venerdì 22 giugno 2018




TURPILOQUIO
Il buon soldato Sc'vèik di Jaroslav Hašek 
[...]Palivec era celebre per il suo turpiloquio: in ogni suo discorso una parola su due era cazzo o merda. Come se non bastasse, era un po’ letterato e consigliava a tutti di leggere ciò che aveva scritto riguardo al secondo soggetto Victor Hugo citando la risposta finale fatta agli inglesi dalla vecchia guardia napoleonica nella battaglia di Waterloo.
«Che bella stagione che abbiamo!» disse Bretschneider cercando di riattaccare la conversazione «Di qualche importanza».
«Non me ne importa una merda», rispose Palivec, riordi-nando i bicchieri nella credenza.
«Ce ne hanno combinate delle belle, laggiù a Sarajevo», riprese a dire con un filo di speranza Bretschneider.
«In quale ‘Sarajevo’?» domandò Palivec. «In quella bottiglieria di Nusle? Là si pestano ogni giorno: si sa bene che razza di quartiere è Nusle».
«Ma io intendo parlare di Sarajevo in Bosnia, padrone! È lì che hanno ammazzato l’arciduca Ferdinando. Che ne dite?»
«Io non m’immischio di tali faccende: e chi me ne volesse fare immischiare, venga pure a leccarmi il culo», rispose cortesemente il signor Palivec accendendo la pipa. «Oggi-
giorno a immischiarsi negli affari altrui si corre il rischio di rompersi il capo. Io son negoziante, e se viene qualcuno e m’ordina una birra, io sono ai suoi comandi. Ma questo o quel Sarajevo, la politica oppure il nostro defunto arciduca, son tutte cose dalle quali non può saltar fuori altro che la gatta-buia».
Bretschneider si chetò e si mise a guardare pieno di delusione nel locale completamente deserto.
«Un tempo qui c’era appeso un ritratto di Sua Maestà 
l’Imperatore», soggiunse dopo una pausa: «proprio lì dove ora c’è quello specchio».
«Sicuro, avete ragione», rispose il signor Palivec; «stava appeso lassù e le mosche ci cacavano sopra, sicché ho dovuto riporlo in solaio. Capite: qualcuno si sarebbe potuto permettere qualche osservazione, e m’avreb-be procurato delle seccature. Come se non ne avessi abbastanza!»
«Eh, laggiù a Sarajevo la cosa dev’essere stata brutta, che ne dite, padrone?» A questa pericolosa domanda a bruciapelo il signor Palivec rispose con eccezionale cautela:
«Di questa stagione in Bosnia-Erzegovina fa un caldo terribile. Quando io mi trovavo laggiù a fare il soldato, bisognava applicare dei pezzi di ghiaccio sulla testa del nostro colon-nello».
«In che reggimento avete servito, padrone?»
«Chi si ricorda di queste piccolezze: io non mi sono mai occupato di simili porcherie, e non son mai stato troppo  curio-so», rispose il signor Palivec, e soggiunse subito dopo: «Troppa curiosità non può che nuocere».
L’agente Bretschneider si chetò definitivamente, e il 
suo cipiglio si rasserenò sola-mente all’ingresso di Sc’vèik, che, appena varcata la soglia, ordinò subito una birra nera, e soggiunse: «Oggigiorno anche a Vienna sono a lutto».
Gli occhi di Bretschneider brillarono di speranza, e proferì bruscamente: «Al castello arci-ducale di Kónopište hanno issato dieci bandiere nere».
«Dodici dovrebbero essere», disse Sc’vèik dopo un gran sorso di birra.
«Che intendete dire con dodici?» chiese allora Bretschneider.
«Per far cifra tonda e perché si conta meglio a dozzine. E poi tutto si compra meglio alla dozzina», rispose Sc’vèik. Regnò allora un profondo silenzio, che fu interrotto proprio da un sospiro di Sc’vèik.
«Ora che l’arciduca si trova alla presenza della giustizia divina, che il Signore gli conceda la pace eterna. Egli non è vissuto abbastanza per diventare imperatore. Quando facevo il militare, una volta un generale cadde da cavallo e crepò tranquillamente. Volevano aiu-tarlo a rimettersi in sella ma s’accorsero ch’era rimasto secco. E dire che avrebbe potuto far tanta carriera da diventare generalissimo. La cosa avvenne nel corso d’una rivista alle truppe. Queste riviste non portan mai nulla di buono. Anche a Sarajevo ci deve esser stato qualcosa di simile. Ora mi ricordo che a una di queste riviste mi mancava una ventina di bottoni alla divisa, e che per questa mancanza mi schiaffa-rono in cella per quattordici giorni, e per due giorni vi rimasi sepolto come Lazzaro, attorcigliato come una salsiccia. Ma la disciplina nell’esercito è una cosa giusta, altrimenti nessuno farebbe nulla di nulla. Il nostro tenente Makovec ci diceva sempre: ‘La disciplina, razza di canaglie, bisogna che ci sia, se no voi v’arrampichereste come scimmie sugli alberi, e non c’è che l’esercito che sia capace di fare degli uomini da dei mascalzoni come voi!’ Non è forse vero? [...]