lunedì 4 giugno 2018


ZUCKERMAN SCATENATO
Philip Roth
1. «Io sono Alvin Pepler»
«Cosa diavolo ci fa lei su un autobus, con tutta la grana che ha?»
A volerlo sapere era un giovanotto piccolo e robusto con i capelli a spazzola e un completo nuovo; stava sognando a occhi aperti davanti a una rivista di automobili quando aveva rico-nosciuto la persona seduta accanto a lui. Per dargli la carica non ci volle altro.
Senza farsi intimidire dalla scortese risposta di Zuckerman – era in autobus per farsi trasportare da un posto all'altro –, il tipo gli diede allegramente un consiglio. Ormai facevano tutti così, se riuscivano a scovarlo. «Lei dovrebbe comprarsi un elicottero. Ecco quello che farei io. Garantirsi il diritto di atterrare sui tetti delle case e smetterla di pestare la cacca dei cani. Ehi! Vede questo signore?» La seconda domanda era rivolta a un uomo in piedi che stava leggendo il Times.
Lasciatosi alle spalle il nuovo indirizzo di Zuckerman nel-l'Upper East Side, l'autobus procedeva verso sud lungo Fifth Avenue, direzione downtown. Zuckerman stava andando a tro-vare un esperto di investimenti in Fifty-second Street, un ap-puntamento procuratogli dal suo agente, André Schevitz, per convincerlo a diversificare il capitale. Tramontati erano i giorni in cui Zuckerman aveva dovuto pensare a far quattrini: d'ora in poi avrebbe dovuto pensare a farli fruttare. «Adesso dove li tiene?» gli aveva chiesto l'esperto quando Zuckerman final-mente gli aveva telefonato. «Sotto il materasso», aveva detto Zuckerman. Lo specialista si era messo a ridere. «E ha intenzione di lasciarli lì?» Anche se la risposta era sì, in quel mo-mento fu più facile dire no. Zuckerman aveva privatamente dichiarato una moratoria di un anno su tutte le decisioni importanti che il suo successo travolgente avrebbe potuto comportare. Quando fosse tornato ad avere le idee chiare, si sarebbe rimesso in azione. Tutto questo, questa fortuna... cosa significava? Piovutagli addosso così all'improvviso, e in così grande sca-la, non era meno inquietante di una disgrazia.
Zuckerman, di solito, non andava mai in nessun posto all'ora di punta – se non nel suo studio, con una tazza di caffè, a rileggere i paragrafi scritti il giorno prima –, e per questo si era ac-corto troppo tardi che non era il momento giusto per prendere un autobus. Tuttavia non voleva ancora credere di essere meno libero di andare e venire a suo piacere di quanto lo era stato fi-no a sei settimane prima, senza essere costretto a ricordarsi in anticipo chi era. I soliti pensieri quotidiani su questo argomen-to – chi sono? – erano già abbastanza copiosi senza che uno dovesse portarsi qua e là sulle spalle la gobba di una dose dì narcisismo in più.
«Ehi! Ehi!» L'eccitato vicino di Zuckerman stava cercando nuovamente di distogliere l'uomo in piedi dalla lettura del suo Times. «Vede questo signore seduto accanto a me?»
«Adesso sì», fu la risposta irritata e severa.
«È la persona che ha scritto Carnovsky. Non l'ha letto sui giornali? Ha guadagnato un milione di dollari, e prende l'autobus».
Sentendo che a bordo c'era un milionario, due ragazze con identiche divise grigie – due fragili fanciulline dall'aria soave, senza dubbio educate sorelline che andavano downtown a scuola dalle suore – si voltarono a guardarlo.
«Veronica», disse la più piccola delle due. «È l'uomo che ha scritto il libro che sta leggendo la mamma. È Carnovsky».
Le due ragazzine si misero in ginocchio sui sedili per guar-darlo in faccia. Si voltò indietro anche una coppia di mezza età nella fila davanti a loro.
«Su, bambine», disse Zuckerman allegramente. «Tornate ai vostri compiti».
«La mamma» disse la più grande, prendendo il comando «sta leggendo il suo libro, signor Carnovsky».
«Bene. Ma la mamma non vi ha detto di fissare la gente in autobus».
Niente da fare. La materia che studiavano al St Mary doveva essere frenologia.
Intanto il compagno di Zuckerman si era voltato verso il sedile dietro il suo per spiegare alla donna che l'occupava il motivo di tanta eccitazione. Per farla partecipare. La famiglia dell'uomo. «Sono seduto vicino a un tale che ha appena guadagnato un milione di dollari. Forse due».
«Be'», disse una voce garbata e signorile, «speriamo che tut-to questo denaro non lo cambi».
A quindici isolati dall'ufficio dell'esperto di investimenti Zuckerman tirò la funicella e scese. Sicuramente qui, nel giar-dinetto dell'anomia, era ancora possibile essere nessuno nelle strade dell'ora di punta. Altrimenti, prova con i baffi. Forse questo è lontano dalla vita come la senti tu, come tu la vedi, la conosci e desideri conoscerla, ma se bastano un paio di baffi, allora, Cristo santo, fatteli crescere. Non sei Paul Newman, ma non sei nemmeno più quello che eri. Baffi. Lenti a contatto. Forse ci vorrebbe anche un vestito più sgargiante. Cerca di avere l'aspetto che hanno tutti in questo momento, e non quello che avevano, vent'anni fa, all'università. Meno come Albert Einstein, più come Jimi Hendrix, e non salterai più tanto agli occhi. E il tuo modo di camminare, già che ci siamo? Comunque, aveva sempre avuto l'intenzione di lavorarci su. Zuckerman si muoveva con le ginocchia troppo vicine, e il suo passo era troppo frettoloso. Un uomo alto più di uno e novanta do-vrebbe andare più piano. Ma dopo la prima dozzina di passi non riusciva più a ricordarsi di andare piano: venti, trenta passi, e invece di badare a come camminava s'immergeva nelle proprie riflessioni. Be', era venuto il momento di provvedere, specie ora che le sue credenziali sessuali venivano sottoposte al vaglio della stampa. Aggressivo nel modo di camminare come nel lavoro. Sei milionario, cammina come un milionario. La gente ti guarda.
Ridevano di lui. Qualcuno stava... La donna alla quale avevano dovuto spiegare, sull'autobus, il perché di tutta quell'eccita-zione. Una donna anziana, alta, magra, con un viso pesantemente incipriato. Solo... perché gli stava correndo dietro? Per-ché apriva la borsetta? A un tratto l'adrenalina consigliò a Zuc-kerman di mettersi a correre anche lui.
Vedete, non tutti erano entusiasti di questo libro che gli sta-va facendo guadagnare una fortuna. Un mucchio di gente gli aveva già scritto per rimproverarlo. «Per avere dipinto gli ebrei in un'atmosfera da peep-show di assoluta perversione, per avere dipinto gli ebrei in atti di adulterio, esibizionismo, masturbazione, sodomia, feticismo e puttanesimo», il posses-sore di una carta intestata sfarzosa come quella del presidente degli Stati Uniti aveva addirittura suggerito che «dovevano sparargli». E nella primavera del 1969 questo non era più solo un modo di dire. Il Vietnam era un mattatoio, e sia sul campo di battaglia che fuori molti americani avevano perso la testa. Solo un anno prima Martin Luther King e Robert Kennedy erano stati assassinati. Senza andare troppo lontano, un ex professo-re di Zuckerman continuava a vivere nascosto da quando gli avevano tirato una fucilata attraverso la finestra della cucina, dove una sera era seduto a tavola con un bicchiere di latte tiepido e un romanzo di Wodehouse. Scapolo e in pensione, aveva insegnato per trentacinque anni letteratura inglese medievale all'università di Chicago. Il corso era difficile, ma non fino a questo punto. Purtroppo, un naso rotto non bastava più. Nei sogni a occhi aperti degli offesi il pugno in faccia sembrava es-sere stato sostituito dall'idea di farti saltare le cervella: solo nell'annientamento c'era una soddisfazione duratura. Alla con-venzione del Partito democratico dell'estate prima centinaia di persone erano state manganellate, calpestate dai cavalli e scaraventate dentro le vetrine per reati contro l'ordine pubblico e il buoncostume meno gravi di quanto quelli di Zuckerman fos-sero giudicati da tantissimi dei suoi corrispondenti. Non gli sembrava affatto inverosimile che in qualche stanza scalcinata chissà dove la copertina di «Life» con la sua faccia (senza baffi) attaccata al muro a breve distanza dal letto venisse usata come bersaglio delle freccette di qualche squilibrato. Quegli arti-coloni erano una prova già abbastanza severa per gli scrittori amici dello scrittore; figuriamoci per uno psicopatico semianal-fabeta che forse non sapeva un bel niente di tutte le buone azioni che Zuckerman faceva al Pen Club. Oh, signora, se lei mi conoscesse veramente! Non spari! Sono uno scrittore serio, ol-tre che un bravo ragazzo!
Ma era troppo tardi per perorare la sua causa. Dietro le lenti senza montatura, gli occhi verdolini della fanatica incipriata erano vitrei di convinzione; arrivata a tiro, lo aveva preso per un braccio. «Non si lasci...» non era più giovane, e riprendere fiato per lei fu una lotta, «... non si lasci cambiare da tutti quei soldi, chiunque lei possa essere. Il denaro non ha mai fatto la felicità di nessuno. Soltanto Lui può farlo». E dalla borsetta che poteva contenere una Luger tolse un'immagine formato carto-lina di Gesù e gliela mise in mano. «"Non esiste un uomo giusto sulla terra"», gli ricordò, «"che agisca bene senza peccare. Se diciamo che non abbiamo peccato inganniamo noi stessi, e la verità non è dentro di noi"».
Sorseggiava un caffè, qualche ora dopo, in un bar dietro l'angolo dell'ufficio dell'esperto di investimenti – studiando, per la prima volta in vita sua, la pagina economica del giornale del mattino – quando una donna sorridente sulla cinquantina gli si avvicinò per informarlo che dopo aver letto della sua liberazione sessuale in Carnovsky lei stessa era, adesso, meno «tesa». Nella banca di Rockefeller Plaza dove andò a riscuotere un assegno, il capellone di guardia gli chiese sottovoce se poteva toccare la giacca del signor Zuckerman: voleva raccontarlo alla moglie, quando fosse rincasato, quella sera. Mentre attraversa-va il parco, una giovane ed elegante madre dell'East Side, usci-ta con il bambino e il cane, gli andò incontro sul vialetto e dis-se: «Lei ha bisogno di amore, e ne ha bisogno sempre. Mi spiace per lei». Nella sala periodici della Public Library un anziano signore gli batté una mano sulla spalla e in un inglese forte-mente accentato – l'inglese del nonno di Zuckerman – gli disse che gli dispiaceva molto per i suoi genitori. «Non ci ha messo dentro tutta la sua vita», disse tristemente. «La sua vita è assai più ricca di così. Ma lei l'ha lasciata fuori. Per prendersi la rivincita». E infine, a casa, un nero grosso e gioviale della Con Ed che aspettava nell'ingresso di leggere il suo contatore. «Ehi, ma lei ha fatto veramente tutte quelle cose in quel libro? Con tutte quelle pollastrelle? È la fine del mondo, accidenti». Il letturista. Ma la gente non leggeva più solo i contatori, leggeva anche quel libro.
Zuckerman era alto, ma non quanto Wilt Chamberlain. Era magro, ma non come il mahatma Gandhi. Nella sua solita tenuta costituita da una giacca di velluto a coste marroncino, un maglione grigio a collo alto e un paio di calzoni di cotone cachi, era vestito bene, ma non era un Rubirosa. E i capelli neri e il naso prominente non erano, a New York, il segno distintivo che sarebbero stati a Reykjavik o Helsinki. Eppure due, tre, quattro volte la settimana lo riconoscevano comunque. «È Carnovsky!» «Ehi, bada, Carnovsky, per quelle cose ti possono arrestare!» «Ehi, Gil, vuoi vedere la mia biancheria intima?» In principio, quando si sentiva apostrofare da qualcuno per la strada, rispondeva con un cenno di saluto per mostrare quant'era spiri-toso. Era la cosa più facile da fare, e per questo la faceva. Poi la cosa più facile fu fingere di non sentire e tirare diritto. Poi la cosa più facile fu fingere di avere le traveggole, persuadersi che questo succedeva in un mondo inesistente. Avevano scambiato un'interpretazione per una confessione, e apostrofavano un personaggio che viveva in un libro. Zuckerman cercò di prenderlo come un elogio – aveva fatto credere alla gente in carne e ossa che anche Carnovsky era un uomo in carne e ossa – ma al-la fine finse di essere soltanto se stesso; e, mettendo l'uno die-tro l'altro i suoi passi piccoli e svelti, si allontanava in fretta senza voltarsi indietro.
Verso sera lasciò il nuovo quartiere per fare una passeggiata fino a Yorkville, e in Second Avenue trovò il rifugio che cercava. Il posto giusto per rimanere solo con se stesso davanti al giornale della sera, o almeno così pensava quando sbirciò tra i sa-lami appesi in vetrina: una cameriera sessantenne con l'ombretto sbavato e due ciabatte sfondate, e dietro il banco dei panini, con un grembiule fresco come un mucchio di neve a Manhattan, un colosso con un trinciante. Erano le sei e qualche mi-nuto. Poteva mangiare un panino ed essere a casa entro le sette.
«Mi scusi».
Zuckerman alzò lo sguardo dal menu sfrangiato e vide un uomo con un impermeabile scuro in piedi vicino al suo tavolo. Gli altri tavoli – una dozzina o giù di lì – erano vuoti. Lo scono-sciuto teneva il cappello in mano in un modo che restituiva a questa espressione il suo lustro metaforico originario.
«Mi scusi. Volevo solo ringraziarla».
Era un omone largo di torace, con due grosse spalle spio-venti e un collo taurino. Intorno alla sua testa calva si avvolgeva una singola ciocca di capelli, ma per il resto il viso era quello di un ragazzo: guance lisce e lucenti, emotivi occhi castani, un impudente beccuccio da civetta.
«Ringraziarmi? Per cosa?» La prima volta, in quelle sei settimane, che a Zuckerman fosse venuta l'idea di fingersi una persona completamente diversa. Stava imparando.
Il suo ammiratore la scambiò per umiltà. Gli occhi vivi e lacrimosi si fecero più fondi per la commozione. «Dio! Per ogni cosa. L'umorismo. La pietà. La comprensione dei nostri impulsi più profondi. Per tutto quello che ci ha ricordato della commedia umana».