martedì 1 febbraio 2022

OSSESSIONE Estratto da TUTTI I RACCONTI Clarice Lispector

 


OSSESSIONE


Estratto da TUTTI I RACCONTI 

Clarice Lispector


 Adesso che la mia vicenda è ormai vissuta, posso rievocarla con maggiore serenità. Non tenterò di farmi perdonare. Proverò a non accusare nessuno. Semplicemente, è accaduta.

Non mi ricordo con precisione del suo inizio. Mi trasformai indipendentemente dalla mia coscienza e quando riaprii gli occhi il veleno circolava irrimediabilmente nel mio sangue, il suo potere ormai in azione da tempo.

Bisognerà raccontare qualcosa di me, prima del mio incontro con Daniel. Soltanto così si potrà conoscere il terreno in cui i suoi semi sono stati gettati. Anche se non credo si possa comprendere del tutto il perché tali semi produssero frutti così tristi.

Sono sempre stata una persona tranquilla e non ho mai dato segno di possedere gli elementi che Daniel ha sviluppato in me. Sono nata da creature semplici, educate in quella saggezza che si acquisisce con l’esperienza e si intuisce con il senso comune. Vivemmo, dalla mia infanzia fino ai miei quattordici anni, in una bella casa di periferia, dove studiavo, giocavo e mi muovevo priva di preoccupazioni sotto lo sguardo benevolo dei miei genitori.

Finché un giorno scoprirono che ero diventata una ragazzina, abbassarono l’orlo del mio vestito, mi fecero indossare nuovi abiti e mi considerarono quasi pronta. Accettai la scoperta e le sue conseguenze senza grande agitazione, con la stessa attitudine distratta con cui studiavo, passeggiavo, leggevo e vivevo.

Traslocammo in una casa più vicina alla città, in un quartiere il cui nome, insieme ad altri dettagli posteriori, tacerò. Là, avrei avuto l’occasione di conoscere ragazzi e ragazze, diceva la mamma. E infatti feci in fretta alcune amicizie, con quella mia allegria amena e semplice. Mi consideravano carina, e il mio corpo forte e la mia pelle chiara suscitavano simpatia.

Quanto ai miei sogni, in quell’età che ne è così piena – erano quelli di una qualsiasi giovane: sposarsi, fare figli e, insomma, essere felice, desiderio che io non sapevo ancora bene cosa fosse e che individuavo confusamente nel finale di mille romanzi che avevo letto, senza venire intaccata dal loro romanticismo. Speravo soltanto che tutto andasse bene, anche se non mi facevo mai contagiare dalla gioia se così accadeva.

A diciannove anni incontrai Jaime. Ci sposammo e affittammo un bell’appartamento, ben ammobiliato. Vivemmo per sei anni insieme, senza figli. E io ero felice. Se qualcuno me lo chiedeva, io lo ribadivo aggiungendo non senza una lieve perplessità: “E perché non dovrei?”.

Jaime fu sempre buono con me. E io consideravo il suo temperamento poco focoso, in certa maniera un’appendice dei miei genitori, della mia vecchia casa, dove mi ero abituata ai privilegi di figlia unica.

Vivevo nelle comodità. Non c’era questione che meritasse da parte mia un pensiero più intenso. E, come a risparmiarmi ulteriormente, non credevo totalmente ai libri che leggevo. Erano scritti solo allo scopo di distrarre, pensavo.

A volte, una malinconia immotivata mi incupiva il viso, una nostalgia tiepida e incomprensibile di epoche mai vissute mi abitava. Per nulla romantica, le allontanavo subito come fossero un sentimento inutile che non aveva a che vedere con le cose veramente importanti. Quali? Non riuscivo a definirle in modo esatto e le inglobavo nell’espressione ambigua – “cose della vita”. Jaime. Io stessa. La casa. La mamma.

D’altro canto, le persone che mi circondavano si muovevano tranquille, la fronte liscia priva di preoccupazioni, all’interno di un circolo dove l’abitudine da tempo aveva aperto cammini sicuri, dove i fatti si spiegavano ragionevolmente per cause visibili e quelli più straordinari si legavano, non per misticismo ma per comodità, a Dio. Gli unici avvenimenti in grado di turbare le loro anime erano la nascita, il matrimonio, la morte e gli stati a essi contigui.

O forse mi sto ingannando e, nella mia felice cecità, non ero in grado di vedere le cose più a fondo? Non lo so, ma adesso mi pare impossibile che nella zona d’ombra di ogni uomo, perfino di quelli più pacifici, non si annidi la minaccia di altri uomini, più terribili e dolenti.

Se quella vaga insoddisfazione veniva a turbarmi io, senza sapere come spiegarla e abituata ad assegnare un nome chiaro a tutte le cose, non la ammettevo o la attribuivo a indisposizioni di natura fisica. Oltretutto, la riunione domenicale a casa dei miei genitori, insieme alle cugine e ai vicini, qualsiasi gioco divertente e animato, mi riconquistavano rapidamente e mi ricollocavano sulla strada ampia, di nuovo nella folla di coloro che camminavano a occhi chiusi.

Noto adesso che una certa apatia, più che un senso di pace, ingrigiva i miei atti e i miei desideri. Mi ricordo che Jaime aveva detto una volta, con una leggera emozione:

“Se noi avessimo un figlio…”.

Avevo risposto, distratta:

“A che scopo?”.

Un fitto velo mi isolava dal mondo e, senza saperlo, un abisso mi allontanava da me stessa.

E così andai avanti finché non contrassi una febbre tifoide e quasi morii. Le mie due famiglie si mobilitarono e dandosi da fare per notti e giorni mi salvarono.

La convalescenza mi trovò magra e pallida, senza più gusto per nessuna cosa al mondo. Mi alimentavo appena, semplici parole riuscivano a irritarmi. Trascorrevo le giornate adagiata sul cuscino, senza pensare, senza muovermi, in preda a un dolce e anormale languore. Non posso affermare che quello stato abbia favorito l’influsso di Daniel su di me. Immagino piuttosto di aver esagerato la mia debolezza per far sì che le persone mi rimanessero intorno, come nella fase della malattia. Quando Jaime tornava dal lavoro, la mia espressione fragile si accentuava di proposito.

Non era nei miei piani spaventarlo, ma ci riuscii. E, un giorno in cui avevo perfino scordato la mia attitudine di “convalescente”, mi venne comunicato che avrei trascorso due mesi a Belo Horizonte, dove il buon clima e il nuovo ambiente mi avrebbero rimesso in forze. Non ci fu possibilità di appello. Jaime mi ci accompagnò con un treno notturno. Mi sistemò in una buona pensione e partì, lasciandomi da sola, senza niente da fare, precipitata all’improvviso in una libertà che io non avevo richiesto e della quale non sapevo come fare uso.

Forse quello era stato l’inizio. Fuori dalla mia orbita, lontano dalle cose che erano come nate insieme a me, mi sentii priva di appoggio, poiché in fin dei conti neppure le nozioni ricevute avevano messo radici dentro di me, tanto vivevo in maniera superficiale. Ciò che fino a quel momento mi aveva sorretto non erano convinzioni, bensì le persone che le possedevano. Per la prima volta mi si dava l’opportunità di guardare con i miei occhi. Per la prima volta venivo isolata con me stessa. Dalle lettere che scrissi in quel tempo e che lessi molto più tardi, mi rendo conto che un senso di malessere si era impadronito di me. In tutte facevo riferimento al ritorno, anelandolo con una certa ansia. Tutto questo, però, fino a Daniel.

Ancora adesso non riesco a ricordarmi del volto di Daniel. Parlo di quella sua fisionomia nelle mie prime impressioni, ben diversa dall’insieme a cui più avanti mi abituai. Solo allora, purtroppo tardi, riuscii, attraverso la convivenza, a comprendere e ad assorbire le sue fattezze. Ma erano altre… Del primo Daniel non conservai nulla, se non il marchio.

So che lui sorrideva, solo questo. Di tanto in tanto mi viene in mente qualche suo tratto isolato, di quelli dei primi tempi. Le sue dita curve e allungate, quelle sopracciglia separate, fitte. Nient’altro. Il fatto è che mi dominava a tal punto che, se così posso dire, quasi mi impediva di vederlo. Sono davvero convinta che la mia ansia nel periodo che seguì andò accentuandosi per via di questa impossibilità di ricostruire la sua immagine. Così, possedevo le sue parole, il ricordo della sua anima, tutto ciò che in Daniel non era umano. E, nelle notti di insonnia, senza poterlo ricostruire mentalmente, ormai esausta per gli inutili tentativi, lo distinguevo come fosse un’ombra, enorme, dai contorni mobili, incombente e allo stesso tempo distante come una minaccia. Come un pittore che, per catturare sulla sua tela un soffio di vento, inclina le chiome degli alberi, fa svolazzare capigliature e gonne, riuscivo a ricordarlo solo riconducendomi a me stessa, a com’ero a quei tempi. Mi martirizzavo con accuse, mi disprezzavo e, ferita, a pezzi, lo fissavo dentro di me vividamente.

Ma bisogna cominciare dall’inizio, mettere un po’ di ordine in questo mio racconto…

Daniel abitava nella pensione dove ero alloggiata. Non mi aveva mai rivolto la parola, né io lo avevo notato particolarmente. Finché un giorno lo sentii parlare, coinvolto all’improvviso in una conversazione fra estranei, senza tuttavia abbandonare quella sua aria distaccata, come se fosse emerso da un sogno denso. L’argomento era il lavoro. Che non avrebbe dovuto costituire se non un mezzo per eliminare la fame immediata. E, divertendosi a scandalizzare gli astanti, aggiunse che da un momento all’altro avrebbe abbandonato il suo, cosa che aveva già fatto varie volte, per vivere come “un buon vagabondo”. Uno studente con gli occhiali, dopo un primo attimo di silenzio e di riserva che si era creato, ribatté freddamente che prima di tutto lavorare era un dovere. “Un dovere nei confronti della società.” Daniel fece un gesto distaccato, come se non gli interessasse convincere nessuno, e gli concesse una frase:

“Qualcuno ha già detto che non esistono fondamenti per il dovere”.

Uscì dalla sala, lasciando lo studente indignato. E me, sorpresa e divertita: non avevo mai sentito qualcuno insorgere contro il lavoro, “un obbligo così serio”. Il massimo di ribellione di Jaime o di papà si concretizzava appena in forma di lamenti senza importanza. In generale, non mi era mai venuto in mente che si potesse rifiutare di accettare, che si potesse scegliere, ribellarsi… Soprattutto avevo compreso attraverso le parole di Daniel il disprezzo nei confronti del prestabilito, delle “cose della vita”… E non mi era mai accaduto, se non come lieve fantasia, di desiderare che il mondo fosse diverso da com’era. Mi ricordai di Jaime, sempre elogiato per il “disimpegno delle sue funzioni”, come lui raccontava, e mi sentii, senza conoscerne la ragione, più sicura.

Più tardi, quando rividi Daniel, manifestai la mia presenza in modo freddo e superfluo, dal momento che si accorgeva a malapena di me, posizionandomi a fianco degli altri ospiti della pensione, in salvo. Tuttavia, osservandoli in occasione della cena, provai vagamente una certa vergogna nel far parte di quel gruppo amorfo di uomini e donne i quali, secondo un tacito accordo, si appoggiavano e si facevano forza a vicenda, uniti contro chi venisse a turbare il loro conforto. Compresi che Daniel li disprezzava e mi irritai perché anch’io ero oggetto di quel disprezzo.

Non ero abituata a indugiare a lungo su di un qualche pensiero, e un lieve malessere, una specie di impazienza, si impadronì di me. Da quel momento, senza riflettere, evitavo Daniel. Se lo vedevo, mi mettevo impercettibilmente in guardia, gli occhi spalancati, vigili. Era come se temessi di udirlo pronunciare una di quelle sue frasi taglienti, perché paventavo di farle mie… Forzai la mia antipatia nei suoi confronti, difendendomi da chissà cosa, difendendo papà, la mamma, Jaime e tutti i miei. Ma invano. Daniel era il pericolo. E io stavo ormai camminando verso di lui.

Un giorno, mentre stavo vagando per la pensione vuota, alle due di un pomeriggio di pioggia, ad un certo punto, udendo delle voci nella sala d’attesa, là mi diressi. Stava conversando con un uomo magro, vestito di nero. Entrambi stavano fumando, parlavano senza alcuna fretta, talmente presi dai loro pensieri da non vedermi nemmeno entrare. Stavo per ritirarmi, quando un’improvvisa curiosità mi colse e mi spinse a una poltrona, lontana da quelle che occupavano loro. In fin dei conti, riflettei, la sala apparteneva a tutti gli ospiti. Cercai di non fare rumore.

Lì per lì, cosa che mi meravigliò, non compresi nulla di quello che dicevano… A poco a poco, distinsi qualche parola familiare, fra altre che non avevo mai sentito pronunciare: termini dotti. “L’universalità di…”, “il senso astratto che…”. Bisogna sapere che non avevo mai assistito a una conversazione il cui soggetto non vertesse su “cose” e “storie”. Io stessa, dotata di scarsa immaginazione e di scarsa intelligenza, non pensavo se non in accordo con la mia ristretta realtà.

Le loro parole mi scivolavano addosso senza penetrare in me. Tuttavia, decisamente infastidita, intuii che esse nascondevano una loro armonia che non ero in grado di cogliere… Provavo a non distrarmi per non perdermi nulla di quella magica conversazione.

“La realizzazione di un desiderio lo uccide,” disse Daniel.

La realizzazione di un desiderio lo uccide, la realizzazione di un desiderio lo uccide, ripetevo fra me, vagamente meravigliata. Mi perdevo, e quando tornavo a prestare attenzione era ormai nata un’altra frase misteriosa e brillante, che mi turbava.

Adesso Daniel parlava di sé.

“Ciò che soprattutto mi interessa è sentire, accumulare desideri, riempirmi di me stesso. La realizzazione mi apre, mi rende vuoto e sazio.”

“Non esiste sazietà,” disse l’altro, fra gli sbuffi di fumo della sua sigaretta. “Esiste di nuovo l’insoddisfazione che crea un altro desiderio che un uomo normale cercherebbe di realizzare. Tu giustifichi la tua inutilità con una teoria qualsiasi. ‘Ciò che importa è sentire e non fare…’ Scusa. Tu hai fallito e riesci ad affermarti soltanto attraverso l’immaginazione…”

Io li ascoltavo atterrita. Mi sorprendeva non solo la conversazione ma anche il piano sul quale si appoggiava, qualcosa di lontano dalla verità di tutti i giorni, eppure misteriosamente melodico, che andava a toccare, mi immaginavo, altre verità a me sconosciute. E mi sorprendeva, inoltre, vederli attaccarsi con parole poco gentili che avrebbero offeso qualsiasi altra persona ma che loro accoglievano senza la dovuta attenzione, come se… come se non sapessero cosa significava “onore”, per esempio.

E, soprattutto, per la prima volta io, fino a quel momento profondamente obnubilata, intravedevo le idee.

L’inquietudine che le prime conversazioni con Daniel avevano causato in me scaturiva come da una certezza di pericolo. Un giorno ero arrivata a spiegargli che al pensiero di quel pericolo si legavano espressioni lette in libri con quella scarsa attenzione che io, generalmente, concedevo a ogni cosa e che adesso brillavano nella mia memoria: “frutto del male”… Quando Daniel mi disse che io parlavo della Bibbia, mi feci prendere dal terrore di Dio, mischiato però a una curiosità forte e vergognosa come quella di un vizio.

Per tutte queste ragioni, la mia storia è difficile da spiegarsi, se se ne considerano gli elementi a uno a uno. Fino a dove arrivavano i miei sentimenti per Daniel (uso questo termine generale non sapendo esattamente quale sia il suo contenuto) e dove iniziava il mio risveglio nei confronti del mondo? Tutto si intrecciò e si confuse dentro di me, e io non saprei precisare se la mia inquietudine derivasse dal desiderio che provavo per Daniel o dall’ansia di andare alla ricerca di quel nuovo mondo che stavo scoprendo. Perché mi risvegliai simultaneamente donna e umana.

Forse Daniel aveva agito soltanto in qualità di strumento, forse il mio destino era proprio quello che seguii, il destino di coloro che sono liberi sulla terra, che non misurano le loro azioni a seconda del Bene e del Male, forse io, anche senza di lui, un giorno mi sarei scoperta, forse, anche senza di lui, sarei fuggita da Jaime e dal suo territorio. Come posso saperlo?

Li ascoltai per circa due ore. I miei occhi fissi mi dolevano e le gambe, immobili, mi si intorpidirono. Quando, ad un certo punto, Daniel mi guardò. Più tardi mi raccontò che la risata in cui era scoppiato e che tanto mi aveva ferito, al punto da farmi piangere, era stata causata dallo stato di esaltazione in cui si trovava da giorni e soprattutto dal mio aspetto biasimevole. La mia bocca stupidamente aperta, “il mio sguardo stolido, prova della mia ingenuità animale”… Era così che Daniel mi si rivolgeva. Graffiandomi con frasi che gli venivano facili e incolori ma che dentro di me si conficcavano, rapide e acute, per sempre.

E così conobbi Daniel. Non mi ricordo i dettagli che ci fecero avvicinare l’uno all’altra. So solo che fui io a cercarlo. E so che Daniel si impadronì progressivamente di me. Mi considerava con indifferenza e, mi immaginavo, non avrebbe mai indugiato sulla mia persona se non mi avesse trovata curiosa e divertente. Il mio modo di fare umile nei suoi confronti era un modo per ringraziarlo… Quanto lo ammiravo. Più subivo il suo disprezzo, più lo consideravo superiore, più lo separavo dagli “altri”.

Oggi lo comprendo. Gli perdono tutto, perdono tutto a coloro che non si lasciano imprigionare, a coloro che fanno domande. A coloro che cercano motivi per vivere, come se la vita di per sé non fosse sufficiente.

Più tardi conobbi il vero Daniel, quello malato, quello che esisteva, sebbene in una luce perpetua, soltanto dentro a se stesso. Quando si rivolgeva al mondo, ormai a tentoni e spento, comprendeva di essere privo di appoggio e, pervaso dall’amarezza, perplesso, scopriva di essere capace soltanto a pensare. Faceva parte di coloro che prendono possesso della terra in un attimo, gli occhi chiusi. Quel suo potere di consumare le cose prima ancora di possederle, quella sua lucida previsione del “dopo”… Prima di muovere il primo passo verso l’azione, pregustava già la saturazione e la tristezza che seguono le vittorie…

E, come per compensare questa impossibilità di realizzarsi, lui, la cui anima aspirava così tanto a espandersi, si era inventato un altro cammino in grado di accogliere la sua inattività, dove potesse espandersi e trovare una giustificazione. “Realizzarsi,” ripeteva, “ecco il più alto e nobile obiettivo umano.” Realizzarsi avrebbe voluto dire abbandonare il possesso e la realizzazione delle cose per passare a possedere se stesso, sviluppare i propri elementi, crescere all’interno dei propri contorni. Comporre la propria musica e ascoltarla lui stesso…

Come se avesse avuto bisogno di quel tipo di piano… Tutto in lui raggiungeva naturalmente il massimo, non nell’oggettivazione, piuttosto in uno stato di capacità, di esaltazione di forze, da cui nessuno traeva benefici ma che era da tutti, oltre che da lui, ignorato. E quello stato rappresentava il suo auge. Somigliava allo stato che precede una relazione, e lui cercava febbrilmente di raggiungerlo, sentendosi, mentre soffriva, più vivo, più castigato, quasi soddisfatto. Era il dolore della creazione, però senza alcuna creazione.

Perché quando ogni cosa perdeva la sua forma, ne rimanevano tracce solo nella sua memoria.

Non si concedeva mai un lungo riposo, nonostante la sterilità di quella lotta e per quanto estenuante potesse essere. In breve, eccolo che di nuovo girava attorno a se stesso, fiutando i suoi desideri nascenti, addensandoli fino a elevarli a un punto di crisi. Quando ci riusciva, vibrava nell’odio, nella bellezza o nell’amore, e si sentiva quasi pago.

Qualsiasi cosa poteva servirgli come punto di partenza. Un uccello in volo gli ricordava terre sconosciute, dava respiro al suo antico sogno di fuga. Di pensiero in pensiero, inconsapevolmente diretto verso uno stesso fine, acquisiva la nozione della sua codardia, rivelata non solo in quel costante desiderio di fuga, di non legarsi alle cose per non dover poi lottare per esse, ma anche nell’incapacità di realizzarlo, dal momento che lo concepiva, facendo impietosamente a pezzi l’umiliante buonsenso che gli tarpava le ali. Andava scoprendo che quel duetto con se stesso era il riflesso della sua essenza, e perciò avrebbe continuato per tutta la vita… Di conseguenza diventava facile abbozzare il futuro, lungo, affannoso, fitto di ostacoli, fino alla fine implacabile – la morte. Solo questo, e aveva raggiunto ciò verso cui la sua tendenza lo conduceva: la sofferenza.

Potrebbe sembrare una follia. E, invece, anche Daniel possedeva la sua logica. Per lui, contemplativo com’era, soffrire costituiva l’unico modo per vivere intensamente… E, in fin dei conti, era solo per questo che Daniel ardeva: per vivere. Solo che i suoi cammini erano strani.

Si consegnava così totalmente al sentimento creato e questo diventava talmente forte che giungeva a dimenticarsi che la sua origine era stata provocata e alimentata. Si dimenticava che era stato lui stesso a forgiarlo, in esso si impregnava e di esso viveva come di una realtà.

Talvolta la crisi, senza alcuna evasione, assumeva un aspetto così dolorosamente denso che lui, sprofondato in essa, consumandola, alla fine anelava a liberarsene. E allora creava, per salvarsi, un desiderio opposto in grado di distruggerla. Perché in quei frangenti temeva la follia, si sentiva malato, distante dagli altri esseri umani, distante da quell’uomo ideale che sarebbe stato un sereno essere animalizzato, dall’intelligenza facile e accomodante. Da quell’uomo che lui non sarebbe mai diventato e che non avrebbe mai smesso di disprezzare, con quella alterigia conquistata da coloro che soffrono. Da quell’uomo che, comunque, invidiava. Quando il suo patimento si manifestava troppo, lanciava lo sguardo in aiuto di quel tipo che, in contrasto con la propria miseria, gli sembrava bello e perfetto, pieno di una semplicità che lui, Daniel, considerava eroica.

Stanco di quella tortura, lo cercava, lo imitava in un’improvvisa sete di pace. Era sempre questa la forza opposta che presentava a se stesso quando raggiungeva la vetta dolorosa della sua crisi. Si permetteva un po’ di equilibrio, come una tregua, che però veniva immediatamente invasa dal tedio. Finché, nel desiderio morboso di tornare a soffrire, condensava quel tedio, trasformandolo in angoscia.

Viveva in questo ciclo. Forse mi aveva permesso di avvicinarmi in uno di quei momenti in cui aveva bisogno della “forza opposta”. Io, mi pare di averlo già detto, avevo un aspetto sano e piacevole, i gesti misurati, il busto eretto. E, adesso lo so, cercò di schiacciarmi e umiliarmi così tanto perché mi invidiava. Volle risvegliarmi perché desiderava che anch’io soffrissi, come un lebbroso che segretamente ambisce a trasmettere la lebbra alle persone sane.

Tuttavia, ingenua com’ero, era precisamente quella sua tortura che in lui mi offuscava. Perfino il suo egoismo, perfino la sua cattiveria somigliavano a un dio detronizzato – a un genio. E, oltretutto, io lo amavo.

Oggi provo pena per Daniel. Dopo essermi sentita abbandonata, senza sapere che farne di me stessa, non volendo continuare a vivere in quello stesso passato di calma e di morte, e non riuscendo, per comodità di abitudine, a reggere l’idea di un futuro differente – adesso comprendo quanto Daniel fosse libero e quanto fosse infelice. Per il suo passato – oscuro, pieno di sogni frustrati – non sarebbe riuscito a trovare posto nel mondo conformista e mediamente felice. Quanto al futuro, lo temeva troppo perché ne conosceva i limiti. E perché, sebbene li conoscesse, non si era rassegnato ad abbandonare quell’enorme ambizione indefinita che poi, ormai inumana, andava ben oltre le cose mondane. Fallendo nella realizzazione di quanto gli si presentava davanti agli occhi, si era rivolto verso ciò che nessuno, così pensava, avrebbe potuto realizzare.

Per quanto possa sembrare strano, soffriva per ciò che non conosceva, per quello che, “per una cospirazione della natura”, non avrebbe mai toccato neppure per un istante con i sensi, “ancor meno per conoscerne la materia, il colore, il sesso”. “La sua qualifica nell’universo delle percezioni e delle sensazioni”, come mi disse una volta, quando avevo fatto ritorno alla sua compagnia. E il male maggiore che Daniel mi fece fu risvegliare in me stessa quel desiderio che in ognuno di noi è latente. In alcuni si limita a risvegliare e ad avvelenare, come nel mio caso e in quello di Daniel. In altri conduce a esperimenti, viaggi, esperienze assurde, all’avventura. Alla follia.

Adesso so tutto su coloro che cercano di sentire per sapere che sono vivi. Intrapresi anch’io questo viaggio pericoloso, così povero per la nostra terribile ansia. E quasi sempre deludente. Imparai a far vibrare la mia anima e so che, mentre ciò accade, nel più profondo del proprio essere si può restare vigili e freddi, appena a osservare lo spettacolo che abbiamo creato per noi stessi. E quante volte quasi con tedio…

Adesso lo capirei. Ma allora consideravo Daniel privo di debolezze, sovrano e distante, che mi ipnotizzava. So poco sull’amore. Mi ricordo solo che lo temevo e lo cercavo.

Mi chiese di raccontargli la mia vita, cosa che accettai obbedendogli, timorosa, cercando le parole giuste per non sembrargli troppo stupida. Perché non esitava a riferirsi alla mia mancanza di intelligenza servendosi delle espressioni più crudeli. Gli raccontavo, obbediente, piccoli fatti del passato. Lui ascoltava, la sigaretta fra le labbra, lo sguardo distratto. E concludeva dicendo, con quella sua aria, un misto di voglia trattenuta di ridere, di stanchezza, di sdegno benevolo:

“Benissimo, molto felice…”.

Io arrossivo, non so per quale ragione piena di rabbia, ferita. Ma non riuscivo a ribattere.

Un giorno gli parlai di Jaime e lui disse:

“Interessante, alquanto normale”.

Oh, le parole sono comuni, ma non il modo in cui erano pronunciate. Mi scombussolava, mi faceva vergognare di ciò che in me era più occulto.

“Cristina, tu sai che stai vivendo?”

“Cristina, ti piace essere incosciente?”

“Cristina, tu non desideri nulla, non è forse vero?”

Io piangevo, ma poi lo cercavo di nuovo perché iniziavo a essere d’accordo con lui e segretamente speravo che si degnasse di iniziarmi al suo mondo. E come era bravo a umiliarmi. Si spinse fino a estendere i suoi artigli su Jaime, su tutti i miei amici, schiacciandoli come qualcosa che meritasse il disprezzo. Non so cosa, fin dall’inizio, mi impedì di ribellarmi. Non lo so. Mi ricordo soltanto che per il suo egoismo era un piacere dominare e che con me fu facile farlo.

Un giorno lo vidi animarsi all’improvviso, come se l’ispirazione gli sembrasse allo stesso tempo felice e comica:

“Cristina, vuoi che io ti risvegli?”.

E, prima che io potessi riderne, eccolo che mi osservava scuotendo la testa, assentendo.

Cominciarono allora passeggiate strane e rivelatrici, i giorni che mi segnarono per sempre.

Mi diede a intendere che non mi avrebbe degnata di uno sguardo se non mi fossi lasciata trasformare. Per quanto potesse sembrare un folle, non faceva che ripetere di volermi trasformare, “insufflare nel mio corpo un po’ di veleno, di terribile e buon veleno”…

Iniziò la mia educazione.

Lui parlava, io ascoltavo. Venni a conoscenza di vite oscure e belle, della sofferenza e dell’estasi dei “privilegiati dalla follia”.

“Medita su di loro, tu, con le tue felici vie di mezzo.”

E io pensavo. Provavo orrore per il nuovo universo che la voce persuasiva di Daniel mi faceva intravedere, a me che ero stata sempre una pecorella obbediente. Provavo orrore, eppure me ne sentivo ormai attratta con la forza di gravità di una caduta…

“Preparati a sentire insieme a me. Ascolta questo brano con la testa all’indietro, gli occhi semichiusi, la bocca aperta…”

Io fingevo di ridere, fingevo di obbedire per scherzo, come per discolparmi di fronte agli amici dei vecchi tempi. Di fronte al mio stesso sguardo, per ammettere un simile giogo. Anche se, per me, nulla avrebbe potuto essere più serio.

Lui, impassibile, dandomi ritocchi come per un rituale, insisteva, serio:

“Lo sguardo più languido… Le narici più leggere, pronte ad assorbire in profondità…”.

Io obbedivo. E soprattutto obbedivo cercando di non scontentarlo in niente, affidandomi alle sue mani e chiedendo perdono perché non gli davo di più. E siccome non mi chiedeva niente, niente di ciò che io non avrei esitato a offrirgli, cadevo ancor più nella certezza della mia inferiorità e della distanza che ci separava.

“Abbandonati di più. Lascia che la mia voce sia il tuo pensiero.”

Io ascoltavo. “Per coloro che giacciono prigionieri (non soltanto nelle carceri, si interrompeva Daniel) le lacrime costituiscono parte dell’esperienza quotidiana; un giorno senza lacrime è un giorno in cui il cuore si indurisce, non un giorno in cui il cuore è felice”… “visto che il segreto della vita è soffrire. Questa verità è contenuta in tutte le cose.”

E, a poco a poco, iniziavo realmente a capire… Quella voce lenta finì per bruciare nella mia anima, rivoltandola profondamente. Avevo camminato per lunghi anni nelle caverne e all’improvviso avevo scoperto la radiosa via di uscita sul mare… Sì, gli gridai una volta con il respiro affannato, io sentivo! Egli sorrise appena, non ancora soddisfatto.

E in effetti era vero. Io, così semplice e primitiva, che non avevo mai desiderato niente con particolare intensità. Io, incosciente e allegra, “perché possedevo un corpo allegro”… all’improvviso mi risvegliavo: che vita oscura avevo vissuto fino ad allora. Adesso… adesso rinascevo. Vividamente, nel dolore, in quel dolore che dormiva quieto e cieco nel profondo di me stessa.

Divenni nervosa, agitata, ma intelligente. Lo sguardo sempre inquieto. Quasi non dormivo.

Jaime mi venne a trovare e passò due giorni con me. Quando ricevetti il suo telegramma, impallidii. Mi misi a camminare come intontita, pensando a un modo per evitare che Daniel lo incontrasse. Provavo vergogna di Jaime.

Con il pretesto di voler provare un altro hotel, vi prenotai una stanza. Jaime non sospettò nulla del vero motivo, come c’era da aspettarsi. E ciò mi rese ancora più vicina a Daniel. Anelavo remotamente che mio marito reagisse in mia vece, che mi portasse via da quelle mani folli. Temevo non so bene cosa.

Furono due giorni orribili. Mi odiavo per il fatto di vergognarmi di Jaime e intanto facevo di tutto per nascondermi con lui nei luoghi dove Daniel non potesse vederci…

Quando partì, finalmente, fra il sollievo e il senso di abbandono, mi concessi un’ora di riposo prima di tornare da Daniel. Si trattava solo di rimandare il pericolo, ma non mi sfiorò mai l’idea di fuggire.

***

Confidavo che prima della mia partenza Daniel mi avrebbe desiderato.

Nel frattempo, la notizia che la mamma si era ammalata mi riportò a Rio prima di quel giorno. Dovevo partire.

Parlai con Daniel.

“Ancora una sera e poi forse non ci rivedremo più,” arrischiai timorosa.

Egli rise sommessamente.

“Tornerai di sicuro.”

Ebbi la nitida impressione che stesse tentando di suggerirmi il ritorno, come un ordine. Una volta mi aveva detto: “Basta lo sguardo di un animo forte come il mio per trascinare verso qualsiasi follia un animo debole come il tuo”. Tuttavia, cieca com’ero, mi rallegrai di questo pensiero. E, dimenticandomi di come avesse già manifestato la sua indifferenza nei miei confronti, mi afferrai a questa ipotesi: “Se mi suggerisci di cercarti un giorno… non è perché mi desideri?”.

Gli chiesi, provando a sorridere:

“Tornare? Perché?”.

“La tua educazione… non è ancora terminata.”

Tornai in me, in una pesante sfiducia che mi rese spossata e vuota per qualche minuto. Sì, era dura riconoscerlo, ma la mia presenza non l’aveva mai minimamente turbato. Di nuovo, però, il modo in cui mi eccitava con quella sua freddezza lo ingigantiva ai miei occhi. In uno di quegli improvvisi momenti di esaltazione che in me erano divenuti frequenti, provai il desiderio di inginocchiarmi di fronte a lui, inchinarmi, adorarlo. Mai più, mai più, pensai spaventata. Temetti di non sopportare il dolore di perderlo.

“Daniel,” gli dissi piano.

Egli sollevò lo sguardo e, di fronte al mio volto angosciato, socchiuse gli occhi, analizzandomi, comprendendomi. Ci fu un lungo minuto di silenzio. Aspettavo e tremavo, sapevo che quell’istante era il primo veramente vivo fra di noi, il primo che ci legava in modo diretto. Quel momento mi separava in un batter d’occhio da tutto il mio passato e, in una singolare previsione, indovinai che lui si sarebbe stagliato come un punto rosso sull’intero corso della mia vita.

Io speravo e, in attesa, con tutti i sensi stimolati, avrei voluto che l’intero universo si fermasse, temendo che una foglia si muovesse, che qualcuno ci interrompesse, che il mio respiro o un gesto qualsiasi spezzasse l’incanto di quell’attimo, lo facesse svanire e ci precipitasse nuovamente nella distanza e nel vuoto delle parole. Il sangue mi pulsava sordamente nei polsi, nel cuore, sulla fronte. Le mani gelate e umide, quasi insensibili. La mia ansia mi provocava una tensione estrema, come fossi pronta per lanciarmi in un gorgo, pronta per impazzire. A un minimo movimento di Daniel, esplosi quasi in un grido, come se lui mi avesse agitato con violenza:

“E se tornassi?”.

Accolse la frase con fastidio, come ogni volta che “la mia intensità di animale lo scioccava”. Fissò lo sguardo su di me e progressivamente i suoi tratti andarono trasformandosi. Arrossii. La costante preoccupazione di raggiungere i suoi pensieri non mi aveva concesso il potere di penetrare in quelli più importanti, ma aveva allenato la mia intuizione riguardo a quelli minori. Sapevo che per fare in modo che Daniel provasse pietà di me, avrei dovuto rendermi ridicola. Né la fame né la miseria di qualcuno lo commuovevano più della mancanza di estetica. I capelli sciolti, umidi di sudore, mi ricadevano sul viso infuocato e il dolore, al quale la mia fisionomia, inerte per lunghi anni, non si era ancora abituata, stava sicuramente alterando il mio aspetto, conferendogli un tocco di grottesco. Nel momento più grave della mia vita ero ridicola, mi diceva lo sguardo amareggiato di Daniel.

Rimase in silenzio. E, come dopo una lunga spiegazione, aggiunse, con una voce lenta e serena:

“E oltretutto, tu mi conosci più di quanto sarebbe necessario per vivere con me. Ho già detto troppo”. Pausa. Si accese una sigaretta senza fretta. Mi guardò a fondo negli occhi e con un mezzo sorriso concluse: “Io ti odierei il giorno in cui non avessi più nulla da dirti”.

Ero già stata abbastanza calpestata per non sentirmi ferita. Era la prima volta, però, che mi rifiutava in maniera così esplicita: me, il mio corpo, tutto ciò che possedevo e che gli offrivo a occhi chiusi.

Terrorizzata dalle mie stesse parole che mi trascinavano oltre la mia volontà, proseguii umilmente, provando ad assecondarlo.

“Almeno risponderai alle mie lettere?”

Fece un gesto impercettibile di impazienza. Ma mi rispose, la voce controllata, cordiale:

“No. Il che non impedisce che tu mi scriva”.

Prima che io mi ritirassi, mi baciò. Mi baciò sulle labbra, senza che la mia inquietudine trovasse pace. Perché lo faceva per me. E il mio desiderio era che provasse piacere, che divenisse umano, si umiliasse.

***

La mamma si ristabilì in fretta. E io ero tornata da Jaime, definitivamente.

Ripresi la vita di prima. Tuttavia, mi muovevo come una cieca, in una specie di sonnolenza che mi lasciava soltanto quando scrivevo a Daniel. Non ricevetti da lui nemmeno una parola. Non mi aspettavo di più. E continuavo a scrivergli.

A volte il mio stato si aggravava e ogni singolo istante si faceva doloroso come una piccola freccia che si conficcasse nel mio corpo. Pensavo di fuggire, di correre da Daniel. Cadevo in uno stato fatto di movimenti febbrili che tentavo invano di dominare nelle faccende di casa in modo da non risvegliare l’attenzione di Jaime e della domestica.

Seguiva uno stato di spossatezza in cui soffrivo meno. Tuttavia, anche in quei frangenti non riuscivo a ritrovare interamente la quiete. Mi perscrutavo con attenzione: “Sarebbe tornato?”. Mi riferivo a quella tortura con parole vaghe, come se in quel modo riuscissi ad allontanarmene.

Nei momenti di maggiore lucidità, mi ricordavo che un giorno mi aveva detto:

“Bisogna saper sentire, ma anche sapere come smettere di sentire, perché se l’esperienza è sublime, può anche diventare pericolosa. Impara a incantarti e a disincantarti. Osserva, ti sto insegnando qualcosa di prezioso: la magia opposta all’‘apriti Sesamo’. Affinché un sentimento perda il suo profumo e smetta di intossicarci, non c’è niente di meglio che esporlo al sole”.

Avevo provato a pensare a ciò che era accaduto con chiarezza e oggettività in modo da ridurre i miei sentimenti a uno schema, senza orpelli, senza sottintesi. Mi sembrava vagamente un tradimento. Nei confronti di Daniel, di me stessa. Ci avevo provato, comunque. Semplificando la mia storia in poche parole, esponendola al sole, mi pareva davvero irrisoria, eppure la freddezza dei miei pensieri non riusciva a contagiarmi, anzi, immaginavo di occuparmi della relazione fra una donna sconosciuta e un uomo sconosciuto. Oh, loro non avevano niente a che vedere con il peso opprimente che mi schiacciava, con quella dolorosa malinconia che mi faceva stralunare gli occhi e mi stordiva la mente… E addirittura, come avrei scoperto, temevo di liberarmene. “Quella cosa” era cresciuta oltremodo dentro di me, mi rendeva appagata. Mi sarei sentita persa se mi fossi curata. In fin dei conti che cos’ero adesso, che cosa sentivo, se non un riflesso? Se avessi cancellato Daniel, non sarei stata che uno specchio bianco.

Ero diventata vibratile, stranamente sensibile. Non sopportavo più quelle amene serate in famiglia che in altri tempi mi avevano tanto distratta.

“Fa caldo, non è vero Cristina?” diceva Jaime.

“Sono due settimane che provo a fare questo punto ma niente da fare,” diceva la mamma.

Jaime obiettava, stiracchiandosi:

“Ma pensa, fare l’uncinetto con questo tempo”.

“Il problema non è fare l’uncinetto, ma è il rompicapo di trovare questo benedetto punto,” ribatteva papà.

Pausa.

“Finirà che Mercedes si fidanza con quel giovane,” ci informava la mamma.

“Perfino brutta com’è,” rispondeva papà distrattamente, girando la pagina del giornale.

Pausa.

“Il capufficio adesso si è deciso a usare il sistema di invio della…”

Mascheravo l’angoscia e inventavo un pretesto per ritirarmi qualche minuto. Nella mia stanza mordevo il fazzoletto soffocando le grida di disperazione che minacciavano la mia gola. Crollavo sul letto, il volto affondato nel cuscino, sperando che accadesse qualcosa e mi salvasse. Cominciavo a odiarli, tutti. E desideravo abbandonarli, fuggire via da quel sentimento che andava crescendo attimo dopo attimo, mischiato a un’insopportabile pietà di loro e di me stessa. Come se insieme fossimo vittime della stessa irrimediabile minaccia.

Provavo a ricostruire l’immagine di Daniel, tratto dopo tratto. Era come se, ricordandolo nitidamente, potessi avere una specie di potere su di lui. Trattenevo il respiro, mi irrigidivo, serravo le labbra. Un attimo… Ancora un attimo e lo avrei avuto, gesto dopo gesto… La sua figura stava ormai prendendo forma, nebulosa… E alla fine, a poco a poco, desolata, la sentivo svanire. Avevo l’impressione che Daniel fuggisse da me, sorridendo. Tuttavia, la sua presenza non mi abbandonava. Una volta, mentre mi trovavo con Jaime, l’avevo percepita ed ero arrossita. Lo avevo immaginato che ci guardava, con quel suo sorriso calmo e ironico:

“Bene, vediamo, una coppia felice…”.

Mi aveva colto un brivido di vergogna e durante diversi giorni avevo sopportato appena l’ombra di Jaime. Pensavo a Daniel ancor più intensamente. Frasi che lui aveva pronunciato turbinavano dentro di me. Di tanto in tanto, una frase si stagliava e mi perseguitava per ore e ore. “L’unica attitudine degna di un uomo è la tristezza, l’unica attitudine degna di un uomo è la tristezza, l’unica attitudine degna di un uomo è la tristezza, l’unica…”

Lontano da lui, cominciavo a capirlo meglio. Mi ricordavo che Daniel non era proprio capace di ridere. A volte, quando dicevo qualcosa di divertente e se lo sorprendevo distratto, sembrava quasi che il suo volto si spezzasse in una smorfia che contraddiceva quelle rughe scavate soltanto dal dolore e dalla meditazione. Un’espressione allo stesso tempo infantile e cinica, quasi indecente, come se stesse facendo qualcosa di proibito, come se stesse ingannando qualcuno, sottraendovisi.

In quei rari istanti non sopportavo di guardarlo. Chinavo la testa, vessata, pervasa da una pietà che mi doleva. Realmente non era in grado di essere felice. Forse nessuno glielo aveva mai insegnato, chi lo sa? Sempre così solitario, fin dall’adolescenza, così lontano da un qualsiasi gesto amico. Oggi, senza odio, senza amore, semplicemente con indifferenza, di quanta bontà sarei capace.

Ma a quei tempi… Lo temevo? Sentivo soltanto che se si fosse manifestato, in qualsiasi momento, un suo solo gesto mi avrebbe indotto a seguirlo per sempre. Sognavo quel momento, immaginavo che, al suo fianco, mi sarei liberata di lui. Amore? Desideravo assecondarlo per trovarmi dalla parte del più forte, perché mi risparmiasse, come chi si annida fra le braccia del nemico per stare alla larga dalle sue frecce. Era diverso dall’amore, lo avrei capito: lo volevo come chi ha sete e anela l’acqua, senza sentimenti, perfino senza volontà di essere felice.

A volte mi concedevo un altro sogno, sapendo che era ancora più impossibile: lui mi avrebbe amata e io mi sarei vendicata, sentendomi… No, non superiore, ma uguale a lui… Perché, se lui mi avesse desiderata, sarebbero caduti in pezzi quella sua poderosa freddezza, quel suo sdegno ironico e incrollabile che tanto mi affascinava. Finché non fosse stato così, non avrei potuto essere felice. Mi perseguitava.

Oh, so bene di ripetermi, che errore, confondo fatti e pensieri in questo breve racconto. Eppure, con che sforzo metto insieme i suoi elementi e li traspongo sul foglio. Ho già detto di non essere intelligente, né colta. E soltanto soffrire non basta.

Senza parlare, con gli occhi chiusi, c’è qualcosa al di sotto dei miei pensieri, di più profondo e più forte, che protesta per quanto è accaduto e che, in un attimo fuggente, vedo chiaramente. Ma il mio cervello è debole e non riesco a trasformare questo minuto vivo in riflessione.

Ogni cosa è vera, comunque. E devo riconoscere altri sentimenti ancora, egualmente veri. Spesso, pensando a lui, in una trasposizione lenta, mi immaginavo a servirlo come una schiava. Sì, lo ammettevo, tremebonda e spaventata: io, con un passato stabile, convenzionale, nata nel mondo civile, provavo un piacere doloroso nell’immaginarmi ai suoi piedi, schiava… No, non era amore. Ne provavo orrore: era lo svilimento, lo svilimento… Mi sorprendevo a guardarmi allo specchio cercando sul volto qualche nuovo tratto scaturito dal dolore, dalla mia viltà, e che potesse condurre la mia ragione agli istinti in tumulto che non riuscivo ancora ad accettare. Cercavo sollievo per la mia anima mortificandomi, sussurrando a denti stretti: “Vile… spregevole…”. Mi rispondevo, pusillanime: “Ma, mio dio (a lettere minuscole, come lui mi aveva insegnato), io non sono colpevole, io non sono colpevole…”. Di cosa? Non sapevo come definirlo. Qualcosa di orribile e di forte cresceva dentro di me, qualcosa che mi atterriva dalla paura. Sapevo solo questo.

E confusamente, al cospetto del suo ricordo, mi chiudevo su me stessa, mi univo a Jaime, stringendolo a me, nel desiderio di proteggerci, di proteggere entrambi contro di lui, contro la sua forza, contro il suo sorriso. Perché, sapendolo lontano, lo immaginavo mentre seguiva i miei giorni e sorrideva di qualche mio pensiero segreto, di quelli di cui appena indovinavo l’esistenza senza mai riuscire a penetrarne il senso. Dopo tanto tempo, più di un anno, cercavo quasi di giustificarmi per Jaime e per la nostra vita borghese, a tal punto si era impossessato della mia anima. Quelle lunghe conversazioni in cui io ascoltavo appena, quella fiamma che si accendeva nei miei occhi, quello sguardo lento, reso pesante dalla conoscenza, sotto alle palpebre spesse, mi avevano affascinata, avevano risvegliato in me sentimenti oscuri, il desiderio dolente di penetrare chissà come nel mio profondo, per raggiungere chissà cosa… E soprattutto avevano risvegliato in me la sensazione che nel mio corpo e nel mio spirito palpitasse una vita più profonda e più intensa di quella che vivevo.

Di notte, senza dormire, come se parlassi a qualcuno di invisibile, dicevo fra me, a bassa voce, vinta: “Concordo, concordo sul fatto che la mia vita è comoda e mediocre, concordo, tutto ciò che ho è piccolo”. Lo sentivo scuotere la testa benevolente. “Non posso, non posso!” gridavo fra me e me, includendo in quel lamento la mia impossibilità di smettere di desiderarlo, di andare avanti in quello stato e di, soprattutto, seguire i cammini grandiosi che aveva cominciato a mostrarmi e nei quali io mi perdevo, minuscola e abbandonata.

Avevo conosciuto vite ardenti ma ero ritornata alla mia, banale. Lui mi aveva permesso di intravedere il sublime e aveva imposto che anch’io mi bruciassi nel fuoco sacro. Mi dibattevo priva di forze. Tutto ciò che avevo imparato con Daniel mi faceva soltanto notare la piccolezza del mio quotidiano ed esecrarlo. La mia educazione non era terminata, l’aveva detto.

Mi sentivo priva di appoggio, cercavo evasione nelle lacrime. Tuttavia, la mia attitudine di fronte alla sofferenza era ancora di perplessità.

Dove trovai la forza per distruggere tutto ciò che ero stata, per ferire Jaime, per rendere infelici papà e mamma, ormai vecchi e stanchi?

Nei giorni che precedettero la mia decisione, come in quelli che, nel caso di certe malattie, precedono la morte, ebbi momenti di tregua.

Una volta, Dora, un’amica, era venuta a casa a vedere se riusciva a distrarmi da certe mie emicranie che utilizzavo come pretesto per abbandonarmi liberamente alla malinconia senza essere disturbata. Fu una sua frase, se ricordo bene, che mi spinse verso Daniel per altre vie.

“Mia cara, dovresti ascoltare Armando parlare di musica. Giureresti che stia parlando del piatto più prelibato al mondo o della donna più ‘non so che’. Con che voluttà, come se masticasse le note a una a una e ne gettasse via gli ossi…”

Pensai a Daniel che, al contrario, rendeva ogni cosa immateriale. Perfino quel suo unico bacio, mi era sembrato di riceverlo senza labbra. Rabbrividii: non impoverire il suo ricordo. Ma un altro pensiero avanzò lucido e imperturbabile: lui diceva che il corpo era un accessorio. No, no. Un giorno aveva guardato con ripugnanza e censura la mia camicetta che palpitava dopo una corsa per prendere l’autobus. Ripugnanza, no! Mi aveva detto, continuando quel pensiero freddo: “Tu mangi il cioccolato come se fosse la cosa più importante del mondo. Hai un gusto orribile per le cose”. Lui mangiava come se stesse accartocciando un pezzo di carta.

All’improvviso ebbi coscienza del fatto che molta gente sorrideva di Daniel, con uno di quei sorrisi orgogliosi e ambigui che gli uomini riservano gli uni agli altri. Forse anch’io l’avrei disprezzato se non fossi stata malata… A quel pensiero, qualcosa si ribellò dentro di me, stranamente: Daniel…

Mi sentivo repentinamente esausta, ormai priva di forze per andare avanti. Quando squillò il telefono. Jaime, pensai. Era come se io fuggissi da Daniel… Ah, un appoggio. Andai a rispondere, impaziente.

“Pronto, Jaime!”

“Come sapevi che ero io?” disse la sua voce nasale e allegra.

Come se mi avessero passato acqua fresca sul viso. Jaime. I miei nervi si rilassarono. Jaime, tu esisti. Sei reale. Le tue mani sono forti, mi accettano. Anche a te piace il cioccolato.

“Ne hai ancora per molto?”

“No, ho chiamato per sapere se hai bisogno di qualcosa dalla città.”

Lottai ancora un istante per non analizzare la sua frase distratta. Perché ultimamente comparavo ogni cosa a ciò che di bello e profondo mi aveva detto Daniel. E mi tranquillizzavo soltanto quando concordavo con il Daniel invisibile: sì, lui è banale, mediocremente, incredibilmente felice…

“Non voglio niente. Ma vieni subito, va bene? (Subito, tesoro, prima che arrivi Daniel, prima che io cambi, subito, adesso!) Pronto! Pronto! Senti, se vuoi portare qualcosa, compra delle caramelle, del cioccolato… Sì, sì. A dopo.”

Quando Dora si accomiatò, mi misi di fronte allo specchio e mi sistemai come non facevo da mesi. Ma l’ansia mi rendeva impaziente, mi faceva brillare gli occhi, i movimenti rapidi. Sarebbe stata una prova, la prova finale.

Quando apparve, la mia inquietudine si placò all’istante. Sì, pensai profondamente, ero calma, quasi felice: Daniel non si era manifestato. Jaime notò i cambiamenti della mia pettinatura, le unghie. Mi baciò, rilassato. Gli afferrai le mani, le passai sul mio viso, sulla fronte.

“Cos’hai, Cristina? Cos’è successo?”

Non risposi, ma migliaia di campanelli rintoccarono dentro di me. Il mio pensiero vibrò come un grido acuto: “Solo questo, solo questo: mi libererò! Sono libera!!!”.

Ci sedemmo sul divano. E nel silenzio della sala mi sentii in pace. Non pensavo a niente e mi appoggiavo a Jaime con serenità.

“Non potremmo starcene così per tutta la vita?”

Scoppiò a ridere. Mi accarezzò le mani.

“Lo sai? Mi piaci di più senza smalto sulle unghie…”

“Richiesta esaudita, mio signore.”

“Ma non era una richiesta: era un ordine…”

Poi di nuovo il silenzio che mi soffiava nelle orecchie, sugli occhi, che mi toglieva le forze. Era bello, dolcemente bello. Mi passò le mani fra i capelli.

Allora, come se una lancia mi stesse trapassando la schiena, mi irrigidii all’improvviso sul divano, aprii gli occhi e li fissai, dilatati, nel vuoto…

“Che c’è?” mi chiese Jaime inquieto.

I suoi capelli… Sì, sì, pensai con un leggero sorriso di trionfo, i suoi capelli erano scuri… Gli occhi… Un momento… Gli occhi… neri anche quelli?

***

Quella stessa sera decisi di andarmene.

E all’improvviso non pensai più alla questione, smisi di preoccuparmene, resi piacevole la serata di Jaime. Mi coricai serena e dormii fino al giorno seguente come da molto non facevo.

Attesi che Jaime si recasse al lavoro. Diedi libertà alla domestica. Preparai una piccola valigia con l’essenziale.

Prima di uscire, però, la mia serenità sfumò improvvisamente. Movimenti inutili, ripetitivi, pensieri rapidi e confusi. Mi sembrava che Daniel si trovasse insieme a me, la sua presenza quasi palpabile: “Questi tuoi occhi disegnati a fior di volto, con un pennello fine, con poco inchiostro. Minuziosi, chiari, incapaci di fare del bene o del male…”.

In un’ispirazione repentina decisi di lasciare un biglietto a Jaime, un biglietto che lo ferisse come l’avrebbe ferito Daniel! Che lo turbasse, lo schiacciasse. E, soltanto per l’orgoglio di dimostrare a Daniel che io ero “forte”, senza alcun rimorso, scrissi deliberatamente, provando a rendermi distante e inarrivabile: “Me ne vado. Sono stanca di vivere con te. Se non riesci a comprendermi, almeno fidati di me: ti dico che merito di essere perdonata. Se tu fossi più intelligente, ti direi: non giudicarmi, non perdonare, nessuno è in grado di farlo. E comunque, per tua buona pace, perdonami”.

***

Occupai silenziosamente il mio posto accanto a Daniel.

Gradualmente, mi impadronii della sua vita di tutti i giorni, lo sostituii, come un’infermiera, nei suoi movimenti. Mi presi cura dei suoi libri, dei suoi vestiti, resi più luminoso il suo ambiente.

Lui non mi ringraziava. Semplicemente lo accettava, come accettava la mia compagnia.

Quanto a me, fin dall’istante in cui, saltando giù dal treno, mi ero avvicinata a Daniel senza essere respinta, la mia attitudine fu soltanto una. Non di contentezza per lui, né di rimorso per Jaime. Né, propriamente, di sollievo. Era come se fossi ritornata alla mia fonte. Come se in precedenza mi avessero estratta da una roccia e spinta alla vita come donna, e io riacquistassi la mia vera matrice, come un estremo sospiro, gli occhi chiusi, serena, rendendomi immobile per l’eternità.

Non riflettevo sulla situazione, ma quando la analizzavo era sempre allo stesso modo: vivo insieme a lui, ed è tutto. Mi mantenevo a fianco di quello potente, di colui che sapeva, e questo mi bastava.

Perché non durò per sempre quella morte ideale? Un minimo di preveggenza, in certi frangenti, mi avrebbe avvisato che quella pace poteva essere solo passeggera. Intuivo che non sempre mi sarebbe bastato vivere Daniel. E, oltretutto, sprofondavo nell’inesistenza, concedendomi tregue, rimandando il momento in cui io stessa avrei cercato la vita, per scoprirla da me, attraverso la mia stessa sofferenza.

Per il momento mi limitavo ad assisterlo e a riposarmi.

***

I giorni passarono, i mesi si accavallarono l’uno sull’altro.

L’abitudine si installò nella mia esistenza, ed ero ormai guidata dall’abitudine di occuparmi attimo dopo attimo di Daniel. Ormai non lo ascoltavo più fremente, esaltata, come tempo addietro. Ero entrata in lui. Non c’era nulla ormai che potesse sorprendermi.

Non avevo mai sorriso, mi ero svincolata dalla gioia. E, tuttavia, non mi sarei allontanata dalla sua vita nemmeno per essere felice. Non ero felice, ma nemmeno infelice. Mi ero incorporata a tal punto in quella situazione da non riceverne più gli stimoli e le sensazioni che mi permettessero di conferirle un tono.

Soltanto un timore turbava la mia strana pace: che Daniel mi mandasse via. A volte, rammendando silenziosamente i suoi vestiti accanto a lui, presentivo che ne avrebbe parlato. Abbandonavo il cucito in grembo, impallidivo e aspettavo i suoi ordini:

“Puoi andare”.

E quando, alla fine, lo sentivo dirmi qualcosa o ridere di me per qualche motivo, riprendevo la stoffa e continuavo il lavoro, le dita che tremavano per alcuni istanti.

La fine, comunque, si stava avvicinando.

Un giorno in cui uscii presto, mi attardai più del solito fuori casa a causa di un incidente in una via. Quando tornai alla stanza lo trovai irritato, lo sguardo fisso da qualche parte, muto al mio buonasera. Non aveva ancora cenato e quando io, piena di rimorso, gli chiesi se volesse mangiare qualcosa, si chiuse apposta in un lungo silenzio e alla fine mi comunicò, perscrutando con un certo piacere la mia inquietudine, di non aver neanche pranzato. Corsi a preparare il caffè mentre lui manteneva la stessa espressione ostinata, vagamente infantile, osservando di sottecchi i movimenti frettolosi con cui apparecchiavo la tavola.

All’improvviso aprii gli occhi, spaventata. Per la prima volta scoprivo che Daniel aveva bisogno di me! Io ero diventata necessaria al tiranno… Lui, adesso lo sapevo, non mi avrebbe licenziata…

Ricordo che mi fermai con la caffettiera in mano, confusa. Daniel continuava ad avere quella sua aria ombrosa, sorta di muta lamentela contro la mia involontaria negligenza. Sorrisi timidamente. E dunque… lui aveva bisogno di me? Non provavo gioia, piuttosto una specie di disappunto: bene, pensai, è terminata la mia funzione. Mi spaventai per quella riflessione inopinata e involontaria.

Il mio tempo di schiava aveva ormai smesso di essere utile. Forse avrei continuato a esserlo, senza ribellarmi, fino alla fine della mia vita. Ma servivo un dio… E Daniel, disincantato, aveva vacillato. Aveva bisogno di me! ripetei mille volte più tardi, con la sensazione di aver ricevuto un enorme e bellissimo regalo, troppo grande per le mie braccia e per il mio desiderio. E la cosa più strana era che questa impressione era accompagnata da una seconda, assurdamente nuova e forte. Ero libera, alla fine avevo scoperto…

Come riuscire a comprendermi? Perché all’inizio quel cieco inserimento? E poi, la quasi gioia della liberazione? Di che materia sono fatta dove si allacciano ma non si fondono gli elementi e la base di mille altre vite? Seguo tutti i cammini e nessuno di essi è ancora il mio. Ero stata modellata in tante statue ma non mi ero mai resa immobile…

Da lì in avanti, senza che me ne rendessi conto, mi disinteressai impercettibilmente di Daniel. E, tanto per cominciare, non accettavo più il suo dominio. Ero semplicemente rassegnata.

A che scopo raccontare piccoli fatti che dimostrano il mio percorso progressivo verso l’intolleranza e verso l’odio? Si sa bene quanto poco basti per alterare l’atmosfera in cui vivono due persone. Un piccolo gesto, un sorriso, si impigliano come a un amo a uno dei sentimenti che riposano intrecciati sul fondo delle acque calme e lo trascinano a galla, facendolo gridare al di sopra degli altri.

Continuammo a vivere. E adesso assaporavo, giorno dopo giorno, all’inizio mischiato al sapore del trionfo, il potere di guardare negli occhi il proprio idolo.

Lui si accorse della mia trasformazione e, se all’inizio si ritrasse sorpreso dal mio coraggio, in seguito tornò al vecchio giogo con maggiore violenza, pronto a non lasciarmi fuggire. Si sarebbe però scontrato con la mia, di violenza. Ci armammo, e adesso eravamo due forze.

Respiravamo a fatica nella stanza. Ci muovevamo come dentro al pericolo, in attesa che si concretizzasse e che ci precipitasse addosso, sulle spalle. Ci facemmo astuti, scovando mille intenzioni occulte in ogni parola pronunciata. Ci ferivamo a ogni istante e sancimmo vittorie e sconfitte. Divenni crudele. E lui divenne debole, si mostrò per come veramente era. Ci furono occasioni in cui solo per un filo non mi chiese appoggio, confessando l’isolamento in cui la mia liberazione lo aveva lasciato e che, dopo di me, non sarebbe mai più riuscito a sopportare. Io stessa, in improvvisi cedimenti di forze, a volte avevo voglia di tendergli la mano. Tuttavia, ci spingemmo troppo lontano e, orgogliosi com’eravamo, non ci fu possibile tornare indietro. Adesso era la lotta a sostenerci. Come un bambino malato che si mostra sempre più capriccioso. Qualsiasi mia parola provocava l’inizio di una ruvida discussione. Più tardi, ricorremmo a un altro mezzo: il silenzio. Ci parlavamo appena.

E perché, dunque, non ci separavamo, considerato che nessun legame serio ci imprigionava? Lui non me lo proponeva perché si era abituato al mio aiuto e non sarebbe più stato in grado di vivere senza qualcuno su cui esercitare il suo potere, qualcuno per cui fosse re, dal momento che non lo era in nessun altro luogo. E forse ormai gli piaceva la mia compagnia, lui che era sempre stato così solitario. Quanto a me – provavo piacere nell’odiarlo.

Perfino le nuove relazioni vennero contagiate dall’abitudine. (Vissi con Daniel all’incirca due anni.) A quel punto, neppure più l’odio. Eravamo stanchi.

Un giorno, dopo una settimana di pioggia che ci aveva bloccati insieme per giorni nella stanza, esaurendo fino al limite i nostri nervi – quella volta sopraggiunse la fine.

Era un tardo pomeriggio precocemente ombroso. Fuori la pioggia sgocciolava in maniera monotona. Durante il giorno ci parlammo appena. Daniel, il volto bianco al di sopra del foulard scuro al collo, guardava dalla finestra. L’acqua aveva appannato i vetri; si tolse il fazzoletto e, con attenzione, come se all’improvviso accrescesse l’importanza di quel fatto, si mise a pulirli, i movimenti minuziosi e attenti, tradendo lo sforzo che faceva nel trattenere il nervoso. Il tic-tac dell’orologio pulsava nella stanza, ansimante.

Allora, come se stessi continuando una discussione, dissi, con mia stessa sorpresa:

“Ma tutto questo non può continuare…”.

Si voltò e mi accorsi dei suoi occhi freddi, forse curiosi, sicuramente ironici. Tutta la mia rabbia si concentrò in quel momento e mi pesò sul cuore come una pietra.

“Di che stai ridendo?” gli chiesi.

Lui continuò a fissarmi e riprese a pulire i vetri della finestra. All’improvviso, come se se ne ricordasse, rispose:

“Di te”.

Mi spaventai. Com’era coraggioso. Mi fece paura l’audacia con cui mi sfidava. Replicai, dopo una pausa:

“Perché?”.

Lui si inclinò leggermente e i suoi denti brillarono nel buio. Lo trovai terribilmente bello, senza che quella rivelazione mi commuovesse.

“Perché? Ah, perché… Il fatto è che tu e io… indifferenti o con odio… Questa discussione che non ha propriamente a che vedere con noi due, che non ci fa vibrare… Una delusione.”

“Ma allora perché ridi di me?” continuai ostinata. “Non siamo in due?”

Pulì una goccia che scorreva lungo il parapetto.

“No. Sei sola. Sei sempre stata sola.”

Era forse un modo per ferirmi? E comunque mi sorpresi, mi spaventai come se mi avessero derubata. Mio Dio, allora… nessuno dei due credeva più in quello che ci aveva legato?

“Temi la verità? Non proviamo nemmeno odio l’uno per l’altro. Così saremmo almeno quasi felici. Esseri dai contenuti forti. Vuoi una prova? Non mi uccideresti, perché poi non sentiresti né piacere né dolore. Solo questo: perché?”

Non potevo fare a meno di notare l’intelligenza con cui scandagliava la verità. Ma come tutto stava precipitando! pensavo.

Si fece silenzio. L’orologio rintoccò le sei. Di nuovo silenzio.

Respirai con forza, profondamente. La mia voce fuoriuscì bassa e pesante:

“Me ne vado”.

Facemmo entrambi un piccolo movimento rapido, come se dovesse cominciare una lotta. Poi ci guardammo in faccia sorpresi. Era detto! Era detto!

Ripetei trionfante, tremante:

“Me ne vado, Daniel”. Mi avvicinai e, sul pallore del suo volto esile, i capelli sembravano eccessivamente scuri. “Daniel,” lo agitai per un braccio, “me ne vado!”

Lui non si mosse. Mi resi conto allora che la mia mano aveva afferrato il suo braccio. La mia frase aveva creato fra noi una distanza così vasta che non riuscivo nemmeno a sopportarne il contatto. La ritirai con un movimento così brusco e improvviso che il posacenere volò lontano e si frantumò sul pavimento.

Rimasi per un po’ a guardare i cocci. Poi sollevai la testa, improvvisamente rasserenata. Anche lui si era immobilizzato come affascinato dalla rapidità della scena, dimentico di qualsiasi maschera. Ci fissammo per un istante, senza collera, gli sguardi disarmati che cercavano, ora pieni di una curiosità quasi amica, il profondo delle nostre anime, il nostro mistero che doveva essere lo stesso. Sviammo lo sguardo allo stesso tempo, turbati.

“I carcerati,” disse Daniel tentando di conferire un tono leggero e sdegnoso a quelle parole.

Fu l’ultimo istante di simpatia che vivemmo insieme.

Ci fu una lunghissima pausa, di quelle che ci sprofondano nell’eternità. Intorno a noi tutto si era fermato.

Con un nuovo sospiro, ritornai alla vita.

“Me ne vado.”

Non fece alcun gesto.

Mi diressi alla porta e sulla soglia mi bloccai nuovamente. Gli vedevo le spalle, la testa scura eretta, come se stesse guardando di fronte a sé. Ripetei, con voce stranamente vuota:

“Me ne vado, Daniel”.

***

…Mia madre era morta per un attacco di cuore provocato dalla mia partenza. Papà si era rifugiato da mio zio, nell’interno dello Stato.

Jaime mi riprese con sé.

Non mi fece mai molte domande. Desiderava soprattutto la pace. Tornammo alla vita di prima, sebbene lui non mi si avvicinasse mai completamente. Intuiva quanto fossi diversa da lui e il mio “scivolone” lo intimoriva, facendo in modo che mi rispettasse.

Quanto a me, vado avanti.

In ogni caso, da sola. Per sempre da sola.