LA ROTTA DEL PO
Estratto “Il mulino del Po.” Riccardo Bacchelli
Scrive Bacchelli:" ..la campagna sembrava più stupita che atterrita ..." “Vedeva il fiume circondare una casa di contro la rotta, i contadini sbucare dal comignolo sul tetto, come formiche da un formicaio. Un rombo cupo, simile a tuono in distanza, ma vicino invece e continuo, che pareva espresso dalla terra, da cateratte profondate sotto i piedi, intronava l'aria, sommesso e terribile. Tremava l'aria, tremava il suolo. La campagna sembrava più stupita che atterrita, immota come nelle angosciose calme di vento che precedono il temporale. Si levava voce umana dai campi e dalle case e dalle aie, e correva, correva nella calma pomeridiana ancor più ignara che allibita:
- L'acqua, l'acqua, - gridavano, - la vien l'acqua, la vien! Ma questo, più che di paura, pareva un avviso, un grido di mestiere, come quando il minatore avverte che ha dato fuoco alla miccia, perché gli altri si riparino. Era l'ora della stagione già calda e laboriosa, in cui i contadini prendon un po' di riposo diurno. Dall'alto dell'argine l'occhio penetrava abbastanza lontano in campagna, per scorgere altri tetti subitamente gremiti d'uomini e donne coi bimbi piccoli in collo; e stradelli e cavedagne incassate, dove l'acqua andava fervida a snidare genti e bestie che le fuggivano innanzi a rotta di collo, col torrente alle calcagna. E dileguavano nell'acqua le opere campestri sommerse, mentre altri uomini, sorpresi dallo straripare dei fossi, sguazzavano nelle fette lavorate, già impantanate. E si scorgeva qualcuno, solitario o in piccola compagnia, che rifugiato su qualche rilievo del terreno e sui sentieri degli arginelli o sugli alberi, faceva gesti di disperato, scorgendosi imprigionato d'ogni parte, coll'acqua che cresceva intorno inesorabile. L'occhio del riguardante, da essa abbagliato, cercava gli umani quasi affascinato da una curiosità crudele. Ma dalla bocca dello squarcio della coronella, larga, la corrente non precipitava a cascata, anzi fluiva rapida e uguale, volava, sotto gli occhi di chi se la scorgeva ai piedi dal tetto della casa, ch'era stata la prima investita."
CAPITOLO SESTO ED ULTIMO DI «LA MISERIA VIENE IN BARCA»
LA ROTTA
I
Vengon le rondinelle a Santa Croce;
Le van per Santa Croce.
Ai tre di maggio, dunque, e ai quattordici di settembre. Eran venute da poco, e la campagna in ferrarese voleva mantenere quell'anno largamente le sue promesse. Nel marzo, quando non fan danno, i venti avevano sfogato; e aprile con freschi soli e tiepidi rovesci d'acqua, aveva nutrite e cresciute aveva nutrite e cresciute sollecite ed abbondanti le messi; anzi, sul finire, già tutto impallidito il verde dei frumenti, le affidava alla cortesia del mese di maggio. Il cuore degli uomini faticatori non s'apriva più solo alla speranza, ma alla fiducia. C'era un proverbio locale, che rivolto alle giovani di bell'incarnato riusciva galante:
Il sole in marzo tinge,
E in aprile il sol dipinge.
Lo stesso si sarebbe potuto dire dei frumenti in maggio, che cortese davvero e di bei soli e di salubri venticelli, già principiava ad abbrividirli d'un primo color d'oro. La canapa sorgeva ben uguale e rigogliosa d'alto, prospero tiglio. I frutti e l'uva avevan fiorito a profusione, e poi attecchito in abbondanza. Pareva che i festosi uccelli primaverili invitassero gli uomini a star di buon animo. E anche la coronella, collaudata dalle «morbide» primaverili, pareva ormai sicura, tanto che nessuno stupì che perfino Coniglio mannaro avesse smesse paure e profezie di malaugurio. Del resto non si faceva più vedere, se non dove lo chiamava qualche faccenda, né in piazza, né all'osteria, né in chiesa alla Guarda; e fuorché d'interessi, non parlava più di nulla a nessuno. Il fiume, quando fossero per essere spariti i resti dei froldi uniti, prometteva, davanti le Nogarole e l'Antonella, di prender corso in un nuovo letto, agiato, spazioso; per cui Cecilia mugnaia si fidava d'esser presto per risalire alla piarda d'una volta, da quando una grossa piena a metà del mese fu passata senza danni, e mostrò che il fiume, la sua corrente di destra, si sarebbe fra non molto assestato lungo la coronella assai bene e forse meglio di prima.
É anche da dire che quella piena di metà maggio, e le altre negli anni recenti, inquietavano i pratici del fiume, fra cui Cecilia, perché più frequenti, più improvvise, più aspre, più cariche di fango e di frascame e di legname. Ed erano indizi, questi, di ciò che si veniva dicendo anche sul basso Po, del gran danno che sui lontani monti d'Appennino veniva facendo la distruzione dei boschi: breve errore e lunga iattura, grave danno d'un guadagno nefasto e ingannevole. Gli antichi governi, infatti, e più severi e più sapienti, sulle Alpi e sull'Appennino avevano mantenuto leggi e guardie rigorose, perché il taglio dei boschi tanto pubblici che privati non li distruggesse. Li proteggeva anche il difetto, in ciò benefico, di strade, trasporti, e commerci in montagna; li proteggeva la stessa povertà e ignoranza montanina. Il primo incremento di una vita più intensa e aperta, col nuovo Regno, fra quelle popolazioni, non che il denaro degli speculatori e il rincaro e la ricerca del legname, portò, come suole, innanzi avidità sregolata e imprudente, che non considerazione dell'utile generale, che investe il privato a non lungo andare. Il legislatore stesso aggravò e affrettò il malfatto, per una fiducia liberale e un rispetto dottrinale dei diritti del privato lasciato a sé stesso, mal collocati luna e l'altro, abrogando le restrizioni e non provvedendo, o senza efficacia, a dare buone regole. Fatto sta che in pochi anni fu distrutto quel che vuol lustri e decenni ad esser rifatto: l'antico boscoso Appennino divenne tutto una frana e un tristo e sterile scoscendimento d'argille. Dicevano che se ne risentisse perfino il clima generale, fatto più instabile e meno difeso dal fastidio degli scirocchi; certo quella rovina dei monti risecchiti dalla distruzione dell'immenso serbatoio vegetale ch'è il bosco, inaridiva anche le vene segrete della pianura e l'assetava; ma si fece sentire più gravemente e subito nei fiumi, colle piene ogni anno più rabbiose e rovinose, col rovinare più e più rabbioso e licenzioso delle acque piovane e delle nevi sciolte. Si lamentava poi la gente fluviale, che la cresciuta quantità di limo disturbasse i pesci e isterilisse le loro uova, compromettendo una delle ricchezze del Po, cioè lo storione. Quel che ognuno sapeva e vedeva, e che risultava troppo provato dalle misure degli ingegneri, era il crescere del letto e l'intasarsi delle foci e l'innalzarsi sempre maggiore delle piene sopra la guardia. L'effetto delle foci intasate, quando s'aggiungevano i venti sciroccali e levantini a contrastare in mare lo sfociar del fiume, come quelli che dominano nei periodi delle piene e le provocano colle piogge e coi disgeli, si faceva ogni anno più sensibile anche alla Guarda. Per di più, lo specchio del fiume allargato davanti la coronella, era per restare più aperto alle burrasche e alle furie del vento d'ostro, nemico dei mugnai. Insomma, la prudenza e l'istinto consigliavano a Cecilia di stare ancora a vedere come si mettevan le cose, per quanto la piarda, dove s'era ritirata provvisoriamente, fosse scomoda da raggiungere e scarsa d'acqua.
Era passata una settimana dalla piena di mezzo maggio, quando il fiume gonfiò daccapo, e raggiunse le 76 oncie sulla guardia, che non erano da fare spavento: anzi principiava di già a scendere, e insomma non era una piena grandissima. Così dicevano due «casonanti» incaricati di sorvegliare i due tagli dei froldi uniti e la coronella, e che stavano guardando appunto la scolina del taglio a valle, da cui l'acqua fluiva nella vasca. Lo dicevano a Coniglio mannaro, che dopo colazione era andato fin là, più che altro per sgranchirsi le gambe. Eran quasi le due pomeridiane.
- Queste due piene ci volevano, - disse uno dei casonanti, - ci volevano anche per voi, Scacerni.
- Per me?
- Non siete stato quello che faceva più chiasso?
- Dicevate pure - incalzò l'altro casonante - che la coronella era costruita male e che non poteva reggere?
- Lo dicevo, - ammise lui.
- Ecco due buone piene, e non è successo niente, e la coronella si comporta bene.
- Dicono però che qua e là è filtrata dell'acqua, in principio, - obbiettò Coniglio mannaro.
- Ma filtra, adesso?
- Già, se ha filtrato in principio, vuol dire che adesso è stagna, - disse Coniglio mannaro.
- Eh, che vi dicevo?
- C'è ben stato un fosso che s'è messo a straripare poco lontano di qui, sul confine tra il podere della Ca' Morgosa e quello dell'Antonella...
- Le vostre buone terre, - l'interruppe l'altro casonante, ridendo.
- Non parlo per me! Vi fate un'idea che cosa vorrebbe dire una rotta?
- Misericordia! - esclamaron tutti e due, guardando il fiume ancora ben alto, e vasto, e limaccioso, che correva coi suoi gorghi lenti, col suo potente andare, alquanto sotto il ciglio dell'argine. - Non lo dite nemmeno per scherzo!
E proseguiva Coniglio mannaro:
- Sarebbe un bello scherzo davvero, che tutta quest'acqua s'aprisse la via per i campi! Magari ci sarebbe il caso che Po si facesse un'altra strada, che da mille anni, dalla rotta Siccardi in poi, non s'è più visto. E allora, addio campi, addio stalle, addio paesi e uomini! - A principiar da noi tre, - esclamò un casonante portando gli sguardi ai suoi piedi, ché un tal discorso, lì sull'argine e sulla piena, gli metteva quell'uggia nello stomaco e quella confusione nel capo, per cui chi soffre la vertigine sente il suolo vacillare leggiero e come lubrico. - Ma - disse l'altro - se voi Scacerni potete far di questi discorsi proprio qui, vuol dire che siete ben sicuro di questa coronella, adesso. - C'è ben stato - continuò lui - quel fosso d'acqua morta, vicino la Possessione delle Suore, che s'è messo a scappare all'indietro, svelto e torbido.
- Ma poche carrettate di terra son bastate a turare la falla, e adesso non ci trapela nemmeno un goccio! - È vero, - disse Coniglio mannaro.
- Di questi fatti ne succedono in ogni piena.
- Anche questo è vero.
- Dunque, perché fate di cotesti discorsi di malaugurio con quella faccia lì da me n'impippo?
- Questa seconda piena mi ha messo tranquillo come un bambino alla tetta, - assicurò Coniglio mannaro; che fu un'idea così buffa, immaginarlo a poppare, che ambedue scoppiarono a ridere, separandosi, uno per continuare la sua sorveglianza verso la congiunzione dei froldi colla coronella a valle, l'altro risalendo verso il taglio a monte. Sui tagli dei froldi si passava per mezzo di passerelle. Coniglio mannaro s'era unito al secondo, e avevan fatto cento passi o poco più, quando un grido li fece voltare.
- Che cosa è questo? - esclamò il casonante, afferrando per un braccio Coniglio mannaro. - Il diavolo...
- Lasciatelo stare! Vi sembran momenti?
- Il diavolo mi manca di parola? - balbettava Coniglio mannaro.
Nella scolina del taglio da cui s'erano appena allontanati, sorgeva nero come la fuliggine, sprizzava e si levava in colonna alta e veemente, un sifone, un fontanaccio potente. L'altro casonante scappava in giù, urlando: - L'acqua, l'acqua!
- La colpa è mia - delirava Coniglio mannaro, - che non gli ho raccomandato anche i froldi; - sicché poi il suo compagno di quei momenti ebbe a dire ch'era ammattito in quel punto. E com'ebbe detto, penarono a credere l'uno e l'altro a quel che accadeva sotto gli occhi loro, ché buon tratto di froldo, sul fontanaccio, s'abbassò; lo videro piegare e sprofondare, sparire. - Via! Via! - gridò il casonante. - Il fiume si mangia il froldo!
Ma Coniglio mannaro, con forza strana, lo afferrò e lo trattenne. Vedevano la corrente per quella vasta slabbratura improvvisa, precipitar nella vasca e battere contro la coronella e gonfiare e sormontarla. È peggio, ben peggio vedono: che la sforza; e rompe; e quel fiume diverso corre per la folta e verde campagna maggiolina, lungo un filare d'alberi da frutto, che si piegavano e sparivano, quasi li bevesse uno dopo l'altro. Vedeva questo, e impietriva, Coniglio mannaro, simile ad un affascinato. Vedeva il fiume circondare una casa di contro la rotta, i contadini sbucare dal comignolo sul tetto, come formiche da un formicaio. Un rombo cupo, simile a tuono in distanza, ma vicino invece e continuo, che pareva espresso dalla terra, da cateratte profondate sotto i piedi, intronava l'aria, sommesso e terribile. Tremava l'aria, tremava il suolo. La campagna sembrava più stupita che atterrita, immota come nelle angosciose calme di vento che precedono il temporale. Si levava voce umana dai campi e dalle case e dalle aie, e correva, correva nella calma pomeridiana ancor più ignara che allibita:
- L'acqua, l'acqua, - gridavano, - la vien l'acqua, la vien! Ma questo, più che di paura, pareva un avviso, un grido di mestiere, come quando il minatore avverte che ha dato fuoco alla miccia, perché gli altri si riparino. Era l'ora della stagione già calda e laboriosa, in cui i contadini prendon un po' di riposo diurno. Dall'alto dell'argine l'occhio penetrava abbastanza lontano in campagna, per scorgere altri tetti subitamente gremiti d'uomini e donne coi bimbi piccoli in collo; e stradelli e cavedagne incassate, dove l'acqua andava fervida a snidare genti e bestie che le fuggivano innanzi a rotta di collo, col torrente alle calcagna. E dileguavano nell'acqua le opere campestri sommerse, mentre altri uomini, sorpresi dallo straripare dei fossi, sguazzavano nelle fette lavorate, già impantanate. E si scorgeva qualcuno, solitario o in piccola compagnia, che rifugiato su qualche rilievo del terreno e sui sentieri degli arginelli o sugli alberi, faceva gesti di disperato, scorgendosi imprigionato d'ogni parte, coll'acqua che cresceva intorno inesorabile. L'occhio del riguardante, da essa abbagliato, cercava gli umani quasi affascinato da una curiosità crudele. Ma dalla bocca dello squarcio della coronella, larga, la corrente non precipitava a cascata, anzi fluiva rapida e uguale, volava, sotto gli occhi di chi se la scorgeva ai piedi dal tetto della casa, ch'era stata la prima investita. Questa reggeva all'impeto, poiché la terra rovesciata e scavata dalla furia del primo fiotto, gli era stata addossata e ammontata contro; ed ora le difendeva. E sviava, cotesto mucchio di terra, la maggior forza del fiume nuovo verso la Guarda, a valle, come se la campagna lo bevesse facilmente. I poderi dell'Antonella e della Ca' Morgosa, a monte, restavano intatti, sicché Coniglio mannaro, senza fretta, lasciando di stringere il braccio del casonante trattenuto, più che da lui, dall'orrore della veduta:
- La mia roba - disse additandola - rimane asciutta.
- E che m'importa, - fece costui, - che m'importa a me? - Ma subito colto da sdegno per la sacrilega gioia della voce e del gesto: - Coniglio mannaro, - soggiunse, - brutta stirpe di scomunicato, c'è uno che se muore oggi, è sicuro d'andare all'inferno. - La roba mia - ripetè senza badagli, e indicandosi il petto, - è salva.
- Oggi non si salva nessuno, - disse l'altro, sopraffatto dalla disperazione, andandosene di corsa. Sul viso appuntito e grinzo, non più di coniglio quanto oramai di vecchia faina, del nostro possidente, errava un ebete sorriso di trionfo. Dallo stradello dell'Antonella e dai suoi poderi, frotte di contadini colle famiglie, con carri colmi di masserizie e di derrate, con bestiame sciolto, venivano verso la coronella. In distanza la strada da Ro alla Guarda nereggiava già di rifugiati. Il grido s'era dilungato e dileguava come un eco:
- La vien, l'acqua, l'acqua, la vien! Grandi, spauriti, lamentosi muggiti venivan dalla campagna allagata, dalle stalle, dove il boaro non aveva fatto a tempo ad aprirle, dai campi, dove il bestiame errava coll'acqua al ginocchio, al ventre, al petto, sperduto e impantanato. Voce spiegata all'angoscia comune davano le campane a stormo: Ro rispondeva alla Guarda, martellando; e in tant'anni il campanile vecchio della Guarda non aveva ancor mai rintoccato così alla disperata: pareva l'ultima volta prima di dare il crollo. A Coniglio mannaro importava soltanto il fatto che l'acqua scolava verso la Guarda, scansando le sue terre. Fece il giro del froldo, venne sulla coronella, camminando posato, e si fermò alla rampa dello stradello dell'Antonella. Lì voci diverse, chiamate, anche saluti; e nessuno piangeva, ché lo stupore del disastro sopraffaceva il dolore, e la paura affrettava la gente verso la coronella. Coniglio mannaro lodava la prudenza d'un suo boaro vecchio, che precedeva le belle bestie della più grassa stalla di Ca' Morgosa. - Prudenza, padrone? - fece quel vecchio canuto. - Si tratta che vien l'acqua!
- E io dico anche a voi, che fin qui l'acqua non viene e non verrà. - Ah? Ha voglia di scherzare, il padrone?
- Voglia di scherzare io? Scola per l'ingiù. - Oggi va sotto metà del ferrarese, se basta; tant'è vero quel che diceva il padre di mio padre.
- Che cosa diceva, compatendo l'ignoranza?
- La miseria viene in barca, - rispose in fretta quell'uomo, correndo a parar sù una vacca che minacciava di sbrancarsi. Coniglio mannaro rispose al proverbio con un sorriso sprezzante e con una scrollata di spalle infastidita. Si era tirato in disparte, per lasciar passare quei disgraziati in frotta, che aggredivano la rampa, e cercavano di raggiungerla quanto più presto potevano, e vi s'accalcavano. Stretta ed erta, ve ne capivan pochi alla volta; e i carri stentavano a salirla, e la fretta stessa intralciava e impediva. Si leticavano l'entrata, e vi perdevan più tempo. É vero che poi, se un carro più greve o più malagevole minacciava di fermarsi a metà, s'offrivan subito braccia per aiutare a sospingerlo, per liberare la rampa. Se non carità, comune paura li affratellava. Quelli in coda, gli ultimi arrivati, gridavano di far presto, presto, presto. - Ignoranti! - borbottava fra sé Coniglio mannaro, piantato sulle sue gambette, impettito, le mani sull'anche, con posa ed aria dell'unico a non perder la testa fra un popolo smarrito: adatte a far ridere, se non vi fossero state tante ragioni di piangere, e tanto poco tempo e voglia di badare a lui. - Ignoranti, che con questo gridare fan confusione e nient'altro! In cima alla rampa, lo spazio per rigirare i carri e volgere a monte non era molto, e poiché la coronella non era stata inghiaiata né l'erba aveva avuto tempo d'attecchirvi bene, le ruote facevano solchi profondi nella terra fresca, si piantavano e stentavano. Quelli di sotto, allora, colla paura alle spalle, persuasi che di sopra la prendesser comoda perché erano in salvo, urlavano tutti più forte. E anche questo aggiungeva spregio allo spregio di Coniglio mannaro, che rimormorava fra sé:
- Queste bestie non han fatto caso che la rotta sfoga a valle, in modo che a monte non c'è più pericoli, e han tutto il tempo d'andar comodi. Anzi potevan starsene a casa tranquilli questi scriteriati: mammalucchi! Quei meschini, nell'inviarsi per l'alto della coronella, in brevi e frequenti occhiate al fiume esprimevano una sorta di spaventata e rassegnata sommissione, come al destino; ma le occhiate più lunghe, che davano alle terre e alle case lasciate, adesso che la paura dava un istante di respiro, dicevano insorger d'affanno, angoscia e disperazione di gente che chi sa quando sarà per rivederle, e chi sa in che stato ridotte, le case loro, le loro terre. Non era gran frotta, poiché la gente preferiva gli argini vecchi e la strada da Ro alla Guarda, antico argine, rifugio provato; in ogni caso, preferivan dilungarsi dalla rotta. Così Coniglio mannaro presto si ritrovò solo sulla coronella; e gli venne l'idea di tornar sui suoi passi per andare un po' a vedere come si comportava la bocca di rottura. Rifece il giro.
Era una giornata di sole e fra le più lunghe dell'anno, ormai.
Pieno di quella sua stramba e fiduciosa saccenteria, senz'altri pensieri, né di moglie e figli, né di sé stesso; contento come d'una previsione avverata, anzi d'un negozio riuscito bene; avviandosi per il froldo di là dal taglio a monte verso la bocca, forse già gli pareva che le cose fossero state sempre così; o per lo meno, salve Ca' Morgosa e Antonella, poco rilevava per lui che il Po si facesse anche un'altra strada verso il mare. Vedeva la rotta, quelle due larghe slabbrature rispondenti del froldo e della coronella; vedeva anche i due mulini appiardati alquanto a valle di essa bocca; e nemmeno cotesta vista lo distrasse o gli ricordò qualcosa. Ma l'acqua aveva finito di colmare l'ampio triangolo del terreno fra la vecchia strada e il fiume, col vertice alla Guarda. Eran intasati e distrutti chiaviche e passaggi, per i quali le prime acque avevan sfogato verso la fossa Lavezzola. Queste già rifluivano, e non lo sapeva Coniglio mannaro, a torrente, a tempesta, lungo la strada suddetta. Mentre egli arrivava posatamente vicino alla bocca, la corrente, che urtava contro la gran massa stagnante e ormai rigurgitava, ebbe, di contro la casa che aveva servito a indirizzarla primamente, ebbe un ribollio furioso; ruppe parte dell'ostacolo che le faceva quella terra ammassata contro la casa; rifluì e scrosciò tutta, con nuovo mugghio, a ritroso; e corse lungo l'esterno della coronella, radendola; avida e feroce corse sulle sue terre, sulle terre sue, di Coniglio mannaro.
Non era forse ancor passata in tutto un'ora, ma si dan casi che l'orologio non è la buona misura del tempo: i pochi minuti, sotto gli occhi di lui, bastarono a ingrossare i due torrenti nella campagna. E il più vicino, aumentando la chiamata e divergendone il corso, gli slabbrò sotto i piedi la testa della bocca, sicché per poco non vi restava travolto e inghiottito. L'acqua crebbe e infuriò sui campi.
Ecco due fiumi nuovi sui campi, con nuova onda limacciosa e schiumante, cercarsi, restringer lo spazio, confondersi in una sola distesa di sinistro colore, che si agitò ancora, quasi ancora scossa dalle due rabbie; e si assettò immobile e greve, anche più tetra che non la furia di poc'anzi. S'egli ebbe pensier, furono vani come di delirio e sogno febbricitante. Vi fu chi credette di ricordare poi di averlo visto di lontano, sulla bocca, gestire e saltabeccare da spiritato. Poi stette immobile a fissare l'acque correnti e l'acque ferme, come se non riuscisse a credere a quello che vedeva, finché la sera gliele nascose, e nascose lui agli altri, se ci fu chi si ricordò di guardarlo. É così poco il declivio delle regioni ferraresi verso il mare, che l'acqua libera vi diventa erratica. Un fiume assai rapido, lambendo l'esterno della coronella, faceva ora via contraria a quella del Po, correndo alla sbrigliata verso le bassure di Fossa d'Albero e di Ruina; e sarebbe arrivato fino alla strada di Francolino, al limite del Barco, e fino a Ferrara a Porta di San Giovanni, se, qualche tempo dopo, l'acqua non avesse rotta la strada fra Ro e la Guarda nei pressi del Ponticin della Pioppa, buttandosi per la Vallazza contro la fossa Lavezzola, che superò d'impeto. E questo fu il terzo e definitivo indirizzo del fiume che alimentava la inondazione. Contornata intanto da dentro e da fuori, ròsa da due parti, la coronella si squarciò anche a monte. La nuova chiamata d'acqua, invertendo la successione del primo disastro, allargò l'altro taglio del froldo; vi fu nel segreto calamitoso di quella notte, nella gran vasca tra froldi uniti e coronella, un subbuglio tremendo di correnti e controcorrenti e gorghi. La luce del giorno scorse due copie di bocche: e dalle superiori l'acqua scorreva direttamente, mentre dalla coppia inferiore, poiché l'apertura emittente della coronella non bastava al volume immesso nella vasca dalla rispondente del froldo, parte rifluiva; e disegnava entro la vasca un arco; e s'avventava, a ritroso, per farsi strada, alla bocca superiore, con empito e rigurgito e urto orrendo e confuso. L'alba si levò trista e livida, con una promessa di pioggia e di maltempo, a illuminare il Po fluente più che mezzo per il letto che la fiumana s'era scavato nella bassura della Vallaza. Orribilmente placida si spandeva sui campi a perdita d'occhio. Fu allora che qualcuno vide una forma d'uomo sul troncone dei froldi rotti, e diede una voce a Cecilia sui mulini:
- Padrona Cecilia, quello là che si vede, avrebbe da essere il vostro uomo, se la vista non mi inganna.
II
In quegli ultimi mesi prima della rotta, Cecilia non era stata a perdersi in malignazioni e paure, ma per altro aveva tanto sentito dire anche lei che la coronella era malcostruita (per la storia è poi da notare che non fu essa a romper prima, ma come s'è visto, il froldo, forse per un'eruzione di gas di torba); l'aveva tanto sentito dire, che al venir della prima piena aveva imbarcata la figliolanza sui mulini, tanto per essere più sicura, finché la prova non fosse fatta. Aveva anche sentito dire dai più esperti che una rotta della coronella avrebbe buttato il Po in Vallazza; e Ponticin della Pioppa ci stava di mezzo. Neanche i mulini sarebbero stati sicuri sulla bocca d'una rottura, ma appunto i lavori la avevano obbligata a mutar piarda, nel che vide poi la protezione di Sant'Antonio abate. Insomma, come già il vecchio padron Lazzaro, lei si sentiva più sicura sull'acqua che non accanto, più a bordo che non in terra: più sicura e sto per dir più lesta e spedita; ché la barca le faceva piede leggiero, e pesante invece la terra, mentre l'idea stessa del pericolo, a bordo le significava lotta e difesa, in terra, morte in trappola. Considerando certa inestirpabile razza di topi allignata sull'antico Paneperso, lei diceva:
- Io son stirpe di topi molinari, e non di talpe contadine.
Intanto, e prima, la morte di Lazzarino, e Coniglio mannaro andato in erratico, e quella vile e feroce frenesia di cui non si poteva aver pietà senza disgusto, non la lasciavan benavere se non coi figli sottocchio. A che potesse trascorrere un tale sciagurato, lei non voleva neanche pensarci, e per questo non c'era altro né di meglio che tenerli vicini; altrimenti, era un pensiero continuo, quasi ci fosse in giro propriamente il lupo mannaro. Bisognava averlo visto quel giorno che l'aveva colto a tormentare la bambina: sempre che le tornasse il ricordo, la carne materna di Cecilia raggricciava di rabbia, di schifo e di timore.
Inoltre quella bestia, per dargli il meritato nome, fattosi come morto per la famiglia, non dava più un soldo in casa; e:
- Meglio! - pensava Cecilia. - Che si si facesse vivo, è soltanto per far male. Ma bisognava curare ed accrescere i proventi dei due mulini, per riparare alle spese dei sei figlioletti; e quel gran numero di braccianti, venuti per i lavori della coronella, non era stato di risorsa quanto si potrebbe credere, anzi piuttosto aveva sviato i fornai di Ro e della Guarda dai mulini di fiume, dato che questi macinavano lenti e posati e non più di certe quantità ed a piacer del fiume, mentre in un sobborgo di Ferrara il mulino a vapore e i magazzini del Vèrgoli eran sempre forniti e pronti al bisogno variabile e spesso urgente. Così Cecilia aveva perso un buon cliente, il fornaio della Guarda, Frascari, che aveva cominciato col dire:
- Che volete, padrona Cecilia? Un giorno si sta quasi senza infornare, e, il giorno dopo, crescono sul lavoro cento, duecento braccianti e più; in bottega occorron d'un tratto i quintali di pane. Allora impasta e informa e sforna notte e giorno. Il magazzino si vuota in ventiquattr'ore; e il giorno di là, posso rispondere che aspettino a sfamarsi dopo che avran lavorato le vostre macine posapiano? - Chi va piano va sano. - Ditela a chi ha fame questa ragione, padrona!
Il Frascari, detto Castorino per un che di morbido della persona e delle maniere liscie e accomodanti, non diceva che, pure da un giorno all'altro, i lavoranti talvolta calavano; e che in tal caso gli restava farina a deperire in magazzino. Non lo diceva, perché avrebbero potuto rispondergli di fabbricare un magazzino migliore, mentre la pratica l'aveva condotto a scoprire la comodità di ricorrere al mulino e ai magazzini del signor Pietro Vèrgoli a Ferrara. A conti fatti, anche la maggior spesa del trasporto riusciva compensata dai vantaggi. Diceva invece:
- Io non voglio dire che la maniera di macinare dei mulini di Po non sia delle migliori, anzi l'ottima: non per niente il pane del ferrarese è il più buono del mondo. Però bisogna andar piano a dir male di ogni novità che porta il progresso; e certuni maledicono i mulini a vapore, ma chi sa poi se distinguerebbero tra un pane e l'altro? Io terrei la scommessa, ma non vale la pena, e si finisce sempre a leticare, che a me non piace. Insomma, Cecilia aveva perso il cliente, e non solo quello, poiché la piarda nuova non era così comoda di strade da arrivarci, e per di più lì intorno erano tutte ridotte in malo stato dal gran traffico dei lavori. La confusione stessa di tanta gente svogliava i contadini, più d'uno dei quali, andato per una volta o due a un altro mulino, aveva preso il vezzo di tornarci: magari che c'era lungo la strada una buona osteria. Tant'è vero che le cose dell'uomo son da paragonare a tele di ragno. Ecco una clientela formata in mezzo secolo, come si sviava, e per che ragioni! Tele di ragno; e basta un venticello. Era inoltre un fatto, che, andando al mulino, ai contadini piaceva di veder la faccia del mugnaio, perché non conoscevan atto più geloso e fiducioso di cotesto, d'affidargli il frumento. Anche per questo, quanto più Cecilia stava al mulino, tanto meglio; e nella casa sul sandoncello del Paneperso lo spazio abbondava. Il lettore infatti ricorda che il massiccio Paneperso era d'alta struttura e d'erti tetti di canna e strame palustre, verdi di muschio e d'erbe. Erano tanto alti, che sotto il colmo il solarino riusciva abbastanza capace da potervi anche abitare qualcuno. Cecilia vi allogò in tre cuccette i ragazzi: Giovanni, che rifaceva il nonno Rei, Princivalle, che rifaceva il bisnonno Malvegoli, e Antonio, dal santo dei mulini di fiume. Vi si saliva con una scaletta a piuoli dall'andialetto, entrando per l'apertura d'una specie d'abbaino; e non è a dire quanto la cosa divertisse i tre ragazzi; tanto che la prima sera Cecilia, correndo col pensiero a colui che mancava, a Lazzarino buon'anima, sentendosi vincere dal pianto, si fece forza per non guastare quella loro ingenua festevolezza, e sfogò le lacrime soltanto più tardi nel guanciale della sua cuccetta. Nel sandoncello del San Michele aveva riunito fucina, falegnameria, tutti gli arnesi da mugnaio e cacciatore e pescatore, tenendo sul Paneperso soltanto la cucina. In due cuccette poi, una sull'altra, come nei bastimenti, accanto alla mamma dormivano Dosolina, che rifaceva la nonna paterna, e Maria, che rifaceva la nonna materna. Di questa, della madre perduta nel suo nascere, Cecilia non sapeva il nome; ma tutte le cristiane si chiamano Maria. La terza figlia si chiamava Berta, perché Cecilia ricordava che suo padre, da piccola, le raccontava le storie dei Reali di Francia; e a lei era piaciuto tanto quella di Milon d'Anglante e di Berta, sorella di Carlomagno, dai quali nacque Orlando nella grotta di Sutri. E le tornava in mente ora più spesso cotesta storia; e ripensando le prodezze infantili d'Orlandino, ripensando al figlio morto, le veniva fatto di dire che lei, il suo Orlandino, l'aveva perduto. Mise Berta a dormire nella piccola cuccetta costruire per lei bimba da suo padre, ingentilita di intagli e ornamenti che le ripetevano il grande amore di quell'uomo ruvido, ritroso, selvatico: il Matto del Paneperso. Così dunque tutta la sua famiglia era riunita da più tempo sui mulini.
Più volte, quand'uno passava per l'argine, gli era accaduto di fermarsi a porger l'orecchio, sorpreso gradevolmente, all'allegria che tanti ragazzi facevano a bordo di quelle due moli nere, rese arcigne dall'età, dell'una ormai vecchia e dell'altra addirittura antica. Quattro sandoni appaiati, fitta la prora nell'acqua andante, parevan quattro aratri al solco: solco che non finiva mai, senza progredire, subito che aperto richiuso. Talché veniva fatto, scorgendo quel tentennio regolare, quel lieve pendolar dei mulini all'ancora, scorgendoli prueggiare, veniva fatto di immaginarli quasi viventi, e immusoniti, e che si dondolassero per una rassegnata impazienza del perpetuo moto, che non li mutava di luogo mai. Non è tale la vita dell'uomo, quando si figura di solcare il tempo? Basta si guardi dietro, e lo scorge uguale a quello che gli viene incontro. Ma questi non erano pensieri di una madre di sei figli a cui badare a cui procurare il pane, senza tempo di guardarsi addietro né di specular molto innanzi, ché ogni giornata le portava tanto lavoro da bastar bene a riempirla. Qualcuno dall'argine, o capitando alla piarda coi sacchi di frumento, le aveva detto:
- Padrona Cecilia, avete fatto l'imbarcata degli innocenti.
- Sia di buon augurio, - aveva risposto lei. - Non state a dubitarne, ché il Signore li protegge, e voi meritate ogni bene.
- Speriamo nell'innocenza. C'era anche qualcuno che sperava di vederla vedova, perché restava piacente, cotesta Cecilia. Ma lei di questo avrebbe riso con grande stupore. Il desiderio di figliare, già così profondo e fecondo, esaudito nelle materne sue viscere, s'era placato; e come in una polla colma la vena che la nutre si fa segreta e quasi ignota, nell'acqua che affiora tranquilla e limpidamente, così la sua vocazione naturale si colmava ora tutta in amore dei nati. E l'uomo le sarebbe riuscito, non che importuno, incongruo, come che, sempre stata ignara della voluttà, lei ora dell'uomo se ne fosse anche dimenticata.
Ed a sera, quando aveva messe le tre bambine a letto, e i tre maschi s'erano arrampicati nel solarino, così insonnoliti che talvolta lo Schiavetto ce li doveva issare; anche a lei spesso, dopo la giornata piena a laboriosa, cadeva il capo dal sonno. Allora il mulino era davvero l'imbarcata dell'innocenza, restando a vegliare, tempo di far due pipate d'una sua pipetta di gesso, un buon vecchietto tutto canuto, lo Schiavetto. Questo dormiva, col biadarolo a portata di mano per regolare il sarzanello della tramoggia, accanto ai palmenti del sandon grande del Paneperso. Sul San Michele, facevano una notte per uno Bargiglio e lo Spossato, Barabàgul e lo Slanà, i due garzoni ormai giovinotti, non proprio eccellenti nel mestiere, ma da contentarsene.
Che Dio proteggesse gli innocenti si potè vedere in occasione della rotta, poiché se si fossero trovati nella casa del Ponticin della Pioppa, la fiumana che si buttò per la Vallazza li avrebbe affogati e travolti e sepolti. Della vecchia casa di padron Lazzaro e di Dosolina non rimase nulla. Schiantati e rasi i muri, la fiumana sparse le fondamenta e l'aia e l'orto e il campo, d'un ghiareto infecondo, tristo a guardarsi quando le acque smisero, orribile pensando a quei bambini e alla sorte che gli era stata risparmiata per grazia di Sant'Antonio, ché non se ne sarebber ritrovate nemmen l'ossa. La mattina seguente che l'alba sorse livida e fosca sul primo giorno del disastro, Cecilia, che aveva passata la notte in angoscie tendendo l'orecchio ai mugghi strani del fiume, cominciava a respirare, ché almeno vederci era un sollievo. Ecco che l'avvertivano, dall'argine, che sul troncone restava un uomo, e pareva suo marito. - Quell'uomo - soggiungeva il passante - pericola che il fiume se li mangi da un momento all'altro col pezzo di froldo dove sta. - Perché non scappa? - chiese lei. - Oh, non sapete che si son aperte altre due bocche a monte? È in trappola- Come devo saperlo?
- Be', ora ve l'abbiamo detto. Non può scampare se non lo va a prendere qualcuno in barca. E bisogna che gli voglia di molto bene! Questo non c'era bisogno di dirlo, poiché avventurarsi fra le bocche d'una rotta di quel genere era impresa da far paura; ed anzi se il Po, dall'ultima in giù, correva adesso smagrito, svuotato e slentato, questo bastava a far intendere quanto della sua forza sfogava e irrompeva per quell'altra via. Bisognava volergli dimolto bene: Cecilia credette di capire non solo la certezza di quell'informatore che nessun estraneo si sarebbe messo a repentaglio per Coniglio mannaro, ma il dubbio che gliene volesse abbastanza lei, sua moglie. E si sentì offesa. Scese a terra collo Schiavetto, e si recò in fretta sulla bocca. Vi trovò quel passante, con un ingegnere del genio civile, al quale raccontava come lì proprio aveva visto erompere il sifone d'acqua fuligginosa. E era il primo di quei due casonanti, già in compagnia di Coniglio mannaro. Si scorgeva questi a un duecento passi, quant'era la larghezza della bocca, seduto la testa fra le mani e i gomiti sulle ginocchia, immoto, sull'acqua che fluiva facile e veloce: e già pareva proprio fosse sempre stata per di lì la sua strada. E la posa da disperato, l'immobile forma scura di quell'uomo sulle acque, pareva anch'essa posta colà da sempre e per sempre, come giace un morto ed occupa la sua lunghezza di terra. Parlava, dentro l'animo, quella accasciata forma d'uomo, più altamente e più forte dell'immane rovina assestata: era essa l'immagine della pena fra la natura ignava. E il casonante, nell'additarlo all'ingegnere, abbassò la voce, quasi parlando d'un morto, nel dire:
- C'era anche quell'uomo là, quando vidi saltar su dalla scolina il fontanazzo nero. - E a Cecilia, che sopraggiungeva in quella: - È proprio vostro marito. - Come mai - chiese l'ingegnere - è rimasto lì sul troncone?
- Non so proprio. Io correvo a dar l'avviso da questa parte. Si sarà fermato per disperazione. Sa, signor ingegnere, quell'uomo aveva le sue terre lì sotto.
Così dicendo, mostrava il grande stagno livido, dal quale spuntavano radi superstiti, e tetti di qualche casa. Vi si scorgevano chiaramente le due vene limacciose, dalle due coppie di bocche, che confluivano verso la Vallazza, correndo e scavando le terre di quell'uomo. E di là dalla nudità delle acque devastatrici, si scorgeva la strada nera di rifugiati, mentre, vedendo gente vicina, di sul tetto della casa prossima, quegli scampati gridavano quando sarebber venuti a prenderli, con implorazione rabbiosa. - Questi qui - disse il casonante - si può andarli a prendere: vede, signor ingegnere che l'acqua è tranquilla a valle della casa. Con un po' di prudenza, ci si può arrivare in barca. Ma quell'altro di là... - e s'interruppe, guardando interrogativo Cecilia, - quell'altro fra due bocche...
- Bisogna andare a prendere anche lui, - rispose lei. - Già, già - fece quello, - bisogna: ma l'acqua sbocca e svolta con una bella forza, la vedete? E se la barca ci resta presa, se i remi non han forza di vincere, con tutto quel che ci dev'essere lì sotto, alberi e sassi e chi sa cosa, vedete in quanti punti salta e fa gorgo? la mia donna, - concluse rivolgendosi a lei direttamente, - investire, significa sfondare la barca: e andare a fondo, là, significa affogare. - Bisogna andarci dal fiume, - disse Cecilia; soggiungendo più per sé che per gli altri, e come riflettendo ad alta voce: - bisogna prendere il giro largo, e arrivarci fra le due bocche senza farsi prendere.
- Sicuramente, - disse il casonante, - ma il fiume, chi lo conosce più dopo questo sconquasso? E le bocche, guardate un po' come tirano? Si scorgeva, infatti entro la vasca e nel fiume, un sobbollire e urtarsi delle correnti diverse, in cui la rabbia del fiume attratto e respinto, ributtato e risucchiato dal suo sfogo faticoso, disegnava come un ampio vorticare di mille gorghi in un vortice solo. - Capitare lì dentro... - continuò il casonante. - Ma se quelli lì sul tetto smettessero di gridare! - s'interruppe spazientito. - Loro possono aspettare. Quell'altro là, il fiume ci mangia, là ci mangia: e perché sta così zitto? Se fosse morto, non sarebbe seduto. Ma - disse volgendosi ancora a Cecilia - chi s'azzarda a andarci?
Lo Schiavetto a voce sommessa, pareva sognasse, disse una cosa cattiva:
- Se ci fosse sua moglie, al posto di lui, non ci andrebbe di sicuro, lui.
Cecilia trasalì, come quando una parola venuta da fuori attraversa e illumina e spaventa la coscienza. E: Questa - disse - è la ragione che non potrò mai dare ai suoi figli. Lo Schiavetto chinò il capo, e lei:
- Se un giorno mi chiedessero perché ho lasciato senz'aiuto suo padre: eh, Schiavetto? Bisogna andarci, e subito, - concluse con animosa decisione, quasi con allegria. - Son qua, - disse Schiavetto.
- Di voi ero sicura.
- Ma che bisogno c'è che veniate anche voi, dico io? - domandò Schiavetto. - Adesso volete che mi metta paura? O Schiavetto, dove avete la testa stamani? - A quei sei innocenti, se ve l'ho da dire schietta; penso a loro ed a voi. - E quando perdessi la vita ora nel fiume, non li potrei raccomandare meglio alla protezione del Signore e della Madonna, - disse gravemente la forte donna, - e anche degli uomini. Io ho fede che non li abbandonerebbero; ma poi, dico, siamo vecchi del fiume, e col Po sappiamo vedercela: andremo e torneremo. E ve ne dico un'altra, - soggiunse nel raggiunger la piarda e la barca ormeggiata all'argine: - che se ci vengo anch'io, i due garzoni non lascieranno andar sola una donna; altrimenti... E c'è bisogno delle loro braccia ai remi, voi che non avete più ventanni, Schiavetto.
- E neanche trenta! - esclamò il vecchio, anch'egli allegramente. - Eppoi, avrei dovuto saperlo che quando parlate voi, la ragione è vostra. - Perché sono testarda?
- Perché siete prudente e di cuore. La barca fu subito allestita, dopo che, quasi a darle ragione, lo Slanà, udito il fare, ebbe chiesto chi andava. Alla risposta, l'altro garzone: allora, disse, li comandasse. Cecilia s'era infilati certi vecchi pantaloni, che usava in casi nei quali le occorreva d'esser spedita nei movimenti; il tutto in pochi istanti. Saltò in barca; i due robusti garzoni impugnavano già un remo per ciascuno. Lei disse a Schiavetto di salir sù a vedere, perché la pareva di sentir piangere la piccola Berta nella casa del sandoncello. Quand'egli riapparve a dire che tutto era in quiete, la barca s'era dilungata dai mulini, ché Cecilia lestamente s'era seduta al remo di punta proravia, dando la coppia da maneggiare in piedi, e con essi il comando e la guida della barca, al Barabàgul che aveva forza, destrezza e pratica grande del fiume.
- Voga, ragazzi! - aveva detto Cecilia impugnando il remo.
La barca era lunga e sottile, leggiera; pericolosa ma maneggevole, e adatta insomma all'urgenza e alle forze disponibili e pronte. Correva sull'acqua, fendendo di sbieco la corrente, poiché con quattro palate da sinistra il Barabàgul l'aveva indirizzata verso la riva opposta. E Schiavetto, dal mulino:
- Ohi, Cecilia, padrona, ohi! - chiamava dall'andialetto del Paneperso. - Ai figli, - gli gridò di rimando tra una remata e l'altra la donna, - in caso, ai miei figli, pensateci voi. - Non sono casi - approvò il Barabàgul - da perdersi in discorsi. Egli era tarchiato e tozzo e goffo come l'orso, ma agile e forte anche come l'orso. Aveva cavato un numero basso al sorteggio, e fra qualche mese doveva andar quattr'anni marinaio. I due remi robusti e pesanti, nelle forcole alte, gli eran agili in mano e vigorosi, Schiavetto si era appoggiato con le spalle alla casa del Paneperso, le mani in tasca; la distanza non lasciava scorgere s'era indispettito in volto o piuttosto umiliato. Né v'era tempo da badare a questo. La chiamata più forte era adesso quella della bocca superiore. Ingolfandosi in questa, il fiume descriveva un arco, segnato da un margine di risucchi e di rigurgiti dal fondo, tumultuosi ed avidi, che bisognava, dopo risaliti lungo la riva opposta fino all'altezza opportuna, costeggiare, attraversando il fiume, in modo da non esservi presi, ché vi sarebbe stato un brutto navigare. Ma, evitando questi, bisognava evitare, nell'indirizzarsi verso il troncone dei froldi, di scadere e d'esser presi nella bocca inferiore, per non andar a finire nella vasca, dove il tumulto dell'acqua faceva paura, e prometteva sicura perdita. Bisognava tener buona e sicura rotta, e non c'era agio di deviarne. Come vi mise il Barabàgul la prua di sghembo e per tre quarti controcorrente, si mostrò buon pilota del fiume. Sotto il forte impulso dei due rematori di punta, la barca né guadagnava né perdeva, sul filo di quella discriminante fra le correnti, in cui la reggeva il pilota con un remeggio vario, continuo e pronto e legato, facendo forza or da destra or da sinistra al bisogno. Attraversò, preciso come fosse stata la barca del passo attaccata alla sua corda. Ed accostò nel punto giusto, in un breve tratto dove l'approdo era pacifico. - Bravo Barbàgul! - disse Cecilia saltando a terra. Coniglio mannaro non aveva mutato posa, né mutò quando fu chiamato: pareva non udisse. Ella corse verso di lui; e poco dopo i due garzoni si sentirono chiamare angosciosamente. Ormeggiata la barca a un remo piantato nell'argine, accorsero. Cecilia indicò loro il marito accovacciato, insaccato nelle spalle, che ridacchiava guardando l'acqua, e non mostrava d'accorgersi di nessuno, perché gli occhi s'erano come svuotati, stinti come se li avesse invasi il lividume della grand'acqua. Anche al par di robe cadute in acqua, cose e persone vi si perdevano dentro. Mormorava non si sa che:
- Anche il diavolo manca di parola a Coniglio mannaro... le mie terre... i denari...
- Non è l'ora di pensare ai denari: andiamo, padron Peppino, - dicevavano i due garzoni.
- I denari, - diceva l'inebetito, - un sacchetto di scudi d'argento, migliaia di lire di carta, i miei denari sotterrati! - Sepolti dove? - chiese Cecilia.- Ah, vi piacerebbe di saperlo, per andare a rubarli? Ci ha già pensato l'acqua, - fu l'unica volta che mostrò di intendere e di rispondere. Era vero che avesse sepolti denari? Era farnetico? In ogni modo, adesso quelli eran anche sott'acqua. Sorse in piedi, e pareva tranquillo. D'un tratto, affondò le mani nelle tasche, le trasse piene di monete, che scagliò nel Po, urlando:
- Tieni; prendi! Che ti crepi il gozzo!
- Oh, boia d'un mondo ladro! - esclamarono, che in altro momento sarebbe stata da ridere, i due garzoni attoniti nello scorgere per l'aria il colore dei marenghi d'oro buttati al fiume. Ma quando fecero per impedirlo e condurlo via, prese a dibattersi con tal furore, che i due riuscivano a stento a tenerlo. Cecilia corse a prendere la fune della barca; azzuccò questo contro l'argine; e a Coniglio mannaro furon legati i piedi, le gambe, le braccia e il torso, dando volta alla fune per quanta ce ne fu, ché bisognava impedirgli di divincolarsi, onde non ribaltasse la barca. - Tira a mordere peggio d'un luccio, - disse lo Slanà.
Aveva libero soltanto il capo, infatti, e ne approfittava per tentar di mordere. - Gli deve aver preso la rabbia peggio che a un cane, - disse il Barabàgul. Ridotto in tali condizioni, Coniglio mannaro dava ora sfogo a quel tetro e bestiale lamento e bramito, che Cecilia gli aveva udito fare già altra volta, da lupo sperduto. - È matto, - disse il Barbàgul, - e non c'è rimedio. Ma valeva la pena d'arrischiarsi in Po oggi per ricuperare questo bel capitale, adesso che ha buttati i marenghi in fiume? - Gli è entrata la voglia del lupo, - disse lo Slanà; cui l'altro spaurendo:
- Il diavolo in corpo, - rincalzò, - gli è entrato! Che ne facciamo, padrona?
- C'è da chiederlo? - esclamò Cecilia, riscuotendosi al suo appenato stupore. - Portiamolo sulla barca.
- Quasi, quasi - borbottava, pur ubbidendo, il superstizioso, - mi sa che sia un carico di malaugurio. E se la fa ribaltare? Vedete come si dimentica, anche così legato. - Avanza fune da legarlo contro il pagliolo. Così fu fatto, ma per udire l'un l'altro bisognava che alzassero non poco la voce, tale era l'urlo continuo.
- Laggiù, - disse il Barbàgul nello staccar la barca con un remo, accennando all'argine di sotto della rotta, - c'è pieno di gente venuta a vedere che razza di bestia fa urlo così. - Saran venuti a vedere un'opera buona; e voi - disse severamente Cecilia - risparmiatevi di dir tante bestialità.
- E può ben essere che abbiate ragione, padrona, - ammise lui senza offendersi. Del resto, aveva altro da pensare, tornando in possesso della sua autorità di nocchiero. Invertendo la rotta, infatti, c'era meno pericolo di entrare fra i risucchi a monte, ma la barca rischiava assai più di esser presa entro l'efflusso della bocca a valle, se non si vogava di tutta forza. Egli dava la voce alle palate corte e frequente, quasi a strappate; ed eran giunti a metà fiume, quando il remo di Cecilia si spezzò. Ma:
- Niente paura! - gridò il Barabàgul. - E tu - disse allo Slanà che vogava sopracorrente - passa il remo di qua, e voga con meno forza. Lo sforzo maggiore incombeva su lui; e valeva la pena di vederlo, rosso in volto come un bargiglio davvero, turgide le vene del collo e delle tempia, corto e possente, in quella lotta, che pareva un corpo a corpo col fiume, sulla barca che sembrava far corpo con lui e prender vita sull'acqua nemica, guizzando sotto le remate impetuose e ben regolate. E al punto giusto:
- Scia tu, - comandò allo Slanà; e virò, mettendo la prua sui mulini. Allentando lo sforzo, si sbiancò, e grondò di sudore. Anche si sentì in diritto d'uno sfogo, poiché sull'acqua Coniglio mannaro urlava peggio che in terra; e:
- Stesse zitto un momento, - proruppe, - questo rabbioso! E volle approfittare della licenza che gli dava la sua ormai spirante autorità, quando fu sotto bordo al Paneperso, per dire:
- Ohi, Schiavetto, vi portiamo un salame in barca!
- Basta, Barabàgul, - gli disse con fermezza senz'ira Cecilia accorata: - abbiate rispetto d'una gran disgrazia.
- Scusatemi se ho straparlato; ma gli passa presto, se volete fare a modo mio. Io so la medicina.
Nessuno, mentre s'apprestavano a sbarcare il matto legato e ululante, mostrò curiosità di saperla; ma la volle dire, nel prenderlo sotto le ascelle, pur badando a scansare i morsi della fiera bocca lorda e schiumosa:
- Gli è andata un po' di mattia nel cervello; non è niente; gli si fanno fare, così legato, sette o otto tuffi in Po, e vien fuori rischiarato e guarito. - Va là, che sei la gran bestia, - gli disse lo Schiavetto sporgendosi per ricevere e issare a bordo il triste carico. Ma la gran pietà fu l'apparire dei visetti terrorizzati, dei figli che s'affacciavano a guardar con occhi smarriti il padre in quello stato. - Schiavetto, - gridò Cecilia, - fate rientrare i puttini! Docili e dimessi, i poverini si lasciarono imbrancare da Schiavetto, che con qualche buona a pietosa parola li chiuse nel sandoncello, per toglierli a quella vista. Poi consigliò, come l'infelice fu deposto nell'andialetto, mentre i garzoni domandavano gli sforzi raddoppiati:- Convien legarlo con delle fasce di tela, che la corda può segargli le carni. Così fecero, sostituendo la corda; poi lo calarono, imballato, nella stiva del sandoncello del San Michele, mettendolo a giacere sopra un materassino. Se non altro, il buio della stiva sembrò che lo placasse, poiché mutò l'ululato in un mugolio intermittente.
III
Il sollievo, se si poteva chiamar tale, durò poco, neanche il tempo di rifiatare dalle replicate angoscie, ché sopravenne il pensiero di dover procedere a portarlo via e a farlo ricoverare, prima che morisse strozzato dal furore o sfinito dall'inedia. Un caso o l'altro non poteva tardare, mentre lo Schiavetto aveva già notizie abbastanza da far intendere quanto l'impresa fosse per riuscire disagevole. L'argine, fino alla Guarda inondata, era quasi deserto, e perché la gente aveva preferita la strada vecchia, rifugio tradizionale, che aveva salvato la Guarda dalla distruzione nel primo irrompere delle acque; e perché avevano cercato di portarsi a monte della rottura, chiamati da un istinto simile a quello degli uccelli e degli animali migranti. Ma una voce di spavento risaliva le terre lungo il fiume, e quasi usciva dalla desolazione, che scendeva devastando col nuovo fiume e coll'inturgidire e straripare di fossi e canali, di terra in terra, di paese in paese, verso il mare lontano. E diceva che la piena, dilagata a monte fin verso Francolino, per la Vallazza, superata la fossa Lavezzola, si buttava già contro gli argini del canal Bianco, li stava rovesciando, si apriva la strada verso il Volano e verso le valli d'Ambrogio. Intanto, s'intasavano e schiattavano e franavano chiaviche, botti e ponti, rompendo in mille punti le strade, che per esser l'unico rifugio, mentre le barche dei primi soccorritori venivano scaricando la gente arrampicata fra i rami degli alberi e sui tetti delle case, eran gremite e si venivano gremendo d'ora in ora in uomini e di bestiame e di carri e masserizia. Era troppo facile indovinare che la calca, in tutto simile a quella che ingorga le strade della ritirata d'un esercito in rotta, bastava a impedire il passaggio, non d'un veicolo come occorreva a trasportare l'infelice, ma pure di persone alla spicciolata e a piedi. E dov'anche non fossero state rotte le strade, ognuno, stanco, vi s'aggiaccava, stipandole, riluttante a muoversi per timore di capitare in un punto che fosse o gli sembrasse meno sicuro. Anche cotesto avvilimento, fra testardo e istupidito, anche cotale riluttanza a muoversi e perfino a far luogo, della dolorosa turba, era cosa nota per i racconti che si tramandavano di simili flagelli venuti in altri tempi a percuotere il paese; ed era anche, per così dire, notizia atavica, come l'istinto di cercare i punti rilevati sul gran piano e gli argini e le strade, e di portarsi a monte della rotta. Ma già più d'uno descriveva cotesta calca a Cecilia scesa a terra per cercare il modo di trasportare l'alienato.E uno, mostrando il tempo cupo e chiuso, che montava da levante e mezzodì:
- Starà poco - diceva - a piovere anche qua: laggiù ci batte di già una pioggia spessa e sottile, di quelle che entrano nelle ossa. Mancava anche questa! E vi so dire che la povera gente è tutta nel «pacciugo», e sembra impastata insieme alla mota. Il giorno della rotta c'era il sole; ma la trista promessa dell'alba si avverava in uno di quei rivolgimenti della stagione, per cui a volte il mese di giugno s'affligge in malpunto, rigido e maligno, e annebbia e arrugginisce il grano, cui fa mancare il sole più necessario. Mancava sugli sventurati anche la pioggia! E la promessa si avverava in peggio, di minuto in minuto, con folate di vento diverse e a più parti, sciroccali e afose a volte, più spesso boreali e gelide, che adunavano e tramutavano qua e là nubi acquidose, e piovaschi, e nembi violenti. Malignamente raggelava l'aria fatta plumbea; e innanzi d'aver tempo di dire che in qualche posto non lontano è venuta tempesta, già grandinava mista a pioggia grossa e rabbiosa, anche lì alla piarda di Cecilia. Un rovescio seguì all'altro, continuando pioggia spessa fra l'uno e l'altro, senza speranza di sole, né di salute per la malsalva moltitudine, scorata e perseguitata da tanta ira di Dio. Vento e pioggia spegnevan gli stenti fuochi, dov'eran riusciti ad accenderli. Si cacciavano al riparo sotto i carri, sotto qualche telo, sotto frascati subito pregni e stillanti: ma che ripari erano?
- Anche se si potesse passare, - avevan detto, sotto la pioggia, a Cecilia altri informatori, - dove trovereste e chi vi presterebbe un carretto? L'unica è che traghettiate il vostro infelice di là da Po, e che prendiate per il Lagoscuro: e sperare, anche, che la piena non abbia rotto i ponti! Perché chi ne sa più niente? Dio solo si ricorda di noi, per tribolarci. La costernazione li tirava ad annerire le cose, già di per sé tanto nere; ché al Lagoscuro, quand'anche fosse rotto il ponte di barche, non c'era ragione di fare un tal pronostico, se non della disperazione, per il ponte di ferro, che sostituiva da circa un anno quello di legno su cui era passata dapprima la recente ferrovia tra Bologna e Venezia.
- E la gente che stava su quel letto, - chiese Cecilia, come accade a chi è troppo serrato da una ressa di angustie, e par che ne svii la parola, non potendo il pensiero, - quella gente su cotesto tetto, dov'è finita? - É venuto il dottore a portarli in salvo colla sua barca. - Il dottor Lupacchioli, - soggiunse lo Schiavetto; - e vi so dire che quello è brav'uomo. Figuratevi, padrona, - continuava, come sentisse anche lui bisogno di divagare il discorso, - che stanotte gli è morta la figlia unica, che era tutto il suo bene: gli ha chiusi gli occhi, alla poverina, e senza darsi tempo di piangere, s'è messo in barca sulle campagne sott'acqua, a salvar gente, a curar ferite, a portar pane e medicine. E così fa sua moglie, perché son molti i pericolati, e a tanti è venuta la febbre, tra lo spavento d'un disastro compagno e gli stenti che patiscono. Brava donna anche sua moglie, e lo fa vedere adesso, anche se è strana in certe cose; e lo fa vedere anche a quelli che han trovato da ridire perché non ha peli sulla lingua e quando s'arrabbia non la manda a dire; e perché ha dei modi più da uomo che da donna, come quello di fumare il sigaro. - Già, - disse Cecilia, - il dottore; bisognerebbe chiamare il dottore, che lo visitasse.
- Che cosa volete che vi serva? Non è male da dottore, quello lì: ci s'è mostrato il dito di Dio. - Schiavetto, - gli ordinò, come senza badargli, ma con secca fermezza, - andate subito a cercare il dottor Lupacchioli, che passi di qua appena può, per visitare mio marito. Scusate se vi mando con questa pioggia, - soggiunse, come per farsi perdonare l'accento asciutto.
- Non è il caso di badare alla pioggia. Vado subito, padrona, - disse Schiavetto tornato obbediente.
Veniva a dirotto, e mentre il vecchio intarbarrato s'avviava per l'argine verso la Guarda, risalita a bordo dove Coniglio mannaro continuava il suo mugolio tra il fosco scrosciar del nembo sui tetti, a lei il cuore si strinse, sentendo che i suoi puttini litaniavano sommessamente una specie d'orazioncina o cantilena, con cui i bimbi solevan chiedere il sole in tempo di pioggia:
Rondinella del Signore,
Fate che venga il sole,
Fate che venga presto,
Fate che venga adesso.
Pareva volesser darsi coraggio, come fanno al buio, quando cantano: e la tristezza era grande, scorata. Non entrò, per timore di farsi veder a piangere e di spaurirli. Pianse da sola, sotto la loggia del Paneperso; e quando arrivò di lì a non molto il dottore, sapeva quel che gli avrebbe udito dire:
- Non c'è da far niente: bisogna ricoverarlo al più presto, altrimenti... È vero, - soggiunse, - che sarebbe pur meglio per lui. - Che cosa? - domandò Cecilia.
- Morire, la mia donna. Che cosa ci sta a fare al mondo un povero mentecatto? Quando si pensa che muoiono dei giovani nel fiore degli anni, e che questo disgraziato invece vedrà magari finire il secolo in una vita tanto peggiore della morte! Quando si pensa che dei giovani...
- Lo so, signor dottore, la so la sua disgrazia: è una gran pietà di tutti. Ma lei, signor dottore, fa anche vedere in questo giorno che carità è la sua.
- Oh, la mia donna! Soltanto così trovo la forza di non darmi alla disperazione. Pensiamo ora a voi, che siete tribolata la vostra parte. Vi scrivo due parole per il direttore del manicomio di Ferrara, che ricovererà vostro marito d'urgenza. - Non ho né penna né calamaio, mi scusi.
- Ho un lapis; non vi date pensiero di questo. Ma come lo trasporterete?
- Lo traghetterò, e poi, per il Lagoscuro: troverò bene un carretto sulla riva di là.
- È l'unica. Addio, padrona Cecilia.
- Addio, signor dottore.
Era un uomo minuscolo e gracile, di volto smunto e patito sotto una barbetta rada, emaciato ora dalla fatica e dal dolore, che gli metteva negli occhi slavati e bruciati un che di smarrito, una pena di quelle che si scorgono talvolta nell'occhio dell'animale quando soffre, e sembra che la sua oscura coscienza naturale affiori tutta in un bagliore strano, in uno sforzo che vorrebbe e non sa parlare e chiedere un perché. Anch'egli pareva chiedesse, senza impetrar maggiore risposta, tale perché coi suoi poveri occhi; ma nella voce, negli atti, nella persona fragile e dimessa, c'era un che di pronto e di spedito, l'umiltà ardita della carità, che lo innalzava e l'affrancava sul suo dolore, sulla sua fralezza, su sé medesimo. - Il dottore - diceva intanto lo Schiavetto, quand'egli fu sbarcato, - non va a messa, ma è un santo lo stesso.
La moglie sua, bizzarra donna, di modi e di corporatura maschile, di carattere iracondo e litigioso, cacciatrice, fumatrice; che bene spesso, quando un ammalato andava a farsi visitare, udita a malapena la diagnosi, prescriveva lei la cura e andava per le case a sorvegliare se era eseguita, tempestando, se no, furiosamente; la moglie non era una santa, ma faceva del bene lo stesso, quantunque avesse una maniera che metteva voglia di contrariarla anche quando le si doveva dare ragione. E principiava dalla clausola di premessa e conclusione d'ogni suo ragionare:
- Già voi farete il contrario di quel che vi dico, perché siete un asino. Anche lei, che a quei tempi e in campagna da una donna provocava anche più stupore che scandalo, era libera pensatrice e non andava a messa; ma se qualcuno, come quel Pizzacarino, si dava l'aria in paese di pensarla come lei:
- Non fate lo spirito forte, voi, che a spremervi tutto il cervello, dareste fuori un po' di sugo di zucca.
Per costei il mondo si divideva in asini, in zucche e in farabutti; e il suo era insomma il caso del prepotente intollerante, che, dominato dalla sua chimera, non s'accorge ch'essa gli diserta il mondo e la mente, riducendoli a una cifra, a una mania, a una sciocchezza fanatica. Che la prepotenza di costei si esercitasse nell'occasione d'un povero beverone d'origine magica e negli incantesimi di Cotica strinata, che non nel chinino; ciò non toglieva nulla alla sua passione in sé stessa; conveniva considerare la veemenza con sui s'esprimeva e si esercitava, degna in sé d'ogni più illustre teatro delle umane e mondane bizzarrie. I maligni dicevano che con tal moglie il dottor Lupacchioli non poteva riuscire altro che santo o assassino; ma finalmente ella voleva pur far del bene a modo suo, e segnatamente la mattina dell'inondazione ne faceva. Composta sul letto di morte la figliuola, a cui il suo amore, tirannico anch'esso, aveva travagliata la breve e debole vita; affidata la salma a due donne, aveva dato di piglio ai remi, e fra le case allagate della Guarda, nei campi sommersi, sugli argini affollati, soccorreva e salvava e rifocillava, non senza rampognare crudamente quelli che scorgeva scorati e abbattuti: e Dio sa se ce n'erano!
Aveva già rimproverata l'inerzia del custode idraulico Bracciemezzo; minacciata la fucilazione alla viltà del cursore comunale; aveva pure scoperto che in bottega di Castorino fornaio l'acqua non toccava la bocca del forno, il quale sorgeva, per fortuna, su un piano rialzato di qualche gradino; e si poteva accenderlo. La legna del fornaio, accatastata nel cortiletto, era fradicia o galleggiava sull'acqua che aveva allagata la Guarda per circa un metro d'altezza; ma la legnaia d'un vicino era asciutta, e lei la requisì per cui quella mattina, che non uno fra gli umili focolari terreni del paese s'era potuto accendere, si avvivò per altro il camino sul tetto del fornaio. E Castorino fu da lei rintracciato in granaio, dove s'era rifugiato per la paura, e fu costretto a impastare e infornare. Subito dopo, la Lupacchioni aggredì il parroco, buon prete dimesso e di non molta levatura, che faceva rintoccare le campane per invitare i fedeli a supplicare misericordia dal cielo. L'accusò di contribuire a scoraggiar la gente, e con tal violenza, che quegli:
- Dovreste pensare, - aveva detto, duramente, - signora mia, che stamani questa campana suonerà anche a morto, e per chi!
- É un momento di darsi d'attorno, questo, non di stare a frignare e di cantar le litanie! E che campana volete suonare, se non ci sarà modo neanche di seppellirla, la mia povera figliuola? Queste vostre zucche fedeli non hanno pensato nemmeno a alzar da terra il piano del cimitero, sicché è sott'acqua.
- Si prega per l'anima, se non lo sapete; e queste parole vostre sanno di brutale idolatria, - aveva risposto il prete alla materialista. - Appena sarà calata l'acqua, - aveva continuato lei, - ridurremo la chiesa a ricovero e ospedale, così sarà utile a qualcosa, finalmente, la santa bottega!
- Bestemmia! Impudenza diabolica! Vorrò vedere chi si azzarda!
- La faremo requisire colla forza della legge e delle armi. Il dialogo era avvenuto tra la finestra di canonica e la barca di lei sul sagrato. L'acqua, che aveva invasa la Guarda senza impeto, cominciava a scemare, era già non oltre il ginocchio, perché il grosso dell'inondazione prendeva quell'altro verso che s'è detto. Già più d'uno dei fuggiti tornava alle case, e, pure affliggendosi dei danni, dello scompiglio, della motosa lordura, si scalzava, e cominciava a mettervi un primo rimedio. In qualche punto erano state improvvisate alcune passarelle. Era quasi mezzogiorno, allorché il dottore ebbe a raccontare a sua moglie, da barca a barca, incontrandola sulla campagna stagnante sotto la pioggia dirotta, il caso pietoso di Cecilia e del matto. - Matto? - fece lei. - Lo voglio vedere un po' anch'io.
- Se ti dico che è ammattito!
- C'è chi fa il matto per non pagar il dazio. Il dottore si strinse nelle spalle, e lei vogò col suo agile barchino da caccia in valle; sbarcò sull'argine, si ravvolse meglio nella capparella, si calcò il cappellaccio da uomo in testa, contro le folate del vento impetuoso; s'avviò a gran passi verso i mulini.
Aveva molta stima per la valente mugnaia, ma sarebbe bastato trovarla, come la trovò, nell'impaccio, per darle stimolo a fare, comandare, tempestare, lì come dappertutto. Intanto:
- Vediamo un po' se è matto quanto vuol parere. Lo fece tirar su dalla stiva e adagiare sotto la loggia del San Michele. Era caduto in un torpore inebetito, e s'accontentava di mugolare a occhi chiusi. Il vento ogni poco scrollava le scricchiolanti e gementi strutture dei mulini. - Aprite gli occhi e guardatemi bene in faccia, Coniglio mannaro, - comandò la Lupacchioli levandosi dal capo grigio e arruffato il cappellaccio, e disponendo la capparella fradicia. L'alienato ubbidì e un terrore abbietto, non senza uno stupore immenso, gli invetriò gli occhi persi, e colori di cinereo sporco il volto livido.
- Ricordatevi, - diceva lei, - che con me han da ragionare anche i matti, e da filare diritto.
- Il demonio s'è messa la sottana, - rispose Coniglio mannaro, parlando da sé. Il garzone Barbàgul era scoppiato in una grandissima risata, a cui non potè stare senza rispondere, benché con un po' di discrezione, lo Slanà. - Screanzato villanzone, - tuonò la nuova alienista, compromessa nella sua autorità terapeutica, - mangiapane a tradimento, allievo della forca, come ti permetti di ridere?
- Io faccio... - rispose tra uno stranguglione di riso e l'altro quel trascurataccio, - io rido quanto mi pare... e... e verrò da lei... il giorno che sarò matto, verrò da lei a farmi curare. - Via di qua, feccia di farabutto!
Passò costui sul Paneperso, ma ogni tanto lo si sentiva ripreso dal ridere; e come la Lupacchioli, affettando sdegno di curarsene oltre, si riapplicò ad imporsi all'alienato, la scena divenne grandiosa e grottesca. Urlava il matto; urlava lei; fissandosi l'un l'altra con occhi feroci. Uno intramezzava nell'urlo ferino le più atroci e laide sozzure ingiuriose; l'altra, per dominarlo, quando non bastavano ingiunzioni, sfoderava insulti e minaccie, e dalle parole trapassava alle grida ed agli urli, per superarli. Il matto si squassava nei suoi legami, digrignava, azzannava l'aria, non potendo la sua persecutrice, sbattendo dente con dente a guisa di cane; lei, ritta colle mani sui fianchi, aitante, ossuta e vigorosa, fulminava, cavando dai polmoni e dalla gola, ch'era di ferro, un fiato e una voce da bastare a manovrare diecimila soldati in campo di Marte. Si spossò prima il matto dichiarato; e davvero sembrò saviezza la sua, quando si rilasciò, richiuse gli occhi, e riprese a mugolare per conto proprio.
- Adesso bisogna portarlo al manicomio, - disse lei soddisfatta e fresca di voce.
Non era il caso di perdersi a dirle che sarebbe stato più ragionevole averci provveduto risparmiando quel furore inconsulto.
- Lo so anch'io, - s'accontentò di dire Cecilia, e sarei già per la strada, se...
Stava per dire, se non fosse capitata colei; ma si trattenne. Parlò Schiavetto, dicendo:
- Se non vi vedessero sul fiume delle faccie sinistre. - Sarebbero? - chiese l'iraconda, volgendoglisi contro, quasi per sospetto ch'egli potesse alludere alla sua di lei. Le spiegò che già eran passate e ripassate più barche a molti remi, con gente a bordo guardinga e malfida, brutti ceffi, che si preparavano, come sempre in casi di simili sventure, a spogliare le case abbandonate, a fare grassazioni, estorsioni e rapine a mano armata:
- E qui - concluse - c'è grano e farina, e lo sanno; posson credere che ci sia del denaro; e ci sono una donna e sei bambinetti. Finché dura il giorno, si può far conto che costoro siano in rispetto, ma stanotte? - Pretendereste che i carabinieri, in una giornata come questa, stesero a proteggere voi, per la vostra bella faccia? - domandò l'iraconda. - Io non pretendo niente, ma dico che da qui a notte è impossibile andare e tornare da Ferrara, e che non si può lasciare abbandonata la piarda. - Mi pare, il mio uomo, che abbiate paura; ma in ogni modo la vi fa ragionare, e perciò, traghettatemi il matto, che a portarlo a Ferrara ci penso io. - Quanto alla paura... - fece lo Schiavetto punto sul vivo; ma si ravvisò: - Parlo da uno che sa le cose e ne ha viste tante su questo fiume. Ma quello che lei vuol fare, signora, è un atto di vera carità. - Davvero, - disse Cecilia.
- Conosco - diceva l'altra, ammansita, - uno della Guarda veneta che ha un buon cavallo, e che me lo presterà. Vado e torno. È un fatto che voialtri è meglio che restiate qui; e tenete carichi i fucili, perché l'ho sentito dire anch'io che si vedon faccie sinistre in giro. Voi, Cecilia, fatemi il piacere di mandare a avvisare il dottore, che starò fuori fino a tardi; e ditelo anche a quelle donne che fanno la veglia alla mia povera figliuola. Già, la sapete la mia disgrazia?
Su questa parola, sul viso abbronzato e maschio, di grosse, ruvide, risentite fattezze, l'apparire del dolor materno senza lacrime e devastato, fu brusco e potente. Cecilia commossa stava per aprir bocca, ma:
- Non mi dite niente, - interruppe la Lupacchioli; - che se ci penso, divento matta, più matta di costui. - Dio la rimeriti, signora.
- Lasciamo stare.
Da lì a poco, e fu nuova scena, ma ormai gli animi erano storditi e incapaci di contristarsi oltre, lo Schiavetto e il Barabàgul traghettarono la Lupacchioli e l'infelice, urlanti daccapo ambedue, sotto rovesci di pioggia, fra nembi che intenebravano terra e cielo e le rive di Po.
Il Barabàgul, tornando, volle pur dire la sua, mentre vogava, sputando l'acqua che gli batteva sul viso e gli entrava in bocca:
- Matti sono due, e la più matta non è mica legata.
- Taci, gran bestia che sei, - si accontentò di dirli lo Schiavetto. Coniglio mannaro non era più per tornare, da vivo, alla Guarda.
IV
Tale un disastro, bisognava saper di storia del Po per ricordarne uno simile; e le fantasie risalivan mill'anni, alla rotta del favoloso Siccardi, quando il fiume mutò corso sulla svolta di Ficarolo. Ciò non soltanto per somiglianza disastrosa, ma perché si cominciò subito a sparger la persuasione, che se non si provvedeva presto a chiuder le bocche, cavare il fiume dal nuovo letto sarebbe impossibile, o inutile, a danno consumato e irreparabile. A questa paura persuadeva la natura e il livello del paese soggetto e prono all'inondazione, nel quale il fiume poteva errare e spandersi senza ritegno né difesa; non solo, ma anche la stagione, essendo quella in cui il disgelo sui monti manda acqua più a lungo che in ogni altra. Infatti il Po si serbava gonfio; e per le bocche n'usciva buona metà, sicché, superato il canal Bianco ed ogni altro ostacolo d'arginature, l'inondazione arrivò al Volano, che straripò. Fu coperta la maggior parte dell'antico polesine di San Giovanni e delle vecchie e nuove terre fra Po Grande e Po di Volano, fino alle valli d'Ambrogio: 70.000 ettari di terreno, con più di quaranta migliaia di abitanti senza tetto, la più parte senza pane, sui quali continuava a battere il maltempo doloroso. Sui mulini di Cecilia il lavoro bastava appena alla fame; ed era già una condizione fortunata. Lei aveva portato dal Ponticin della Pioppa, insieme coi modesti ori di casa e col vezzo di granata da sposa, qualche suppellettile e biancheria e vestiario per sé e la figliuolanza: e denari non ne aveva. Ma della perdita del fondo e della casa non si doleva tanto, che non fosse più vivace un senso di liberazione per quello ch'era successo degli altri fondi, della Ca' Morgosa e dell'Antonella. Coteste possessioni di Coniglio mannaro le eran sempre sembrate cosa maledetta e da finir male. Forse si sarebbe aggiunta quella soddisfazione del: «te l'avevo detto », tanto sollecitante che l'uomo la paga volentieri col suo proprio danno; mal la cosa era finita troppo penosamente e paurosa. Scorgendo nell'esito finale della malefatta di Coniglio mannaro il dito di Dio, tremava atterrita, quasi senza ardire di fermarvi nemmeno il pensiero. Del vecchio Ponticin della Pioppa distrutto si rincresceva, invece, per la memoria del suocero, non senza ricordare che neanche padron Lazzaro era affezionato alla terra: la suocera sì. Ed ecco che le sembrava, oscuramente, il disgraziato Coniglio mannaro aver ereditato da Dosolina quell'acre appetito del possesso terriero, da cui era stato traviato e castigato e travolto. Che se fermentava e strideva in questo sentimento scuro anche un rancore per il marito e ancor la ruggine tra suocera e nuora, oltre morte e sventura: se così era, converrebbe considerare in un tal fatto quanta e quale sia l'infermità della natura umana. Certo sentiva Cecilia pietà, angustia rinnovata, ribrezzo, ora che il cimitero della Guarda era andato sottacque, nel rammentare le ripugnanze di padron Lazzaro a esservi sepolto, e quelle tetre profezie senili, che gli avevan valso da ultimo il soprannome d'Apocalisse. E troppo s'erano avverate. In una parola: il mulino era la salute degli Scacerni, e quei di loro che se ne sviassero, finivano in malora. In fine, tutto ciò l'affezionava maggiormente ai due mulini, e al fiume, e alle traversie fluviali: allo stesso modo, il marinaio si affeziona al mare e il montanaro al monte non già soltanto per i tempi buoni, ma altrettanto e più per le fortune che ve li travagliano. Certo il sentimento di lei per il morto suocero era molto più vivace che non per il marito malvivo. Non senza un certo inconscio orgoglio di privilegiata, le capitava d'udire e di vedere, in quei giorni, la miseria orrenda della moltitudine, che aveva perso tutto, mentre a lei e ai figli restavano pure i mulini. La moltitudine sussisteva della carità pubblica e dei soccorsi governativi. E chi aveva salvato un po' di bestiame, doveva andar colle barche a tosare, dove sormontavano, i capi del frumento, e a spogliare le foglie degli alberi, per cercar di tenerlo in vita. I più, privi anche di tali risorse, s'avviavano, quasi scolavano lentamente verso la città, dove s'erano aperti ricoveri e formati comitati di soccorso, con tanto largo contributo dei cittadini, e d'Italia e d'ogni parte del mondo civile, che avrebbe potuto rendere superflue fiere e feste ed accademie e spettacoli di beneficienza, se tale moda a quei tempi non fosse stata inevitabile, tanto che in cotesta occasione l'infatuazione giunse al punto di ventilare il progetto di una «statistica internazionale del plebiscito mondiale dei cultori della musica e della drammatica in favore degli inondati ». Tant'è, il ridicolo vuole entrare in ogni cosa umana.Persa ogni loro cosa, non tardavano i disgraziati a perdere la salute in una recrudescenza del vaiuolo, che serpeggiava da qualche tempo nelle campagne del ferrarese, e con l'apparire del tifo e il dilagare della malaria. E parve anche derisione della sorte maligna, che nelle campagne allagate abbondasse, facile da prendere, una gran quantità di pesce, di cui si sfamavano; ma cotto alla peggio, spesso avariato, cotesto cibo fece del male a molti. Un'epidemia di coliche e di dissenteria sparse la voce e il terrore del colera. Non c'era altra acqua da bere, che quella fangosa e presto putrida dell'inondazione. Alla Guarda, distribuiva i soccorsi, incaricata dal comitato centrale, la moglie del dottor Lupacchioli: pane, indumenti, medicine. Curava il trasporto dei più indigenti e degli ammalati ai ricoveri e al lazzaretto di Ferrara, ciò che non di rado era causa di litigio fra lei e quegli infelici. Durava infatti l'inveterata avversione, il terrore popolare dell'ospedale e del lazzaretto, che certo contrastava coll'utilità e colla sanità pubblica. La Lupacchioli non aveva perciò torto di gridare contro l'ignoranza e l'ignavia:
- Voialtri non sapete che cos'è l'igiene!
Non lo sapevano, né se ne curavano; ma era il momento? E l'invasata:
- I preti e i tiranni v'hanno tirati su nell'ignoranza e nella superstizione: ci siete campati e ci volete morire, col muso nella lordura, come i vostri maiali.
- A me i porcelli mi sono morti annegati, - le disse amaramente un contadino: - e n'avevo una dozzina bella grassa, senza contare il verro, che era tanto bravo colle sue troie!
- Ah, volete canzonare?
- Ho proprio questa voglia, io! A quest'ora! - fece colui, stringendosi nelle spalle. - Eppoi, me li risuscita, lei, signora?
Benché di malavoglia, qualcuno intorno sorrise. E lei, più infuriata:
- Per voialtri, zucche, l'ospedale è l'anticamera dell'inferno, e il medico è l'assassino! - Non proprio, - ammise un altro, - ma fa quel che può.
- Meritereste d'essere abbandonati da tutti!
- Suppergiù... - le rispose colui; e fu parola di quella scura desolazione. Ma lei, implacabile:
- Non avete coscienza né riconoscenza! In vostro soccorso c'è un plebiscito di beneficienza mondiale!
- Per quel po' di pane che ci mandano? Sarebbe meglio lasciarci finir subito, invece di tenerci in vita a stentare. E intanto non si pensano ancora di chiudere la rotta! - Ecco che l'ignoranza va sempre insieme colla presunzione: volete saperla più lunga degli ingegneri?
Aveva toccato un tasto falso. Lei stessa soleva tuonare contro il genio civile, addebitando all'insipienza degli ingegneri il disastro. Ora le rispondevano in coro, parecchi:
- Ci vuole molto! Più lunga degli ingegneri? La sapienza degli ingegneri si vede sulla rotta! I bei lavori della coronella! Lo sapevano tutti che doveva finir così e loro no. Perché facevano a metà con quel l'altro ladro assassino dell'appaltatore, che Dio fulmini tutti! La sapienza - gridò uno - di Manghetti l'asino?
L'ira si perse, se non piuttosto s'incupì in un riso amaro, ché Manghetti l'asino era, per designazione popolare, il disgraziato ingegnere preposto a vigilare sui lavori della coronella nefasta, e quello a cui si addebitava, per voce pubblica, l'ordine di tagliare i froldi uniti per riempir la vasca. Ed uno incalzò:
- Non è stata lei, signora, a chiamarlo Manghetti l'asino? E così lo chiamano anche i giornali. Interdetta, lei aveva replicato:
- Uno non vuol mica dire tutti.
- Già, ma quell'uno è bastato. Ha lavorato per tutti, quell'uno. Una rondine - soggiunse quel dalla facezia più amara - non fa primavera; ma qui un asino solo ha ben fatto questa razza di danno. - Non è il modo di ragionare.
- Allora vuol dire che son tutti ladri, ingegneri e governo e appaltatori, perché al solito faranno a metà; e il governo avrà modo di mettere un'altra tassa, che così va a finir sempre; e già, paga Pantalone! Insomma, la prendevano coi suoi stessi argomenti e motti politici di oppositrice radicale accesa e arrabbiata. E Pantalone, in quel linguaggio dell'astiosa e iraconda polemica, si sa che designava il popolo, e più particolarmente il contribuente. Il giornale della Lupacchioli si chiamava Il Povero, e usciva settimanalmente a Ferrara, radicale democratico: riboccava in quei giorni di feroci accuse contro gli appaltatori, gridati ladri, e contro gli ingegneri incapaci, burbanzosi, autoritari, burocratici, a cui si rinfacciava quel che già il lettore ha sentito ripetere, mentre contro il disgraziato Menghetti Il Povero non si peritava d'inveire con dileggi ed ingiurie, né d'additarlo all'odio pubblico in termini da arieggiare l'incitamento a delinquere. E fu prudenza che in quei giorni costui evitasse i luoghi del disastro. Il democratico Povero, di Sinistra repubblicana, gridava vendetta in ogni numero, non che contro il genio civile e contro il Manghetti, contro la Destra ormai non lontana dal rivolgimento parlamentare che portò al potere la Sinistra: inveiva contro i «consorti», le «malve», i «gamberi»del partito moderato, a cui appartenevano gli «alti papaveri»del genio civile; contro il governo, la Monarchia e la Chiesa.
Un'altra gazzetta usciva tre volte per settimana, monarchica liberale, Lo Sveglierino, di Destra e conservatore, con tinta, come dice il titolo sbarazzina. Difendeva governo ed istituzioni, non senza ospitare anch'esso le aspre recriminazioni, ma con più temperanza, e spesso riparando dietro un «a titolo di cronaca ». L'ammoniaca della sua satira era contro preti e religione: satira da spiritosi spregiudicati, che poco derivava dalla filosofia, e in ogni caso la filosofia deteriore, e assai più dal temperamento. Gli annosi spiriti di cotesti sali avevano avuta riviviscenza nella polemica infuriata attorno alla legge sui beni ecclesiastici e alla «questione romana»e alla presa di Roma; li ravvivava il fatto, ogni giorno più chiaro ad unità appena compiuta, che le plebi della campagna non riconoscevano e non sentivano autorità spirituale, se non del parroco: e non mancava neppure certo stimolo vanitoso e furbesco di non mostrarsi da meno degli anticlericali di stampo democratico. Intanto, le plebi cittadine, e anche dei grossi borghi, in Emilia e Romagna, si volgevano verso una maniera di socialismo non distinto dall'anarchia, frenetico non che utopico, distruttivo non che ugualitario; volgevano all'Internazionale bakuniana, come si diceva allora; e fu poi nel '74, di lì a non molto, che il Bakunin venne a Bologna a incarnare uno strampalato progetto di insurrezione mondiale anarchica e comunista, che sfumò in nulla. Né a caso a Bologna, perché l'Emilia era una delle regioni dove la propaganda degli «Internazionali»aveva attecchito più che altrove, in certo fondo passionale e fantastico delle genti, stranamente contrastante con quell'altro, non men vero e naturale, di un loro arguto buonsenso, come si vede nella storia di quella progettata rivoluzione, bizzarra se altre mai. Ma non mancò nel ferrarese una connessione di tal propaganda anarchica colla gran miseria rimasta dall'inondazione del '72: ai primi del '74 usciva infatti a Ferrara Il Petrolio, dal titolo comunardo, gazzetta del popolo «sfruttato », del proletariato secondo la dottrina comunista. Lo Sveglierino dunque voleterrianeggiava sull'ignoranza superstiziosa dei contadini e braccianti inondati, che, a suo dire, aspettavan soccorso dalle campane e dalle preghiere, e che, ingaggiati nei lavori per la chiusura della rotta, non volevan mancar la messa né di santificare la domenica. Se anche dannoso praticamente, cotesto era fatto da comandare rispetto, se non altro anche solo perché i primi esposti e più dolorosamente al danno eran quei fedeli, ma Lo Sveglierino spiritoseggiava in cronaca, accostando la religione popolare alla dabbenaggine d'un contadino che alla Mesola, in quei giorni, si era lasciato truffare tre buoni contro un «buono da 100 baci », simile al biglietto da 250 lire. Quasi la saggezza sia tutta nel saper l'alfabeto, e come se in cotesta insulsaggine di stampare buoni scherzosi di tal genere e gusto, non vi fosse stata più crassitudine e imbecillità che nel povero contadino truffato! Ma già Lo Sveglierino liberale conservatore aveva a riferire uno sciopero, che fu tra i primi di una certa importanza, fatto dai lavoranti sulla rotta, per un aumento di salario. E il fatto inquietava anche i radicali del Povero, come un indice di novità che sfuggiva alla loro influenza sul popolo. E se poi intitolavan dal povero il loro ebdomandario, non eran poveri, o non tutti, o non volevan restarci quelli ch'erano. A guardar nel passato, a confrontare, come vien fatto in questo caso della rotta del '72, così gran somma di dolori e così meschina resa di infatuazioni e di animosità, non si sa se venga più da ridere o da rattristarsi; ma la digressione ci riporta ancora alla Guarda, dove la lettrice del Povero, la Lupacchioli, potè leggersi, nello Sveglierino aborrito, accusata di parzialità nella distribuzione dei soccorsi, e di modi insolenti: descritta in bernesco col suo sigaro e la sua stizzosità. La furia onde fu presa non si descrive. Diventò laconica e stringata; e ogni volta le capitava davanti una faccia sospetta:
- Sei tu il vigliacco? - domandava puntandogli il dito accusatore in faccia. - Sei tu il Don Basilio «moderato »?
S'intendeva, il vile anonimo che aveva fatto pervenire al giornale la calunnia e gli scherni. Gli indiziati si stringevano nelle spalle.
- Fossero stati i preti, - diceva lei amaramente, - fossero stati, mi rallegrerei, che fu sempre l'arte loro: calunniate, calunniate, qualche cosa resterà! Ma questi «moderati », che voglion darsi l'aria di anticlericali, e son peggiori dei figli di Loiola! Poiché abitava a Piazza Vecchia, vicino all'antico campanile, se il campanaro dava nelle campane un po' più a lungo e di miglior lena del solito, si faceva la Lupacchioli urlando alla finestra: che disturbava la quiete pubblica, che intervenissero i carabinieri, il questore, il prefetto! La sua voce vinceva i bronzi
, che era un bel fatto, quantunque la vecchia e povera lega, e forse qualche incrinatura, li facesse di voce gracile e aspretta. Quando poi, il giorno di San Giovanni, su duemila lavoranti, si presentarono in quaranta, e il lavoro rimase deserto, ché gli altri andarono alle funzioni, quel giorno il parroco in stola tornava da benedire le poche messi salve e la immensa desolazione delle acque e l'angoscia dei luoghi dove nel ritrarsi scoprivano, colla distruzione compiuta d'ogni opera campestre, il danno irriparabile del fango e delle sterili sabbie e ghiaie nei campi. Tornava dunque il parroco da benedire, quando la Lupacchioli l'affrontò con austera e severa solennità:
- Questo che è stato compiuto, sappiatelo, è un tradimento e una diserzione. - Che cos'è stato? - disse quello, stupito.
- L'abbandono del lavoro oggi, sulla rotta, equivale a un abbandono di posto davanti al nemico. Chi lo compie merita d'esser fucilato; ma chi lo sobilla, che cosa merita?
- Che sobilla e non sobilla? Lei vada a sobillare chi ha tempo e voglia di badare alle sue castronerie.
- Voi, sobillaste voi il tradimento!
- Ma mi faccia ridere! Sa piuttosto, detta in parole schiette, come va la faccenda? A voialtri massoni mangiapreti, la vi brucia che questa brava gente non perda la sua fede e venga alle funzioni; la vi scotta, a voialtri miscredenti!
Scottava tanto, che la fanatica proruppe, laica ma ieratica:
- Io vi scomunico, o prete!
Al parroco era ignota l'invettiva famigerata carducciana, e non capì nemmeno, sul primo, e:
- Come ha detto? - chiese sbalordito. - In nome dell'«augusto vero », in nome dell'umanità e del libero pensiero, io...
- E io, lei, la esorcizzo, - esclamò il prete, brandendo l'aspersorio come un'arma, - perché ha da avere settecento diavoli in corpo!
- Le vere funzioni sacre, oggi si celebrano colla vanga e col badile in mano sulla rotta: là si celebra la messa dell'umanità, la liturgia del progresso: voi avete fuorviati i lavoratori, l'esercito della vera fede; ond'io vi scomunico col vate dell'avvenire! - Ma che cosa ci sta a fare suo marito medico, in questo paese, se non manda al manicomio lei dritta filata?
E le voltò le spalle, lasciandola col seguito della discorsa, che s'era preparata non breve, in gola. E anche fra quelli che la pensavano come lei, l'opinione del parroco trovò credito, e in suo marito stesso, quantunque tacesse per indole amica di pace. Lei se n'accorse, e ingagliardì paragonandosi quando a Galileo, quando a Giordano Bruno, e, in grazia d'una rima in cui Arno spadroneggia sulla Moldava, come nell'Inno famoso il concetto laico sulla teologia, a «Wiclef ed Husse ». Recitava: «Gittò la tonaca, Martin Lutero»; tornava: «Salute, o Satana, o ribellione! ». Diceva:
- Io fremo, - diceva, - col Carducci «vate dell'avvenire », io fremo; medito sulla filosofia di Giovanni, insorgo all'eloquenza di Matteo Renato, giubilo agli accenti del Bardo della Democrazia!
Giovanni era il Bovio, e l'altro l'Imbriani, mentre è anche più noto chi fu il Bardo della Democrazia. Lei soleva chiamare affettuosamente per nome i suoi pensatori e poeti. E concudeva esclamando:
- Non ritratterò la mia fede neanche sul rogo!
Ma il rogo era cosa tanto lontana dalla Guarda ferrarese, che insomma quella sentenza del parroco passava in giudicato, quantunque il ferrarese s'avviasse a diventar terra radicalissima, col Filopanti e il Bovio, che v'ebbero di lì a non molto elezioni trionfali, e con altri politici locali, fra cui un di quei discendenti di Ezechiele Annobon. Per intanto, la Lupacchioli si dava pure da fare non inutilmente, con più zelo che tatto; e anche se aveva ragione di stigmatizzare la renitenza del contadiname a lasciarsi ricoverare e segregare nei lazzaretti, era un curioso fanatismo quello che le impediva di capire e di compassionare le pene e il dolore di quei tifosi e vaiolosi e dissenterici, e dei loro famigliari, da cui dovevan separarsi in così angosciose circostanze. Perché, a suo dire:
- La società si deve difendere, e la salute non è un diritto, ma un dovere: un contagio privato, è un delitto sociale. Invece, voi pregate San Rocco!
E a povere donne in lacrime, a uomini chiusi nel dolore sfiduciato:
- Vergogna! - diceva con amarezza di filosofico sarcasmo: - Così imparaste, voialtri che idolatrate pretese reliquie di martiri, non a compiangere ma a invidiare chi soffre per la verità?
La guardavano stupiditi:
- Che c'entra col diavolo?
- È un esperimento, è una prova anche il vaiolo. È la verità e il dovere, oggi è l'igiene!
- E noi ci contenteremmo della salute.
- Egoisti!
- Eh?
- Zucconi! Oscurantisti! La scienza positiva è il verbo della nuova chiesa militante. Restavano i poveracci a bocca aperta.
V
La politica era voluta entrare anche in un'altra questione, che appassionava la gente inondata fin dai primi giorni. Ma in che non entrava la politica a quel tempo? Sazia e fastidita dei regimi paterni, la quiete peninsulare durata dalla pace d'Aquisgrana, e cui la meteora napoleonica e la cometa quarantottesca avevano mutata in servitù penosa e riottosa, era finita, mettendo gli italiani in possesso delle libertà politiche e degli istituti costituzionali, per i più di loro improvvise e non richiesti. E versavano ora nelle polemiche di partito, con un'intemperanza che mischiava l'ebbrezza della novità con quella del successo, lo spirito fazioso delle vecchie sette male superstiti al Risorgimento, con quello variamente facinoroso e guasto delle antiche conventicole e clientele. Insomma, si oscurava e si corrompeva in quelle polemiche la coscienza che il fondamento della libertà sta nella disciplina e nel rispetto delle istituzioni, e nella tradizione. Parlo degli italiani coltivati e provveduti, delle classi che con adulazione di sé medesime si chiamarono dirigenti, alle quali la legge elettorale vigente restringeva, col suffragio, l'esercizio, che fu piuttosto uno sperpero, della libertà politica e del governo. Nuovi venuti, costoro tradizione di governo non potevano avere; ma nel complesso fu fatto da essi il contrario di ciò che sarebbe occorso a fondarla, principalmente con quell'intrusione confusa e confondente, esorbitante, della politica in ogni cosa. Col pretesto specioso e sedizioso dei principii dottrinali invocati a torto e a ragione, risorgeva e si perpetuava l'antico male dello spirito di parte, se men feroce negli atti, più licenzioso nella dissipazione delle parole. Una tradizione, l'aveva il popolo semplice, povero e illetterato: in primo luogo nella religione cattolica, da cui derivava la morale e il giudizio sul mondo; tradizione gravata di una grave esperienza quotidiana e secolare, raffinata e affaticata dall'eredità civile antica, come il latino, per fare un paragone, affina ed affatica l'italiano. Ed ora religione e morale popolare, nel dissidio violento e più eluso che risolto fra la Chiesa e lo stato, diventavano un elemento quasi sedizioso. Chiuso nel tradizionale giudicato del cristianesimo sul mondo, il popolo dalla giostra dei partiti politici si appartava, fra corrucciato e infastidito. Anzi, soltanto nel corruccio principiava a conoscerli ed a parteciparvi, in anni dissestati, gravosi e carestosi. Che se allo stato non mancò salda e vigorosa e dura capacità d'imporre i sacrifici necessari al suo assetto, per allora risaltavano sopra tutto, unici veramente popolari, i sacrifici, che furono davvero eroici, sotto la scabra e rugosa specie del bilancio da pareggiare e dei debiti da pagare, ingenti, e della povertà da affrontare. Lo stato, al minuto popolo, alla gran maggioranza plebea, s'imponeva tanto ricco d'autorità legale quanto scarso d'autorità morale; più rigoroso che persuasivo; e anche questa era un'esperienza da fare.
La politica era dunque entrata anche nella questione intorno al modo di chiudere la rotta: questione che in sé aveva di che appassionare gli inondati, e ben s'intende, ma nella quale la politica entrava per abuso. Fatto sta che essendoci entrata, appassionava anche i tanti che per natura e costume, e in quelle circostanze poi, ne sarebbero stati alienissimi e ignar affatto. Ardeva nel ferrarese e alla Guarda la polemica delle «tele»di Quirico Filopanti, sotto la trista pioggia che fiaccava le moltitudini penose.
Prima che delle «tele », o, col più proprio nome imposto dall'inventore all'invenzione, della «paltelata », è da dir di lui, di Giuseppe Barilli da Bagnarola di Budrio, detto Quirico Filopanti: d'uno, cioè, del quale convien rispettare la bontà gentile, che gli visse profonda e caritatevole veramente nell'animo; e l'onestà specchiata; e la nobile povertà, a sé frugale quanto altrui prodiga; e il coraggio schietto, e la fedeltà animosa delle idee e degli atti, e la generosità rara e candida dell'amor degli uomini e della giustizia, che innalzò non una volta sola la sua ingenuità sopra personaggi senza comparazione maggiori di lui, poiché in quell'amore egli non ebbe fra costoro nessun superiore, né forse pari in sincera spassionatezza. E del Filopanti ancora fu rispettabile ed ammirevole la singolarità umanissima ed intrepida, che lo mischiava, intrepido ed inerme, nelle battaglie garibaldine a offrire il suo, non a spargere l'altrui sangue. Ma non soltanto queste qualità ch'egli ebbe, son da considerare nel Filopanti, ma pure essere lui stato il semplice, l'innocente, il pazzerello del Risorgimento; ché scarso giudizio è da fare sui moti attivi d'idee e di principii morali, che non giungano a far presa anche sugli ingegnui, o vuoi sui pazzerelli. Ché certo i suoi libri, la Bibbia Sociale, il Dio Liberale, Miranda; la scienza che vi professa, bizzarro enciclopedico; la verità che vi si sogna di svelare, mistico vaneggiante in un sistema panteistico e, diceva lui, razionale, di armonie astronomiche e armonie cronologiche, fondate sopra un'astronomia e cronologia strampalate come la storia di suo conio e come la mnemotecnica e la metempsicosi che le affiancano nel suo sistema; certo coteste «armonie»riverberano il chiarore quieto e lunatico, ch'è delle miti e caste follie. Matematico e filantropo, era pure, naturalmente, inventore di macchine: fra l'altre, se ben ricordo, d'un girarrosto, che doveva far andare nel contempo il macinino da caffè e non so che altro, per alleggerire la fatica delle buone massaie. Più efficace il suo soccorso al prossimo, quando, come gli accadde una volta, trovandosi senza un soldo ma con un paio di brache nuove, unico capo da poterne cavar qualche lira, ne fece la carità a un miserabile; e gli amici lo trovarono segregato in casa per la mancanza dell'indispensabile indumento. E allegra memoria in Bologna rimase delle lezioni d'astronomia popolare ch'egli teneva al Giuoco del Pallone e dalla ringhiera del Podestà in piazza; dei bizzarri compromessi a cui vi veniva la sua scienza coll'incredulità popolare; poiché, dicendo egli il diametro o la distanza di qualche astro, più d'una volta si sentiva interrompere:
- Cala, professore, che è troppo, e non ci crediamo.
- Facciamo la metà, - diceva, accomodante. - Cala, cala, professore!
- Facciamo un terzo. - Oh, adesso possiamo andar d'accordo. Bonarietà, cotesta, che è più facile deridere che imitare, in quanto aveva pur del buono e del sensato; perché, quand'egli si fosse impuntato su qualche migliaio di chilometri o centinaio d'anni-luce di più o di meno, che cosa avrebbe ottenuto, se non di perder la fiducia del suo ingenuo e diffidente uditorio, salvando nient'altro che un puntiglio di cattedratico? Insomma, come la bontà, così la tolleranza era da lui non solo predicata ma praticata con equo animo e cortese. E fra l'altre invenzioni del Filopanti, c'era, e purtroppo si offriva cospicua occasione di metterla alla prova, la paltelata, in cui l'inventore fidava molto più che in argini e palafitte e sacchetti di terra e buzzoni, ovvero graticci, di cui fin allora s'era accontentata la scienza idraulica, per chiudere le rotte.
Il sistema suo consisteva nel piantare una o più file di pali sulle bocche, e nell'addossare a teli pali una vela, un telone, così da fargli sostenere l'acqua almen quanto occorreva a riparare, a tergo del telone stesso, l'argine rotto. Checché dicesse e maledicesse la gente, il genio civile, e quelli che erano a capo del lavoro, gli ingegneri Natalini e Cavalletto, non stavano colle mani in mano; anzi lavoravano attivamente a ridurre le bocche ed a fortificarne le teste, per procedere a dar la stretta nel momento opportuno. Ma il fiume si manteneva alto e pieno, ancora due mesi dopo. E la loro deliberazione di aspettare la magra, veniva attribuita a sordida avarizia, a collusione cogli appaltatori, a esosa tirannia governativa e forcaiola, come s'è visto. Ai lavoranti ingaggiati, si era aggiunta intanto una compagnia di pontieri col piroscafo fluviale Sesia, e con materiale da ponti di barche e da ponti volanti. Alla piarda di Cecilia c'era un viavai, un traffico continuo: un vero porto di mare. Gli ingegneri non fidavano quanto il Filopanti nella paltelata, anzi n'erano ben lontani; ma l'inventore ciò sopportava con pazienza:
- Perché, - diceva venuto sul luogo e ospite della Lupacchioli alla Guarda, - perché l'uomo è attaccato alle abitudini, a quello che si è sempre fatto, e s'induce a riconoscere il progresso sempre molto a stento. Il Natalini e il Cavalletto son buoni ingegneri, pratici di idraulica, ma non vedono di là da buzzoni e argini traversagni, e palafitte frontali, e castelli di presa...
- Fanno i difficili, - disse la Lupacchioli, - per confondere la gente a pescare nel torbido. - Non dico questo, - obbiettò il Filopanti. - I mezzi dell'arte idraulica sono da tenere in giusta considerazione, e serviron bene, finché non s'è trovato, mercè calcoli ed esperienze, qualcosa di meglio. Ed è, sia detto senza falsa modestia, la paltelata. Ma il Natalini rilutta dalla novità, perché non gli fu insegnata a scuola; onde noi contempliamo in questo caso la pertinace e perniciosa e pervicace tenacia del principio d'autorità: la scolastica e la dogmatica in guerra colla ragione e col metodo sperimentale: l'ipse dixit opposto al «provando e riprovando ». Ma noi, lasciamo l'ora ai dogmatici furiosi; noi, serbiamo serena ed equanime pazienza, quella che ci danno la ragione e la dialettica, a dimostrare, a persuadere il vero ai riluttanti. E quando non ci venga conseguito, al furore e alla tirannia delle antiche e nuove Inquisizioni, opponiamo, o signori, l'«Eppur si muove»della loro più illustre vittima. I buzzoni del Natalini opposti alla paltelata, sono né più né meno che il sistema tolemaico opposto dai domenicani al sistema copernicano; le palafitte infallibili, corrispondono alla pretesa immobilità della terra nel sistema geocentrico, come la paltelata sperimentale corrisponde alle rotazioni e rivoluzioni del sistema eliocentrico.Anzi, - soggiunse fattosi più pensoso, - veggo o traveggo in barlume che in cotesto Natalini si reincarni probabilmente uno di quei domenicani che condannarono il Galilei. - Sugo di bosco, - proruppe un astante, - sante legnate, bastonarlo bisogna, e magari impiccarlo!
Era costui un Toppi, ingegnere di nessun valore, e politicamente iracondo e ingiurioso, che, sostenuto dal Povero, aveva sposata la causa della paltelata col furore e l'insolenza propri della sua natura. Allontanato dal luogo dei lavori dopo una lite col rigido Nataliani, che gli aveva minacciato i carabinieri se fosse per rimettervi piede, criticava e imperversava alla Guarda e in Ferrara. Era basso della persona e ripieno, rosso il volto di pletorico; era in tutto corto e arricciato e grosso, il capo, il collo, il naso e il mento e gli occhi, stretti alla radice e come sepolti nelle pieghe della carne. Tacendo, rugumava; parlando, sbuffava; le parole le urlava o le grugniva; metà gli uscivano di bocca e metà gli rientravano nel naso, miste a quel suo soffiare e alenare sfiatato e rabbioso. A tale esemplare di non sereno dialettico, serena volse la faccia di galantuomo il buon Quirico: gli occhi limpidi, la fronte chiara, la bocca schietta, le guancie pacate, il mento mansueto, e il bel paio di baffi rigogliosi e brizzolati, e l'onesta zazzera, che soleva uscire abbondante e riccioluta di sotto il cappello a cilindro. A questo, e uno scialle, in cui il Filopanti s'ammantava, scozzese su fondo cenerino, e il perpetuo sigaro toscano fra le labbra, eran ormai da anni e anni i contrassegni del suo dignitoso portamento e della figura popolarissima in Bologna:
- Amico Toppi, l'errore degli altri non iscusa il nostro, e io non accetterei di imporre la paltelata, ancor che utile, a legnate, tanto meno colle forche! Sarebbe cadere precisamente nell'errore dei despoti, che hanno conculcato il mondo. Lasciamo allo scellerato machiavellismo delle più scellerate sette e più malvagie, l'empia massima che il fine giustifica i mezzi. Anche dal male esce alla fine il bene, ma per disegno e volontà divina: il male rimane male in ogni cosa, e ricade sull'uomo che lo fa. Ma che puredal male nasca il bene, ve ne vuol persuadere la mia filosofia con un esempio calzante: dico, la linea pittagorica di uno dei dodici dèi consenti, e precisamente di Marte, che termina per ora in Napoleone, attraverso le seguenti incarnazioni: Marte capostipite, Perseo, Enoc, Bacco ossia Cam figlio di Noè, Nino, Tesco, Ettore, Sansone, Davide, Elia, Tito Tazio, Epaminonda, Alessandro, Annibale, San Giovanni Battista, Traiano, Ossian, Attila, Carlo Martello, Orlando paladino, Tancredi, Riccardo Cuor di Leone, Rodolfo d'Asburgo, Martin Lutero, Cromwell, Pietro il Grande, Napoleone. Or voi mi direte: «Avvi egli verosimiglianza che l'anima di Napoleone Bonaparte sia stata quella di Martin Lutero? ». Io affermo, in ogni caso, che il fatto, verosimile o no, è vero; e l'identità psicologica dei due personaggi vi riuscirà meno inverosimile, se comprenderete il seguente dialogo avvenuto in cielo. Un giorno Emmanuele (vi spiegherò poi chi fu ed è Emmanuele), un giorno Emmanuele Cristo disse, sorridendo, all'anima del futuro Napoleone: «Marte, ti voglio far frate». Marte rispose: «Io frate? Sarà una curiosa novità, ma per stare in carattere prenderò un nome che ricordi Marte, e mi chiamerò Martino; mi varrò della cocolla per metter sossopra il mondo a furia di teologia». - Ma voi, professore, volete scherzare? - sbuffò il Toppi ingannato dall'arguzia bonaria e dalla stessa semplicità convinta colla quale, nell'ornato suo discorso, il mistico pitagorico esponeva le sue dottrine. - Scherzo io? Riconosco che talvolta sembra che scherzino la natura e il supremo Fattore, ma mai tanto che negli scherzi, se volete chiamarli così negli incontri di nomi e di date, indagando gli asterismi e le geuranie (anche queste vi spiegherò più innanzi), non sian da leggere sempre mirabili concordanze rivelatrici. Torniamo per intanto a Marte e a Martino. La parola di Emmanuelle Cristo si avverò in tutto e per tutto nella protesta di Lutero e nella guerra dei Trentanni. Ora, chi non vede che le guerre di religione sono orribili, e più feroci delle altre? Ma esistono mali più gravi ancora: la corruttela della religione, l'abbruttimento dei costumi, la schiavitù del corpo e dell'intelletto. La libertà, sebben parziale, del pensiero religioso, il libero esame del Lutero, predisposero i popoli dell'Europa e dell'America all'acquisto della libertà politica: da un male minore uscì un maggior bene.
- E io sto per il minor male delle legnate al Natalini! - gridò il Toppi.
- Cotesto sarebbe un arbitrio passionato, capriccioso e dispotico. Sarebbe obbedire a Satana, che si ingegna di scombinare e scombuiare il piano luminoso del creato. Qui la Lupacchioli, o dissentisse, o travisasse, o si fosse distratta dietro i nomi, intonò:
Gittò la tonaca
Martin Lutero,
Gitta i tuoi vincoli,
Uman pensiero. Salute, O Satana. O ribellione.
La fermò il Filopanti, con uno schietto orrore in volto: - Satana è il principe e il principio del male, l'ispiratore dei delitti e delle tirannidi, colui che persuase ai forti di conculcare i deboli e ai deboli la viltà di tollerarli! Satana ispirò al popolo acciecato di liberare Barabba e di crocifiggere Gesù; è il patrono degli scribi e farisei antichi e moderni, che anche oggi mettono in burla colla stessa empietà cieca e presuntuosa gli arcani svelati e dimostrati nella mia Bibbia Sociale, veridica epopea! E come ebbi a dire per le pubbliche stampe all'illustre autore di cotesto Inno, o più tosto di tale «orgia intellettuale », non è lecito né tampoco democratico affibbiare a un concetto giusto in sé e filosofico, che il poeta vuole esaltare, un nome esecrando e detestabile. La bestemmia è sempre bestemmia, e offende Dio e l'umanità e per di più, in questo caso, crea appo i semplici di mente una confusone che io non esito a chiamare mostruosa. Come gli scrissi, «si tradisce il popolo divinizzando il principio del male ». Ma vorremo piuttosto scusare il nostro Giosuè, dicendo ch'egli è poeta, e che non sempre i poeti, come ben seppe Socrate, sanno quel che si dicono. Così, mi sovviene, quell'altro eccellente poeta Leopardi, traviato dalla doppia sventura personale della deformità del corpo e del cupo fanatismo reazionario di suo padre, ebbe in essa sventura una scusa dei dialoghi ch'egli scrisse, pieni d'eleganza, ma ancora di scherno e di fiele sull'esistenza collettiva della umanità; ha, in essa, una scusa dei versi troppo bene torniti, nei quali dichiara la vita individuale dell'uomo essere null'altro che amarezza e noia, e fango il mondo; ha, dico, in essa sventura una scusa mitigante, ma non assolutamente sufficiente. Bensì Cristo, supremo giudice dei vivi e dei morti, non sarà grandemente severo verso lo sventurato poeta, me ne fo mallevadore, perocché egli stesso, il santo e mite nazzareno, fu così profondamente rattristato dall'incessante spettacolo delle umane miserie e dall'apparente confusione e contraddizione nell'ordine provvidenziale, che lasciò uscirsi dal labbro la frase, alquanto esagerata essa medesima, colla quale chiamava Satana il principe di questo secolo, cioè del mondo visibile. E cosa più conforme alla sobria verità il dire che, per quante siano le vittorie parziali del principio del male, sono ancor più numerose le vittorie del principio del bene. E di ciò bella e sublime rivelazione ci dà l'astronomia, dimostrazione stringente il calcolo, prova domestica la quotidiana esperienza, perché bisogna pensare anche agli intelletti che stentano a innalzarsi e profondarsi. E vengo prima alla rivelazione. Nel mio planisfero geuranico, in cui ho raggruppato le stelle in nuovi e significanti gruppi o asterismi, v'è uno di questi splendido, che ho chiamato Gran Croce. Orbene, nel presente secolo, le sette insigni stelle dell'allineamento trasversale della Gran Croce, arrivano tutte in una volta ogni ventiquattrore all'orizzonte dei luoghi posti a 31 gradi e mezzo di latitudine nord. Ricorrete ora al mirabile trovato del prisco Anassimandro, perfezionato dipoi dal genio di Mercatore, dico al mappamondo: avvi in tutto l'orbe terracqueo un solo luogo di universa celebrità situato in prossimità di tale parallelo: è Gerusalemme. A sua volta l'allineamento longitudinale della medesima Gran Croce, comprende dieci cospicue stelle; e nel presente secolo, udite, udite, nel mentre ch'io vi parlo, queste sorgono e tramontano insieme ogni giorno all'orizzonte d'un'altra città: è Bologna. Caso, dice lo stolto che non può negare il fatto di tale combinazione astrale. Causa la precessione degli equinozi, questa relazione delle sette e dieci stelle della Gran Croce cogli orizzonti di Gerusalemme e di Bologna, svanirà con questo secolo, e non si ripresenterà di qui a venticinquemilaottocentosessantotto anni. A chi parla di caso, risponda il calcolo delle probabilità, che io ho fatto: in un mondo fatto a caso, potete scommettere, contro l'uno, esattamente la cifra di novemila milioni, che non si darà una analoga geurania! Questa è stupenda e piena di divino, e può consolarci della frivolezza degli scettici. Essa, dalla città dov'ebbe compimento nel sublime sacrificio volontario la missione divina del più giusto uomo e più santo, da Gerusalemme, addita a questo secolo la città insigne per il sapere e per la più antica università d'Europa, Bologna, dove, non per meriti personali, ma per disposizioni del supremo fabbro e ordinatore dell'universo, un uomo è stato deputato a dimostrare la corrispondenza del piano creativo col piano provvidenziale, della natura colla mente divina. Bononia docet, dice la geurania della Gran Croce; e quell'uomo, tremerei a dirlo se ne traessi orgoglio e vanità, è Quirico Filopanti. Sì, o signori, nelle geuranie del firmamento, Emmanuele, il creatore, scrive la verità, ch'io vi leggo umilmente, quasi in un vangelo che nessuno scriba e neppur Satana stesso può contraffare o confondere od alterare. E v'è chi non apre ancora gli occhi! Ma qual meraviglia? Hanno gli occhi e non vedono, orecchi e non odono: sono gli scribi e farisei gonfi e superbi di astrusa ignoranza, che vuol parere scienza mercè l'ipercritica superciliosa! Non ti curar di lor, ma guarda e passa. E dal cielo stellato scendiamo in terra, dall'astronomia alla fisica meccanica, alla verità dimostrata dai numeri e dalla cronologia. È meno sublime, ma non meno bella. Sappiate che il tempio di Salomone fu fondato nell'anno 2989 dell'era adamitica ovvero massonica; nel 1689 dell'era cristiana vi fu la rivoluzione inglese; che cosa vi fu nel 1789 non sto a dirvelo. Il primo patriarca biblico nacque nel 1789 dell'era massonica o adamitica; il 1789 dell'era cristiana è il quarto millenario della nascita di Emmanuele Adamo III, che io ho dimostrato essere il capostipite della razza bianca. Ora considerate questo, fatidico nella storia, numero 89, connesso colla fisica per un altro ordine di fatti: e, prima di tutto, sappiate che Archimede, il più gran fisico antico, mori nel 3789 dell'era massonica. Proseguo: il Leibnizio dimostrò, come sapete, che la forza viva dei corpi è proporzionale alla massa e al quadrato della velocità; Huyghens, che la forza centrifuga è proporzionale alla forza viva divisa per il raggio; Newton formulò la legge che i corpi celesti si attraggono in ragione diretta della massa, e inversa del quadrato della distanza. La maniera pratica più comoda di calcolare numericamente la forza centrifuga nella «rivoluzione»degli astri e nella «rivoluzione» delle macchine, sta in una nota formula. Sia F la forza centrifuga da calcolare. Siano P il peso, M la massa, D il diametro di rivoluzione: divisi per un numero x, essi danno la F. Or qual'è cotesto x? Ve lo dice, mirabilmente, la formola: F = PM2D????. Millesettecentottantanove, numero capitale, numero mistico e razionale delle rivoluzioni e politiche e astrali e meccaniche! Mi sostenga dopo ciò qualcuno che si tratta di coincidenze casuali, ed io non potrò che tranquillamente compiangere la sua funesta tenebra mentale. Queste corrispondenze numerali sono, tornando al vero da cotesta tenebra e alla luce, quelle che io ho scoperte e battezzate isemerie. En passant, ne ho ricavata la mnemotecnica, e quand'esse non fornissero altra utilità che d'aiutare la memoria, sarebbero già cosa stupenda. Ma servono e insegnano ben altro, e segretamente l'isemeria dell'89 dice a imperatori, a re, a papi, a presidenti, a maestri di società segrete o palesi: «Voi non fate che recitare al soffio di un invisibile suggeritore una parte nel dramma tragico e comico insieme, che fu scritto nelle stelle e nei numeri all'origine del mondo. Cercate di recitarla bene, perché il corpo mortale e materiale è paragonabile a un organo colle sue canne, coi suoi mantici e tasti a pedali: darebbe suono, farebbe musica senza l'organista? L'organista è l'anima; l'anima esiste, è immortale, e risponde del bene e del male fatto di questa vita, suonando l'organo, per continuare la metafora, più o men bene ». L'anima, alla morte del corpo, avrà dunque da Dio premio o castigo, perché altrimenti il mondo sarebbe un'odiosa, immensa, incredibile ingiustizia materiale!
Lo ascoltavano storditi e balordi, e non v'era alcuno in grado di notare che attraverso il farnetico dell'illuminato, fra cabale e sogni, balenava schietto e genuino un ansioso sentimento e desiderio del buono e del giusto, che meritava d'esser giudicato nella sua ingenuità sincera; e che nelle ultime parole aveva attinta un tristezza generosa. Ma continuò dopo di esse:
- Vengo, in terzo luogo, a confutare alla buona i pessimisti e quelli che fanno il mondo a caso, perché a caso si accozzano idee e sofismi in testa loro. Supponete che ci fossero amici i topi, nemici gli elefanti; fareste cambio? E se madre natura, o incontentabili uomini, non avesse fatte le vespe ma neanche le api, avremmo noi il miele? Di più: il bue compensa la pantera, la pecora il leopardo, la gallina la tigre. Non c'è niente da ridere; non è utile la gallina almen quanto nociva la tigre? Anzi, o pessimisti, vi lagnate delle tigri che non vedeste né vedrete mai, probabilmente, se non in un serraglio, magari mentre state mangiando galline a lesso e capponi arrosto! Le pulci stesse e le zanzare ci stimolano a tenerci netti della persona e a bonificare le paludi...
- Allora, professore, - sbofonchiò il Toppi, - il Natalini e il Cavalletto li chiameremo pidocchi!
- Chiamateli anche così se vi pare, ma senza dimenticare che anche il pidocchio ha la sua utilità.
- Vorrei saper quale!
- Se non altro, a esercitarci nella pazienza. - Ce l'hanno esercitata abbastanza, - esclamò la Lupacchioli, - questi ingegneri!
- Nessuno può arrogarsi di dirlo. Vedete questa inondazione: è cosa miseranda e terribile, ma ne uscirà dimostrata la bontà della paltelata, e d'ora innanzi nessuna rotta avrà effetti così tremendi, perché sarà manifesto a tutti come si può dargli la stretta più presto e meglio colla paltelata: da un solo male presente mille futuri beni. Credete a me, che posso dirlo: come le geuranie riscattano il cielo dalle favole dell'amabile mitologia antica, così le isemerie rivendicano la storia umana dall'oppressione dell'increscioso materialismo moderno. - Allora, - proruppe il Toppi, - ringraziamo i pidocchi e gli ingegneri, le tigri e le galline, le pulci e gli elefanti, le stelle e la rotta! - Ringraziate sempre d'ogni cosa Dio, - disse il Filopanti senza scomporsi e con semplicità, - perché io vi dò per fede che all'origine dei tempi Emmanuele, ossia il Verbo, disse a Dio Eterno: «Padre mio, vi edificherò un tempio nuovo, di cui sole e stelle saranno le lampade, e la terra sarà l'altare ». «Le vittime », interruppe Satana, «saranno gli uomini». «No: la vittima sarò io, e mi incarnerò nell'uomo santissimo fra tutti, in Gesù Cristo nazareno ».
V'era nella sua voce, così dicendo e fantasiando, non solo reverenza e persuasione sincera, ma vero affetto e una tristezza religiosa, che ridusse il Toppi a ragumare più astioso, o forse senza parola per eccesso di rabbia. Il Filopanti soggiungeva:
- Ora, intendiamoci: non mica che per amor di sperimentare la paltelata sarei andato a tagliare gli argini! In tal caso, o meglio in tale aberrazione, meriterei di appartenere alla linea pittagorica dell'elefante furioso Beemoth, ucciso da Rama, ossia da Emmanuele Crisna nella mitologia indiana, Adamo II nella mia veridica Bibbia Sociale. E per vostra istruzione vi dirò il seguito della linea, tanto più che è breve: Beemoth, elefante come sopra, Acronte, re ucciso in duello da Romolo: e perciò in primo luogo, state attenti, la linea è avversa al gran padre quirite. Seguì Serse, Erostrato, Porfirio, filosofo che scrisse la vita di Pittagora lodevole per l'argomento non per critica, e contro il cristianesimo, opera biasimevole e frustranea; Copronimo, imperatore bizantino, così detto perché da fanciullo lordò il fonte battesimale; Carlo Borbone, ucciso da Benvenuto Cellini all'assedio di Roma nel 1527: Bayle, erudito ma scettico critico francese; e finalmente Giorgio Niebuhr, filologica reincarnazione del furioso elefante Beemoth, degno predecessore dell'ipercritico Mommsen e della scuola che nega Romolo e tratta di fiabe la storia dei primi secoli di Roma! Nella quale ipercritica, la discendenza da un elefante potrebbe forse scusare il Niebuhr e la sua scuola, se non si scorgesse il velen dell'argomento quando cotali storici e filologi della setta berlinese si danno ad esaltare impudentemente il tiranno Tarquinio Superbo. Si scoprono allora più maliziosi ancora che furiosi, dominati da astio maligno di reazionari prussiani contro le franchigie popolari e democratiche. Perché Romolo, che quegli iperborei dell'ipercritica chiamano un mito, fu un democratico in carne e ossa, che nella costituzione data a Roma, precorse di troppi secoli il suo tempo: e questo è un merito sempre punito dalla fortuna, come la peggiore delle colpe. Sappiate che Romolo apparteneva a una società segreta, ovvero eteria ch'era, per eredità dei sapienti caldei, in possesso di grandi segreti naturali e scientifici. Calcolavan costoro le eclissi, e conoscevano la polvere pirica. Quando Romolo, incorso nell'odio dei patrizi per le sue leggi democratiche, stanco del mondo volle tornare al cielo, riunì il popolo il giorno dell'eclissi solare dell'anno trentottesimo di Roma, sulle rive della palude della Capra, sedendo egli sopra un alto trono: e quivi, dato fuoco egli stesso a una mina, fece saltare con le polveri il trono e sé medesimo. Questa è la vera e genuina storia della fine dell'eroico fondatore della Città Eterna, il quale con essa morte si indiò nella venerazione popolare. Dopo questo, che per avventura era adatto a dimostrare come e fino a che punto sentimenti schietti e generosi folleggiavano nella sua mente in uno strano accozzo di antiche e recenti cabale ermetiche, e di follie sue personali:
- Eccovi, miei cari, - proclamò assorto, - le genealogie di Emmanuele, ossia in lingua ebraica «Dio con noi », di Emmanuele, del figlio di Dio Eterno, del Dio Liberale, che ebbe, o almeno io l'ho riconosciuto finora in 49 incarnazioni: questo tengo per fede. Fu Adamo I nel primo Eden, nell'isola di Meroe; e là inventò la pastorizia, il caseificio, il matrimonio, il linguaggio, la proprietà, la settimana, ed altre istituzioni. Vi trapassò in Emmanuele Orione, fabbro ferraio; in Emmanuele falegname; in Emmanuele Pan, sartore; in Emmanuele Canopo, navigante. Adamo II, o Rama della religione braminica, visse nel secondo Eden; e fu Emmanuele tornitore, Emmanuele Crisna, Emmanuele Osiride, agricoltore; finalmente trapassò in Emmanuele Giove della religione pagana. Adamo III, nell'Eden dei libri biblici, che fu il terzo Eden fu ceppo della razza bianca; e rivisse in Noè. Tutto ciò vi dice come troppo sommaria premessa, onde intendiate, tornando al primo detto, che quando Adamo I incarnato in Emmanuele sartore, ebbe data ed imposta agli uomini tutti la non men utile che decente invenzione dei tessuti e degli abiti, ecco che invece di tributargli ammirazione e gratitudine, la plebaglia dei poveri gli si rivoltò contro, e il volgo dei ricchi pure, perché, disturbati i primi nella loro inerzia e pigrizia, la superbia dei secondi amava di serbare la distinzione esclusiva di andar vestiti. Che più? Aracne ed Atena, le due mogli tessitrici, si unirono alle critiche dei malevoli, invece di dargli morale conforto. Onde tanto si accorò Adamo I, che mori a trentatrè anni; ma le due poco amorevoli spose dovettero rivivere qualche tempo, per castigo in forma di ragno e di civetta. Ma perché si chiamò anche Pan, cotesto Adamo? Perché sarebbe rivissuto in Gesù Cristo, tant'è vero, che sotto Tiberio presso le isole Echinadi fu udita quella misteriosa voce che clamò: «Il gran Pan è morto! ». Ma era morto soltanto il frale di Emmanuele Pan e di Gesù Cristo: l'anima, col sacrificio, aveva assicurata l'immortalità alle anime nostre. Tralascio ben altro, per farvi notare, coll'esempio di Emmanuele sartore, che gli inventori in generale furono sempre o quasi sempre accolti sulle prime dall'ostilità del volgo; e che particolarmente si spiega come mai i tessitori traviati ruppero le prime macchine da tessere, mirabile trovato. Onde finalmente non è a stupire della sorte incontrata dalla mia paltelata, anzi è da vedervi un segno di conferma del suo prossimo successo. Bisogna poi riflettere che il commendatore Cavalletto è stato deputato di Destra ed è moderato ministeriale, dal che deriva, in buona e inoppugnabile ragione, ch'egli veda e fiuti nell'invenzione di Filopanti democratico l'odore della Sinistra e qualcosa di tremendamente rivoluzionario. Davvero che se avessi tempo vorrei indagare le linee pittagoriche di questi Natalini e Cavalletto: ma maiora premunt.
VI