RIFIUTO DEL MÉTÈQUE
Estratto da "Il signore delle anime"
Irène Némirovsky
Il 18 maggio 1939 «Gringoire», «settimanale politico e letterario parigino», pubblica la prima puntata
delle Échelles du Levant (titolo nella edizione italiana "Il signore delle anime") ultimo romanzo di Irène Némirovsky. Gli «scali del Levante» sono le città e i porti commerciali del Medio Oriente, che da sempre fungono da cerniera tra l'Europa e l'Asia, crocevia di spezie, di seta, di miseria e di pogrom. Nel periodo tra le due guerre, quando l'immigrazione in Francia è più forte che mai per l'afflusso di profughi provenienti da tutta l'Europa orientale e dalla Spagna, gli «scali» diventano il simbolo di una infiltrazione demografica che scatena nuove forme di xenofobia, inoculando nel vecchio antisemitismo cristiano un più generale rifiuto del métèque, dell'immigrato. Questo termine si era affermato nella sua accezione spregiativa alla fine dell'Ottocento, sull'onda dello scandalo di Panama e dell'affare Dreyfus, e viene usato come sinonimo di straniero, apolide, ebreo. Il protagonista del Signore delle anime ne è un tipico esempio.
IL SIGNORE DELLE ANIME CAPITOLO 1.
«Ho bisogno di soldi!». «Le ho detto di no». Dario tentava invano di mantenere la calma. Quando si alterava, la voce gli diventava stridula.
Gesticolava. Aveva la tipica fisionomia levantina: l'aria smaniosa e affamata dei lupi, quei lineamenti che non sono della gente di qui e che sembrano plasmati in fretta con mano febbrile.
«Lei presta soldi, lo so!» esclamò con rabbia. Tutti gli dicevano di no quando li pregava umilmente. Serviva un altro tono. Pazienza! Avrebbe saputo ricorrere di volta in volta all'astuzia e alle minacce. Non sarebbe indietreggiato di fronte a niente. Avrebbe mendicato o strappato con la forza i soldi alla vecchia usuraia. Sua moglie e il bambino appena nato avevano solo lui al mondo, Dario, che potesse sfamarli. La donna scrollò le spalle robuste. «Certo, faccio prestiti su pegno! Lei ha qualcosa da darmi in cambio?». Ah, così andava meglio! Aveva fatto bene a non perdere le speranze. A volte chi viene pregato risponde «no», ma il suo sguardo dice «sì». Insisti. Offrimi un servigio, un favore, una complicità. Non mi supplicare, è inutile. Compra. Ma che cosa poteva darle, lui? Non possedeva niente. Quella donna era la sua padrona di casa; da quattro mesi Dario aveva preso in affitto un alloggio libero al primo piano del villino che la vecchia aveva trasformato in una pensione familiare per esuli. «Chi non ha bisogno di soldi? Sono tempi duri» disse lei agitando il ventaglio. Indossava un vestito di tela rosa. Il suo viso largo e rubizzo era impassibile. «Che creatura orrenda!» pensò Dario. La donna fece per alzarsi. Lui si affrettò a fermarla. «No, aspetti! Non se ne vada!». Che cos'altro poteva dirle? Supplicarla? Inutile! Prometterle qualcosa? Inutile! Mercanteggiare? E come? Non ne era più capace. Alla scuola dell'Europa, lui, Dario Asfar, misero levantino cresciuto nei porti e nelle bettole, si era illuso di aver acquisito il senso del decoro e dell'onore. E adesso doveva dimenticare i quindici anni trascorsi in Francia, la cultura francese, il titolo di medico strappato con tanta fatica all'Occidente, non come un dono ricevuto dalla propria madre, ma come un pezzo di pane rubato a un'estranea. Inutili smancerie europee, che non gli avevano dato da mangiare! Lì a Nizza, nel 1920, a trentacinque anni, faceva la fame, e aveva le tasche vuote e le suole bucate come quando era ragazzo. Si disse con amarezza che quelle nuove armi - la dignità, l'orgoglio - lui non sapeva maneggiarle, e che doveva ricorrere alle preghiere e al baratto, alle vecchie e sperimentate abitudini. «Gli altri avanzano in branco, protetti, guidati»
pensò. «Io sono solo. Vado a caccia da solo, per mia moglie e per mio figlio!». «Come faccio a campare, secondo lei?» esclamò. «Non mi conosce nessuno in questa città. Sono quattro mesi che vivo a Nizza. Ho affrontato sacrifici di ogni genere per stabilirmi qui.
A Parigi il successo era dietro la porta. Bastava aspettare». Mentiva.
Voleva convincerla a tutti i costi. «A Nizza, invece, curo soltanto russi. Conosco soltanto esuli morti di fame. I francesi non mi chiamano.
Non si fidano. Colpa della mia faccia, del mio accento, che ne so...» disse, passandosi la mano sui capelli corvini, sulle guance brune e scarne, sulle palpebre orlate di lunghe ciglia femminili dietro le quali si intravedeva uno sguardo duro e inquieto. «La fiducia non può essere imposta, Marta Aleksandrovna. Lei è russa, lo sa che cosa significa vivere da emarginati. Io mi sono laureato in medicina in una università francese, conosco gli usi francesi e ho ottenuto la cittadinanza francese, eppure vengo trattato da straniero, e mi sento straniero.
Bisogna aspettare. Glielo ripeto: la fiducia non può essere imposta, occorre ispirarla, conquistarsela a poco a poco. Ma, nel frattempo, bisogna pur vivere. E' nel suo interesse aiutarmi, Marta Aleksandrovna.
Io sono suo inquilino. Le devo già degli arretrati. Mi caccerà via. E io sarò nei guai. Ma lei che cosa ci avrà guadagnato?». «Anche noi» sospirò la donna «siamo poveri esuli. I tempi sono duri, dottore... Che cosa posso fare io per lei? Niente». «Quando mia moglie tornerà a casa, lunedì, ancora debole, con un neonato, come farò a sfamarli, Marta Aleksandrovna? Dio li protegga! Che ne sarà di loro? Mi presti quattromila franchi, Marta Aleksandrovna, e mi chieda in cambio qualunque cosa». «Ma che garanzie può darmi, povero lei? Ha titoli di borsa?».
«No». «Gioielli?». «Niente. Non ho niente». «Tutti mi lasciano in pegno almeno un gioiello, dell'argenteria, una pelliccia. Lei non è un bambino, dottore, capirà che non posso distribuire denaro senza nessuna garanzia. Sono spiacente, mi creda. Non ero nata per questo mestiere, per prestare soldi a interesse. Sono la moglie del generale Mouravine, io, ma che c'è da fare quando le necessità della vita ti prendono qui?» disse portandosi le mani alla gola con un gesto che ai tempi della sua giovinezza, quando faceva l'attrice in provincia, aveva riscosso gli applausi del pubblico, il vecchio generale, in effetti, l'aveva sposata soltanto in esilio, dopo aver riconosciuto il figlio avuto da lei. La donna parve stringersi un invisibile monile intorno al collo bianco e grassoccio. «Eh, caro il mio dottore, siamo tutti quanti strozzati dalla miseria! Se lei sapesse che cos'è la mia vita!» disse, ricorrendo alla consueta tattica di chi, sollecitato a concedere un prestito, si piange addosso per meglio rifiutare. «Sgobbo come una serva. E mi tocca mantenere il generale, mio figlio e mia nuora. Vengono tutti a chiedere aiuto a me, ma io non posso contare sull'aiuto di nessuno». Prese il fazzoletto di cotone rosa infilato nella cintura e si asciugò gli angoli degli occhi. La sua faccia rossa dai tratti grossolani, sciupata dall'età, ma che nel disegno del naso sottile e aquilino e nel taglio delle palpebre conservava le vestigia di un'antica bellezza ormai in rovina, si coprì di lacrime. «Io non ho un cuore di pietra, dottore».
«Piange, ma mi caccerà di casa lo stesso» si disse Dario, disperato. Ogni suo pensiero dava la stura a un flusso di ricordi. Quando rimuginava: «Ci caccerà di qui. Dovremo andarcene. Non avremo più un tetto. Non sapremo dove rifugiarci», le scene che gli venivano in mente non erano frutto solo della sua immaginazione, ma generate dalla sua carne che aveva patito il freddo, dai suoi occhi arrossati per la stanchezza dopo una lunga notte trascorsa a vagabondare.
Più di una volta, non sapendo dove dormire, aveva errato senza meta per le strade, messo alla porta dagli albergatori. E sebbene tutto ciò gli fosse parso normale durante l'infanzia, l'adolescenza e i primi duri anni di studio, ora avrebbe preferito morire piuttosto che sottoporsi a una simile umiliazione. L'Europa l'aveva viziato, eccome! Guardò l'appartamento, i mobili.
Tre misere stanzette al primo piano della pensione familiare, il pavimento di piastrelle rosse coperto a malapena da logori tappeti; nel salotto due poltrone di velluto giallo, sbiadito dal sole, e nella camera matrimoniale un bel letto francese dove si dormiva così bene. Come gli piaceva tutto questo! Pensò che avrebbero piazzato la carrozzina del figlio sul balconcino: la brezza del mare, oltrepassando i tetti della rue de France, sarebbe arrivata fino a lui, e la mattina il piccolo avrebbe sentito le grida provenienti dal vicino mercato: «Sardine, belle sardine...». I suoi polmoni avrebbero respirato l'aria frizzante, e in seguito il bimbo avrebbe potuto giocare al sole. Bisognava restare là e ottenere un prestito da quella donna. Con un misto di angoscia, di rabbia e di speranza, Dario guardava ora le pareti, ora i mobili, ora il viso della moglie del generale. Stringeva le labbra convinto di assumere un'aria impassibile, ma il suo sguardo ansioso, eloquente e disperato lo tradiva. «Non mi rovini, Marta Aleksandrovna. Quattromila franchi... Li troverà quattromila franchi per me, vero? E per i tre mesi di pigione arretrata aspetterà. Non mi caccerà via. Pazienti un anno. In un anno posso fare grandi cose. Con quattromila franchi mi comprerò dei vestiti decenti.
Come faccio, conciato così, a varcare la soglia di un grande albergo? Chi mi lascerebbe entrare? Trasudo miseria... Parecchi concierge di Nizza, di Cannes, di Cimiez hanno promesso di mandarmi a chiamare se dovesse servire un medico. Ma guardi queste scarpe che imbarcano acqua, guardi questa giacca» disse mostrando la stoffa lisa che riluceva al sole. «Parlo nel suo interesse, Marta Aleksandrovna. Lei è una donna, sa riconoscere un carattere ardito, pieno di zelo e di buona volontà.
Quattromila franchi, Marta Aleksandrovna... Tremila! In nome di Dio!».
Lei scosse la testa. «No». Poi, a voce più bassa, ripeté: «No». Ma Dario non badava tanto a quel che diceva, bensì a come lo diceva: le parole non significavano niente, solo il tono contava... La vecchia aveva forse mormorato «no» con impazienza? L'aveva esclamato con rabbia? Se davvero il rifiuto fosse stato senza remissione, senza appello, si sarebbe messa a gridare e l'avrebbe cacciato via su due piedi. Quel «no», quell'inflessione più dolce, quelle lacrime, e al contempo lo sguardo duro dei suoi occhi glauchi, che diventava ancora più duro, ostinato e penetrante... Tutto ciò voleva dire che bisognava contrattare, e nessuna contrattazione doveva spaventarlo. Finché si trattava di mercanteggiare, discutere, comprare o vendere, niente era perduto. «Marta Aleksandrovna,» disse Dario «c'è qualcosa che posso fare per lei? Sa quanto sono discreto e fidato. Ci pensi su. Mi sembra preoccupata, Marta Aleksandrovna, abbia fiducia in me...». «Dottore...» cominciò lei.
Tacque. Attraverso l'assito sottile giungevano fino a loro i rumori della pensione familiare; lì vivevano, litigavano, piangevano e ridevano esuli che davano fondo ai loro ultimi risparmi, che si odiavano o si amavano. Echeggiarono voci, passi rapidi e spediti di ragazze, lo scalpiccio stanco e senza scopo di vecchi chiusi fra quattro mura tristi. Quanti intrighi fra quella gente!
Quanti drammi! La moglie del generale doveva essere al corrente di tutto... Aveva bisogno di lui. E lui non si sarebbe tirato indietro di fronte a niente. Provava quel panico interiore che dilaga nell'animo come un fiotto selvaggio.
Innanzitutto, vivere! Al diavolo gli scrupoli, le paure vigliacche! Innanzitutto, continuare a respirare, a nutrirsi, salvarsi la pelle, proteggere la moglie e l'amato figliolo! La donna emise un profondo sospiro. «Venga qui, dottore... Dottore, lei conosce mia nuora, Elinor, quell'americana che mio figlio ha voluto sposare? Dottore, le parlo da madre disperata... Sono ragazzi, hanno commesso una stupidaggine, una follia...». Gualcì il fazzoletto tra le mani e si asciugò la fronte e le labbra. Il sole, prima di tramontare, baluginò per un istante sui tetti e irruppe nella stanza.
Era una delle prime belle giornate di una primavera burrascosa. La moglie del generale aveva molto caldo, ansimava un po' e sembrava più umana, piena di rabbia e di paura. «Mio figlio è un bambinone, dottore... Mia nuora, invece, mi dà l'idea di essere molto più navigata. Ma il fattaccio è successo. Finora non mi avevano detto niente... Dottore, noi non possiamo permetterci un'altra bocca da sfamare... Non ce la faccio più a reggere il peso di tutti quelli che si aggrappano a me aspettando il pane dalle mie mani. Un altro bambino...
Impossibile, dottore».
CAPITOLO 2.
La moglie di Dario, Clara, era a letto, con accanto la culla del figlio, in una linda cameretta dell'ospedale Sainte-Marie. La finestra era socchiusa e una calda coperta le avvolgeva le gambe.
Ogni volta che la suora le chiedeva come stava Clara si girava con gratitudine verso di lei, guardava sorridendo la cornetta bianca e rispondeva con timido orgoglio: «Come potrei star meglio? Non ho forse tutto quel che mi occorre?». Era sera. Stavano chiudendo le porte. Clara non vedeva Dario dal giorno prima, ma sperava ancora nel suo arrivo; le suore sapevano che era un medico e lo lasciavano entrare anche oltre l'orario di visita. A Clara spiaceva che Dario non avesse voluto farla stare in corsia. Lei non aveva mai avuto amiche. Non aveva mai legato con un'altra donna. Era schiva, guardinga... Tutto la riempiva di stupore, in quelle città straniere.
Aveva imparato a fatica il francese. Adesso lo parlava, benché con un pessimo accento, ma continuava a vivere isolata. Quando era con Dario non aveva bisogno di nessuno; lì, in ospedale, il bambino avrebbe dovuto bastarle, eppure a volte le capitava di desiderare una presenza femminile al fianco. Sentiva le risate delle donne ricoverate in corsia... Che bello doveva essere far confronti tra il proprio figlio e quello delle altre mamme! Nessun bambino poteva essere più bello del suo, di suo figlio, del suo Daniel, né poppare così in fretta e con tanto vigore, né avere un corpicino così ben fatto, gambette così agili, manine così perfette. Ma Dario voleva per lei una camera singola, comoda, tranquilla, lussuosa. Caro Dario, come la viziava! Credeva forse di dargliela a bere? Lei sapeva quante difficoltà doveva affrontare. E intuiva la stanchezza che si celava nei suoi movimenti convulsi, nella sua voce, nel rapido gesticolare delle sue mani tremanti. Ma la nascita del bambino le colmava il cuore di pace.
Non sapeva perché, eppure non si preoccupava più. Era troppo riconoscente a Dio per essere ancora preoccupata. A volte si sporgeva un po' dal letto e attirava a sé - più vicino, sempre più vicino - la culla, trattenendola con la mano. Non vedeva il bambino, ma lo sentiva respirare.
Allora, dolorante com'era, si girava con precauzione su un fianco. Lasciava andare la culla e incrociava le braccia sul petto gonfio di latte, che a quell'ora montava come una marea, martellandola di pulsazioni simili a quelle della febbre. Era così minuta che i fianchi, il seno e le ginocchia magre sollevavano appena il lenzuolo.
Il viso sembrava al contempo troppo giovane e troppo vecchio per la sua età: Clara aveva superato la trentina. Alcuni tratti - la fronte piccola e bombata, senza rughe, le palpebre intatte, il sorriso dai denti bianchi, regolari, magnifici, suo unico vero dono - le davano le sembianze di una bella ragazza, quasi di un'adolescente, ma qua e là fra i capelli crespi e trascurati cominciava a spuntare qualche ciocca grigia; i suoi occhi scuri erano tristi, avevano pianto, vegliato, scrutato la morte sul volto di persone care, atteso con speranza, guardato con coraggio; la bocca, nei momenti di riposo, tradiva spossatezza, ingenuità, sconforto.
Usciti gli ultimi visitatori, cominciò l'andirivieni dei carrelli che si fermavano davanti a tutte le porte distribuendo pasti leggeri. Le puerpere che allattavano i figlioletti si preparavano alla poppata serale. I piccoli, appena svegliati, strillavano. La suora entrò nella camera di Clara, l'aiutò a sedersi sul letto e le porse il bambino. Era una donna robusta, dal viso ordinario, roseo e paffuto. Per qualche istante rimasero entrambe a osservare in silenzio il neonato che girava da una parte all'altra la testolina morbida e calda, piagnucolando alla ricerca del seno, ma il piccolo si acquietò presto, e le due donne sentirono il ciangottio confuso dei poppanti sazi, soddisfatti, che succhiano il latte e a poco a poco cadono nel sonno. Allora presero a chiacchierare sottovoce: «Suo marito non è venuto oggi?» chiese la suora. Aveva l'accento melodioso di Nizza. «No» rispose Clara un po' rattristata. Sapeva che Dario non si era dimenticato di lei.
Chissà, forse non aveva i soldi per il tram... L'ospedale era piuttosto lontano dal centro della città. «E' un buon marito» disse la suora chinandosi sul bambino addormentato. Fece per prenderlo e posarlo sulla bilancia, ma il piccolo aprì subito gli occhi e agitò le manine. Clara lo strinse a sé. «Aspetti. Me lo lasci. Ha ancora fame». «Un buon marito e un buon padre»
aggiunse la suora. «"Hanno tutto quel che occorre? C'è bisogno di qualcosa?" mi chiede tutti i giorni. Oh, la ama davvero... Ma basta adesso!» disse alzandosi e prendendo il bambino dalle braccia di Clara.
Clara glielo lasciò portare via, ma solo dopo un movimento istintivo per tenerselo ancora stretto che fece sorridere la suora. «Gli dà troppo latte. Lo farà ammalare, questo bambino!». «Oh, no, signora!» disse Clara - non si era mai abituata a chiamare «sorella» la religiosa che la accudiva.
«Ma sono felice di farlo mangiare a sazietà; il mio primo figlio è morto perché non avevo abbastanza latte per sfamarlo né soldi per comprarne». La suora scosse leggermente la testa, con un'espressione cordiale, compassionevole e sprezzante, che significava: «Non sei l'unica, sai, povera cara! Ne ho vista tanta, io, di miseria...». E a quel cenno del capo, a quello sguardo lanciato da sotto la cornetta, Clara si sentì come liberata dall'amarezza e da quella specie di vergogna che fa tutt'uno con la disgrazia. Non aveva mai parlato con nessuno del primo figlio.
Allora, con voce rapida e sommessa, disse: «Prima della guerra, mio marito mi aveva lasciata sola a Parigi. Era andato nelle colonie francesi, sperando di trovare lavoro laggiù. I viaggi e le separazioni non ci fanno paura: siamo stranieri, noi. Mi aveva detto: "Parto, Clara. Qui moriamo di fame. Non ho i soldi per il tuo biglietto. Mi raggiungerai tra qualche tempo". La nave aveva appena preso il largo che io ho cominciato ad avvertire i primi malesseri e ho capito di essere incinta. Ero priva di mezzi. Persi anche il modesto impiego che mi consentiva di sopravvivere. In seguito mi hanno detto: "Doveva rivolgersi a questo e a quello...". Ma io non ne sapevo niente.
Non conoscevo nessuno. Il bambino è morto, forse di fame» concluse abbassando gli occhi.
Tormentava con gesti febbrili le frange di lana che bordavano il suo scialle. «Su, su, questo vivrà» disse la suora. «E' un bel bambino, vero?». «Certo». La suora infilò la mano sotto la coperta di Clara. «Ha i piedi gelati, ragazza mia. Le preparo una borsa d'acqua calda. Si copra bene. Dimentichi i giorni tristi. Suo marito è tornato e si prenderà cura di lei». «Oh!» esclamò Clara con un debole sorriso. «Ma io non sono più un'ochetta, sono vecchia ormai. E vivo in Francia da quindici anni. Ho smesso di avere paura. All'epoca mi sentivo sperduta, qui. Ero...».
Tacque di colpo. A che scopo parlarne? Chi l'avrebbe capita? Con ogni probabilità la suora aveva assistito tante povere ragazze che avevano lasciato i loro paesini di provincia per fare la fame nelle strade di Nizza, ma Clara non poteva impedirsi di pensare che per lei era stato peggio; veniva da così lontano, e ogni pietra sembrava respingerla, ogni porta, ogni casa sembravano dirle: «Vattene! Torna fra i tuoi simili! Noi abbiamo già i nostri poveri da soccorrere, straniera!». La suora le piazzò la borsa dell'acqua calda sotto i piedi, le sorrise e si avviò alla porta. «Vado a prenderle la cena» disse già sulla soglia. «Ecco suo marito, cara!».
Clara tese le braccia. «Dario! Finalmente!». Gli afferrò la mano e se la portò alla guancia, alle labbra. «Non speravo più di vederti stasera. Ma perché sei venuto? E' così tardi, e tu sei così stanco!» esclamò. Benché Dario non avesse detto niente, lei sapeva che era sfinito. Gli cinse la vita, lo abbracciò con tutte le sue forze e, quando lui si sedette sul letto, gli appoggiò la testa sulla spalla. «Stai bene? E il bambino sta bene? E' successo qualcosa? Qualcosa di brutto?».
«No, niente, perché?».
Parlavano un po' in francese, un po' in greco e un po' in russo, mescolando le tre lingue. Clara gli accarezzò le dita. «Perché, tesoro?». Dario non rispose. «Ti tremano le mani» disse lei. Ma non insistette. Continuò a tenergli le mani strette fra le sue, e a poco a poco il tremito si placò.
«Stai bene?» ripeté Dario in tono ansioso.
«Sto bene. Mi sembra di essere una regina. Ho tutto quel che posso desiderare, ma...». «Ma?».
«Vorrei essere già a casa, vorrei tornare accanto a te al più presto». Guardò il viso affaticato, stravolto del marito, la sua camicia gualcita, la cravatta annodata male, la giacca che non era stata spazzolata e a cui mancava qualche bottone. «Dario, è vero quel che mi hai detto? Che avevi molti pazienti e che non ti serviva niente?». «E' vero». La suora tornò con il vassoio.
«Mangia» disse Dario. «Guarda che buona minestra. Su, mangiala subito, prima che si raffreddi». «Non ho fame». «Devi mangiare, se vuoi che il tuo latte sia nutriente». Clara, costretta dal marito che la imboccava ridendo, mandò giù qualche cucchiaiata; e, una volta stuzzicato l'appetito, vuotò il piatto. «E tu? Hai cenato?» chiese. «Sì». «Prima di venire qui?».
«Sì». «Ah, è per questo che sei arrivato così tardi?». «Sì. Sei più tranquilla ora?». Lei sorrise.
Dario prese dal vassoio un pezzo di pane che la moglie aveva lasciato, e lo nascose nel pugno.
Per non affaticare la puerpera, avevano schermato la lampada con un foglio di carta azzurra. La camera era in penombra, ma Clara notò la mossa furtiva del marito e l'avidità con cui divorava il pezzo di pane. «Hai ancora fame?». «No, no...». «Dario, tu non hai mangiato!». «Ma che cosa vai a pensare?» disse lui con voce carezzevole. «Sta' calma, Clara. Non devi preoccuparti. Non fa bene al bambino». Si chinò sulla culla, trattenendo il respiro. «Avrà i capelli biondi, Clara...». «No, è impossibile. Siamo tutti e due così bruni... Ma i nostri genitori com'erano?».
Fecero uno sforzo di memoria. Lui, Dario, era rimasto orfano molto presto. Clara era fuggita dalla casa paterna a quindici anni per seguire il vagabondo di cui si era innamorata. Dalle profondità del passato, come quando al calar della sera scorgiamo in lontananza delle sagome pressoché indistinte, emersero alcune pallide figure quasi cancellate: una donna, invecchiata anzitempo, con il capo coperto da un ampio scialle nero calato fino alle sopracciglia; un'altra donna, sempre ubriaca, la bocca aperta a rovesciare imprecazioni e insulti sulla testa di un povero bambino terrorizzato; il padre di Clara con la fronte solcata di rughe e una lunga barba grigia che gli ricadeva sul petto; il padre di Dario, il greco, il miserabile venditore ambulante.
Di quest'ultimo Dario si ricordava meglio, anche perché ne era il ritratto vivente. «I nostri genitori erano bruni come noi». «E i nostri nonni?». «Ah, quelli...».
Non li avevano conosciuti. I vecchi erano rimasti nei rispettivi paesi d'origine - la Grecia, l'Italia, l'Asia Minore -, quando i figli erano partiti sciamando lontano. Per i loro discendenti era come se non fossero mai esistiti. Forse, tra quei levantini dimenticati, ce n'era qualcuno che, nella culla, aveva avuto i capelli biondi, la carnagione chiara. Chissà... «Clara, ma come ti salta in mente che potremmo conoscere i nostri nonni? Credi forse di essere una borghese nata in Francia?». Sorrisero. Si capivano al volo. Erano uniti, corpo e anima, dall'amore, ma non solo: essendo nati nel medesimo porto della Crimea, parlando la medesima lingua, si sentivano anche fratelli; avevano bevuto alla stessa fonte, diviso lo stesso pane amaro. «Dopo la nascita del bambino è venuta a trovarmi la madre superiora. Mi ha chiesto se le nostre famiglie erano contente. E dalle camere vicine, durante l'orario delle visite, mi giungono le voci di nonni e zie che esclamano: «Somiglia al nonno, al cugino Jean, a quel tuo zio morto nel ' 14». Non avevo mai sentito nulla del genere. Arrivano carichi di pacchetti infiocchettati. La suora mi ha detto che dentro ci sono bavaglini, vestitini, giocattoli, pellicciotti. E sai, Dario, usano le vecchie lenzuola per farne camiciole...» disse sottovoce. Era stanca. Parlava lentamente, si fermava, respirava a fatica. Non riusciva a trovare le parole per esprimere il suo stupore, la sua meraviglia, quando immaginava quelle famiglie chine intorno a una culla, quelle lenzuola consumate dallo sfregamento dei corpi, notte dopo notte, per una vita intera, quelle lenzuola da cui poi ricavavano camiciole e pannolini da neonato. «Alla suora che mi assiste dico: "Noi non abbiamo parenti.
Nessuno si cura di noi. Nessuno gioirà per la nascita di questo bambino.
Nessuno ha pianto per la morte dell'altro bambino". Lei sta a sentirmi.
Ma non capisce». «Come vuoi che capisca?» disse Dario scuotendo la testa. Si preoccupava vedendo Clara così stanca e turbata. Voleva dirle di tacere. Ma lei, parlando, si era addormentata con la testa sul braccio del marito. Entrò la suora e chiuse senza rumore le persiane e la finestra; all'ospedale Sainte-Marie temevano l'aria della notte.
Clara aprì gli occhi di colpo e balbettò con voce angosciata: «Sei qui, Dario? Sei tu? Sei proprio tu? Il bambino vivrà? Crescerà bene? Non gli mancherà niente? Vivrà?». Ripeté ancora una volta: «Vivrà?» e si svegliò del tutto. Sorrise. «Dario, tesoro, perdonami, stavo sognando. Va', adesso. E' tardi. A domani. Ti amo». Lui si chinò e le diede un bacio.
La suora, rimproverandolo amichevolmente, lo spinse verso la porta: erano le otto passate. Nei corridoi avevano spento le luci, sostituendole con le lampadine azzurre da notte, e qua e là, sotto i numeri delle camere in cui dormivano le pazienti appena operate e le malate gravi, una suora appendeva in bellavista i cartelli con la scritta: «Silenzio».
Fuori lo accolse una tiepida serata di primavera, e Dario respirò l'odore che gli era familiare sin dall'infanzia, un odore che si ritrova dalla Crimea al Mediterraneo: di gelsomino, di pepe, di vento salmastro.
CAPITOLO 3.
La moglie del generale aveva promesso che gli avrebbe consegnato i soldi l'indomani. Quella sera Dario aveva ancora le tasche vuote. Percorse a piedi la strada dall'ospedale fino a casa.
Davanti al portone vide una donna che tentava di leggere il numero civico alla fioca luce di un lampione a gas. Era a capo scoperto, con le spalle avvolte in uno scialle; aveva il fiato corto, sembrava impaziente e ansiosa. Scorgendo Dario, chiese: «Non abita un medico, qui?». «Sì, sono io». «La prego, venga subito con me, dottore. Il mio padrone sta male. E' urgente».
«Certo, la seguo» disse Dario, con il cuore colmo di speranza. Si avviarono lungo la strada deserta. Mentre camminava, Dario si sistemò la cravatta e si ravviò con la mano i capelli ispidi, rammaricandosi di avere la barba lunga. A un tratto la donna si fermò; parve esitare, poi si avvicinò a Dario per osservarlo con più attenzione. «Ma lei è proprio il dottor Levaillant?».
«No» rispose lui a malincuore. «Sono anch'io un medico, ma...». La donna lo interruppe.
«Allora non è il dottor Levaillant!». «Il dottor Levaillant abita più avanti, al numero 30. Se non dovesse trovarlo,» disse Dario, trattenendo per la manica la domestica che si stava già allontanando «io sarò a casa per tutta la sera. Il mio appartamento è quello sopra la pensione Mimosa's House.
Chieda del dottor Asfar».
Ma la donna era già scomparsa. Aveva attraversato la strada di corsa e stava bussando a un'altra porta. Dario rincasò. Chiamarsi Levaillant, Massard o Durand... Che felicità doveva essere! Chi mai poteva avere fiducia in lui, Dario Asfar, con il suo aspetto e il suo accento da immigrato? Quel dottor Levaillant, il suo vicino, lui lo conosceva. Gli invidiava la barba grigia, l'espressione bonaria e tranquilla, l'utilitaria, il grazioso appartamento... Salì con lentezza le scale che conducevano al suo alloggio. Ritornò col pensiero a Clara, al bambino i suoi tesori, i suoi unici amori. Aveva un figlio, lui, Dario! Tentò di figurarsi un nume benefico, un dio da implorare, qualcuno a cui chiedere protezione per suo figlio. Ma non riusciva a provare il naturale orgoglio di un padre. Era angosciato, avvilito. Si passava di continuo la mano sul viso, con un gesto che gli era abituale. Sperava che il bambino non ereditasse i suoi tratti pronunciati, la sua carnagione scura, né quel suo animo tormentato. Aprì la porta. Era a disagio. Non si sentiva a casa sua, in quell'appartamento. Ma non si sentiva a casa sua in nessun posto. Accese la lampada e si sedette su una sedia. Era affamato. La fame lo perseguitava fin dal mattino. Il pezzetto di pane che aveva mangiato in clinica, lungi dal saziarlo, aveva acuito il suo desiderio di cibo. Aprì la credenza, i cassetti del tavolo, pur sapendo che non vi avrebbe trovato né carne né pane né soldi. Passava e ripassava davanti a un piccolo specchio appeso al muro, e si vergognava dello sguardo sfuggente che lo specchio gli rimandava, del suo pallore, della piega amara e disperata che aveva sulle labbra, delle mani che gli tremavano. «Una notte trascorre in fretta» disse sottovoce, tentando di rassicurarsi e di prendersi in giro da solo. «Non è mica la prima volta che hai fame, no? Forza, Dario, ricordati dei tempi andati!». Ma i ricordi amplificavano come un'eco le difficoltà del presente, appesantendolo di uno strascico quasi insopportabile. «Sono proprio viziato!» si disse con disprezzo. «So che mangerò domani, questo non mi basta? Una volta...». Ma una volta lui sapeva di essere soltanto un miserabile vagabondo, poteva mendicare, rubare. Pensò a quando aveva rovesciato, insieme ad altri ragazzini del porto, una carretta piena di cocomeri e poi era scappato stringendo sotto la camicia, contro la pelle nuda, un bel melone liscio e fresco... Sentiva ancora in bocca il sapore di quella polpa rosa, il crocchiare dei semi neri sotto i denti. E poi i furti nei mercati, le razzie negli orti... Sorrise, gemendo forte. Ora non poteva più chiedere la carità, elemosinare qualche spicciolo per comprarsi un tozzo di pane. Era più altezzoso, più esigente, più pusillanime.
Prima di tutto doveva salvare la faccia, mantenere un'apparenza di benessere, di agiatezza, a costo di qualsiasi sacrificio, di qualsiasi menzogna. Così, da quando la moglie era in clinica, a volte, per gettare fumo negli occhi, stanco di aspettare invano che i pazienti bussassero alla sua porta, andava a farsi una passeggiata in campagna, con la borsa da medico sotto il braccio... In quegli ultimi giorni, così difficili, non aveva neanche tentato di procurarsi un po' di soldi vendendo questo o quell'oggetto, come faceva quand'era studente a Parigi. Avrebbe potuto provarci. Possedeva qualche libro. Ma gli sembrava che tutti gli abitanti di Nizza l'avrebbero riconosciuto. Era una città di provincia: le massaie spettegolavano, le portinaie si appostavano fin dal mattino sulla soglia dei portoni. I piccoli commercianti del quartiere lo seguivano con lo sguardo ogni volta che usciva di casa. Temeva persino le occhiate ironiche e penetranti dei vetturini che fingevano di dormire al sole, con un fiore in bocca, aspettando i clienti, mentre a pochi passi da loro i cavalli agitavano le lunghe orecchie sotto i cappellini di paglia. Sì, lo spiavano tutti, lì, e l'avrebbero smascherato. Non ci si sentiva isolati, a Nizza, misericordiosamente protetti dall'anonimato, come a Parigi. Tutti - pensava Dario - odiavano quel giovane malvestito, dall'accento straniero, quel disgraziato, quel poveraccio. Che cosa sarebbe accaduto se l'avessero visto gironzolare per le strade della città con un pacchetto sotto il braccio, mentre tentava di vendere un libro? «No, non posso farlo!» si disse. La notte era tiepida, un po' soffocante. Dario si tolse la giacca, si liberò del colletto e prese un giornale della sera, ma le lettere gli ballavano davanti agli occhi. La fame continuava ad aumentare e scavava nelle sue viscere quella sorta di galleria che arriva fin dentro l'anima trasportando un flusso di pensieri maligni, disperati, vi li. Tornava con la mente alla moglie del generale e a Elinor, e non solo non aveva alcun rimorso, ma anzi provava un compiacimento cinico e distaccato. Forse la Mouravine aveva ragione! Perché rallegrarsi di aver messo al mondo un bambino? Sarebbe stato capace, lui, Dario, di sfamare quel figlio di cui andava tanto orgoglioso? Dall'altro lato della strada c'era un piccolo ristorante.
Dalla sua finestra Dario vedeva la sala illuminata e alcuni tavoli coperti di lunghe tovaglie bianche. Ogni tanto un cameriere si avvicinava alla finestra e prendeva i piatti pronti, esposti in vetrina per allettare i clienti. Pane dalla crosta dorata, un cesto di pesche, un astice freddo irto di antenne, alcuni fiaschi di vino italiano foderati di paglia intrecciata. Ecco un passante, con una donna sottobraccio, che si ferma, indica con il bastone da passeggio l'insegna del ristorante.
Entrano. «Si faranno una bella mangiata» pensò Dario. Si è alzato, incolla il naso alla finestra, ma il vetro crea una barriera fra lui e l'immagine del cibo. Apre gli infissi, si sporge. Cerca di annusare l'odore che immagina filtri dalla vetrina illuminata, un odore senz'altro prelibato, di minestra calda, di burro squisito, di verdure cotte a fuoco lento e ben rosolate, di carne anche.
Ma il ristorante era troppo lontano. Sentiva soltanto un profumo di fiori pesti, che lo prendeva alla gola e gli dava la nausea. Una coppia si baciava su una panchina immersa nell'oscurità, sotto la sua finestra. Nel corpo di Dario la fame si mescolava ad altri desideri. Bramava la carne e il vino, il pane e la donna, quei frutti morbidi sul loro letto di muschio, quel seno nudo che a tratti gli sembrava di veder baluginare nell'oscurità. Ma gli innamorati si alzarono e se ne andarono; camminavano abbracciati, incespicando come ubriachi. Dario imprecò sottovoce.
Perché per gli altri la vita aveva un sapore raffinato e delizioso? A lui, invece, toccava un cibo amaro e scadente da procurarsi con fatica, da strappare a forza. A morsi, visto che era impossibile fare altrimenti. Perché?
CAPITOLO 4.
Clara sarebbe stata dimessa l'indomani. Con i quattromila franchi di Marta Aleksandrovna, Dario aveva pagato i debiti più pressanti, quelli che lo assillavano dai tempi di Parigi, e quelli più recenti, contratti a Nizza. Poteva camminare a testa alta ora. Non passava più a capo chino, rasente i muri, davanti alla porta del panettiere, né davanti a quella della salumiera che troneggiava in mezzo a ghirlande di salsicce in una bottega adorna di specchi. Aveva anche comprato una carrozzina e una culla per il bambino e un cappotto per Clara, che possedeva soltanto gli abiti con cui era entrata in ospedale. Quanto a lui, Dario, aveva mangiato, bevuto e si era fatto fare un vestito nuovo, dando un anticipo al sarto; gli erano rimasti mille franchi, che aveva depositato in banca. Finalmente la fortuna stava girando: il giorno prima era stato chiamato da una coppia di giovani funzionari francesi arrivati a Nizza da ventiquattr'ore, il cui figlio si era improvvisamente ammalato durante la notte, tra le valigie disfatte e la paglia del trasloco ancora sparsa sul pavimento. Avevano accolto Dario come un salvatore.
L'avevano ascoltato con gratitudine, devozione, rispetto. Come si era sentito buono, Dario, con loro! Con quanta amabilità li aveva rassicurati! Come era stato felice di rincuorarli, di lusingare la madre... «Non è niente, solo una laringite virale. Domani sarà guarito.
Ma che bell'ometto! Un ometto robusto! Dorma tranquilla, signora. Si rassereni anche lei, signore. E' una sciocchezza! Una cosa da nulla!». I genitori l'avevano ringraziato, accompagnato fino alla porta, gli avevano fatto luce per le scale. Non la finivano più di rallegrarsi per la fortuna che avevano avuto a trovare così, mentre erano in preda al panico, in quella città sconosciuta, un medico tanto bravo, tanto premuroso, tanto gentile. «Allora è vero che i giorni peggiori sono passati?» si era detto Dario. «Sembravano eterni e invece si cancellano così in fretta! Perché ho ceduto alla disperazione? Perché ho agito male?». La felicità, infatti, lo rendeva virtuoso. Elinor era rimasta a letto quarantott'ore e adesso stava a meraviglia. Era un'americana coriacea. Non doveva essere certo la prima volta per lei... Dario aveva cenato ed era andato a dormire. Era l'ultima notte di carnevale. Nel trambusto della folla sotto le sue finestre e nel fragore dei fuochi d'artificio, non sentì subito che qualcuno bussava alla sua porta. Poi gli giunsero all'orecchio grida concitate. Aprì e vide sulla soglia la moglie del generale spettinata, ansante, con uno scialle di seta scarlatta gettato sulla camicia da notte lunga e inamidata, all'antica, che le arrivava fino ai piedi. «Presto, venga! Presto, dottore! In nome del cielo, mio figlio si è ucciso!». Dario si rivestì in fretta e scese dietro di lei. Nel salotto della pensione il figlio del generale, un giovane alto e magro, con le spalle curve, il viso mal rasato, pallido, dall'espressione altezzosa e stupida come quella dei levrieri, si era tagliato le vene con un temperino e perdeva sangue, steso sul divano di tela grigia. Elinor, sua moglie, era l'unica a non essere presente.
Tutti i pensionanti, ormai svegli, facevano cerchio attorno al divano.
Il pavimento era cosparso di asciugamani bagnati, sui mobili c'erano catini pieni d'acqua. Il divano, che la notte fungeva da letto, era stato spinto al centro della stanza, e le lenzuola, strappate e intrise di sangue, giacevano in un angolo. Abbandonato per terra c'era anche il temperino usato dal ferito, ancora aperto, e a turno qualcuno metteva un piede sulla lama, si tagliava, e urlando di dolore lo spingeva lontano con un calcio; gli spettatori erano talmente interessati alla scena che si svolgeva sotto i loro occhi che nessuno pensava a raccattarlo dal pavimento. Con vera prodigalità russa, avevano acceso le luci non solo nel salotto, che era illuminato da un grande lampadario antico a tre ordini grigio di polvere, ma anche sui tavoli e perfino nelle stanze vicine, ovunque ci fosse una lampada. Le finestre erano chiuse, e lì dentro si soffocava. Intorno a Dario si era radunato un capannello di donne sommariamente vestite.
Una di loro, alta e magra, con gli occhi infossati, in camicia da notte, a piedi scalzi, un velo di garza svolazzante sui lunghi capelli e una sigaretta accesa tra le labbra, tirava Dario per la manica ripetendo in tono autoritario: «Bisogna trasportarlo nella sua camera». «Ma no, principessa, sa bene che non è possibile» gridava un'altra. «Non c'è una camera per lui. La sua l'hanno affittata alla baronessa, che ora è a letto con un francese!». «Bisogna farli alzare!». «Un francese? Non si alzerà mai! Che cosa vuole che capisca, un francese?». La moglie del generale, sostenuta dalla suocera - una vecchia con un corpetto da contadina di lana nera, i capelli grigi, la bocca semiaperta e tremante -, si teneva aggrappata con entrambe le mani al bracciolo del divano e non voleva lasciare la presa.
Il marito era seduto in un angolo, su una sedia, e stringeva al petto un bulldog dal pelo rossiccio. Era un vecchietto magro e canuto, con una barbetta rada sul mento. Piangeva in silenzio, abbracciando il cane, che emetteva lunghi guaiti lamentosi. «Il cane abbaia alla morte!» gridò la moglie del generale. «Mio figlio sta morendo! Morirà!». «Fate largo!» disse Dario. Ma nessuno lo ascoltava. «Calma, Marta Aleksandrovna! Per l'amor del cielo, si controlli!» esclamò una pensionante, con voce un po' isterica. «Bisogna stare calmi!». «Dov'è la moglie? Dov'è Elinor?» chiese Dario. «L'ha ammazzato lei!» proruppe Marta Aleksandrovna.
«E tutta colpa di quella poco di buono, di quella donnaccia, di quell'americana venuta dal niente, che si è fatta sposare da mio figlio.
Se n'è andata stamattina! L'ha lasciato! E così Mitenka si è messo in testa di morire!». «Che guaio! Che vergogna!» singhiozzava la vecchia col corpetto nero. «Mitenka, tesoro mio, tesoro della nonna! Sta morendo! Ho già perso mio marito e due figli per mano dei bolscevichi.
Mitenka, amore della nonna, mi sei rimasto solo tu!». «Glielo dicevo io: "Non sposarla..."»
gemeva la madre, la cui voce di contralto sovrastava senza sforzo il baccano. «Un Mouravine non sposa una ragazza raccattata dai marciapiedi di Chicago. E che ne so, io, da dove veniva? E
andata a letto con tutta la città, prima che se la prendesse lui! Un'americana dal cuore di pietra.
Come poteva capirlo, una così? Come poteva apprezzare un animo nobile come il suo? Oh, Mitenka, Mitenka!». Mitenka, intanto, grazie alle cure di Dario, aveva aperto gli occhi. La madre e la nonna, in ginocchio davanti a lui, gli coprirono la mano di baci.
Dario aprì la finestra; l'aria, in quella stanza chiusa, era diventata irrespirabile. «Chiuda i vetri!»
gridò la nonna. «E' nudo, prenderà freddo!». Le donne più giovani, che fino a quel momento avevano occupato la scena entrando e uscendo dalla stanza con i catini in mano, scontrandosi, in preda all'agitazione, davanti alle porte e rovesciando tutta l'acqua in terra, la rassicurarono:
«Ma no, Anna Efimova! Ci vuole aria! L'aria pura fa bene, non è dannosa!». «Lo copra, allora, lo copra! Vede, sta svenendo di nuovo! Ha i brividi. Chiuda le finestre! Le chiuda!». «Al contrario! Le apra! Le apra di più!» gridavano le altre.
Dario, stanco di supplicare: «Fate largo, lasciatelo in pace», afferrò i polsi della madre e la sospinse verso una poltrona. «E' svenuta!» esclamarono le donne. «Un po' d'acqua, presto!». Il generale si decise a sollevare la testa, che fino allora aveva tenuto china sul pelo del bulldog.
«Lo salvi, dottore! Lo salvi!». «Non si preoccupi, generale, è ferito in modo molto lieve».
«Dottore, lo salvi!» gridò Marta Aleksandrovna e, divincolandosi dalle braccia che la sostenevano, si precipitò di nuovo ai piedi del divano, prese la mano di Dario e la coprì di baci.
«In nome di sua moglie! In nome del bambino che le è appena nato! Campassi cent'anni, non lo dimenticherò mai! Salvi mio figlio!». «Ma non è niente, sono tagli superficiali. Lasciatelo tranquillo, e nel giro di ventiquattr'ore neanche si vedranno più».
«Mamma!» mormorò il ferito. Poi scoppiò a piangere. «Elinor!». «Piccolo mio! Mitenka, tesoro!» gridò la nonna, mentre le lacrime, le rare e riarse lacrime della vecchiaia, le inumidivano gli angoli degli occhi e le colavano lungo le guance. «Sia benedetto, dottore, l'ha riportato in vita!». «E' salvo? Me lo giura, dottore? Il mio bambino è salvo?». La moglie del generale si gettò all'improvviso sul figlio, lo prese per le spalle e lo scosse, con gli occhi scintillanti di collera. «Stupido sciagurato! Non hai pensato a tua madre? A tuo padre? Alla tua povera nonna? Uccidersi per una sgualdrina! Uccidersi per una donna di strada, per quella maledetta americana!». Le altre donne tornarono ad avvicinarsi. «Si calmi, Marta Aleksandrovna! Deve riguardarsi! E anche suo figlio! Vede com'è impallidito di nuovo?
Dottore! Un calmante per la moglie del generale, dottore!». «Mamma, i vostri rimproveri mi straziano, ma io voglio Elinor!». «Tornerà, tesoro mio, tornerà» disse la nonna. «Sii uomo, figlio mio» mormorò il generale, mentre, turbato com'era, stringeva la testa del cane così forte che la povera bestia emise un guaito lacerante. «Se torna,» gridò la moglie del generale «la caccio io, la strangolo con le mie mani! La ributto sul marciapiede da dove è venuta! Una sgualdrina che ho trattato come una figlia! Con tutto quello che ho fatto per lei... Vedevo ogni cosa, ma chiudevo gli occhi... per Mitenka! Cucinavo, io, la moglie del generale Mouravine, portavo fuori il secchio della spazzatura, rifacevo il letto di quella maledetta americana! Ho sborsato quattromila franchi per... Ma quei soldi li voglio indietro! Dovrà restituirmeli, ha capito?» disse a un tratto, girandosi furibonda verso Dario. «Domani! Non più tardi di domani!
Rivoglio tutti i soldi che ho speso per quella là!». Per fortuna crollò di colpo svenuta ai piedi del ferito, che aveva di nuovo perso conoscenza. Dario ne approfittò per mandar via le altre donne. Rimasto solo, portò la moglie del generale nella stanza accanto e le gettò un catino d'acqua in faccia. La donna si riebbe. «Dottore, io non riconosco i debiti fatti da mia nuora»
disse appena riaprì gli occhi. «La prego di restituirmi immediatamente quanto mi deve». «Ma lei è pazza?» gridò a sua volta Dario. «E' colpa mia se sua nuora se n'è andata?». «Non è colpa sua, ma non sia mai detto che quella donna uccida mio figlio e in più mi estorca quattromila franchi! Lo sa che cosa significano per noi quattromila franchi? Per darglieli ho dovuto vendere l'anello di fidanzamento e le icone sacre di un'amica che me le aveva lasciate in pegno.
Piangeva, mi baciava le mani, mi supplicava di aspettare una settimana. Ho ridotto alla disperazione un'amica d'infanzia per colpa di quella donna! E magari il figlio non era neanche di Mitenka!». «E' questo che le duole di più» pensò Dario soffocando a stento una risata nervosa. «Il bambino che ha ammazzato non era di Mitenka!». «Ma neanch'io ho soldi»
esclamò poi. «Mi lasci il tempo di procurarmeli.
Dove vuole che li prenda? Ho pagato alcuni vecchi debiti. Mi rimangono solo mille franchi, e mia moglie e il bambino escono dall'ospedale domani! Del resto sono soldi miei! Me li sono guadagnati!». La donna sogghignò. «Vuol far sapere a tutti come se li è guadagnati?». «E lei?».
«Insomma, è un ricatto?» gridò furibonda la moglie del generale. «Ma, povera pazza che è, non capisce dunque...». «Capisco solo una cosa: che qui non mi paga nessuno! Campano tutti alle mie spalle. Mio marito, incapace com'è di guadagnarsi la pagnotta, è una nullità, e mio figlio non è da meno! Per mantenerli, lavoro senza un attimo di respiro! Io, una Mouravine, un'artista!
Mi piangeva il cuore a darle quei soldi, dottore! Ma bisognava farlo. Per Mitenka! E ora che quella donna se n'è andata, mi toccherà vivere sapendo che lei e sua moglie ve la spassate coi miei soldi? Senta, dottore, manterremo il segreto su questa faccenda di famiglia, tutti e due, ma se lei non mi paga entro domani, può fare le valigie e andarsene altrove. Non solo: siccome mi deve tre mesi di affitto arretrato, trattengo come cauzione tutto quel che ha. Le sequestro i bagagli, e l'intera città saprà che lei è stato cacciato con ignominia da casa mia!». Dario vide in un lampo la sua reputazione compromessa, il suo avvenire distrutto. Non osò ribellarsi. La vita non l'aveva preparato alla ribellione, ma alla caparbietà, alla pazienza, allo sforzo sempre frustrato, sempre rinnovato, alla rassegnazione apparente che moltiplica e concentra la forza d'animo. «Basta così, Marta Aleksandrovna,» disse «avrà i suoi soldi domani».
CAPITOLO 5.
Dario capiva che la moglie del generale, come tutte le donne abituate a esercitare un potere tirannico su intere famiglie terrorizzate, non si sarebbe mai soffermata a valutare se una cosa era logica e possibile, ma avrebbe continuato a reclamare i suoi soldi con la testardaggine di un mulo fino a quando non li avesse ottenuti. Doveva trovarli quel giorno stesso. Quando si alzò dal letto, dove si era agitato per tutto il resto della notte senza dormire, era ancora l'alba.
Bisognava uscire presto: di tentativo in tentativo, poteva andarsene anche l'intera giornata. E
più tempo avesse avuto a disposizione, maggiori sarebbero state le probabilità di spuntarla! In realtà, si ritrovò in strada senza ancora sapere a chi rivolgersi. La sua mente sembrava aver acquisito di colpo una forza e un'agilità sorprendenti. Si slanciava in tutte le direzioni, cercava una via d'uscita, esplorando in un baleno ogni possibile scappatoia come una bestia braccata dal cacciatore. Pensò ai giovani funzionari che l'avevano chiamato per curare il figlio. No, impossibile.
«Se anche si lasciassero commuovere,» rifletté Dario «poi lo racconterebbero in giro. E allora nessuno si fiderebbe più di me.
Nessuno mi chiamerebbe più. Nessuno sarebbe disposto a mettere la sua vita nelle mie mani».
Gli mulinavano in mente sempre le stesse frasi: «Le tasche vuote, una moglie che non si è ancora rimessa dal parto, un figlio appena nato, e quattromila franchi da trovare entro mezzogiorno se domani, e nei giorni a venire, voglio campare tranquillo. Chi potrebbe aiutarmi? Chi?». Gli sovvenne allora Ange Martinelli, il cui figlio era suo paziente. Ange faceva il maitre in un grande albergo costruito da poco accanto al casinò di Monte Carlo.
Viveva a Nizza, in una casa dietro la chiesa di Sainte-Réparate, dove abitava con il figlio.
Questi, un giovane sui vent'anni, era malato da tempo, e il padre si era rivolto a Dario per disperazione, come ci si rivolge a un guaritore, a uno stregone, quando non resta altro a cui aggrapparsi. Per Dario era l'unica speranza, perché Ange era ricco. Era troppo presto per presentarsi a casa Martinelli. Dario si fermò sotto il porticato. Da uno sfiatatoio della pasticceria Vogade fuoriusciva un odore di frutta candita che gli diede la nausea. Chissà, forse un giorno non lontano avrebbe di nuovo patito la fame, avrebbe fiutato l'odore del cibo come un animale affamato... La strada era fiancheggiata di negozi sulle cui porte erano incastonati degli specchi, e ognuno di essi gli rimandava l'immagine del suo viso ansioso e cupo, con le orecchie a punta, i denti lunghi. Non sopportava di assomigliare a tutti quei venditori di tappeti, di occhiali e di cartoline oscene che si aggiravano fra place Masséna e la promenade des Anglais. Anche a lui, certo, era stata assegnata in sorte fin dall'infanzia una vita di avventure e di espedienti, come a quella gente, quelle canaglie levantine di cui era fratello. Non c'era dunque nessuna differenza tra lui e loro? Avevano gli stessi lineamenti, lo stesso accento, le stesse spalle magre, gli stessi occhi scintillanti da lupo... Alla fine arrivò a casa di Martinelli, un appartamenti no assai modesto all'interno di un vecchio edificio scuro che si ergeva a ridosso di SainteRéparate. «Davvero encomiabile» pensò con amarezza Dario. «E ricco, ma vivrà sempre così.
Una credenza di abete, un bicchiere di vino rosé, pesce fritto del Var in una ciotola sbreccata, mentre io... io devo bluffare sempre. Non posso mostrare la mia povertà, mi servono mobili, vestiti decenti, un'aria di rispettabilità, almeno una parvenza. Un maitre può permettersi di essere parco». Suonò il campanello. Sul pianerottolo comune a due appartamenti una ragazza a gambe nude aveva aperto un rubinetto e faceva scorrere l'acqua su un pesce rosso che teneva in mano. Dario le lanciò uno sguardo intenso e ardente. A volte, nei momenti più duri, si sentiva invadere da un improvviso desiderio di donne, come se tutta la feccia depositata in fondo alla sua anima risalisse a galla. Martinelli gli aprì. «Lei, dottore? Entri». «Com'è andata la notte?».
«Al solito. Aveva la febbre alta. Era agitato.
Stamattina gli è scesa di colpo a trentasette». «Niente emottisi?».
«No». Martinelli era in maniche di camicia. Aveva un fisico prestante, una faccia larga dal colorito acceso, capelli molto scuri, occhi vivacissimi; da sotto le palpebre socchiuse saettava lo sguardo solerte e impavido, lampeggiante, che accomuna chiunque presti servizio nei gradi più alti delle forze armate o delle cucine, uno sguardo che deve vedere tutto, giudicare tutto, non tralasciare niente. Ange sembrava leggergli i pensieri sul volto. «Doveva venire a visitarlo oggi, dottore?» gli chiese. «Ho pensato che fosse meglio». Martinelli lo fece entrare nella sala da pranzo. «Sta dormendo. Pensi che vita, la mia! Sono stanco morto. Ieri sera il galà Oro e Argento. Stasera il galà delle Perle. Peggio dei lavori forzati! Nessuno a cui appoggiarmi, e questo ragazzo...». Strinse le labbra con forza. «Questo ragazzo... Un avvenire così promettente! Poteva diventare capocuoco quando voleva! Aveva il dono, il genio della cucina, e poi era sempre gentile, sempre premuroso... E' spacciato ormai, immagino...». Guardò Dario con un'espressione di rabbia e di speranza insieme. «Spacciato, a vent'anni! Non dovrebbe essere permesso» esclamò con voce cupa e angosciata.
«Bisogna salvarlo, dottore! Provi ancora, tenti qualunque cosa» mormorò.
Il malato tossì. «Lo guarirò, glielo prometto» disse Dario. «Ha già recuperato un po' di forze, lo vede anche lei. C'è un miglioramento notevole. E' giovane, lo stiamo curando come si deve, non perda le speranze». Parlò così a lungo e in tono talmente persuasivo che il maitre gli disse riconoscente: «Non la ringrazierò mai abbastanza per quello che sta facendo per mio figlio, dottore». «E' il momento giusto» pensò Dario, con la bocca secca. «Anch'io ho da rivolgerle, a mia volta, una preghiera. Mi presti dei soldi, Martinelli, mi salvi!». No, non era questo che bisognava dire. A che serviva implorare pietà? Non si dà niente per niente! Lo sapeva bene, lui.
Aveva vissuto abbastanza per impararlo e non dimenticarselo più. «Il denaro è il denaro, lo capisco.
Ma perché non prova a scommettere su di me? Lei gioca alle corse, lo so.
Mi consideri un cavallo che potrebbe fruttarle il doppio, il triplo di quanto ha puntato su di lui.
Sono giovane e sano, ho una laurea, una solida competenza scientifica, una professione. Sono un buon medico.
Vede come sto curando bene suo figlio? Solo che qui non mi conosce nessuno. Sono circondato da esuli russi che mi fanno perdere tempo senza pagarmi. Ho anche qualche altro paziente, persone perbene. Si fidano di me. Continueranno a chiamarmi, ma non posso chiedere soldi a loro, non ancora! I medici presentano la parcella due volte l'anno, e ciò è ammesso, accettato, ma mostrare troppa fretta, palesare così la propria miseria... Ohibò, questo offende mortalmente gli esseri umani, è una mancanza di pudore, un'impazienza indecorosa, e però io non ho niente, non ho più niente! Devo saldare entro stamattina un debito di quattromila franchi, ma neanche questa somma basterà... Senta, Martinelli, scommetta su di me! Punti su di me! Mi presti diecimila franchi, mi conceda un anno di tempo per restituirglieli, e mi chieda pure tutti gli interessi che vuole! Magari lei sta pensando: "Tra un anno sarà allo stesso punto", ma non è così! Ho forza, coraggio, determinazione! Non è colpa mia se mi serve tanto tempo per farcela; sono partito da così in basso... Abbia fiducia in me. Un anno. Le chiedo soltanto un anno. Che cosa posso fare per lei? Ci rifletta su. Potrei esserle utile. Mi presti quei soldi e, all'occorrenza, troverà in me l'amico più devoto, più discreto... Mi aiuti!». Ange l'aveva ascoltato per tutto il tempo senza dire una parola. Il suo viso era una maschera impassibile, impenetrabile, la maschera dell'uomo a cui chiedi un prestito o un favore, e che ti lascerebbe morire sotto i suoi occhi senza fare un gesto per salvarti. A quella maschera, pensava Dario, bisognava abituarsi e non averne più paura! Bisognava intuire mediante quali astuzie, mediante quali insistenze, alla fine si arriva ad aprire una breccia in certe anime. Supplicando così, Dario si umiliava invano.
Era un'altra la strada da percorrere per arrivare al suo scopo. Riuscì a calmarsi. Cambiò espressione e assunse un'aria composta e dignitosa.
Ritrovò anche quello sguardo lucido e distaccato che i medici frappongono come uno schermo tra sé e i pazienti. «Non ne parliamo più.
Se non è disposto a farmi questo favore, sarò costretto ad abbandonare Nizza. Ma - mi ascolti bene, Martinelli - se c'è qualcuno al mondo che può salvare suo figlio, quello sono io. Era in punto di morte. Ora sta meglio. E migliorerà ancora. La febbre sta scendendo. Riprenderà peso, si alzerà dal letto, lo vedrà guarito. Ma se io me ne vado, se lei mi lascerà andare via, e se poi...». «Stia zitto» disse Martinelli con voce cupa. «Vuole darmela a bere, ma...». «Però stai tremando» pensò Dario.
«Se non si trova il punto debole, l'avversario non cede, rimane fermo sulle sue posizioni. E il punto debole di Ange è la speranza!». «Addio, Martinelli». «Aspetti, Dio santo, lei...». A partire da quell'istante, Dario si sentì tranquillo: avrebbe ottenuto ciò che voleva. Si sarebbe indebitato ancora di più. Di lì a un anno, la sua situazione sarebbe stata altrettanto difficile, ma per il momento aveva vinto. Avrebbe avuto i suoi diecimila franchi. Martinelli gli fece firmare un assegno postdatato al 31 marzo dell'anno successivo. Se entro dodici mesi Dario non avesse pagato, sarebbe stato perseguito per emissione di assegni a vuoto; ma chi ha sempre vissuto alla giornata non conosce la lungimiranza, virtù da ricchi, virtù da eroi. Dario firmò.
CAPITOLO 6.
Era il momento, sul finire della notte, in cui il gioco si avvia alla conclusione, il momento migliore, agli occhi di Philippe Wardes. Durante l'ultima mano di una partita le vincite e le perdite, per l'enormità stessa delle somme in ballo, smettono di suscitare cupidigia, disperazione o invidia; in pratica, smettono di esistere. Il corpo non sente più la fame né la stanchezza; l'anima si libera dalle preoccupazioni. E si raggiunge la felicità. Toccato il limite estremo della tensione nervosa, sopravviene una fase di calma in cui si gioca e, al contempo, ci si vede giocare, con distacco, immersi in una pace profonda. Wardes era cosciente della propria calma.
Pallido in volto, sapeva che la sua testa, imponente e ben fatta, si teneva dritta sulle spalle, che il suo collo non si piegava, non cedeva, che le sue mani, piccole e paffute come quelle di una donna, giravano le carte senza tremare. Grazie alla sua audacia, al suo coraggio, alla sua invulnerabilità, Wardes era padrone della situazione. Il piacere del rischio - piacere banale, nutrimento di anime mediocri - l'aveva superato da tempo. Per lui non c'erano rischi. Sapeva di essere in un momento fortunato. Sapeva che avrebbe vinto. E in effetti non perdeva un colpo.
Era sempre così quando arrivava la giornata giusta: non appena il volgo dei giocatori senza arte né parte si disperdeva, lui, che aveva resistito più a lungo degli altri, che aveva disdegnato i consigli degli amici, i patetici appelli alla prudenza (che cosa dicevano il suo notaio, sua moglie, il suo medico? «Lei si sta rovinando, si sta uccidendo!». Bah, lasciali parlare!), alla fine veniva premiato. Momento soprannaturale, in cui la creatura umana misura le proprie forze e sente che niente l'abbatterà, niente la fermerà. Le carte gli obbedivano. Il suo cuore batteva tranquillo e regolare come quello di un bambino. Con la temerarietà di un sonnambulo in bilico sul cornicione, proseguiva la partita, assistito dalla fortuna cieca. Ancora un'ora! Ancora un istante! Non aveva più corpo, né peso, né calore umano. Poteva librarsi in aria. Camminare sulle acque. Indovinava le carte che aveva in mano prima di vederle, prima di stringerle fra le dita. Peccato soltanto che quella luce insistente di fronte a lui, quella lampada bianca e accecante gli ferisse gli occhi. Ebbe un gesto d'impazienza e, come il sonnambulo che viene fermato sull'orlo dell'abisso da un ostacolo improvviso, tornò in sé. Si avvide a un tratto che gli ultimi giocatori intorno a lui avevano messo via le carte e che qualcuno aveva scostato le tende, sicché dalle vetrate aperte sulla rada entrava la luce del mattino. Il momento era passato. La notte era finita da un pezzo.
Smarrita, confusa, tremante, la sua anima tornava a un corpo stanco, pesante, coperto di sudore, assetato, e allora Wardes si sovvenne di tutto il denaro che aveva perso prima di essere baciato dalla fortuna.
Se ne rammaricò: quel giocatore sfrenato, nella vita quotidiana era «attaccato ai soldi», come dicevano i suoi operai. Philippe Wardes, il grande industriale meccanico per il quale il gioco era al contempo una necessità pubblicitaria e un'abitudine tirannica, non aveva niente in comune con il semidio che aveva albergato in lui per qualche ora e che adesso si era come dissolto, lasciandolo debole e privo di risorse.
Quello spirito libero e selvaggio l'aveva abbandonato, e Wardes avvertiva il solito dolore alla nuca, le fitte, la schiena indolenzita, e tutto l'amaro di una bocca di quarant'anni bruciata dall'alcol e dal tabacco. Ciò nonostante, riscosse i soldi della vincita e se li mise in tasca, dopo aver lasciato una mancia agli impiegati dello Sporting.
Scese le scale del casinò, accompagnato dal consueto coro di commenti dei croupier, dei fattorini e delle prostitute di Monte Carlo. «Da non crederci... Che fegato... Come fa a resistere così? L'avete visto ieri? Oggi vince a volontà. Ieri perdeva. E con quanta flemma incassa... Che fortuna... Nessuno regge il confronto... E' uno dei maggiori industriali francesi di oggi...».
Wardes li sentiva, beandosi ancora un po' di quegli incensamenti. Quando era così stanco, una stanchezza che per lui non era soltanto fisica ma che sembrava insinuarglisi fin dentro l'anima, solo gli elogi avevano il potere di rasserenarlo. Le parole di approvazione gli davano forza, sicurezza, erano l'unico appiglio reale in un mondo di finzione. Una donna che usciva dopo di lui dal casinò, in abito da sera, con il trucco ormai disfatto, gli passò accanto, lanciandogli l'ultima occhiata di quella notte - un'occhiata provocante, colma di trepida speranza. E come il pescatore deluso getta ancora una volta l'amo nel fiume, già in piedi sulla riva, già pronto ad andarsene, e pensa: «Chissà...», così lei, con un sorriso impudente, gli sussurrò in tono carezzevole: «E' bello per giunta!». Lui gonfiò ancora di più il petto e sollevò la testa pesante ma dalle fattezze aristocratiche. Era alto e muscoloso come un atleta, i folti capelli neri gli incorniciavano la fronte e le tempie disegnando tre punte, la bocca dalle labbra strette e sottili gli dava un'aria severa, imperiosa, ma il viso aveva un colorito livido, gli occhi erano cerchiati, e lo sguardo non si posava mai su nessuno, era sempre sfuggente, si distoglieva subito, come alla spasmodica ricerca di qualcosa, mentre una lieve e costante pulsazione gli faceva fremere la palpebra sinistra. Wardes fece cenno alla donna di seguirlo e attraversò la strada per rientrare in albergo.
Benché la sua residenza ufficiale fosse alla Caravelle - una villa a poca distanza da Cannes, nella quale abitavano la moglie e la figlia -, in realtà Wardes viveva in un hotel di Monte Carlo, dove aveva un appartamento riservato da cui si allontanava soltanto per andare al casinò. Dallo Sporting uscivano gli ultimi giocatori, la vecchia guardia. Era l'ora in cui la folla di donnine allegre, di fioraie e di galoppini finisce col disperdersi in vista del meritato riposo. La strada cominciava a popolarsi di bimbi in carrozzina e di massaie con un mazzo di violette fresche in cima alla sporta della spesa. Wardes, infastidito dall'aria e dalla luce che gli feriva gli occhi, vacillava.
Salendo la scalinata dell'albergo, aveva l'impressione che le ginocchia gli cedessero a ogni passo. Entrò insieme alla donna. Nella sua camera le persiane erano chiuse, i pesanti tendaggi tirati. Certi appartamenti dell'albergo erano come circondati da una cortina di silenzio per proteggere il prezioso sonno dei clienti, sonno che si prolungava fino al tardo pomeriggio.
Wardes trovò sul comodino un messaggio da parte della moglie, che gli aveva telefonato. Non aveva alcuna intenzione di richiamarla. Lei c'era abituata. Ripose al sicuro i soldi della vincita e tornò dalla donna, che lo aspettava esultante: beccare Wardes era stato un colpaccio. E lei era una donnina che amava i lavori ben fatti.
«Spenderà bene il suo denaro» pensava, con l'intimo compiacimento che nasce dalle migliori intenzioni. «Attenta, però: più soldi hanno, più spilorci sono» le aveva ripetuto spesso la madre.
Ma lui non pretese granché. Di lì a poco la donna dormiva. Solo lei. Eppure, quella notte, Wardes aveva sperato di prendere sonno, cosa che a Parigi e nella casa di Cannes non gli riusciva. A volte, dopo aver giocato al casinò, quando meno se lo aspettava, quando già si era rassegnato all'insonnia e mentre ancora pensava: «Non dormo. Non dormirò», ecco che sprofondava, colava a picco nel vuoto fresco delle tenebre, ecco che moriva per poi ritornare alla luce, incredulo di aver dormito. Sospirò profondamente e strinse il guanciale con forza, come quando ci si aggrappa a un amico, come un bambino fra le braccia della nutrice, cercando il punto più fresco del tessuto, sprimacciandolo con le mani, premendovi la fronte e il resto del viso; poi chiuse gli occhi e aspettò con pazienza che si compisse il miracolo. Ma non riusciva ad addormentarsi. Si girò sul fianco, cercò a tastoni la bottiglia di Perrier ghiacciata e si versò da bere. Ogni sera gli lasciavano una scorta di acqua frizzante sul comodino: aveva sempre la gola arsa. Bevve, gettò a terra il guanciale e si distese sul dorso, seminudo, con le mani incrociate sul petto, come da bambino. Brutti ricordi per lui, quelli infantili... La casa tenebrosa di Dunkerque, dove era nato, il rumore della pioggia sui vetri, la gelida camera dal soffitto alto in cui suo padre lo costringeva a dormire... Era figlio di un industriale del Nord, di origine belga, e di una polacca che aveva abbandonato il marito per seguire un compatriota: l'amante della madre faceva il musicista in un teatro di provincia ed era passato da Dunkerque durante una tournée. Il marito tradito si vendicava della moglie colpevole perseguitando e punendo con durezza il bambino innocente. In quella camera di provincia, ampia e buia, in quel grande letto che scricchiolava e gemeva a ogni movimento, Wardes aveva maturato il suo odio per la solitudine, il suo bisogno di avere accanto durante la notte un essere vivente, uno qualunque, una donna o un cane, ma che lui potesse svegliare e cacciare via non appena quella presenza, quel corpo, quel respiro gli diventavano insopportabili. Lei, la donna che Wardes aveva raccolto per strada e che si era portato a letto, dormiva.
Giaceva al suo fianco, pesante e inerte come una pietra. Wardes tentò di imitarla costringendosi all'immobilità assoluta. Era sul punto di addormentarsi, si sarebbe addormentato. Sentiva il sonno fluire verso di lui come un'acqua quieta e profonda che gli si insinuava nelle vene sciogliendo quel grumo di paura, di rabbia e di angoscia che aveva nel petto. Sorrise; già gli scorrevano in mente immagini sfocate: il tavolo verde della sala da gioco, le luci che ora si ingrandivano e ora si dissolvevano in lontananza, alcuni volti pallidi chini su di lui. Li guardava uno per uno senza riconoscerli e pensava: «Ecco, mi sono addormentato. Se queste facce mi sono sconosciute, significa che non sono ricordi, ma visioni, sogni...». E invece si svegliò di colpo, come se qualcuno lo avesse strattonato. Si drizzò a sedere sul letto, accese la lampada e guardò l'orologio che aveva buttato sul pavimento insieme agli spiccioli, all'accendino, al fazzoletto e alle chiavi. Aveva dormito solo pochi minuti, cinque o dieci al massimo. Per un istante sperò che l'orologio si fosse fermato, ma no! Il sonno era svanito e non sarebbe tornato.
Rimase immobile ancora per qualche secondo. Come gli batteva forte il cuore! Ascoltava quel battito accelerato e pensava: «No, non è possibile! Non posso sopportare ancora a lungo questa tortura... quest'insonnia... Morirò...». Ma pensare alla morte era orribile. Pensare alla morte era più orribile della morte stessa.
Respinse con un gesto brusco la coperta e si alzò. Andò in bagno e si spruzzò un po' d'acqua fredda sul petto e sul viso. Aveva acceso tutte le luci e ora osservava sgomento in ogni specchio quel volto che nessuno mai vedeva, quel volto segnato dalla fatica e dalla solitudine. Lo sguardo spaventato, la bocca tremante... Era questo, Wardes, il bel Wardes? Era facile vantare una resistenza fisica eccezionale, facile dire ai propri sottoposti: «Sapete, io ho dimenticato che cos'è il sonno. Non è più un problema per me. Mentre voi dormite, io lavoro».
Anche quella notte si disse animosamente: «Visto che non posso dormire, lavoriamo». Prese alcune pratiche, si sedette al ridicolo scrittoio da signora che si trovava nel salottino attiguo alla camera da letto, scorse e annotò un paio di pagine, poi le mise da parte. Niente da fare: impossibile lavorare! Non riusciva a concentrarsi su quel che leggeva.
Aveva la mente altrove, i pensieri gli sfuggivano e, incuranti dei suoi sforzi sovrumani, se ne andavano liberi per la loro strada, una strada già percorsa mille volte. L'insonnia gli generava un'angoscia che sulle prime si traduceva in uno strano nervosismo, in una specie di malumore, poi in una incontenibile agitazione interiore che lo lasciava tremante e indifeso, e alla fine in paura. Che cosa temeva? L'ansia lo soffocava.
Adesso gli facevano male gli occhi; immaginò un afflusso di sangue alla retina, un calo della vista, il peggiorare dei sintomi, la cecità. Lo immaginò con tanta forza che le luci parvero sdoppiarsi, vacillare, velarsi al suo sguardo. Si passò una mano sulle palpebre. «Non è vero.
Non è possibile! Perché ho paura? Non è possibile! E' un timore infondato, come se mi preoccupassi di vedere il soffitto aprirsi e i muri crollarmi addosso». Finì col girarsi lentamente verso lo specchio.
Che cosa avrebbe visto? Con ogni probabilità due occhi gonfi, tumefatti, da cui colavano lacrime di sangue. E invece no, nient'affatto! Erano occhi arrossati per la mancanza di sonno e per il denso fumo della sala da gioco: li scorgeva nello specchio, dilatati dal terrore ma intatti.
Qualche minuto dopo rifletté sul fatto che il fumo nuoceva non solo agli occhi ma anche ai polmoni. Spesso aveva come un peso sul petto. Lui, che un tempo batteva tutti i suoi amici nella corsa, ansimava salendo le scale! Si stava uccidendo. Aveva il cuore malandato. E stava sperperando le proprie energie. Ancora un anno, ancora sei o sette mesi, e si sarebbe ammalato, e... Ma a quel punto la sua mente si tirava indietro, si impennava come un cavallo spaventato. Il pensiero della morte apriva la strada a ciò che temeva di più in assoluto: il terrore puro, irrazionale, la sensazione di una minaccia sconosciuta dalla quale l'anima nuda e trafelata può difendersi solo con un vano sforzo disperato, con un atto di violenza, di follia, con un urlo, con un assassinio... Wardes corse fuori dalla camera e spalancò la finestra.
Era giorno fatto. Questo lo salvò. Non avrebbe potuto sopportare la notte, il silenzio, la profondità delle tenebre. La luce di mezzogiorno rendeva tutto più bello e amichevole; il vento che soffiava dalla rada lo calmò. Adesso che il peggio era passato, che la crisi era stata superata, poteva chiudere le persiane, tirare le tende e addormentarsi.
Tornò nella sua camera e si buttò sul letto, ma ormai era troppo tardi.
Si era abbandonato ai demoni. E loro, complice l'insonnia, gli si erano insinuati nell'anima. Si prendevano gioco di lui. Se lo lanciavano l'un l'altro come una palla. Lo catapultavano dall'angoscia a una rabbia omicida. Era perduto, indifeso, solo, alla deriva. Da bambino si svegliava di notte, e a poco a poco il suo panico cresceva al punto che poteva liberarsene soltanto emettendo suoni inarticolati, grida selvagge. E allora gridava, sapendo che il padre sarebbe venuto a picchiarlo. Aveva di nuovo sete; la bottiglia era vuota. Ne prese un'altra, predisposta in un secchiello del ghiaccio sul tavolo. Fece saltare il tappo verso il soffitto. Il rumore svegliò la donna, che gli disse qualcosa. Lui non rispose. Allora lei si stiracchiò e sorrise.
Quel moto di piacere, quel benessere... Avrebbe pianto dall'invidia. Si distese accanto a lei. Oh, addormentarsi, scivolare nell'incoscienza, assopirsi, fosse pure per un istante! Tenere sotto scacco quella belva feroce pronta a balzargli fuori dal petto. Sentiva montare dentro di sé, con forza irrefrenabile, una furia selvaggia, quasi folle. La donna gli aveva voltato le spalle e si era riaddormentata. Aveva il respiro irregolare, affannoso, sibilante, inframmezzato da sordi gemiti, come chi soffre di bronchite cronica. Quei deboli rantoli non sfuggivano all'orecchio esasperato di Wardes. Lui li aspettava, li sentiva arrivare, li commentava con un sogghigno e tornava ad aspettarli sospirando con astio: «Che puttana!». Allora la svegliò e la spinse fuori dal letto. La donna lanciò un urlo. «Che ti prende, tesoro? Stai male?». «Fuori dai piedi!». «Ma che vuoi?
Non t'ho detto una parola! E che siamo, cani? Fuori dai piedi... Fuori dai piedi... Non ho fatto niente! Mica ti ho rubato dei soldi, o che so io... E poi non mi hai neanche pagato!». Intanto si affrettava a rivestirsi; indossava una succinta sottoveste di seta rosa ricamata di farfalle nere che lasciava scoperti sulla schiena e sulle spalle i segni delle coppette per la cura della tubercolosi.
Wardes scoppiò a ridere e mosse qualche passo verso di lei. Aveva un'espressione così minacciosa che la donna si parò il viso con il braccio, come un bambino che vuole proteggersi dagli schiaffi. Wardes vedeva il suo spavento e ne era felice, si sentiva il cuore leggero. «Su, più veloce!». Si divertiva ad aumentare la sua confusione. Le gettò i vestiti fra le gambe.
Insopportabile, quella donnaccia, quel miserabile ammasso di carne flaccida! Aveva dormito nel suo letto. Gli dava il voltastomaco. «E' l'ultima volta, non le lascerò mai più restare, dopo»
pensava. Ma sapeva bene che stare da solo gli faceva paura. Le lanciò una manciata di banconote. Lei le raccattò.
Adesso Wardes non parlava più. Di colpo lei si mise a insultarlo. Lui afferrò la bottiglia vuota e gliela tirò in testa. Poi piombò in uno stato di semincoscienza al contempo reale e simulata. A tratti sentiva e vedeva. Percepiva le urla della donna. Vide entrare nella camera il direttore dell'albergo e, di lì a poco, anche Dario, chiamato su raccomandazione di Ange Martinelli. Era consapevole delle cure che gli prodigavano, ma in certi momenti gli rintronava in testa un suono di campane. Ogni cosa intorno spariva. Rimaneva soltanto un rumore sordo e ritmato proveniente dalle profondità del suo essere; Wardes lo ascoltava perplesso, finché non si rese conto che a battere così era il suo cuore affaticato. Si riebbe. Era solo con Dario. «Chi ha avuto la bizzarra idea» si chiese «di chiamare questo medicastro sconosciuto, dal viso e dall'accento straniero, questo immigrato malvestito che non si è neanche fatto la barba?». Lo respinse con un gesto brusco. «Sto meglio adesso...
Non ho bisogno di niente. Se ne vada, per favore!». Ma Dario disse: «Non è la prima volta che le succede, vero?». A un tratto Wardes non lo trovò più così ridicolo. Sul suo viso passò un lieve fremito. Non rispose. «Si sente come liberato, e non c'è prezzo troppo alto per questo, neanche un delitto...» mormorò il medico guardandolo negli occhi. «Dottore...». Il medico si chinò su di lui, pronto a raccogliere le sue confessioni, a guidarlo, a sostenerlo. «Che cosa devo fare, dottore?». Allora Dario ebbe paura: quell'uomo era troppo ricco. Lo avevano chiamato solo per soccorrere la donna ferita e medicare Wardes che si era procurato un paio di tagli profondi stringendo fra le mani le schegge di vetro, ma lui non era il suo medico curante.
Temeva di urtare la suscettibilità di qualche luminare dando l'impressione di fargli concorrenza.
Esitò. «Non si è mai rivolto a uno specialista di malattie nervose?» chiese. Wardes non rispose.
Dario aveva distolto lo sguardo. «La persona che era con lei è ferita in modo non grave» disse.
«Lo so. Mentre la colpivo facevo attenzione a non avvicinarmi troppo agli occhi né alla gola».
«Che cosa dice il suo medico?» chiese Dario. Wardes rispose in tono secco: «"Non giochi. Non fumi. Si mantenga casto, tranquillo, sobrio". Ecco che cosa dice. Un imbecille mi ha consigliato di ritirarmi in campagna e di coltivare il mio giardino. Per ascoltarli dovrei avere un'altra anima e un altro corpo. Non ho bisogno di loro». «Eppure, signor Wardes, bisogna scegliere fra una vita sregolata, che è un pericolo per il corpo e per l'anima, e una vita relativamente appagante, ma...». Wardes si girò dall'altra parte con un'espressione stanca, annoiata. «Questa l'ho già sentita» sembrava dire. «E roba vecchia, risaputa, inutile, soprattutto inutile...». «Quanto le devo, dottore?» disse a voce alta. Ricevuta la parcella, Dario se ne andò.
CAPITOLO 7.