che avrei pagato. Pensavo che essendo cosí grosso avresti potuto farlo. Per compassione, non mi dicevi che ero pazza quando ti raccontavo quelle cose, ma rimanevi là seduto ad ascoltare le mie follie come se fossi stata sana di mente. Ti ringrazio per questo. Ma una parte di me non sarà mai piú sana di mente. Non è possibile. Non potrebbe essere possibile. Non dovrebbe essere possibile. Stupidamente, ho condannato a morte la persona sbagliata».

La lettera proseguiva, un unico paragrafo manoscritto che si diramava su altri tre grandi fogli, ed era firmata «Sybil Van Buren». Axler ricordava di aver ascoltato la sua storia: indirizzare tutta la sua concentrazione ad ascoltare un’altra persona era stato quasi come tornare a recitare per la prima volta dopo un sacco di tempo e forse aveva contribuito a rimettere in sesto anche lui. Sí, ricordava la donna e la sua storia, e che lei gli aveva chiesto di uccidere il marito, come se Axler fosse veramente il gangster di un film e non un altro paziente in un ospedale psichiatrico, uno che, con tutta la sua mole, non era piú capace di lei di porre una fine violenta alle proprie sofferenze con un fucile. La gente nei film se ne va sempre in giro a uccidere qualcuno, ma la ragione per cui ci sono tutti quei film è che per il 99,9 per cento degli spettatori è impossibile farlo davvero. E se è difficile uccidere un’altra persona, una persona che si hanno tutte le ragioni di voler annientare, figurarsi quant’è difficile riuscire a uccidere se stessi.

Capitolo secondo

La trasformazione

I genitori di Pegeen li conosceva, ed erano suoi buoni amici, da prima che Pegeen venisse al mondo, e lei l’aveva vista per la prima volta all’ospedale, appena nata, mentre prendeva il latte al seno della madre. Si erano incontrati quando Axler e gli Stapleford, sposati da poco – lui del Michigan, lei del Kansas –, erano apparsi insieme in una messinscena del Furfantello dell’Ovest nel seminterrato di una chiesa del Greenwich Village. Axler aveva interpretato il magnifico ruolo dello scatenato protagonista Christy Mahon, l’aspirante parricida, mentre la protagonista femminile, Pegeen Mike Flaherty, energica barista nel pub di suo padre sulla costa occidentale della contea di Mayo, era stata interpretata da Carol Stapleford, allora incinta di due mesi del primo figlio; Asa Stapleford aveva interpretato Shawn Keogh, il promesso sposo di Pegeen. Quando le repliche erano finite, Axler era stato alla festa di chiusura e aveva votato per il nome Christy se era un maschio e per Pegeen Mike se era una femmina, quando fosse arrivato il bambino degli Stapleford.

Era molto improbabile – in particolare perché Pegeen Mike Stapleford era lesbica da quando aveva ventitre anni – che quando lei avesse avuto quarant’anni e Axler sessantacinque sarebbero diventati amanti che si telefonavano tutte le mattine appena svegli e passavano entusiasticamente il tempo libero insieme nella casa di lui, dove, con suo grande piacere, lei si appropriò di due stanze, una delle tre camere da letto al primo piano per la sua roba e lo studio al pianterreno accanto al soggiorno per il suo laptop. Al pianterreno c’erano caminetti in ogni stanza, persino in cucina, e quando lavorava nello studio, Pegeen teneva sempre il fuoco acceso. Abitava a poco piú di un’ora di macchina lungo serpeggianti strade collinari che attraverso il terreno coltivato la portavano fino ai suoi venti ettari di aperta campagna e alla grande e antica fattoria, bianca con le persiane nere, cinta da vecchi aceri, alti frassini e muri di pietra lunghi e irregolari. In tutta quella zona non c’erano che loro. Nei primi mesi raramente si alzavano dal letto prima di mezzogiorno. Non riuscivano a staccarsi l’uno dall’altra.

E pensare che prima del suo arrivo lui era sicuro di avere chiuso: chiuso col teatro, con le donne, con la gente, chiuso per sempre con la felicità. Da oltre un anno aveva gravi disturbi fisici, quasi non riusciva a camminare o a stare in piedi o seduto per molto tempo a causa dei dolori alla colonna vertebrale che aveva dovuto sopportare per tutta la sua vita adulta ma i cui debilitanti progressi si erano accelerati con l’età: per questo era sicuro di avere chiuso con qualsiasi cosa. Ogni tanto gli si addormentava una gamba, cosí che camminando non riusciva ad alzarla abbastanza e inciampava in un gradino o nel marciapiede e cadeva, ferendosi alle mani e a volte sbattendo addirittura la faccia a terra, tanto da perdere sangue dalle labbra o dal naso. Solo qualche mese addietro quello che era il suo migliore nonché unico amico del posto, un giudice ottantenne in pensione da alcuni anni, era morto di cancro; di conseguenza, anche se da trent’anni risiedeva a due ore dalla città tra alberi e campi – vivendo lí quando non era in giro per il mondo a recitare –, Axler non aveva nessuno con cui parlare o mangiare un boccone, e tanto meno con cui dividere il letto. Cosí aveva ricominciato a pensare di uccidersi, con la stessa frequenza di prima del ricovero in ospedale un anno addietro. Ogni mattina, quando apriva gli occhi sul suo vuoto, decideva che non avrebbe passato un altro giorno privo delle sue facoltà, solo, disoccupato e soffrendo costantemente. Ancora una volta la strada portava al suicidio; al centro di quella espropriazione non c’era altro.

Un gelido e grigio mattino dopo una settimana di pesanti nevicate, Axler uscí di casa per raggiungere la tettoia dove teneva l’auto e percorrere i sei chilometri che lo separavano dalla cittadina per andare a fare provviste. Il sentiero intorno alla casa era stato tenuto sgombro ogni giorno da un contadino che gli spalava la neve, ma Axler procedeva comunque con cautela, calzando stivali da neve con grosse suole scolpite, aiutandosi con un bastone e camminando a piccoli passi per non scivolare e cadere. Sotto i vari strati di indumenti portava, per maggiore sicurezza, un busto rigido che gli stringeva la vita. Mentre usciva di casa dirigendosi verso la tettoia, scorse un animaletto biancastro con una lunga coda fermo sulla neve tra la tettoia e il fienile. A tutta prima gli sembrò un enorme topo, ma poi si rese conto, dalla forma e dal colore della coda spelacchiata e dal muso, che era un opossum lungo una trentina di centimetri. Di solito gli opossum sono animali notturni, ma quello, con una pelliccia che appariva ispida e ingiallita, stava immobile sul terreno coperto di neve in pieno giorno. Quando Axler si avvicinò, l’opossum con la sua andatura dondolante si allontanò lentamente in direzione del fienile e sparí in un mucchio di neve contro il muro di pietra delle fondamenta. Lui seguí la bestiola – che probabilmente era malata e prossima alla fine – e quando raggiunse il mucchio di neve vide che davanti c’era un buco. Reggendosi con entrambe le mani sul bastone, si inginocchiò nella neve per sbirciare dentro. L’opossum si era spinto troppo avanti nel cunicolo perché lui potesse vederlo, ma sparsa nella parte anteriore di quella cavità cavernosa c’era una raccolta di stecchi. Li contò. Sei stecchi. Allora è cosí che si fa, pensò Axler. Io ne ho troppi. Ne bastano sei.

La mattina dopo, mentre faceva il caffè, vide l’opossum dalla finestra della cucina. Ritto sulle zampe posteriori davanti al fienile, l’animale mangiava la neve che prendeva dal mucchio, ficcandosela in bocca a grumi con le zampe anteriori. In fretta si mise gli stivali e il giaccone, prese il bastone, uscí dalla porta e girò intorno alla casa fino al sentiero sgombrato dalla neve che fronteggiava il fienile. Da cinque o sei metri di distanza gridò a voce spiegata all’opossum: – Ti piacerebbe fare la parte di James Tyrone? Al Guthrie –. L’opossum continuò imperterrito a mangiare la neve. – Saresti un magnifico James Tyrone!

Dopo quel giorno, quella sua piccola caricatura sotto forma animale scomparve. Axler non vide piú l’opossum – o era scomparso o era perito – anche se la grotta nella neve con i sei stecchi rimase intatta fino al disgelo successivo.

Poi Pegeen passò di lí. Telefonò dalla casetta che aveva affittato a pochi chilometri da Prescott, un college piccolo e progressista nel Vermont occidentale, dove di recente aveva cominciato a insegnare. Lui viveva un’ora di macchina piú a ovest, oltre il confine nella campagna dello stato di New York. Erano passati vent’anni o piú da quando Axler l’aveva vista, allegra studentessa universitaria in viaggio con i genitori durante le vacanze. Se capitavano da quelle parti, si fermavano un paio d’ore da lui per fargli un saluto. Ogni due o tre anni si ritrovavano tutti insieme. Asa dirigeva un teatro regionale a Lansing, nel Michigan, la città dov’era nato e cresciuto, e Carol recitava nella compagnia di repertorio e teneva un corso di recitazione all’università statale. Axler aveva visto Pegeen anche in precedenza, durante un’altra visita degli Stapleford, quando era una timida e sorridente ragazzina di dieci anni dall’aria dolce che si arrampicava sugli alberi della sua proprietà e nuotava rapidamente avanti e indietro nella sua piscina, un maschiaccio smilzo e atletico che rideva a crepapelle a tutte le battute di suo padre. E ancor prima l’aveva vista poppare nel reparto maternità del St Vincent’s Hospital di New York.

Ora vide una donna di quarant’anni, flessuosa e pettoruta, ma ancora con un che di infantile nel sorriso – un sorriso in cui arricciava meccanicamente il labbro superiore per mostrare gli incisivi sporgenti – e ancora molto del maschiaccio nel passo dondolante. Era vestita da campagna, con scarpe da lavoro consumate e una giacca rossa con la cerniera lampo, e i capelli, che nei suoi imprecisi ricordi erano biondi come quelli di sua madre, erano castani e tagliati molto corti, cosí corti sulla nuca da sembrare sfumati dalla macchinetta di un barbiere. Aveva l’aria invulnerabile di una persona felice, e anche se il modello a cui si ispirava era quello della monella impertinente, parlava con voce fascinosa, come se volesse imitare la dizione da attrice di sua madre.

Come Axler infine avrebbe appreso, era passato un certo tempo da quando Pegeen aveva avuto ciò che voleva, e non la sua grottesca inversione. Aveva passato gli ultimi due anni di una relazione che ne era durati sei soffrendo in una casa penosamente solitaria a Bozeman, nel Montana. – I primi quattro anni, – gli raccontò una sera dopo che furono diventati amanti, – tra me e Priscilla c’era un modo di stare insieme meravigliosamente intimo. Eravamo sempre da qualche parte a fare escursioni e campeggio, anche quando nevicava. D’estate andavamo in posti come l’Alaska, e campeggiavamo e facevamo escursioni lí. Era emozionante. Siamo state in Nuova Zelanda, siamo state in Malesia. C’era qualcosa di infantile, che amavo, nel vagabondare avventurosamente insieme in giro per il mondo. Eravamo come due ragazzine scappate di casa. Poi, a partire dal quinto anno o giú di lí, lei si è a poco a poco distaccata per immergersi nel computer, e io non ho piú avuto nessuno con cui parlare tranne i gatti. Fino ad allora avevamo fatto tutto fianco a fianco. Stavamo a letto con le coperte rimboccate, a leggere: a leggere ciascuna per conto suo, a leggerci dei brani ad alta voce; per molto tempo è stato un rapporto estatico. Priscilla non diceva mai alla gente: «Quel libro mi è piaciuto», ma piuttosto: «Quel libro ci è piaciuto», o di qualche posto: «Ci è piaciuto andare là», o dei nostri progetti: «Ecco quello che faremo quest’estate». Noi. Noi. Noi. E poi «noi» non siamo piú state noi: noi era finito. Noi era lei e il suo Mac. Noi era lei e il suo segreto, che suppurava e cancellava tutto il resto: e cioè che avrebbe mutilato il corpo che amavo.

Insegnavano entrambe all’università di Bozeman, e negli ultimi due anni in cui furono una coppia, quando Priscilla tornava dal lavoro se ne stava davanti al computer fino all’ora di andare a letto. Passava i weekend davanti al computer. Mangiava e beveva davanti al computer. Non parlavano piú, non facevano piú sesso; anche le escursioni e i campeggi in montagna Pegeen doveva farli da sola o con persone diverse da Priscilla, persone con cui si trovava per stare in compagnia. Poi un giorno, sei anni dopo essersi incontrate nel Montana e aver messo in comune le loro risorse e deciso di formare una coppia, Priscilla annunciò che aveva cominciato un ciclo di iniezioni ormonali per farsi crescere la barba e rendere piú grave la voce. Il suo progetto era di farsi asportare chirurgicamente i seni e diventare un uomo. In privato, ammise, lo sognava da tempo, e per quanto Pegeen la implorasse non volle tornare indietro. Il giorno dopo Pegeen lasciò la casa che avevano in comproprietà, portando con sé uno dei due gatti – «Per i gatti non era l’ideale, – disse Pegeen, – ma quello è stato il meno» – e si trasferí nella stanza di un motel della zona. Ritrovò a malapena la calma necessaria per affrontare gli studenti del suo corso. Anche se la vita con Priscilla era diventata solitaria, la ferita del tradimento, la natura del tradimento, era molto peggio. Piangeva in continuazione, e cominciò a scrivere lettere a college che si trovavano a centinaia di chilometri dal Montana cercando un nuovo impiego. Si recò a un convegno dove i college sottoponevano a colloqui gli specialisti di scienza dell’ambiente e trovò un posto sulla costa orientale dopo essere andata a letto con la preside di facoltà, che si prese una cotta per lei e successivamente l’assunse. La preside era ancora la devota protettrice e amante di Pegeen quando Pegeen andò a trovare Axler e decise che dopo diciassette anni da lesbica aveva voglia di un uomo: quell’uomo, quell’attore che aveva venticinque anni piú di lei ed era amico della sua famiglia da decenni. Se Priscilla poteva diventare un maschio eterosessuale, Pegeen poteva diventare una femmina eterosessuale.

Quel primo pomeriggio Axler inciampò e cadde pesantemente sul largo gradino di pietra mentre introduceva Pegeen nella casa, tagliandosi il lato carnoso della mano con cui aveva attutito la caduta. – Dov’è la roba del pronto soccorso? – chiese lei. Axler glielo disse e lei andò dentro a prenderla e tornò fuori e gli pulí la ferita con cotone idrofilo e acqua ossigenata e la coprí con un paio di cerotti. Gli aveva portato anche un bicchiere d’acqua da bere. Era molto tempo che nessuno gli portava un bicchiere d’acqua.

La invitò a restare a cena. Andò a finire che la preparò lei. Anche la cena, era molto tempo che nessuno gliela preparava. Lei finí una bottiglia di birra mentre lui, seduto al tavolo della cucina, la guardava spadellare. Nel frigo c’era un pezzo di parmigiano, c’erano delle uova, c’era un po’ di pancetta, c’era una mezza confezione di panna, e con questo e quattro etti di pasta Pegeen preparò degli spaghetti alla carbonara. Lui se la ricordava com’era da bambina, attaccata al petto di sua madre, mentre la guardava lavorare in cucina, muovendosi come se la casa fosse sua. Era una presenza vibrante, solida, sana, traboccante di energia, e abbastanza presto lui non ebbe piú la sensazione di essere rimasto solo al mondo, solo e senza il suo talento. Era felice: una sensazione inattesa. Di solito all’ora di cena lo assaliva la peggiore malinconia della giornata. Mentre lei cucinava lui andò in soggiorno e mise su Brendel che suonava Schubert. Non riusciva a ricordare l’ultima volta che si era preoccupato di ascoltare della musica, mentre un tempo, nei giorni migliori del suo matrimonio, la musica suonava di continuo.

– Cos’è successo a tua moglie? – chiese lei quando ebbero mangiato gli spaghetti e bevuto una bottiglia di vino.

– Non ha importanza. Troppo noioso per parlarne.

– Da quanto tempo sei qui senza nessuno?

– Da un tempo sufficiente per sentirmi piú solo di quanto avrei mai creduto di potermi sentire. Certe volte è sorprendente, stando qui seduti un mese dopo l’altro, una stagione dopo l’altra, pensare che tutto va avanti senza di te. Proprio come accadrà quando muori.

– E il teatro, che fine ha fatto? – chiese lei.

– Non recito piú.

– Impossibile, – disse lei. – Cos’è successo?

– Altro argomento troppo noioso.

– Sei in pensione o è successo qualcosa?

Lui si alzò in piedi e girò intorno al tavolo, lei si alzò in piedi e lui la baciò.

Lei sorrise sorpresa. Ridendo, disse: – Io sono un’anomalia sessuale. Vado a letto con le donne.

– Non era difficile indovinarlo.

E qui la baciò per la seconda volta.

– Allora, cosa fai? – chiese lei.

Si strinse nelle spalle. – Non posso dire di saperlo. Sei mai stata con un uomo? – le chiese.

– Quando ero al college.

– Sei con una donna adesso?

– Piú o meno, – rispose lei. – E tu?

– No.

Lui sentí la forza delle sue braccia muscolose, armeggiò con i suoi seni pesanti, coprí con le mani il suo sedere sodo e l’attirò a sé finché non si baciarono di nuovo. Poi la guidò fino al sofà nel soggiorno, dove, arrossendo furiosamente mentre lui la guardava, lei si tolse i jeans e lo fece con un uomo per la prima volta dai tempi del college. Lui lo fece con una lesbica per la prima volta in vita sua.

Mesi dopo le avrebbe detto: – Perché sei venuta a trovarmi quel pomeriggio? – Volevo vedere se c’era qualcuno con te. – E quando hai visto? – Ho pensato: perché non io? – Fai sempre questi calcoli? – Non sono calcoli. È cercare tenacemente ciò che vuoi. E – soggiunse – smettere di cercare ciò che non vuoi piú.

La preside che l’aveva assunta e portata a Prescott andò su tutte le furie quando Pegeen le disse che la loro storia era finita. Aveva otto anni piú di Pegeen, guadagnava piú del doppio di Pegeen, era un’importante preside di facoltà da oltre un decennio, e dunque si rifiutò di crederci o di tollerarlo. Come prima cosa ogni mattina telefonava a Pegeen per rimproverarla e la chiamava parecchie volte durante la notte per strapazzarla e offenderla e chiedere spiegazioni. Un giorno telefonò da un cimitero locale dove, annunciò, stava «sfogando il proprio furore» per come Pegeen l’aveva trattata. L’accusava di averla sfruttata per avere il posto e poi mollata opportunisticamente solo qualche settimana dopo averlo ottenuto. Quando Pegeen andava in piscina ad allenarsi con la squadra di nuoto due volte alla settimana nel tardo pomeriggio, la preside andava a nuotare alla stessa ora, e ottenne di farsi dare l’armadietto adiacente a quello di Pegeen. Telefonava per invitarla al cinema, a una conferenza, a un concerto e a cena. Chiamava ogni due giorni per dire a Pegeen che voleva vederla il weekend successivo. Pegeen le aveva già spiegato chiaramente che durante i weekend era impegnata e che non voleva continuare a vederla. Lei implorava, gridava, a volte piangeva. Pegeen era la persona senza la quale non poteva vivere. Una donna di quarantotto anni forte, brillante, competente, una donna dinamica che a quanto si diceva sarebbe diventata il nuovo rettore di Prescott… ed era stato cosí facile farle perdere la testa!

Una domenica pomeriggio telefonò a casa di Axler e chiese di parlare con Pegeen Stapleford. Axler posò il ricevitore e andò in soggiorno a dire a Pegeen che la chiamata era per lei. – Chi è? – le domandò. Senza esitare, lei rispose: – Chi altro potrebbe essere? Louise. Come fa a sapere dove sono? Come ha avuto il tuo numero? – Lui tornò al telefono e disse: – Qui non c’è nessuna Pegeen Stapleford. – Grazie, – disse chi aveva chiamato, e riattaccò. La settimana dopo Pegeen incontrò Louise nel campus. Louise le disse che si assentava per dieci giorni e che, quando fosse tornata, Pegeen avrebbe «fatto bene a fare qualcosa per lei», come «prepararle la cena». Dopodiché Pegeen si spaventò: primo perché Louise non voleva lasciarla in pace neppure dopo che lei le aveva detto chiaramente ancora una volta che la loro relazione era finita; e secondo, per via della minaccia che rappresentava l’ira di Louise. – Cosa rischi? – le chiese lui. – Cosa rischio? Il posto. Non c’è limite al male che può farmi se decide di farmi del male. – Be’, tu hai me, no? – disse lui. – Che vuol dire? – Hai me come ultima risorsa. Ci sono io.

C’era lui. C’era lei. Le possibilità di entrambi erano drasticamente cambiate.

Il primo capo d’abbigliamento che le comprò era un’attillata giacca di pelle marrone con la fodera di shearling corta in vita, che aveva visto nella vetrina di un negozio nel villaggio esclusivo a quindici chilometri di boschi da casa sua. Entrò e comprò quella che indovinò correttamente essere la sua taglia. Mille dollari di giacca. Lei non aveva mai avuto nulla di tanto costoso, e non era mai stata cosí elegante. Le disse che era per il suo compleanno, in qualunque data cadesse. Per qualche giorno non se la tolse mai di dosso. Poi presero la macchina alla volta di New York, in teoria per consumare qualche buon pasto e andare al cinema e passare il weekend insieme, e lui le comprò altri vestiti: entro la fine del weekend, piú di cinquemila dollari di gonne, camicette, cinture, giacche, scarpe e golfini, capi con cui Pegeen aveva un aspetto molto diverso da quello che aveva con i vestiti che aveva portato con sé dal Montana. La prima volta che si era presentata a casa sua, aveva poca roba che non potesse essere indossata da un ragazzino di sedici anni: solo che ora aveva quasi smesso di camminare come un ragazzino di sedici anni. Nelle boutique di New York, dopo essersi provata qualcosa di nuovo in camerino, usciva per fargli vedere come stava e sentire cosa ne pensava. Mostrò un paralizzante imbarazzo solo nelle prime ore; dopodiché si lasciò andare, e alla fine usciva dal camerino con un’aria civettuola e un sorriso di gioia.

Le comprò collane, braccialetti e orecchini. Le comprò lussuosa biancheria intima con cui rimpiazzare i reggiseni sportivi e gli slip grigi. Le comprò dei piccoli baby-doll di raso con cui rimpiazzare i pigiami di flanella. Le comprò degli stivali alti fino al polpaccio, un paio marroni e un paio neri. L’unico soprabito che possedeva l’aveva ereditato dalla defunta madre di Priscilla. Per lei era troppo grande e aveva la forma di una scatola, cosí nei due o tre mesi che seguirono lui le comprò dei soprabiti nuovi che le donavano: cinque. Avrebbe potuto comprargliene cento. Non riusciva piú a fermarsi. Con la vita che faceva, di rado spendeva qualcosa per sé, e nulla lo rendeva piú felice che farla essere bella come non era mai stata. E a poco a poco, col passare del tempo, nulla sembrava rendere piú felice lei. Era un’orgia di spese e di regali che stava bene a entrambi.

Lei però non voleva che i suoi genitori venissero a sapere della relazione. Avrebbe dato loro un dolore troppo grande. Piú grande di quando hai detto che eri lesbica?, pensò lui. Gli aveva spiegato cos’era successo quel giorno di tanto tempo prima, quando aveva ventitre anni. Sua madre aveva pianto e aveva detto: «Non riesco a immaginare nulla di peggio», e suo padre aveva finto di accettarlo ma non aveva piú sorriso per mesi. Per un bel pezzo in quella casa erano rimasti in stato di shock dopo che Pegeen aveva detto loro quello che era. – Perché sapere di me li addolorerebbe tanto? – le chiese. – Perché ti conoscono da un sacco di tempo. Perché avete tutti la stessa età. – Come vuoi, – disse lui. Ma non poteva smettere di rimuginare sulle sue motivazioni. Forse agiva cosí perché era abituata a gestire la propria vita a compartimenti stagni, la vita sessuale nettamente distinta dalla vita come figlia; forse non voleva che il sesso fosse contaminato o addomesticato da preoccupazioni filiali. Forse c’era un certo imbarazzo per essere passata dall’andare a letto con donne all’andare a letto con un uomo, e un po’ di incertezza riguardo al futuro: il cambiamento sarebbe stato permanente? Qualunque fosse il motivo, a lui sembrava di aver fatto un errore a permetterle di tenere nascosto alla famiglia il rapporto che li legava. Era troppo vecchio per non sentirsi compromesso dal dover essere tenuto segreto. E non capiva perché una donna di quarant’anni dovesse preoccuparsi tanto di ciò che pensavano i suoi genitori, soprattutto una donna di quarant’anni che aveva fatto un mucchio di cose che i suoi genitori disapprovavano, e che aveva sempre resistito alla loro opposizione. Non gli piaceva che si dimostrasse piú giovane di quel che era, ma non calcò la mano, non per il momento, e cosí la sua famiglia continuò a pensare che Pegeen facesse sempre la solita vita, mentre ad Axler, col passare dei mesi, sembrava che, in modo lento ma naturale, andassero svanendo gli ultimi segni visibili di quelli che ora chiamava «i miei diciassette anni di errori».

Ciononostante, un mattino a colazione, con parole che lo sorpresero non meno di quanto sorprendessero lei, Axler disse: – È una cosa che vuoi veramente, Pegeen? Finora ci siamo divertiti, e la novità è stata grande, e forti sono stati i sentimenti, e forte anche il piacere, ma mi chiedo se sai quello che fai.

– Certo che lo so. Tutto questo mi piace, – disse lei, – e non voglio che finisca.

– Ma tu capisci di cosa sto parlando?

– Sí. Questioni di età. Questioni di storia sessuale. I tuoi antichi rapporti con i miei genitori. Probabilmente altre venti cose. E nessuna di esse mi preoccupa. Qualcuna preoccupa te?

– Non sarebbe una buona idea, – ribatté lui, – prima che qualcuno muoia di crepacuore, fare marcia indietro?

– Non sei felice? – domandò lei.

– La mia vita è stata molto precaria negli ultimi anni. Non credo di avere la forza che mi ci vorrebbe se le mie speranze venissero annientate. Ho avuto la mia parte di infelicità coniugale, e prima la mia parte di fiaschi con le donne. È sempre doloroso, sempre duro, e arrivato a questo punto della vita non voglio passarci di nuovo.

– Simon, siamo stati piantati tutt’e due, – disse lei. – Tu avevi toccato il fondo di una crisi e tua moglie ti ha lasciato e ti ha detto di arrangiarti. Io sono stata tradita da Priscilla. Che non ha lasciato solo me, ha lasciato il corpo che un tempo avevo amato per diventare il corpo di un uomo baffuto di nome Jack. Se dobbiamo fallire, che sia per colpa nostra, non a causa loro, non a causa del tuo passato o del mio. Non voglio incoraggiarti in un’impresa rischiosa, e lo so che è rischiosa. Per tutt’e due, tra l’altro. Anch’io sento che c’è un rischio. È di un tipo diverso dal tuo, naturalmente. Ma l’esito peggiore possibile è che tu mi sfugga. Non sopporterei di perderti in questo momento. Lo farò se devo, ma quanto al rischio… il rischio è stato corso. L’abbiamo già fatto. È troppo tardi per proteggersi battendo in ritirata.

– Stai dicendo che non vuoi troncare questa storia mentre potresti ancora uscirne senza danni?

– Assolutamente. Io voglio te, capisci? Sono arrivata al punto di contare su di te. Non andartene. Tutto questo mi piace, e non voglio che finisca. Non c’è altro da dire. Posso dire solo che ci proverò, se vuoi. Questa non è piú un’infatuazione.

– Abbiamo corso il rischio, – disse lui, facendole eco.

– Abbiamo corso il rischio, – ripeté lei.

Quattro parole a significare che quello, per lei, sarebbe stato il momento peggiore per essere mollata da lui. Dirà tutto ciò che sente il bisogno di dire, pensò lui, anche se il dialogo somiglia a quello di una soap opera, per non rompere, perché soffre ancora, dopo tutti questi mesi, per lo shock di Priscilla e gli ultimatum di Louise. Non è un inganno scegliere questa linea: è il modo che abbiamo di essere istintivamente strategici. Ma alla fine verrà un giorno, pensò Axler, in cui le circostanze la metteranno in una posizione molto piú forte rispetto all’idea della fine, mentre io sarò arrivato a trovarmi in una posizione piú debole per il semplice fatto di essere stato troppo indeciso per troncare adesso. E quando lei sarà forte e io debole, il colpo che verrà inferto sarà insopportabile.

Credeva di leggere chiaramente nel loro futuro, tuttavia non poteva far nulla per cambiare le sue prospettive. Era troppo felice.

Col passare dei mesi Pegeen si era fatta crescere i capelli fin quasi alle spalle, folti capelli castani di una naturale lucentezza, che decise di tagliare secondo una linea diversa da quella corta e mascolina a cui aveva accordato la propria preferenza per tutta la vita adulta. Un venerdí arrivò con un paio di riviste piene di foto di acconciature, riviste di un tipo che lui non aveva mai sfogliato. – Dove le hai trovate? – le chiese. – Una delle mie studentesse, – disse lei. Si sedettero fianco a fianco sul sofà nel soggiorno mentre lei voltava le pagine e ne piegava gli angoli dove c’era un taglio di capelli che poteva starle bene. Alla fine ridussero le loro preferenze a due, e lei strappò le pagine e lui telefonò a un’amica attrice di Manhattan per chiederle dove Pegeen doveva andare a farsi tagliare i capelli, la stessa amica che gli aveva detto dove portarla a scegliere i vestiti e dove andare a comprarle i gioielli. – Vorrei avere anch’io un paparino generoso come te, – disse l’amica. Ma lui non la vedeva cosí. Lui non faceva altro che aiutare Pegeen a essere la donna che lui avrebbe voluto, anziché la donna che un’altra donna avrebbe voluto. Insieme, erano tutti presi dalla realizzazione di quel progetto.

L’accompagnò da un costoso parrucchiere fra la Sessantesima e la Settantesima Est. Una ragazza giapponese le tagliò i capelli dopo aver guardato le due foto che avevano portato. Lui non aveva mai visto Pegeen cosí disarmata come lí seduta in poltrona davanti allo specchio dopo che le avevano lavato i capelli. Non l’aveva mai vista cosí debole o cosí incerta sul modo di comportarsi. La vista di Pegeen silenziosa e imbarazzata, là seduta ai limiti dell’umiliazione, incapace persino di guardarsi nello specchio, diede al taglio di capelli un significato completamente diverso, risvegliando tutta la sua sfiducia in se stesso e costringendolo a chiedersi, come aveva fatto piú di una volta, se non era stato accecato da una stupenda e disperata illusione. Cosa attirava una donna come quella verso un uomo che stava perdendo cosí tante cose? Non voleva per caso obbligarla a fingere di essere diversa da quella che era? Non la stava mettendo in costume come se una magnifica sottana potesse avere la meglio su quasi due decenni di esperienza vissuta? Non la stava travisando mentre diceva a se stesso una bugia, e una bugia che alla fine poteva essere tutt’altro che innocua? E se lui si fosse dimostrato solo una breve intrusione maschile nella vita di una lesbica?

Ma poi i lucenti e folti capelli castani di Pegeen vennero tagliati – tagliati fin sotto la base del collo in modo irregolare e asimmetrico, un’acconciatura che le conferiva la giusta aria strafottente che dà una zazzera arruffata con cura – e lei gli apparve cosí trasformata che tutte quelle domande rimaste senza risposta smisero di inquietarlo; smisero persino di richiedergli una seria riflessione. A Pegeen occorse un po’ di tempo in piú per convincersi che avevano scelto bene, ma in pochi giorni il taglio dei capelli con tutto ciò che significava in termini di implicito consenso a plasmarla, a decidere quale doveva essere il suo aspetto e a proporre un’idea di quale fosse la sua vera vita, sembrò essere diventato piú che accettabile. Forse perché il suo aspetto a lui piaceva cosí tanto, Pegeen non rifiutò di continuare a sottomettersi ai suoi desideri, per estranei che potessero essere alla percezione che aveva di se stessa. Sempre che la volontà che veniva sottomessa fosse davvero la sua, sempre che non fosse stata lei ad aver avuto la meglio su di lui, ad averlo preso e dominato.

Un venerdí, nel tardo pomeriggio, Pegeen si presentò angosciata a casa di lui: a Lansing, verso mezzanotte, i suoi avevano ricevuto una telefonata di Louise che spiegava com’era stata opportunisticamente sfruttata e ingannata dalla loro figlia.

– Che altro? – disse lui.

La sua domanda la fece quasi scoppiare in lacrime. – Gli ha parlato di te. Ha detto che vivevo con te.

– E loro che hanno detto?

– Quella che ha risposto era mia madre. Lui dormiva.

– E lei come l’ha presa?

– Mi ha chiesto se era vero. Le ho detto che non vivevo con te, ma che eravamo diventati amici intimi.

– Tuo padre cos’ha detto?

– Non è venuto al telefono.

– Perché?

– Non so. Quella stronza miserabile! Perché non la pianta? – gridò. – Quella stronza ossessiva, possessiva, gelosa, vendicativa!

– Ti importa davvero cosí tanto che l’abbia detto ai tuoi genitori?

– A te non importa? – gli chiese Pegeen.

– Solo nella misura in cui disturba te. Altrimenti, non me ne importa nulla. Anzi, è tanto di guadagnato.

– Cosa devo dire quando parlo con mio padre? – chiese lei.

– Pegeen Mike… di’ quello che ti pare.

– E se lui decidesse di non rivolgermi piú la parola?

– Dubito che succederà.

– E se volesse parlare con te?

– Allora parleremo, – disse Axler.

– Sarà molto arrabbiato?

– Tuo padre è un uomo ragionevole e sensibile. Perché dovrebbe essere arrabbiato?

– Oh, quella stronza… è completamente fuori di testa. È incontrollabile.

– Sí, – disse lui, – la tormenta pensare a te. Ma tu non sei incontrollabile, non lo sono io, e nemmeno tua madre e tuo padre.

– Allora perché mio padre non ha voluto parlare con me?

– Se sei cosí preoccupata, perché non lo chiami e non glielo chiedi? Forse vorresti che gli parlassi io?

– No, lo faccio io… ci penso io.

Aspettò la fine della cena prima di chiamare Lansing, e poi la telefonata la fece dal suo studio, dietro la porta chiusa. Dopo un quarto d’ora uscí col telefono in mano e si diresse verso di lui.

Axler prese il telefono. – Asa? Pronto.

– Ciao. Sento dire che hai sedotto mia figlia.

– È vero, abbiamo una storia.

– Be’, non posso dire di non essere un po’ stupito.

– Be’, – rispose Axler con una risata, – neanch’io posso dire di non essere stupito.

– Quando mi ha detto che voleva venire a trovarti, non pensavo che sarebbe finita cosí, – disse Asa.

– Be’, sono lieto che la cosa non ti spiaccia, – replicò Axler.

Ci fu una pausa prima che Asa rispondesse: – Pegeen è maggiorenne e vaccinata. Non è piú una bambina da un pezzo. Senti, Carol vuole salutarti, – disse Asa, quindi passò il telefono alla moglie.

– Dunque, dunque, – disse Carol, – chi l’avrebbe immaginato quando eravamo tutti ragazzini a New York?

– Nessuno, – rispose Axler. – Non avrei potuto immaginarlo nemmeno il giorno in cui si è presentata qui da me.

– Mia figlia sta facendo la cosa giusta? – gli chiese Carol.

– Io credo di sí.

– Quali sono i tuoi progetti? – chiese Carol.

– Non ne ho.

– Pegeen è sempre stata una fonte di sorprese.

– Ha sorpreso anche me, – disse Axler. – Credo che sia sorpresa lei stessa.

– Be’, ha sorpreso la sua amica Louise.

Axler non si prese la briga di rispondere che Louise era lei stessa un po’ una sorpresa. L’intenzione di Carol, chiaramente, era di essere mite e cordiale, ma dalla freddezza del suo tono Axler era certo che la telefonata la metteva a dura prova, e che lei e Asa volevano solo fare la cosa giusta, che era il loro modo di affrontare le situazioni: fare la cosa sensata che rendesse piú felice Pegeen. Non volevano alienarsela a quarant’anni come avevano fatto a ventitre quando aveva detto loro di essere lesbica.

Infatti, Carol venne in aereo dal Michigan il sabato successivo per andare a pranzo con Pegeen a New York. Quel mattino Pegeen partí in auto per la città, e tornò verso le otto di sera. Axler aveva preparato la cena, e solo alla fine del pasto le chiese com’era andata.

– Allora, cos’ha detto?

– Vuoi che sia assolutamente sincera? – rispose Pegeen.

– Ti prego, – disse lui.

– Va bene, – disse lei, – cercherò di ricordare con la massima esattezza. È stato una specie di benevolo terzo grado. Da parte sua non c’è stato nulla di volgare, né di interessato. Puro e semplice candore del Kansas, tipico di mia madre.

– Va’ avanti.

– Vuoi sapere tutto? – disse Pegeen.

– Sí, – rispose lui.

– Be’, in primo luogo, al ristorante, è passata davanti al mio tavolo senza riconoscermi. Ho detto: «Mamma», e allora si è voltata e ha detto: «Oh, accidenti, è mia figlia. Come sei bella!» E io ho detto: «Bella? Prima non mi trovavi bella?» E lei ha detto: «Una pettinatura nuova, un abito di quelli che non ti ho mai visto addosso…» E io ho detto: «Piú femminile, vuoi dire». «Decisamente, – ha detto lei, – sí. Ti dona molto, cara. Da quanto tempo?» Gliel’ho spiegato, e lei ha detto: «È un taglio molto elegante. Dev’essere costato parecchio». E io le ho detto: «Sto solo provando qualcosa di nuovo». E lei ha detto: «Credo che tu stia provando qualcosa di nuovo in molti sensi. Sono venuta perché voglio essere certa che hai riflettuto a fondo su tutte le implicazioni della tua relazione». Le ho ricordato che secondo me nessuno riflette mai a fondo quando è romanticamente legato a qualcuno. Le ho spiegato che in questo momento la cosa mi rendeva molto felice. E allora lei ha detto: «Ci hanno informato che è stato in un ospedale psichiatrico. Alcuni dicono che c’è stato sei mesi, altri dicono un anno: non conosco i dettagli». Le ho detto che ci sei stato per ventisei giorni, ormai dodici mesi fa, e che aveva a che fare con certi problemi di recitazione. Le ho detto che avevi perso temporaneamente la capacità di recitare e che, privato di quella, sei entrato in crisi. Ho detto che, quali che fossero i problemi emotivi o mentali che avevi allora, non si manifestavano nella nostra vita insieme. Ho detto che eri sano di mente come o forse piú di chiunque altro con cui sono stata, e che quando siamo insieme sembri stabile e piuttosto felice. E lei mi ha chiesto: «Ha ancora gli stessi problemi con la recitazione?» E io le ho risposto: sí e no… che li avevi, ma che a mio parere, grazie al fatto che mi avevi incontrato e stavi con me, non era piú la stessa tragedia di prima. Adesso eri piú come un atleta che si è infortunato e sta ai bordi del campo in attesa di rientrare. E lei ha detto: «Non penserai di doverlo salvare tu?» Le ho assicurato che non lo pensavo, e lei mi ha chiesto come passavi il tempo, e io ho detto: «Vede me. Credo che intenda continuare a vedermi. Legge. Mi compra dei vestiti». Lei non se l’è fatta scappare: «Allora questa è roba che ti ha comprato lui. Be’, mi vien da pensare che qui ci sia all’opera una certa fantasia di salvataggio». Le ho detto che la stava mettendo giú troppo dura e che per noi era solo un modo di divertirsi, e perché voler cercare dell’altro. Ho detto: «Non sta provando a influenzarmi in modi in cui non voglio essere influenzata». Lei mi ha chiesto: «Lo accompagni quando ti compra i vestiti?» E io ho detto: «Di solito. Ma lo ripeto, credo che questo lo renda felice. E lo posso capire. E poiché è un esperimento che voglio fare anch’io, – le ho spiegato, – non vedo perché chiunque altro dovrebbe preoccuparsene». Ed è stato a questo punto che il tenore della conversazione è cambiato. Lei ha detto: «Be’, devo ammettere che io sono preoccupata. Tu non conosci il mondo degli uomini, e mi pare strano – o forse non è cosí strano – che l’uomo sul quale è caduta la tua scelta per iniziare questa nuova vita sia uno che ha venticinque anni piú di te e che ha avuto un esaurimento nervoso che lo ha costretto a farsi ricoverare. E che ora è praticamente disoccupato. Tutte queste cose non sono di buon auspicio, secondo me». Le ho spiegato che non mi sembrava peggiore della situazione in cui ero prima, con una persona che ho amato moltissimo e che un bel giorno mi ha detto: «Non posso tirare avanti con questo corpo», e ha deciso che voleva essere un uomo. E poi le ho fatto il mio discorsetto, il discorsetto che avevo preparato e recitato ad alta voce mentre andavo in città. Ho detto: «Quanto alla sua età, mamma, non la vedo come un problema. Se voglio provare a essere attraente per gli uomini e vedere se gli uomini mi attraggono, questo mi sembra il sistema migliore. Il test è proprio questa persona. Ai miei occhi, i venticinque anni che ha piú di me contano come venticinque anni di esperienza supplementare rispetto a un uomo che avesse la mia età. Non stiamo parlando di sposarci. Te l’ho spiegato: ci divertiamo e basta. E con lui io mi diverto, in parte, perché ha venticinque anni di piú». E lei ha detto: «E lui si diverte con te perché hai venticinque anni di meno». Allora io ho detto: «Non offenderti, mamma, ma non sarà che per caso sei gelosa?» E lei ha riso e ha detto: «Mia cara, ho sessantatre anni e sono felicemente sposata con tuo padre da piú di quaranta. È vero, – ha detto, – e magari ti alletterà saperlo, che quando io ho fatto la parte di Pegeen Mike e Simon quella di Christy nel dramma di Synge, mi sono presa una cotta per lui. Chi non aveva una cotta per Axler? Era straordinariamente attraente, energico, esuberante, allegro, era un grande, portentoso attore, un magnifico attore, con un talento già chiaramente superiore di molte spanne a quello di chiunque altro. Cosí, certo, mi sono presa una cotta, ma ero già sposata e incinta di te. La cotta è stata una cosa passeggera. Negli anni successivi non credo di averlo visto piú di dieci volte. Lo rispetto enormemente come attore. Ma continuo a essere preoccupata da quel ricovero all’ospedale. Non è poca cosa per una persona farsi ricoverare in una clinica psichiatrica e starci per un certo tempo, breve o lungo che sia. Senti, – ha detto, – per me l’importante è che tu non chiuda gli occhi davanti a tutto questo. Non devi fare ciò che, per mancanza di esperienza, farebbe una ventenne. Non voglio che ti lasci guidare dall’ingenuità». E io ho detto: «Non sono certo un’ingenua, mamma». Le ho chiesto cosa aveva paura che potesse capitare che non potrebbe capitare a chiunque. E lei ha detto: «Di cosa ho paura? Ho paura del fatto che diventa ogni giorno piú vecchio. È cosí che funziona. Prima hai sessantacinque anni e poi ne hai sessantasei e poi ne hai sessantasette, e via dicendo. Tra pochi anni ne avrà settanta. Ti troverai con un uomo di settant’anni. E la cosa non si fermerà lí, – mi ha spiegato. – Dopodiché diventerà un uomo di settantacinque anni. La ruota gira e non si ferma. Comincerà ad avere i problemi di salute che hanno le persone anziane, forse cose anche peggiori, e tu sarai la persona che dovrà prendersi cura di lui. Lo ami?», ha detto. Ho detto che credevo di sí. E lei mi ha chiesto: «Lui ti ama?» E io ho detto che credevo di sí. Ho detto: «Credo che andrà tutto bene, mamma. Ho pensato che lui deve preoccuparsi piú di me. Che questa è una situazione piú precaria per lui che per me». Lei mi ha chiesto: «Perché?» Io ho risposto: «Be’, come dici tu, io sto facendo questa prova per la prima volta. Certo, è una novità anche per lui, mai però quanto lo è per me. Sono rimasta molto sorpresa da quanto mi è piaciuta. Ma non posso ancora dichiarare che è la trasformazione che manterrò per sempre». E lei ha detto: «D’accordo allora, non voglio insistere e dare a questa cosa un’urgenza che non ha e che magari non avrà mai. Ho solo pensato che per me era importante vederti, e devo dire, ancora una volta, che sono molto colpita dal tuo aspetto». E io le ho chiesto: «Ti fa pensare che avresti preferito una figlia eterosessuale?» Lei ha detto: «Mi fa pensare che tu preferiresti non essere piú lesbica. Naturalmente, puoi fare quel che vuoi. Nella tua indipendente giovinezza sei stata tu a educare noi in questo senso. Ma non posso fare a meno di notare il cambiamento fisico. Ti sei impegnata a fondo affinché lo notassero tutti. Ti trucchi persino gli occhi. È una metamorfosi impressionante». È stato in quel momento che ho detto: «Secondo te papà cosa ne pensa?» E lei ha detto: «Non ha potuto essere qui perché tra pochi giorni c’è la prima di un nuovo lavoro e non può assentarsi. Ma voleva venire a trovarti, e appena l’opera sarà andata in scena verrà, se per te va bene. E allora potrai chiedergli direttamente cosa pensa. Dunque, eccoci qua. Vogliamo andare a fare un po’ di shopping? – mi ha detto. – Sto ammirando le tue scarpe. Dove le hai comprate?» Gliel’ho spiegato, e lei ha detto: «Avresti qualcosa in contrario se ne comprassi un paio come le tue? Vuoi accompagnarmi al negozio?» E cosí abbiamo preso un taxi fino a Madison Avenue, dove lei ha comprato un paio di décolleté di vernice della sua misura bicolori rosa e beige con la punta aguzza e un tacchetto a spillo. Ora passeggia per il Michigan con le mie scarpe di Prada. Ha ammirato anche la mia gonna, perciò siamo andate a SoHo a cercare una gonna come la mia della sua taglia. Lieto fine, no? Ma nel tardo pomeriggio, sai che ha detto, prima di andare all’aeroporto con le borse dello shopping? Questo, e non le scarpe, è il vero finale. Ha detto: «Quello che hai cercato di fare con me a pranzo, Pegeen, è stato farla sembrare la combinazione piú sensata e ragionevole del pianeta, quando è ovvio che non lo è. Ma chi guarda le cose dal di fuori riuscirà solo a innervosirti se cerca di convincerti a desistere da quello che vuoi fare ogni mattina quando ti svegli e che ti tiene a galla al di sopra della ripetitiva monotonia dell’altra gente. Devo dirti che la prima volta che ho saputo di questa faccenda ho pensato che era imprudente e strampalata. E ora che ho parlato con te e passato la giornata con te e fatto acquisti con te per la prima volta da quando sei partita per il college, ora che ho visto come sei tranquilla, razionale e riflessiva nel parlarne, credo ancora che sia una cosa imprudente e strampalata».

A questo punto Pegeen si fermò. Le ci era voluta quasi mezz’ora per ripetergli la conversazione, e in tutto quel tempo lui non aveva aperto bocca e non si era mosso dalla sedia, né le aveva detto di fermarsi in nessuna delle varie occasioni in cui aveva pensato di averne abbastanza. Ma non era nel suo interesse dirle di fermarsi; nel suo interesse era scoprire ogni cosa, ascoltare ogni cosa, e sentirla anche dire, se era proprio necessario: «Non posso ancora dichiarare che è la trasformazione che manterrò per sempre».

– Ecco. Questo è tutto, – disse Pegeen. – È molto vicino a ciò che è stato detto.

– È andata meglio o peggio di come ti aspettavi? – chiese lui.

– Molto meglio. Ero parecchio ansiosa mentre andavo là.

– Be’, a quanto pare non ce n’era bisogno. Ti sei comportata benissimo.

– Ero parecchio ansiosa anche mentre tornavo indietro, e pensavo di dirti tutto questo, e sapevo che, se ero sincera, non avresti gradito tutto quello che avresti ascoltato.

– Be’, non c’era bisogno nemmeno di questo.

– Veramente? Spero che averti detto tutto non ti abbia messo contro mia madre.

– Tua madre ha detto ciò che deve dire una madre. Capisco –. Rise e disse: – Non posso dire che non sono d’accordo con lei.

Con dolcezza, e arrossendo mentre parlava, Pegeen disse: – Spero che questo non ti abbia messo contro di me.

– Hai suscitato la mia ammirazione, – disse lui. – Non hai esitato davanti a nulla, né parlando con lei né parlando con me.

– Davvero? Non sei offeso?

– No –. Ma ovviamente lo era: offeso e arrabbiato. Era rimasto là seduto in silenzio ad ascoltare – ad ascoltare attentamente come faceva da tutta la vita, in scena e fuori – ma era stato punto sul vivo dalla spiegazione che aveva dato Carol del processo di invecchiamento e del pericolo che questo processo rappresentava per sua figlia. E non era rimasto imperturbabile, per suadente che fosse ora la sua voce, davanti alle parole «imprudente e strampalata». Axler, in realtà, era disgustato da tutta la faccenda. Sarebbe stato giusto se Pegeen avesse avuto ventidue anni e tra loro ci fossero stati quarant’anni di differenza, ma che senso aveva quella bizzarra possessività verso un’avventurosa quarantenne? E che diavolo importavano a una donna di quarant’anni i desideri dei suoi genitori? Una parte di loro, pensò, doveva essere contenta che Pegeen fosse con lui, se non altro da un punto di vista venale. Ecco che un uomo illustre con un mucchio di soldi intende prendersi cura di lei. Dopotutto, neanche lei sta ringiovanendo. Si sistema con uno che ha ottenuto qualcosa nella vita… che c’è di tanto sbagliato? Invece il messaggio è: attenta a non diventare la badante di un vecchio pazzo.

Tuttavia, visto che Pegeen sembrava avere respinto la descrizione che Carol aveva fatto di lui, Axler ritenne che la cosa piú saggia fosse tacere, sia a proposito di questo che di tutte le altre cose che non gli erano piaciute. A che sarebbe servito attaccare sua madre perché era una ficcanaso? Meglio dare l’impressione di riderci sopra. Tanto, se Pegeen fosse arrivata a vederlo con gli occhi di sua madre, non c’era nulla che lui potesse dire o fare per impedirglielo.

– Tu per me sei meraviglioso, – gli disse Pegeen. – Sei la medicina ordinata dal dottore.

– Anche tu per me, – disse lui, e lasciò perdere. Non riprese la parola per aggiungere: «Quanto ai tuoi genitori, preferirei risparmiarglielo, ma non posso organizzare la mia vita secondo i loro sentimenti. I loro sentimenti, francamente, per me non hanno cosí tanta importanza, e arrivati a questo punto non dovrebbero averne neanche per te». No, non avrebbe preso questa direzione. Se ne sarebbe stato lí buono, a sperare pazientemente che la famiglia scomparisse.

Il giorno dopo Pegeen si mise a staccare la carta da parati dal suo studio. La carta da parati era stata scelta da Victoria molti anni prima, e anche se ad Axler non faceva né caldo né freddo, Pegeen non ne sopportava la vista e chiese se poteva toglierla. Lui le disse che la stanza era sua e poteva farci quello che voleva, come anche della camera da letto al piano di sopra e del bagno attiguo, e anzi di ogni stanza della casa. Le disse che poteva agevolmente trovarle un imbianchino per quel lavoro, ma lei insistette per staccare la carta e tinteggiare i muri da sola, rendendo cosí lo studio ufficialmente suo. A casa aveva tutti gli arnesi necessari per staccare la carta, e li aveva portati con sé per iniziare il lavoro quella domenica, proprio il giorno dopo che la madre, a New York, aveva messo in dubbio la sensatezza del suo essere lí. Dieci volte nel corso della giornata Axler doveva essere andato a guardarla rimuovere la carta da parati, e ogni volta era venuto via con lo stesso pensiero rassicurante: non avrebbe sgobbato a quel modo se Carol fosse riuscita a convincerla a lasciarlo. Non avrebbe fatto quello che faceva se non avesse avuto in mente di restare.

Quella sera Pegeen tornò al college, dove doveva tenere una lezione la mattina dopo di buon’ora. Quando verso le dieci della domenica sera suonò il telefono, Axler pensò che fosse lei che chiamava per informarlo che era arrivata a casa sana e salva. Non era lei. Era la preside di facoltà piantata in asso. – Si consideri avvisato, Signor Famoso: Pegeen è desiderabile, è audace ed è assolutamente spietata, assolutamente senza cuore, incomparabilmente egoista e completamente amorale –. E con questo la preside riattaccò.

La mattina dopo Axler portò la macchina a revisionare, e il meccanico gli diede un passaggio fino a casa sul suo carro attrezzi. Gli avrebbe restituito l’auto alla fine della giornata, terminato il lavoro. Verso mezzogiorno, quando andò in cucina a farsi un sandwich, Axler guardò per caso fuori dalla finestra e vide qualcuno che attraversava di corsa il campo adiacente al fienile per poi sparire dietro l’edificio. Questa volta era una persona, non un opossum. Si ritrasse dalla finestra e attese: voleva vedere se c’era una seconda, una terza o magari una quarta persona appostata da qualche parte. Negli ultimi mesi c’era stata in tutta la contea una serie preoccupante di furti con scasso, soprattutto nelle seconde case di chi veniva a passarci il weekend, e Axler si chiese se non fosse stata l’assenza dell’automobile sotto la tettoia a catturare l’attenzione dei ladri e a fare di lui l’obiettivo di un furto in pieno giorno. Rapidamente, si diresse verso il solaio per prendere il fucile e lo caricò. Poi tornò giú a sorvegliare la sua proprietà dalla finestra della cucina. Cento metri verso nord, sulla strada che incrociava la sua, scorse una macchina parcheggiata, ma era troppo lontana per capire se c’era qualcuno a bordo. Era insolito vedere un’auto parcheggiata in quel punto a qualunque ora del giorno o della notte: di là dalla strada c’era una collina rivestita di un bosco piuttosto fitto, e da questo lato, aperta campagna fino al fienile, alla tettoia e alla casa. A un certo punto la persona nascosta dietro il fienile avanzò di soppiatto lungo un lato dell’edificio e spiccò una corsa verso la facciata della casa. Dalla finestra della cucina Axler vide che l’intrusa era una donna dai capelli rossi alta e magra, con un paio di jeans e un piumino blu scuro. Stava sbirciando in soggiorno attraverso una finestra. Dato che era ancora incerto se fosse o non fosse sola, per il momento rimase immobile, col fucile tra le mani. Presto la donna cominciò a passare da una finestra all’altra, fermandosi ogni volta a dare una lunga occhiata all’interno. Lui scivolò fuori dalla porta di servizio e, senza farsi vedere, arrivò a meno di tre metri da dove lei era assorta nella contemplazione di una delle finestre del soggiorno sul lato sud della casa.

Puntandole il fucile addosso, Axler parlò. – Che posso fare per lei, signora?

– Oh! – gridò la donna quando si voltò e lo vide. – Oh, mi scusi.

– È sola?

– Sí, sono sola. Sono Louise Renner.

– La preside di facoltà.

– Sí.

Non sembrava molto piú vecchia di Pegeen, ma era decisamente piú alta, solo di pochi centimetri meno di lui, e tra il portamento eretto, la fronte spaziosa e i capelli rossi pettinati all’indietro e annodati severamente sulla nuca, aveva un’aria eroicamente scultorea. – Cosa crede di fare? – le chiese.

– È violazione di domicilio, lo so. Non avevo cattive intenzioni. Credevo che non ci fosse nessuno in casa.

– È venuta qui altre volte?

– Solo a dare un’occhiata passando con la macchina.

– Perché?

– Non potrebbe abbassare quel fucile? Mi innervosisce molto.

– Be’, anche lei mi innervosisce, spiandomi dalle finestre.

– Mi spiace. Chiedo scusa. Sono stata una stupida. Ho fatto una cosa deplorevole. Me ne vado.

– Cosa stava combinando?

– Sa benissimo cosa stavo combinando.

– Me lo dica lei.

– Volevo solo vedere dove va Pegeen ogni weekend.

– È messa male. È venuta fin qui dal Vermont per scoprirlo.

– Aveva promesso che saremmo state insieme per sempre, e tre settimane dopo se n’è andata. Le porgo nuovamente le mie scuse. Non mi era mai capitato. Non avrei mai dovuto venire qui.

– E probabilmente non l’aiuta molto, avermi incontrato.

– No.

– La fa ribollire di gelosia, – disse lui.

– Di odio, se vuole la verità.

– È lei che ha telefonato ieri sera.

– Non sono del tutto padrona di me, – rispose lei.

– Lei è ossessionata e perciò telefona, è ossessionata, perciò viene a molestarci. Ciononostante, è una donna molto attraente.

– Non me l’aveva mai detto un uomo col fucile.

– Non capisco perché Pegeen l’abbia lasciata per me, – disse lui.

– Oh, non lo capisce?

– Lei è una valchiria dai capelli rossi e io sono un vecchio.

– Un vecchio che è una star, signor Axler. Non finga di essere un uomo qualunque.

– Non vuole accomodarsi? – chiese lui.

– Perché? Vuol provare a sedurre anche me? È specializzato nella riconversione delle lesbiche?

– Non sono io il guardone, signora. Non sono stato io a telefonare a mezzanotte ai suoi genitori nel Michigan. Non sono stato io a fare una telefonata anonima al «Signor Famoso» ieri sera. Non è il caso di assumere cosí in fretta questo tono accusatorio.

– Sono fuori di me.

– Crede che valga la pena?

– No. No di certo, – disse lei. – Non è affatto bella. Non è tanto intelligente. E non è cosí matura. È una persona stranamente infantile per la sua età. È una bambina, in realtà. Ha trasformato in un uomo la sua amante del Montana. Ha trasformato me in una mendicante. Chissà in cosa trasformerà lei. Si lascia dietro una scia di disastri. Da dove le viene questo potere?

– Provi a indovinare, – disse lui.

– È questo che porta al disastro? – chiese la preside.

– Ha qualcosa di molto potente dal punto di vista sessuale, – disse lui, e a queste parole la vide rimpicciolirsi dall’imbarazzo. Del resto non poteva essere facile per la sconfitta starsene al cospetto del vincitore.

– Ha molte altre cose che sono potenti, – disse la preside. – È una femmina, ma anche un maschio. È una bambina, ma anche un’adulta. C’è in lei un’adolescente che non è cresciuta. È ingenua, ma anche astuta. Ma il punto non è semplicemente la sua sessualità: siamo noi. Siamo noi che le concediamo il potere di distruggerci. Pegeen è uno zero, sa?

– Lei non soffrirebbe tanto se Pegeen fosse uno zero. Pegeen non sarebbe qui se fosse uno zero. Senta, perché non viene dentro? Cosí potrà vedere tutto da vicino –. E cosí lui avrebbe potuto sapere qualcosa di piú su Pegeen, per virulente che fossero le sue osservazioni sull’essere stata «sfruttata» da lei. Sí, voleva sentirla parlare dal fondo della sua ferita della persona che gli era piú vicina sulla terra.

– È già piú che abbastanza, – disse la preside.

– Venga dentro, – disse lui.

– No.

– Ha paura di me?

– Ho fatto una stupidaggine di cui le chiedo scusa. Ho violato la sua proprietà e mi dispiace. E ora vorrei che mi lasciasse andare.

– Non la trattengo. Lei ha la tendenza a cambiare moralmente le carte in tavola. Ma in primo luogo non l’ho invitata io.

– Allora perché ora vuole che venga dentro? Perché per lei sarebbe un trionfo andare a letto con la donna con cui andava a letto Pegeen?

– Non ho quest’ambizione. Sono soddisfatto delle cose come stanno. Volevo solo essere educato. Magari offrirle una tazza di caffè.

– No, – disse la preside freddamente. – No, lei voleva scopare con me.

– È questo che vorrebbe che io volessi?

– È quello che vuole.

– È questo che è venuta a cercare di farmi fare? Per rendere a Pegeen pan per focaccia?

Tutt’a un tratto lei non riuscí piú a nascondere la propria infelicità e scoppiò in lacrime. – Troppo tardi, troppo tardi, – singhiozzò.

Axler non capiva a che cosa alludesse, ma non chiese spiegazioni. Lei pianse con la faccia tra le mani mentre lui le voltava le spalle e, abbassato il fucile sul fianco, rientrava in casa dalla porta di servizio, sforzandosi di credere che nulla di ciò che Louise aveva detto di Pegeen, sia là fuori che la sera prima per telefono, potesse essere preso sul serio.

Quella sera, quando telefonò a Pegeen, non fece alcun cenno a quanto era successo nel pomeriggio, e nulla le disse della visita di Louise quando lei arrivò per il weekend, anche se, mentre facevano sesso, non riusciva a non pensare alla valchiria dai capelli rossi e a non fantasticare su ciò che non era accaduto.

Capitolo terzo

L’ultimo atto

I dolori alla colonna vertebrale gli rendevano impossibile scoparla da sopra o anche di lato, e per questo si stendeva sulla schiena e lei gli montava addosso, reggendosi sulle ginocchia e sulle mani per non gravargli sul bacino col suo peso. Lassú, in un primo tempo, perse tutto il suo know-how, e lui fu costretto a guidarla con le mani per darle l’idea. – Non so che fare, – disse timidamente Pegeen. – Sei a cavallo, – le disse Axler. – Cavalcalo –. Quando le mise un pollice nel culo lei mandò un sospiro di piacere e mormorò: – Nessuno mi aveva mai messo qualcosa lí dentro. – Inverosimile, – mormorò lui di rimando. E quando piú tardi ci mise dentro il cazzo, lei lo lasciò penetrare fino a non poterne piú. – Ti ha fatto male? – le chiese lui. – Mi ha fatto male, ma sei tu –. Gli teneva spesso il cazzo sul palmo della mano, dopo, guardandolo mentre l’erezione decresceva. – Cosa stai contemplando? – chiese lui. – Ti riempie, – disse lei, – come non riescono a fare né dita né vibratori. È vivo. È una cosa viva –. Imparò in fretta a cavalcarlo, e presto, mentre andava su e giú lentamente, cominciò a dire: – Picchiami, – e quando lui le diede uno schiaffo gli disse in tono beffardo: – Tutto qui? – Hai già la faccia rossa. – Piú forte, – disse. – D’accordo, ma perché? – Perché ti ho dato il permesso di farlo. Perché fa male. Perché mi fa sentire una bambina e mi fa sentire una puttana. Avanti. Piú forte.

Aveva una piccola borsa di plastica piena di giocattoli erotici che un giorno portò con sé e sparpagliò sulle lenzuola mentre si preparavano per andare a letto. Lui aveva visto la sua parte di vibratori, mai però, se non in fotografia, l’imbracatura di cuoio a cui si assicurava il dildo per permettere a una donna di penetrarne un’altra. Gliel’aveva chiesto lui, di portare i suoi giocattoli, e ora la guardò mentre si metteva l’imbracatura e se la tirava su per le cosce fino ai fianchi, per poi stringerla come una cintura. Sembrava un pistolero che si vestiva, un pistolero sbruffone. Poi agganciò all’imbracatura un vibratore di gomma verde, piú o meno in corrispondenza del clitoride. E con solo quello addosso restò in piedi di fianco al letto. – Fammi vedere il tuo, – disse. Lui si tolse i calzoni e li gettò oltre la sponda del letto mentre lei prendeva il cazzo verde e, dopo averlo lubrificato con qualche goccia di olio per neonati, fingeva di masturbarsi come un uomo. – Sembra vero, – disse lui ammirato. – Vuoi che ti fotta con questo. – No, grazie, – disse lui. – Non ti faccio male, – disse lei in tono allettante, abbassando leziosamente la voce. – Prometto di essere molto tenera con te, – disse. – Divertente, ma non hai un’aria molto tenera. – Non lasciarti ingannare dalle apparenze. Oh, dài, – disse ridendo, – ti piacerà. È una nuova frontiera. – Piacerà a te. No, io preferisco che tu mi faccia un pompino, – disse lui. – Mentre porto il mio cazzo, – disse lei. – Sí. – Mentre porto il mio grosso cazzo verde. – È quello che voglio. – Mentre io porto il mio grosso cazzo verde e tu giochi con le mie tette. – Questo mi sta bene. – E quando ti avrò fatto un pompino, – disse lei, – tu lo farai a me. Succhierai il mio grosso cazzo verde. – Potrei farlo, – disse lui. – Dunque… questo potresti farlo. Tracci strani confini, tu. In ogni caso, dovresti sapere che sei ancora un uomo molto contorto se ti fai eccitare da una ragazza come me. – Può darsi che io sia un uomo contorto, ma dubito che tu possa ancora definirti «una ragazza come me». – Oh, davvero? – Non con quel taglio di capelli da duecento dollari. Non con quei vestiti. Non con tua madre che compra le stesse scarpe che hai comprato tu –. La mano di lei continuava a pompare lentamente il vibratore. – Credi davvero di aver cacciato la lesbica fuori da me a forza di scopate in soli dieci mesi? – Mi stai dicendo che vai ancora a letto con le donne? – le chiese. Lei continuò a strofinare il dildo, in silenzio. – È cosí, Pegeen? – Con la mano libera lei alzò due dita. – Che vuol dire? – domandò lui. – Due volte. – Con Louise? – Non essere assurdo. – Con chi, allora? – Lei arrossí. – C’erano due squadre femminili che giocavano a softball sul campo davanti al quale passo mentre vado a lezione. Ho parcheggiato, sono scesa, mi sono avvicinata e sono rimasta in piedi vicino alla panchina –. Dopo una pausa, confessò: – Quando l’incontro è finito, la lanciatrice bionda con la coda di cavallo è venuta a casa con me. – E la seconda volta? – L’altra lanciatrice bionda con la coda di cavallo. – Restano un bel po’ di giocatrici in attesa del loro turno, – disse lui. – Non volevo farlo, – disse lei, sempre strofinando il cazzo verde. – Forse, Pegeen Mike, – disse lui, ricorrendo all’accento irlandese che non aveva piú usato da quando recitava nel Furfantello, – dovresti dirmi se hai in programma di rifarlo. Io preferirei di no, – disse, sapendo che era incapace di tenersela stretta e di averla soltanto per sé, sapendo che il suo ardore era stato ridicolo, e cercando di celare i propri sentimenti dietro l’inflessione irlandese. – Te l’ho detto, non ci pensavo proprio, – e poi, o perché il desiderio l’aveva sopraffatta o perché voleva farlo tacere, gli strinse il cazzo tra le labbra, giú fino in fondo, mentre lo sguardo di Axler rimaneva ipnoticamente incollato al suo, e l’impotenza che sentiva, la consapevolezza che quella relazione era un’inutile follia e che la storia di Pegeen era immodificabile e Pegeen irraggiungibile, e che lui stava tirandosi addosso un’altra sventura, cominciò a indebolirsi. La stranezza di quella combinazione avrebbe smontato molte persone. Solo che era proprio la stranezza a essere tanto eccitante. Ma restava anche il terrore, il terrore di tornare a essere completamente finito. Il terrore di diventare la prossima Louise, l’ex pieno di rancore, ossessionato e vendicativo.

Il padre di Pegeen non aveva migliorato le cose quando era venuto a trovarla a New York il sabato dopo la visita di sua madre. Asa riprese da dove aveva finito lei nel citare i pericoli della loro relazione, dalla perniciosa età del suo amante alla sua perniciosa condizione psichiatrica. Ma la strategia di Axler rimase la stessa: sopporta tutto quello che senti; finché Pegeen non cede, non precipitarti a sfidare i genitori.

«Tua madre aveva ragione, è una splendida acconciatura», Pegeen riferí che le aveva detto suo padre. «E aveva ragione anche a proposito dei vestiti», aveva detto. «Sí? Mi trovi carina?» «Sei magnifica», aveva detto lui. «Meglio di com’ero una volta?» «Diversa. Completamente diversa». «Sono piú somigliante alla figlia che avresti voluto avere?» «Hai sicuramente un aspetto che non avevi mai avuto. Ora, parlami di Simon». «Dopo i problemi al Kennedy Center, – aveva detto lei, – è finito in un ospedale psichiatrico. È di questo che vuoi parlare?», aveva chiesto. «Sí, certo», aveva detto lui. «Abbiamo tutti dei grossi problemi, papà». «Abbiamo tutti dei grossi problemi, ma non tutti finiamo in un ospedale psichiatrico». «Già che ci siamo, – aveva detto lei, – e la differenza di età? Non vuoi chiedermi anche di questo?» «Permettimi di farti un’altra domanda: tu sei una che si lascia incantare dai divi, Pegeen? Sai che certi personaggi hanno intorno una sorta di campo di forza, un campo elettrico che li circonda? Nel suo caso dipende dal fatto che Axler è una star. Ti sei lasciata affascinare da una star?» Lei aveva riso. «All’inizio, probabilmente. A questo punto, ti assicuro, lui è soltanto se stesso». «Posso chiederti quali impegni avete preso l’uno verso l’altra?», aveva detto lui. «Veramente, questa è una cosa di cui non parliamo mai». «Forse allora dovresti parlarne con me. Hai intenzione di sposarlo, Pegeen?» «Non credo che gli interessi sposare nessuno». «E a te?» «Perché mi tratti come se avessi dodici anni?», aveva detto lei. «Perché può darsi che in materia di uomini tu ne abbia dodici piuttosto che quaranta. Ascolta, Simon Axler è un attore affascinante, e per una donna probabilmente è anche un uomo affascinante. Ma ha gli anni che ha, e tu hai gli anni che hai. Lui ha fatto la vita che ha fatto, con i suoi alti trionfali e i suoi bassi disastrosi, e tu hai fatto la vita che hai fatto. E siccome quei suoi bassi mi preoccupano molto, non intendo parlarne con la stessa leggerezza con cui ne parli tu. Non ti dirò che non intendo fare pressioni su di te. È proprio quello che voglio fare».

E fu quello che fece: diversamente dalla madre, non concluse la giornata facendo shopping con la figlia, ma invece prese a telefonarle a casa sua ogni sera intorno all’ora di cena per continuare, piú o meno nella stessa vena vigorosa, la conversazione che avevano intavolato in un ristorante di New York. Raramente padre e figlia parlavano per meno di un’ora.

A letto, la sera dopo che Pegeen aveva visto suo padre a New York, Axler le aveva detto: – Voglio che tu sappia, Pegeen, che sono sbalordito da tutta questa storia con i tuoi genitori. Non capisco che posto stanno venendo a occupare nella nostra vita. Mi sembra troppo grande e, tutto considerato, anche un po’ assurdo. D’altra parte, riconosco che certi misteri riguardo alle persone e ai loro legami affettivi con i genitori possono essere sorprendenti in qualunque fase della vita. Cosí stando le cose, lascia che ti faccia una proposta: se vuoi che io prenda un aereo e vada nel Michigan a parlare con tuo padre, andrò nel Michigan e starò a sentire ogni parola che vuole dire, e quando mi avrà detto perché è contrario, non discuterò nemmeno, parteggerò per lui. Gli dirò che tutte le sue preoccupazioni sono assolutamente ragionevoli e che io sono d’accordo: a giudicare dalle apparenze, è una situazione poco promettente e comporta sicuramente dei rischi. Ma rimane il fatto che io e sua figlia abbiamo questi sentimenti reciproci. E il fatto che un tempo, a New York, da ragazzi eravamo tutti amici, lui, Carol e io, non ha proprio la minima importanza. Questo è l’unico argomento che citerò a mia difesa, Pegeen, se vuoi che vada a trovarlo. Dipende da te. Lo farò questa settimana, se vuoi. Lo farò domani stesso, se è quello che vuoi.

– Vederci tra noi è stato piú che sufficiente, – rispose lei. – Non c’è bisogno di spingerci oltre. Soprattutto perché hai già ben chiarito che secondo te la faccenda è già andata troppo in là.

– Non sono certo che tu abbia ragione, – disse lui. – Meglio affrontare il padre furibondo…

– Ma mio padre non è furibondo, infuriarsi non è nella sua natura, e non credo ci sia alcun bisogno di provocare una scenata quando scenate in vista non ce ne sono.

Oh, eccome se ci sono scenate in vista, pensò lui: per i due conformisti duri e puri che hai come genitori non è finita qui. Ma a lei si limitò a dire: – D’accordo. Volevo solo farti una proposta. In fondo, dipende da te.

Ma era vero? Non dipendeva piuttosto da lui neutralizzarli contrastandoli anziché lasciare semplicemente che le cose facessero il loro corso a tempo debito? In realtà, avrebbe dovuto accompagnarla a New York, avrebbe dovuto insistere per essere presente e per affrontare Asa e tenergli testa. A onta di ciò che aveva detto Pegeen per tranquillizzarlo, era restio ad abbandonare l’idea che Asa fosse un padre infuriato che sarebbe stato meglio affrontare, invece di sfuggirlo. Ti sei lasciata affascinare da una star? Non poteva che convincersi di questo, lui che non aveva mai avuto parti importanti. Sí, pensò Axler, si è convinto che la mia fama gli ha portato via l’unica figlia, una fama che Asa invece non è mai riuscito a ottenere.

Solo a metà della settimana successiva poté leggere il periodico della contea del venerdí precedente e l’articolo di apertura su un delitto che aveva avuto luogo in un agiato centro suburbano a quaranta chilometri da lí. Un uomo di una quarantina d’anni, rinomato specialista in chirurgia plastica, era stato ucciso a colpi di arma da fuoco dalla moglie da cui era separato. La moglie era Sybil Van Buren.

Allora, evidentemente, i due non stavano piú insieme. Lei aveva attraversato la città fino alla casa di lui, e appena l’ex marito aveva aperto la porta gli aveva sparato due colpi in pieno petto, uccidendolo all’istante. Aveva lasciato cadere sulla soglia l’arma del delitto, poi era andata a sedersi in macchina fino all’arrivo della polizia, che l’aveva arrestata e portata alla stazione. Quando era uscita, quel mattino, aveva già chiesto alla babysitter di trascorrere la giornata con i due figli.

Axler telefonò a Pegeen per raccontarle l’accaduto.

– Avevi mai pensato che potesse fare una cosa simile? – gli chiese lei.

– Una persona cosí inerme? No. Mai. Il motivo c’era, la molestia, ma un omicidio? Mi aveva chiesto se lo avrei ucciso per lei. Mi aveva detto: «Ho bisogno di qualcuno per uccidere quell’uomo malvagio».

– Che storia sconvolgente, – disse Pegeen.

– Una donna dall’aria cosí fragile, sembrava piú fragile di una bambina. La persona meno minacciosa che si potesse incontrare.

– Non la condanneranno mai, – disse Pegeen.

– Forse sí, forse no. Forse chiederanno l’infermità mentale e se la caverà. Ma che sarà di lei, dopo? Che sarà della figlia? Se la bambina non era già condannata a causa di ciò che le aveva fatto il patrigno, adesso è condannata a causa di ciò che ha fatto sua madre. Per non parlare del figlio piccolo.

– Vuoi che venga lí stasera? Mi sembri molto scosso.

– No, no, – disse lui. – Sto bene. È solo che fuori dalla scena non ho mai conosciuto nessuno che avesse ucciso qualcuno.

– Piú tardi vengo lí, – disse Pegeen.

E quando l’ebbe fatto, si sedettero nel soggiorno dopo cena e lui le ripeté in dettaglio tutto ciò che ricordava della storia che Sybil Van Buren gli aveva raccontato all’ospedale. Rintracciò la sua lettera – la lettera che gli era stata spedita presso l’ufficio di Jerry – e la diede da leggere a Pegeen.

– Il marito si dichiarava innocente, – disse Axler. – Sosteneva che lei si era immaginata tutto.

– È cosí?

– A me non è sembrato. Ho visto come soffriva. Ho creduto alla sua versione.

Nel corso della giornata aveva letto piú volte l’articolo e guardato ripetutamente la fotografia di Sybil pubblicata sul settimanale, un ritratto in cui non sembrava tanto una donna coniugata sui trentacinque anni – per non parlare di una Clitemnestra – quanto la ragazza pompon di una scuola superiore, una che della vita non aveva ancora visto niente.

Il giorno successivo chiamò il servizio di informazioni stelefoniche e con la massima facilità ottenne il numero dei Van Buren. Quando telefonò, rispose una donna che si presentò come la sorella di Sybil. Axler le disse chi era e le parlò della lettera di Sybil. Gliela lesse al telefono. Si misero d’accordo che lei l’avrebbe fatta avere all’avvocato di Sybil.

– Ha potuto vederla? – le chiese.

– Solo con l’avvocato. Piange perché non può vedere i figli, ma per il resto è di una calma sconcertante.

– Parla del delitto?

– Dice: «Qualcuno doveva farlo». La si direbbe al cinquantesimo, non al primo. È in uno stato molto strano. Sembra che le sfugga la gravità della cosa. È come se la gravità fosse tutta alle sue spalle.

– Per il momento, – disse lui.

– Ho pensato anch’io lo stesso. Prima o poi ci sarà il crollo. Non vivrà a lungo dietro questa placida maschera. Bisogna che sorveglino la sua cella per impedirle di suicidarsi. Ho paura di ciò che potrà succedere.

– È naturale. Quello che ha fatto non va per niente d’accordo con la donna che ho conosciuto io. Perché l’ha fatto dopo tutto questo tempo?

– Perché John, dopo essersene andato, continuava a negare tutto e a sostenere che lei delirava, e la cosa le faceva perdere la testa. La mattina che doveva vederlo, mi ha detto che voleva a ogni costo strappargli una confessione. Io le ho detto: «Non andare. Ti farà solo uscire dai gangheri». E avevo ragione. Sono stata io a dirle di andare in procura a denunciarlo. Sono stata io a dirle che doveva mandarlo in galera. Ma lei ha rifiutato: era una persona importante e il caso sarebbe finito sui giornali e alla Tv, e Alison sarebbe stata trascinata in un incubo giudiziario ed esposta ancora ad altri orrori. Visto che aveva detto cosí, non ho mai pensato che strappargli una confessione «a ogni costo» avrebbe comportato l’uso del suo fucile da caccia: sarebbe finito sui giornali anche il fatto che aveva usato il suo fucile da caccia, capisce? Ma quando è andata da John, quel sabato mattina, non ha aspettato di essere invitata a entrare. Non ha aspettato di sentirgli pronunciare una singola parola. Non è che hanno avuto una discussione e che la discussione si è inasprita e lei gli ha sparato. Le è bastato vedere la sua faccia: sulla soglia della porta d’ingresso, ha premuto il grilletto due volte e lui è morto. Mi ha spiegato: «Voleva un’apocalisse, e gli ho dato un’apocalisse».

– La figlia sa qualcosa?

– Non gliel’hanno ancora detto. Non sarà facile. Non ci sarà niente di facile in tutto questo. Merito del defunto dottor Van Buren. Le sofferenze che dovrà patire Alison sono inimmaginabili, per me.

Per giorni e giorni Axler ripeté tra sé: Le sofferenze che dovrà patire Alison. Probabilmente era quello il pensiero che aveva spinto Sybil ad assassinare il marito, facendo sí che le sofferenze di Alison non avessero piú fine.

Una sera a letto Pegeen gli disse: – Ti ho trovato una ragazza. È nella squadra di nuoto di Prescott. Di pomeriggio nuoto con lei. Lara. Ti piacerebbe che te la portassi qui?

Si alzava e si abbassava con lentezza sopra di lui, a luci spente, anche se la luna piena che splendeva tra i rami degli alberi alti dietro la casa diffondeva nella stanza un debole chiarore.

– Parlami di Lara, – disse lui.

– Oh, ti piacerebbe di sicuro.

– Evidentemente a te piace già.

– La guardo in piscina. La guardo negli spogliatoi. Una ragazza ricca. Una ragazza privilegiata. Non sa cosa sia un sacrificio. È perfetta. Bionda. Occhi blu che sembrano di cristallo. Gambe lunghe. Gambe forti. Seni perfetti.

– Quanto perfetti?

– Ti sta venendo bello duro a sentirmi parlare di Lara, – disse lei.

– I seni, – disse lui.

– Ha diciannove anni. Sono sodi e alti. Ha la fica rasata, con appena un righino di peli biondi ai lati.

– Chi se la scopa? I maschi o le femmine?

– Ancora non lo so. Ma qualcuno deve spassarsela, là sotto.

Da allora in poi Lara fu con loro ogni volta che la volevano.

– La stai scopando, – diceva Pegeen. – È la perfetta piccola passerina di Lara.

– La stai scopando anche tu?

– No. Tu solo. Chiudi gli occhi. Vuoi che ti faccia venire? Vuoi che Lara ti faccia venire? D’accordo, puttanella bionda: fallo venire! – gridò Pegeen, e non c’era piú bisogno che le spiegasse come cavalcarlo. – Sborrale addosso, dappertutto! Ora! Ora! Sí, cosí… sborrale in faccia!

Una sera andarono fuori a cena in un piccolo albergo nelle vicinanze. Dalla rustica sala da pranzo si vedeva, oltre la strada, un grande lago incendiato dal tramonto. Lei indossava i suoi abiti piú nuovi; erano andati a comprarli a New York durante una visita improvvisata la settimana prima: una gonnella nera di jersey attillato, una maglietta rossa senza maniche di cashmere con un cardigan rosso di cashmere annodato sulle spalle, calze nere velatissime, una borsetta a tracolla di pelle morbida adorna di striscioline di pelle, e un paio di décolleté nere a punta aperte dietro e molto scollate sul piede. Aveva un’aria tenera, procace e seducente, rossa sopra e tutta nera dalla vita in giú, ed era talmente disinvolta e a suo agio che pareva si fosse vestita cosí per tutta la vita. Portava la borsetta come le aveva suggerito la commessa, con la cinghia di traverso sul petto come una bandoliera e pendente sull’anca.

Per impedire alla schiena di irrigidirsi e alla gamba di addormentarsi, Axler aveva l’abitudine di alzarsi e passeggiare due o tre volte durante il pasto, e cosí, prima del dessert, si alzò da tavola e per la seconda volta attraversò il ristorante e l’atrio dell’albergo ed entrò nel bar. Là vide un’attraente giovane donna che stava bevendo per conto suo. Doveva essere fra i venti e i trent’anni, e da come parlava col barista si capiva che era un po’ brilla. Axler sorrise quando lei guardò dalla sua parte e, per potersi attardare, chiese al barista se conosceva i risultati degli incontri di baseball. Poi chiese alla ragazza se era del posto o se era ospite dell’albergo. Lei disse che era stata appena assunta dall’antiquario in fondo alla strada e che si era fermata per un drink dopo il lavoro. Lui le chiese se si intendeva di antichità, e lei disse che i suoi genitori avevano una bottega di antiquariato nel Nord dello stato. Aveva lavorato per tre anni in un negozio del Greenwich Village e aveva deciso di lasciare la città e di tentare la sorte nella contea di Washington. Le chiese da quanto tempo era lí, e lei disse che era arrivata solo il mese prima. Le chiese cosa stava bevendo, e quando lei glielo disse replicò: – Il prossimo l’offro io, – e disse al barista di metterlo sul suo conto.

Quando arrivò il dessert informò Pegeen: – Al bar c’è una ragazza che si sta ubriacando.

– Che aspetto ha?

– Di una che sa badare a se stessa.

– Vuoi provare?

– Se a te va bene, – disse lui.

– Quanti anni ha? – disse lei.

– Ventotto, direi. Comanderesti tu. Tu e il cazzo verde.

– Comanderesti tu, – gli disse lei. – Tu e il cazzo vero.

– Comanderemmo insieme, – disse lui.

– Voglio vederla, – disse lei.

Axler pagò il conto e insieme uscirono dal ristorante e andarono a fermarsi sulla soglia del bar. Lui restò dietro a Pegeen cingendola con le braccia. La sentiva tremare dall’eccitazione mentre guardava la ragazza seduta al banco che beveva. Il suo tremito lo elettrizzò. Era come se si fossero fusi in una sola persona alle prese con una tentazione maniacale.

– Ti piace? – sussurrò.

– Ha tutta l’aria di poter essere molto indecente, se solo ne avesse l’occasione. Sembra pronta a darsi a una vita di scelleratezze.

– Vuoi che la portiamo a casa.

– Non è Lara, ma può andare.

– E se ci vomita in macchina?

– Credi che stia per vomitare?

– È là che beve da parecchio tempo. Se sviene a casa mia, come ci liberiamo di lei?

– Assassinandola, – disse Pegeen.

Sempre tenendo stretta Pegeen davanti a sé, Axler la chiamò attraverso il bar: – Ha bisogno di un passaggio, signorina?

– Tracy.

– Vuoi un passaggio, Tracy?

– Ho la macchina, – rispose Tracy.

– Sei in grado di guidare? Posso darti un passaggio fino a casa –. Pegeen gli fremeva ancora tra le braccia. Pensò: è una gatta prima del balzo, è il falco prima che spicchi il volo dal polso del falconiere. L’animale che puoi tenere a freno… fino al momento in cui lo lasci libero. Pensò: sto per darle Tracy come le regalo i vestiti. Con Lara erano tutti baldanzosi perché Lara non era là con loro, e cosí non c’erano conseguenze. Ma sapeva che questo era diverso. Alla sua mente si affacciò l’idea che stava cedendo tutto il potere a Pegeen.

– Posso farmi venire a prendere da mio marito, – disse Tracy.

Ma lui aveva già notato che non portava la fede. – No, ti accompagniamo noi. Dove vuoi andare?

Tracy disse il nome di una cittadina venti chilometri a ovest.

Il barista, che sapeva che Axler abitava nella direzione opposta, continuò a badare ai fatti suoi come se fosse sordomuto. Per i film che aveva fatto, in quel paese di novecento abitanti praticamente tutti conoscevano Axler, anche se pochi sapevano che la sua reputazione era fondata sui successi teatrali di una vita. La ragazza brilla pagò il conto, scese dallo sgabello e prese la giacca per uscire. Era piú alta di come lui l’aveva immaginata, e anche piú giunonica – una gatta randagia, forse, ma non certo una fanciulla denutrita –, una bionda piuttosto formosa con un fisico imponente e una sorta di bellezza nordica preconfezionata. Nel complesso, una versione piú comune, piú volgare, della maestosa Louise.

Fece accomodare Tracy sul sedile posteriore con Pegeen e attraverso le buie strade di campagna, vuote di traffico, le portò a casa sua. Era come se l’avessero rapita. La prontezza con cui Pegeen entrò in azione non lo colse di sorpresa. Non aveva piú le inibizioni o la paura di quando era andata dal parrucchiere a farsi tagliare i capelli, e a incantarlo bastavano i suoni che venivano dal sedile posteriore. Una volta a casa, in camera, Pegeen vuotò sul letto la sua borsa di plastica piena di arnesi, fra cui il piccolo gatto a nove code con i ciuffi morbidissimi e sottili di cuoio nero senza nodi.

Axler si chiedeva cosa stesse passando per la mente di Tracy. Sale in macchina con due persone che non ha mai visto prima, la portano in una casa lungo una strada sterrata in aperta campagna, e là scende dalla macchina per entrare in un circo a tre piste. Sarà sbronza, d’accordo, ma è anche giovane. Quanto può essere ignara del pericolo? O io e Pegeen le ispiriamo fiducia? O è proprio il rischio quello che cerca Tracy? O è troppo ubriaca per badarci? Si chiese se avesse mai fatto qualcosa di simile prima di allora. Tornò a chiedersi perché lo facesse ora. Era assurdo che questa Tracy venisse a letto con loro a fare tutte le cose che, eccitati, avevano sognato di fare con Lara. Ma cos’era assurdo e cosa non lo era? La sua incapacità di andare a recitare su un palcoscenico? Il suo essere stato ricoverato in un ospedale psichiatrico? La sua relazione sentimentale con una lesbica che aveva visto per la prima volta mentre poppava al seno di sua madre?

Quando un uomo va con due donne, non è insolito che una delle due, sentendosi a ragione o a torto trascurata, finisca a piangere in un angolo della stanza. Da come erano andate le cose sino a quel momento, sembrava che quello che sarebbe finito a piangere in un angolo della stanza rischiava di essere lui. Eppure, mentre le guardava dall’altra sponda del letto, Axler non si sentiva penosamente trascurato. Aveva ceduto a Pegeen la frusta del direttore del circo e si sarebbe astenuto dal partecipare fino a nuovo ordine. Avrebbe fatto da spettatore senza interferire. Prima, Pegeen si mise l’imbracatura, regolò e fermò le cinghie di cuoio, e inserí il vibratore in modo che stesse bello dritto. Poi si accucciò su Tracy, sfiorandole labbra e capezzoli con la bocca e accarezzandole i seni, quindi scivolò un po’ piú in basso e la penetrò dolcemente col dildo. Pegeen non ebbe bisogno di farsi strada a forza. Non ebbe bisogno di dire una parola: Axler immaginava che, se una delle due si fosse messa a parlare, sarebbe stato in una lingua per lui irriconoscibile. Il cazzo verde entrava e usciva dal grande corpo nudo abbandonato lí sotto, lentamente in principio e poi piú in fretta e piú energicamente, poi ancor piú energicamente, e tutte le curve e le cavità di Tracy si muovevano all’unisono con esso. Quella non era pornografia all’acqua di rose. Non erano piú due donne nude che si scambiavano carezze e baci su un letto. C’era qualcosa di primitivo nell’atto, quella violenza di una donna sull’altra, come se nella stanza piena d’ombre Pegeen fosse un magico miscuglio di sciamano, acrobata e animale. Era come se portasse una maschera sui genitali, una misteriosa maschera totemica che la trasformava in ciò che non era e non doveva essere. Avrebbe potuto essere un corvo o un coyote, e simultaneamente Pegeen Mike. C’era qualcosa di pericoloso. Lui aveva il cuore in gola dall’eccitazione: il dio Pan che da lontano sta a guardare con i suoi occhi lascivi da spia.

Fu in inglese che Pegeen parlò quando alzò lo sguardo da dove si trovava, ora distesa sulla schiena accanto a Tracy, passando tra i capelli lunghi della ragazza il piccolo gatto a nove code nero e, con quel sorriso infantile che le scopriva due incisivi, gli disse sommessamente: – Tocca a te. Profanala –. Prese Tracy per una spalla, mormorò: – È ora di cambiare padrone, – e fece rotolare dolcemente il corpo grande e caldo della sconosciuta verso il suo. – Tre bambini si misero insieme – disse lui – e decisero di recitare una scena –. Poi la sua performance ebbe inizio.

Verso mezzanotte riportarono Tracy al parcheggio di fianco all’albergo dove aveva lasciato la macchina.

– Lo fate spesso, voi due? – chiese Tracy dal sedile posteriore, dove giaceva tra le braccia di Pegeen.

– No, – disse Pegeen. – E tu?

– Mai in tutta la vita.

– Allora, che ne pensi? – chiese Pegeen.

– Non sono in grado di pensare. Ho la testa troppo piena di cose per riuscire a pensare. Sono in orbita. Come se avessi preso qualche droga.

– Dove hai trovato il coraggio di farlo? – le chiese Pegeen. – L’alcol?

– I vestiti. Il vostro aspetto. Ho pensato: non ho niente da temere. Dimmi, lui è l’attore? – chiese Tracy a Pegeen, come se Axler non fosse presente.

– Sí, – disse Pegeen.

– Come diceva il barista. Tu fai l’attrice? – chiese a Pegeen.

– Ogni tanto, – disse Pegeen.

– È stata una cosa folle, – disse Tracy.

– Proprio cosí, – rispose Pegeen, lei che brandiva il gatto a nove code ed era un’esperta di vibratori, lei che era tutt’altro che una dilettante, e che anzi aveva fatto di tutto per spingere le cose fino al limite.

Quando si diedero la buonanotte, Tracy la baciò appassionatamente. Appassionatamente Pegeen le rese il bacio, le fece una carezza sui capelli e le diede una strizzata ai seni, e nel parcheggio di fianco all’albergo dove si erano incontrati, le due donne per qualche istante rimasero strette in un abbraccio. Poi Tracy salí sulla sua auto e prima che si allontanasse, Axler udí Pegeen che le diceva: – A presto.

Tornarono a casa con la mano di Pegeen nei suoi calzoni. – L’odore, – disse lei, – lo abbiamo addosso, – mentre Axler rifletteva: ho sbagliato i calcoli, non ci ho pensato bene. Non era piú il dio Pan. Per nulla.

Mentre Pegeen faceva la doccia, Axler si sedette nella cucina al piano di sotto a bere una tazza di tè come se non fosse successo niente, come se avessero passato un’altra sera delle solite in casa. Il tè, la tazza, il piattino, lo zucchero, la panna: ogni cosa rispondeva a un bisogno di normalità.

«Voglio avere un figlio». Si figurò Pegeen mentre diceva quelle parole. Immaginò che gliele dicesse mentre entrava in cucina dopo la doccia: «Voglio avere un figlio». Stava immaginando la cosa piú improbabile che potesse capitare, ed era proprio questo il motivo per cui la stava immaginando; era un modo per costringere la propria avventatezza a rientrare in una dimensione domestica.

«Da chi?», immaginò di chiederle.

«Da te. Sei tu la scelta della mia vita».

«Come giustamente ti hanno detto i tuoi, io vado per i settanta. Quando il bambino avrà dieci anni io ne avrò settantacinque, settantasei. Allora forse non sarò piú la scelta della tua vita. Con questa spina dorsale sarò su una sedia a rotelle, se non sarò già morto».

«Lascia perdere i miei, – immaginò che lei dicesse. – Voglio che tu sia il padre del mio bambino».

«Manterrai il segreto con Asa e Carol?»

«No. È finita. Avevi ragione. Louise mi ha fatto un favore con quella telefonata. Basta segreti. Dovranno rassegnarsi a prendere le cose come stanno».

«E da dove viene questo desiderio di avere un figlio?»

«Dal fatto che sono diventata ciò che sono diventata per te».

Axler immaginò di dire: «Chi avrebbe potuto prevedere che la serata avrebbe preso questa piega?»

«Ma no, – immaginò che Pegeen rispondesse. – È tutto collegato. Se dobbiamo continuare, io voglio tre cose. Voglio che ti fai operare alla schiena. Voglio che riprendi la tua carriera. Voglio che mi metti incinta».

«Vuoi un mucchio di cose».

«Chi mi ha insegnato a volere un mucchio di cose? – immaginò che dicesse Pegeen. – Ecco la mia proposta per una vita reale. Che altro posso offrire?»

«Le operazioni alla schiena sono molto complicate. I medici che mi hanno visitato dicono che nel mio caso non servirebbero a niente».

«Non puoi andare avanti cosí, immobilizzato da quei dolori. Non puoi continuare a zoppicare in eterno».

«Quanto alla mia carriera, è una faccenda ancora piú complicata».

«No, – immaginò che lei dicesse, – si tratta di adottare un piano per porre fine all’incertezza. Un audace piano a lunga scadenza».

«Che ci vuole», immaginò di rispondere.

«Esatto. È venuto il momento di essere audace con te stesso».

«Semmai, sembra venuto il momento di essere prudente».

Ma poiché in sua compagnia aveva iniziato a ringiovanire, poiché aveva fatto tutto il possibile per convincersi che colei che aveva cominciato con l’offrirgli un bicchiere d’acqua – solo per passare da questo alla piú grande delle sfide, l’inversione dei ruoli sessuali – poteva davvero, con lui, fare dell’appagamento realtà, Axler si lasciò cullare dai piú ottimistici dei pensieri. Nel suo fantasticare, là in cucina, sulla nuova vita che avrebbe fatto, immaginò di essere visitato da un ortopedico che gli prescriveva una risonanza magnetica, poi una mielografia prechirurgica e infine decideva di operarlo. Intanto Axler avrebbe contattato Jerry Oppenheim e gli avrebbe detto che se qualcuno voleva offrirgli una parte, lui era pronto a rimettersi al lavoro. Poi, mentre là seduto al tavolo della cucina si esaltava elaborando quei pensieri e Pegeen al piano di sopra finiva di fare la doccia, immaginò che Pegeen partorisse un bambino sano come un pesce lo stesso mese in cui lui debuttava al Guthrie Theater nel ruolo di James Tyrone. Avrebbe trovato il biglietto da visita di Vincent Daniels là dove lo aveva lasciato come segnalibro tra le pagine del Lungo viaggio. Sarebbe andato da Vincent Daniels col copione e insieme avrebbero lavorato tutti i giorni fino a trovare il modo di fargli riacquistare fiducia in se stesso, cosicché, quando fosse andato in scena al Guthrie la sera della prima, la magia perduta sarebbe ritornata e, mentre le parole gli uscivano di bocca con assoluta naturalezza e senza il minimo sforzo, avrebbe capito di essere nel bel mezzo della piú grande interpretazione della sua carriera, e che forse non essere riuscito a lavorare per un cosí lungo periodo di tempo, per quanto l’avesse fatto soffrire, non era stata la cosa peggiore che poteva capitare. Ora il pubblico credeva di nuovo in lui, in ogni momento. Mentre prima nell’affrontare il lato piú terrificante del suo lavoro – la battuta, il problema di dire una cosa, di dire una cosa con franchezza, disinvoltura e spontaneità – si era sentito nudo, senza la protezione di un approccio qualsiasi, ora aveva ripreso ancora una volta a fare tutto per istinto e di altri approcci non aveva piú bisogno. La iella era finita. Finiti i tormenti che aveva voluto infliggersi da sé. Aveva ritrovato la fiducia, il dolore se n’era andato, l’abominevole paura era sparita, e tutte le cose che aveva perso ora erano tornate al loro posto. La ricostruzione di una vita doveva pur cominciare da qualche parte, e per lui era iniziata quando si era innamorato di Pegeen Stapleford, che si era rivelata, con sua grande sorpresa, proprio la donna giusta per quel compito.

Poi lo scenario che aveva abbozzato in cucina non gli sembrò piú l’eterea storiella con cui aveva cominciato, ma una nuova opportunità, la rivendicazione di un’esuberanza per cui intendeva battersi, che voleva conseguire e di cui voleva godere. Axler sentiva dentro di sé la stessa determinazione di quando, a ventidue anni, era approdato a New York per un provino.

La mattina dopo, appena Pegeen partí per tornare nel Vermont, lui telefonò a un ospedale di New York e chiese di un medico con cui potersi consultare a proposito dei rischi genetici nel concepire un figlio a sessantacinque anni. Lo mandarono da uno specialista e gli fissarono un appuntamento per la settimana successiva. Non disse nulla di tutto questo a Pegeen.

L’ospedale si trovava a uptown Manhattan e, dopo aver lasciato la macchina in un garage, Axler, sempre piú eccitato, si incamminò verso lo studio del medico. Gli diedero i soliti moduli da riempire e fu ricevuto da un filippino di circa trentacinque anni che si qualificò come l’assistente della dottoressa Wan. Accanto alla sala d’aspetto c’era una stanza con le finestre, e l’assistente lo guidò in quella saletta per poter restare solo con lui. Sembrava un locale destinato ai piú piccoli, con tavolini bassi e seggioline sparsi qua e là e alcuni disegni infantili attaccati a una parete. Si sedettero a uno dei tavolini e l’assistente cominciò a chiedergli di lui e dei suoi familiari e delle malattie che avevano avuto e di quelle di cui erano deceduti. L’assistente scriveva le risposte su un foglio sul quale era stampato lo schema di un albero genealogico. Axler gli disse tutto quello che sapeva fin dove arrivava la sua conoscenza della famiglia. Poi l’assistente prese un altro foglio e gli chiese informazioni sulla famiglia della madre potenziale. Axler poté dirgli solamente che i genitori di Pegeen erano vivi; non sapeva nulla della loro storia clinica, né di quella delle zie, degli zii, dei nonni e dei bisnonni di Pegeen. L’assistente gli chiese qual era il paese di origine della famiglia di Pegeen, come aveva fatto per quella di Axler, e, annotata anche quell’informazione, disse ad Axler che avrebbe passato tutti i dati alla dottoressa Wan e, dopo un consulto tra lui e la dottoressa, lei sarebbe venuta a parlare con Axler.

Rimasto solo nella stanza, Axler si sentí estasiato per il ritorno delle sue forze e della sua naturalezza, e per la fine della sua umiliazione e della sua scomparsa dal mondo. Quella non era piú una fantasticheria; la ripresa di Simon Axler era cominciata per davvero. Ed era cominciata nel posto piú improbabile, una stanza piena di mobili per bambini. Le dimensioni del mobilio gli ricordarono la seduta di arteterapia a Hammerton, quando lui e Sybil Van Buren avevano ricevuto pastelli e carta per disegnare dalla loro terapeuta. Ricordò quant’era stato docile nel mettersi a colorare con i pastelli, come il bimbo dell’asilo che un tempo era stato. Ricordò le mortificanti conseguenze dell’essere finito a Hammerton, il modo in cui in quel posto ogni traccia della sua sicurezza era svanita; ricordò di non aver trovato, per liberarsi della sensazione di sconfitta e della paura, altro che le conversazioni che ascoltava nella sala comune dopo cena, le storie di quelli tra i ricoverati ancora infatuati del proprio tentato suicidio. Ora, però, grande e grosso com’era e là seduto goffamente tra quei tavolini e quelle seggioline, Axler si sentiva tutt’uno con l’attore, ed era consapevole dei successi che aveva alle spalle e convinto che la vita poteva ricominciare.

La dottoressa Wan era una giovane donna esile e minuta che disse di aver bisogno, naturalmente, anche della storia clinica di Pegeen, ma che intanto poteva almeno iniziare ad affrontare i suoi timori sui difetti congeniti nella prole dei padri non piú giovani. Gli spiegò che anche se per i maschi l’età ideale per concepire dei figli è tra i venti e i trent’anni, e anche se il rischio di trasmettere vulnerabilità genetica o disturbi dello sviluppo come l’autismo aumenta in modo significativo dopo i quaranta, e anche se nello sperma degli uomini anziani c’era piú Dna danneggiato che in quello dei giovani, le probabilità di concepire figli normali senza difetti congeniti non erano necessariamente cosí basse per un uomo della sua età e nel suo stato di salute, soprattutto perché certi difetti congeniti, ma non tutti, potevano essere individuati durante la gravidanza. – Le cellule testicolari che producono lo sperma si dividono ogni sedici giorni, – gli spiegò la dottoressa Wan mentre sedevano l’uno davanti all’altra al tavolino basso. – Ciò significa che entro i cinquant’anni le cellule si sono divise circa ottocento volte. E a ogni divisione delle cellule aumenta il rischio di errori nel Dna dello sperma –. Una volta che Pegeen le avesse fornito l’altra metà della storia, avrebbe potuto valutare in modo piú completo la situazione e collaborare con loro se avessero voluto andare oltre. Gli diede il suo biglietto, e un opuscolo che spiegava minuziosamente natura e rischi dei difetti congeniti. Spiegò anche che alla sua età la fertilità poteva essere minore, e cosí, su sua richiesta, lo indirizzò a un laboratorio dove farsi analizzare lo sperma. A quel modo avrebbero potuto prevedere eventuali difficoltà per il concepimento. – Può esserci un problema – gli disse – di numero, motilità o morfologia dello sperma. – Capisco, – disse lui e, per esprimere il suo incontenibile senso di gratitudine, le afferrò la mano e la strinse. La dottoressa gli sorrise come se fosse lei la piú vecchia dei due e disse: – Mi chiami se ha qualche domanda.

Tornato a casa, Axler sentí un bisogno impellente di telefonare a Pegeen per raccontarle la grande idea che si era impossessata di lui e ciò che aveva fatto per metterla in pratica. Ma quella conversazione avrebbe dovuto aspettare fino a quando si fossero incontrati il weekend successivo, e allora avrebbero avuto ore e ore per parlare. Solo nel suo letto, quella sera, lesse l’opuscolo che gli aveva dato la dottoressa Wan. «Per avere un bambino sano ci vuole sperma sano… Dal 2 al 3 per cento di tutti i bambini nasce con gravi difetti congeniti… Piú di 20 disturbi genetici, rari ma devastanti, sono stati collegati a padri non piú giovani… Piú vecchio è l’uomo quando concepisce un bambino, maggiore la probabilità che la sua partner abortisca… I padri piú anziani hanno maggiori probabilità di avere figli che soffrono di autismo, schizofrenia e sindrome di Down…» Lesse una volta l’opuscolo da cima a fondo, poi una seconda volta, e anche se certe informazioni lo costrinsero a riflettere, consapevole com’era ormai dei rischi, non permise a ciò che lesse di distoglierlo dai suoi progetti. Troppo eccitato per riuscire a prender sonno, pensando che stava succedendo qualcosa di magnifico, finí per trovarsi nel soggiorno e lí, ulteriormente rallegrato dalla musica che stava ascoltando, insieme a un coraggio che non provava da anni, sentí quel profondo desiderio biologico di un figlio che comunemente viene associato piú alle donne che agli uomini. Gli sembrava che non ci fosse piú nulla di improbabile nel loro stare insieme. Pegeen doveva accompagnarlo dalla dottoressa Wan. Quando ognuno avesse conosciuto tutta la storia, insieme avrebbero studiato seriamente il passo successivo.

Aveva pensato di iniziare la conversazione venerdí sera dopo cena. Ma quando arrivò per il weekend nel tardo pomeriggio, Pegeen si chiuse nel suo studio con una pila di compiti da correggere e lo lasciò a preparare la cena. E dopo mangiato tornò a ritirarsi nello studio per dare i voti ad altri compiti. Lasciamo che faccia tutto questo ora, pensò lui. Cosí avremo il weekend per chiacchierare.

A letto, al buio – due settimane dopo la loro avventura con Tracy –, quando cominciò a baciarla e accarezzarla, Pegeen si tirò indietro e disse: – Stasera non mi sento. – Va bene, – disse lui e, non essendo riuscito a eccitarla, si girò dalla sua parte, ma senza abbandonare la mano di lei, che continuò a stringere con la propria – quella stessa mano che voleva ancora toccare tutto quanto – fino al momento in cui lei si addormentò. Svegliandosi nel cuore della notte, si chiese: cosa intendeva dicendo che non si sentiva, e perché si era mostrata cosí riluttante a stare con lui dal momento in cui era arrivata?

Lo scoprí il mattino dopo, prima ancora di poterle parlare del suo incontro con la dottoressa Wan e di tutte le cose che c’erano dietro quell’incontro e di tutte le cose che potenzialmente c’erano davanti a loro; scoprí che andando a trovare la dottoressa Wan non si era premunito per non fare qualcosa di avventato, ma era invece andato a sprofondarsi ulteriormente in un mondo irreale.

– Siamo alla fine, – gli disse lei a colazione. Erano uno di fronte all’altra, sulle stesse sedie su cui erano seduti quando mesi addietro lei gli aveva detto che il rischio l’avevano già corso.

– La fine di che? – domandò lui.

– Di questo.

– Ma perché?

– Non è quello che voglio. Ho commesso un errore. Cosí iniziò la fine, cosí di punto in bianco, e si concluse trenta minuti dopo con Pegeen sulla porta che stringeva fra le braccia la sua sacca da viaggio piena e Axler in lacrime. Era la totale antitesi delle sue aspettative di quella notte di due settimane prima, in cucina. La totale antitesi delle aspettative che aveva avuto quando era andato a trovare la dottoressa Wan. Tutto ciò che voleva, lei gli stava impedendo di averlo!

Ora piangeva pure lei; troncare non era cosí facile come le era parso in un primo momento al tavolo della cucina. Ciononostante non cedeva di un millimetro e, per quanto lui piangesse, rimaneva in silenzio. Il quadro che formava sulla porta, di nuovo con la sua giacca rossa da ragazzo, e la sacca da viaggio tra le braccia, diceva tutto: quella era una pena che poteva sopportare. Non aveva nessuna intenzione di sedersi davanti a una tazza di caffè per fare una chiacchierata col cuore in mano che portasse a una rappacificazione. Voleva solo liberarsi di lui e soddisfare il banale desiderio umano di andare avanti e tentare qualcos’altro.

– Non puoi cancellare tutto! – gridò lui rabbiosamente, al che Pegeen, la piú forte dei due, aprí la porta.

Finalmente parlò, tra i singhiozzi. – Per te ho cercato di essere perfetta.

– Che diavolo significa? Quando mai si è trattato di essere perfetti? «Non andartene. Tutto questo mi piace, e non voglio che finisca». Sono stato tanto idiota da credere a quel che dicevi. Sono stato tanto idiota da pensare che stavi facendo quello che volevi.

– Era quello che volevo. Desideravo tanto vedere se ero capace di farlo.

– Dunque è stato un esperimento, dall’inizio alla fine. Un’altra avventura per Pegeen Mike: come rimorchiare la lanciatrice di una squadra di softball.

– Non posso piú essere un surrogato del tuo lavoro.

– Oh, non tirare in ballo il mio lavoro! È disgustoso!

– Ma è vero! Io sono quello che hai al posto del tuo lavoro! Dovrei compensarne la mancanza!

– È la stronzata piú ridicola che abbia mai sentito. E tu lo sai. Vattene, Pegeen! Se la tua giustificazione è questa, vattene! «Abbiamo corso il rischio». Io ho corso il rischio! Tu hai detto solo quello che pensavi che io volessi udire per poter avere quello che volevi finché l’hai voluto

. – Non ho fatto nulla del genere! – gridò lei.

– È Tracy, non è vero?

– Cosa?

– Tu mi pianti per Tracy!

– No, Simon! No!

– Tu non mi lasci perché sono senza lavoro! Mi lasci per quella ragazza! Stai andando da quella ragazza!

– Dove vado sono affari miei. Oh, lasciami andare!

– Chi ti trattiene? Io no! Mai! – Indicò la sacca in cui Pegeen aveva ficcato tutta la roba nuova che era appesa negli armadi di Axler e piegata nei cassetti del suo comò. – Hai preso i tuoi giocattoli erotici? – le chiese. – Ti sei ricordata l’imbracatura?

Pegeen non rispose, ma il sentimento che guizzò dentro di lei era odio, o cosí almeno lui interpretò l’espressione che aveva negli occhi.

– Sí, – disse, – prendi i ferri del mestiere e vattene. Ora i tuoi genitori potranno dormire sonni tranquilli: non sei piú con un vecchio. Ora fra te e tuo padre non c’è piú nessun intruso. Ti sei sgravata dell’impiccio. Basta con i rimproveri da casa. Sei tornata felicemente al punto di partenza. Bene. Avanti un’altra. Tanto, io non ho mai avuto tutta la forza che ci sarebbe voluta con te.

La strada di un uomo è disseminata di trappole, e Pegeen era stata l’ultima. Lui c’era entrato con grande appetito e aveva abboccato all’amo come il prigioniero piú miserabile della terra. Non c’erano altre conclusioni possibili, eppure lui era stato l’ultimo a scoprirlo. Improbabile? No, prevedibile. Abbandonato dopo tanto tempo? Chiaramente, non tanto tempo per lei quanto per lui. Tutto ciò che lo aveva incantato in Pegeen era sparito, e nel tempo che lei aveva impiegato a dire «Siamo alla fine» lui era stato condannato alla sua buca con i sei stecchi, solo e svuotato della voglia di vivere.

Lei andò via con la sua auto, e il crollo di Axler durò meno di cinque minuti, un crollo prodotto da una caduta che si era voluto e da cui non restava ormai possibilità di ripresa.

Andò in solaio e vi rimase per tutta la giornata e per parte della notte, preparandosi a premere il grilletto del fucile da caccia, ma anche pronto, a intervalli, a precipitarsi giú per le scale per svegliare Jerry Oppenheim a casa sua, pronto a telefonare a Hammerton per parlare col suo medico, pronto a fare il 911.

E in una dozzina di momenti diversi nel corso della giornata, pronto a chiamare Lansing per dire ad Asa che era stato un figlio di puttana e un traditore a mettergli contro Pegeen. Cosí erano andate le cose, ne era certo. Pegeen aveva sempre avuto ragione a voler tenere nascosta alla famiglia la notizia della loro relazione. «Perché ti conoscono da un sacco di tempo, – gli aveva spiegato quando Axler le aveva chiesto perché preferiva che lui restasse un segreto. – Perché avete tutti la stessa età». Se avesse fatto quella puntata nel Michigan quando le aveva proposto per la prima volta di andare a parlare con Asa, forse avrebbe avuto una possibilità di riuscita. Ma telefonargli adesso non sarebbe servito a nulla. Pegeen se n’era andata. Era andata da Tracy. Era andata da Lara. Era andata dalla lanciatrice con la coda di cavallo. Ovunque si trovasse, Axler non doveva piú preoccuparsi dei rischi genetici dell’essere un padre non piú giovane con cellule testicolari che si erano già divise ben piú di ottocento volte.

All’ora di cena non riuscí piú a trattenersi e, tirandosi dietro il fucile, scese dal solaio fino al telefono.

Rispose Carol.

– Sono Simon Axler.

– Ah… sí. Ciao, Simon.

– Fammi parlare con Asa –. Gli tremava la voce, e gli si era accelerato il battito cardiaco. Aveva dovuto sedersi su una sedia in cucina per continuare. Si sentiva come a Washington l’ultima volta che aveva tentato di andare in scena. Eppure, forse nulla di tutto ciò sarebbe successo se Louise Renner non avesse fatto quella vendicativa telefonata di mezzanotte per dire agli Stapleford della loro figlia e di lui.

– Stai bene? – chiese Carol.

– No davvero. Pegeen se n’è andata. Fammi parlare con Asa.

– Asa è ancora in teatro. Puoi provare a chiamarlo in ufficio.

– Passamelo, Carol!

– Te l’ho detto, non è ancora tornato.

– Non è una magnifica notizia? Non è un grande sollievo? Non dovrete piú preoccuparvi che vostra figlia provveda alle necessità di un fragile vecchio. Non dovrete piú preoccuparvi che debba fare la badante di un pazzo e l’infermiera di un invalido. Ma non ti sto dicendo nulla che tu non sappia: non ti sto dicendo nulla che non abbiate contribuito ad architettare.

– Mi stai dicendo che Pegeen ti ha lasciato?

– Fammi parlare con Asa.

Ci fu una pausa, poi, diversamente da lui, con una calma perfetta lei disse: – Puoi provare a chiamarlo in ufficio. Ti do il numero, cosí puoi telefonargli là.

Continuava a non sapere, non piú di quando aveva deciso di telefonare, se stava facendo la cosa giusta, la cosa sbagliata, la cosa da debole o la cosa da forte. Posò il fucile sul tavolo della cucina, annotò il numero che gli aveva dato Carol e riattaccò senza dire altro. Se quella fosse stata una parte da recitare in teatro, come l’avrebbe fatta? Come avrebbe fatto la telefonata? Con voce tremante o con voce ferma? Con arguzia o con ferocia, con rassegnazione o con rabbia? Non sapeva piú interpretare il vecchio innamorato lasciato dall’amante di venticinque anni piú giovane, non piú di quanto avesse saputo interpretare Macbeth. Non sarebbe stato meglio bruciarsi le cervella mentre Carol era in ascolto all’altro capo? Non sarebbe stato quello il modo migliore per interpretare la sua parte?

Poteva fermarsi, naturalmente. Poteva fermare lí quella follia. Non avrebbe riconquistato Pegeen facendo il numero di Asa, tuttavia lo fece. Non stava cercando di riconquistarla. Non era questione di riconquistarla. No, semplicemente non voleva essere superato in abilità e messo nel sacco da un attore scadente che dirigeva, con l’attrice scadente che era sua moglie, un teatro regionale nel mezzo del nulla. Gli Stapleford non ce l’avevano fatta a sfondare sui palcoscenici di New York, non ce l’avevano fatta a sfondare nel cinema in California, e allora, pensò, eccoli là a mettere in scena grande arte drammatica lontani dalla corruzione del mondo commerciale. No, non si sarebbe lasciato sconfiggere da quelle due mediocrità. Non sarebbe stato un bambino messo in castigo dai genitori di lei!

Il telefono squillò solo una volta prima che Asa rispondesse e dicesse «Pronto».

– Dimmi solo cosa ci hai guadagnato – attaccò Axler, fremendo di rabbia, sfogando il proprio risentimento – a metterla contro di me. Anzitutto non sopportavi che fosse lesbica. Me l’ha detto lei: che né tu né Carol riuscivate a sopportarlo. Che siete rimasti sbigottiti quando ve l’ha detto. Be’, con me aveva rinunciato a tutto questo, con me si era aperta a un nuovo modo di vivere… ed era felice! Tu non ci hai mai visti insieme. Pegeen e io eravamo felici! Ma invece di ringraziarmi, tu la convinci a prendere armi e bagagli e andare via! Anche tornare a essere lesbica era preferibile allo stare con me! Perché? Perché? Spiegamelo, per favore.

– Prima, Simon, ti devi calmare. Non ho intenzione di sorbirmi una filippica.

– Hai qualche particolare rancore verso di me che risale ai nostri inizi? C’è invidia qui, Asa, o magari vendetta, o gelosia? Che male le ho fatto? Ho sessantasei anni, non lavoro, la mia spina dorsale è un problema… che c’è di tanto orribile in tutto questo? Dov’è la minaccia per tua figlia? Forse mi ha impedito di offrirle tutto quello che voleva? Ho dato a Pegeen tutto quello che potevo! Ho cercato di soddisfarla in ogni modo concepibile!

– Non ne dubito. Cosí ha detto a Carol e a me. Nessuno ha da ridire sulla tua generosità e nessuno l’ha fatto.

– Tu sai che mi ha lasciato.

– Lo so adesso.

– Prima no?

– No.

– Non ti credo, Asa.

– Pegeen fa quello che vuole. È da tutta la vita che lo fa.

– Pegeen ha fatto quello che tu volevi che facesse!

– Come padre ho tutto il diritto di occuparmi di una figlia e darle dei consigli. Se no, non farei il mio dovere.

– Ma come potevi «darle dei consigli» se non sapevi niente di quello che c’era tra noi? L’unica cosa che avevi in testa era la tua visione di me, di me che con tutta la mia fama, con tutto il mio successo, ti rubavo ciò che era legittimamente tuo! Non era giusto, vero, Asa, che io avessi anche Pegeen!

Non avrebbe dovuto recitare quella battuta in modo da farlo ridere, anziché in un accesso d’ira? Non avrebbe dovuto essere tranquillo e sardonico, come se fosse un’esagerazione deliberatamente pungente, invece di dargli l’impressione di essere fuori di testa? Oh, recitala come ti pare, disse Axler tra sé. Probabilmente farebbe ridere in ogni caso.

Detestava le proprie lacrime, ma tutt’a un tratto si rimise a piangere, a piangere per la vergogna e la perdita e la rabbia tutte mescolate insieme, e cosí riattaccò interrompendo quella telefonata ad Asa che non avrebbe mai dovuto fare. Perché il responsabile dell’accaduto, in definitiva, era lui. Sí, aveva cercato di soddisfarla in tutti i modi possibili e immaginabili, e cosí, stupidamente, aveva introdotto Tracy nella loro vita e rovinato ogni cosa. Ma come avrebbe potuto prevederlo? Tracy aveva preso parte a un gioco, uno di quegli allettanti giochi sessuali che molte coppie fanno per eccitarsi e divertirsi. Come poteva prevedere che quell’incontro occasionale al bar avrebbe avuto come conseguenza la perdita definitiva di Pegeen? Un uomo piú intelligente si sarebbe ben guardato dal fare una cosa simile? O quella era una continuazione della sfortuna che lo perseguitava da quando aveva interpretato Prospero e Macbeth? Era tutta colpa della sua stupidità, o era il suo modo di sprofondare, uno strato dopo l’altro, nella morte?

E chi era questa Tracy? La nuova commessa di un negozio di antiquariato di provincia. Una ragazza sola, sbronza, in una locanda di campagna. Chi era quella ragazza in confronto a lui? Impossibile! Come poteva farsi soppiantare da quella Tracy? Come poteva farsi sconfiggere da Asa? Pegeen aveva forse preso la decisione di lasciarlo per Tracy perché era un modo sotterraneo di ributtarsi come una bambina fra le braccia di papà? E mettiamo che non lo avesse lasciato per Tracy. O per le obiezioni dei suoi familiari. In tal caso, cosa glielo aveva reso ripugnante? Cosa lo aveva reso improvvisamente tabú?

Portò il fucile nello studio di Pegeen e rimase là a guardare la stanza da cui lei aveva staccato la carta da parati di Victoria per dipingerla di un tenue color pesca, la stanza che Pegeen aveva fatto sua proprio come Axler, senza riserve, l’aveva invitata a fare di sé. Soffocò l’impulso di sparare un colpo contro la spalliera della poltroncina dietro la scrivania e invece ci si sedette. Vide per la prima volta che tutti i libri che Pegeen aveva portato da casa erano stati tolti dagli scaffali di fianco alla scrivania. Quando li aveva liberati? A quando risaliva la sua decisione di lasciarlo? L’aveva deciso da sempre, già quando staccava la carta da parati da quei muri?

Ora soffocò l’impulso di sparare contro la libreria. Passò invece il palmo sugli scaffali vuoti che avevano retto i libri di lei, e si sforzò invano di pensare a cos’avrebbe potuto fare di diverso in tutti quei mesi per darle la voglia di restare.

Doveva essere passata almeno un’ora quando decise che non si sarebbe fatto trovare morto nella stanza di Pegeen, nella poltroncina di Pegeen. La colpa non era di Pegeen. I fallimenti erano suoi, come la sconcertante biografia sulla quale era impalato.

Quando, molto tempo dopo la telefonata ad Asa, verso mezzanotte, dopo essere tornato in solaio da parecchie ore, scoprí che non riusciva a premere il grilletto nemmeno una volta arrivato al punto di mettersi in bocca la canna del fucile, si sfidò a ricordare la piccola Sybil Van Buren, quella banale casalinga dei sobborghi che pesava sí e no quaranta chili e che aveva portato a compimento ciò che aveva deciso di fare, che si era calata nella parte raccapricciante dell’assassina e l’aveva recitata fino in fondo. Sí, pensò, se lei era riuscita a trovare la forza di fare una cosa cosí terribile a quel marito che era il suo demone, io posso almeno far questo a me stesso. Pensò ai nervi d’acciaio che doveva aver avuto per portare il suo piano fino alla sua brutale conclusione: all’inesorabile follia di cui aveva dato prova lasciando a casa i due bambini piccoli, guidando risolutamente fino alla casa dell’ex marito, salendo le scale, suonando il campanello, alzando il fucile e, quando lui aveva aperto la porta, sparando senza esitare due colpi a bruciapelo… se lei è stata capace di farlo, posso farlo anch’io!

Sybil Van Buren diventò un esempio di coraggio. Axler ripeteva tra sé la formula ispiratrice dell’azione, come se una parola o due potessero, da sole, spingerlo a compiere la piú irreale di tutte le cose: se lei è stata capace di farlo, posso farlo anch’io, se lei è stata capace di farlo… finché gli venne l’idea di fingere di suicidarsi in un dramma. In un dramma di Ωechov. Cosa poteva esserci di piú adatto? Sarebbe stato il suo ritorno alla recitazione e, nonostante fosse solo una piccola creatura debole, assurda e sfortunata, l’errore di tredici mesi di una lesbica, ce l’avrebbe messa tutta per farcela. Per riuscire un’ultima volta a rendere reale l’immaginario avrebbe dovuto fingere che il solaio fosse un teatro e lui Konstantin Gavrilovi™ Treplëv nella scena finale del Gabbiano. A venticinque anni, quando, da vero fenomeno teatrale, riusciva in tutto ciò che tentava e otteneva tutto ciò che voleva, aveva interpretato il ruolo dell’aspirante giovane scrittore di Ωechov che si sente un completo fallito, un uomo ridotto alla disperazione dalle sconfitte nel lavoro e in amore. Era una produzione dell’Actors Studio a Broadway, ed era stato il suo primo grande successo newyorkese, quello che aveva fatto di lui il giovane attore piú promettente della stagione, dotato di sicurezza e senso di unicità, aprendogli un orizzonte di imprevedibili scenari.

Se lei è stata capace di farlo, posso farlo anch’io.

Quando, qualche giorno dopo, il suo corpo fu scoperto sul pavimento del solaio dalla donna delle pulizie, accanto a lui c’era un biglietto di nove parole. «Il fatto è che Konstantin Gavrilovi™ si è sparato». Era l’ultima battuta del Gabbiano. Ce l’aveva fatta, il famoso mattatore, tanto osannato un giorno per la forza della sua recitazione, l’uomo che ai suoi tempi riempiva i teatri delle folle che accorrevano a vederlo.