Delillo cosmopolis
capitolo primo
Ora il sonno lo abbandonava più spesso, non una o due bensì quattro, cinque volte la settimana. Che cosa faceva in quei momenti ? Non passeggiava a lungo dentro gli arabeschi dell'alba. Non aveva un amico tanto intimo da sopportare il tormento di una telefonata. Cosa dirgli ? Era una questione di silenzi, non di parole.
Cercava di leggere fino ad addormentarsi, ma riusciva solo a sentirsi più sveglio. Leggeva scienza e poesia. Gli piacevano le poesie scarne collocate minuziosamente nello spazio bianco, file di tratti alfabetici impressi a fuoco nella carta. Le poesie lo rendevano cosciente del proprio respiro. L'essenzialità della poesia gli rivelava in un attimo cose che normalmente non notava. Questa era la sfumatura di ogni poesia, almeno per lui, di notte, in quelle lunghe settimane, un respiro dopo l'altro, nella stanza ruotante in cima all'appartamento a tre piani.
Una notte cercò di dormire in piedi, nella sua cella di meditazione, ma non ci riuscì, non era un vero adepto, non era un monaco. Aggirò il sonno e si arrotondò in posizione di equilibrio, una calma senza luna in cui ogni forza veniva bilanciata da un'altra. Fu un sollievo brevissimo, una piccola pausa nell'agitarsi di identità irrequiete.
Non c'era risposta alla domanda. Aveva provato sedativi e ipnotici, ma lo rendevano dipendente, lo precipitavano dentro strette spirali interiori. Ogni sua azione era sintetica, ossessionata dal proprio fantasma. Anche il più pallido pensiero recava un'ombra ansiosa. Cosa faceva?
Non consultava un analista impassibile nella sedia di cuoio. Freud è finito, adesso tocca a Einstein. Stava leggendo la Teoria Speciale quella notte, in inglese e tedesco, ma mise da parte il libro, infine, e giacque completamente immobile, sforzandosi di pronunciare la parola che avrebbe spento le luci. Nulla esisteva intorno a lui. C'era soltanto il rumore nella sua testa, la mente nel tempo.
Sarebbe morto ma non sarebbe finito. Il mondo sarebbe finito.
Era davanti alla finestra e vedeva sorgere il grande giorno. Lo sguardo attraversava ponti, stretti e baie e si spingeva oltre i quartieri e i lindi sobborghi al dentifricio fino a estensioni di terra e cielo che si potevano definire solo profonda distanza. Non sapeva cosa voleva. Era ancora buio giù sul fiume, semibuio, e vapori cinerei ondeggiavano sopra le ciminiere lungo la riva opposta. Pensò che le puttane avessero abbandonato gli angoli rischiarati dai lampioni, ormai, sculettando come anatre, mentre altri arcaici commerci si mettevano in moto, i camion degli ortaggi uscivano dai mercati, i camion dei giornali dalle banchine di carico. Che i furgoni del pane stessero attraversando la città e qualche sporadica macchina uscita dalla bolgia serpeggiasse lungo le avenue, pompando suoni violenti dalle casse dello stereo.
Una cosa assolutamente nobile, un ponte sopra un fiume, e il sole che comincia a ruggire alle sue spalle.
Guardò un centinaio di gabbiani seguire una chiatta che avanzava dondolando lungo il fiume. Avevano cuori grandi e forti. Lo sapeva, sproporzionati al resto del corpo. Un tempo li aveva studiati ed era riuscito a padroneggiare gli innumerevoli dettagli dell'anatomia degli uccelli. Gli uccelli hanno le ossa cave. Riusciva a padroneggiare le materie più ardue nello spazio di metà pomeriggio.
Non capiva cosa voleva. Poi capì. Voleva tagliarsi i capelli.
Rimase li ancora un po', a guardare un gabbiano solitario sollevarsi e fluttuare in un ricciolo d'aria, ammirando l'uccello, entrandogli dentro per cercare di conoscerlo, sentendo il vigoroso, assiduo battito del suo famelico cuore di saprofago.
Indossava giacca e cravatta. La giacca attenuava l'ampiezza del petto ipersviluppato. Gli piaceva fare ginnastica di notte, trascinando attrezzi carichi di pesi, flettendosi e distendendosi sulla panca in stoiche ripetizioni che sgretolavano i tumulti e le costrizioni della giornata.
Attraversò l'appartamento, quarantotto stanze. Lo faceva quando si sentiva indeciso e depresso, procedendo a grandi passi oltre la piscina, la sala da gioco, la palestra, oltre la vasca dello squalo e la sala di proiezione. Si fermò davanti al recinto dei borzoi e parlò ai suoi cani. Poi andò nello studio, dove c'erano valute da seguire e ricerche da esaminare.
Lo yen era salito durante la notte, contro ogni previsione.
Tornò in casa, camminando piano, adesso, e si soffermò in ogni stanza, assorbendo quello che conteneva, osservando intensamente, trattenendo ogni particella di energia sotto forma di raggi e onde.
L'arte alle pareti era soprattutto a campi di colore e geometrica, grandi tele che dominavano le stanze e conferivano una quiete religiosa all'atrio con il soffitto a lucernario, gli alti quadri bianchi e il gocciolio della fontana. L'atrio possedeva la tensione e la suspense di uno spazio torreggiante, e richiedeva un devoto silenzio per essere visto e percepito in modo adeguato, una moschea di passi attutiti e colombi mormoranti nella cupola.
Gli piacevano i quadri che i suoi ospiti non sapevano come guardare. I quadri bianchi riuscivano incomprensibili a molti, strisce di colore mucoidale applicate con la spatola. L'opera era ancora più pericolosa per il fatto di non essere nuova. Non c'è più pericolo nel nuovo.
PARTE PRIMA
PARTE PRIMA
Scese nell'atrio di marmo con l'ascensore che diffondeva Satie. Aveva la prostata asimmetrica. Uscì e attraversò la avenue, poi si girò a guardare l'edificio in cui abitava. Lo sentì contiguo a se stesso. Erano ottantanove piani, un numero primo, con un ordinario rivestimento di vetro bronzo pallido. Avevano in comune un margine o confine, grattacielo e uomo. Era alto duecentosettanta metri, la più alta torre residenziale del mondo, un banale edificio oblungo forte soltanto della propria grandezza. Possedeva quel genere di banalità che col tempo si rivela assolutamente brutale. Gli piaceva per questo. Gli piaceva guardarlo quando si sentiva così. Si sentiva guardingo, assonnato e incorporeo.
Un vento tagliente arrivava dal fiume. Tirò fuori il palmare e digitò un appunto sulla qualità anacronistica della parola grattacielo. Nessuna struttura recente avrebbe dovuto portare quel nome. Apparteneva all'anima antica della meraviglia e della paura, alle torri aguzze di cui si narrava molto prima che lui nascesse.
Il palmare stesso era un oggetto la cui cultura d'origine era quasi scomparsa. Sapeva che avrebbe dovuto buttarlo via.
La torre gli dava forza e profondità. Sapeva cosa voleva, tagliarsi i capelli, ma rimase ancora un po' nel rumore che saliva dalla strada e osservò la massa e le dimensioni della torre. La superficie aveva la sola dote di sfiorare e piegare la luce del fiume e mimare i flussi del cielo aperto. Possedeva un'aura di consistenza e riflesso. Percorse la facciata con lo sguardo e sentì il legame che la univa a lui, la condivisione della superficie e dell'ambiente che entrava in contatto con la superficie, da entrambe le parti. Una superficie separa l'interno dall'esterno e appartiene all'uno non meno che all'altro. Aveva riflettuto sulle superfici una volta, sotto la doccia.
Si mise gli occhiali da sole. Poi riattraversò la avenue e si avvicinò alle file di limousine bianche. C'erano dieci auto, cinque allineate lungo il marciapiede davanti alla torre, sulla Prima Avenue, e cinque nella strada laterale, rivolte a ovest. A una prima occhiata le macchine erano identiche. Forse alcune erano più lunghe di qualche centimetro, a seconda dei dettagli del lavoro di allungamento e delle particolari esigenze del proprietario.
Gli autisti fumavano e chiacchieravano sul marciapiede, a capo scoperto, in abiti scuri, condividendo una solerzia che sarebbe diventata evidente solo in retrospettiva, quando gli occhi si sarebbero accesi nel loro volto e avrebbero gettato la sigaretta e abbandonato gli atteggiamenti rilassati, una volta individuato l'oggetto delle loro attenzioni.
Per adesso parlavano, con un accento, alcuni, o nella lingua madre, altri, e aspettavano il finanziere, il lottizzatore, lo speculatore, l'imprenditore di software, il signore globale delle Tv via satellite e via cavo, l'agente di sconto, il boss dei media dal naso adunco, il leader in esilio di qualche desolato panorama di carestia e guerra.
Nel parco oltre la strada c'erano alberi stilizzati in ferro battuto e fontane di bronzo con monetine iridescenti sparse sul fondo. Un uomo vestito da donna portava a spasso sette cani eleganti.
Gli piaceva il fatto che le macchine fossero indistinguibili. Voleva quel tipo di macchina perché la considerava una replica platonica, leggerissima nonostante le dimensioni, un'idea più che un oggetto. Ma sapeva che questo non era vero. Era una cosa che diceva per far colpo e non ci credeva neanche per un istante. Ci credeva per un istante ma non di più. Voleva la macchina perché non solo era smisurata, ma lo era in modo aggressivo e sdegnoso, metastatizzante, un enorme oggetto mutante che sovrastava ogni obiezione.
Il capo della sicurezza apprezzava quella macchina per il suo anonimato. Le lunghe limousine bianche erano ormai le vetture più ignorate della città. Stava aspettando sul marciapiede adesso, Torval, calvo e senza collo, un uomo con la testa che sembrava staccabile per manutenzione.
- Dove? - disse.
- Voglio tagliarmi i capelli.
- Il presidente è in città.
- Non ci interessa. Dobbiamo tagliarci i capelli. Dobbiamo attraversare la città.
- Troveremo un gran traffico, avanzeremo a passo d'uomo.
- Tanto per saperlo. Di quale presidente stiamo parlando ?
- Stati Uniti. Ci saranno transenne, - disse Torval. - Intere strade cancellate dalla mappa.
- Indicami la mia macchina, - disse Eric. L'autista teneva lo sportello aperto, pronto a girare di corsa intorno all'auto fino all'altro sportello, a dieci metri di distanza. Dove finiva la fila di limousine bianche, parallela all'ingresso della Japan Society, cominciava un'altra fila di macchine, le berline, nere o blu scuro, i cui autisti aspettavano membri di missioni diplomatiche, delegati, consoli e attaché in occhiali da sole.
Torval prese posto con l'autista sul sedile anteriore, dove c'erano schermi di computer inseriti nel cruscotto e un display a visione notturna nella parte inferiore del parabrezza, il risultato della telecamera a infrarossi collocata nella griglia del radiatore.
Shiner aspettava dentro l'auto, il suo esperto di tecnologia, piccolo e con la faccia da bambino. Eric non lo guardava più. Non lo guardava da tre anni. Una volta che l'avevi guardato, non c'era nient'altro da sapere. Lo conoscevi fino al midollo in un istante. Indossava i soliti jeans e camicia sbiaditi e sedeva nella solita posa masturbatoria.
- Allora, ci sono novità ?
- Il nostro sistema è sicuro. Siamo impenetrabili. Non c'è nessun hacker sulle nostre tracce, - disse Shiner.
- Eppure si direbbe.
- Eric, no. Abbiamo fatto tutti i test. Nessuno sta sovraccaricando il sistema o manipolando i nostri siti.
- Quando abbiamo fatto i test ?
- Ieri. Alla Centrale. La nostra squadra di risposta rapida. Non ci sono punti di accesso vulnerabili. Il nostro assicuratore ha fatto un'analisi di rischio. Siamoprotetti contro ogni attacco.
- Dappertutto. -Si.
- Compresa la macchina.
- Compresa, assolutamente, si.
- La mia macchina. Questa macchina.
- Eric, si, ti prego.
- Siamo insieme, io e te, fin dai primissimi tempi. Voglio che tu mi dica che hai ancora la fibra adatta per questo lavoro. La determinazione.
- Questa macchina. La tua macchina.
- La volontà inflessibile. Perché continuo a sentir parlare della nostra leggenda. Siamo tutti giovani e in gamba e siamo stati allevati dai lupi. Ma il fenomeno dellareputazione è una cosa delicata. Una persona emerge su una parola e precipita su una sillaba. So che sto chiedendo all'uomo sbagliato.
-Cosa?
- Dov'è andata la macchina ieri sera dopo che abbiamo fatto i test ?
- Non lo so.
- Dove vanno tutte queste limousine di notte ? Shiner sprofondò senza speranza negli abissi di quella domanda.
- Dove vanno tutte queste limousine di notte ? Shiner sprofondò senza speranza negli abissi di quella domanda.
- So che sto cambiando argomento. Ultimamente non dormo molto. Guardo libri e bevo brandy. Ma che ne è di tutte le limousine che di giorno si aggirano per lacittà pulsante ? Dove passano la notte ?
La macchina si bloccò nel traffico prima di raggiungere la Seconda Avenue. Era seduto sulla poltroncina nel retro dell'abitacolo e guardava le file di monitor. C'erano accozzaglie di dati su ogni schermo, simboli scorrevoli e diagrammi svettanti, numeri policromi pulsanti. Assimilò quel materiale in un paio di lunghi, immobili secondi, ignorando il suono dei discorsi che scaturivano da teste laccate. C'erano un microonde e un monitor cardiaco. Guardò la spycam sul perno girevole e la spycam gli restituì lo sguardo. Un tempo quello era uno spazio telecomandato, ma adesso quel tempo era finito. Il contesto non richiedeva alcun intervento tattile. Poteva avviare la maggior parte dei sistemi operativi con la voce, o spegnere uno schermo con un gesto.
Un taxi si insinuò accanto a loro, con l'autista che pigiava sul clacson. Questo diede il via a un centinaio di altri clacson.
Shiner si agitò sul sedile pieghevole accanto all'armadietto dei liquori, rivolto verso il retro dell'auto. Beveva spremuta d'arancia con una cannuccia di plastica che sporgeva ad angolo ottuso dal bicchiere. Sembrava fischiettare qualcosa nello stelo della cannuccia fra un sorso e l'altro.
Eric disse: - Cosa?
Shiner alzò la testa.
- Non hai mai la sensazione di non sapere cosa stia succedendo ? - disse.
- Dovrei chiederti cosa intendi dire ?
Shiner parlava dentro la cannuccia come se fosse una trasmittente di bordo.
- Tutto questo ottimismo, questo espandersi e crescere. Le cose accadono di botto. Contemporaneamente. Metto fuori la mano e cosa sento ? So che ci sonomigliaia di cose da analizzare ogni dieci minuti. Modelli, rapporti, indici, intere mappe di informazioni. Adoro le informazioni. Tutto questo è il nostro zucchero e miele. È un'assoluta meraviglia. E abbiamo un significato nel mondo. La gente mangia e dorme all'ombra di quello che facciamo. E tuttavia, cosa?
Ci fu una lunga pausa. Alla fine guardò Shiner. Che cosa gli disse? Non gli rivolse un'osservazione brusca e tagliente. Non disse proprio nulla, in effetti.
Sedevano nel crescendo dei clacson. C'era qualcosa in quel rumore di cui non voleva desiderare la fine. Era la nota di un dolore fondamentale, un lamento così antico da sembrare aborigeno. Pensò alle urla rituali di uomini irsuti, in gruppo, unità sociali fondate per uccidere e mangiare. Carne rossa. Quello era il richiamo, il bisogno angoscioso. Il frigorifero conteneva bevande, oggi. Niente di solido per il microonde. Shiner disse: - C'è una ragione particolare per cui siamo in macchina invece che in ufficio ?
- Come fai a sapere che siamo in macchina invece che in ufficio ?
- Se rispondo a questa domanda.
- Che si basa su quali presupposti ?
- So che dirò una cosa per metà intelligente ma in gran parte futile e probabilmente in qualche modo inesatta. Allora mi compatirai per il fatto di essere nato.
- Siamo in macchina perché voglio tagliarmi i capelli.
- Fai venire il barbiere in ufficio. Fatteli tagliare in ufficio. Oppure fallo salire in macchina. Ti tagli i capelli mentre vai in ufficio.
- Un taglio di capelli comprende. Associazioni mentali. Calendario alla parete. Specchi dappertutto. Qui non c'è la sedia da barbiere. Nulla che ruoti tranne laspycam.
Cambiò posizione sulla poltroncina e osservò gli aggiustamenti della telecamera di sorveglianza. Un tempo la sua immagine era accessibile quasi in ogni momento, teletrasmessa in tutto il mondo dall'auto, dall'aereo, dall'ufficio e da punti scelti del suo appartamento. Ma c'erano questioni di sicurezza da considerare, e adesso la telecamera funzionava a circuito chiuso. Un'infermiera e due guardie armate tenevano costantemente sotto controllo tre monitor in una stanza senza finestre nell'ufficio. La parola ufficio era ormai superata. Aveva zero saturazione.
Guardò fuori dal finestrino polarizzato alla sua sinistra. Gli ci volle un momento per riconoscere la donna sul sedile posteriore del taxi accanto. Era sua moglie da ventidue giorni, Elise Shifrin, una poetessa che vantava diritti dinastici sul favoloso patrimonio bancario europeo e mondiale degli Shifrin.
Trasmise una parola in codice a Torval sul sedile anteriore. Poi scese in strada e bussò al finestrino del taxi. Lei lo guardò e gli sorrise, sorpresa. Aveva venticinque o ventisei anni, tratti delicatamente scolpiti e grandi occhi ingenui. La sua bellezza aveva una componente di distacco. Questa era una cosa affascinante, o forse no. Teneva la testa leggermente protesa in avanti sul collo esile. Rideva in modo inatteso, una risata un po' stanca e vissuta, e si portava un dito alle labbra quando voleva sembrare pensierosa, un gesto adorabile. Le sue poesie facevano schifo.
Scivolò di lato e lui le sedette accanto. I clacson tacevano e riprendevano a suonare in cicli rituali. Poi il taxi sfrecciò in diagonale oltre l'incrocio fino a un punto appena a ovest della Seconda Avenue, dove incontrò un'altra impasse, mentre Torval lo seguiva di corsa.
- Dov'è la tua macchina?
- Non riusciamo a trovarla, a quanto pare.
- Ti offrirei un passaggio.
- No. Assolutamente. So che tu lavori en mute. E a me piacciono i taxi. Non sono mai stata brava in geografia, e imparo molte cose chiedendo ai tassisti da dovevengono.
- Vengono da orrore e disperazione.
- Già, proprio così. Si imparano molte cose sui paesi politicamente instabili viaggiando nei taxi di questa città.
- Non ti vedo da un po'. Ti ho cercata stamattina.
Si tolse gli occhiali da sole, un gesto a effetto. Lei lo scrutò in volto. Lo guardò intensamente, con ferma attenzione.
- Hai gli occhi azzurri, - gli disse.
Lui le prese la mano e se la portò al viso, annusandola e leccandola. Al volante c'era un sikh con un dito mozzato. Eric osservò il moncherino, impressionante, una cosa seria, una rovina corporea che portava con sé storia e dolore.
- Già fatto colazione ?
- No, - disse lei.
- Bene. Ho voglia di qualcosa di spesso e gommoso.
- Non mi hai mai detto di avere gli occhi azzurri. Sentì la statica della sua risata. Le morsicò la nocca del pollice e aprì la portiera, e insieme attraversarono ilmarciapiede fino al caffè all'angolo.
Si sedette con le spalle alla parete e guardò Torval piazzarsi accanto all'ingresso, da dove aveva un'ampia visuale della stanza. Il locale era affollato. Sentì parole isolate in francese e somalo filtrare attraverso il rumore di fondo: la caratteristica di quel tratto della Quarantasettesima Strada. Donne di colore in tunica avorio camminavano nella brezza del fiume verso il segretariato delle Nazioni Unite. Torri residenziali denominate L'Ecole e Octavia. Bambinaie irlandesi spingevano passeggini nei parchi. Ed Elise naturalmente, svizzera o qualcosa del genere, seduta di fronte a lui.
- Di cosa parliamo? - gli disse.
Era seduto davanti a un piatto di pancake e salsicce, in attesa che il quadratino di burro si sciogliesse per spanderlo nel torpido sciroppo con la forchetta e guardare il liquido vischioso inondare i segni lasciati dai rebbi. Capì che si trattava di una domanda seria.
- Vogliamo un eliporto sul tetto. Ho acquistato i diritti sullo spazio aereo ma adesso devo ottenere una variazione di zona. Non ti va di mangiare?
- Vogliamo un eliporto sul tetto. Ho acquistato i diritti sullo spazio aereo ma adesso devo ottenere una variazione di zona. Non ti va di mangiare?
Sembrava che la disgustasse, il cibo. Tè verde e pane tostato intatti davanti a lei.
- E un poligono di tiro vicino al pozzo dell'ascensore. Parliamo di noi.
- Io e te. Siamo qui. Quindi potremmo anche.
- Quando faremo sesso di nuovo ?
- Lo faremo. Te lo prometto, - disse lei.
- È un po' che non lo facciamo.
- Quando lavoro, vedi, l'energia è preziosa.
- Quando scrivi. -Si.
- E dove vai a scrivere ? Io ti cerco, Elise.
Guardò Torval muovere le labbra a nove metri di distanza. Stava parlando dentro un microfono nascosto nel risvolto. Portava un auricolare. Il telefono cellulare era assicurato sotto il giubbotto, non lontano dall'arma da fuoco ad attivazione vocale, di fabbricazione ceca, un altro emblema del tenore internazionale del quartiere.
- Mi rannicchio da qualche parte. L'ho sempre fatto. Mia madre mandava la gente a cercarmi, - disse lei. - Cameriere e giardinieri perlustravano casa e giardino.
Pensava che potessi sciogliermi nell'acqua.
- Mi piace tua madre. Hai i seni di tua madre. i suoi seni.
- Magnifiche tette sode, - disse lui.
Mangiò velocemente, aspirando il cibo. Poi mangiò quello di Elise. Gli sembrava di sentire il glucosio penetrare nelle cellule, a sostentare gli altri appetiti del corpo. Fece un cenno al proprietario del locale, un greco di Sa-mo, che rispose dal banco agitando la mano. Gli piaceva quel posto perché Torval non voleva che ci venisse.
- Dimmi una cosa. Dove vai adesso? - chiese lei. - A una riunione da qualche parte ? In ufficio ? Dov'è il tuo ufficio? Cosa fai di preciso?
Lo scrutava da sopra le mani giunte, un ponte che nascondeva il sorriso.
- Tu sai le cose. Credo che sia questa la tua attività, - disse. - Credo che tu sia dedito al sapere. Che ti procuri informazioni e le trasformi in qualcosa di sorprendente e terribile. Sei una persona pericolosa. Non trovi ? Un visionario.
Lui guardò Torval portarsi una mano alla testa, di lato, per ascoltare la persona che gli parlava nell'auricolare. Sapeva che quegli apparecchi erano già cimeli.
Erano strutture degenerate. Forse la pistola non ancora. Ma la parola stessa era ormai perduta in una nebbia fluttuante.
Si fermò accanto alla macchina, parcheggiata illegalmente, e ascoltò Torval.
- Rapporto dalla Centrale. C'è una minaccia attendibile. Da non trascurare. Questo significa che per attraversare la città.
- Abbiamo ricevuto parecchie minacce. Tutte attendibili. Eppure sono ancora qui.
- Non riguarda noi. Riguarda lui.
- E chi cazzo è lui ?
- Il presidente. Questo significa che per attraversare la città ci vorrà almeno un giorno, e dovremo portarci le provviste.
L'aspetto massiccio di Torval gli sembrava una provocazione. Era rigido, con le spalle spioventi. Aveva una stazza da sollevatore di pesi, sembrava ritto e accovacciato allo stesso tempo. L'atteggiamento era di brusca persuasione, con la prontezza e lo zelo che caratterizzano gli uomini tarchiati sul lavoro. Erano sollecitazioni ostili. Sfidavano il senso di autorità fisica di Eric, i suoi parametri di potenza e forza muscolare.
- La gente spara ancora ai presidenti? Credevo esistessero obiettivi più stimolanti, - disse.
Dai suoi addetti alla sicurezza si aspettava un temperamento equilibrato. Torval non corrispondeva al modello. A volte era ironico e altre volte vagamente sprezzante delle procedure standard. Poi c'era la testa. Qualcosa nella sporgenza di quella testa rasata e nell'aberrante conformazione degli occhi implicava un'illazione di rabbia costante. Il suo compito era quello di scegliere gli obiettivi giusti, non di odiare un mondo senza volto.
Aveva notato che Torval non lo chiamava più signor Packer. Ormai non lo chiamava più in nessun modo. Questa omissione creava uno spazio da cui poteva passare un uomo.
Si accorse che Elise se ne era andata. Aveva dimenticato di chiederle dove fosse diretta.
- Nel prossimo isolato ci sono due negozi di barbiere. Uno, due, - disse Torval. - Non serve attraversare la città. La situazione non è stabile.
La gente li oltrepassava in fretta, gli altri pedoni, infinite vite anonime, ventun vite al secondo che marciavano e si superavano, volti e pigmenti diversi, rapidi spruzzi di essere.
Erano li per dimostrare che non c'era bisogno di guardarli.
Adesso sul sedile pieghevole c'era Michael Chin, il suo analista valutario, che esprimeva con calma una certa consistente inquietudine.
- Conosco quel sorriso, Michael.
- Sto pensando allo yen. Voglio dire, c'è motivo di credere che stiamo speculando con troppa imprudenza.
- La situazione cambierà a nostro favore.
- Si. Lo so. E sempre andata così.
- L'imprudenza che ti sembra di cogliere.
- Quello che sta succedendo non rientra nei diagrammi.
- Invece si. Devi impegnarti di più nella ricerca. Non fidarti dei modelli standard. Pensa oltre i limiti. Lo yen sta facendo una dichiarazione. Leggila. Poi lanciati.
- E una scommessa azzardata, questa.
- Conosco quel sorriso. Voglio rispettarlo. Ma lo yen non può salire ancora.
- Stiamo chiedendo prestiti enormi, enormi.
- Ogni attacco ai confini della percezione sembra imprudente, all'inizio.
- Dai, Eric. Stiamo speculando nel vuoto.
- Tua madre dava la colpa a tuo padre per quel sorriso. Lui dava la colpa a lei. Ha qualcosa di micidiale.
- Credo che dovremmo fare alcune rettifiche.
- Pensava di doverti mandare in analisi.
Chin aveva master in economia e matematica, ed era soltanto un ragazzo, ancora, con una striscia punk nei capelli, di un cupo rosso barbabietola.
I due uomini parlavano e prendevano decisioni. Erano decisioni di Eric, che Chin annotava risentito sul palmare e poi sincronizzava con il sistema. L'auto si stava muovendo. Eric guardava la propria immagine nello schermo ovale sotto la spycam: si stava accarezzando il mento con il pollice. L'auto si fermò e ripartì e lui si accorse, stranamente, di aver portato il pollice al mento un paio di secondi dopo aver visto il gesto sullo schermo.
- Dov'è Shiner ?
- Sta andando all'aeroporto.
- Perché abbiamo ancora aeroporti ? Perché si chiamano aeroporti ?
- Perché abbiamo ancora aeroporti ? Perché si chiamano aeroporti ?
- So di non poter rispondere a queste domande senza perdere la tua stima, - disse Chin.
- Shiner mi ha detto che il nostro sistema è sicuro.
- Allora è vero.
- Che non può essere penetrato.
- E un genio a scovare buchi.
- Allora perché vedo cose che non sono ancora successe ? La limousine aveva il pavimento in marmo di Carrara, estratto dalle cave in cui Michelangelo, mezzomillennio prima, aveva sfiorato con la punta del dito la bianca pietra stellata.
Guardò Chin, abbandonato sul sedile, perso in divagazioni.
- Quanti anni hai ?
- Ventidue. Cosa? Ventidue.
- Sembri più giovane. Io ero sempre più giovane di tutti quelli che mi stavano intorno. Un giorno le cose sono cambiate.
- Non mi sembra di essere più giovane. Mi sembra di non stare in nessun posto. Credo di essere pronto a mollare, fondamentalmente, il lavoro.
- Metti in bocca una gomma e prova a non masticarla. Per uno della tua età, con le tue doti, c'è una sola cosa al mondo degna di interesse professionale e intellettuale. Che cos'è, Michael ? L'interazione fra tecnologia e capitale La loro inseparabilità.
- Il liceo è stata l'ultima vera sfida, - disse Chin.
La macchina entrò in un ingorgo sulla Terza Avenue. L'autista aveva l'ordine permanente di inoltrarsi senza esitazione negli incroci bloccati.
- Ho letto una poesia in cui il topo diventa l'unità monetaria.
- Sì. Sarebbe interessante, - disse Chin.
- Si. Avrebbe un certo impatto sull'economia mondiale.
- Basterebbe il nome. Meglio del dong o del kwacha.
- Il nome dice tutto.
- Si. Il topo, - disse Chin.
- Si. Oggi il topo ha chiuso in perdita rispetto all'euro.
- Si. Aumenta il timore di una svalutazione del topo russo.
- Topi bianchi. Pensaci.
- Si. Topi gravidi.
- Si. Enorme svendita di topi gravidi russi.
- La Gran Bretagna si converte al topo, - disse Chin.
- Sì. Si unisce al trend verso una moneta universale.
- Si. Gli Stati Uniti stabiliscono lo standard del topo.
- Si. Ogni dollaro americano è convertibile in topi.
- Topi morti.
- Si. Minaccia alla salute mondiale dovuta all'accumulo di topi morti.
- Quanti anni hai? - disse Chin. - Adesso che non sei il più giovane di tutti.
Guardò oltre Chin, verso flussi di numeri che scorrevano in direzioni opposte. Capì quanto significasse per lui, il movimento di dati su uno schermo. Esaminò i diagrammi figurativi che si rifacevano a modelli organici, ala d'uccello e conchiglia spiraliforme. Era pura superficialità affermare che numeri e grafici fossero la fredda compressione di turbolente energie umane, desideri e sudate notturne ridotti a lucide unità sui mercati finanziari. In realtà i dati stessi erano pieni di calore e passione, un aspetto dinamico del processo della vita. Quella era l'eloquenza di alfabeti e sistemi numerici, ora pienamente realizzata in forma elettronica, nel sistema binario del mondo, l'imperativo digitale che definiva ogni respiro dei miliardi di esseri viventi del pianeta. Li c'era il palpito della biosfera. I nostri corpi e oceani erano li, integri e conoscibili.
La macchina si mosse. Vide il primo negozio di barbiere alla sua destra, sull'angolo a nordovest, Filles et Garcons. Sentì Torval in attesa, sul sedile anteriore, dell'ordine di fermare la macchina.
Scorse il tendone del secondo negozio, un po' più avanti, e pronunciò una frase in codice diretta a un processore inserito nel tramezzo, il pannello che divideva l'autista dall'abitacolo posteriore. L'ordine apparve su uno dei monitor del cruscotto.
La macchina si fermò davanti all'edificio situato fra i due negozi. Eric scese e si infilò nel tunnel dell'ingresso, senza aspettare che il portiere si trascinasse fino al citofono. Entrò nello spazio delimitato del cortile, nominando mentalmente quello che conteneva, l'evonimo e la lobelia amanti dell'ombra, il coleus stella nera, lo spino di Giuda con le foglie pennate e i baccelli ancora chiusi. Non ricordava con precisione il nome latino dell'albero, ma sapeva che gli sarebbe venuto in mente nel giro di un'ora o nel cuore dell'incessante quiete della prossima notte insonne.
Passò sotto l'arco a volta crociata di tralicci bianchi adorni di ortensie rampicanti e poi entrò nell'edificio vero e proprio.
Un minuto dopo era da lei, nel suo appartamento.
Gli appoggiò una mano sul petto, con un gesto drammatico, per accertarsi che fosse davvero lui, in carne e ossa. Poi si trascinarono, avvinghiati, verso la camera da letto. Andarono a sbattere contro lo stipite. Una scarpa le si sfilò dal tallone, ma non riuscì a scuoterla via e lui gliela tolse con un calcio. La spinse contro il disegno sulla parete, una griglia minimalista eseguita da due assistenti dell'artista che avevano lavorato per parecchie settimane con strumenti di misurazione e matite di grafite.
Non considerarono l'idea di svestirsi finché non ebbero finito di fare l'amore.
- Ti stavo aspettando ?
- Passavo di qui.
In piedi ai lati opposti del letto, si tolsero gli ultimi capi di vestiario con piegamenti e flessioni.
- Hai pensato di fare un salto da me, vero ? Buona idea. Sono contenta. E passato un po' di tempo. Ho letto la notizia, naturalmente.
Giaceva prona adesso, con la testa girata sul cuscino, e lo guardava.
- Oppure l'ho sentita in Tv ?
- Cosa ?
- Cosa? Il matrimonio. Strano che tu non mi abbia detto niente.
- Non è così strano.
- Non è così strano. Due immense fortune, - disse lei.
- Come uno di quei grandi matrimoni combinati del vecchio impero europeo.
- A parte il fatto che sono un cittadino del mondo con un paio di palle newyorkesi.
Si soppesò i genitali. Poi si sdraiò sulla schiena fissando una lampada di carta dipinta appesa al soffitto.
- Quanti miliardi rappresentate voi due messi insieme ?
- E una poetessa.
- Davvero? Credevo che fosse una Shifrin.
- Un po' tutt'e due le cose.
- così ricca e fresca. Ti permette di toccarle le parti intime?
- Oggi sei splendida.
- Per una quasi cinquantenne che ha finalmente capìto qual è il suo problema.
- E sarebbe ?
- La vita è troppo contemporanea. Quanti anni ha la tua consorte ? Lascia perdere. Non voglio saperlo. Dimmi di stare zitta. Ma prima un'altra domanda. È bravaa letto?
- Non lo so ancora.
- Questo è il problema dell'aristocrazia finanziaria, - disse lei. - Adesso dimmi di stare zitta.
Le posò una mano sulla natica. Rimasero sdraiati in silenzio. Lei era una bionda strinata di nome Didi Fancher.
- Io so qualcosa che tu vorresti sapere. Lui disse: - Cosa?
- Ho avuto informazioni confidenziali su un Rothko in mano a un privato. Presto sarà sul mercato.
- L'hai visto.
- Tre o quattro anni fa. Si. Ed è luminoso. Lui disse: - Che mi dici della cappella?
- Cosa vuoi sapere ?
- Ho pensato alla cappella.
- Non puoi comprare quella cazzo di cappella.
- Come lo sai? Contatta i proprietari.
- Pensavo che il dipinto ti entusiasmasse. Un dipinto. Non hai un Rothko importante. L'hai sempre voluto. Ne abbiamo parlato.
- Quanti dipinti ci sono nella cappella ?
- Non saprei. Quattordici, quindici.
- Se mi vendono la cappella la manterrò intatta. Diglielo.
- La manterrai intatta dove ?
- Nel mio appartamento. E grande abbastanza. Posso fare altro spazio.
- Ma la gente deve vederla.
- Che se la comprino, allora. Che ci provino, a offrire di più.
- Scusa se sono pedante. Ma la cappella Rothko appartiene al mondo.
- È mia se la compero.
Lei allungò un braccio e allontanò con uno schiaffo la mano che le teneva sul culo. Lui disse: - Quanto vogliono?
- Non vogliono vendere la cappella. E io non voglio darti lezioni di abnegazione e responsabilità sociale. Perché non credo affatto che tu sia rozzo come sembri.
- Ci crederesti. Accetteresti il mio modo di pensare e di agire se appartenessi a un'altra cultura. Se fossi un dittatore pigmeo, - disse lui, - o un narcotrafficante. Unfanatico venuto dai Tropici. Ti piacerebbe, vero ? Saresti attratta dall'eccesso, dalla monomania. Quel genere di persone suscita una piacevole eccitazione negli altri.
In quelli come te. Ma ci deve essere una differenza. Se hanno il tuo stesso aspetto, il tuo stesso odore, si crea una certa confusione.
Avvicinò l'ascella alla faccia della donna.
- Qui giace Didi. Intrappolata nel vecchio puritanesimo. Si girò a pancia in giù e rimase sdraiato accanto a lei, sfiorandola con i fianchi e le spalle. Le leccò ilcontorno dell'orecchio e le nascose il volto nei capelli, con un lieve grugnito.
Disse: - Quanto?
- Che significato ha il denaro ? Un dollaro. Un milione.
- Per un quadro ?
- Per qualsiasi cosa.
- Ho due ascensori privati adesso. Uno è programmato per suonare i brani per pianoforte di Satie e per muoversi a un quarto della velocità normale. E la velocitàgiusta per Satie, ed è l'ascensore che prendo quando sono di un certo, diciamo, umore instabile. Mi tranquillizza, mi fa sentire completo.
- Chi c'è nell'altro ascensore?
- Brutha Fez. -Chi è?
- Il famoso rapper sufi. Non lo conosci?
- Certe cose mi sfuggono.
- Mi è costato un sacco di soldi e mi ha reso un nemico del popolo, requisire il secondo ascensore.
- Soldi per i quadri. Soldi per qualsiasi cosa. Ho dovuto imparare a capire il denaro, - disse lei. - Sono cresciuta nel benessere. Solo dopo un po' ho cominciato ariflettere sui soldi e a guardarli davvero. Ho cominciato a osservarli. A guardare da vicino banconote e monete. Ho imparato cosa si prova a guadagnare e spendere.
Una profonda soddisfazione. Mi aiutava a essere una persona. Ma non so più cosa sia il denaro.
- Ho perso un mucchio di soldi, oggi. Parecchi milioni. Sto scommettendo contro lo yen.
- Ma lo yen non dorme, adesso ?
- I mercati valutari non chiudono mai. E ora il Nikkei funziona ventiquattr'ore su ventiquattro. Tutte le borse più importanti. Sette giorni su sette.
- Mi era sfuggito. Mi sfuggono un sacco di cose. Quanti milioni ?
- Centinaia di milioni.
Lei ci pensò. Parlava a bassa voce, adesso.
- Quanti anni hai ? Ventotto ?
- Ventotto, - disse lui.
- Secondo me tu quel Rothko lo vuoi. Costoso. Ma si. Ne hai assolutamente bisogno.
- Perché ?
- Ti ricorderà che sei vivo. Una parte di te è ricettiva ai misteri.
Lui le appoggiò delicatamente il dito medio nel solco tra le natiche.
Disse: - I misteri.
- Non vedi te stesso in ogni quadro che ami? Ti sentì inondato di splendore. E una cosa che non si può analizzare o esprimere con chiarezza. Cosa stai facendo inquell'istante ? Stai guardando un quadro alla parete. Tutto qui. Ma ti fa sentire vivo, nel mondo. Ti dice si, tu ci sei. E sì, la tua sfera di esistenza è più ampia e piacevole di quanto immagini.
Lui chiuse la mano a pugno e gliela infilò tra le cosce, ruotandola e muovendola lentamente avanti e indietro.
- Voglio che tu vada alla cappella e faccia un'offerta. Non importa la cifra. Voglio quello che c'è dentro. Pareti e tutto il resto.
Lei rimase immobile per qualche istante. Poi si divincolò, liberandosi della mano che la stuzzicava.
La guardò vestirsi. Si vestiva in maniera sommaria, come se stesse pensando a una faccenda da sbrigare, qualcosa che il suo arrivo aveva interrotto. Era in una fase post-sensuale, mentre infilava il braccio in una manica color crema, e sembrava più sciatta e triste, adesso. Voleva una ragione per disprezzarla.
- Ricordo una cosa che mi hai detto tempo fa.
- Cosa?
- Il talento è più erotico quando è sprecato.
- Cosa volevo dire ?
-Che sono spietatamente efficiente. Pieno di talento, sf. Negli affari, nelle acquisizioni personali. Nell'organizzare la vita in generale.
- Intendevo anche a letto ?
- Nonio so. E così?
- Non particolarmente spietato. Ma sì. Pieno di talento. E anche una presenza imponente. Vestito o svestito. Un altro talento, immagino.
- Ma secondo te mancava qualcosa. O non mancava niente. Questo è il punto, - disse lui. - Tutto questo talento, questa grinta. Utilizzati. Coerentemente messi inpratica.
Lei cercava una scarpa smarrita.
- Ma non è più così, - disse.
Lui la osservò. Non pensava di voler essere sorpreso, nemmeno da una donna, questa donna, che gli aveva insegnato a guardare, a sentire l'estasi inumidirgli il volto, il piacere struggente contenuto in una pennellata o in una striscia di colore.
Lei si chinò accanto al letto. Ma prima di recuperare la scarpa da sotto la trapunta che era scivolata a terra, incrociò il suo sguardo.
- Da quando una particella di dubbio si è insinuata nella tua vita.
- Dubbio ? Cos'è il dubbio ? - disse lui. - Il dubbio non esiste. Nessuno dubita più.
Lei si infilò la scarpa e si sistemò la gonna.
- Cominci a pensare che sia più interessante dubitare che agire. Ci vuole più coraggio a dubitare.
Stava sussurrando, ancora, mentre si allontanava da lui.
- E allora, se questo mi rende più sexy, dove stai andando ?
Stava andando a rispondere al telefono che suonava nello studio.
Aveva appena finito di infilarsi un calzino quando gli venne in mente. G. trìacanthos. Sapeva che sarebbe arrivato, e infatti eccolo lì. Il nome scientifico dell'albero in cortile. Gleditsia trìacanthos. Lo spino di Giuda.
Si sentiva meglio adesso. Sapeva chi era. Allungò la mano verso la camicia e si vestì in fretta.
Torval lo aspettava fuori dalla porta. Non si guardarono negli occhi. Raggiunsero l'ascensore e scesero nell'atrio in silenzio. Lo lasciò andare avanti in perlustrazione. Doveva ammettere che faceva bene il suo lavoro, con una coreografia discreta di movimenti a zigzag, disciplinati e impeccabili. Poi attraversarono il cortile e uscirono in strada.
Si fermarono accanto alla macchina. Torval indicò i barbieri in attesa da entrambe le parti, a pochi metri di distanza. Poi i suoi occhi si fecero freddi e immobili.
Stava ascoltando una voce nell'auricolare. Il momento divenne critico, carico di attesa.
- Allarme blu, - disse infine. - Un morto.
L'autista teneva lo sportello aperto. Eric non lo guardò. A volte pensava che avrebbe potuto guardare l'autista. Ma non l'aveva ancora fatto.
Il morto era Arthur Rapp, direttore del Fondo monetario internazionale. Arthur Rapp era appena stato assassinato in Nike Corea del Nord. Era successo non più di un minuto prima. Eric lo vide succedere di nuovo, in replay ossessivi, mentre la macchina procedeva lentamente verso un ingorgo in Lexington Avenue. Odiava Arthur Rapp. Lo odiava già prima di incontrarlo. Era un odio della razza più pura, metodico, basato su differenze di teoria e interpretazione. Poi l'aveva conosciuto e l'aveva odiato in maniera personale e caotica, con estrema veemenza.
L'avevano ammazzato in diretta sul canale finanziario. Era mezzanotte passata a Pyongyang, e Rapp stava rilasciando a una giornalista gli ultimi commenti a beneficio del pubblico nordamericano dopo una storica maratona di cerimonie, ricevimenti, cene, discorsi e brindisi.
Eric lo vide firmare un documento su uno schermo e apprestarsi a morire su un altro.
Un uomo in camicia a maniche corte entrò nel campo della telecamera e cominciò a pugnalare Arthur Rapp alla faccia e al collo. Arthur Rapp lo afferrò e sembrò attirarlo a sé, come per rivelargli un segreto. Ruzzolarono a terra insieme, ingarbugliati nel cavo del microfono della giornalista, una donna flessuosa che venne trascinata giù con loro, mentre la gonna dallo spacco laterale le scopriva la coscia, diventando il centro dell'attenzione.
Dalla strada veniva il rumore dei clacson.
Su uno degli schermi apparve un primo piano. Era la faccia carnosa di Arthur Rapp che si gonfiava spasmodica per lo shock e il dolore. Sembrava una massa di materia vegetale compressa. Eric voleva che lo trasmettessero ancora. Trasmettetelo ancora. Lo trasmisero, naturalmente, e sapeva che avrebbero continuato a trasmetterlo fino a tarda notte, la nostra notte, fino a esaurirne l'impatto emotivo o finché tutto il mondo non l'avesse visto, una delle due cose, ma lui poteva rivederlo se voleva, in qualunque momento, grazie alla scansione, una tecnologia che sembrava già lenta, opprimente. Poteva anche recuperare una ripresa alla moviola della donna flessuosa e del suo microfono risucchiato dentro il terrore e stare a guardarla per ore sognando di scoparsela proprio lì, nel vortice insanguinato di coltello e membra confuse e carotidi squarciate, in mezzo alle urla in staccato dell'assassino che si agitava scompostamente, con il cellulare agganciato alla cintura, e ai gemiti gonfi e gassosi del morente Arthur Rapp.
Un pullman turistico bloccava il traffico sulla avenue. Era un autobus a due piani con sbuffi di fumo che gli uscivano dal ventre e file di teste afflitte affacciate al piano superiore, svedesi e cinesi immobili con il marsupio zeppo di soldi.
Michael Chin era ancora sul sedile pieghevole, rivolto verso il retro dell'auto. Aveva ascoltato la telecronaca dell'omicidio ma non si era girato a guardare gli schermi.
Eric lo osservava, adesso, chiedendosi se il suo ritegno fosse una forma di rigore morale oppure un'apatia così profonda da non venir scalfita nemmeno dalle muse del sesso e della morte.
- Mentre eri via, - disse Chin.
- Si. Dimmi.
- È arrivato un rapporto sulla riduzione dei consumi in Giappone -. Parlava con una voce da annunciatore. - Che ha suscitato dei dubbi sulla stabilità economicadel paese.
- Vedi. Ecco. L'avevo detto.
- Si prevede un calo dello yen. Lo yen subirà una leggera flessione.
- Eccoci. Vedi. Deve succedere. La situazione deve cambiare. Lo yen non può salire ancora.
Torval si avvicinò allo sportello posteriore dell'auto. Eric abbassò il finestrino. Bisognava ancora abbassarli, i finestrini.
Torval disse: - Due parole.
-Si.
- La Centrale consiglia protezione supplementare.
- Questo non ti fa piacere.
- Prima una minaccia al presidente.
- Sei convinto di poter gestire qualunque situazione.
- Adesso questo attacco al direttore del Fondo monetario internazionale.
- Accetta il loro consiglio.
Tirò su il finestrino. Come si sentiva per quel supplemento di protezione? Si sentiva rinvigorito. La morte di Arthur Rapp lo rinvigoriva. Il futuro calo dello yen lo corroborava.
Diede un'occhiata ai monitor. Erano schierati a intervalli regolari davanti al sedile posteriore, schermi al plasma piatti di varie dimensioni, alcuni a struttura multipla, altri, singoli, che sporgevano da mobiletti laterali. L'insieme formava un'opera di videoscultura, bella ed eterea, con un potenziale proteiforme, ogni unità progettata per aprirsi, chiudersi o accendersi indipendentemente dalle altre.
Preferiva ascoltare a volume basso o senza sonoro.
Stavano scendendo dal pullman, adesso. Il veicolo sembrava sprofondare nel fumo nero che gli ribolliva intorno. Un vagabondo cercò di salire, vestito di plastica a bolle. Si udivano sirene lontane, camion dei pompieri bloccati nel traffico, un suono che indugiava nell'aria, senza effetto doppler, e clacson di auto nelle vicinanze, un altro inconveniente del giorno.
Si sentiva sempre più euforico. Apri il tettuccio e cacciò fuori la testa in quello scenario vorticoso. Le torri delle banche si ergevano subito oltre la avenue. Erano edifici nascosti nonostante le dimensioni, difficili da distinguere, così comuni e monotoni, alti, lisci, astratti, con rientranze standard, e lunghi come isolati, e intercambiabili, e dovette concentrarsi per vederli.
Da li sembravano vuoti. L'idea gli piaceva. Erano stati creati per essere gli ultimi oggetti alti, vuoti, progettati per accelerare il futuro. Erano la fine del mondo esterno. Non erano propriamente li. Erano nel futuro, un tempo al di là della geografia e del denaro tangibile e della gente che lo ammucchiava e lo contava.
Si rimise a sedere e guardò Chin, che si rosicchiava la pelle morta intorno all'unghia del pollice. Lo osservò. Non era una delle solite, tenere fantasticherie di Michael. Stava rosicchiando, e digrignava i denti sulla pipita, poi sull'unghia vera e propria, la base dell'unghia, l'arco pallido della mezzaluna, la lunula, e c'era qualcosa di tremendo e atavico in quella scena, Chin nel ventre materno, rannicchiato in un sacco membranoso, un piccolo umanoide terrificante con la testa deforme che si succhiava le mani palmate.
Perché la pipita si chiama così? La parola inglese per pipita è hangnaìl, ed Eric sapeva, guarda caso, che si trattava di un'alterazione del Middle English agnati, a sua volta derivato dall'Old English, con radici che affondavano in dolore e tormento.
Chin mollò una delle sue scoregge vegetariane. Il sistema di aerazione la inghiottì immediatamente. Poi si apri uno spiraglio nel traffico, e la macchina parti con uno scossone e girò stridendo intorno al pullman per attraversare la avenue. L'uomo dietro il carretto dei tacos guardava con aria solenne. La macchina sbandò sul cordolo e sgusciò via, e gli occhi di Chin uscirono dall'isolamento lunare durante la corsa fino a Park Avenue lungo un surreale tratto di strada deserta.
- E ora che tu faccia quello che.
- Sì. Va bene, - disse Chin.
- Non lo sai? Lo sappiamo entrambi.
- Ho da fare in ufficio. Sì. Devo ripercorrere quello che è accaduto in passato e vedere se trovo qualcosa di attinente.
- Non c'è nulla di attinente. Ma qualcosa c'è. Rientra nei diagrammi. Vedrai.
- Dovrei ricontrollare le valute, tipo, non so, fino alle prime luci dell'alba.
- Non possiamo aspettare le prime luci dell'alba.
- Allora lo farò qui. Per risparmiare tempo. Questo dovrebbe soddisfarti. Ripercorro i cicli temporali nel sonno. Anni, mesi, settimane. Tutti gli schemi astrusi cheho scoperto. Tutta la matematica che ho applicato ai cicli temporali e all'andamento dei prezzi. Poi è la volta dei cicli orari. Poi degli stronzissimi minuti. Fino ad arrivare ai secondi.
- Si osservano anche nei moscerini della frutta e negli attacchi di cuore. Semplici forze al lavoro.
- Sono così obsoleto che non ho bisogno di masticare il cibo.
- Non puoi stare qui.
- Mi piace qui.
- Non è vero.
- Mi piace stare seduto qui e viaggiare a ritroso -. Chin lo disse con la sua voce da annunciatore. - Mori come era vissuto. A ritroso. I dettagli dopo la partita.
Si sentìva bene. Si sentìva più forte di quanto non si sentìsse da giorni, o settimane forse, o anche di più. Il semaforo era rosso. Vide Jane Melman sul lato opposto della avenue, la sua esperta di finanza, in pantaloncini da jogging e top, che avanzava con passo da donnola. Si fermò nel punto concordato, accanto alla statua di bronzo di un uomo con la mano alzata a chiamare un taxi. Poi guardò verso Eric, socchiudendo gli occhi per capìre se quella limousine fosse la sua o quella di qualcun altro. Lui sapeva cosa gli avrebbe detto, la prima frase, parola per parola, e non vedeva l'ora di ascoltarla. Gli sembrava già di sentìre il flusso nasale della sua parlata. Gli piaceva anticipare gli eventi. Era la conferma dell'esistenza di un copione ereditario accessibile a chiunque fosse in grado di decifrarlo.
Chin scese prima che l'auto attraversasse Park Avenue. Sull'aiuola spartitraffico c'era una donna in spandex grigio che brandiva un topo morto. Una performance artistica, a quanto pareva. Il semaforo diventò verde e i clacson cominciarono a suonare. Dappertutto, sugli edifici di quella zona, c'erano nomi di istituti finanziari incisi su targhe di bronzo, scolpiti nel marmo, dipinti in oro su vetro molato.
Melman continuava a esercitarsi, correva sul posto. Quando la macchina si fermò all'angolo, uscì dall'ombra della torre di vetro alle sue spalle e saltò dentro dallo sportello posteriore, tutta gomiti e ginocchia luccicanti, con un telefono web nella custodia legata in vita. Era sudata e senza fiato per la corsa e si lasciò cadere sul sedile pieghevole con quella specie di tonfo liberatorio che accompagna la caduta di un peso morto nel gabinetto.
- Tutte queste limousine, mio dio, non si distinguono l'una dall'altra.
Lui socchiuse gli occhi e annui.
- Potremmo essere ragazzini la sera del ballo studentesco, - disse lei, - o uno stupido corteo di nozze. Qual è il fascino dell'identico?
Lui guardò dal finestrino e parlò adagio, con un tale distacco da indirizzare il commento all'acciaio e al vetro là fuori, alla strada indifferente.
- Il fatto che io sia una persona potente che sceglie di non marcare il proprio territorio con qualche pisciatina qua e là cosa comporta ? Dovrei forse chiedere scusa?
- Voglio andare a casa a baciare in bocca la mia Maxima. L'auto non si muoveva. C'era un rumore martellante che costringeva i passanti a stringersi nelle spalle,
- Voglio andare a casa a baciare in bocca la mia Maxima. L'auto non si muoveva. C'era un rumore martellante che costringeva i passanti a stringersi nelle spalle,un rombo gutturale proveniente dalla torre di granito che stavano costruendo sul lato sud della strada, destinata a una grossa società finanziaria.
- Sai che giorno è oggi, fra parentesi. -Si.
- È il mio giorno libero, maledizione.
- Lo so.
- Ho un bisogno disperato di questo giorno libero.
- Lo so.
- No, non Io sai. Non puoi saperlo. Io sono una madre single che sgobba dalla mattina alla sera.
- Abbiamo un problema.
- Sono una madre che sta correndo nel parco quando il telefono le esplode nell'ombelico. Penso che sia la tata dei bambini, che chiama solo quando hanno lafebbre a quaranta. Invece c'è un problema. Abbiamo un problema, d'accordo. Un andamento dello yen che potrebbe annientarci nel giro di qualche ora.
- Bevi un po' d'acqua. Siediti sulla banquette.
- Preferisco averti di fronte. E non ho bisogno di guardare tutti quegli schermi, - disse lei. - So cosa sta succedendo.
- Lo yen cadrà.
- Certo.
- I consumi sono calati, - disse lui.
- Certo. E inoltre la Bank of Japan ha deciso di non modificare i tassi di interesse.
- È successo oggi ?
- È successo stanotte. A Tokyo. Ho chiamato un informatore al Nikkei.
- Mentre correvi.
- Mentre mi precipitavo giù per Madison Avenue per arrivare in tempo all'appuntamento.
- Lo yen non può salire ancora.
- E vero. Certo, - disse lei. - Eppure è salito.
Era li davanti ai suoi occhi, rosea e grondante. La macchina avanzò di qualche centimetro e lui sentì sorgere una tristezza venuta da lontano, da vaste profondità, per raggiungerlo proprio li, nella griglia di midtown. Guardò fuori dal finestrino e vide quella strana accozzaglia, la gente per la strada, che chiamava il taxi e attraversava col rosso, un insieme formato da singoli individui, e si metteva in fila davanti agli sportelli automatici della Chase Bank.
Lei gli disse che aveva un'aria malinconica.
Gli autobus risalivano rumorosamente la avenue a coppie, tossendo e ansimando, autobus affiancati o no, costringendo la gente a rifugiarsi sul marciapiede, prede vive, niente di nuovo, ed ecco i muratori che mangiavano, seduti contro il muro della banca, gambe allungate, scarponi color ruggine, sguardi da intenditore, tutti puntati sulla fiumana di gente, la sfilata, per esaminare sembianze e andatura e stile, donne che indossavano gonne succinte e camminavano in fretta, donne con i sandali e gli auricolari, donne in calzoncini flosci, turiste, donne alte e appariscenti con unghie da film di vampiri, lunghe, appuntite e dipinte, e gli operai erano attenti a qualsiasi stravaganza, gente i cui capelli o vestiti o modo di camminare si prendevano gioco di loro, del loro lavoro, quaranta piani più su, o stronzi con il cellulare, che li irritavano in generale.
Di solito si sentìva stimolato da quelle scene, dal grande flusso rapace, nel quale la volontà fisica della città, la febbre dell'ego, l'affermazione dell'operosità, del commercio e delle masse davano forma a ogni singolo episodio. sentì la propria voce da una certa distanza.
- Stanotte non ho dormito, - disse.
L'auto attraversò Madison Avenue e si fermò davanti alla Mercantile Library come previsto. C'erano ristoranti in entrambe le direzioni. Pensò alla gente a tavola, vite che si consumavano pranzando. Cosa c'era dietro quel pensiero ? Pensò agli aiutocamerieri che spazzolavano via le briciole dai tavoli. I camerieri e i loro aiuti non morivano. Solo i clienti smettevano di venire, uno dopo l'altro, a mangiare la minestra con il pacchetto di cracker accanto al piatto.
Un uomo in giacca e cravatta si avvicinò alla macchina, con una cartella in mano. Eric distolse lo sguardo. La sua mente si svuotò, all'infuori di una certa attività relativa alla nostalgia suscitata dalla parola cartella. La mente è in grado di svuotarsi come tattica di evasione o rimozione, per reagire a una minaccia così incombente, un uomo elegante con una valigia-bomba, da rendere impossibile il sollievo di pensieri più fantasiosi, il sorgere di un turbine di sensazioni, la naturale eccitazione che accompagna il pericolo.
Quando l'uomo bussò al finestrino, Eric non lo guardò.
Poi arrivò Torval, sguardo duro, mano dentro la giacca, affiancato da due aiutanti, maschio e femmina, straordinariamente vividi man mano che emergevano dalla statica visiva della folla dell'ora di pranzo.
Torval si chinò sull'uomo.
Disse: - E tu chi cazzo sei?
- Mi scusi.
- C'è un tempo massimo.
- Sono il dottor Ingram.
Ora Torval gli teneva un braccio piegato dietro la schiena. Lo spinse contro la fiancata dell'auto. Eric si sporse ad abbassare il finestrino. Gli odori dei cibi si mischiavano nell'aria, coriandolo e zuppa di cipolle, la puzza degli hamburger sfrigolanti. Gli aiutanti formarono un cordone largo, volgendo le spalle all'azione.
Due donne uscirono da Yodo of Japan, poi tornarono dentro.
Eric guardò l'uomo. Voleva che Torval gli sparasse, o almeno che gli puntasse la pistola alla testa.
Disse: - E tu chi cazzo sei?
- Sono il dottor Ingram.
- Dov'è il dottor Nevius?
- Ha avuto un contrattempo. Questioni personali.
- Parla adagio e con chiarezza.
- Ha avuto un contrattempo. Non so. Una crisi in famiglia. Io sono il sostituto.
Eric rifletté.
- Le ho pulito le orecchie, tempo fa. Eric guardò Torval e annui brevemente. Poi tirò su il finestrino.
Era seduto a torso nudo. Ingram apri la cartella su un set di strumenti luccicanti. Appoggiò lo stetoscopio al petto di Eric. Lui, Eric, ricordò perché non aveva più la maglietta. L'aveva lasciata sul pavimento della camera da letto di Didi Fancher.
Guardava un punto alle spalle di Ingram, mentre il medico ascoltava le pulsazioni delle sue valvole cardiache. L'auto si mosse verso ovest a velocità crescente.
Non sapeva perché si usasse ancora lo stetoscopio. Era uno strumento dimenticato di un'altra epoca, bizzarro come la sanguisuga.
Jane Melman disse: - Fai questo ogni quanto.
Jane Melman disse: - Fai questo ogni quanto.
- Ogni giorno.
- In qualunque caso.
- E ovunque mi trovi. Proprio così. In qualunque caso. Lei buttò indietro la testa e si rovesciò una bottiglia di acqua minerale sulla faccia.
Ingram fece un ecocardiogramma. Eric, sdraiato sulla schiena, vedeva il monitor di sbieco, e non capìva se stesse guardando una riproduzione computerizzata o un'immagine del cuore vero e proprio. Palpitava vigorosamente sullo schermo. L'immagine era a meno di mezzo metro di distanza, ma il cuore assumeva un altro significato, un significato di lontananza e immensità, pulsava nella scura estasi sanguigna di una galassia in formazione. Quale mistero scorgeva in quel muscolo funzionale. sentìva la passione del corpo, la sua spinta all'adattamento attraverso le ere geologiche, la poesia e la chimica delle sue origini nella polvere di vecchie esplosioni stellari. Come si sentìva piccolo in confronto al proprio cuore. Eccola li, a incutergli timore, l'immagine digitalizzata della vita sotto il suo sterno, che pulsava con forza al di fuori di lui.
Non disse niente a Ingram. Non voleva parlare con il sostituto. Parlava con Nevius, di tanto in tanto. Nevius aveva un'immagine definita. Era canuto, alto e robusto, con una traccia di Mitteleuropa nella voce. Ingram borbottava istruzioni. Un bel respiro. Si volti a sinistra. Gli riusciva difficile dire qualcosa che non avesse già detto, parole disposte nella stessa noiosa sequenza, almeno mille volte.
Melman disse: - Allora fai questo ogni quanto. La stessa routine tutti i giorni.
- Dipende.
- E così viene a casa tua, premuroso, nei fine settimana.
- Si muore, Jane, nei fine settimana. La gente muore. Succede.
- Hai ragione. Non ci avevo pensato.
- Si muore perché è il fine settimana.
Era ancora sdraiato sulla schiena. Lei era seduta dietro la sua testa, e si rivolgeva a un punto leggermente al di sopra di essa.
- Credevo ci stessimo muovendo. Ma siamo già fermi.
- C'è il presidente in città.
-Hai ragione. L'avevo dimenticato. Credevo di averlo visto uscendo dal parco. C'era un corteo di limousine lungo la Quinta Avenue, con una scorta di motociclette. Credevo che tutte quelle limousine fossero per il presidente. Invece era il funerale di un personaggio famoso.
- Si muore tutti i giorni, - disse lui.
Era seduto sul lettino, adesso, e Ingram gli esaminava le ascelle in cerca di linfonodi ingrossati. Eric indicò un tappo di sebo e detriti cellulari sul bassoventre, un comedone, vagamente sinistro.
- E di questo cosa facciamo ?
- Lasciamo che si esprima.
- Come. Non facciamo niente.
- Lasciamo che si esprima, - disse Ingram.
Eric apprezzò il suono di quella frase. Non era privo di suggestione. Cercò di fare caso al sostituto. Aveva i baffi, per esempio. Eric non se ne era accorto fino a quel momento. Si aspettava anche un paio di occhiali. Ma l'uomo non li portava, anche se sembrava un tipo da occhiali, a giudicare dalla fisionomia del volto e dal contegno complessivo, un uomo che portava gli occhiali sin dalla prima adolescenza e veniva perseguitato dagli altri ragazzi per la sua aria superprotetta ed emarginata. Sembrava nato per portare gli occhiali.
Invitò Eric ad alzarsi in piedi. Regolò il lettino, dimezzandone la lunghezza. Poi gli chiese di calarsi pantaloni e mutande e chinarsi sul bordo del lettino, a gambe divaricate.
Lui obbedì, e si ritrovò di fronte alla sua esperta di finanza.
Lei disse: - Vediamo. Circolano due voci a nostro favore. Primo, sei mesi consecutivi di tracolli finanziari. Aumentano ogni mese. Aumenteranno ancora. Grosse società giapponesi. Questa è un'ottima cosa.
- Lo yen deve scendere.
- È una perdita di fiducia. Lo yen sarà costretto a scendere.
- Il dollaro regolerà i conti.
- Lo yen scenderà. sentì un fruscio scivoloso di latex. Poi il dito di Ingram lo penetrò.
- Dov'è Chin? - disse lei.
- Sta lavorando sui modelli visuali.
- Questo non rientra nei diagrammi.
- Invece si.
- Non è come tracciare un diagramma dei titoli tecnologici. Li ci sono veri e propri modelli. Si possono rintracciare componenti prevedibili. Questa è una cosadiversa.
- Gli stiamo insegnando a vedere.
- Dovresti farlo tu. Sei tu quello che vede. Cos'è lui? Un bambino. Ha i capelli colorati. Porta l'orecchino.
- Non porta l'orecchino.
- Se fosse ancora più apatico, saremmo costretti ad attaccarlo a una macchina.
Lui disse: - Qual è la seconda voce ?
Ingram esaminò la prostata in cerca di indizi. La palpò, pungolando furtivamente col dito la superficie della ghiandola attraverso la parete del retto. Eric sentì una fitta di dolore, probabilmente una semplice contrazione dei muscoli lungo il canale anale. Ma faceva male. Era vero dolore. Si propagava lungo il circuito delle cellule nervose. Da quella posizione china, Eric guardava Jane dritto in faccia. Provava piacere, e ne fu sorpreso. In ufficio Jane era una presenza nervosa, scettica, antagonista, fredda, con un talento per le lamentele prolungate. Qui era una madre single su un sedile pieghevole, reduce da una corsa, con le gambe a ics e il corpo gracile, quasi commovente. Una ciocca di capelli umidi, appiattita sulla fronte, mostrava le prime lievi striature di grigio. La bottiglia d'acqua penzolava dalla mano magra.
Lei non distolse lo sguardo. Lo fissò dritto negli occhi. Le clavicole ossute le spuntavano dallo scollo del top. Lui voleva leccarle via il sudore dall'interno del polso. Era tutta polsi e tibie e labbra secche.
- Gira una voce sul ministro delle Finanze. Potrebbe dimettersi da un momento all'altro, - disse lei. - Qualche scandalo per un commento frainteso. Ha fatto uncommento sull'economia che può essere stato frainteso. L'intera nazione sta analizzando grammatica e sintassi di quel commento. O forse non è nemmeno quello che ha detto. È stata la pausa. Stanno cercando di interpretare il significato della pausa. Potrebbe essere persino più importante della grammatica. Oppure potrebbe aver preso fiato.
Quando Nevius usava il dito, lo infilava e lo toglieva nel giro di pochi secondi. Ingram stava esplorando in cerca di un'oscura realtà. La realtà era Jane. Teneva la bottiglia in mezzo alle gambe, adesso, con le ginocchia divaricate, e lo guardava. La bocca era aperta a mostrare i denti grandi e distanziati. Qualcosa passò fra loro, bottiglia in mezzo alle gambe, adesso, con le ginocchia divaricate, e lo guardava. La bocca era aperta a mostrare i denti grandi e distanziati. Qualcosa passò fra loro, in profondità, una comprensione al di là dei significati consueti del termine e che tuttavia includeva tutti quei significati, compassione, affinità, tenerezza, l'intera fisiologia delle manovre neurali, del battito cardiaco e delle secrezioni, un ampio sexus di eccitazione che lo attirava verso di lei, in maniera complicata, con il dito di Ingram su per il culo.
- Così l'intera economia è sconvolta, - disse lei, - perché un uomo ha preso fiato.
Lui sentìva queste cose. sentìva il dolore. Si propagava lungo le vie nervose. Pervadeva i gangli e il midollo spinale. Lui era li, dentro il suo corpo, la struttura da cui in teoria voleva staccarsi persino quando la modellava sotto l'effetto calcolato di pesi e bilancieri. Voleva considerarlo superfluo e trasferibile. Era convertibile in guide d'onda di informazioni. Era ciò che guardava sullo schermo ovale quando non guardava Jane.
- La stai stringendo, quella bottiglia.
- È di plastica morbida.
- La stringi. La stritoli.
- È una cosa normale.
- E tensione sessuale.
- È normale nervosismo quotidiano.
- E tensione sessuale, - disse lui.
Chiese a Ingram di allungare la mano libera e prendere gli occhiali da sole dalla giacca appesa al gancio lì accanto. Il sostituto ci riuscì. Eric si mise gli occhiali.
- In giornate come questa.
- Cosa?
- Il mio umore cambia di continuo. Ma quando mi sento vivo e in forma, sono estremamente perspicace. Sai cosa vedo quando ti guardo ? Vedo una donna chevuole vivere il proprio corpo senza vergogna. Di' che non è vero. Tu vorresti seguire il tuo corpo dentro il grasso e la pigrizia. Ecco perché devi correre, per sfuggire alle tue naturali inclinazioni. Dimmi che mi sto inventando tutto. Non puoi. Ti si legge in faccia, tutto quanto, ed è raro trovare una faccia così trasparente. Cosa vedo? Qualcosa di indolente, sexy e insaziabile.
- Bene. Benissimo.
- Questa è la donna che sei nella vita. Ti guardo, e sai cosa? Non sono mai stato tanto eccitato dai tempi delle prime notti bollenti di frenesia adolescenziale.
Eccitato e confuso. Ti guardo e sento un'erezione in arrivo proprio quando la situazione non potrebbe essere meno adatta.
- Non può permettersi di diventare duro. Non se lo concederà psicologicamente, - disse lei. - Sa cosa sta succedendo là dietro.
- Eppure. Giornate come questa. Ti guardo e mi sento elettrico. Dimmi che non lo sentì anche tu. Appena ti sei seduta lì, tutta bardata da corsa. Una vera tragedia.La tragedia del jogging giudaico-cristiano. Tu non sei nata per correre. Io ti vedo. So cosa sei. Sei bagnata e sudata e sciatta. Sei una donna nata per stare legata a una sedia mentre un uomo le dice quanto la trova eccitante.
- Perché non è mai successo niente prima ?
- Il sesso ci smaschera. Il sesso vede dentro di noi. Ecco perché è così devastante. Ci spoglia delle apparenze. Vedo una donna seminuda, esausta e bisognosa,accarezzare una bottiglia di plastica stretta fra le cosce. Sono tenuto a considerarla una dirigente e una madre ? Lei vede un uomo in una posizione volgare e umiliante. Sbaglio o è proprio lui, con i pantaloni calati e il sedere all'aria? Quali domande si fa da quella posizione? Domande importanti, forse. Domande come quelle che ossessionano la scienza. Perché qualcosa e non nulla? Perché musica e non rumore? Belle domande, poco adatte alla sua mortificante situazione. Oppure ha una prospettiva limitata, e si concentra solo sulla situazione ? Si concentra sul dolore.
Il dolore era localizzato ma sembrava assorbire tutto ciò che aveva intorno, organi, oggetti, rumori della strada, parole. Era un punto di percezione infernale, stazionario, invariabile, che non era affatto un punto bensì un altro cervello ripiegato su se stesso, una contro-coscienza, ma non proprio, situata alla base della vescica. Eric agiva dall'interno. Poteva pensare ad altro e parlare di altro, ma solo dentro il dolore. Stava vivendo dentro la ghiandola, dentro la realtà bruciante della propria biologia.
- Si pente di aver abbandonato dignità e orgoglio ? O ha un desiderio segreto di umiliazione ? - Sorrise a Jane. - La sua virilità è una finzione ? Cosa prova per sestesso, odio o amore? Non credo che lo sappia. Oppure è qualcosa che cambia da un minuto all'altro. Oppure la domanda è così implicita in tutto ciò che fa che non riesce a uscirne per rispondere.
Gli sembrava di essere serio. Non pensava di parlare per far colpo. Quelle erano domande serie. Sapeva che erano serie ma non ne era sicuro.
- Giornate come questa. Gli basta schioccare le dita per far divampare una fiammata. Tutti i sensi all'erta, sintonizzati. E facile che accadano cose insolite. Lei locapìsce, sa che non hanno neppure bisogno di toccarsi. Ciò che succede a lui sta succedendo anche a lei. Non ha bisogno di strisciare sotto il lettino per succhiargli l'uccello. Troppo banale per essere interessante. C'è un forte flusso tra loro. Il tono emotivo. Lasciamo che si esprima. Lui la vede nella sua palude e sente un fremito nei muscoli pelvici. Le dice, Dimmi di smetterla e io smetto. Ma non aspetta la risposta. Non c'è tempo. I suoi spermatozoi stanno già scodinzolando. E la sua fidanzata e amante e puttana eterna. Lui non deve fare la cosa indicibile che vuole fare. Deve soltanto dirla. Perché entrambi sono al di là di ogni schema di comportamento prestabilito. Deve soltanto pronunciare le parole.
- Pronunciale.
- Voglio fotterti lentamente con quella bottiglia senza togliermi gli occhiali da sole.
I piedi le scivolarono in avanti. Emise un suono, rivelò se stessa, la propria anima in rapido crescendo.
Lui si vide sullo schermo, occhi chiusi, bocca leggermente aperta in un silenzioso urlo scimmiesco.
Sapeva che la spycam funzionava in tempo reale, almeno in teoria. Come poteva vedersi se teneva gli occhi chiusi? Non aveva tempo per approfondire. sentì il proprio corpo raggiungere l'immagine indipendente.
Poi uomo e donna giunsero al culmine più o meno insieme, senza toccare l'altro né toccarsi.
Il sostituto si strappò via il guanto e lo gettò nella pattumiera, un gesto ininterrotto dal significato oscuro.
I clacson suonavano lungo tutta la strada. Eric cominciò a vestirsi, aspettando che Ingram usasse il termine asimmetrica. Invece non disse nulla. Il suo vero medico, Nevius, l'aveva usato una volta, durante la palpazione, senza scendere nei particolari. Vedeva Nevius quasi tutti i giorni, ma non gli aveva mai chiesto cosa volesse dire.
Gli piaceva scovare risposte a domande difficili. Era il suo metodo, acquisire la padronanza su idee e persone. Ma c'era qualcosa nell'idea di asimmetria. Nel mondo esterno era affascinante, una forza contraria all'equilibrio e alla calma, la piccola, misteriosa anomalia subatomica che ha dato inizio alla creazione. La parola stessa era sinuosa, leggermente fuori uso, con quella vocale aggiunta che cambiava tutto. Ma quando la spostava dal registro cosmologico per applicarla al corpo di un mammifero maschio, al proprio corpo, cominciava a impallidire e spaventarsi. Provava una perversa soggezione nei confronti di quella parola. Timore, distanza. Quando la sentìva pronunciare in un contesto di urina e sperma e quando se la immaginava all'ombra di pantaloni bagnati di piscio, uno, e di un desolante cazzo moscio, due, ne era così ossessionato da piombare in un silenzio superstizioso.
Si tolse gli occhiali e guardò Ingram con attenzione. Cercò di leggergli il volto. Era privo di emozione. Pensò di fargli indossare i suoi occhiali, per renderlo concreto, dargli un significato nell'ambito delle percezioni altrui, ma gli occhiali avrebbero dovuto essere trasparenti, con le lenti spesse e ad alta definizione.
Potevano occorrere dieci anni per accorgersi che non portava gli occhiali. Quella faccia era persa senza occhiali.
Non fu Ingram a parlare. Fu Jane Melman, soffermandosi con lo sportello aperto prima di riprendere la corsa interrotta.
- Voglio dire una cosa estremamente semplice. Hai tutto il tempo per decidere. Puoi mollare per un po', subire una perdita e rientrare in campo più forte di prima.Non è troppo tardi. Considera questa possibilità. Hai fatto un ottimo lavoro per i nostri investitori, sia con il mercato forte che con il mercato instabile. La maggior parte dei gestori patrimoniali ottiene profitti inferiori agli indici di borsa. I tuoi profitti sono sempre stati superiori, e non ti sei mai lasciato influenzare dall'incostanza della massa. E una delle tue doti.
Non la stava ascoltando. Guardava qualcosa dietro di lei, una figura ferma davanti allo sportello automatico della Israeli Bank sull'angolo a nordest, un uomo esile che brontolava a mezza voce.
- Abbiamo guadagnato, ci siamo arricchiti mentre gli altri fondi crollavano, - disse lei. - Si, lo yen cadrà. Non credo che possa salire ancora. Ma nel frattempodevi mollare. Tirarti indietro. Ti do questo consiglio non solo come tua esperta di finanza, ma come una donna che sarebbe ancora sposata con i suoi mariti se l'avessero guardata come tu mi hai guardata oggi.
Adesso non la guardava. Jane chiuse lo sportello e si mise a correre lungo la Quinta Avenue, in direzione nord, oltre l'uomo trasandato davanti allo sportello automatico. L'uomo aveva qualcosa di familiare. Non era la giacchetta cachi, né la capìgliatura a ciocche sottili e unte. Forse era la sua goffaggine. Ma a Eric non interessava sapere se lo conosceva. Una volta conosceva molte persone. Alcune erano morte, altre, mandate in pensione, passavano il tempo chiuse in bagno in cerca di quiete e solitudine oppure a spasso nei boschi con un cane a tre zampe.
Stava pensando allo sportello automatico. Era un termine antiquato, carico della propria memoria storica. Creava malintesi: suggeriva incapacità umana e spasmodici ingranaggi. Il termine era parte del processo che la macchina avrebbe dovuto rimpiazzare. Era antifuturistico, così ingombrante e meccanico da rendere datata persino la parola bancomat.
Ingram ripiegò il lettino dentro l'armadietto. Chiuse la cartella e uscì dall'auto, voltandosi un istante a guardare Eric. Era fermo a meno di un metro di distanza, ma già perso nella folla, dimenticato mentre stava ancora parlando, con gli occhi spalancati e un calcolato distacco nella voce.
- Lei ha la prostata asimmetrica, - disse.
Le Confessioni di Benno Levin NOTTE.
E morto, letteralmente. L'ho girato sulla schiena per guardarlo in faccia. Gli occhi erano misericordiosamente chiusi. Ma cosa c'entra la misericordia in tutto questo? Dalla gola gli è uscito un breve suono che impiegherei settimane a descrivere. D'altra parte, come è possibile tradurre i suoni in parole ? Sono due sistemi separati che cerchiamo di collegare con scarsi risultati.
Questa sembra una delle cose che diceva lui. Forse sto ancora ripetendo le sue parole. Perché sono sicuro che una volta l'ha detto, passando accanto alla mia scrivania, alla persona che era con lui, riferendosi a una cosa qualsiasi. Specchi e immagini. O sesso e amore. Sono due sistemi separati che cerchiamo di collegare con scarsi risultati.
Permettetemi di parlare in mia difesa. Avevo un lavoro e una famiglia. Lottavo per amarla e mantenerla. Quanti di voi conoscono la reale e amara forza della semplice parola mantenere ? Hanno sempre detto che ero eccentrico. È un tipo eccentrico. Ha problemi caratteriali e igienici. Cammina in modo, come dire, strano. Non mi è mai capìtato di sentìre una sola di queste dichiarazioni, eppure sapevo che venivano pronunciate, proprio come si percepisce qualcosa nello sguardo di una persona anche se resta in silenzio.
Ho fatto una telefonata minatoria senza crederci. Loro hanno ritenuto attendibile la minaccia, come mi aspettavo, data la mia conoscenza dell'azienda e del personale. Ma non sapevo come rintracciarlo. Si muoveva per la città senza uno schema prestabilito. Aveva una scorta armata. L'edificio in cui viveva era inaccessibile a persone dall'abbigliamento trasandato come il mio. E questo lo accettavo. Persino in azienda non era facile trovare il suo ufficio. Cambiava in continuazione. Lo svuotava per andare a lavorare da un'altra parte, ovunque si trovasse oppure nello studio di casa, perché non separava del tutto vita e lavoro, o altrimenti per viaggiare e pensare, oppure per andarsene a leggere nella sua famosa casa in riva a un lago di montagna.
Le mie sono ossessioni mentali, scollegate dall'azione.
Adesso mi trovo nella posizione di poter parlare al suo cadavere. Posso parlare senza interruzioni o correzioni. Lui non può dirmi come stanno le cose, dirmi che dovrei vergognarmi o che mi comporto da idiota. Che non ho le idee chiare. Il crimine numero uno nella sua galleria degli orrori.
Quando cerco di reprimere la rabbia, sono soggetto ad attacchi di hwa-byung (Corea). Si tratta principalmente di panico culturale, che ho contratto su Internet.
Ero assistente di informatica applicata. Forse l'ho già detto, in un piccolo college. Poi me ne sono andato per far soldi.
La matita con cui sto scrivendo è gialla, numero 2. Voglio prendere nota degli strumenti che uso, per la cronaca.
Sono sempre stato consapevole di quello che dicevano, con parole o sguardi. Quello che gli altri credono di vedere in una persona finisce col diventare la sua realtà. Se pensano che un uomo sia sbilenco, quell'uomo diventerà sbilenco, scoordinato, perché quello è il suo ruolo nella vita di chi gli sta intorno, e se dicono che non si veste bene, lui imparerà a trascurare il proprio guardaroba, per disprezzo nei loro confronti e per punire se stesso.
La mia mente è sempre impegnata in qualche discorso. Succede anche alla vostra, però non sempre. Io lo faccio in continuazione, tengo lunghi discorsi a qualcuno che non riesco mai a identificare. Ma comincio a credere che sia lui.
Ho la mia carta, formato legale, bianca a righe blu. Voglio scrivere diecimila pagine. Ma vedo già che mi sto ripetendo. Mi sto ripetendo.
Dopo averlo girato gli ho frugato nelle tasche e non ho trovato niente. Una delle tasche era bucata. Sulla testa aveva una ferita, sangue scuro e rappreso, e comunque non mi interessano le descrizioni. Mi interessano i soldi. Stavo cercando i soldi. Aveva i capelli tagliati solo per metà, e portava le scarpe ma non i calzini. Puzzava da far schifo.
Rubo la corrente da un palo della luce, per il mio spazio abitativo. Chissà se gli è mai venuta in mente una cosa del genere.
Ho subito molti rovesci, ma non sono uno di quei poveretti che si vedono per strada, che vivono e pensano alla giornata. Vivo ai margini del mondo, con filosofia. Raccolgo oggetti, è vero, dai marciapiedi. Con gli scarti della gente si potrebbe costruire una nazione. Qualche volta sento la mia voce mentre parlo. Sto parlando con qualcuno e sento il suono della mia voce, in terza persona, riempire l'aria che mi circonda la testa.
Quando il municipio dichiarò inagibile l'edificio fece sigillare le finestre. Ma io ho scardinato un'asse per far passare l'aria. La mia non è una vita irreale. E una vita concreta, un ripartire da zero con valori borghesi intatti. Sto buttando giù le pareti perché non voglio vivere in una serie di piccoli quadrilateri dove ha vissuto altra gente, porte e corridoi angusti, intere famiglie con le loro vite stipate e tanti passi fino al letto e tanti fino alla porta. Voglio una vita di libertà mentale in cui le mie Confessioni possano prosperare.
Ma a volte mi viene voglia di strofinarmi contro una porta o una parete, per avere un contatto amichevole.
Volevo i suoi soldi per la loro qualità particolare, non tanto per il valore. Volevo l'intimità di quel denaro, la sua impronta, che era l'impronta di lui, la macchia della sua particolare sporcizia. Volevo strofinarmi le banconote sulla faccia per ricordarmi perché gli avevo sparato.
Per un po' ho continuato a fissare il corpo senza riuscire a smettere. Gli ho guardato in bocca in cerca di tracce di decomposizione. Allora ho sentìto quel suono uscirgli dalla gola. Ero convinto che mi avrebbe parlato. Non mi sarebbe dispiaciuto parlargli ancora un po'. Dopo tutto quello che ci siamo detti in questa lunga notte mi accorgo di avere ancora qualcosa da dire. Ci sono argomenti importanti che mi frullano in testa. L'argomento della solitudine e quello dei rifiuti.
L'argomento di chi odierò adesso che non è rimasto più nessuno.
La Centrale è il nucleo informativo dell'azienda. È li che ho telefonato per comunicare la mia pressoché vana minaccia. Sapevo che avrebbero interpretato i miei commenti come le conoscenze specialistiche di un ex dipendente e avrebbero raccolto velocemente informazioni in tal senso. Ho provato una certa soddisfazione quando ho dimostrato di conoscere i loro nomi, e persino il nome da ragazza della madre di qualcuno, con una frecciatina brillante e significativa, e ho descritto minuziosamente procedure e routine. Ero nelle loro teste, adesso, avevo stabilito un contatto. Non dovevo portare il peso da solo.
Ho la mia scrivania, che ho trascinato sul marciapiede, lungo il vicolo e su per le scale. E stata un'impresa lunga, con un sistema di cunei e funi. Ci ho messo due giorni.
Non ho mai sentìto la differenza, con il passare del tempo, fra bambino e uomo, ragazzo e uomo. Non sono mai stato consapevolmente bambino nel senso comune del termine. Mi sento la stessa cosa che sono sempre stato.
Gli ho scritto qualche lettera dopo che mi hanno licenziato, ma ho desistito perché sapevo che era una cosa patetica. Sapevo anche che qualcosa nella mia vita doveva necessariamente essere patetica, ma mi sono sforzato di interrompere i contatti. Il fatto che lui non avrebbe mai visto le lettere non era essenziale. Le avrei viste io. Il fatto essenziale era che le scrivessi e le vedessi io. Quindi immaginatevi la sorpresa che provai a non doverlo pedinare, cosa di cui ero incapace e che comunque avrei fatto in preda al tormento di forze opposte riguardo alla possibilità o meno della sua morte.
E qualunque cosa dicessi al telefono e per quanto fossero veloci a raccogliere informazioni, come potevano scoprire dove e come vivo ?
Non possiedo orologi di alcun genere. Penso al tempo in altre totalità, adesso. Penso alla durata della mia esistenza in confronto a quei numeri immensi, l'età della terra, delle stelle, gli incoerenti anni luce, l'età dell'universo eccetera.
Si pensa che il mondo sia qualcosa di autosufficiente. Ma nulla è autosufficiente. Ogni cosa fa parte di qualcos'altro. I miei piccoli giorni si riversano negli anni luce. Ecco perché posso solo fingere di essere qualcuno. Ed ecco perché quando ho cominciato a lavorare a queste pagine mi sono sentìto un duplicato. Non sapevo se fossi io a scrivere oppure qualcuno a cui volevo assomigliare.
Frequento ancora sistematicamente la banca per dare un'occhiata agli ultimi dollari materialmente rimasti nel mio conto. Lo faccio per mantenere l'effetto psicologico, per sapere che possiedo del denaro in un istituto bancario. E perché gli sportelli automatici possiedono un carisma che ha ancora presa su di me.
Sto scrivendo questo diario con un morto a tre metri di distanza. Sono sorpreso. Tre metri e mezzo. Hanno detto che non ero normale e mi hanno retrocesso alle valute minori. Sono diventato un elemento tecnico di second'ordine all'interno dell'azienda, un fattore tecnico. Mi consideravano manodopera generica. E io l'ho accettato. Poi mi hanno licenziato senza preavviso né liquidazione. E io l'ho accettato.
Una delle mie sindromi si manifesta con comportamento agitato ed estrema confusione. Gli abitanti di Haiti e dell'Africa orientale le danno un nome che, tradotto, significa attacchi di delirio. Nel mondo di oggi tutto viene condiviso. Qual è la sofferenza che non può essere condivisa ?
Non leggevo per divertimento, nemmeno da bambino. Non ho mai letto per divertimento. Prendetela come vi pare. Penso troppo a me stesso. Mi studio. Questo mi disgusta. Ma è tutto quello che ho. Io non sono nient'altro. Il mio cosìddetto ego è una piccola cosa contorta, forse un po' come il vostro, e tuttavia posso tranquillamente dire che è attivo e si sente molto importante e passa continuamente da grandi sconfitte a grandi trionfi. Ho una cyclette senza un pedale che una sera qualcuno ha abbandonato per strada.
Ho anche le sigarette a portata di mano. Voglio sentìrmi uno scrittore con la sua sigaretta. Solo che non ne ho più, sono finite, il pacchetto ha quelle briciole sul fondo che ho già leccato via, e sono tentato di annusare l'alito del morto per sentìre di cosa sa, magari del sigaro che ha fumato a Londra la settimana scorsa.
Con il passare del giorno ero sempre più convinto di non poterlo fare. Poi l'ho fatto. Adesso devo ricordarmene il motivo.
Credevo che avrei impiegato tutti gli anni necessari a scrivere diecimila pagine e così avreste avuto la testimonianza, il racconto di una vita diurna e notturna, perché anche i sogni, e le piccole fitte della memoria, e tutte le meschine abitudini e reticenze, e tutte le cose che mi circondano ne avrebbero fatto parte, i rumori della strada, ma capìsco per la prima volta, adesso, in questo momento, che tutti i pensieri e gli scritti del mondo non potranno descrivere quello che ho provato nel terribile istante in cui ho premuto il grilletto e l'ho visto cadere. E allora cosa è rimasto che valga la pena di raccontare ?
capitolo secondo
La macchina attraversò la avenue, entrò nel West Side e dovette rallentare di colpo, avanzare sulle strisce con il semaforo rosso disperdendo ondate di pedoni.
La voce di Torval annunciò una falla nella conduttura idrica da qualche parte più avanti.
Eric vide le sue nuove guardie del corpo, una per ogni lato della macchina: camminavano con passo calcolato e indossavano completi simili, blazer scuro, pantaloni grigi e maglia a collo alto.
Uno degli schermi mostrava un'alta colonna di melma rugginosa che zampillava come un geyser da un buco nel terreno. Gli diede una sensazione piacevole. Gli altri schermi mostravano movimenti di denaro. Numeri che scivolavano orizzontalmente e diagrammi a barre che salivano e scendevano. Sapeva che c'era qualcosa che nessuno aveva scoperto, uno schema latente nella natura stessa, un sussulto di linguaggio figurato che andava oltre i modelli standard di analisi tecnica e rendeva sorpassate persino le arcane previsioni dei suoi stessi discepoli. Doveva esserci un modo per spiegare lo yen.
Aveva fame, una fame tremenda. C'erano giorni in cui aveva voglia di mangiare in continuazione, parlare faccia a faccia con la gente, vivere in uno spazio di carne. Smise di osservare i monitor e si girò verso la strada. Quello era il quartiere dei diamanti, ed Eric abbassò il finestrino davanti a una scena che brulicava di commercio. Quasi tutti i negozi avevano gioielli in vetrina, e i passanti perlustravano entrambi i lati della strada, sgusciando tra i furgoni blindati di banche o di privati per dare un'occhiata agli eleganti orologi svizzeri e pranzare al ristorante kosher.
L'auto avanzava strisciando con la lentezza di un bruco.
Ebrei cassidici in finanziera e cilindro di feltro chiacchieravano sulla soglia dei negozi, uomini con occhiali senza montatura e incolte barbe bianche, esenti dal fremito della strada. Ogni giorno centinaia di milioni di dollari si muovevano avanti e indietro al di là di quelle pareti, una forma di denaro talmente obsoleta che Eric non sapeva come considerarla. Era denaro solido, brillante, sfaccettato. Rappresentava tutto ciò che si era lasciato alle spalle o non aveva mai incontrato, tagliato e levigato, intensamente tridimensionale. La gente lo indossava e lo esibiva. Se lo toglieva per andare a letto o per fare sesso e se lo metteva per fare sesso o per morire. Lo portava nella tomba.
Altri cassidici camminavano per la strada, uomini più giovani in abito scuro e fedora pretenziosa, con il volto pallido e inespressivo, uomini che si guardavano soltanto fra loro, pensò lui, mentre scomparivano dentro i negozi o giù per le scale della metropolitana. Sapeva che i commercianti e i tagliatori di gemme stavano nel retrobottega, e si chiese se gli affari venissero ancora conclusi sulla soglia con una stretta di mano e una benedizione yiddish. Nel carattere di quella strada si sentìvano il Lower East Side degli anni Venti e le capìtali europee dei diamanti prima della seconda guerra, Amsterdam e Anversa. Conosceva un po' di storia. Vide una donna che chiedeva l'elemosina seduta sul marciapiede, con un bambino in braccio. Parlava una lingua che non riconobbe. Conosceva qualche lingua, ma non quella. La donna sembrava inchiodata a quel tratto di cemento. Forse suo figlio era nato li, sotto il cartello di divieto di sosta. Furgoni FedEx e ups. Uomini di colore indossavano insegne pubblicitarie e parlavano in mormorii africani. Denaro liquido per oro e diamanti. Anelli, monete, perle, gioielli all'ingrosso, gioielli di antiquariato. Questo era il suk, lo shtetl. Qui c'erano i mercanti, le malelingue, i rigattieri, i venditori di parole a vanvera. La strada era un oltraggio alla verità del futuro. Ma lui ne subiva il fascino. La sentìva penetrare in ogni recettore e formare un arco elettrico fino al cervello.
La macchina si fermò di colpo, ed Eric scese e si stirò. Davanti a lui il traffico era un lungo bagliore liquido di torpido metallo. Vide Torval venirgli incontro.
- Urge cambiare itinerario.
- La situazione è.
- Questa. Le strade davanti a noi sono allagate. Stato di caos. Questa. Il problema del presidente e della sua ubicazione. È instabile. È in movimento. E ovunquevada, il nostro ricevitore satellitare registra una reazione a catena che provoca una paralisi totale del traffico. E anche questa. C'è un funerale che scende lentamente verso downtown e ora sta deviando a ovest. Molte auto, parecchia gente a piedi. E infine questa. Un rapporto annuncia attività imminente nella zona.
- Attività.
- Imminente. Di natura ancora sconosciuta. La Centrale dice, Procedere con cautela.
L'uomo aspettava una risposta. Eric guardava una grande vetrina alle sue spalle, una delle poche in quella strada che non esibisse file di metalli preziosi con gemme incastonate. sentìva la strada intorno a sé, incessante, persone che passavano una accanto all'altra in momenti codificati di gestualità e danza. Cercavano di camminare senza cedere il passo, perché cedere il passo è segno di cortesia e debolezza, ma a volte erano costretti a farsi da parte e persino a fermarsi, e quasi sempre distoglievano lo sguardo. Lo scambio di sguardi era una faccenda delicata. Un'occhiata reciproca di una frazione di secondo costituiva una violazione degli accordi che rendevano operativa la città. Chi si fa da parte per chi, chi guarda o non guarda chi, quanto ritenersi offesi se si viene sfiorati o toccati ? Nessuno voleva essere toccato. C'era un patto di intoccabi-lità. Anche li, nell'accozzaglia di vecchie culture, tangibili e strettamente intrecciate, con quel miscuglio di passanti, e guardie del corpo, e curiosi incollati alle vetrine, e idioti a zonzo, le persone non si toccavano.
Era nel reparto della poesia al Gotham Book Mart, e sfogliava libricini. Sfogliava sempre libri smilzi, spessi mezzo dito o anche meno, scegliendo le poesie da leggere in base a lunghezza e larghezza. Cercava poesie di quattro, cinque, sei righe. Le esaminava attentamente, riflettendo su ogni suggerimento, e i suoi sentìmenti sembravano galleggiare nello spazio bianco intorno alle righe. C'erano i segni sulla pagina e c'era la pagina. Il bianco era indispensabile all'anima della poesia.
Da ovest giungeva il suono dei clacson, la campana a morto elettrica dei veicoli d'emergenza che a volte venivano ancora chiamati ambulanze, bloccati nel traffico stagnante.
Una donna passò alle sue spalle e lui si girò a guardare, troppo tardi, chiedendosi come facesse a sapere che era una donna. Non la vide entrare nella stanza sul retro, ma sapeva che era entrata. Sapeva anche che doveva seguirla.
Torval non lo aveva accompagnato dentro la libreria. Uno degli aiutanti era appostato accanto alla porta d'ingresso, l'elemento femminile della squadra, e lanciava rapide occhiate al di sopra del libro che teneva fra le mani.
Entrò nella stanza sul retro, dove alcuni clienti riesumavano romanzi perduti dagli scaffali profondi. C'era una donna fra loro, e gli bastò un'occhiata per capìre che non era quella che cercava. Come faceva a saperlo ? Non lo sapeva, ma era così. Controllò gli uffici e i bagni del personale, e poi si accorse che quella parte del negozio aveva due ingressi. Lui era entrato da un ingresso mentre lei usciva dall'altro, la donna che stava cercando.
Tornò nella stanza principale, fermandosi sul vecchio pavimento di legno, in mezzo agli scatoloni ancora chiusi, nella fragranza di decenni sbiaditi, e scrutò lo spazio intorno a sé. Lei non era in mezzo alla folla di clienti e personale. Si accorse che la guardia del corpo gli stava sorridendo, una donna di colore dal volto straordinario: ammiccava giocosamente verso la porta alla sua destra. Andò in quella direzione e aprì la porta, che dava su un corridoio con pile di libri su una parete e fotografie di poeti so-ciopatici sull'altra. Una rampa di scale portava al soppalco che girava intorno al pianterreno, e sui gradini sedeva una donna, lei, senza dubbio. C'era una qualità ben precisa nella sua compostezza, una leggerezza di portamento, e allora capì chi era. Era Elise Shifrin, sua moglie, intenta a leggere un libro di poesie.
Le disse: - Leggimi una poesia.
Lei alzò lo sguardo e sorrise. Lui si inginocchiò sul gradino sottostante e le appoggiò le mani alle caviglie, ammirando i suoi occhi sbiaditi sopra il capìtello del libro.
- Dove hai lasciato la cravatta? - disse lei.
- Ho fatto un checkup. Ho visto il mio cuore su un monitor.
Le passò le mani sui polpacci fino all'incavo delle ginocchia.
- Mi dispiace dirlo. -Ma.
- Odori di sesso.
- E l'odore della mia visita medica.
- Tutto il tuo corpo odora di sesso.
- Ecco cos'è. È odore di fame, - disse lui. - Ho voglia di mangiare. Tu hai voglia di mangiare. Siamo persone nel mondo. Abbiamo bisogno di mangiare e parlare.
La prese per mano e camminò davanti a lei attraverso il traffico inerte fino al ristorante sull'altro lato della strada. Un uomo vendeva orologi sopra un asciugamano steso sul marciapiede. La lunga sala era satura di corpi e rumore, e lui si fece largo tra la folla del take-out e trovò due posti al banco.
- Non so se ho fame.
- Mangia. Lo scoprirai, - disse lui. - Parlando di sesso.
- Siamo sposati da poche settimane. Qualche settimana appena.
- Tutto è qualche settimana appena. Tutto è questione di giorni. La vita è fatta di minuti.
- Non dobbiamo metterci a contare le volte, vero ? O a discutere seriamente dell'argomento.
- No. Invece dobbiamo farlo.
- Certo. Lo faremo.
- Dobbiamo farlo, - disse lui.
- Scopare.
- Si. Perché non c'è tempo per non farlo. Il tempo si fa sempre più scarso di giorno in giorno. Come. Non lo sai?
Lei guardò il menu appeso in alto sulla parete e parve scoraggiata dal contenuto e dallo stile. Lui citò ad alta voce alcuni piatti che pensava le sarebbero piaciuti. In realtà non sapeva cosa le piacesse.
C'era un frastuono di lingue e accenti diversi, e un cameriere dietro il banco annunciava le ordinazioni con l'altoparlante. Dalla strada veniva il rumore dei clacson.
- Mi piace quella libreria. Sai perché ? - disse lei. - Perché è quasi sotterranea.
- Ti sentì nascosta. Ti piace nasconderti. Da cosa?
Gli uomini discutevano di affari con frasi veloci e sconnesse, in cantilene dalla metrica formale accompagnate dal tintinnio delle posate.
- A volte semplicemente dal rumore, - disse lei, chinandosi verso di lui in un sussurro allegro.
- Dovevi essere una bambina silenziosa e malinconica. Incollata alle ombre.
-E tu?
- Non lo so. Non ci penso.
- Pensa una cosa e dimmela.
- Va bene. Una cosa. Quando avevo quattro anni, - disse, - ho calcolato il peso che avrei avuto su ogni pianeta del sistema solare.
- Carino. Oh, mi piace, - disse lei, e lo baciò su un lato della testa, con aria leggermente materna. - La scienza combinata con l'ego -. E poi rise, a lungo, mentrelui riferiva le ordinazioni al cameriere.
Una voce amplificata sgorgò da un pullman turistico bloccato nel traffico.
- Quando andiamo al lago ?
- 'Fanculo il lago.
- Pensavo che ci piacesse. Dopo tutto quel progettare e costruire. Per andarcene di qui, stare un po' soli insieme. Al lago c'è silenzio.
- In città c'è silenzio.
- Dove viviamo noi, si, immagino. Abbastanza in alto, abbastanza lontano. E la tua macchina? Non è certo silenziosa. Ci passi un sacco di tempo.
- L'ho fatta insonorizzare. -Ah si?
- Le macchine le allungano così. Prendono la carrozzeria base e la tagliano a metà con un'enorme, vibrante sega circolare. Poi aggiungono un segmento perprolungare il telaio di tre metri, tre metri e mezzo. Quanto ti pare. Sei metri e mezzo, se vuoi. Mentre stavano facendo questo lavoro sulla mia macchina, ho dato ordine di insonorizzarla, di rivestirla di sughero per isolarla dai rumori della strada.
- E davvero fantastico. Mi piace.
Stavano parlando, stretti l'uno accanto all'altra. Si disse che quella era sua moglie.
- L'auto è blindata, naturalmente. Non è stato facile rivestirla di sughero. Ma alla fine ci sono riusciti. È un gesto. Una cosa che si fa.
- Ha funzionato ?
- E come avrebbe potuto? No. La città mangia e dorme rumore. Attinge rumore da ogni secolo. Produce gli stessi rumori che produceva nel diciassettesimosecolo, insieme a tutti quelli che si sono sviluppati da allora fino a oggi. No. Ma il rumore non mi dà fastidio. Il rumore mi stimola. La cosa importante è che ci sia.
- Il sughero.
- Proprio così. Il sughero. E questo che importa, alla fine.
Torval non era in vista. Eric individuò una guardia del corpo, il maschio, accanto al registratore di cassa, apparentemente concentrato sul menu. Voleva capìre perché i registratori di cassa non fossero relegati nelle teche di un museo del registratore di cassa a Philadelphia o Zurigo.
Elise guardò dentro la ciotola della zuppa, pullulante di forme di vita.
- È questo che volevo ?
- Dimmi cosa volevi.
- Consommé d'anatra al profumo di erbe.
Lo disse con autoironia, simulando un accento extraterritoriale e solo lievemente più aristocratico della sua inflessione normale. Lui la guardò attentamente, aspettandosi di apprezzare le narici arcuate e la lieve curva elegante lungo il profilo del naso. Ma si scoprì a pensare che forse non era bella, dopotutto. Forse le mancava qualcosa. Provò una fitta di consapevolezza. Forse era mediocre, disperatamente ordinaria. Gli piaceva di più prima, in libreria, quando l'aveva creduta un'altra. Cominciò a capìre che la sua bellezza l'avevano inventata insieme, cospirando per creare una finzione che fornisse loro manovrabilità e piacere reciproci. Si erano sposati all'ombra di quel tacito accordo. Avevano bisogno dell'ultimo termine della serie. Lei era ricca, lui era ricco; lei era un'ereditiera, lui si era fatto da sé; lei era raffinata, lui era spietato; lei era fragile, lui era forte; lei aveva talento, lui era intelligente; lei era bella. Quello era il nocciolo del loro accordo, la cosa in cui dovevano credere per poter essere una coppia.
Lei restò con il cucchiaio a mezz'aria, immobile, mentre formulava un pensiero.
- E vero, sai. Puzzi proprio di sfogo sessuale, - disse, guardando deliberatamente dentro la zuppa.
- Non è la scopata che secondo te mi sono fatto. È quella che voglio fare. E quello l'odore che sentì. Perché più ti guardo, più cose scopro di noi due.
- Dimmi cosa significa. Anzi no. No, non dirmelo.
- E più voglio fare sesso con te. Perché c'è un certo tipo di sesso che contiene un elemento di purificazione. E l'antidoto alla disillusione. Il contravveleno.
- Hai bisogno di sentìrti eccitato, vero ? E la tua natura.
Voleva morderle il labbro inferiore, afferrarlo con i denti e morderlo quanto bastava a farne uscire un'erotica goccia di sangue.
- Dove saresti andata, - disse, - dopo la libreria ? Perché c'è un hotel.
- Andavo in libreria. Punto. Ero in libreria. Ci stavo bene. E tu dove saresti andato ?
- A tagliarmi i capelli.
Lei gli posò una mano sul viso e assunse un'espressione seria e complicata.
- Hai bisogno di un taglio di capelli?
- Ho bisogno di tutto quello che puoi darmi.
- Sii gentile, - disse lei.
- Ho bisogno dell'eccitazione in tutti i suoi significati. C'è un hotel proprio qui di fronte. Possiamo ricominciare. O finire con profonda emozione. Questo è unodei significati. Eccitarsi fino a un'emozione travolgente. Possiamo finire quello che abbiamo a malapena cominciato. Due hotel, in effetti. Possiamo scegliere.
- Non credo di averne voglia.
- No, certo. Certo che no.
- Sii gentile con me, - disse lei.
Lui afferrò il suo sandwich di pàté di fegato, poi lo addentò rumorosamente, parlando mentre masticava, e assaggiò la zuppa di Elise.
- Un giorno sarai adulta, - disse, - e allora tua madre non avrà nessuno con cui parlare.
Qualcosa stava accadendo alle loro spalle. Il cameriere più vicino pronunciò una frase in spagnolo che comprendeva la parola topo. Eric si girò sullo sgabello e vide due uomini in spandex grigio nello stretto corridoio tra il banco e i tavoli. Erano immobili, schiena contro schiena, braccio destro alzato, ed entrambi reggevano un topo per la coda. Si misero a urlare qualcosa che Eric non riusci a decifrare. I topi erano vivi, sgambettanti, e lui li guardò affascinato, dimenticandosi completamente di Elise. Voleva capìre il significato delle parole e dei gesti di quegli uomini. Erano giovani, indossavano una tuta intera, un costume da topo, realizzò, e bloccavano l'accesso alla porta. Era di fronte al lungo specchio sulla parete di fondo e riusciva a vedere quasi tutta la stanza, direttamente o di riflesso, e dietro di lui i camerieri in berretto da baseball erano schierati in una pausa di stupore e riflessione.
I due uomini si separarono con lunghi passi in direzioni opposte, brandendo i topi sopra la testa e gridando, con voci non sincronizzate, qualcosa riguardo a uno spettro. La faccia dell'uomo che tagliava il pastrami spuntò al di sopra dell'affettatrice, con sguardo incerto, e i clienti non sapevano come reagire. Poi reagirono, quasi con frenesia, schivando la traiettoria dei topi roteanti. Due persone spinsero la porta della cucina e scomparvero all'interno; seguì un'agitazione generale, con sedie rovesciate e corpi che scivolavano giù dagli sgabelli.
Eric era assorto. Si sentìva quasi ammaliato. Ammirava quella cosa, qualunque significato avesse. La guardia del corpo era davanti al banco e parlava dentro il risvolto della giacca. Eric allungò un braccio per indicargli che non c'era bisogno di entrare in azione. Lasciamo che si esprima. La gente urlava minacce e imprecazioni, coprendo le voci dei due giovani. Notò che il più vicino era irrequieto, si guardava intorno nervosamente. Le minacce avevano un suono antico e rituale, una frase evocava l'altra, e persino i commenti in inglese avevano un tono epico, fatale ed estensibile. Voleva parlare con quell'uomo, chiedergli qual era il rituale, una frase evocava l'altra, e persino i commenti in inglese avevano un tono epico, fatale ed estensibile. Voleva parlare con quell'uomo, chiedergli qual era il motivo, la missione, la causa.
Adesso i camerieri erano armati di coltelli.
Poi i due uomini lanciarono i topi, e la sala ripiombò nel silenzio. Gli animali sferzarono l'aria con la coda, andando a sbattere contro superfici assortite, rimbalzando e sfiorando i tavoli con il dorso, a tutta velocità, due livide palle di pelo che correvano su per i muri, squittendo e mugolando, e anche gli uomini corsero via, in strada, portando con sé il loro grido, il loro slogan o avvertimento o incantesimo.
Sull'altro lato della Sesta Avenue, la macchina superò lentamente l'agenzia di brokeraggio all'angolo. C'erano cubicoli esposti al livello della strada, uomini e donne davanti a schermi, e lui percepì la sicurezza della loro condizione, la solidità, l'involuzione, la loro crescita rannicchiata ed embrionale, segreta e umana. Pensò alla gente che visitava il suo sito web ai tempi in cui pronosticava le quotazioni di borsa, quando fare pronostici era puro potere, quando aveva promosso un titolo tecnologico o benedetto un intero settore causando automaticamente il raddoppio dei corsi azionari e un mutamento nelle visioni del mondo, quando stava realmente facendo la storia, prima che la storia diventasse monotona e melensa, lasciando il posto alla ricerca di qualcosa di più puro, di tecniche per creare diagrammi che predicessero i movimenti del denaro stesso. Trattava valute di ogni sorta di entità territoriali, moderne nazioni democratiche e sultanati polverosi, repubbliche popolari paranoiche, infernali stati ribelli governati da ragazzi drogati.
Li trovava bellezza e precisione, ritmi nascosti nella fluttuazione di una certa moneta.
Era uscito dalla tavola calda con mezzo sandwich ancora in mano. Lo stava mangiando adesso, mentre ascoltava il rap estatico trasmesso dall'impianto stereo, la voce di Brutha Fez, con il solo accompagnamento di uno strumento ad arco beduino. Ma un'immagine su uno dei monitor di bordo lo distrasse. Era il presidente nella sua limousine, ripreso dalla vita in su. Era una caratteristica dell'amministrazione Midwood, il Presidente teletrasmesso dal vivo, visibile in tutto il mondo. Eric lo guardò attentamente. Lo fissò per dieci immobili minuti. Non si mosse, e non si mosse nemmeno il presidente, a parte i riflessi involontari, e non si muoveva nemmeno il traffico intorno a loro, nei due punti della città in cui si trovavano. Il presidente era in maniche di camicia e sedeva in una posa di ordinario torpore. Si irrigidì, batté le palpebre. Il suo sguardo era vuoto, senza direzione o contenuto. Si avvertiva il ronzio di una noia costante. Non si grattava, non sbadigliava, e sembrava l'ospite d'onore di una trasmissione televisiva, seduto in una sala d'aspetto dietro le quinte in attesa di entrare in scena. Ma la cosa era ancora più strana e grave, perché nei suoi occhi non c'era traccia di immanenza, di presenza vitale, e perché sembrava esistere in un piccolo vuoto senza tempo, e perché era il presidente. Eric lo odiava per questo. Gli aveva parlato parecchie volte. Aveva atteso nella sala gialla dell'ala ovest. L'aveva consigliato su questioni di una certa importanza, e aveva dovuto mettersi in posa nel punto che qualcuno gli aveva indicato mentre qualcun altro scattava fotografie. Odiava Midwood perché era onnipresente, come un tempo era stato lui stesso. Lo odiava perché era l'oggetto di una minaccia attendibile. E lo odiava e lo disprezzava per il suo torace ginecoidale, con quel fardello di mammelle pendule sotto la leggera camicia bianca. Guardava lo schermo con aria vendicativa, pensando che l'immagine rendeva piena giustizia al presidente. Era il morto vivente. Viveva in uno stato di occulto riposo, in attesa di essere rianimato.
- Dobbiamo pensare all'arte di far soldi, - disse la donna.
Era seduta sul sedile posteriore, il sedile di Eric, la poltroncina, e lui la guardava e aspettava.
- I greci hanno una parola per definirla. Lui aspettò.
- Chrimatistikós, - disse lei. - Ma dobbiamo renderla un po' flessibile. Adattarla alla situazione attuale. Perché il denaro ha subito una svolta. La ricchezza èdiventata fine a se stessa. Le enormi ricchezze sono tutte così. Il denaro ha perso la sua qualità narrativa, come è accaduto alla pittura tanto tempo fa. Il denaro parla a se stesso.
Di solito portava un basco ma quel giorno era a capo scoperto, Vija Kinski, una donna minuta con una camicia button-down da manager, un vecchio gilè ricamato e una lunga gonna pieghettata reduce da mille lavaggi, la sua esperta di teoria, in ritardo al loro incontro settimanale.
- E la proprietà si comporta di conseguenza. Il concetto di proprietà cambia di giorno in giorno, di ora in ora. Le somme esorbitanti che la gente spende per terrenie case e barche e aerei. Tutto questo non ha niente a che vedere con le tradizionali sicurezze, okay. La proprietà non c'entra più niente con il potere, la personalità e il controllo. Non c'entra con l'ostentazione volgare o l'ostentazione raffinata. Perché non ha più né peso né forma. L'unica cosa che importa è il prezzo che paghi. Tu stesso, Eric, pensaci. Cos'hai comprato con i tuoi centoquattro milioni di dollari ? Non dozzine di stanze, panorami ineguagliabili, ascensori privati. Non la stanza da letto ruotante e il letto computerizzato. Non la piscina o lo squalo. I diritti sullo spazio aereo, forse ? Oppure i sensori e il software di regolazione ? Non gli specchi che ti dicono come stai quando ti guardi al mattino. Li hai spesi unicamente per la cifra in sé. Centoquattro milioni. Ecco cosa hai comprato. E li vale tutti. La cifra si giustifica da sola.
La macchina era bloccata nel traffico fermo tra una ave-nue e l'altra, nel punto in cui Kinski era salita a bordo, uscendo dalla chiesa di Saint Mary the Virgin. Questo era strano, ma forse no. Là guardava dal sedile pieghevole, e si domandava come mai non ne conoscesse ancora l'età. Aveva i capelli grigio fumo, aridi e strinati come se li avesse colpiti un fulmine, ma la faccia era a malapena segnata, a parte un grosso neo sullo zigomo.
- Oh, e questa macchina, che adoro. Il bagliore degli schermi. Adoro gli schermi. Il bagliore del cybercapìtale. così radioso e accattivante. Non ci capìsco niente.
Parlava quasi sussurrando e manteneva un sorriso costante, con variazioni criptiche.
- Ma tu sai che divento spudorata in presenza di tutto ciò che si autodefinisce un'idea. L'idea è tempo. Vivere nel futuro. Guarda come scorrono quei numeri. Isoldi creano il tempo. Una volta era il contrario. Gli orologi hanno accelerato l'ascesa del capìtalismo. La gente ha smesso di pensare all'eternità. Ha cominciato a concentrarsi sulle ore, ore misurabili, ore lavorative, e a usare il lavoro in modo più efficiente.
Lui disse: - Voglio farti vedere una cosa.
- Aspetta. Sto pensando.
Lui aspettò. Adesso il sorriso di Kinski era leggermente obliquo.
- E il cybercapìtale che crea il futuro. Quanto è un nanosecondo ?
- Dieci alla meno nove.
- E cioè.
- Un miliardesimo di secondo, - disse lui.
- Non ci capìsco niente. Ma questo mi dimostra quanta precisione occorra per misurare adeguatamente il mondo intorno a noi.
- Esistono gli zeptosecondi.
- Bene. Mi fa piacere.
- Gli yoctosecondi. Un settilione di secondo.
- Perché oggi il tempo è un bene aziendale. Appartiene al sistema del libero mercato. Il presente è più difficile da trovare. Lo stanno risucchiando fuori dal mondoper fare posto a un futuro di mercati incontrollati ed enormi potenziali di investimento. Il futuro diventa insistente. Ecco perché presto accadrà qualcosa, forse oggi stesso, - disse la donna, guardandosi furtivamente le mani. - Per correggere l'accelerazione del tempo. Per riportare la natura alla normalità, più o meno.
Sul lato sud della strada c'erano pochissimi pedoni. La fece scendere dall'auto e la condusse sul marciapiede, da dove si poteva vedere uno scorcio della rassegna elettronica di informazioni finanziarie, le unità semantiche in movimento che scorrevano lungo la facciata di un palazzo di uffici sull'altro lato di Broadway. Kinski era incantata. Questo era molto diverso dai tranquilli comunicati giornalistici che si avvolgevano intorno alla vecchia Times Tower pochi isolati più a sud. Erano tre file di dati che scorrevano rapide e simultanee a circa trenta metri sopra la strada. Notizie finanziarie, quotazioni di borsa, mercati valutari. Un moto instancabile. La corsa vertiginosa di numeri e sigle, frazioni, decimali, simboli stilizzati del dollaro, la continua emissione di parole, di informazioni multinazionali, tutto troppo corsa vertiginosa di numeri e sigle, frazioni, decimali, simboli stilizzati del dollaro, la continua emissione di parole, di informazioni multinazionali, tutto troppo veloce per essere assimilato. Ma lui sapeva che Kinski lo stava assimilando.
Era fermo dietro di lei e glielo indicava da sopra la spalla. Sotto le file di dati, la teleborsa, c'erano cifre fisse che mostravano l'ora nelle principali città del mondo. Lui sapeva cosa stava pensando Kinski. Non ha importanza se la velocità rende difficile seguire quello che passa davanti agli occhi. Il punto è proprio la velocità. Non ha importanza questo pressante e continuo rifornimento, il modo con cui i dati si dissolvono a un'estremità della fila nel momento in cui prendono forma all'altra estremità. Questo è il punto, l'impulso, il futuro. Non stiamo assistendo tanto al fluire di informazioni quanto a un vero e proprio spettacolo, informazioni consacrate, ritualmente indecifrabili. I piccoli monitor che abbiamo in ufficio, in casa e in macchina suscitano una specie di idolatria qui, dove possono radunarsi folle meravigliate.
Lei disse: - Non si ferma mai? Non rallenta ? Certo che no. Perché dovrebbe? Fantastico.
Lui vide un nome familiare sfrecciare lungo il nastro di informazioni. Kaganovic. Ma il contesto gli sfuggiva. Il traffico si mise in moto, a stento, e tornarono verso la macchina sotto la discreta sorveglianza delle due guardie del corpo. Eric sedette sulla banquette, questa volta, di fronte ai monitor, e apprese che il contesto era la morte di Nikolaj Kaganovic, un uomo di dubbia fama e di straordinaria ricchezza, proprietario della più grande conglomerata russa nel settore dei media, con interessi che andavano dalle riviste porno alle trasmissioni satellitari.
Rispettava Kaganovic. Era scaltro e tenace, crudele nel miglior senso della parola. Lui e Nikolaj erano stati amici, disse a Kinski. Prese una bottiglia di vodka all'arancia dal frigorifero e riempi due bicchierini, senza ghiaccio, e guardarono la messa in onda dell'evento su diversi schermi.
Lei arrossi un po', sorseggiando il liquore.
L'uomo giaceva a faccia in giù nel fango davanti alla sua dacia nei dintorni di Mosca, colpito da numerose pallottole poco dopo il suo rientro da un viaggio in Albania Online, dove aveva fondato un network di Tv via cavo e firmato contratti per un parco tematico a Tirana, la capìtale.
Eric e Nikolaj erano andati insieme a caccia di cinghiali in Siberia. Eric lo raccontò a Kinski. Avevano visto una tigre in lontananza, un'apparizione, una fitta di pura trascendenza, al di fuori di qualsiasi esperienza precedente. Le descrisse il momento, la preziosa sensazione di un'ultima vita, una specie in pericolo, e la vastità del silenzio intorno a loro. Erano rimasti a lungo immobili, i due uomini, dopo che l'animale era scomparso. La vista di una tigre fiammeggiante nella neve alta li aveva fatti sentìre vincolati a una tacita legge, una fratellanza di bellezza e perdita.
Ma era contento di vedere Kaganovic morto in mezzo al fango. Il giornalista continuava a usare la parola dacia. Si era messo in diagonale rispetto alla telecamera, per lasciare sgombra la visuale sulla villa, la dacia, in fondo a un viale di pini. Su un altro schermo una telecronista faceva vaghi accenni a impresentabili soci in affari, gruppi antiglobalizzazione e guerre locali. Poi parlò della dacia. Trovato morto a faccia in giù davanti alla sua dacia. Cercavano un senso di sicurezza in quella parola, di fiducia in se stessi. Era tutto quello che sapevano dell'uomo e del delitto, qualcosa di russo: che era morto davanti alla sua dacia fuori Mosca.
Eric provava piacere nel vederlo così, con innumerevoli ferite d'arma da fuoco al corpo e alla testa. Era un placido appagamento, la liberazione da un peso inspiegabile che gli opprimeva le spalle e il petto. Lo rilassava, la morte di Nikolaj Kaganovic. Non lo disse a Kinski. Poi cambiò idea. Perché no ? Era la sua esperta di teoria. Che teorizzasse pure.
- Il tuo talento è sempre stato strettamente legato alla tua animosità, - disse lei. - La tua mente si nutre di ostilità verso gli altri. E anche il tuo corpo, credo. Il sangue cattivo allunga la vita. Era un rivale in un certo senso, vero? Aveva un fisico prestante, probabilmente. Una forte personalità. Schifosamente ricco, il nostro. Donne a volontà. Motivi sufficienti per provare una strisciante euforia quando il tizio in questione fa una fine orribile. C'è sempre, sempre un motivo. Non pensarci troppo, - disse. - E morto perché tu possa vivere.
La macchina arrivò all'angolo e si fermò. I turisti affollavano il quartiere dei teatri con tutte le parole che formano una moltitudine. Si muovevano in vortici e turbini, trascinandosi dentro e fuori dai megastore e aggirando i carretti degli ambulanti. Stavano in fila, una fila a spirale, ripiegata su se stessa, per i biglietti a prezzo ridotto degli spettacoli di Broadway. Eric li guardò attraversare la strada, creature rachitiche all'ombra delle divinità della biancheria intima che adornavano gli altissimi cartelloni pubblicitari. Erano figure al di là dell'identità sessuale e della procreazione, donne incantate in calzoncini da uomo, al di là del commercio, persino, uomini immortali nel tono muscolare, nella protuberanza che ingrossava l'inguine.
Grossi camion passarono sobbalzando, in direzione downtown, verso il quartiere dei grossisti di abbigliamento o le banchine di lavorazione della carne, e nessuno li vide. Videro il cockney che vendeva libri per bambini da una scatola di cartone, lanciando i suoi slogan in ginocchio. Eric pensò che quelle due cose erano in realtà la stessa, e anche il vecchio cinese che praticava la digitopres-sione, e la squadra di operai che srotolavano un cavo a fibre ottiche da un'enorme bobina gialla e lo infilavano dentro un tombino. Pensò all'accumulo, al brulicare di materia, giorni e notti di auto in fila indiana, semaforo rosso, semaforo verde, alla fissità delle cose, all'obsolescenza, cose che passavano perlopiù inosservate. Videro il vecchio praticare il suo massaggio terapeutico sulla schiena e le tempie di una donna seduta su una panchina, con la faccia schiacciata contro un cuscino rialzato fissato a un telaio di fortuna. Lessero il cartello scritto a mano, rimedio contro stanchezza e panico. Come persistono le cose, l'abitudine alla gravità e al tempo, in questa nuova e fluida realtà. Il cockney inginocchiato disse, Io non vi chiedo dove prendete i soldi, voi non chiedetemi dove prendo i libri. Si fermarono a guardare, frugando nella scatola di cartone. Il vecchio cinese era in piedi, eretto, e massaggiava la donna nei punti dell'agopuntura, premendo con il pollice le pieghe dietro le orecchie.
Eric vide gente fermarsi all'ufficio del cambiavalute sull'angolo sudest. Questo lo spinse ad aprire il tettuccio e a mettere fuori la testa, per avere un'ampia visuale dei tassi di cambio che scorrevano sull'edificio di fronte. Lo yen stava salendo, ancora, rispetto al dollaro.
Sedette sul sedile pieghevole davanti a Kinski e le descrisse la situazione, a grandi linee, e cioè che stava prendendo in prestito yen a un bassissimo tasso di interesse e li usava per speculare pesantemente in titoli ad alto potenziale di rendimento.
- Per favore. Non riesco a seguirti.
Ma più lo yen si rafforzava, più soldi gli servivano per restituire il prestito.
- Basta. Mi sono persa.
Andava avanti perché sapeva che lo yen non poteva salire ancora. Spiegò che non poteva oltrepassare un certo livello. Il mercato lo sapeva. Il mercato sopportava oscillazioni e crisi fino a un certo punto, ma non oltre. Lo stesso yen sapeva di non poter salire ancora. E invece saliva, sempre di più.
Lei pensava, facendo scorrere il bicchiere di vodka tra i palmi delle mani. Eric aspettò. Kinski portava minuscoli mocassini con le nappe e calzini bianchi alla caviglia.
- La cosa più saggia sarebbe ritirarsi, lasciar perdere. E quello che ti stanno consigliando, - disse.
-Si.
- Ma tu sai qualcosa. Sai che lo yen non può salire ancora. E se sai una cosa e non agisci di conseguenza, è come se non l'avessi mai saputa. Questa è saggezzacinese, - disse lei. - Sapere e non agire è come non sapere.
Adorava Vija Kinski.
- Tirarsi indietro adesso non sarebbe autentico. Sarebbe una citazione dalla vita di altre persone. La parafrasi di un testo assennato che vuole farti credere all'esistenza di realtà plausibili, okay, che si possono scoprire e analizzare.
- Quando invece.
- Che vuole farti credere all'esistenza di dinamiche e forze prevedibili. Quando invece sono tutti fenomeni casuali. Tu applichi la matematica e altre discipline,okay. Ma alla fine hai a che fare con un sistema incontrollabile. Isterismo ad alta velocità, giorno per giorno, minuto per minuto. I cittadini dei paesi liberi non devono temere la patologia dello stato. Siamo noi stessi a creare la nostra frenesia, i nostri sconvolgimenti di massa, incalzati da macchine pensanti sulle quali non devono temere la patologia dello stato. Siamo noi stessi a creare la nostra frenesia, i nostri sconvolgimenti di massa, incalzati da macchine pensanti sulle quali non abbiamo un'autorità definitiva. La frenesia passa quasi sempre inosservata. E semplicemente il nostro stile di vita.
Terminò con una risata. Si, lui ammirava il talento di Kinski per i discorsi convincenti, ben congegnati e persuasivi, con un finale levigato. Era questo che voleva da lei. Pensieri organizzati, osservazioni provocatorie. Ma c'era qualcosa di osceno nella sua risata. Era sprezzante e volgare.
- Questo lo sai, naturalmente, - disse lei.
Lo sapeva e non lo sapeva. Non fino a quel grado di nichilismo. Non fino al punto in cui tutti i giudizi risultavano infondati.
- Esiste un ordine a un livello profondo, - disse lui. - Uno schema che vuole essere visto.
- Allora vedilo. sentì delle voci in lontananza.
- L'ho sempre visto. Ma in questo momento mi sfugge. I miei esperti si sono impegnati a fondo e hanno quasi rinunciato. Mi sono dato da fare, dormendoci sopra,restando sveglio a pensarci. C'è una superficie comune, un'affinità tra le oscillazioni del mercato e il mondo della natura.
- Un'estetica dell'interazione.
- Sì. Ma in questo caso comincio a dubitare di poterla trovare.
- Dubbio. Cos'è il dubbio ? Tu non credi nel dubbio. Sei stato tu a dirmelo. I computer eliminano il dubbio. I dubbi derivano dalle esperienze passate. Ma ilpassato sta scomparendo. Un tempo conoscevamo il passato ma non il futuro. Le cose stanno cambiando, - disse lei. - Ci serve una nuova teoria del tempo.
La macchina si mosse, superando una fiumana di traffico diretta a sud ma fermandosi sull'orlo della successiva, sospesa nello spazio compresso all'incrocio tra la Settima Avenue e Broadway. Adesso le sentì più chiaramente, le voci, stavano attraversando il traffico, e vide gente che correva in testa a una folla, nella sua direzione, e altri che scendevano dal marciapiede, spaventati e confusi, e un topo di polistirolo alto sei metri che schivava i taxi in mezzo alla strada.
Mise fuori la testa dal tettuccio e guardò. Che cosa stava succedendo? Non riusciva a capìre.
Entrambe le avenue erano congestionate, adesso, auto bloccate e gente dappertutto. I pedoni fuggivano nelle strade laterali, allontanandosi dalla linea di avanzata di quelli che correvano. Non era una linea, ma una curva tra la folla. Alcuni correvano, mentre altri, quelli che cercavano di correre, scantonavano in cerca di spazio per muoversi liberamente, remando con le mani tra i corpi aggrovigliati.
Voleva capìre, separare una cosa dall'altra con un'analisi particolareggiata. Si udiva un frastuono di clacson e sirene. Le voci ammassate gridavano sopra lo sciabordio di fondo della folla. Questo rendeva ancora più difficile vedere.
Stava guardando a sud, verso il cuore di Times Square. sentì un rumore di vetrine infrante, lastre di cristallo che cadevano sul marciapiede. C'era un tumulto isolato davanti al Nasdaq Center, a qualche isolato di distanza. Forme e colori in movimento, un lento piegarsi di corpi. Si accalcavano davanti all'entrata, e lui immaginò il pandemonio all'interno, gente che correva lungo corridoi lastricati di informazioni. Avrebbero invaso le sale di controllo, preso d'assalto i monitor alle pareti e la telescrivente elettronica.
E dritto davanti a lui ? Gente sull'isola spartitraffico che comprava biglietti per il teatro a prezzo ridotto. Erano ancora in fila, la maggior parte di loro, restii a perdere il posto, la sola immagine che non fosse cruda e movimentata.
Le voci uscivano dai megafoni con una cadenza ripetitiva, la stessa intonazione che aveva sentìto nelle grida dei giovani al ristorante. Il topo di polistirolo era sul marciapiede, adesso, sopra un palanchino portato a spalle da quattro o cinque persone con costumi da roditore in spandex, e veniva nella sua direzione.
Vide Torval in strada con le due guardie del corpo: giravano su se stessi a velocità diverse per ispezionare la zona, con grande maestria. La donna aveva un profilo egizio, da Medio Impero, e teneva la testa piegata verso il seno sinistro per parlare nel telefono portatile. Era ora di mandare in pensione la parola telefono.
I corridori sbucarono fuori da entrambi i lati della biglietteria, quasi tutti con il passamontagna, e alcuni si fermarono quando videro la macchina. La macchina li fermò. Le auto della polizia arrivavano a tutta velocità e sterzavano bruscamente al margine delle strade laterali. Cominciò a sentìrsi coinvolto. Da un autobus scesero uomini in equipaggiamento antisommossa e maschera antigas.
C'era un tassista in piedi accanto alla propria auto, sigaretta in bocca, braccia incrociate sul petto, originario del Sudest asiatico e in paziente attesa, nella città mondo, che le cose acquistassero un senso.
Alcune persone si stavano avvicinando alla macchina. Chi erano ? Erano dimostranti, anarchici, qualunque cosa fossero, una forma di teatro di strada o esperti in atti di vandalismo. La macchina era circondata, naturalmente, assediata dalla paralisi, con altre macchine su tre lati e il quarto lato a ridosso della biglietteria. Vide Torval affrontare un uomo armato di un mattone. Lo stese con un destro. Un gesto che Eric decise di ammirare.
Poi Torval lo guardò. Un ragazzino sullo skateboard sfrecciò accanto a loro, saltando sul parabrezza di un'auto della polizia. capìva perfettamente cosa voleva da lui il capo della sicurezza. I due uomini si fissarono a lungo con aria minacciosa. Poi Eric si calò dentro l'abitacolo e chiuse il tettuccio.
In Tv aveva più senso. Versò due bicchieri di vodka e si misero a guardare, fidandosi di ciò che vedevano. Si, era una manifestazione di protesta, spaccavano vetrine di grandi magazzini e liberavano battaglioni di topi nei ristoranti e nelle hall degli alberghi.
Figure mascherate correvano avanti e indietro sul tetto delle auto, lanciando fumogeni contro i poliziotti.
Lo slogan si sentìva più chiaramente, adesso, trasmesso dalle antenne paraboliche montate sui furgoni delle Tv e filtrato dal frastuono di sirene e allarmi.
Uno spettro si aggira per il mondo, gridavano.
Si stava divertendo. Adolescenti in skateboard ricoprivano di graffiti le insegne pubblicitarie sulle fiancate degli autobus. Il topo di polistirolo si era rovesciato e i poliziotti procedevano in file serrate dietro scudi di plastica, uomini in elmetto la cui risolutezza totalitaria strappò a Kinski qualcosa che parve un sospiro.
I dimostranti stavano scuotendo la macchina. Lui guardò Kinski e sorrise. La Tv mostrava primi piani di volti irritati dai gas urticanti. Lo zoom riprese un uomo che si gettava con il paracadute dalla cima di una torre li accanto. Paracadute e uomo erano anarchicamente rosso-neri, e l'uomo esibiva il pene dipinto con gli stessi colori. La macchina veniva sbatacchiata avanti e indietro. I fucili spararono candelotti lacrimogeni e i poliziotti si gettarono in mezzo alla folla, il volto coperto da maschere con doppia camera di filtraggio uscite da un fumetto letale.
- Tu sai cosa produce il capìtalismo. Secondo Marx e Engels.
- I suoi seppellitori, - disse lui.
- Ma questi non sono i seppellitori. Questo non è altro che il libero mercato. Questa gente è un'invenzione del libero mercato. Non esistono fuori dal mercato.
Non possono starne fuori. Non esiste un fuori.
La telecamera seguì un poliziotto che rincorreva un giovane in mezzo alla folla, un'immagine che sembrava allontanarsi sempre più dal presente.
- La cultura del mercato è totale. Questi uomini e queste donne sono un suo prodotto. E sono necessari al sistema che disprezzano. Gli forniscono energia edefinizione. Sono manovrati dal mercato. Vengono scambiati sui mercati mondiali. È per questo che esistono, per rinforzare e perpetuare il sistema.
Guardò la vodka oscillare nel bicchiere di Kinski mentre la macchina dondolava avanti e indietro. C'erano dimostranti che picchiavano contro il cofano e i finestrini. Vide Torval e le guardie del corpo spazzarli via dallo chassis. Pensò per un attimo al tramezzo dietro l'autista. Aveva un'intelaiatura di cedro in cui era inserito un frammento di scrittura cufica ornamentale su pergamena, tardo decimo secolo, Bagdad, inestimabile.
Lei strinse la cintura di sicurezza.
- Devi capìre. Lui disse: - Cosa?
- Più l'idea è visionaria, e più gente si lascia dietro. Questo è il succo della protesta. Visioni di tecnologia e ricchezza. La forza del cybercapìtale che manderà lagente a morire nelle fogne in mezzo al vomito. Sai qual è il difetto della razionalità umana ?
Lui disse: - Quale?
- Che finge di non vedere l'orrore e la morte con cui si concludono le sue macchinazioni. Questa è una protesta contro il futuro. Vogliono tenere a distanza ilfuturo.
Vogliono normalizzarlo, impedirgli di sommergere il presente.
C'erano macchine in fiamme lungo la strada, metallo sfrigolante e scoppiettante, e figure inebetite che vagavano al rallentatore, tra ondate di fumo, in mezzo alla massa di veicoli e corpi, e dappertutto altri che correvano, e un poliziotto a terra, genuflesso, davanti a un fast food.
- Il futuro è sempre qualcosa di integro e uniforme. Nel futuro saremo tutti alti e felici, - disse lei. - Ecco perché il futuro fallisce. Fallisce sempre. Non potrà maiessere il luogo crudele e felice in cui vogliamo trasformarlo.
Qualcuno scagliò un bidone dell'immondizia contro il lunotto posteriore. Kinski trasalì, ma in modo impercettibile. Poco più a ovest, sull'altro lato di Broadway, i dimostranti costruivano barricate con copertoni in fiamme. Sin dal principio era sembrato che avessero un piano, una meta prestabilita. I poliziotti sparavano proiettili di gomma in mezzo al fumo, che cominciava ad alzarsi fin sopra i cartelloni pubblicitari. Altri poliziotti si fermarono li accanto, per aiutare l'unità di sicurezza a proteggere la macchina. Eric non sapeva come si sentìva davanti a questo.
- Quando capìremo che l'era globale si è ufficialmente conclusa ?
Eric aspettò.
- Quando le limousine allungate cominceranno a sparire dalle strade di Manhattan.
Alcuni uomini stavano orinando contro la macchina. Alcune donne lanciavano bottiglie piene di sabbia.
- Questa è rabbia controllata, direi. Ma cosa succederebbe se sapessero che dentro la macchina c'è il boss della Packer capìtal?
Kinski aveva parlato in tono maligno, con una luce negli occhi. Gli occhi dei dimostranti brillavano in mezzo alle bandane rosse e nere che portavano sul viso e sulla testa. Eric li invidiava? I finestrini antiproiettile erano segnati da crepe sottili, e forse pensava che gli sarebbe piaciuto essere là fuori, a fracassare e distruggere.
- Lavora con te, questa gente. Agisce in base alle tue premesse, - disse lei. - E se ti uccideranno sarà solo perché tu glielo permetterai, con la tua mite acquiescenza, per enfatizzare ancora di più l'idea che ci domina tutti.
- Quale idea ?
Il dondolio si fece più intenso, e lui la guardò seguire il bicchiere da una parte all'altra prima di riuscire a bere.
- Distruzione, - disse lei.
Su uno schermo vide alcune figure scendere lungo una superficie verticale. Ci mise un po' a capìre che si stavano calando giù per la facciata dell'edificio di fronte, dove scorrevano le notizie di borsa.
- Sai cosa hanno sempre sostenuto gli anarchici.
- Si.
- Dimmelo, - disse lei.
- L'impulso di distruzione è un impulso creativo.
- Questo è anche il marchio di fabbrica del pensiero capìtalista. Distruzione forzata. Le vecchie industrie vanno rigorosamente eliminate. I nuovi mercati vannorivendicati con la forza. I vecchi mercati vanno risfruttati. Distruggere il passato, creare il futuro.
Il suo sorriso era impenetrabile, come al solito, e un piccolo muscolo le guizzava all'angolo della bocca. Non era solita manifestare simpatie o avversioni. Eric aveva sempre creduto che non ne fosse capace, ma adesso pensò che forse si era sbagliato.
Stavano ricoprendo la macchina di vernice spray mentre eseguivano piroette con lo skateboard. Sull'altro lato della avenue gli uomini appesi in cordata cercavano di sfondare le finestre con i piedi. La torre portava il nome di una grossa banca d'affari, scritto a caratteri sobri sotto un'enorme mappa del mondo, e le quotazioni di borsa danzavano nella luce calante.
Ne avevano arrestati parecchi, gente di quaranta nazionalità diverse, teste insanguinate, passamontagna in mano. Non volevano mollare il passamontagna. Vide una donna togliersi il passamontagna, strapparselo via imprecando, mentre un poliziotto le pungolava le costole con il manganello, e farlo oscillare all'indietro, colpendo la visiera dell'elmetto mentre uscivano dal campo della telecamera, e tutti gli schermi sussultarono al sollevarsi dell'auto.
D'un tratto scorse la propria immagine trasmessa in diretta dallo schermo ovale sotto la spycam. Passarono alcuni secondi. Si vide sussultare spaventato. Passò altro tempo. Si sentìva sospeso, in attesa. Poi ci fu un'esplosione, cupa e fragorosa, abbastanza vicina da consumare tutte le informazioni intorno a lui. Un sussulto di spavento. Subito diffuso in tutta la folla. La frase faceva parte del gesto, l'espressione familiare, tradotta nel movimento della testa e degli arti. Un sussulto di spavento. La frase riecheggiava nel corpo.
La macchina smise di oscillare. C'era una diffusa sensazione di raccoglimento. Adesso tutti quanti là fuori erano vincolati a un secondo livello di scontro.
La bomba era scoppiata proprio davanti alla banca d'affari. Un altro schermo mostrò una scena nebulosa, figure che correvano a velocità digitale lungo un corridoio, una corsa balbettante, con readout di decimi di secondo. Erano le riprese delle telecamere di sorveglianza della torre. I dimostranti stavano assaltando l'edificio, avventandosi tra la folla accalcata all'ingresso e conquistando ascensori e corridoi.
La battaglia riprese all'esterno, la polizia dirigeva gli idranti contro le barricate in fiamme e i dimostranti intonavano di nuovo i loro slogan, animati, con nuove riserve di coraggio e forza morale.
Ma sembrava che avessero finito con la sua macchina, finalmente.
Rimasero in silenzio per qualche istante. Lui disse: - Hai visto?
- Si. Cos'era?
Lui disse: - Sono seduto. Stiamo parlando. Guardo lo schermo. Poi di colpo.
- Un sussulto di spavento. -Si.
- Poi l'esplosione. -Sì.
- E già successo prima ?
- Si. Ho fatto controllare il sistema di sicurezza.
- Nessun guasto.
- No. E comunque nessuno potrebbe produrre un effetto simile. Anticipare una cosa del genere.
- Un sussulto di spavento.
- Sullo schermo.
- Poi l'esplosione. E poi.
- Un sussulto reale, - disse lui.
- Qualunque cosa significhi.
Lei si toccò il neo. Tastò il neo che aveva sulla guancia, tormentandolo mentre pensava. Lui restò in attesa.
- E tipico del genio, - disse lei. - Il genio altera le condizioni del proprio habitat.
Questo gli piacque, ma voleva di più.
- Vedila così. Ci sono menti eccezionali all'opera, qualcuna, qua e là, il genio poliedrico, il vero futurologo. Una coscienza come la tua, ipermaniacale, potrebbeavere punti di contatto al di là della percezione comune.
Lui aspettò.
- La tecnologia è indispensabile alla civiltà perché ? Perché ci aiuta a creare il nostro destino. Possiamo fare a meno di Dio, dei miracoli e del volo dell'ape. Ma èanche subdola e incontrollabile. Può andare in qualsiasi direzione.
Le scritte si spensero sulla facciata della torre presa d'assalto.
- Prima dicevi che il futuro è impaziente, ci sta addosso.
- Quella era teoria. Io mi occupo di teoria, - disse lei bruscamente.
Lui si girò a guardare gli schermi. La prima fila del display elettronico sull'altro lato della avenue mostrava il seguente messaggio: uno spettro si aggira per il mondo -lo spettro del capìtalismo
Riconobbe la variazione sulla famosa prima frase del Manifesto del Partito Comunista in cui lo spettro del comunismo si aggirava per l'Europa, intorno al 1850.
Erano confusi e irragionevoli. Ma sentì crescere la propria ammirazione per l'ingegnosità dei dimostranti. Aprì il tettuccio e cacciò fuori la testa in mezzo a fumo e gas, nell'aria satura dell'odore di gomma bruciata, e si sentì un astronauta giunto su un pianeta di puro fiato. Era corroborante. Una figura in casco da motociclista montò sul cofano e cominciò a strisciare sul tetto dell'auto. Torval allungò un braccio e lo tirò giù. Lo scaraventò a terra, lasciandolo alle guardie del corpo. Dovettero usare un manganello elettrico per abbatterlo, e il voltaggio lo spedi in un'altra dimensione. Eric notò a malapena il crepitio e l'arco voltaico che superava lo spazio fra gli elettrodi. Stava guardando il secondo display entrare in funzione, le parole che scorrevano da nord a sud.
IL TOPO DIVENTÒ L'UNITÀ MONETARIA
Gli ci volle un momento per assimilare le parole e identificare il verso. Lo conosceva, naturalmente. Era tratto da una poesia che aveva letto di recente, una delle più lunghe che avesse deciso di analizzare, un verso, mezzo verso dalla cronaca di una città sotto assedio.
Era esilarante starsene li, con la testa in mezzo al fumo, a guardare la battaglia e la devastazione intorno a sé, gli uomini e le donne intossicati dai gas che sventolavano magliette saccheggiate nella sede del Nasdaq in atteggiamento di sfida, e rendersi conto che avevano letto la stessa poesia che aveva letto lui.
Tornò a sedersi per il tempo necessario a estrarre un telefono web e trasmettere l'ordine di acquistare altri yen. Stava prendendo in prestito quantità sbalorditive di yen. Voleva tutti gli yen del mondo.
Poi mise di nuovo fuori la testa per guardare le parole saltare ripetutamente lungo la lucida facciata grigia. I poliziotti si lanciarono al contrattacco della torre, guidati da un'unità speciale. Gli piacevano le unità speciali. Portavano caschi antiproiettile e impermeabili scuri, uomini con armi automatiche che erano scheletri di fucile, tutti intelaiatura e niente rivestimento.
Qualcos'altro stava accadendo. Ci fu un salto, una crepa nello spazio. Ancora una volta non era sicuro di ciò che vedeva, a soli trenta metri di distanza eppure inverosimile, delirante, un uomo seduto sul marciapiede a gambe incrociate, tremante in un intreccio di fiamme.
Era abbastanza vicino per vedere che l'uomo portava gli occhiali. Un uomo stava bruciando. La gente si allontanava piegata in due o si portava le mani al volto, si girava e si rannicchiava e cadeva in ginocchio, oppure gli passava davanti ignara, correva via in mezzo al fumo e al trambusto senza accorgersi di nulla, o guardava impietrita, con le membra molli e la faccia rotonda e istupidita.
Quando si alzò il vento, una raffica improvvisa, le fiamme divennero più basse e piatte ma l'uomo rimase rigido, con la faccia intatta, e videro gli occhiali fondersi con i suoi occhi.
Cominciò ad alzarsi un lamento. Un uomo gemeva in piedi. Due donne gemevano sedute sul marciapiede. Si coprirono la testa e il volto con le braccia. Un'altra donna voleva spegnere il fuoco ma riusci solo ad avvicinarsi abbastanza da sventolare la giacca in direzione dell'uomo, attenta a non colpirlo. Si dondolava piano, e la testa bruciava indipendentemente dal corpo. Ci fu una pausa nelle fiamme.
La camicia dell'uomo fu assunta, accolta spiritualmente nell'aria sotto forma di brandelli di materia fumante, e la pelle si annerì e si ricoprì di bolle e adesso si cominciava a sentìrne l'odore, carne bruciata mista a benzina.
Accanto al ginocchio aveva una tanica in fiamme, che si era incendiata insieme a lui. Non c'erano monaci salmodiami in tonaca color ocra né suore in grigio screziato. Sembrava che avesse fatto tutto da solo.
Era giovane oppure no. Aveva compiuto la sua scelta in base a una lucida convinzione. Volevano che fosse giovane e spinto da una convinzione. Eric era sicuro che lo volessero anche i poliziotti. Nessuno voleva uno squilibrato. Disonorava la loro azione, il loro rischio, tutto il lavoro che avevano fatto insieme. Quell'uomo non era mai stato l'ospite temporaneo di una stanza imbottita a causa di qualche crisi nervosa o di voci che gli parlavano nella testa.
Eric voleva immaginare il suo dolore, la sua scelta, la volontà abissale a cui era dovuto ricorrere. Cercò di immaginarselo a letto, quella mattina, mentre lanciava un'occhiata obliqua alla parete e si dirigeva con il pensiero verso quel momento. Era dovuto entrare in un negozio a comprare una scatola di fiammiferi ? Si immaginò una telefonata a qualcuno lontano, una madre o un'amante.
I cameramen partirono all'assalto, abbandonando l'unità speciale che stava riconquistando la torre sul lato opposto della strada. Raggiunsero l'angolo correndo, uomini robusti dalle anche scattanti, con le telecamere sobbalzanti sulle spalle, e circondarono l'uomo in fiamme.
Tornò a calarsi dentro la macchina e prese posto sul sedile pieghevole, di fronte a Vija Kinski.
Nonostante i gas e le percosse, lo shock degli esplosivi, nonostante l'assalto alla banca d'affari, Eric pensò che ci fosse qualcosa di teatrale in quella protesta, di suadente, persino, nei paracadute e negli skateboard, nel topo di polistirolo, nella mossa tattica di riprogrammare la teleborsa con versi e Karl Marx. Pensò che Kinski avesse ragione a definirla un'invenzione del mercato. C'era un'ombra di transazione fra i dimostranti e lo stato. La protesta era una forma di igiene sistematica, depurante e lubrificante. Dimostrava ulteriormente, per la decimillesima volta, la forza innovativa della cultura di mercato, la sua capacità di adattarsi alle estremità flessibili, assorbendo ogni cosa intorno a sé.
E adesso guarda. Un uomo in fiamme. Alle spalle di Eric l'immagine pulsava su tutti gli schermi. E tutte le azioni si erano interrotte, i dimostranti e i reparti antisommossa giravano in tondo e solo le telecamere spingevano per farsi largo. Cos'era cambiato ? Tutto, pensò Eric. Kinski aveva torto. Il mercato non era totale. Non poteva rivendicare quell'uomo o assimilare il suo atto. Troppo crudo e orribile. Era al di fuori della sua portata.
Vedeva le immagini riflesse sul volto di Kinski. Era demoralizzata. Il soffitto dell'abitacolo si abbassava nella parte posteriore, e ciò conferiva autorità al sedile occupato da Kinski, che di solito era di Eric, naturalmente, e lui sapeva quanto le piacesse sedere nella poltrona di morbida pelle e scorrazzare giorno e notte per la città parlando ex cathedra. Ma era avvilita, adesso, e non lo guardava.
- Non è originale, - disse infine.
- Ehi. Cos'è originale? L'ha fatto, no?
- E un'appropriazione.
- Ha versato la benzina e ha acceso il fiammifero.
- Tutti quei monaci vietnamiti, uno dopo l'altro, nella loro posizione del loto.
- Immagina il dolore. Prova a sentìrlo.
- Se ne è immolata un'infinità.
- Per dire qualcosa. Per far pensare la gente.
- Non è originale, - disse lei.
- Deve per forza essere buddista perché lo prendano sul serio? Ha fatto una cosa seria. Si è ucciso. Non è questo che ci vuole per dimostrare che fai sul serio ?
Torval voleva parlargli. Lo sportello era ammaccato e contorto, e Torval ci mise un po' ad aprirlo. Eric si chinò e passò accanto a Kinski per uscire dall'auto, ma lei non lo guardò.
I membri di una squadra di pronto soccorso si muovevano lentamente tra la folla, facendosi largo con la barella. Dalle strade laterali giungeva l'urlo delle sirene.
Ormai il corpo aveva smesso di bruciare, ed era ancora seduto, rigido, tra esalazioni di fumo e vapore. La puzza andava e veniva col vento. Il vento era più forte adesso, un vento di tempesta, e si udivano tuoni in lontananza.
. Accanto alla macchina i due uomini si ignoravano formalmente, evitando di guardarsi. La macchina sembrava tramortita. Era cosparsa di vernice spray rossa e nera. C'erano dozzine di buchi e ammaccature, graffi lunghi e profondi, zone infossate e scolorite. In alcuni punti gli spruzzi di urina si erano conservati come chiazze di pentimento sotto l'arabesco di graffiti.
Torval disse: - Proprio adesso.
- Cosa?
- Rapporto dalla Centrale. Riguarda la sua sicurezza.
- Un po' tardi, non trovi?
- Questo è preciso e categorico.
- C'è stata una minaccia, allora.
- Valutazione allarme: rosso, attendibile. Grado di urgenza altissimo. Questo significa che l'incursione è già in atto.
- Adesso lo sappiamo.
- E adesso dobbiamo agire in base a quello che sappiamo.
- Ma vogliamo ancora quello che vogliamo, - disse Eric.
Torval aggiustò il proprio punto di vista. Guardò Eric. Aveva l'aria di una forte trasgressione, che violava la logica di sguardi codificati, toni vocali e altri parametri gestuali delle loro particolari modalità di relazione. Era la prima volta che osservava Eric così apertamente. Lo guardò e annui, seguendo il cupo corso dei propri pensieri.
- Vogliamo tagliarci i capelli, - gli disse Eric.
Vide un tenente di polizia con in mano un walkie-talkie. Cosa gli passò per la mente quando lo vide ? Voleva chiedergli perché usava ancora un simile aggeggio, perché lo chiamava ancora così, trasportando quella stupida rima dall'era dell'eccesso industriale dentro spazi intelligenti costruiti con fasci di luce.
Tornò in macchina ad attendere il lento districarsi del traffico. La gente cominciava ad allontanarsi, alcuni portavano ancora la bandana per proteggersi dalla postcombustione dei lacrimogeni e dalle esplorazioni delle telecamere della polizia. C'erano scaramucce in corso, poche e isolate, uomini e donne che correvano sui marciapiedi cosparsi di vetri rotti e altri che fischiavano contro gli stoici poliziotti appostati sull'isola spartitraffico.
Riferì la notizia a Kinski.
- Pensano che la minaccia sia attendibile ?
- Livello urgente.
Kinski era esultante. Tornò a essere se stessa, con il suo sorriso recondito. Poi lo guardò e scoppiò a ridere. Eric non capìva cosa ci fosse di divertente, ma si mise a ridere anche lui. Si sentìva definito, nettamente delineato. sentìva un'ondata di consapevolezza che diventava sempre più nitida e intensa.
- È interessante, non trovi ? - disse lei. Lui aspettò.
- Gli uomini e l'immortalità.
Il corpo bruciato venne coperto e portato via su una barella, in posizione semieretta, con i topi per strada e la pioggia che cominciava a cadere e la luce che cambiava radicalmente in quel modo soprannaturale che è affatto naturale, ovviamente, perché tutta la premonizione elettrica che vaga per il cielo è un dramma concepito dall'uomo.
- Tu vivi in una torre che si eleva fino al cielo e che Dio ha lasciato impunita.
Kinski lo trovava divertente.
- E hai comprato un aereo. L'avevo quasi dimenticato. Sovietico o ex sovietico. Un bombardiere strategico. In grado di distruggere una città di piccole dimensioni. Giusto?
- È un vecchio Tu-160. La Nato lo chiama Blackjack A. Veniva utilizzato intorno al 1988. Trasportabombe nucleari e missili cruise, - disse lui. - Ma non eranocompresi nel contratto.
Lei batté le mani, estasiata.
- Però non te lo lasciano pilotare. Sapresti pilotarlo ?
- Certo, e l'ho anche fatto. Non me lo lascerebbero pilotare se fosse armato.
- Chi non te lo lascerebbe pilotare ?
- Il Dipartimento di Stato. Il Pentagono. La Sezione Alcolici, Tabacco e Armi da Fuoco.
- I russi ?
- Quali russi? L'ho comprato al mercato nero e a prezzo stracciato da un trafficante d'armi belga in Kazakistan. È li che l'ho pilotato, per mezz'ora, sopra il deserto. Dollari Usa, trentun milioni.
- Dov'è adesso ?
- Parcheggiato in un deposito in Arizona. In attesa di pezzi di ricambio che nessuno riesce a trovare. E là, in mezzo al vento. Ogni tanto ci vado.
- A fare cosa ?
- A guardarlo. E mio, - disse lui.
Lei chiuse gli occhi e pensò. Gli schermi mostravano diagrammi e grafici, aggiornamenti di mercato. Si afferrò una mano con l'altra e la strinse, forte, schiacciando le vene e facendo defluire il sangue dalle nocche.
- Nessuno morirà. Non è questo il credo della nuova cultura ? Verranno tutti assorbiti dentro flussi di informazioni. Non ne so nulla. I computer moriranno.Stanno morendo nella loro forma attuale. Sono quasi morti come unità distinte. Una scatola, un monitor, una tastiera. Si stanno fondendo nel tessuto della vita quotidiana. E vero o no ?
- Persino la parola computer.
- Persino la parola computer suona stupida e antiquata.
Aprì gli occhi e sembrò trapassarlo con lo sguardo, mentre parlava con calma, e lui la immaginò rannicchiata contro il proprio petto a notte fonda, a lume di candela, non mossa da un impulso sessuale o demoniaco ma pronta a parlargli nel sonno intermittente, a turbare i suoi sogni con teorie.
Parlava. Era il suo lavoro. Era nata per questo e per questo veniva pagata. Ma in cosa credeva ? I suoi occhi erano inespressivi. O almeno lo erano per lui, grigi, spenti, distanti e vuoti, per lui, vivaci di tanto in tanto ma solo nell'impeto di un'intuizione o congettura. Dov'era la sua vita? Cosa faceva quando tornava a casa? Chi c'era in casa oltre al gatto ? Doveva esserci un gatto, pensò. Come potevano parlare di queste cose, loro due? Non erano competenti.
Sarebbe stato un abuso di fiducia, pensò, chiederle se avesse un gatto, e tantomeno un marito, un amante, un'assicurazione sulla vita. Che programmi hai per il fine settimana ? La domanda avrebbe rappresentato una forma di aggressione. Si sarebbe girata dall'altra parte, offesa e umiliata. Era una voce con un corpo aggiunto per un ripensamento, un sorriso obliquo che veleggiava in mezzo al traffico intenso. Attribuirle una storia significava farla scomparire.
- Non ci capìsco niente, - disse. - Microchip così piccoli e potenti. Umani che si fondono con i computer. Questo è fuori dalla mia portata. È l'inizio della vita
- Non ci capìsco niente, - disse. - Microchip così piccoli e potenti. Umani che si fondono con i computer. Questo è fuori dalla mia portata. È l'inizio della vitaeterna -. Si fermò un momento a guardarlo. - La morte gloriosa di un grande uomo non dovrebbe contraddire il suo desiderio di immortalità ?
Kinski nuda contro il suo petto.
- Gli uomini pensano all'immortalità. Non importa quello che pensano le donne. Siamo troppo piccole e concrete per avere voce in capitolo, - disse. - I grandiuomini della storia si aspettavano di vivere per sempre, anche mentre sovrintendevano alla costruzione del loro monumento funebre sulla sponda opposta del fiume, la sponda occidentale, dove tramonta il sole.
La vivida immagine di Kinski che commenta gli eventi nei suoi incubi.
- E tu, con il tuo grande intuito e i tuoi atti di superbia. Perché morire quando puoi vivere su disco ? Un disco, non una tomba. Un'idea al di là del corpo. Unamente che è tutto ciò che sei stato e sarai, senza mai essere stanca o confusa o indebolita. Per me è un mistero, come possa accadere una cosa del genere. Accadrà prima o poi? Prima di quanto pensiamo, perché tutto succede prima di quanto pensiamo. Oggi stesso, magari. Forse oggi è il giorno in cui accadrà tutto, nel bene o nel male, ta-boom, così.
La luce era quella del crepuscolo, solo più fioca, con una fitta argentea nell'aria, e lui era in piedi accanto alla macchina a guardare i taxi tirarsi fuori dalla mischia.
Non sapeva da quanto tempo non stava così bene.
Da quanto tempo ? Non lo sapeva.
La teleborsa era tornata al suo normale funzionamento, e lo yen appariva rinvigorito, in salita rispetto al dollaro con un incremento microdecimale ogni sestilione di secondo. Andava bene così. Era giusto e opportuno. Lo eccitava pensare in zeptosecondi e guardare la corsa incessante dei numeri. Anche la teleborsa gli piaceva. Guardava sfrecciare le principali emissioni e si sentiva misteriosamente purificato nel vedere i prezzi precipitare in una caduta lasciva. Si, gli faceva un effetto sessuale, di cunni-linguo per la precisione, ed Eric piegò la testa all'indietro e apri la bocca sotto il cielo e la pioggia.
La pioggia cadeva a scrosci sulla distesa semivuota di Times Square, con i cartelloni pubblicitari rischiarati da una luce spettrale e le barricate di copertoni quasi rimosse, proprio di fronte, che lasciavano sgombra la Quarantasettesima Strada verso ovest. La pioggia era gradevole. La pioggia era assolutamente perfetta. Ma la minaccia era ancora meglio. Vide alcuni turisti avanzare furtivamente lungo Broadway sotto un grappolo di ombrelli per fissare la chiazza annerita sul marciapiede nel punto in cui uno sconosciuto si era dato fuoco. Era una cosa grave e indimenticabile. Adeguata al giorno e al momento. Ma la minaccia attendibile era ciò che lo spingeva e lo stimolava. La pioggia sul viso era gradevole e l'odore acre era giusto e opportuno, il tanfo di urina che maturava sulla carrozzeria della sua macchina, e si poteva trovare un piacere trepidante, e una gioia a dispetto di ogni disgrazia, nel repentino crollo dei mercati. Ma era la minaccia di morte al sorgere della notte che gli parlava con maggior sicurezza di una regola del fato che, l'aveva sempre saputo, si sarebbe chiarita col tempo.
Adesso poteva cominciare il lavoro di vivere.
Parte seconda capitolo terzo
La donna aveva una pelle di corallo scuro e zigomi ben delineati. Le sue labbra erano lucide come cera d'api. Le piaceva essere guardata e si spogliò con orgoglio, come se fosse un atto pubblico, un denudarsi che varcava i confini nazionali con un elemento di provocazione appena ostentata.
Indossò la corazza di ZyloFlex per fare sesso. Era stato lui a proporlo. Gli disse che quella fibra balistica era la più leggera e morbida in commercio, e anche la più robusta, resistente persino alle pugnalate.
Si chiamava Kendra Hays ed era a proprio agio in sua presenza. Finsero di boxare per circa un secondo e mezzo. Lui la leccò qua e là, lasciandole tracce di saliva sul corpo.
- Fai palestra, - disse lei.
- Sei per cento di grasso corporeo.
- Anch'io, prima. Poi mi sono impigrita.
- Cosa fai per rimediare ?
- Mi esercito con gli attrezzi al mattino. Corro nel parco di sera.
Aveva la pelle color cannella, o ruggine, o un misto di rame e bronzo. Lui si chiese se si sentisse una persona comune quando saliva da sola in ascensore, quando pensava al pranzo.
Si tolse il giubbotto antiproiettile e andò alla finestra con lo scotch del servizio in camera. I suoi vestiti erano piegati su una sedia li accanto. Lui avrebbe voluto trascorrere un giorno in silenzio, nella cella di meditazione, a guardare quella faccia e quel corpo, semplicemente, come in un esercizio taoista, oppure a digiunare con la mente. Non le chiese cosa sapesse della minaccia attendibile. Non era interessato ai dettagli, non ancora, e probabilmente Torval non aveva rivelato granché, in ogni caso, alle guardie del corpo.
- Dov'è adesso ? -Chi?
- Lo sai.
- Giù nell'atrio. Torval? Tiene d'occhio l'ingresso. Dan-ko è fuori in corridoio.
- E chi è ?
- Danko. Il mio collega.
- E nuovo.
- Io sono nuova. Lui ti guarda le spalle già da un po', dal periodo delle guerre nei Balcani. È un veterano.
Eric sedeva a gambe incrociate sul letto, ficcandosi in bocca manciate di noccioline e guardandola.
- Cosa ti dirà adesso ?
- Torval ? Stai parlando di lui ? - Era divertita. - Chiamalo per nome.
- Cosa ti dirà ?
- Basta che tu sia al sicuro. E il suo lavoro, - disse lei.
- Gli uomini diventano possessivi. Come. Non lo sai?
- L'ho sentito dire. Ma il fatto è che io, tecnicamente parlando, ho finito il turno un'ora fa. Quindi è il mio tempo libero, fondamentalmente, quello che stiamousando.
Quella donna gli piaceva. Più si rendeva conto che Torval l'avrebbe odiata, più gli piaceva. Torval l'avrebbe odiata a morte per questo. Avrebbe passato settimane a fissarla con rabbia da sotto le sopracciglia tempestose.
- Lo trovi interessante ? Lei disse: - Cosa?
- Proteggere qualcuno in pericolo.
Voleva che si spostasse leggermente a sinistra, in modo che il suo fianco catturasse il bagliore della lampada da tavolo li accanto.
- Perché sei disposta a farlo ? Ad assumerti questo rischio.
- Forse perché lo meriti, - disse lei.
Intinse un dito nel bicchiere, poi si dimenticò di leccarlo.
- Forse è solo per la paga. La paga è ottima. Il rischio ? Non ci penso. Penso che sia tu a rischiare. Sei tu quello al centro del mirino.
- Forse è solo per la paga. La paga è ottima. Il rischio ? Non ci penso. Penso che sia tu a rischiare. Sei tu quello al centro del mirino.
Le sembrava divertente.
- Ma è interessante ?
- È interessante stare accanto a un uomo che qualcuno vuole uccidere.
- Lo sai cosa dicono, no ? -Cosa?
- La logica estensione degli affari è l'omicidio. Anche questo era divertente.
Lui disse: - Spostati un po' a sinistra.
- Un po' a sinistra.
- Ecco. Così. Perfetto.
Aveva la pelle di un marrone fulvo, i capelli raccolti in treccine aderenti al cranio.
- Che arma ti ha dato ?
- Manganello elettrico. Non si fida ancora abbastanza per darmi un'arma letale.
Si avvicinò al letto e gli tolse di mano il bicchiere di vodka. Lui non riusciva a smettere di cacciarsi in bocca noccioline.
- Dovresti mangiare più sano.
Lui disse: - Oggi è diverso. Quanti volt hai a disposizione ?
- Centomila. Ti bloccano il sistema nervoso. Cadi in ginocchio. Cosi, - disse lei.
Gli versò qualche goccia di vodka sui genitali. Pizzicava e bruciava. Lei rise e lui volle che lo rifacesse. Ne versò qualche altra goccia e si chinò a leccarla via, a ripulirlo della vodka con la lingua, poi si sedette a cavalcioni sopra di lui. Aveva un bicchiere in entrambe le mani e cercava di stare in equilibrio tra i sobbalzi e le risate.
Mentre lei faceva la doccia lui le fini lo scotch e continuò a mangiare manciate di noccioline. La guardò lavarsi e pensò che era una donna da cinghie e cinture. In un certo senso non sarebbe mai stata nuda.
Poi restò in piedi accanto al letto e la guardò vestirsi. Se la stava prendendo comoda, la corazza allacciata sul torso, i pantaloni quasi abbottonati, poi le scarpe, e si stava sistemando la cintura della fondina sopra il fianco quando se lo ritrovò davanti in mutande.
Le disse: - Stordiscimi. Dico sul serio. Tira fuori il manganello e spara. Voglio che tu lo faccia, Kendra. Mostrami cosa si prova. Sto cercando qualcosa di più.
Mostrami una cosa che non conosco. Stordiscimi fino al Dna. Avanti, fallo. Premi l'interruttore. Prendi la mira e spara. Voglio tutti i volt che ci sono in quell'arma.
Fallo. Spara. Adesso.
La macchina era parcheggiata davanti all'hotel, di fronte al Barrymore, dove durante gli intervalli si radunava un gruppo di fumatori, stipati sotto il tendone.
Sedeva in macchina, prendeva in prestito yen e guardava le cifre del suo fondo scomparire nella nebbia su diversi schermi. Torval stava in piedi sotto la pioggia a braccia conserte. Era una figura solitaria nella strada, rivolto verso una serie di piattaforme di carico vuote.
La baldoria dello yen stava sottraendo Eric all'influenza della sua neocorteccia. Si sentiva ancora più libero del solito, sintonizzato sui registri del cervello inferiore e sempre più lontano dal bisogno di intraprendere azioni ispirate, esprimere giudizi originali, mantenere principi e convinzioni indipendenti, tutti i motivi per cui le persone sono incasinate e gli uccelli e i topi no.
Probabilmente il manganello elettrico aveva contribuito. Il voltaggio gli aveva trasformato i muscoli in gelatina per dieci o quindici minuti, e si era rotolato sul tappeto dell'hotel, elettroconvulsivo e stranamente euforico, privo delle facoltà mentali.
Ma riusciva a pensare, adesso, abbastanza da capire cosa stava succedendo. C'erano tracolli valutari in tutto il mondo. Le banche fallivano una dopo l'altra. Cercò la scatola dei sigari e se ne accese uno. Gli strateghi non riuscivano a spiegare la velocità e la profondità della caduta. Aprivano la bocca e le parole uscivano. Lui sapeva che era lo yen. Le sue azioni nei confronti dello yen stavano provocando esplosioni di disordine. Si era talmente indebitato, e il suo portafoglio aziendale, enorme e in continua espansione, era collegato in maniera così cruciale agli affari di tanti istituti chiave, tutti reciprocamente vulnerabili, che l'intero sistema era in pericolo.
Fumava e guardava, sentendosi forte, orgoglioso, stupido e superiore. Era anche annoiato e un po' sprezzante. Stavano esagerando. Pensò che sarebbe finito tutto entro un paio di giorni, e stava per trasmettere una parola in codice all'autista quando si accorse che la gente sotto il tendone guardava fissa la macchina, ammaccata e imbrattata di vernice spray.
Abbassò il finestrino e osservò più attentamente una delle donne ferme là sotto. Da principio gli sembrò Elise Shifrin. Era così che pensava a sua moglie, qualche volta, chiamandola per nome e cognome, a causa della sua relativa celebrità nelle cronache mondane e nelle riviste di moda. Poi non fu più sicuro che fosse lei, sia perché la sua visuale era parzialmente ostruita, sia perché la donna in questione aveva una sigaretta in mano.
Aprì a fatica lo sportello e attraversò la strada, e Tor-val si mise al suo fianco, trattenendo abilmente la rabbia.
- Devo sapere dove sta andando.
- Aspetta e vedrai, - disse Eric.
La donna distolse lo sguardo quando lo vide avvicinarsi. Era Elise, evasiva, di profilo.
- Da quando in qua fumi.
Lei rispose senza girarsi a guardarlo, parlando da un'apparente distanza.
- Ho cominciato quando avevo quindici anni. È una di quelle abitudini che prendono le ragazze. Le fa sentire qualcosa di più di un corpo pelle e ossa che nessuno guarda. Aggiunge un che di teatrale alla loro vita.
- Le fa sentire interessanti. Poi diventano interessanti agli occhi degli altri. Poi sposano uno di questi altri. Poi vanno a cena, - disse lui.
Torval e Danko si piazzarono a fianco della limousine, che si mosse con deliberata lentezza in mezzo al leggero traffico di taxi mentre marito e moglie valutavano le prospettive dei ristoranti più vicini. Su uno schermo apparve una guida ai ristoranti di quella strada, ed Elise scelse il vecchio piccolo affidabile bistro sotterraneo.
Eric guardò fuori dal finestrino e vide una crepa nel muro chiamata Little Tokyo.
Il locale era vuoto.
- Indossi un golfino di cashmere. -Si.
- Beige. -Si.
- E quella è la tua gonna con le perline cucite a mano. -Si.
- Sto osservando. Com'era lo spettacolo?
- Sono uscita all'intervallo, no?
- Di cosa parlava e chi erano gli attori ? Sto facendo conversazione.
- Sono entrata d'impulso. Il pubblico era scarso. Cinque minuti dopo l'apertura del sipario, ho capito perché.
Il cameriere era in piedi accanto al tavolo. Elise ordinò un misto di insalate verdi, se possibile, e una bottiglietta di acqua minerale. Non gasata, per favore, naturale.
Eric disse: - Mi porti il pesce crudo al mercurio. Era seduto di faccia alla strada. Danko era fuori, accanto alla porta, senza la donna.
- Dove hai lasciato la giacca ?
- Dove hai lasciato la giacca ?
- Dove ho lasciato la giacca.
- Prima portavi una giacca. Dove l'hai lasciata ?
- Persa nella mischia, immagino. Hai visto la macchina. Siamo stati attaccati dagli anarchici. Appena due ore fa erano un'imponente protesta globale. E adesso,cosa, dimenticati.
- C'è qualcos'altro che vorrei poter dimenticare.
- Guarda che è odore di noccioline.
- Non ti ho forse visto uscire da quell'hotel là vicino mentre ero davanti al teatro ?
Questo lo divertiva. La metteva in svantaggio, recitare quel meschino interrogatorio, mentre lui si sentiva fantasioso e ribelle come un ragazzino.
- Potrei dirti che c'era una riunione d'emergenza del mio staff per affrontare la crisi. La sala conferenze più vicina era in quell'hotel. Oppure potrei dirti che hodovuto usare il bagno nell'atrio. C'è un bagno in macchina ma tu non lo sai. Oppure sono andato nella palestra dell'hotel per smaltire la tensione della giornata. Potrei dirti che ho passato un'ora sul treadmill. Poi ho fatto una nuotata, ammesso che ci fosse una piscina. Oppure sono salito sul tetto a guardare i lampi. Adoro quando la pioggia ha quel carattere ondeggiante così raro di questi tempi. La pioggia oscilla sopra i tetti come una frusta. Oppure l'armadietto dei liquori della macchina era inspiegabilmente vuoto e sono entrato a bere qualcosa. Potrei dirti che sono entrato a bere qualcosa, nel bar in fondo all'atrio, dove le noccioline sono sempre fresche.
Il cameriere disse: - Buon appetito.
Lei guardò l'insalata. Poi cominciò a mangiarla. La addentò con decisione, trattandola come cibo e non come un'estrusione di materia che la scienza non sapeva spiegare.
- È quello l'hotel dove volevi portarmi ?
- Non ci serve un hotel. Possiamo farlo nel bagno delle signore. Possiamo andare nel vicolo sul retro e scuotere i bidoni della spazzatura. Guarda. Sto cercando distabilire un contatto nei modi più consueti. Di guardare e ascoltare. Di notare il tuo umore, i tuoi vestiti. E una cosa importante. Le tue calze sono dritte ? Questo lo capisco, a un certo livello. L'aspetto delle persone. Quello che indossano.
- Il loro odore, - disse lei. - Ti dispiace se lo dico ? Mi comporto troppo da moglie? Ti dirò qual è il problema. Non so essere indifferente. È una cosa che nonriesco a controllare. E mi rende sensibile al dolore. In altre parole, fa male.
- così va bene. Adesso siamo persone che parlano. Non è così che parlano le persone ?
- Come faccio a saperlo ?
Eric inghiotti il suo sakè. Ci fu una lunga pausa. Disse: - Ho la prostata asimmetrica. Lei si appoggiò allo schienale e rifletté, guardandolo con una certa preoccupazione.
- Cosa significa ?
Lui disse: - Non lo so.
Ci fu un palpabile aggiustamento, una condivisione di inquietudine ed emotività.
- Devi vedere un medico.
- L'ho appena visto. Lo vedo tutti i giorni.
La stanza, la strada erano completamente silenziose, e loro stavano sussurrando. Gli sembrava che non fossero mai stati così vicini.
- Hai appena visto un medico.
- È per questo che lo so.
Ci pensarono un po'. Mentre il momento si faceva solenne, qualcosa di vagamente umoristico passò fra di loro. Forse certe parti del corpo contengono umorismo anche quando la loro disfunzione ti sta lentamente uccidendo, con le persone care riunite al capezzale, sopra le lenzuola macchiate, e altre nell'atrio a fumare.
- Ascolta. Ti ho sposata per la tua bellezza, ma non devi per forza essere bella. Ti ho sposata per i tuoi soldi in un certo senso, per la loro storia, soldi accumulatiper generazioni, nel corso di guerre mondiali. Non è una cosa di cui ho bisogno, ma un po' di storia non guasta. La servitù di famiglia. Le cantine di vini pregiati. Piccoli assaggi fra amici. Sputare merlot in compagnia. È stupido ma carino. I vini imbottigliati all'origine. Le statue nel giardino rinascimentale, sotto la villa in cima alla collina, tra i boschetti di limoni. Ma non devi per forza essere ricca.
- Basta che sia indifferente.
Si mise a piangere. Eric non l'aveva mai vista piangere, e si sentì un po' smarrito. Allungò una mano. Rimase li, tesa, fra loro.
- Indossavi un turbante al nostro matrimonio.
- Si.
- A mia madre è piaciuto molto, - disse lei.
- Si. Ma avverto un cambiamento. Sento che sto cambiando. Hai guardato il menu? Hanno il gelato al tè verde. Potrebbe piacerti. Le persone cambiano. So cos'èimportante adesso.
- È una frase così noiosa. Ti prego.
- So cos'è importante adesso.
- Va bene. Ma nota il tono scettico, - disse lei. - Cos'è importante adesso?
- Essere consapevole di ciò che mi sta intorno. Capire la situazione di un'altra persona, i sentimenti di un'altra persona. Sapere, insomma, cos'è importante.
Pensavo che tu dovessi essere bella. Ma adesso non è più così. Era vero qualche ora fa. Ma niente di ciò che era vero allora è vero adesso.
- Il che significa, presumo, che non mi trovi bella.
- Perché devi essere bella ?
- Perché devi essere ricco, famoso, intelligente, potente e temuto ?
La mano di Eric era ancora sospesa nell'aria in mezzo a loro. Prese la bottiglia di Elise e bevve l'acqua rimasta. Poi le disse che il portafoglio della Packer Capital si era ridotto quasi a zero nel corso della giornata e che il suo personale patrimonio di decine di miliardi era in disastrosa convergenza con quel fatto. Le disse anche che qualcuno là fuori nella notte piovosa aveva formulato una minaccia attendibile alla sua vita. Poi la guardò assimilare le notizie.
Le disse: - Stai mangiando. Buon segno.
Ma Elise non stava mangiando. Stava assimilando le notizie, seduta in un silenzio pallido, la forchetta a mezz'aria. Voleva portarla fuori nel vicolo e fare sesso con lei. E oltre a questo, cosa? Non lo sapeva. Non riusciva a immaginarlo. Ma d'altra parte non riusciva mai a immaginarlo. Si rendeva conto che le sue azioni future, vicine e lontane, sarebbero state compresse dentro i possibili eventi delle prossime ore, o minuti, o secondi. Questi erano gli unici termini di aspettativa di vita che avesse mai riconosciuto come reali.
- Va bene. Benissimo, - disse. - Mi fa sentire libero come^non mi ero mai sentito prima.
- E terribile. Non dire così. Libero di fare cosa? Andare in rovina e morire? Ascoltami. Ti darò un aiuto finanziario. Farò tutto quello che posso per aiutarti. Puoirimetterti in affari, con il tuo ritmo, a modo tuo. Dimmi cosa ti serve. Ti prometto che ti aiuterò. Ma come coppia, come matrimonio, mi sembra che abbiamo chiuso, non è vero? Parli di libertà. Questo è il tuo giorno fortunato.
non è vero? Parli di libertà. Questo è il tuo giorno fortunato.
Il suo portafoglio era rimasto dentro la giacca, nella stanza dell'hotel. Lei prese il conto e ricominciò a piangere. Pianse durante il tè al limone e poi si avviarono insieme verso la porta, abbracciati, e lei gli appoggiò la testa sulla spalla.
Trovò il sigaro semi-spento in un portacenere dentro l'armadietto dei liquori e lo riaccese. L'aroma gli diede una sensazione di robusta salute. Sentiva odore di benessere, di lunga vita, persino di placida paternità, da qualche parte, nella foglia che ardeva.
C'era un altro teatro sul marciapiede di fronte, vicino all'estremità deserta dell'isolato, il Biltmore, ed Eric vide un ponteggio sulla facciata e un cumulo di macerie in un cassonetto li accanto. C'era una ristrutturazione in corso e le porte erano sprangate, ma alcune persone si stavano intrufolando dall'ingresso artisti, giovani uomini e donne in coppie e gruppi furtivi, e poi sentì un rumore casuale, o suoni industriali, o massicce pulsazioni ed esplosioni di musica provenire dall'interno dell'edificio.
Sapeva che sarebbe entrato. Ma prima doveva perdere ancora un po' di soldi.
Il vetro del suo orologio era anche uno schermo. Quando attivava la modalità online, le altre funzioni si interrompevano. Gli ci volle un momento per decifrare una serie di firme criptate. Un tempo era così che violava i sistemi aziendali, testandone la sicurezza a pagamento. Questa volta lo fece per esaminare i conti bancari, i rendiconti delle società di brokeraggio e i depositi all'estero di Elise Shifrin e poi per impersonarla algoritmicamente e trasferire il denaro di quei conti alla Packer Capital, dove le aprì un nuovo conto, più o meno all'istante, digitando alcuni numeri sulla minuscola tastiera che circondava la lunetta dell'orologio. Poi si dedicò a perdere quei soldi, spargendoli sistematicamente nel polverone sollevato dai mercati. Lo fece per assicurarsi di non poter accettare la sua offerta di aiuto finanziario. Il gesto lo aveva colpito, ma era necessario resistere, naturalmente, o sarebbe morto nell'anima. Ma questa non era l'unica ragione per sprecare il patrimonio famigliare di Elise. Stava compiendo un gesto tutto suo, il simbolo di un ironico legame finale. Che andasse pure tutto a rotoli. Si sarebbero visti desolati e puri.
Questa era la vendetta dell'individuo sulla coppia mitica.
Quanto valeva Elise ?
La cifra lo sorprese. Il totale in dollari americani era set-tecentotrentacinque milioni. La cifra sembrava misera, una vincita alla lotteria spartita fra diciassette impiegati postali. Le parole suonavano misere e metalliche, ed Eric cercò di vergognarsi per lei. Ma era tutta aria, in ogni caso. L'aria che esce di bocca quando si pronunciano le parole. Le righe di un codice che interagisce in uno spazio simulato.
Si sarebbero visti puliti, in una luce assassina.
Danko lo precedette fino all'ingresso degli artisti, dove era appostato un buttafuori, immenso, steroidale, con due anelli da pollice adorni di teschi tempestati di pietre preziose. Danko gli parlò, aprendo il giubbotto per mostrare l'arma nella fondina, una prova delle sue credenziali, e l'uomo diede istruzioni. Eric segui la sua guardia del corpo in fondo a un umido corridoio intonacato, su per una scala di metallo ripida e stretta e lungo una passerella che correva sopra il palco.
Abbassò lo sguardo su un teatro sventrato che rimbombava di musica elettronica. L'orchestra e i palchi erano gremiti di corpi, e c'era gente che ballava tra le macerie della seconda balconata, non ancora demolita, sparpagliandosi giù per le scale fino al ridotto, corpi in una danza ciclonica, e sul palco e. nella platea altri corpi che si dimenavano immersi in una luce acromatica.
Uno striscione ricavato da un lenzuolo, scritto a mano, penzolava dalla balconata.
L'ULTIMO TECHNO-RAVE
La musica era fredda e ripetitiva, campionata a loop in lunghi brani di percussioni con suoni lontani che si insinuavano sotto il ritmo principale.
Questa è una vera follia. Occupare l'intero teatro. Cosa ne pensa? - disse Danko.
- Non lo so.
- Non lo so neanch'io. Ma lo trovo folle. Sembrano tutti drogati. Cosa ne pensa?
-Si.
- È la droga del momento. Si chiama novo. Fa sparire il dolore. Guardi come stanno bene.
- Ragazzi.
- Sono ragazzi. Appunto. Com'è che soffrono tanto da doversi impasticcare ? La musica, okay, troppo forte, e allora. Ballano bene. Ma che dolore possonoprovare, se sono ancora troppo giovani per comprarsi una birra ?
- C'è abbastanza dolore per tutti, adesso, - gli disse Eric.
Era difficile parlare e ascoltare. Alla fine dovettero guardarsi, leggersi a vicenda le labbra in mezzo al rumore assordante. Adesso che sapeva il suo nome, Eric riusciva a vedere Danko, in parte. Era un uomo di circa quarant'anni, taglia media, con una cicatrice che gli solcava la fronte e una guancia, il naso storto e ispidi capelli a spazzola. Non viveva nei suoi abiti, il blazer e la maglia a collo alto, ma in un corpo forgiato dalla cruda esperienza, cose sofferte e portate fino ai limiti estremi.
La musica divorava l'aria intorno a loro, scaturendo da enormi altoparlanti collocati tra gli affreschi in rovina sulle pareti di fronte. Cominciò a percepire qualcosa di alieno, una strana aritmia nella scena. I ballerini sembravano andare in senso contrario alla musica, muovendosi sempre più lentamente mentre il ritmo si comprimeva e accelerava. Aprivano la bocca e ruotavano la testa. I ragazzi avevano tutti la testa ovoidale, le ragazze erano una setta di denutrite. La fonte luminosa si trovava nel ballatoio sopra la balconata, ed emanava lunghe e fredde ondate di luce grigia a bande. Per chi guardava dall'alto, la luce cadeva sui raver con un effetto in un certo senso clemente, un contraccolpo visivo al sonoro inquietante. C'era una traccia remota sotto la musica, che assomigliava a una voce femminile ma non lo era. Parlava e gemeva. Diceva cose che sembravano avere senso ma non lo avevano. Eric la ascoltò pronunciare parole estranee alla gamma di ogni linguaggio umano e cominciò a sentirne la mancanza quando tacque.
- Non riesco a credere di essere qui, - disse Danko.
Guardò Eric e sorrise all'idea di trovarsi li, in mezzo ad adolescenti americani in sommossa stilizzata, con la musica che prendeva il sopravvento, rimpiazzando pelle e cervello con tessuti digitali. C'era qualcosa di contagioso nell'aria. Il coinvolgimento non era provocato soltanto da musica e luci, dallo spettacolo di un ballo di massa in un teatro spogliato di poltrone e vernice e storia. Eric pensò che potesse anche essere la droga, il novo, che espandeva il proprio effetto da chi l'aveva presa agli altri. Venivi contagiato. Prima eri in disparte a guardare e poi eri dentro, e con, e parte della folla, e poi eri la folla, la ressa compatta che ballava come un corpo solo.
Erano senza peso, là sotto. Probabilmente era una droga dissociativa, pensò, che separava la mente dal corpo. Era una folla vacua, estranea all'ansia e al dolore, attratta dalla vitrea ripetizione. Tutta la minaccia dell'elettronica consisteva nella ripetizione. Questa era la loro musica, fragorosa, insulsa, esangue e controllata, e cominciava a piacergli.
Ma si sentiva vecchio, guardandoli ballare. Un'epoca era cominciata e finita senza di lui. Si fondevano l'uno nell'altro per non rattrappirsi come individui. Il rumore era quasi insopportabile, gli si radicava nei denti e nei capelli. Stava vedendo e sentendo troppo. Ma era la sua unica difesa contro lo stato mentale dilagante.
Non avendo mai toccato o assaggiato la droga, non avendola mai neanche vista, si sentiva un po' meno se stesso, un po' più gli altri, laggiù, in mezzo al rave.
- Quando vuole ce ne andiamo. La porto fuori.
- Lui dov'è ?
- All'ingresso. Torval? È di guardia all'ingresso.
- Hai mai ucciso qualcuno ?
- Secondo lei? Un giorno sì e uno no, - disse Danko.
Erano in stato di trance, adesso, danzavano con movimenti lentissimi. La musica prese una piega da nenia funebre, con lirici arabeschi di tastiere a collegare ogni segmento di rimpianto. Era l'ultimo techno-rave, la fine di ciò di cui rappresentava la fine, qualunque cosa fosse.
Danko lo condusse giù per la lunga scala e attraverso il corridoio. C'erano camerini con raver seduti e sdraiati dappertutto, accasciati uno addosso all'altro. Si fermò a guardare sulla soglia di un camerino. Non riuscivano a parlare né a camminare. Uno di loro leccava la faccia di un altro, l'unico movimento nella stanza. Mentre la sua autocoscienza si indeboliva, Eric riusci a vederli per quello che erano nel loro delirio chimico, ed era tenero e commovente, conoscerli nella fragilità, nella malinconia del loro essere, perché erano solo ragazzi che cercavano di non disperdersi nell'aria.
Era quasi arrivato all'ingresso degli artisti quando si accorse che Danko non era con lui. Lo capiva. L'uomo era rimasto indietro a ballare da qualche parte, fuori dalla portata delle sue guerre e dei suoi cadaveri, dei suoi cecchini mentali sempre pronti a sparare.
Raggiunse la macchina insieme a Torval, fianco a fianco. La pioggia era cessata. Questa era un'ottima cosa. Era proprio quello che ci voleva. Nella strada c'era un riflesso di lampade al sodio e un'atmosfera di suspense in lenta espansione.
- Lui dov'è?
- Ha deciso di restare dentro, - disse Eric.
- Bene. Non ci serve.
- E lei dov'è?
- L'ho mandata a casa.
- Bene.
- Bene, - disse Torval. - Va bene così.
C'era una donna accampata nella limousine. Sedeva piegata in avanti sulla banquette, semi-addormentata, tutta plastica e stracci, e Torval la sbatté fuori. Lei si divincolò con una specie di danza e restò lì con tutta la sua roba, un ammasso di vestiti, oggetti infagottati e sacchetti di carta per l'elemosina agganciati alla cintura.
- Ho bisogno di una zingara. Qualcuno di voi sa leggere la mano ?
Una di quelle voci in disuso che sembrano fuori dal mondo.
- Cosa ne dite dei piedi? - disse. - Leggetemi i piedi. Si frugò le tasche in cerca di soldi, sentendosi un po' ridicolo, un po' mortificato, dato che aveva guadagnatoe perso somme di denaro che avrebbero potuto colonizzare un pianeta, ma la donna si stava allontanando con le sue scarpe dalle suole scollate, e in ogni caso i pantaloni di Eric non contenevano banconote né monete, e neppure documenti di alcun genere.
La macchina attraversò l'Ottava Avenue, fuori dal quartiere dei teatri, fuori dalla fila di ristoranti e bar eleganti, oltre le gallerie commerciali, oltre gli uffici delle compagnie aeree e i concessionari di automobili, ed entrò negli isolati dal sapore locale, misti e generalmente ignorati, con la lavanderia a secco e il cortile della scuola, dove restava appena un vago sentore dell'antico baccano, dell'antico trambusto e calore di Hell's Kitchen, le linee delle scale antincendio sui vecchi edifici di mattoni.
Il traffico era scarso ma l'auto conservava l'andatura noiosa che aveva tenuto per tutto il giorno. Questo perché Eric, seduto all'interno, parlava attraverso il finestrino aperto con Torval, che camminava di fianco all'auto.
- Cosa sappiamo ?
- Sappiamo che non si tratta di un gruppo. Non è una cellula terrorista organizzata, non sono sequestratori internazionali con richieste di riscatto.
- È un individuo isolato. Ci preoccupa?
- Non abbiamo un nome. Ma abbiamo una telefonata. La Centrale sta analizzando i dati vocali. Hanno fatto alcuni accertamenti. E stanno prospettando una lineadi azione da parte dell'individuo.
- Perché non riesco a nutrire alcuna curiosità sul soggetto ?
- Perché non ha importanza, - disse Torval. - Chiunque sia, ecco chi è.
Eric era d'accordo con questo, qualunque cosa volesse dire. Scesero lungo la strada tra file di bidoni messi fuori per la raccolta dell'immondizia e superarono l'albergo tetro e la sinagoga per attori. La strada era coperta di acqua torbida, sempre più profonda man mano che procedevano, cinque centimetri, otto, il residuo della falla nella conduttura idrica di qualche ora prima. Operai in giubbotto fluorescente e stivaloni erano ancora nella zona, alla luce dei riflettori, e Torval alzava attentamente i piedi mentre camminava attraverso generazioni di sporcizia, sollevando schizzi a ogni sgradevole passo finché il fiume si ridusse a due centimetri di acqua stagnante.
Poco più avanti c'erano sbarramenti di polizia che bloccavano l'accesso alla Nona Avenue. In un primo momento Torval credette che avessero a che fare con le strade allagate. Ma non c'erano squadre di pulizia sull'altro lato della avenue. Poi pensò che il corteo presidenziale stesse raggiungendo downtown per qualche cerimonia ufficiale dopo essersi finalmente scrollato di dosso il traffico di midtown. Ma si sentiva musica in lontananza e le persone che cominciavano a radunarsi erano troppe, troppo giovani, e dotate di auricolari, per far parte di una sfilata presidenziale. Infine si rivolse a uno dei poliziotti che formavano lo sbarramento.
C'era un funerale in corso.
Eric scese dall'auto e si fermò davanti al negozio di biciclette sull'angolo, e Torval gli si piazzò accanto. Un uomo enorme si fece largo verso di loro in mezzo alla folla crescente, massiccio, corpulento, solenne, in pantaloni di lino sbiadito e camicia di pelle nera senza maniche, con accessori di platino qua e là. Era Kozmo Thomas, manager di una dozzina di rapper e un tempo proprietario di una scuderia di cavalli da corsa insieme a Eric.
Si scambiarono la stretta di mano e il mezzo abbraccio di rito.
- Perché siamo qui ?
- Non hai sentito ? Eric disse: - Cosa?
Kozmo si batté il petto con reverenza.
- Brutha Fez.
- Cosa?
- Morto.
- No. Come. Non può essere.
- Morto. È morto. Stamattina.
- E io non lo sapevo ?
- Il funerale va avanti da tutto il giorno. La famiglia vuole offrire alla città l'occasione di rendergli omaggio. La casa discografica vuole un evento promozionale.
Imponente e clamoroso. Di strada in strada. Per tutta la notte.
- E io non lo sapevo ? Com'è possibile ? Io adoro la sua musica. Nel mio ascensore c'è la sua musica. Lo conosco di persona.
Lo conosceva di persona. La tristezza, la malinconia di quel commento trovavano un'eco nella musica stessa, lo schema qawwalì di ritmi e improvvisazioni devozionali, vecchio di più di mille anni, che adesso stava crescendo di volume mentre il corteo funebre scendeva lungo la avenue, sgomberata dal traffico estraneo e dalle macchine parcheggiate.
- Cos'è successo, gli hanno sparato ?
Prima la squadra di motociclisti, poliziotti in formazione a cuneo. Dietro venivano due furgoni di guardie giurate che affiancavano un'auto della polizia. Era perfettamente chiaro, un altro rapper morto, il protocollo della stella del rap che cade gemendo in mezzo a una gragnuola di proiettili dopo aver omesso di pagare il tributo feudale sotto forma di rispetto o soldi o donne a qualche ombroso individuo. Quello era il giorno - non lo era, forse? - in cui uomini potenti facevano una fine sgradevole e improvvisa.
Kozmo lo guardava di traverso.
- Fez aveva problemi cardiaci da anni. Dai tempi delle superiori. È andato da specialisti, da guaritori. Il suo cuore si è stancato, tutto qui. Non c'è stato nessundelinquente in fondo a un vicolo. Dai diciassette anni in poi gli hanno fatto al massimo il test del palloncino.
Poi passarono le macchine con i fiori, dieci, ricoperte di rose bianche che ondeggiavano al vento. Subito dopo veniva il carro funebre, un'auto scoperta con Fez esposto solennemente nel retro, in una bara inclinata verso l'alto per mostrare il corpo, asfodeli dappertutto, rosa carne, i fiori dell'Ade, dove le anime dei morti trovano praterie di pace.
Da un punto più arretrato della processione proveniva la voce amplificata del morto, un canto lento, ipnotico e sincopato, accompagnato da armonium e percussioni.
- Spero che tu non ti senta deluso.
- Deluso.
- Perché il nostro uomo non è stato ammazzato. Spero che non ti abbia deluso. Cause naturali. E una delusione.
Kozmo indicò con il pollice alle proprie spalle.
- Cos'è successo alla tua limousine? Lasciare che una bella macchina venga umiliata in pubblico. E uno scandalo, amico.
- Tutto è uno scandalo. Morire è uno scandalo. Ma moriamo tutti.
- Sento voci nella notte. Perché so che non puoi essere tu a dire queste cose.
Centinaia di donne camminavano accanto alle limousine, in foulard e djellaba, le mani tinte con l'henne, e scalze, e piangenti. Kozmo si batté di nuovo il petto ed Eric lo imitò. Il suo amico gli sembrò maestoso nella quiete della morte, con la lunga barba e il caffettano di seta bianca col cappuccio tirato indietro e l'iconico fez rosso sulla testa, elegantemente inclinato, e com'era commovente che giacesse nella spirale dei suoi stessi adattamenti vocali dell'antica musica sufi, con il rap in punjabi e in urdù e nell'inglese sbruffone dei neri di strada.
Sette volte ci ho provato A farmi ammazzare Sono un semplice poeta E so solo rimare La folla era numerosa e taciturna, più fitta lungo i marciapiedi, e la gente si sporgeva a guardare, in pigiama, dalle finestre dei caseggiati. Quattro guardie del corpo personali di Fez accompagnavano il feretro, avanzando lentamente, una per ogni lato dell'auto. Portavano abiti occidentali, completo scuro e cravatta, oxford lucidate, e fucili da guerra in posizione di portat'arm.
Questo piacque a Eric. Guardie del corpo anche da morto. Eric pensò si.
Poi fu la volta dei ballerini di breakdance, in jeans stirati e scarpe da ginnastica, venuti per comprovare la storia del defunto, nato Raymond Gathers nel Bronx, in passato breaker di una certa fama. Questi erano suoi coetanei, sei uomini allineati, uno per ogni corsia della avenue, sui trentacinque anni, tornati in strada dopo tutti quegli anni per eseguire i loro vortici e mulinelli, i loro impossibili avvitamenti assiali sulla testa.
- Chiedimi se mi piace questa roba, - disse Kozmo.
Ma l'energia e l'emozione producevano una certa malinconia nella folla, più rimpianto che eccitazione. Persino i più giovani sembravano mansueti, fin troppo rispettosi, mentre i breaker roteavano sui gomiti e si tuffavano in avanti parallelamente al terreno, correndo in una frenesia orizzontale.
Il dolore dovrebbe essere potente, pensò Eric. Ma la folla stava ancora imparando a piangere un rapper singolare come Fez, che mischiava lingue, ritmi e temi.
Solo Kozmo era vivace e scoppiettante.
- A un negro retro della mia stazza deve per forza piacere quello che sto vedendo. Perché questa roba non mi sarei mai sognato di farla neanche ai tempi della miamassima magrezza.
Si, i breaker ruotavano sulla testa, corpo eretto e gambe leggermente divaricate, e uno di loro aveva i polsi ammanettati dietro la schiena. Eric pensò che ci fosse qualcosa di mistico in tutto questo, ben oltre la portata della comprensione umana, la passione semifolle di un anacoreta del deserto. Quanto deve sentirsi estraneo al mondo, qui, nello sporco e nel catrame della Nona Avenue.
Poi arrivarono la famiglia e gli amici, su trentasei limousine allungate bianche, in fila per tre, con il sindaco e il capo della polizia in atteggiamento solenne, e una dozzina di membri del Congresso, e le madri dei neri disarmati uccisi dalla polizia, e i colleghi rapper nella falange centrale, e c'erano pezzi grossi dei media, dignitari stranieri, facce del cinema e della televisione, e dappertutto, sparsi qua e là, rappresentanti delle religioni mondiali in tonaca, saio, kimono, sandali e sottana.
Quattro elicotteri della televisione sorvolarono il corteo.
- Gli piaceva avere accanto il suo clero, - disse Kozmo. - Una volta è arrivato nel mio ufficio con un imam e due ragazzi bianchi dello Utah in giacca e cravatta.
Si allontanava sempre per andare a pregare.
- Ha vissuto in un minareto per un po', a Los Angeles.
- L'ho sentito dire.
- Sono andato a trovarlo una volta. L'aveva costruito vicino a casa e poi ha lasciato la casa e si è trasferito nel minareto.
La voce del morto era più forte adesso, con l'approssimarsi del sound truck. Le sue canzoni migliori erano sensazionali e persino le meno belle erano belle.
Sotto la sua voce il battimani del coro si intensificò, spingendo Fez dentro ritmi improvvisati che sembravano spericolati e insostenibili. Si udirono forti grida di devozione, strilli e richiami da strada. Il battimani si propagò dal brano registrato agli occupanti delle limousine e alla folla sui marciapiedi, conferendo una limpida emozione alla notte, una gioia di inebriante integrità, lui e loro, il morto e i provvisoriamente vivi.
C'era una fila di anziane suore cattoliche in abito lungo che recitavano il rosario, maestre della scuola elementare che Fez aveva frequentato.
La sua voce era sempre più incalzante, in urdù, poi in un inglese indistinto, ed era trafitta dalle grida acute di un membro femminile del coro. C'era estasi in tutto questo, un'intensa esaltazione, e qualcos'altro di inesprimibile, oltre il limite, l'esaurirsi di ogni significato fino a lasciare solo un'eloquenza carismatica, parole che crescevano una sopra l'altra, senza percussioni né battimani né le grida impostate della donna.
Infine la voce si zittì. La gente credette che l'evento fosse ormai terminato. Erano tutti tremanti ed esausti. In quel luogo, il piacere che Eric traeva dall'andare in rovina sembrava benedetto e avvalorato. Si sentiva completamente svuotato, tranne che per una sensazione di quiete ineguagliabile, di fatalità libera e disinteressata.
Poi pensò al proprio funerale. Si sentì meschino e patetico. A parte le guardie del corpo, quattro contro tre. Si poteva configurare un insieme di elementi minimamente paragonabile a quanto stava accadendo li ? Chi sarebbe venuto a vedere la salma ? (Un termine imbalsamato in cerca di un cadavere appropriato). Uomini che aveva schiacciato, per nutrire il loro rancore. Uomini che aveva considerato carta da parati, per sovrastarlo ed esultare. Sarebbe stato il corpo incipriato nel sarcofago, quello che tutti erano vissuti abbastanza a lungo da schernire.
Era deprimente, quindi, pensare a tutta la gente che si era raccolta per quel funerale. Era uno spettacolo che Eric chiaramente non poteva dominare. E il funerale non era ancora finito.
Perché adesso arrivavano i dervisci, vorticando al debole richiamo di un unico flauto. Erano uomini magri con indosso una casacca e una lunga gonna svasata, e un copricapo color topazio, senza tesa, cilindrico, alto. Roteavano, giravano piano su se stessi con le braccia spalancate e la testa leggermente inclinata.
Adesso la voce di Brutha Fez, roca e priva di accompagnamento, intonava lentamente un rap cantilenante che Eric non aveva mai sentito.
Il ragazzo era furbo seguiva il sistema Il re della strada non ha alcun rivale Ma non si scordava la regola d'oro Se esci dal coro andrai a finir male Il giovane breakdancer che sfida il pericolo della strada, gli arresti e i pestaggi, i balletti per chiedere l'elemosina alle fermate della metropolitana, la vergogna un verso dopo l'altro, donne in pantaloni aderenti e luccicanti, inaccessibili, e poi il momento della rivelazione.
Il filo d'alba che sveglia l'Oriente Al grido delle anime nude La sua adesione alla tradizione sufi, la lotta per diventare un diverso tipo di accattone, un mendicante di rime, cantando quel suo rap antimaterico (come lui stesso lo definiva) e imparando lingue e costumi che gli sembravano naturali, non sigillati nel mistero e nell'estraneità, una benedizione incisa nella pelle.
O Dio O Uomo sarai qualcuno Se succhi il latte di preghiera e digiuno Ricchezza, fama in un centinaio di paesi, macchine blindate e guardie del corpo, donne luccicanti, si, di nuovo, dappertutto adesso, un'altra benedizione della carne, donne velate e donne in blue jeans, aggrappate alle colonne del letto, donne truccate e donne acqua e sapone, e lui cantava con un po' di tristezza di tutto questo e della voce che in un sogno visionario gli aveva parlato del cuore debole.
Ho avuto la notizia in una stanza inclinata Etnie parsa una scheggia di verità ghiacciata Dalla bocca mi esce l'anima infelice Udente d'oro si spacca alla radice C'erano venti dervisci per la strada, ed erano l'archetipo, forse, l'antico e sacro modello, probabilmente, della posse di breakdancer, però a testa in su. E le ultime parole di Fez non riuscivano a trovare alcuna bellezza nella morte prematura.
Lasciatemi essere quello che ero Uno stupido senza rime Perduto ma vivo Adesso la musica riempiva la notte, oud, flauti, cembali e tamburi, e i danzatori roteavano, in senso antiorario, sempre più veloci a ogni giro. Stanno vorticando fino a uscire dal corpo, pensò Eric, verso la fine di ogni possesso.
Adesso il coro salmodiava con vigore.
Perché il vortice è tutto. Il vortice è il dramma di liberarsi di ogni cosa. Perché stanno roteando per entrare in uno stato di grazia collettiva, pensò. E perché qualcuno è morto stasera e solo il vortice può lenire la loro sofferenza.
Lui credeva in queste cose. Cercò di figurarsi una specie di immaterialità. Immaginò i danzatori liquefarsi, dissolversi in uno stato fluido, in un liquido vorticante, anelli di acqua e nebbia che alla fine scomparivano nell'aria.
Cominciò a piangere mentre arrivava il successivo reparto di sicurezza, un furgone della polizia e parecchie auto senza contrassegni. Pianse violentemente. Incrociò le braccia e si batté i pugni sul petto. Poi sfilarono i furgoni della stampa, tre, e partecipanti non ufficiali a piedi, molti simili a pellegrini, di tutte le razze e religioni, con abiti di ogni foggia, e lui si dondolava e piangeva al passaggio dei partecipanti in macchina, un continuum improvvisato, ottanta, novanta macchine in ordine sparso.
Pianse per Fez e per tutti i presenti e per se stesso naturalmente, abbandonandosi a enormi singhiozzi che gli scuotevano il corpo. Altri piangevano li attorno. Ci fu un'ondata di pugni sul petto e autoflagellazione. Poi Kozmo lo cinse con un braccio e lo trasse a sé. Non sembrava strano che ciò stesse accadendo. Quando le persone muoiono, si piange. Più la persona è importante, più esteso sarà il compianto. La gente si strappava i capelli, mugolando il nome del morto. Piano piano Eric si calmò. Fra il cuoio e la carne della mole avvolgente di Kozmo, sentì l'inizio di una malinconica accettazione.
Voleva ancora una cosa da quel funerale. Voleva veder passare di nuovo il carro funebre, il corpo inclinato offerto agli sguardi, un cadavere digitale, un loop, una riproduzione. Non gli sembrava giusto che il carro fosse passato una volta sola. Voleva che riapparisse a intervalli, il corpo fiero esposto alla notte, per rinnovare il dolore e l'ammirazione della folla.
Era stanco di fissare schermi. Gli schermi al plasma non erano abbastanza piatti. Un tempo sembravano piatti, ora non più. Guardò il presidente della World Bank rivolgersi a un'aula di economisti ansiosi. Pensò che l'immagine avrebbe potuto essere più nitida. Poi il presidente degli Stati Uniti parlò dalla sua limousine in inglese e finlandese. Conosceva un po' di finlandese. Eric lo odiava per questo. Sapeva che alla fine avrebbero scoperto cosa aveva fatto e come, un uomo solo, stanco e addolorato, adesso. Digitò il codice per far rientrare gli schermi dentro sportelli e armadietti, riportando l'interno della macchina a grandezza naturale, con le prospettive ininterrotte e il suo corpo isolato nello spazio, e sentì uno starnuto formarsi nel sistema immunitario.
Le strade si vuotarono in fretta, le transenne vennero caricate su furgoni e portate via. La macchina avanzava, adesso, con Torval sul sedile anteriore.
Eric starnutì e poi provò un senso di incompletezza. Si rese conto che starnutiva sempre due volte, o così gli sembrava in retrospettiva. Attese ed ecco arrivare, gratificante, il secondo starnuto.
Qual è la causa degli starnuti ? Un riflesso difensivo delle mucose nasali, per espellere corpi estranei.
La strada era deserta. La macchina oltrepassò la chiesa spagnola e il gruppo di case di arenaria nascoste da impalcature. Si versò un brandy e si sentì di nuovo affamato.
Più avanti c'era un ristorante, sul lato sud della strada. Vide che era un ristorante etiope e immaginò un pezzo di pane nero spugnoso inzuppato nelle lenticchie stufate. Immaginò yebeg wat in salsa berbera. Era troppo tardi perché il locale fosse ancora aperto, ma c'era una luce fioca sul retro, nei pressi della cucina, e lui ordinò'all'autista di fermare la macchina.
Voleva yebeg wat. Voleva dirlo, annusarlo e mangiarlo.
Quello che accadde dopo accadde in fretta. Scese sul marciapiede e un uomo arrivò di corsa e lo colpi. Alzò un braccio per difendersi, Eric, troppo tardi, e tirò un pugno alla cieca, forse sfiorando la testa o la spalla dell'uomo. sentì la poltiglia, il miscuglio di sangue e materia sulla faccia. Non ci vedeva. I suoi occhi erano ricoperti di quella roba, ma sentì Torval li accanto, i fruscii e i grugniti della zuffa tra i due uomini.
Prese un fazzoletto dalla tasca e restò in piedi sul cordolo a pulirsi la faccia, con cautela, nell'eventualità che un occhio gli fosse uscito dall'orbita. Vide che Torval aveva costretto l'uomo a chinarsi sopra il cofano della limousine, bloccandogli la testa con l'avambraccio.
- Soggetto sotto controllo, - disse Torval dentro il risvolto.
Eric sentì odore e sapore di qualcosa. Prima di tutto il fazzoletto, inacidito dalle sue stesse secrezioni di testicoli e vescicole seminali e varie altre ghiandole, raccolte qualche ora prima quando aveva usato il quadrato di stoffa per pulirsi dopo l'una o l'altra espulsione di liquido. Ma era sconcertato dal sapore che avvertiva sulla lingua.
L'uomo, il soggetto stava dicendo qualcosa, e c'erano esplosioni di luce, come se un fucile stesse sparando li accanto, ma senza le conseguenti detonazioni.
Torval strappò via l'uomo dal retro dell'auto e lo spinse verso Eric, poi gli tirò indietro la testa con un gesto abile.
- Lo inseguiva te da molto tempo. Figlio di puttana, - disse. - Ti ho beccato, finalmente.
In quel momento Eric vide tre fotografi alla sua destra e un uomo inginocchiato che riprendeva la scena. La loro macchina era ferma con le portiere spalancate.
- Oggi tu sei farcito dal maestro, - disse l'uomo. - Questa è mia missione nel mondo. Sabotare potere e ricchezza.
Cominciava a capire. Quello era André Petrescu, il terrorista pasticciere, un uomo che dava la caccia a dirigenti d'azienda, comandanti delle forze armate, star del calcio e uomini politici. Li prendeva a torte in faccia. Attaccava di sorpresa capi di stato agli arresti domiciliari. Tendeva imboscate a criminali di guerra e ai giudici che li condannavano.
- Sono tre anni che io aspetta questo momento. Solo appena sfornate. Io ha lasciato andare il presidente di Stati Uniti per fare questo colpo. Posso farcire luiquando voglio. Tu sei bersaglio importante, te lo dico io. Molto difficile da centrare.
Era un tipo basso, con i capelli tinti di un biondo lucido e una maglietta di Disney World. Eric colse la nota di ammirazione nella sua voce. Gli assestò con precisione un calcio nelle palle, e lo guardò piegarsi goffamente e accasciarsi nella stretta di Torval. Quando i flash si accesero, Eric aggredì i fotografi, tirando parecchi pugni e sentendosi meglio ogni volta che colpiva il bersaglio. I tre uomini in ritirata caddero sopra una fila di bidoni della spazzatura, poi corsero via. Il cameraman fuggi in macchina.
cameraman fuggi in macchina.
Eric tornò verso la limousine, togliendosi manate di panna montata dalla faccia e mangiando quella guarnizione candida dal leggero gusto di limone. Adesso lui e Torval erano uniti dalla violenza e si scambiarono un'occhiata di stima e rispetto.
Petrescu stava soffrendo.
- Tu non ha senso dell'umorismo, signor Packer.
Eric gli assestò un fendente con l'avambraccio, scagliandolo contro il petto di Torval. L'uomo ci mise un po' prima di riuscire a parlare.
- Tu sei all'altezza di tua reputazione, okay. Ma io ha preso tanti calci e botte da guardie di corpo che ormai sono morto vivente. Quando sono in Inghilterra mifanno mettere un radiocollare, per salvare la Regina. Seguono mie tracce come con gru in via di estinzione. Ma prego di credere una cosa. Io ha farcito Fidel tre volte in sei giorni quando era a Bucarest l'anno scorso. Sono action painter di torte alla panna. Una volta io ha lanciato una torta su Michael Jordan da un albero. Famosa Torta Volante. Un video da museo per l'epoca futura. Io ha tirato quiche a sultano di fottuto Brunei mentre faceva il bagno. Mi hanno ficcato in buco nero finché ho sputato l'anima.
Lo guardarono allontanarsi con passo malfermo. Il ristorante era chiuso e vuoto e rimasero fermi nella quiete del momento. Eric aveva i capelli e le orecchie sporchi di panna montata. I suoi vestiti erano striati di panna e schizzati di torta al limone. Aveva un taglio sulla fronte, provocato dalla macchina fotografica che uno degli uomini aveva impugnato per difendersi. Gli scappava la pipi.
Si sentiva benissimo. Strinse il pugno e lo copri con l'altra mano. Lo sentiva forte, dolente, pulsante e caldo. Il suo corpo sussurrava. Fremeva per la lotta, l'assalto ai fotografi, i pugni che aveva assestato, l'afflusso di sangue, le pulsazioni cardiache, la grande, sparsa bellezza dei bidoni della spazzatura rovesciati.
Aveva di nuovo le palle d'acciaio.
Trovò gli occhiali da sole nello scomparto dello champagne e li mise nel taschino della camicia. C'era un rumore all'esterno, una palla che rimbalzava. Stava per dare all'autista il segnale di mettere in moto quando sentì lo sporadico e pesante rimbalzo di una palla da basket, inconfondibile. Scese dall'auto e attraversò la strada verso nord, dove c'era un campo da gioco. Guardò oltre due recinzioni e vide un paio di ragazzi accovacciati e ringhianti che giocavano uno contro l'altro.
Il primo cancello era chiuso. Si arrampicò senza esitazione sullo steccato di sbarre di ferro appuntite. Anche il secondo cancello era chiuso. Si arrampicò sul recinto di rete metallica, che era alto il doppio del primo. Arrivò in cima e saltò giù, e Torval lo segui, da una recinzione all'altra, senza dire una parola.
Andarono in fondo al campo e guardarono i ragazzi giocare fra ombra e oscurità, mettendocela tutta.
- Tu giochi ?
- Un po'. Non è esattamente il mio gioco, - disse Torval. - Rugby. Quello era il mio gioco. E lei?
- Un po'. Mi piaceva il dinamismo del basket. Adesso sollevo pesi.
- Lei capisce, naturalmente. C'è ancora qualcuno sulle sue tracce.
- C'è ancora qualcuno là fuori.
- Questa è stata un'aggressione di poca importanza. Panna montata. Tecnicamente irrilevante.
- Capisco. Mi rendo conto. Naturalmente.
Erano pieni di energia e concentrati, quei ragazzi, mentre tiravano manate alla palla e la colpivano di rimbalzo, emettendo suoni gutturali.
- La prossima volta niente torte.
- Basta dessert.
- E là fuori ed è armato.
- Lui è armato e tu sei armato.
- Questo è vero.
- Dovrai sfoderare la tua arma.
- Questo è vero, - disse Torval.
- Fammela vedere.
- Vuole vederla? Okay. Perché no? L'ha pagata lei.
I due uomini emisero piccoli sbuffi dalle narici, insipide risate nasali.
Torval tirò fuori l'arma dal giubbotto e gliela porse, un bellissimo arnese, nero e argento, canna da quattro pollici e mezzo, impugnatura in noce.
- Fabbricata nella Repubblica Ceca.
- Carina.
- E anche intelligente. Terribilmente intelligente.
- Identificazione vocale.
- Proprio così, - disse Torval.
- Tu cosa. Tu parli e lei riconosce la tua voce.
- Proprio così. Il meccanismo non si attiva a meno che l'impronta vocale non corrisponda ai dati memorizzati. E solo la mia voce corrisponde.
- Devi parlare in ceco per farla sparare ?
Torval fece un largo sorriso. Era la prima volta che Eric lo vedeva sorridere. Con la mano libera estrasse gli occhiali da sole dal taschino della camicia e li scosse per aprire le stanghette.
- Ma la voce è solo metà dell'operazione, - disse Torval, poi si interruppe con aria invitante.
- Stai dicendo che c'è anche un codice.
- Un codice vocale programmatore. Eric si mise gli occhiali. -Quale?
Questa volta Torval sorrise fra sé, poi alzò lo sguardo su Eric, che gli puntò contro la pistola.
- Nancy Babic.
Gli sparò. Un piccolo, bianco lampo di terrore incredulo guizzò negli occhi di Torval. Eric sparò una volta e l'uomo cadde a terra. Ogni traccia di autorità scivolò via dal suo volto. Aveva un'aria stupida e confusa.
A venti metri di distanza la palla da basket smise di rimbalzare.
Torval aveva massa ma non agilità. Era chiaro, adesso che giaceva a terra moribondo. Aveva disciplina e senso del ritmo, okay, ma non una vera fluidità di movimento.
Eric lanciò un'occhiata ai ragazzi, che lo guardavano immobili. La palla era a terra e rotolava lentamente. Fece un cenno noncurante con la mano per indicare che dovevano continuare la partita. Non era successo niente di così significativo da richiedere un'interruzione del gioco.
Gettò l'arma nei cespugli e si incamminò verso la recinzione di rete metallica.
Non c'erano finestre spalancate o grida preoccupate. L'arma non era munita di silenziatore, ma c'era stato soltanto uno sparo, e forse la gente doveva sentirne tre, quat126 tro, o anche di più per scuotersi dal sonno o dal televisore. Era uno dei tanti rumori effimeri della notte, proprio come i versi dei gatti in calore o il ritorno di fiamma di un motore. Anche se sai che non è un ritorno di fiamma, perché non lo è mai, non ti vengono scrupoli di coscienza a meno che l'apparente sparatoria non fiamma di un motore. Anche se sai che non è un ritorno di fiamma, perché non lo è mai, non ti vengono scrupoli di coscienza a meno che l'apparente sparatoria non si ripeta e non ci siano rumori di uomini in fuga. Nel fitto trambusto del quartiere, vivendo così vicino al livello stradale, con quei rumori continui e il tenore atrofizzato della tua personale anomia urbana, non ci si può aspettare che tu reagisca a un botto isolato.
Inoltre, lo sparo era meno fastidioso della partita di basket. Se lo sparo è servito a metter fine alla partita, ringrazia di poter dormire, finalmente.
Fece una pausa impercettibile, pensando che doveva tornare a prendere l'arma.
Aveva gettato l'arma nei cespugli perché voleva che accadesse quel che doveva accadere. Le pistole erano piccoli oggetti funzionali. Voleva affidarsi al potere degli eventi prestabiliti. L'atto era compiuto, la pistola doveva sparire.
Si arrampicò sulla recinzione di rete metallica, strappandosi i pantaloni all'altezza della tasca.
Gettare l'arma era stato un gesto avventato, ma l'aveva fatto stare da dio. Ammazza l'uomo, butta via la pistola. Troppo tardi per i ripensamenti.
Si lasciò cadere a terra e avanzò verso la seconda recinzione.
Non si chiese chi fosse Nancy Babic e non pensò che la scelta di quel codice rendesse Torval più umano o richiedesse un tardivo rammarico. Torval era un nemico, una minaccia al suo amor proprio. Quando paghi un uomo per mantenerti in vita, gli concedi un vantaggio psichico. Il fatto che Eric potesse esprimersi in quel modo dipendeva dalla minaccia attendibile e dalla perdita della sua società e del suo patrimonio. La dipartita di Torval sgomberava la notte, permettendo un confronto più profondo.
Scavalcò l'inferriata e raggiunse la macchina. Un uomo del secolo scorso suonava il sassofono all'angolo della strada.
Le Confessioni di Benno Levin MATTINO.
Sto vivendo offline, adesso. Mi sono spogliato completamente. Sto scrivendo queste parole alla mia scrivania di ferro, che ho spinto lungo il marciapiede e dentro questo edificio. Ho la mia cyclette su cui pedalo realmente con un piede e fingo di pedalare con l'altro.
Ho intenzione di trasformare la mia vita in un atto pubblico tramite le pagine che scriverò. Questa sarà un'autobiografia spirituale che andrà avanti per migliaia di pagine, e il nucleo dell'opera riguarderà lui, se riuscirò a trovarlo e a sparargli oppure no, mentre scrivo a matita.
Quando lavoravo avevo piccoli conti in cinque grosse banche. Le grosse banche hanno nomi che tolgono il respiro alla mente e filiali in tutta la città. Andavo in banche diverse o in filiali della stessa banca. Durante i miei attacchi vagavo da una filiale all'altra fino a notte fonda, spostando il denaro da un conto all'altro o semplicemente controllando i saldi. Inserivo codici ed esaminavo numeri. La macchina ci guida passo dopo passo. La macchina chiede, Conferma? Ci insegna a ragionare per blocchi logici.
Per un breve periodo sono stato sposato con una donna invalida che aveva un figlio. Guardavo suo figlio, poco più che un bambino, e pensavo di essere caduto in un buco.
A quell'epoca insegnavo all'università. Insegnare non è la parola giusta. La mia mente salta da un argomento all'altro. Non voglio praticare quel tipo di scrittura in cui si elencano biografia, famiglia e istruzione. Voglio elevarmi al di sopra della parola scritta e fare qualcosa, ferire qualcuno. Il desiderio di ferire qualcuno è dentro di me e io non l'ho sempre saputo. L'atto stesso e la profondità della scrittura mi diranno se ne sono capace.
Desidero sinceramente la vostra comprensione. Tutti i giorni spendo i miei pochi soldi in acqua minerale. Mi serve per bere e lavarmi. Ho i sanitari che mi sono costruito, i take-out che frequento abitualmente e l'acqua che mi serve, in un edificio privo di acqua, riscaldamento e luce tranne quelli che riesco a procurarmi.
Mi riesce difficile parlare direttamente alla gente. Un tempo cercavo di dire la verità. Ma è difficile non mentire. Io mento alla gente perché questo è il mio linguaggio, il mio modo di parlare. E la temperatura dentro la testa di chi sono. Io non rivolgo osservazioni all'individuo con cui sto parlando, ma cerco di evitarlo, oppure gli lancio un'occhiata significativa, per così dire, al di sopra della spalla.
Dopo un po' ho cominciato a prenderci gusto. Non sono mai stato capace di parlare sul serio. Ogni bugia inutile era un altro modo per costruire una persona. Lo vedo chiaramente, adesso. Nessuno poteva aiutarmi eccetto me stesso.
Guardavo i video in diretta trasmessi continuamente dal suo sito web. Li guardavo per ore e realisticamente per giorni. Quello che diceva alla gente, quel suo modo brusco di girarsi sulla sedia. Trovava le sedie perlopiù stupide e degradanti. I suoi movimenti fluidi quando nuotava, mangiava, giocava a carte davanti alla telecamera. Il modo in cui mescolava le carte. Anche se lavoravo nei suoi uffici, lo aspettavo in strada per vederlo uscire. Volevo localizzarlo nella mia mente. Era importante sapere dove fosse, anche solo per un istante. Metteva ordine nel mio mondo.
E comunque non erano bugie. Non erano falsità, per la maggior parte, ma semplici deviazioni dal corpo dell'interlocutore, oltre la sua spalla, oppure vere e proprie ritirate.
Rivolgermi direttamente a una persona mi riusciva insopportabile. Ma in queste pagine ho intenzione di trovare la mia strada verso la verità. Fidatevi di me. Mi hanno retrocesso alle valute minori. Scrivo per rallentare la mente, ma qualche volta c'è una dispersione.
Adesso uso soltanto una banca perché mi sto riducendo finanziariamente a zero. È una piccola banca con uno sportello automatico all'interno e uno sulla strada, incassato nel muro. Uso lo sportello sulla strada perché la guardia non mi lascia entrare nella banca.
Potrei dirgli che ho un conto e dimostrarlo. Ma la banca è tutta marmo e vetro e guardie armate. E io lo accetto. Potrei dirgli che devo controllare gli Ultimi Movimenti, anche se non ce ne sono. Ma sono disposto a compiere le mie .operazioni all'esterno, allo sportello incassato nel muro.
Mi vergogno tutti i giorni, e ogni giorno mi vergogno sempre di più. Ma passerò il resto della mia vita in questo spazio abitativo a scrivere questi appunti, questo diario, registrando le mie azioni e riflessioni, trovando un po' di dignità, un po' di valore in fondo alle cose. Voglio diecimila pagine che fermino il mondo.
Permettetemi di parlare. Ho una predisposizione a certe varietà globali di malattie. Ho attacchi di susto, una specie di perdita dell'anima, originaria dei Caraibi, che ho inizialmente contratto su Internet poco prima che mia moglie prendesse suo figlio e se ne andasse, trasportata giù per le scale dai suoi fratelli immigrati clandestini.
Da un lato è tutta una finzione, un mito. Dall'altro io ho questa predisposizione. Questa opera comprenderà la descrizione dei miei sintomi.
Lui è sempre avanti, pensa oltre ogni novità, ed è una cosa che sono tentato di ammirare, mette sempre in discussione quelle che voi e io consideriamo appendici importanti e fidate della nostra vita. Le cose si logorano con impazienza fra le sue mani. Io lo conosco nella mia mente. Vuole essere in anticipo di una civiltà rispetto a quella attuale.
Un tempo avevo un rotolo di banconote fermate da un elastico blu con il marchio California Asparagus. Quel denaro è in circolazione adesso, di mano in mano, non sterilizzato. Ho una cyclette che ho trovato una sera, senza un pedale.
Ho pubblicato un annuncio clandestino per trovare una pistola usata e l'ho comprata astutamente e in segreto quando ero online e lavoravo ancora ma per poco, sapendo che il giorno stava arrivando, lui è eccentrico, le sue abitudini lavorative si stanno disintegrando, cosa che risultava evidente dalle loro facce, nonostante l'umorismo e il pathos che una persona come me avvertiva nel possedere un'arma così complicata.
A volte riesco a vedere l'umorismo sprezzante e la pietà in quello che faccio. E riesco quasi a divertirmi, se la metto sul piano dell'inettitudine.
La mia vita non mi apparteneva più. Ma io non volevo che mi appartenesse. Lo guardavo farsi il nodo alla cravatta e sapevo chi era. In bagno aveva uno specchio che gli mostrava temperatura e pressione sanguigna del momento, statura, peso, ritmo cardiaco, frequenza del polso, medicine da prendere, la sua intera storia clinica semplicemente guardandogli la faccia, e io ero il suo sensore umano, leggevo i suoi pensieri, lo conoscevo fin dentro la mente.
Rileva la tua statura nell'eventualità che si riduca durante la notte, cosa che può succedere anabolicamente.
Le sigarette non rientrano nell'immagine che vi siete fatti di me. Ma sono un fumatore incallito. I miei bisogni sono davvero assillanti. Non leggo per divertimento. Non mi faccio il bagno spesso perché non me lo posso permettere. Compro i vestiti da Value Drugs. In America si può fare, vestirsi in un drugstore divertimento. Non mi faccio il bagno spesso perché non me lo posso permettere. Compro i vestiti da Value Drugs. In America si può fare, vestirsi in un drugstore dalla testa ai piedi, cosa che ammiro in silenzio. Ma al di là dei fatti, non sono così diverso da voi nella vita interiore, nel senso che siamo tutti incontrollabili.
L'hanno portata giù per le scale sulla sedia a rotelle con il suo bambino. Dentro la mia testa c'era confusione. Forse avrete visto i picchi nel grafico di una macchina della verità. A volte i miei pensieri hanno questo tipo di andamento, mentre penso a come reagire. Ho lasciato l'insegnamento per fare soldi. La circostanza e il momento erano giusti. Ma poi mi sono sentito un duplicato, nel mio ufficio. Mi sono sentito immesso là dentro, una persona in una situazione che non si è scelta, anche se avevo compiuto la scelta di essere là, e lui non mi si è mai avvicinato più di quanto bastasse per ascoltare casualmente i suoi discorsi.
Mi sento ambivalente riguardo all'idea di ucciderlo. Questo mi renderebbe più o meno interessante ai vostri occhi ?
Non sono uno di quei corpi calpestati che cercate di non guardare quando camminate lungo certe strade. Neanche io li guardo. Sto buttando giù le pareti del mio spazio abitativo, un lavoro di parecchie settimane che adesso è quasi finito. Compro la mia acqua minerale in una drogheria messicana in fondo alla strada. Ci sono due commessi o il proprietario e un commesso, ed entrambi dicono Non c'è problema. Io dico Grazie. Non c'è problema.
Quando ero piccolo leccavo le monete. La scanalatura sul bordo di una comune moneta. Zigrinatura, si chiama. Le lecco ancora, qualche volta, però mi preoccupa la sporcizia intrappolata nella zigrinatura.
Ma togliere la vita a un'altra persona? Questa è la visione del nuovo giorno. Sono finalmente deciso ad agire. E l'atto di violenza che fa la storia e cambia tutto quello che c'è stato prima. Ma come immaginarsi il momento ? Non sono sicuro di riuscire a farlo neppure mentalmente, due uomini senza volto in abiti dai colori
indistinti.
E come faccio a trovarlo per ucciderlo, e ancor più a prendere davvero la mira e sparare ? così è in gran parte inconcludente, questo tira e molla.
Quando pago in contanti cado in piccole ossessioni, comincio ad armeggiare con le monete e temo di sbagliare i conti.
Ma come posso vivere se lui non è morto ? Potrebbe diventare un padre morto. Gli offrirò questa speranza. Potrebbero raccogliere il suo sperma, poi congelarlo per quindici mesi. Dopodiché sarà una bazzecola fecondare la sua vedova o una madre volontaria. Poi un'altra persona crescerà dentro la sua carne e la sua forma e io avrò qualcosa da odiare quando sarà grande abbastanza da diventare uomo.
Le persone pensano a quello che sono nell'ora più silenziosa della notte. Io porto questo pensiero, il mistero infantile e il terrore di questo pensiero, sento questa immensità nell'anima in ogni istante della mia vita.
Ho la scrivania di ferro che ho trascinato su per tre rampe di scale, con cunei e funi. Ho le matite che tempero con un coltellino da frutta.
Ci sono stelle morte che brillano ancora perché la loro luce è intrappolata nel tempo. Dove mi trovo io in questa luce, che a rigor di termini non esiste ?
capitolo quarto
La limousine era uno spettacolo singolare sotto il lampione, con un'aria ammaccata da fumetto, una macchina in un riquadro narrativo, che parlava e provava sentimenti. Le luci del teatro erano accese, dodici per lato, disposte tra le finestre a gruppi di quattro. L'autista era fermo accanto all'auto e teneva aperto lo sportello posteriore. Eric non salì subito. Si fermò a guardare l'autista. Non lo aveva mai fatto prima e gli ci volle un po' per vederlo.
L'uomo era magro e nero, di statura media. Aveva la faccia piuttosto lunga. Un occhio, il sinistro, era difficile da rintracciare sotto la palpebra fortemente abbassata. Il bordo inferiore dell'iride era visibile, relegato nell'angolo. L'uomo aveva una storia, evidentemente. C'erano venature di tramonto nel bianco dell'occhio, una sensazione di sole rosso sangue. Nella sua vita erano successe molte cose.
A Eric piacque l'idea che un uomo con un occhio devastato guidasse un'auto per vivere. La sua auto. Questo rendeva la cosa ancora più interessante.
Si ricordò che doveva orinare. Orinò in macchina, abbassandosi, e guardò la tazza del water rientrare nella propria sede. Non sapeva che fine facessero gli scarichi. Forse venivano immagazzinati in un serbatoio sotto la macchina o magari versati direttamente in strada, in violazione a un centinaio di leggi.
La macchina aveva i fari antinebbia accesi. Il fiume era a soli due isolati di distanza, e portava il suo inventario quotidiano di sostanze chimiche e rifiuti occasionali, articoli casalinghi galleggianti, lo sporadico cadavere ammazzato a randellate o a colpi di pistola, tutti diretti a sud come prosaici fantasmi, verso la punta dell'isola e poi l'imboccatura del mare.
Il semaforo era rosso. Sulla avenue di fronte a loro c'era un traffico scarsissimo ed Eric, dentro la macchina, si rese conto di essere stranamente disposto ad aspettare, non meno dell'autista, solo perché il semaforo era di un colore e non di un altro. Ma non stava osservando le regole del patto sociale. Era di umore paziente, tutto qui, e forse un po' pensieroso, dato che adesso era mortalmente solo, senza le sue guardie del corpo.
L'auto attraversò la Decima Avenue e oltrepassò la prima piccola drogheria e poi il parcheggio per camion vuoto. Eric vide due macchine parcheggiate sul marciapiede, coperte da una logora incerata blu. C'era un cane randagio, c'è sempre un cane magro e grigio che annusa le pagine accartocciate di un giornale. Li i bidoni della spazzatura erano di metallo ammaccato, non i signorili oggetti di gomma delle strade più a est, e c'era spazzatura dentro scatoloni aperti e un mucchio di rifiuti che un carrello del supermarket rovesciato aveva disseminato a ventaglio per la strada. sentì calare il silenzio, un'assenza scollegata dall'umore della strada a quell'ora, e la macchina superò la seconda piccola drogheria e lui vide i bastioni sopra i binari del treno che passavano sotto il livello stradale, e i garage e le officine sigillati per la notte, saracinesche di acciaio contrassegnate da graffiti in spagnolo e arabo.
Il negozio di barbiere si trovava sul lato settentrionale della strada, di fronte a una fila di vecchi caseggiati di mattoni. La macchina si arrestò ed Eric rimase seduto a pensare. Rimase seduto per cinque, sei minuti. Poi lo sportello si aprì cigolando e l'autista, in piedi sul marciapiede, guardò dentro l'auto.
- Siamo arrivati, - disse infine.
Eric restò sul marciapiede a guardare i caseggiati sull'altro lato della strada. Guardò l'edificio che stava in mezzo a una fila di cinque e sentì un brivido malinconico, quarto piano, finestre buie e scala antincendio senza nemmeno una pianta. L'edificio era tetro. Era una strada tetra, ma un tempo la gente ci viveva in stretto e rumoroso contatto, dentro appartamenti con lunghe file di stanze, e felice come in qualsiasi altro luogo, pensò, e ci viveva ancora, nello stesso modo.
Suo padre era cresciuto li. A volte Eric era costretto a venirci e lasciare che la strada alitasse su di lui. Voleva sentirla, ogni dolente sfumatura di nostalgia. Ma la nostalgia o lo struggimento o il senso del passato non erano suoi. Era troppo giovane per provare queste cose, e comunque inadatto, e quella non era mai stata la sua casa o la sua strada. Stava provando quello che avrebbe provato suo padre in quel luogo.
Il negozio di barbiere era chiuso. Sapeva che l'avrebbe trovato chiuso a quell'ora. Si avvicinò alla porta e vide che la luce nel retro era accesa. Doveva essere accesa, a qualsiasi ora. Bussò e attese, e il vecchio arrivò camminando nella penombra, Anthony Adubato, in tenuta da lavoro, casacca bianca a strisce, con le maniche corte, calzoni larghi e scarpe da corsa.
Eric sapeva cosa avrebbe detto l'uomo aprendo la porta.
- Come mai non ti si vede più ultimamente?
- Ciao Anthony.
- Quanto tempo.
- Quanto tempo. Devo tagliarmi i capelli.
- Mi sembri non so cosa. Vieni dentro così posso darti un'occhiata.
Accese la luce e aspettò che Eric si accomodasse sull'unica poltrona da barbiere rimasta. C'era un buco nel linoleum nel punto in cui un tempo si trovava l'altra poltrona, e c'era la poltrona giocattolo per bambini, ancora li, una spider verde con il volante rosso.
- Non ho mai visto un essere umano con i capelli così in disordine.
- Mi sono alzato stamattina e ho capito che era arrivato il momento.
- Sapevi dove andare.
- Mi sono detto. Voglio tagliarmi i capelli.
L'uomo gli sfilò gli occhiali dalla testa e li posò sulla mensola sotto lo specchio che copriva tutta la parete, controllando prima che non fossero macchiati o impolverati.
- Magari vuoi mangiare qualcosa, prima.
- Potrei mangiare qualcosa, si.
- C'è della roba del take-out nel frigo per quando mi viene voglia di mangiucchiare.
Andò nella stanza sul retro ed Eric si guardò intorno. La vernice si stava staccando dalle pareti, scoprendo chiazze di intonaco bianco rosato, e il soffitto era crepato in alcuni punti. Erano passati molti anni da quando suo padre l'aveva portato lì la prima volta, e forse quel posto era stato in condizioni migliori, ma non più di tanto.
Anthony si fermò sulla soglia, con un piccolo contenitore di cartone bianco in ciascuna mano.
- così hai sposato quella donna.
- Infatti.
- La sua famiglia ha un'incredibile quantità di soldi. Non pensavo che ti saresti sposato così giovane. Ma cosa ne so io? C'è purè di ceci e una melanzana ripienadi riso e pinoli.
- Dammi la melanzana.
- Tieni, - disse Anthony, ma rimase fermo dov'era, sulla soglia.
- Se ne è andato in fretta una volta che l'hanno scoperto Gliel'hanno diagnosticato e poi se ne è andato. E stato come se un giorno stesse parlando con me e ilgiorno dopo non ci fosse più. Nella mia mente la vedo così. C'è anche un'altra melanzana con un trito di aglio e limone, se preferisci assaggiare quella. Gliel'hanno diagnosticato che era gennaio. L'hanno scoperto e gliel'hanno detto. Ma lui non l'ha detto a tua madre finché non è stato costretto. In marzo se ne era già andato. Ma nella mia mente sembra che sia durato tutto un giorno o due. Due al massimo.
Eric aveva sentito quella storia parecchie volte, e l'uomo usava le stesse parole quasi ogni volta, con qualche variante qua e là. Era questo che voleva da Anthony.
Le stesse parole. Il calendario della compagnia petrolifera alla parete. Lo specchio che aveva bisogno di argentatura.
- Tu avevi quattro anni.
- Cinque.
- Giusto. Tua madre era il cervello della squadra. Ecco da chi hai preso la mentalità. Tua madre aveva buon senso. Lo diceva anche lui.
- E tu. Te la passi bene ?
- Tu mi conosci, figliolo. Potrei dirti che non posso lamentarmi. Ma potrei lamentarmi eccome. Il fatto è che non voglio.
Si sporse dentro la stanza, soltanto con il tronco, la vecchia testa ispida e gli occhi sbiaditi.
- Perché non c'è tempo, - disse.
Dopo una pausa raggiunse la mensola di fronte a Eric, posò i contenitori e tirò fuori due cucchiai di plastica dal taschino della giacca.
- Vediamo cosa c'è da bere. C'è l'acqua del rubinetto. Bevo acqua adesso. E c'è una bottiglia di liquore che è qui da non so quanto tempo.
Diffidava della parola liquore, Anthony. Tutte le parole che aveva pronunciato erano quelle che pronunciava sempre e che avrebbe sempre pronunciato, eccetto quell'unica parola, e questo lo rendeva nervoso.
- Potrei berne un po'.
- Bene. Perché se tuo padre in persona entrasse qui e io gli offrissi acqua del rubinetto, Dio me ne scampi, farebbe a pezzi la mia ultima poltrona.
- E magari potremmo dire al mio autista di entrare. Il mio autista è fuori in macchina.
- Potremmo dargli l'altra melanzana.
- Bene. Sarebbe carino. Grazie, Anthony.
Erano a metà della cena, stavano seduti e parlavano, Eric e l'autista, e Anthony era in piedi e parlava. Aveva trovato un cucchiaio per l'autista, ed entrambi bevevano acqua da boccali spaiati.
L'autista si chiamava Ibrahim Hamadou, e saltò fuori che sia lui che Anthony erano stati tassisti a New York, a molti anni di distanza l'uno dall'altro.
Eric sedeva sulla poltrona da barbiere e guardava l'autista, che non aveva tolto il giubbotto né allentato la cravatta. Era seduto su una sedia pieghevole, con le spalle allo specchio, e raccoglieva cucchiaiate di cibo con gesti pacati.
- Guidavo un taxi a scacchi. Grosso e traballante, - disse Anthony. - Guidavo di notte. Ero giovane. Cosa potevano farmi ?
- Le notti non sono il massimo se hai una moglie e un figlio. Inoltre, posso dirti che era già abbastanza dura di giorno.
- Amavo il mio taxi. Guidavo per dodici ore di fila. Mi fermavo solo a pisciare.
- Un giorno un uomo viene investito da un altro taxi. Vola addosso alla mia macchina, - disse Ibrahim. - Voglio dire che vola per aria. Si schianta contro ilparabrezza. Proprio davanti alla mia faccia. Sangue dappertutto.
- Io non uscivo mai dal garage senza il Windex, - disse Anthony.
- Nella mia vita precedente ero vicesegretario agli Affari esteri. Gli ho detto, Levati di li. Non posso guidare con il tuo corpo sul parabrezza.
Era il lato sinistro della sua faccia che Eric non riusciva a smettere di guardare. L'occhio collassato di Ibrahim lo affascinava in maniera infantile, e così lo fissava senza vergogna. L'occhio si scostava dal naso, il sopracciglio era dritto e inclinato verso l'alto. Una striscia in rilievo di tessuto cicatriziale attraversava la palpebra. Ma persino con la palpebra semichiusa si scorgeva un sedimento confuso nel bulbo oculare, una torbidezza di bianco d'uovo e venature di sangue. L'occhio aveva una specie di autonomia, un carattere tutto suo, che conferiva all'uomo un'aria scissa, un'inquietante personalità alternativa.
- Mangiavo al volante, - disse Anthony, agitando il contenitore del cibo. - Avevo i miei sandwich avvolti nella stagnola.
- Anch'io mangiavo al volante. Non potevo permettermi di fermarmi.
- Dove pisciavi, Ibrahim ? Io pisciavo sotto il Manhattan Bridge.
- Esattamente dove pisciavo io.
- Pisciavo nei parchi e nei vicoli. Una volta ho pisciato in un cimitero per animali.
- La notte è migliore sotto certi aspetti, - disse Ibrahim. - Ne sono certo.
Eric ascoltava distrattamente, cominciava ad avere sonno. Bevve il suo liquore da un bicchierino di vetro graffiato. Quando finì di mangiare mise il cucchiaio nel contenitore e appoggiò con cautela il contenitore sul bracciolo della poltrona. Le poltrone hanno braccia e gambe che dovrebbero chiamarsi in un altro modo. Piegò la testa all'indietro e chiuse gli occhi.
- Stavo qui diciamo, - disse Anthony. - Più o meno quattro ore al giorno, aiutavo mio padre a tagliare capelli. Di notte guidavo il taxi. Amavo il mio taxi. Avevoun piccolo ventilatore che funzionava a pile perché figuriamoci se a quei tempi c'era l'aria condizionata. Avevo un bicchiere, con la calamita per appiccicarlo al cruscotto.
- Io avevo il volante foderato, - disse Ibrahim. - Molto carino, zebrato. E la foto di mia figlia sul parasole.
A poco a poco il suono delle voci si trasformò in un'unica vocale, e quello sarebbe stato il suo mezzo di fuga, il varco attraverso il quale avrebbe tratto sollievo dalla lunga cappa di insonnia che aveva contrassegnato tante notti. Cominciò a illanguidirsi, ad appisolarsi, e sentì una domanda palpitare da qualche parte nel buio.
Cosa c'è di più semplice che addormentarsi ?
Dapprima sentì un rumore di masticazione. capì subito dove si trovava. Poi aprì gli occhi e si vide allo specchio, con la stanza che gli si ammassava intorno. Si soffermò sull'immagine. L'occhio stava diventando nero nel punto in cui la crosta della torta l'aveva colpito. La ferita alla fronte provocata dalla macchina fotografica stava diventando rosso scuro. C'era quella testa di capelli schiumosi, scompigliati e arruffati, in un certo senso impressionanti, ed Eric annuì a sè stesso, osservando tutto quanto, dritto di fronte a sé, ricordandosi chi era.
Il barbiere e l'autista si dividevano un dolce di sfoglia a strati sottili intrisi di miele e noci, tenendone ognuno un quadratino nel palmo della mano.
Anthony guardava lui ma parlava con Ibrahim, oppure con entrambi, con le pareti e le sedie.
- Il primo taglio di capelli gliel'ho fatto io. Non voleva sedersi nell'automobilina. Suo padre ha cercato di ficcarcelo dentro. Lui diceva no no no no. così l'homesso proprio li dove è seduto adesso. Suo padre lo teneva fermo, - disse Anthony. - Ho tagliato i capelli a suo padre quando era bambino. Poi li ho tagliati a lui.
Stava parlando a se stesso, all'uomo che era stato, forbici in mano, milioni di ciocche tagliate. Continuava a guardare Eric, che conosceva il seguito e aspettava.
- Suo padre è cresciuto con quattro tra fratelli e sorelle. Vivevano proprio qui di fronte. I cinque bambini, la madre, il padre, il nonno, tutti in un appartamento.
Stai a sentire.
Eric ascoltava.
- Otto persone, quattro stanze, due finestre, un bagno. Mi sembra di sentire la voce di suo padre. Quattro stanze, due con finestra. Gli piaceva usare questa espressione.
Eric sedeva sulla poltrona e a tratti sognava scene e volti fluttuanti usciti dalla mente del padre, volti che gli levitavano nel sonno o in momentanee fantasticherie o nel conforto finale della morfina, e c'era una cucina che andava e veniva, tavolo con piano smaltato, macchie sulla tappezzeria.
- Due con finestra, - disse Anthony.
Stava per chiedere per quanto tempo avesse dormito. Ma la gente chiede sempre per quanto tempo ha dormito. Invece raccontò loro della minaccia attendibile. Si confidò con loro. Era bello fidarsi di qualcuno. Gli sembrava giusto esporre la questione in quel luogo particolare, dove il tempo trascorso restava sospeso nell'aria, soffondendo gli oggetti solidi e le facce degli uomini. Quello era il luogo in cui si sentiva al sicuro.
Era chiaro che Ibrahim non era stato informato. Disse: - Ma dov'è il capo della sicurezza in questa circostanza ?
- Gli ho lasciato libero il resto della serata. Anthony era in piedi accanto al registratore di cassa e masticava.
- Ma lei ha una protezione, vero, in macchina.
- Protezione.
- Protezione. Non sa cosa vuol dire?
- Avevo una pistola però l'ho buttata via. Ibrahim disse: - Ma perché ?
- Non pensavo al futuro. Non volevo fare piani o prendere precauzioni.
- Ti rendi conto di quello che hai detto ? - disse Anthony. - Ti rendi conto? Credevo che avessi una reputazione. Quella di saper distruggere un uomo in un batterd'occhio. Ma a me sembri piuttosto insicuro. E questo sarebbe il figlio di Mike Packer ? Che ha una pistola e la butta via ? Cos'è questa storia?
- Cos'è questa storia? - disse Ibrahim.
- In questa parte della città ? E non hai una pistola ?
- Deve prendere delle misure per proteggersi.
- In questa parte della città? - disse Anthony.
- Non può fare cinque metri a piedi dopo il tramonto. Se è imprudente, la ammazzano subito.
Ibrahim lo stava fissando. Era uno sguardo opaco, distante, senza un punto di contatto.
- Se è ragionevole con loro, ci metteranno un po' di più. Prima le strapperanno le budella.
Guardava Eric senza vederlo. Parlava con voce mansueta. L'autista era una figura mansueta in giacca e cravatta, seduto con un dolce nella mano tesa, e i suoi commenti erano chiaramente personali, si estendevano al di là di quella città, di quelle strade, delle circostanze in questione.
- Cos'è successo al tuo occhio, - disse Anthony, - che si è tutto stortato in quel modo ?
- Ci vedo. Posso guidare. Ho passato il loro esame.
- Perché i miei due fratelli erano istruttori di lotta anni fa. Ma non ho mai visto niente del genere.
Ibrahim distolse lo sguardo. Non voleva cedere al flusso di ricordi ed emozioni. Forse provava un senso di lealtà verso la propria storia. Una cosa è accennare a un'esperienza, usarla come riferimento e analogia. Ma descrivere il fatto orrendo nei dettagli, a estranei che annuiranno e dimenticheranno, doveva sembrargli un tradimento del proprio dolore.
- Sei stato picchiato e torturato, - disse Eric. - Un golpe militare. O la polizia segreta. Oppure credevano di averti giustiziato. Ti hanno sparato in faccia. Ti hannolasciato per morto. Oppure i ribelli. Hanno invaso la capitale, prendendo prigionieri a caso fra chi lavorava per il governo, spaccando facce a caso con il calcio dei
fucili.
Aveva parlato con calma. C'era un debole scintillio di sudore sul volto di Ibrahim. Sembrava guardingo e pronto, un atteggiamento che aveva imparato in qualche pianura sabbiosa settecento anni prima di nascere.
Anthony mangiò un pezzo di dolce. Lo ascoltarono masticare e parlare.
- Amavo il mio taxi. Trangugiavo i pasti. Guidavo dodici ore di fila, una notte dopo l'altra. Vacanze, neanche parlarne.
Era in piedi accanto al registratore di cassa. Poi allungò una mano, apri l'armadietto sotto la mensola e spostò alcuni asciugamani.
- Ma cosa facevo per proteggermi ?
Eric l'aveva già vista prima, una vecchia rivoltella butterata che giaceva in fondo al cassetto.
Gli parlavano. Mostravano i denti e mangiavano. Insistevano perché prendesse la pistola. Eric non credeva che avesse molta importanza. Temeva che la notte fosse finita. La minaccia avrebbe dovuto materializzarsi poco dopo la morte di Torval, ma fino a quel momento non era accaduto, e lui cominciava a pensare che non sarebbe accaduto mai. Quella era la prospettiva più tetra di tutte, che là fuori non ci fosse nessuno. Lo lasciava in una condizione sospesa, ogni cosa materiale e coerente in un'indistinta rovina alle sue spalle ma nessun momento culminante davanti a sé.
Gli restava soltanto il taglio di capelli.
Anthony sventolò la mantellina a righe. Gli spruzzò acqua sulla testa. La conversazione era rilassata, adesso. Tornò a riempirgli il bicchierino di sambuca. Poi diede una sforbiciata preliminare nell'aria, a un paio di centimetri dall'orecchio di Eric. La conversazione era routine da barbiere, aumento degli affitti e traffico nei tunnel. Eric reggeva il bicchiere all'altezza del mento, con il braccio accostato al corpo, e sorseggiava senza fretta.
Dopo un po' si strappò via la mantellina. Non riusciva più a stare seduto. Saltò su dalla poltrona, tracannando il liquore con una rapida sorsata.
Anthony sembrò piccolissimo, d'improvviso, con il pettine a rastrello in una mano, le forbici nell'altra.
- Ma perché ?
- Devo andarmene. Non so perché. Ecco perché.
- Ma lasciami fare almeno il lato destro. così i due lati saranno pari.
Significava qualcosa per Anthony. Questo era chiaro, pareggiare i lati.
- Tornerò. Ti do la mia parola. Mi siederò qui e tu potrai finire.
Fu l'autista a capire. Ibrahim si avvicinò all'armadietto e tirò fuori la pistola. Poi la porse a Eric tenendola per la canna, con una vena che gli guizzava sul dorso della mano.
C'era qualcosa di risoluto nel suo volto, una solenne insistenza nel proprio dovere di riconoscere quanto di duro e spietato esiste al mondo, ed Eric voleva adeguarsi al suo contegno serio e dignitoso, altrimenti avrebbe rischiato di deluderlo.
Prese in mano la pistola. Era un ferrovecchio placcato nichel. Ma percepiva l'intensità dell'esperienza di Ibrahim. Cercò di leggere il suo occhio devastato, la striscia iniettata di sangue sotto la palpebra socchiusa. Rispettava quell'occhio. C'era una storia li dentro, un folklore meditabondo di tempo e destino.
Il vapore scaturiva da un tombino in un'alta colonna azzurra, lo spettacolo più comune, pensò, ma bello adesso, con in sé la stranezza, l'indecifrabilità di una cosa vista per la prima volta, vapore che saliva dal cuore della città, quasi un'apparizione.
La macchina si avvicinava all'Undicesima Avenue. Eric sedeva davanti con l'autista, e gli chiese di escludere qualsiasi comunicazione con la Centrale. Ibrahim obbedì. Poi attivò il display a visione notturna. Una serie di immagini termiche apparve sul parabrezza, in basso a sinistra, oggetti fuori dalla portata dei fanali. Illuminò l'istantanea dei cassonetti lungo il fiume, aggiustando leggermente l'inquadratura verso l'alto. Attivò le microcamere che monitoravano l'attività lungo il perimetro dell'automobile. Chiunque si fosse avvicinato, da qualunque angolo, sarebbe apparso su uno degli schermi del cruscotto.
Quei dispositivi gli sembravano giocattoli, utili forse per la video arte.
- Ibrahim, dimmi una cosa. -Si.
- Queste limousine allungate di cui sono piene le strade. Mi stavo chiedendo.
-Si.
- Dove vengono parcheggiate di notte ? Hanno bisogno di molto spazio. Fuori città, vicino agli aeroporti o da qualche parte nel Meadowlands. Long Island,New Jersey.
- In New Jersey ci vado io. La limousine resta qui.
- Dove ?
- Al prossimo isolato. Troveremo un garage sotterraneo. Solo limousine. Lascerò giù la sua macchina, prenderò la mia, tornerò a casa guidando lungo il tunnelpuzzolente.
Un vecchio magazzino industriale sorgeva all'angolo sudest, dieci piani, grande come un isolato, un ex luogo di sfruttamento medievale senza uscite di sicurezza.
C'erano finestre sbarrate e impalcature e il marciapiede era circondato da una barriera di assi. Ibrahim diresse l'auto verso destra, tenendosi lontano dalle zone chiuse. Una vettura si mise in moto davanti a loro, un furgone ristorante, insolito a quell'ora, anomalo, degno di considerazione.
Aveva infilato la pistola sotto la cintura e si sentiva a disagio. Si ricordò di avere dormito. Era vigile, desideroso di azione, di risoluzione. Qualcosa doveva succedere presto, il dileguarsi del dubbio e l'apparire di un disegno, il piano d'azione del soggetto, visibile e distinto.
Poi videro accendersi dei fari, dritto davanti a loro, che divamparono con uno schiocco e un sibilo, grandi riflettori ad arco sistemati su treppiedi e attaccati ai pali della luce. Comparve una donna in jeans, che fece segno all'auto di fermarsi. Il crocevia era immerso in una luce vibrante, la notte improvvisamente viva.
C'era gente che si incrociava lungo le strade, chiamandosi a gran voce o parlando dentro ricetrasmittenti, e camionisti che scaricavano attrezzature da lunghi tir parcheggiati su entrambi i lati della avenue. C'erano roulotte ferme alla stazione di servizio sull'altro lato della strada. L'uomo sul furgone davanti a loro abbassò la fiancata ribaltabile, per distribuire i pasti, e fu soltanto allora che Eric vide il pesante carrello su cui era fissata la giraffa mobile avanzare lentamente per mettersi in posizione. Nel punto più alto del carrello era collocata una piattaforma che sosteneva una telecamera e un paio di uomini seduti.
Il dolly non era l'unica cosa che gli era sfuggita. Quando scese dall'auto e si spostò in un punto non ostruito dal furgone ristorante, vide gli elementi della scena in preparazione.
C'erano trecento persone nude sdraiate in mezzo alla strada. Occupavano tutto l'incrocio, disposte a casaccio, alcuni corpi sovrapposti, altri lunghi e distesi, appiattiti, fetali, e tra loro anche bambini. Nessuno si muoveva, nessuno aveva gli occhi aperti. Era uno spettacolo sconcertante, una città di carne tramortita, la nudità, le luci abbaglianti, tutti quei corpi indifesi e poco plausibili in un luogo di ordinario transito umano.
Naturalmente c'era un contesto. Qualcuno stava girando un film. Ma quella era solo una cornice di riferimento. I corpi erano crude realtà, nudi sulla strada. Il loro potere apparteneva soltanto a loro, era indipendente da qualsiasi circostanza accompagnasse l'evento. Ma era un potere strano, pensò Eric, perché in quella scena c'era qualcosa di timido ed esangue, di leggermente distaccato.
Una donna tossì con uno scatto della testa e un sussulto del ginocchio. Eric non si chiese se dovessero sembrare morti o soltanto privi di sensi. Li trovava tristi e coraggiosi allo stesso tempo, e più nudi di quanto fossero mai stati in vita loro.
Tecnici muniti di esposimetro si insinuavano in mezzo al gruppo, camminando con cautela sopra teste e in mezzo a gambe divaricate, elencando numeri nella notte, e una donna con una lavagna in mano era pronta a segnare la scena e il ciak. Eric andò all'angolo della strada e sgusciò tra due assi deformate che bloccavano il marciapiede. Si fermò all'interno dell'impalcatura di compensato, respirando malta e polvere, e si tolse i vestiti. Ci mise un po' a ricordarsi perché provava quel dolore acuto nella zona del diaframma. Era il punto in cui era stato bruciacchiato dal manganello elettrico, e come gli era sembrata sensazionale, nella luce ad arco intermittente, la sua guardia del corpo con il giubbotto corazzato. sentì un bruciore persistente, a metà dell'uccello, per la vodka che lei gli aveva versato sopra.
Avvolse con cura i pantaloni intorno alla pistola e lasciò tutti i vestiti sul marciapiede. Avanzò a tentoni nell'oscurità, svoltando l'angolo e addossandosi con la spalla a un'asse finché non vide una frangia di luce. Spinse adagio, sentendo l'asse sfregare contro l'asfalto, poi girò con cautela intorno al pannello di compensato e usci in strada. Fece dieci piccoli passi, raggiungendo il limitare dell'incrocio e il margine dei corpi abbattuti.
Si sdraiò in mezzo a loro. sentì le variazioni di spessore dei ringrossi di gomma da masticare compressi da decenni di traffico. Annusò le esalazioni del terreno, le perdite d'olio e le strisciate di pneumatici, estati di asfalto rovente. Si sdraiò sulla schiena, testa girata da una parte, braccio piegato sul petto. Il suo corpo si sentiva stupido in quel luogo, una schiuma perlacea di grasso animale dentro uno scarico industriale. Con la coda dell'occhio riusciva a distinguere la telecamera che perlustrava la scena da nove metri di altezza. Il campo lungo era ancora in preparazione, pensò, mentre una donna con una camera a mano vagava li attorno girando un video digitale.
Un assistente alla regia gridò a un subalterno: - Chiudi l'accesso, Bobby.
La strada si fece silenziosa a poco a poco. Le voci si spensero, il senso di movimento esterno svanì. Eric sentiva la presenza dei corpi, tutti quanti, il respiro corporeo, il calore e lo scorrere del sangue, persone diverse l'una dall'altra che adesso erano simili, ammassate, in un certo senso ammucchiate, vive e morte allo stesso tempo. Erano soltanto comparse in una scena di massa, con l'ordine di restare immobili, ma l'esperienza era forte, così totale e aperta che Eric riusciva a malapena a pensare al di fuori di essa.
- Ciao, - disse qualcuno.
Era la persona più vicina a lui, una donna sdraiata a faccia in giù, un braccio teso, il palmo rivolto verso l'alto. Aveva i capelli castano chiaro, o biondo scuro.
Forse erano fulvi. Cos'è il fulvo? Un giallo-marrone grigiastro tendente a un blando marrone rossiccio. Oppure ramati. Ramati suonava meglio.
- Dovremmo essere morti ?
- Non lo so, - disse lui.
- Nessuno ce l'ha detto. Mi sento frustrata.
- Allora fai la morta.
La posizione della testa la obbligava a parlare dentro l'asfalto, smorzando le parole.
- Ho assunto una posizione scomoda di proposito. Qualunque cosa ci sia successa, ho pensato, probabilmente è successa senza preavviso e io volevo che questosi rispecchiasse nella caratterizzazione del mio personaggio. Ho un braccio tutto contorto che mi fa male. Ma non mi sentirei bene se cambiassi posizione. Qualcuno ha detto che i finanziamenti sono andati a monte. È successo da un momento all'altro, a quanto pare. Non è rimasto neanche un soldo. Questa è l'ultima scena che girano prima di sospendere a tempo indeterminato. Quindi non ci sono scuse per l'autoindulgenza, non trovi?
Elise non aveva forse i capelli ramati ? Non riusciva a vedere il volto della donna e lei non vedeva il suo. Ma Eric aveva parlato, e lei evidentemente lo aveva sentito. Se fosse stata Elise, non avrebbe reagito al suono della voce di suo marito? Ma d'altra parte, perché avrebbe dovuto? Non era una cosa interessante da fare.
Il rombo di un camion di passaggio gli tambureggiò sulla spina dorsale.
- Ma ho il sospetto che non siamo davvero morti. A meno che non siamo una setta, - disse lei, - coinvolta in un suicidio di massa, e spero vivamente che non siacosì.
Una voce amplificata gridò: - Occhi chiusi, gente. Zitti e immobili.
La ripresa aal dolly cominciò, con la telecamera che si abbassava lentamente, ed Eric chiuse gli occhi. Adesso che era cieco in mezzo a loro, vide i corpi ammassati come li vedeva la telecamera, freddamente. Stavano fingendo di essere nudi o erano nudi davvero ? Non gli era più così chiaro. C'erano molte sfumature di carnagione, ma lui li vedeva in bianco e nero e non sapeva perché. Forse una scena come quella necessitava di una tetra monocromia.
- Azione, - gridò un'altra voce.
Gli dilaniava la mente, cercare di vederli nella loro realtà, svincolati dall'immagine su uno schermo a Oslo o Caracas. O forse quei luoghi erano indistinguibili da questo ? Ma perché porsi quelle domande ? Perché vedere quelle cose? Lo isolavano. Lo tenevano in disparte, e non era ciò che voleva. Voleva essere li in mezzo a loro, tutto corpo, in mezzo ai tatuati, a quelli con il culo peloso, a quelli che puzzavano. Voleva piazzarsi al centro dell'incrocio, in mezzo ai vecchi con le vene in rilievo e le macchie della pelle e accanto al nano dalla testa bitorzoluta. Era probabile, pensò, che li ci fossero persone con malattie degenerative, alcuni, irriducibili, con la pelle che veniva via a scaglie. C'erano quelli giovani e forti. Lui era uno di loro. Era uno degli obesi patologici, degli abbronzati, dei sani e di quelli di mezza età. Pensò ai bambini nella scrupolosa bellezza della loro finzione, così esile e regolare. Lui era uno di loro. C'erano quelli con la testa annidata nel corpo di un altro, tra i seni o sotto le ascelle, in cerca di un rifugio per quanto sgradevole. Pensò a quelli che giacevano a faccia in su e braccia spalancate, esposti al cielo, con i genitali al centro del mondo. C'era una donna dalla pelle scura con un piccolo segno rosso in mezzo alla fronte, di buon auspicio. C'era forse anche un uomo senza un arto, il valoroso moncherino cucito sotto il ginocchio ? Quanti corpi avevano cicatrici chirurgiche ? E chi è la ragazza con i dreadlock, raggomitolata su se stessa, quasi completamente smarrita dentro i capelli, con le rosee dita dei piedi in mostra ?
Voleva guardarsi intorno ma non aprì gli occhi finché, dopo un lungo istante, una voce maschile disse piano: - Stop.
Eric fece un passo e tese un braccio all'indietro. sentì la mano di lei prendere la sua. Lo seguì fino alla porzione di marciapiede delimitata dall'impalcatura, dove lui si girò nel buio e la baciò, chiamandola per nome. Lei gli si arrampicò addosso e lo avvolse con le gambe, e fecero l'amore li, la donna aggrappata all'uomo in piedi, nell'odore pietroso della demolizione.
- Ho perso tutti i tuoi soldi, - le disse.
La sentì ridere. Percepì il soffio spontaneo della risata, l'aria umida che gli lambiva la faccia. Aveva dimenticato il piacere della sua risata, una mezza tosse da fumo, una risata da sigaretta uscita da un vecchio film in bianco e nero.
- Perdo cose in continuazione, - disse lei. - Stamattina ho perso la macchina. Ne abbiamo già parlato ? Non mi ricordo.
Ecco a cosa assomigliava quel momento, alla scena successiva del film in bianco e nero che veniva proiettato sugli schermi di tutto il mondo, estranea alla sceneggiatura e alla necessità di nuovi finanziamenti. Dopo la folla nuda, i due amanti isolati, liberi dal ricordo e dal tempo.
- Prima ti ho rubato i soldi, poi li ho persi. Lei disse, divertita: - Dove ?
- In borsa.
- Ma dove ? - disse lei. - Dove vanno a finire i soldi quando li perdi ?
Gli leccò la faccia e gli si arrampicò addosso e lui non riusci a ricordarsi dove fossero andati a finire i soldi. Gli passò la lingua sull'occhio e sul sopracciglio. Lui la sollevò ancora più in alto, con frenesia, e schiacciò la faccia contro i suoi seni. Li sentì sobbalzare e sussurrare.
- Che ne sanno i poeti dei soldi ? I poeti amano il mondo e lo raffigurano in un verso. Sanno fare solo questo, - disse lei. - E questo.
Così dicendo gli mise una mano sulla testa e lo strinse, afferrò eccitata una manciata di capelli, gli tirò indietro la testa e si chinò a baciarlo, un bacio così insistente e languido, così caldo e intenso, che gli sembrò di conoscerla, finalmente, la sua Elise, che sospirava, leccava, gli mordeva la bocca, mormorava parole umide e soffocate, lo baciava sussurrando con voce infantile, il corpo fuso con il suo, cingendolo con le gambe, le natiche bollenti nelle sue mani.
Nell'istante in cui Eric capì di amarla, Elise scivolò giù e sgusciò via dalle sue braccia. Poi si insinuò attraverso lo stretto varco fra le assi e lui la guardò attraversare la strada. Nulla si muoveva là fuori. Elise era l'unica pennellata di movimento, troupe e comparse sparite, attrezzatura sparita, ed era splendida, snella e argentea, e camminava a testa alta, con precisione tecnica, verso l'ultima roulotte parcheggiata alla stazione di servizio, dove avrebbe trovato i suoi vestiti, per poi indossarli in fretta e scomparire.
Eric si vestì al buio. Aveva la schiena e le gambe cosparse del pietrisco della strada, sabbioso e ruvido. Tastò intorno in cerca delle calze senza trovarle e uscì in strada a piedi nudi, con le scarpe in mano.
L'ultima roulotte se ne era andata, l'incrocio era vuoto. Non sedette accanto all'autista, questa volta. Voleva stare nel vano posteriore della sua limousine rivestita di sughero, nella luce bronzea, solo nel flusso dello spazio, a osservarne le linee e la grana, le dolci transizioni, una forma o testura che si modulava su un'altra. Il lungo abitacolo si curvava verso il retro con un movimento fluido, ed Eric sentiva l'odore del cuoio intorno a sé, e l'odore dei pannelli di cedro rosso che aveva di fronte, inseriti nel tramezzo. Il marmo freddo sotto i piedi gli gelò le ossa. Guardò il dipinto sul soffitto, un acquerello a inchiostro scuro, semiastratto, che mostrava la disposizione dei pianeti al momento della sua nascita, calcolata in ore, minuti e secondi.
Attraversarono l'Undicesima Avenue ed entrarono nella desolazione delle automobili. Vecchi garage in rovina e vetrine fatiscenti. Officine per auto, autolavaggi, auto usate. Un'insegna con la scritta Collision Inc. Auto smantellate schierate sul marciapiede, con il retro verso la strada. Era l'ultimo isolato prima del fiume, non residenziale, non pedonale, parcheggi con recinti di filo spinato, una zona adatta alla limousine nelle sue condizioni attuali. Si mise le scarpe. La macchina si fermò accanto all'entrata di un garage sotterraneo, dove sarebbe rimasta per la notte e probabilmente per sempre, o finché non fosse stata confiscata, smontata per ricavarne pezzi di ricambio e demolita.
Si alzò il vento. Eric restò fermo in strada, vicino a un edificio abbandonato, finestre sbarrate, una porta di ferro chiusa con il lucchetto dove un tempo c'era l'ingresso. Pensò che gli sarebbe piaciuto prendere una latta di benzina e dare fuoco alla macchina. Creare una pira fatta di legno, cuoio, gomma e dispositivi elettronici in riva al fiume. Sarebbe stata una cosa fantastica da fare e da vedere. Questa è Hell's Kitchen. Bruciare la macchina fino a ridurla a un rottame annerito di metallo inservibile, proprio li in mezzo alla strada. Ma non poteva sottoporre Ibrahim a un tale spettacolo.
metallo inservibile, proprio li in mezzo alla strada. Ma non poteva sottoporre Ibrahim a un tale spettacolo.
Il vento soffiava forte dal fiume. Lui e l'autista si incontrarono di fianco alla macchina.
- Al mattino presto, proprio qui, si vedono squadre di uomini in tuta bianca che lavano le limousine. La piazza del mercato delle limousine. Uno sventolio di stracci.
I due uomini si abbracciarono. Poi Ibrahim sali in macchina e scese lentamente lungo la rampa e dentro il garage. La grata di acciaio si abbassò. Avrebbe preso la sua macchina, sarebbe uscito dall'altra parte e avrebbe guidato fino a casa.
La luna era perlopiù ombra, una falce calante al ventiduesimo giorno di orbita, secondo i suoi calcoli.
Rimase fermo in strada. Non c'era niente da fare. Non si era reso conto che avrebbe potuto accadergli. Il momento era privo di urgenza e di scopo. Questo non l'aveva previsto. Dov'era la vita che aveva sempre condotto ? Non c'era nessun posto in cui volesse andare, niente a cui pensare, nessuno ad attenderlo. Come poteva muovere un passo in una direzione se tutte le direzioni si equivalevano ?
Poi si udì uno sparo. Il suono volò nell'aria. Era qualcosa, si, un evento, e tuttavia quasi trascurabile, uno scoppio sordo venuto e andato in un soffio, portando con sé un debolissimo accenno di pericolo. Non voleva esagerarne l'importanza. Poi si udì un altro sparo, seguito dalla voce di un uomo che urlava il suo nome in una serie di dimetri trocaici e con un tono stridulo più agghiacciante di uno sparo.
ERIC MICHAEL PACKER
E così era un fatto personale. Si ricordò della pistola infilata nella cintura. La prese in mano e si preparò a scattare verso un paio di cassonetti sul marciapiede alle sue spalle. Li avrebbe trovato un riparo, un nascondiglio da cui rispondere al fuoco. Invece rimase fermo dov'era, in mezzo alla strada, di fronte all'edificio chiuso con il lucchetto. Un altro sparo echeggiò, smorzato, quasi smarrito nel vento tagliente. Sembrava venire dal terzo piano.
Guardò la pistola. Era una rivoltella a canna corta, piccola e smussata, con il grilletto largo. Controllò il tamburo, che aveva soltanto cinque colpi. Ma sapeva che non avrebbe contato i colpi.
Si preparò a sparare, a occhi chiusi, visualizzando il dito sul grilletto, in ogni dettaglio, e vedendo anche l'uomo per strada, se stesso, inquadrato nel cannocchiale, di fronte all'edificio senza vita.
Ma qualcosa si muoveva verso di lui, dietro la sua spalla sinistra. Aprì gli occhi. Era un uomo in bicicletta, un fattorino, a petto nudo, che lo oltrepassò, con le braccia spalancate, e si immise con un'ampia curva nella West Side Highway, diretto a nord lungo i terminal e le banchine.
Eric lo guardò per un momento, semisorpreso. Poi si girò e fece fuoco. Sparò all'edificio in sé, come edificio. Quello era il bersaglio. Gli sembrava perfettamente logico. Risolveva parecchi problemi di soggetto e oggetto.
L'uomo rispose al fuoco.
Perché le persone interpretano gli spari come petardi o ritorni di fiamma di un motore ? Perché non hanno un assassino alle calcagna.
Si avvicinò all'edificio. La porta con il lucchetto sembrava formidabile, una paratia corazzata. Pensò di sparare alla serratura per la pura stupidità cinematografica del gesto. Sapeva che c'era un altro ingresso perché il lucchetto non si poteva aprire dall'interno. C'era un cancello alla sua sinistra, alcuni gradini, un vicolo stretto e cosparso di merda di cane che portava a un cortile pieno di spazzatura dietro l'edificio.
Spinse una vecchia porta deformata. Il suo allenatore era una donna, lettone. La porta cedette e lui entrò nell'edificio. Il corridoio sul retro era umido come una palude. Un uomo giaceva morto o addormentato nel vestibolo, se questa era ancora una parola, ed Eric girò intorno al corpo e salì due rampe di scale alla luce fioca e oscillante di un paio di lampadine che penzolavano dal soffitto.
I piani superiori erano spazzati dal vento. C'erano calcinacci sui pianerottoli, e ogni sorta di detriti e scorie e macerie della strada. Al terzo piano scavalcò diversi vassoi di polistirolo con avanzi di cibo e sigarette accuratamente spente, schiacciate. Mancavano tutte le porte tranne una e il vento soffiava attraverso una finestra vuota. Gli piaceva, il rumore del vento che investiva stanze e corridoi. Gli piacevano i due topi che vide avanzare verso il cibo. I topi andavano bene. I topi erano giusti e opportuni, perfettamente in tema.
Si fermò accanto all'unico appartamento dotato di porta. Appoggiò la schiena alla parete, sfiorando lo stipite con la spalla. Teneva la pistola accanto alla faccia, con la canna rivolta verso l'alto, e guardava dritto davanti a sé, nel corridoio ventoso, incapace di vedere le cose con la massima chiarezza ma concentrato
nell'istante.
Poi voltò la testa e guardò la pistola, a pochi centimetri dalla sua faccia.
Eric disse: - Avevo un'arma con cui potevo parlare. Ceca. Ma l'ho buttata via. Altrimenti adesso tenterei di imitare la voce di Torval per far funzionare il meccanismo. Si dà il caso che conosca il codice. Mi ci vedo, in piedi qui fuori a sussurrare Nancy Bai ic Nancy Babic con la voce di Torval. Posso pronunciare il suo nome perché è morto. Era un dispositivo da combattimento, non una pistola. Tu sei una pistola. Ho visto centinaia di situazioni come questa. Un uomo e una pistola e una porta chiusa. Mia madre mi portava spesso al cinema. Dopo la morte di mio padre, mia madre mi portava al cinema. Questo era ciò che facevamo insieme, come madre e figlio. E io ho visto duecento situazioni in cui c'è un uomo davanti a una stanza chiusa con una pistola in mano. Mia madre sapeva sempre il nome dell'attore. E fermo nella mia stessa posizione, spalle al muro. Se ne sta lì, dritto come un fuso, e tiene la pistola come la tengo io, puntata verso l'alto. Poi si gira e sfonda la porta con un calcio. La porta è sempre chiusa a chiave e lui la sfonda sempre con un calcio. Nei film vecchi come in quelli nuovi. Non aveva importanza. C'era la porta, c'era il calcio. Lei conosceva il secondo nome dell'attore, la sua storia coniugale, il nome della casa di riposo in cui la madre abbandonata sonnecchiava in poltrona. Basta sempre un solo calcio. La porta si spalanca all'istante. Ho lasciato i miei occhiali da sole in macchina o dal barbiere. Mi ci vedo, in piedi qui fuori a sussurrare invano. Nancy Babic, maledetta stronza. E tuttavia, cosa? Una volta pronunciato quel nome, forse il dispositivo di sparo si attivava per un intervallo di tempo prestabilito, oppure fino all'esaurimento dei colpi. Perché non riesco a immaginare di dover continuare a ripetere il suo nome, mentre sparo colpi in rapida successione contro assassini impassibili in un vicolo. Queste mamme e i loro film di pomeriggio. Sedevamo nel cinema vuoto e io le dicevo non è possibile tirare un calcio a una porta e aspettarsi che si apra. Non stiamo parlando di film girati in quartieri malfamati con zanzariere sgangherate dove gli omicidi vengono commessi senza alcuna ragione. Ero piccolo e un po' pedante ma rimango sempre della stessa idea. Lui non pronunciava il mio nome e io non pronunciavo il suo. Ma adesso che è morto, posso pronunciarlo. Conosco un po' di ceco, utile in taxi e al ristorante, ma non l'ho mai studiato. Potrei starmene qui a elencare le lingue che ho studiato, ma a cosa servirebbe ? Non mi è mai piaciuto pensare al passato, tornare indietro nel tempo, passare in rassegna la giornata o la settimana o la vita. Torchiare e sventrare. Sviscerare. Il potere funziona al meglio quando non è connesso ad alcun ricordo. Dritto come un fuso. Ogni volta che accadeva, come madre e figlio, io le dicevo che chiunque avesse girato quel film non aveva idea di quanto sia difficile sfondare a calci una robusta porta di legno nella vita reale. Li ho lasciati dal barbiere, vero ? Titanio e neoplastica. Perché non importa che genere di film andassimo a vedere, di spionaggio, western, d'amore o comico, c'era sempre un uomo con una pistola davanti a una stanza chiusa, pronto a sfondare la porta con un calcio. All'inizio non mi importava sapere che tipo di rapporto avessero. Ma adesso sto pensando che devono aver fatto cose strabilianti, altrimenti perché lui avrebbe voluto sussurrare il suo nome alla pistola ? Il potere funziona al meglio quando non fa distinzioni. Persino nella fantascienza, lui se ne sta li con il suo fucile a raggi laser e prende a calci una porta. Qual è la differenza tra difensore e assassino se entrambi sono armati e mi odiano ? Me lo immagino, sopra di lei, con quella sua mole ottusa. Nancy Nancy Nancy. Oppure la chiama per nome e cognome perché è così che chiama la sua pistola. Mi domando dove viva, a cosa pensi mentre va al lavoro in autobus. Posso stare qui e vederla uscire dal bagno asciugandosi i capelli. Se vedo una donna a piedi nudi sul parquet perdo la testa, mi sciolgo. So che sto parlando con una pistola che non può rispondere, ma chissà come si spoglia quando si spoglia. Mi chiedo se si incontrassero da lei o da lui per fare quello che facevano. Queste mamme con i loro pomeriggi al cinema. Andavamo al cinema perché cercavamo di imparare a stare soli insieme. Avevamo freddo e ci sentivamo sperduti e l'anima di mio padre ci cercava per stabilirsi nei nostri corpi, non che voglia o mi occorra la vostra comprensione. Me la immagino nella foga del sesso, impassibile, perché questa è una cosa tipica di Nancy Babic, nostri corpi, non che voglia o mi occorra la vostra comprensione. Me la immagino nella foga del sesso, impassibile, perché questa è una cosa tipica di Nancy Babic, priva di espressione. Pronuncio il suo nome ma non quello di lui. Prima riuscivo a pronunciarlo, ma adesso non posso perché so cosa c'è stato fra loro. Mi chiedo se lei tenga la sua foto incorniciata sul cassettone. Quante volte devono scopare due persone prima che una di loro meriti di morire ? Me ne sto qui con la testa piena di rabbia. In altre parole, quante volte devo ucciderlo ? Queste mamme che accettano la finzione di una porta sfondata a calci. Cos'è una porta? E una struttura mobile, solitamente su cardini, che chiude un passaggio e che necessita di una serie di colpi tremendi e prolungati per poter essere sfondata.
Si allontanò dalla parete e si voltò, piazzandosi esattamente di fronte alla porta. Poi le tirò un calcio, di tallone. Si apri subito.
Entrò sparando. Non prese la mira. Sparò e basta. Lasciamo che si esprima.
Le pareti erano state abbattute. Questa fu la prima cosa che vide nella luce incerta. Stava guardando dentro uno spazio piuttosto grande con macerie dappertutto. Cercò di individuare il soggetto. C'era un divano sbrindellato, vuoto, con accanto una cyclette. Vide una pesante scrivania di metallo, tolta da una corazzata, coperta di fogli. Vide i resti di una cucina e di un bagno, con spazi brutalmente vuoti dov'erano stati i principali elettrodomestici. C'era un gabinetto portatile arancione proveniente da un cantiere edile, alto due metri, ammaccato e affumicato dal fango. Vide un tavolino con sopra una candela spenta in un piattino e una dozzina di monete sparse intorno a una pistola militare Mk.23 con finiture di un nero opaco e una lunghezza complessiva di nove pollici e mezzo, provvista di un sistema di puntamento laser.
La porta del gabinetto si aprì e ne usci un uomo. Eric sparò di nuovo, con indifferenza, sconcertato dall'aspetto dell'uomo. Era scalzo, in jeans e maglietta, con un asciugamano che gli copriva la testa e le spalle, drappeggiato come uno scialle da preghiera.
- Cosa ci fai qui ?
- Non è questa la domanda. La domanda, - disse Eric, - la faccio io. Perché vuoi uccidermi?
- No, non è questa la domanda. E troppo facile per esserlo. Voglio ucciderti per dare un significato alla mia vita. Facile, no?
Si avvicinò al tavolo e raccolse l'arma. Poi si sedette sul divano, chino in avanti, seminascosto dall'asciugamano sudario.
- Tu non sei un uomo riflessivo. Io vivo coscientemente nella mia testa, - disse. - Dammi una sigaretta.
- Dammi qualcosa da bere.
- Mi riconosci ?
Era magro e non sbarbato e aveva un'aria assurda mentre maneggiava un'arma così formidabile. La pistola lo dominava, nonostante l'effetto drammatico dell'asciugamano sulla testa.
- Non ti vedo bene.
- Siediti. Facciamo due chiacchiere.
Eric non voleva sedersi sulla cyclette. Il confronto sarebbe degenerato in farsa. Vide una sedia di plastica, la sedia della scrivania, e la avvicinò al tavolino.
- Si, volentieri. Sedersi a parlare, - disse. - Ho avuto una lunga giornata. Cose e gente. E ora di una pausa filosofica. Un po' di riflessione, si.
L'uomo sparò un colpo al soffitto. Si spaventò. Non Eric; l'altro, il soggetto.
- Non hai familiarità con quell'arma. Io l'ho usata. E un'arma seria. Mentre questa, - disse, soppesando la rivoltella che aveva in mano. - Sto pensando di installareun poligono di tiro nel mio appartamento.
- Perché non in ufficio? Li metti tutti in fila e spari.
- Tu conosci l'ufficio. Non è vero? Ci sei stato.
- Secondo te chi sono ?
La tremenda urgenza del suo bisogno e l'aspettativa quasi compiaciuta indicavano chiaramente che la prossima parola di Eric, o quella successiva, avrebbe potuto essere l'ultima. Sedevano uno di fronte all'altro, separati dal tavolino. Quasi non gli venne in mente che avrebbe pòtuto sparare per primo. Non sapeva nemmeno se ci fosse ancora un proiettile nel tamburo.
Disse: - Non lo so. Chi sei?
L'uomo si tolse l'asciugamano dalla testa. Per Eric non cambiò nulla. Aveva la fronte alta. Vide i capelli diradati che pendevano in ciocche non lavate, sottili e flosce.
- Magari se mi dicessi il tuo nome.
- Non lo riconosceresti.
- Riconosco i nomi più delle facce. Dimmi il tuo nome.
- Benno Levin.
- E un nome falso.
L'uomo sembrava sconcertato.
- E falso. E inventato. Era confuso e imbarazzato.
- È inventato. Non è reale. Ma adesso credo di riconoscerti. Ti ho visto davanti allo sportello automatico di una banca oggi pomeriggio.
- Mi hai visto.
- Avevi un'aria familiare. Non capivo perché. Forse un tempo lavoravi per me. Mi odi. Vuoi uccidermi. Bene.
- Tutto nelle nostre vite, la tua e la mia, ci ha portati a questo momento.
- Bene. Adesso mi farei una bella birra gelata. Nonostante l'aria smarrita, la prostrazione, le ceneri della disperazione, una luce brillò negli occhi del soggetto.Trovò incoraggiante pensare che Eric l'avesse riconosciuto. Non tanto riconosciuto quanto semplicemente visto. L'aveva visto e aveva trovato un collegamento, debole, in una strada affollata. Quasi smarrita dentro al comportamento disperato dell'uomo, c'era un'attenzione che non aveva niente di animalesco o fatale.
- Quanti anni hai? Mi interessa.
- Credi che le persone come me non possano esistere ?
- Quanti ?
- Esistiamo. Quarantuno.
- È un numero primo.
- Ma non è interessante. Oppure ne ho compiuti quarantadue, è possibile, visto che non tengo il conto, e perché dovrei ?
Il vento soffiava nei corridoi. L'uomo sembrava infreddolito e si rimise l'asciugamano in testa, con le estremità che gli ricadevano sulle spalle.
- Sono diventato un enigma per me stesso. così diceva sant'Agostino. vE questa appunto è la mia debolezza.
- È un inizio. È una cruciale presa di coscienza, - disse Eric.
- Non sto parlando di me. Sto parlando di te. Tutta la tua vita cosciente è una contraddizione. Ecco perché stai architettando la tua rovina. Perché sei qui ? E laprima cosa che ti ho chiesto quando sono uscito dal gabinetto.
- L'ho notato, il gabinetto. È una delle prime cose che ho notato. Dove vanno a finire gli scarichi?
- C'è un buco là sotto. Ho fatto un buco nel pavimento. Poi ho sistemato il gabinetto in modo da far combaciare i due buchi. i buchi sono interessanti. Esistonointeri libri sui buchi.
- Esistono interi libri sulla merda. Ma noi vogliamo sapere perché sei entrato di tua spontanea volontà in una casa dove c'è qualcuno pronto a ucciderti.
- Esistono interi libri sulla merda. Ma noi vogliamo sapere perché sei entrato di tua spontanea volontà in una casa dove c'è qualcuno pronto a ucciderti.
- Va bene. Dimmelo. Perché sono qui?
- Questo devi dirmelo tu. Un fallimento inaspettato, forse. Una scossa alla tua autostima.
Eric ci pensò. Di fronte a lui, oltre il tavolino, l'uomo teneva la testa abbassata e stringeva l'arma fra le ginocchia, impugnandola con entrambe le mani. Il suo atteggiamento era paziente e pensieroso.
- Lo yen. Non sono riuscito a capire lo yen.
- Lo yen.
- Non sono riuscito a prevedere lo yen.
- E così hai mandato tutto all'aria.
- Lo yen mi ha ingannato. Non era mai successo. Mi sono perso d'animo. tra sindrome, una cosa che hai contratto da altri. Non ha storia.
- E piena di storia, - disse l'uomo. - E storia da cima a fondo. Tu sei oscenamente e forsennatamente ricco. Non parlarmi delle tue opere di carità.
- Non faccio opere di carità.
- Lo so.
- Tu non ce l'hai con i ricchi. Non è questo il tuo problema.
- E quale sarebbe il mio problema ?
- La confusione. Ecco perché sei inadatto al lavoro.
- Perché ?
- Perché vuoi uccidere la gente.
- Non è per questo che sono inadatto al lavoro.
- E allora perché ?
- Perché puzzo. Annusami.
- Annusami tu, - disse Eric. Il soggetto rifletté.
- Anche quando ti autodistruggi, tu vuoi fallire di più, perdere di più, morire più degli altri, puzzare più degli altri. Nelle antiche tribù il capo che distruggeva lamaggior quantità dei propri beni era il più potente.
- Che altro ?
- Tu hai tutto per cui vivere e morire. Io non ho niente, né per una cosa né per l'altra. Ecco un'altra ragione per ucciderti.
- Richard. Ascolta.
- Voglio essere chiamato Benno.
- Tu sei turbato perché senti di non avere un ruolo, di non avere un posto. Ma devi chiederti di chi sia la colpa. Perché in effetti hai molto poco da odiare in questasocietà.
Questo fece ridere Benno. Ora aveva uno sguardo lievemente stralunato, e si guardava intorno, scosso dalle risate. La risata era inquietante e priva di gioia e il tremito continuava ad aumentare. Dovette posare la pistola sul tavolino per poter ridere e scuotersi liberamente.
Eric disse: - Pensa.
- Penso.
- La violenza richiede una causa, una verità.
Stava pensando alla guardia del corpo con la faccia sfregiata e l'aria da picchiatore e il duro e piatto nome slavo, Danko, che aveva combattuto guerre di sangue ancestrale. Stava pensando al sikh senza un dito, l'autista che aveva intravisto quando aveva preso il taxi con Elise, per pochi istanti, molte ore prima nel corso della giornata, della vita, in un tempo quasi immemorabile. Stava pensando a Ibrahim Hamadou, il suo autista, torturato per motivi politici o religiosi o per faide di clan, vittima di una radicata violenza scatenata dagli spiriti degli antenati dei suoi nemici. Stava pensando persino ad André Petrescu, il terrorista pasticciere, tutte quelle torte in faccia e le botte che aveva ricevuto in cambio.
Infine pensò all'uomo in fiamme e si immaginò di nuovo davanti alla scena, in Times Square, stava guardando il corpo bruciare, oppure era dentro il corpo, era il corpo, e guardava fuori attraverso il fumo e le fiamme.
- Non c'è niente al mondo tranne gli altri, - disse Benno.
Aveva problemi a parlare. Le parole esplodevano dalla sua faccia, non tanto sonore quanto impulsive, sputate fuori sotto stress.
- Un giorno ho avuto questo pensiero. Era il pensiero della mia vita. Sono circondato da altre persone. Non fanno che comprare e vendere. Non fanno che direandiamo a pranzo. Ho pensato guarda loro e guarda me. Quando cammino per strada la luce mi attraversa. Io sono, qual è la parola, permeabile alla luce visibile.
Spalancò le braccia.
- Ho pensato a tutte queste altre persone. Ho pensato a come sono diventate quello che sono. Sono state le banche e i parcheggi. I biglietti aerei nei loro computer.I ristoranti pieni di gente che chiacchiera. Quelli che firmano la copia per il rivenditore. Quelli che tirano fuori la copia per il rivenditore dalla cartelletta di cuoio e poi la firmano e la separano dalla copia per il cliente e infilano la carta di credito nel portafoglio. Può essere stato anche solo questo. Quelli che hanno un medico che prescrive analisi. Anche solo questo, - disse. - Io sono impotente nel loro sistema, un sistema che non riesco a comprendere. Volevi trasformarmi in un impotente soldato robot, ma io potevo essere soltanto impotente. Eric disse: - No.
- Sono state le scarpe da donna. Tutti quei nomi che danno alle scarpe. Tutta quella gente nel parco dietro la biblioteca, che chiacchiera al sole.
- No. Il tuo crimine non ha coscienza. Non sei stato spinto a compierlo da una forza sociale oppressiva. Come detesto essere ragionevole. Tu non sei contro iricchi. Nessuno è contro i ricchi. Tutti quanti sono a dieci secondi dalla ricchezza. O almeno così pensavano tutti. No. Il tuo crimine è nella tua testa. Un altro pazzo che fa una strage in un ristorante perché perché.
Eric guardò la Mk.23 posata sul tavolo.
- Proiettili che crivellano le pareti e il pavimento. così inutile e stupido, - disse. - Persino la tua arma è una fantasticheria. Come si chiama?
Il soggetto aveva un'aria offesa e tradita.
- Qual è il pezzo che sta accanto al ponticello ? Come si chiama ? A cosa serve ?
- Va bene. Non sono abbastanza virile da conoscere questi nomi. I veri uomini li conoscono. Tu hai l'esperienza della virilità. Il mio pensiero non arriva cosìlontano. Tutto quello che riesco a fare è essere una persona.
- La violenza richiede un onere, uno scopo.
Spinse la bocca della pistola, Eric, contro il palmo della mano sinistra. Cercò di pensare con lucidità. Pensò al suo capo della sicurezza steso sull'asfalto, nell'ultimo secondo che gli restava da vivere. Pensò ad altri nel corso degli anni, indistinti e senza nome. Provò un'enorme consapevolezza piena di rimorso. Lo invadeva, il suo nome era senso di colpa, ed era strano come il grilletto sembrasse cedevole contro il suo dito.
- Cosa stai facendo?
- Non lo so. Forse niente, - disse.
Guardò Benno e premette il grilletto. Si rese conto che nella pistola c'era ancora un colpo quasi nel momento stesso in cui sparò, nel brevissimo istante precedente, ma ormai era troppo tardi. Lo sparo gli apri un buco in mezzo alla mano.
Rimase seduto con la testa abbassata, a corto di idee, e sentì il dolore. La mano divenne bollente. Era tutta ustione e bruciore. Sembrava separata da lui, perversamente viva nella propria piccola sottotrama. Le dita si piegarono, il medio cominciò a sussultare. Gli parve di sentire la pressione abbassarsi a livelli da shock. Il sangue scorreva lungo entrambi i lati della mano e una macchia scura, il segno della bruciatura, cominciò a diffondersi sul palmo.
Chiuse gli occhi contro il dolore. Era un gesto assurdo, ma poi acquistò significato, in modo intuitivo, come atto di concentrazione, il suo coinvolgimento diretto nell'azione degli ormoni antidolore.
L'uomo dall'altra parte del tavolo era avvolto nel suo sudario. Sembrava che non gli fosse rimasto niente, da nessuna parte, che valesse la pena di fare o pensare. Le parole uscivano da sotto l'asciugamano, o erano suoni, e teneva una mano sopra l'altra, quella piegata che comprimeva quella ferma, appiattita, l'altra mano, in un gesto di identificazione e pietà.
C'era dolore e c'era sofferenza. Non era sicuro di soffrire. Era sicuro che Benno stesse soffrendo. Eric lo guardò applicare un impacco freddo sulla mano devastata. Non era un impacco e non era freddo, ma convennero tacitamente di usare quel termine per l'effetto palliativo che poteva avere.
L'eco dello sparo gli risuonava elettrica nell'avambraccio e nel polso.
Benno annodò con cura l'impacco sotto il pollice, due fazzoletti che aveva impiegato un po' ad attorcigliare insieme. Sull'avambraccio, vicino al polso, c'era il laccio emostatico, un garbuglio di straccio e matita. Tornò sul divano e osservò la sofferenza di Eric.
- Credo che dovremmo parlare.
- Stiamo parlando. Abbiamo parlato.
- Sento di conoscerti meglio di chiunque altro. Ho intuizioni misteriose, vere o false. Un tempo ti guardavo meditare, online. La faccia, la postura tranquilla. Nonriuscivo a smettere di guardare. A volte meditavi per ore. Ti serviva soltanto a entrare in profondità nel tuo cuore di ghiaccio. Contemplavo ogni minuto. Guardavo dentro di te. Ti conoscevo. Era un'altra ragione per odiarti, il fatto che tu riuscissi a stare seduto in una cella a meditare e io no. La cella ce l'avevo, d'accordo. Ma non ho mai avuto la fissazione di esercitare la mente, svuotare la mente, pensare un pensiero soltanto. Poi hai chiuso il sito. Dopo che hai chiuso il sito sono stato, non so, morto, per molto tempo.
C'era una sorta di mitezza nel suo viso, di rammarico nel menzionare odio e crudeltà. Eric voleva rispondere. Il dolore lo schiacciava, lo rimpiccioliva, pensò, lo riduceva nelle dimensioni, nel corpo e nel valore. Non era la mano, era il cervello, ma era anche la mano. Gli sembrava che la mano si stesse necrotizzando. Gli sembrava di sentire l'odore di un milione di cellule morenti.
Voleva dire qualcosa. Il vento riprese a soffiare, più forte adesso, sollevando la polvere di quei muri abbattuti. C'era qualcosa di affascinante in quel suono, il vento dentro l'edificio, l'orlo di qualcosa, la sensazione di qualcosa di non protetto, di interno-esterno, fogli che volavano per i corridoi, la porta che sbatteva e sembrava chiudersi, per poi riaprirsi.
Disse: - Ho la prostata asimmetrica.
La sua voce era a malapena udibile. Ci fu una pausa di mezzo minuto. sentì che il soggetto, l'altro, lo osservava attentamente. C'era un senso di calore, di coinvolgimento umano.
- Anch'io, - sussurrò Benno.
Si guardarono. Ci fu un'altra pausa.
- Che cosa significa ?
Benno fece qualche cenno d'assenso. Gli piaceva starsene li seduto ad annuire.
- Niente. Non significa niente, - disse. - È innocua. Un'alterazione innocua. Niente di cui preoccuparsi. Alla tua età, perché preoccuparsi ?
Eric pensò di non aver mai provato un tale sollievo, ascoltando quelle parole da un uomo nelle sue stesse condizioni. sentì un'ondata di benessere. Un vecchio affanno era svanito, quella specie di consapevolezza semisoffocata che ossessiona ogni minimo pensiero. I fazzoletti erano intrisi di sangue. Una sensazione di pace e dolcezza calò su di lui. Teneva ancora la pistola nella mano sana.
Benno annuiva sotto l'asciugamano sudario.
Disse: - Avresti dovuto ascoltare la tua prostata.
- Cosa?
- Hai cercato di prevedere i movimenti dello yen ricorrendo ai modelli della natura. Si, è chiaro. Le proprietà matematiche degli anelli di un albero, dei semi digirasole, i bracci delle spirali galattiche. Questo l'ho imparato con il baht. Adoravo il baht. Adoravo le armonie incrociate fra la natura e i dati. Me l'hai insegnato tu. Il modo in cui i segnali provenienti da una pulsar nello spazio profondo seguono sequenze numeriche classiche, che a loro volta possono descrivere le fluttuazioni di una data azione o valuta. Sei stato tu a mostrarmelo. Il modo in cui i cicli di mercato sono intercambiabili con i cicli temporali della riproduzione delle cavallette, della mietitura. Tu hai reso questa forma di analisi orribilmente e sadicamente precisa. Ma ti sei dimenticato qualcosa strada facendo.
- Cosa?
- L'importanza dell'asimmetria, delle cose leggermente sghembe. Tu cercavi l'equilibrio, la bellezza dell'equilibrio, parti uguali, lati uguali. Io lo so. Ti conosco.
Ma avresti dovuto star dietro allo yen nei suoi tic e nei suoi capricci. Il piccolo capriccio. L'imperfezione.
- L'anomalia.
- Ecco dov'era la risposta, nel tuo corpo, nella tua prostata.
Nella garbata perspicacia di Benno non c'era traccia di rimprovero. Probabilmente aveva ragione. C'era qualcosa nelle sue parole. Avevano senso, un senso duro, matematico. Forse si stava rivelando un degno assassino, dopotutto.
Benno girò intorno al tavolo e sollevò i fazzoletti per guardare la ferita. Guardarono entrambi. La mano era rigida, un pezzo di cartone ruvido, le vene distrutte in prossimità delle nocche, e stava diventando grigia. Benno andò alla scrivania e trovò dei tovaglioli di carta. Tornò accanto al tavolo e rimosse l'impacco insanguinato, applicando i tovaglioli sulla ferita da entrambi i lati della mano. Poi scostò le sue, di mani, in un gesto di attesa pieno di suspense. I tovaglioli aderirono alla ferita. Benno restò in piedi a guardare finché non fu convinto che non si sarebbero staccati.
Rimasero seduti per un po', uno di fronte all'altro. Il tempo era sospeso nell'aria. Benno si allungò sopra il tavolo e gli tolse la pistola di mano.
- Ho ancora bisogno di ucciderti. Sono disposto a discuterne. Ma non c'è vita per me se non lo faccio.
Il dolore era il mondo. La mente non riusciva a trovare un posto al di fuori di esso. Sentiva il dolore, sordo e incessante, nella mano e nel polso. Chiuse gli occhi di nuovo, brevemente. Si sentiva immerso nell'oscurità ma anche appena al di là di essa, sulla luminosa superficie esterna, dall'altra parte, e apparteneva a entrambe le superfici, le sentiva entrambe, era se stesso e vedeva se stesso.
Benno si alzò in piedi e cominciò a camminare su e giù. Era irrequieto, scalzo, con una pistola in entrambe le mani, e oltrepassò le finestre sbarrate lungo la parete settentrionale, scavalcando fili elettrici e parapetti di gesso rivestiti di pannelli.
- Non ti capita mai di passeggiare nel giardino dietro la biblioteca e vedere tutte quelle persone sedute sulle panchine o ai tavolini della terrazza dopo il lavoro esentire le loro voci mescolarsi nell'aria e desiderare di ucciderli?
Eric ci pensò. Disse: - No.
L'uomo tornò indietro girando intorno ai resti della cucina, fermandosi a staccare una tavola sconnessa per guardare fuori, in strada. Disse qualcosa dentro la notte, poi riprese la sua passeggiata. Era nervoso, camminava come se danzasse, borbottando qualcosa di intelligibile questa volta, riguardo a una sigaretta.
- Mi sta venendo un attacco di panico coreano. E causato dalla rabbia che ho represso in tutti questi anni. Ma adesso non più. Tu devi morire in ogni caso.
- Potrei dirti che la mia situazione è cambiata nel corso della giornata.
- Io ho le mie sindromi, tu hai il tuo complesso. La caduta di Icaro. Te lo sei creato con le tue mani. La cera sciolta dal sole. Precipiterai verso la morte da unmetro di altezza. Non è molto eroico, vero?
Era alle spalle di Eric adesso, e immobile, e ansimante.
- Anche se avessi un fungo parlante tra le dita dei piedi. Anche se quel fungo mi dicesse di ucciderti, anche così la tua morte sarebbe giustificata dal posto cheoccupi sulla terra. Persino se avessi un parassita nel cervello. Anche così. Che mi comunicasse messaggi dallo spazio esterno. Anche così il crimine sarebbe reale, perché tu sei una figura i cui pensieri e gesti coinvolgono chiunque, in ogni luogo. Io ho la storia, come la chiami tu, dalla mia parte. Tu devi morire per come pensi e agisci. Per il tuo appartamento e per la cifra che hai speso per comprarlo. Per i tuoi checkup quotidiani. Basterebbe questo. Un checkup al giorno. Per quello che possedevi e per quello che hai perso, ugualmente. Per averlo perso non meno che per averlo guadagnato. Per quella limousine che sposta l'aria vitale per la gente del Bangladesh. Basterebbe questo.
- Non farmi ridere.
- Non ti faccio ridere.
- Te lo sei inventato adesso. Non hai mai passato un minuto della tua vita a preoccuparti per gli altri.
Vide che il soggetto stava cedendo.
- Va bene. Ma l'aria che respiri. Basterebbe questo. I tuoi pensieri.
- Potrei dirti che i miei pensieri si sono evoluti. La mia situazione è mutata. Cambierebbe qualcosa? Forse no.
- Infatti. Ma se avessi una sigaretta, forse cambierebbe. Una sigaretta. Un tiro di sigaretta. Probabilmente non dovrei più spararti.
- C'è un fungo che ti parla? Dico sul serio. C'è gente che sente le voci. La voce di Dio.
Non scherzava. Diceva sul serio. Era davvero intenzionato ad ascoltare qualsiasi cosa l'uomo gli dicesse, l'intero, confuso racconto delle sue rivelazioni.
Benno girò intorno al tavolo e si lasciò cadere sul divano. Mise giù la vecchia rivoltella e osservò la sua arma modernissima. Forse era modernissima, forse l'esercito l'aveva scartata un paio di giorni prima. Si tirò giù l'asciugamano sulla faccia e puntò la pistola contro Eric.
- E comunque tu sei già morto. È come se fossi già morto. Come se fossi morto da cent'anni. Morto molti secoli fa. Re morti. La famiglia reale in pigiama chemangia montone. Ho mai usato la parola montone in vita mia ? Mi è venuta in mente dal nulla, montone.
Eric si pentì di non aver sparato ai cani, ai suoi borzoi, prima di uscire dall'appartamento quella mattina. Gli era venuto in mente di farlo, in un attimo di fredda premonizione? C'era lo squalo nella vasca da dieci metri rivestita di corallo e muschio marino, incassata in una parete di blocchi di vetro sabbiato. Avrebbe potuto lasciar detto ai suoi aiutanti di trasportare lo squalo sulla costa del Jersey e liberarlo in mare.
- Volevo che tu mi guarissi, che mi salvassi, - disse Benno.
I suoi occhi brillavano sotto l'orlo dell'asciugamano. Fissavano Eric in modo sconvolgente. Ma non era accusa quella che lui vide. C'era una supplica in quegli occhi, retroattiva, una speranza e un bisogno in frantumi.
- Volevo che tu mi salvassi.
La sua voce trasmetteva una terribile intimità, una comunione di sentimento ed esperienza che Eric non poteva contraccambiare. Si sentì triste per lui. Tutta quella devozione solitaria, tutto quell'odio e quella delusione. L'uomo lo conosceva come nessun altro. Era crollato sul divano, con la pistola puntata, ma persino la morte che giudicava così necessaria alla sua liberazione non sarebbe servita a niente, non avrebbe cambiato niente. Eric aveva deluso quell'uomo mansueto e solo, infuriato, quel pazzo, e l'avrebbe deluso ancora, e dovette distogliere lo sguardo.
Guardò l'orologio. Diede un'occhiata all'orologio, per caso. Era li, al suo polso, con il cinturino di coccodrillo, fra i tovaglioli appiccicati alla ferita e il laccio emostatico con la matita gialla. Ma l'orologio non mostrava l'ora. C'era un'immagine, un volto, sul cristallo, ed era il suo. Questo voleva dire che aveva attivato involontariamente la telecamera elettronica, forse quando aveva sparato. La telecamera era un congegno così microscopicamente raffinato da essere quasi pura informazione. Era quasi metafisica. Operava all'interno dell'orologio, raccogliendo immagini nelle immediate vicinanze e mostrandole sul cristallo.
Ruotò il braccio e il volto scomparve, sostituito da un filo elettrico che penzolava dal soffitto. Segui una zumata che mostrava uno scarafaggio sul filo, in lento transito. Lo osservò attentamente, mandibole e ali anteriori, assorto nella sua bellezza, così particolareggiata e luccicante. Poi qualcosa cambiò intorno a lui. Non sapeva cosa significasse. Cosa poteva significare? Si accorse di aver già provato quella sensazione, in maniera lieve, certo non così densa e consistente, e adesso l'immagine sullo schermo era un corpo, a faccia in giù sul pavimento.
Sentì un silenzio nel sangue, una pausa al centro dell'essere.
Non c'erano corpi in vista. Pensò al corpo che aveva oltrepassato prima nel vestibolo, ma come poteva lo schermo mostrare l'immagine di qualcosa che si trovava al di fuori del raggio della telecamera ?
Guardò Benno, pensieroso e distante.
Il corpo di chi, e quando ? E se tutti i mondi si fossero fusi, tutti i possibili stati divenuti presente nello stesso momento ?
Mosse il braccio, stendendolo e piegandolo, puntando l'orologio in sei direzioni diverse, ma il corpo di un uomo, in campo lungo, rimase sullo schermo. Alzò gli occhi verso lo scarafaggio che scendeva con la sua lentezza specializzata lungo le curve e le giunture del filo, la vecchia e muta andatura arcadica da mangiatore di foglie, pensando di essere su un albero, e puntò di nuovo la telecamera sull'insetto. Ma il corpo prono restò sullo schermo.
Guardò Benno. Copri l'orologio con la mano sana. Pensò a sua moglie. Sentiva la mancanza di Elise e voleva parlarle, dirle che era bella, mentirle, tradirla, vivere con lei una normale vita matrimoniale, dare cene e chiedere cosa avesse detto il medico.
Quando guardò l'orologio vide l'interno di un'ambulanza, con apparecchiature per le flebo e teste sobbalzanti. L'immagine durò meno di un secondo ma la scena, la situazione era misteriosamente familiare. Coprì l'orologio e guardò Benno, che si dondolava avanti e indietro borbottando, un po' mistico. Guardò il quadrante dell'orologio. Vide una serie di loculi, una parete di loculi o scomparti, tutti sigillati. Poi vide un loculo aprirsi. Coprì l'orologio. Alzò gli occhi verso l'insetto sul filo. Quando guardò di nuovo l'orologio vide una piastrina di riconoscimento. Era una piastrina inquadrata in campo lungo, fissata a un braccialetto di plastica. Sapeva, sentiva che sarebbe seguita una zumata. Pensò di coprire l'orologio ma non lo fece. Vide la piastrina in primissimo piano, adesso, e lesse l'etichetta. Maschio Z. Sapeva cosa voleva dire. Si chiese come facesse a saperlo. Come facciamo a sapere qualcosa ? Come facciamo a sapere che la parete che stiamo guardando è bianca? Cos'è il bianco? Coprì l'orologio con la mano sana. Sapeva che Maschio Z era l'espressione che si usava per i corpi di uomini non identificati negli obitori degli ospedali.
O merda sono morto.
Aveva sempre desiderato di diventare pulviscolo quantico, trascendere la massa corporea, i tessuti molli che ricoprono ossa, muscoli e grasso. L'idea era di vivere oltre i limiti prestabiliti, in un chip, su disco, sotto forma di dati, in un vortice, in uno spin radiante, una coscienza salvata dal vuoto.
La tecnologia era imminente oppure no. Era semi-mitica. Era il naturale passo successivo. Non sarebbe mai accaduto. Stava accadendo ora, un progresso evolutivo che necessitava soltanto dell'effettiva mappatura del sistema nervoso su memoria digitale. Sarebbe stato il colpo da maestro del cybercapitale, dilatare l'esperienza umana verso l'infinito come strumento per la crescita e la politica d'investimento aziendale, per l'accumulo di profitti e il loro energico reinvestimento.
Ma il dolore interferiva con la sua immortalità. Era indispensabile alla sua unicità, troppo essenziale per poter essere ignorato, e non riproducibile, non credeva proprio, da un computer. Le cose che facevano di lui quello che era non si potevano certo identificare e tantomeno convertire in dati, le cose che vivevano e vagavano dentro il suo corpo, dappertutto, a casaccio, turbolente, miliardi di miliardi, nei neuroni e nei peptidi, nella palpitante vena della tempia, nell'incostanza del suo libidinoso intelletto. Tante cose ormai andate, ecco chi era, il gusto perduto del latte succhiato dal seno materno, la roba che espelle quando starnutisce, questo è lui, e il modo in cui una persona si trasforma nel riflesso che vede passando accanto a una vetrina polverosa. Era arrivato a conoscere se stesso, in maniera intraducibile, tramite il dolore. Si sentiva così stanco, adesso. Quella padronanza del mondo che aveva faticosamente conquistato, cose materiali, grandi cose, i suoi ricordi veri e falsi, il vago malessere dei crepuscoli invernali, non trasferibile, le notti pallide in cui la sua identità si appiattisce per mancanza di sonno, il piccolo bozzo che sente sulla coscia ogni volta che fa la doccia, tutto parte di lui, e il modo in cui il suo sapone, l'odore e la sensazione del panetto concavo, fa di lui quello che è perché ne nomina la fragranza, mandorla, e l'inclinazione del suo uccello, non trasferibile, e lo strano dolore al ginocchio, quello schiocco nel ginocchio quando lo piega, tutto parte di lui, e tante altre cose che non sono convertibili in qualcosa di sublime, la tecnologia della mente-senza-fine.
Guardò la parete opposta, che era bianca. L'insetto era ancora sul filo. Guardò l'insetto scendere lungo il filo penzolante. Poi tolse la mano sana dal quadrante dell'orologio. Guardò l'orologio. L'etichetta era ancora sullo schermo, e diceva Maschio Z.
Era rimasta una traccia di enzima, la vecchia biochimica dell'ego, il suo sé saturo. Immaginò Kendra Hays, sua guardia del corpo e amante, che gli lavava le viscere con vino di palma durante una cerimonia di imbalsamazione. Aveva la faccia giusta per farlo, la struttura ossea e il colore della pelle, i piani affusolati. Era una faccia che veniva dall'affresco di un tempio funebre sepolto nella sabbia da quattromila anni, custodito da divinità con la testa di cane.
Pensò alla sua esperta finanziaria e amante a distanza, Jane Melman, che si masturbava silenziosamente nell'ultima fila della cappella funeraria, in abito blu scuro con il corpetto aderente, nell'oscurità sussurrante della veglia.
C'era un'altra cosa da considerare, il fatto che si era sposato quando si era sposato allo scopo di avere una vedova da lasciarsi alle spalle. Immaginò sua moglie, la sua vedova, che si rasava la testa, forse, come reazione alla sua morte, e decideva di vestirsi a lutto per un anno, e assisteva alla sepoltura in un terreno isolato e deserto, da lontano, insieme alla madre e ai giornalisti.
Voleva essere sepolto nel suo bombardiere nucleare, il suo Blackjack A. Non sepolto ma cremato, incenerito, e tuttavia anche sepolto. Voleva essere solarizzato. Voleva che l'aereo venisse teleguidato con a bordo il suo corpo imbalsamato, in giacca, cravatta e turbante, e i cadaveri dei suoi cani, i suoi alti e serici wolfhound russi, e poi, dopo aver raggiunto la massima altitudine e l'assetto orizzontale con un balzo supersonico, venisse fatto precipitare nella sabbia, trasformato in una palla di fuoco, lasciando un'opera di land art, arte di terra bruciata che avrebbe interagito con il deserto sotto la perpetua custodia e gli auspici della sua mercante d'arte ed esecutrice testamentaria, Didi Fancher, e amante di lunga data, per la rispettosa contemplazione di gruppi autorizzati e individui illuminati in regime di esenzione fiscale come da paragrafo 501 (e) (3) dell'U.S. Internai Revenue Code.
Cosa aveva detto il medico ?
Va tutto bene, non è niente, è normale.
Forse non voleva quella vita, in definitiva, ricominciare da capo senza un soldo, chiamare un taxi a un incrocio affollato pieno di junior executive gesticolanti, braccia alzate, corpi che ruotavano velocemente per coprire ogni punto della circonferenza. Aveva qualche desiderio che non fosse postumo ? Fissò lo sguardo nello spazio. capì cosa mancava, l'istinto rapace, il senso di grande eccitazione che lo spingeva a vivere un giorno dopo l'altro, il semplice e vorticoso bisogno di esistere.
Il suo assassino, Richard Sheets, è seduto di fronte a lui. Ha perso interesse in quell'uomo. La sua mano contiene il dolore della sua vita, tutto quanto, emotivo e non, e chiude gli occhi ancora una volta. Questa non è la fine. Lui è morto dentro il cristallo dell'orologio ma è ancora vivo nello spazio originario, in attesa che risuoni lo sparo.
Indice
Parte prima
Capitolo primo
Le Confessioni di Benno Levin
Capitolo secondo
Parte seconda
Capitolo terzo
Le Confessioni di Benno Levin
Capitolo quarto
Stampato per conto della Casa editrice Einaudi presso Mondadori Printing S.p.A., Stabilimento N.S.M., Cles (Trento) nel mese dì febbraio 2006 c.L. 18080
Edizione Anno 12345678
2006 2007 2008 2009