CI SONO RICORDI
Estratto da “La coscienza di Andrew.”
E.L. Doctorow
Mondadori.
[...]Ci sono ricordi che portiamo dentro, che custodiamo gelosamente, che non vogliamo e non possiamo condividere. Ricordi che sono veri per noi, di cui siamo gelosi. “Riesco ancora a evocare le voci di mia madre e di mio padre dopo tanto tempo dalla loro morte. Riesco a sentirle distintamente anche se solo per un attimo fugace. Ciò che sento è la loro qualità morale. Il pragmatismo di mia madre. La triste evasività di mio padre. Nelle voci ricordate c’è la qualità morale dei morti. È quel che resta di loro che coincide ancora con loro, quel frammento di voce che restituisce una qualità morale sebbene della persona non ci sia più nient’altro.”[...]
LA COSCIENZA DI ANDREW
I
Posso dirle del mio amico Andrew, lo scienziato cognitivo. Ma non è una bella storia. Una sera si è presentato alla porta della sua ex moglie, Martha, con in braccio una bambina di pochi mesi. Perché Briony, l’incantevole giovane donna che aveva sposato dopo Martha, era morta. Di cosa? Ci arriveremo. Non ce la faccio da solo, disse Andrew con Martha che lo fissava dalla soglia. Si dà il caso che quella sera nevicasse e Martha era ipnotizzata dai fiocchi soffici, animati, che si posavano sulla visiera del berretto degli Yankees di Andrew. Era così, Martha, rapita dai dettagli marginali come se li stesse mettendo in musica. Persino nelle situazioni di normalità reagiva lentamente, guardandoti con quei grandi, mobili occhi sporgenti. Poi arrivava il sorriso, o il cenno di intesa, o il no con la testa. Dalla porta aperta, intanto, fluttuava all’esterno il tepore della casa, appannando gli occhiali di Andrew. E lui, dietro le lenti appannate, se ne stava impalato come un cieco sotto la neve, ed era privo di ogni volizione quando alla fine Martha protese le mani, prese con delicatezza dalle sue braccia la bambina infagottata, indietreggiò e gli chiuse la porta in faccia. Questo succedeva dove? Martha viveva a New Rochelle, un sobborgo di New York, in una zona di grandi ville di stile diverso –Tudor, Dutch colonial, neogreco –costruite per la maggior parte negli anni Venti e Trenta, edifici discosti dalla strada e circondati per lo più da alti, vecchi aceri norvegesi. Andrew corse alla macchina e tornò portando un seggiolino, una borsa da viaggio, due sacchetti di plastica con tutto l’occorrente per la bambina. Cominciò a picchiare sulla porta: Martha, Martha! Ha sei mesi, ha un nome, un certificato di nascita. Ce l’ho qui, apri la porta, ti prego Martha, non voglio abbandonare mia figlia, ho solo bisogno di un po’di aiuto, ho bisogno di aiuto! La porta si aprì e comparve il marito di Martha, un colosso. Posa quella roba, Andrew, disse. Andrew obbedì e il colossale marito di Martha gli rimise in braccio la bambina. Sei sempre stato un casinista, disse il colossale marito di Martha. Mi spiace che la tua giovane moglie sia morta ma immagino sia morta per qualche tuo stupido errore, una leggerezza al momento sbagliato, uno dei tuoi esperimenti mentali, delle tue famose distrazioni intellettuali. Qualcosa capace in ogni caso di ricordare a tutti noi il dono che hai di seminare sciagure. Andrew depose la bambina nel seggiolino poggiato per terra, sollevò il seggiolino con la bambina e si avviò lentamente verso la macchina, quasi perdendo l’equilibrio sul viottolo scivoloso. Allacciò la cintura di sicurezza attorno al seggiolino sul sedile posteriore, tornò alla casa, raccolse i sacchetti di plastica e la borsa e li rimise in macchina. Una volta sistemato tutto chiuse la portiera, si tirò su e girandosi si ritrovò Martha davanti, uno scialle avvolto intorno alle spalle. Va bene, disse Martha. [riflette] Continui... No, stavo pensando a una cosa che ho letto sulla patogenesi della schizofrenia e del disturbo bipolare. Prima o poi i neurobiologi ci arriveranno, con il loro sequenziamento genico, troveranno le differenze nel genoma –tutte queste stupide proteine associate alla teleologia. Gli assegneranno cifre e lettere, una lettera sforbiciata di qua, una cifra aggiunta di là e... ammirate, la malattia non è più! Quindi Doc, sono guai per lei che cura con le parole. Non ne sia troppo certo. Mi dia retta, finirà col sussidio di disoccupazione. Che altro possiamo fare noi mangiatori del frutto dell’albero della conoscenza se non biologizzarci? Espungere il dolore, estendere la vita. Volete un altro occhio, che so, dietro la nuca? Si può fare. Spostare il retto in un ginocchio? Nessun problema. Anche mettervi le ali se volete, sebbene il risultato più che un volo nel cielo sarebbero giganteschi saltelli, megafalcate radenti come su quei percorsi che sembrano scale mobili appiattite nei lunghi corridoi degli aeroporti. E chi ce lo dice che Dio questo non lo vuole, perfezionare il suo imperfetto, bacato concetto di vita come patologia incurabile? Siamo il suo piano B, la sua polizza assicurativa. Dio opera attraverso Darwin. Quindi Martha alla fine si prese la bambina? Penso anche a noi che ci decomponiamo nelle nostre bare marcescenti, e a come ci reincarniamo, ai nostri piccoli frammenti microgenetici risucchiati nell’intestino di un verme cieco che affiora in superficie neanche lui sa perché, e striscia nella terra fradicia di pioggia solo per morire sull’affilato becco di uno scricciolo. Ehi, è la mia carta d’identità vivente, il mio genoma in poltiglia quello che è appena stato cacato dal cielo ed è finito con un plop sul ramo di un albero, e che adesso penzola dal ramo come una benda umidiccia. Ammirate! Mi sono trasformato in sostanza nutritiva per un albero che lotta per la propria vita. È così, sa? Questi immobili, saldi organismi vascolari combattono silenziosamente per la propria esistenza come facciamo noi l’uno con l’altro, alberi che si contendono lo stesso sole, lo stesso suolo al quale si abbarbicano, e spargono i semi che diventeranno i loro nemici nella foresta, come i principi per i re loro padri negli antichi imperi. Ma non sono del tutto privi di moto. Col vento forte eseguono la loro danza della disperazione, gli alberi carichi di foglie che ondeggiano di qua e di là, gettando in alto le braccia nella foga impotente di essere ciò che sono... Eh, dall’antropomorfismo a sentire le voci il passo è breve. Lei sente le voci? Ah! Sapevo che avrei attirato la sua attenzione. In genere quando mi addormento. Anzi, so che sto per addormentarmi quando le sento. E quello mi sveglia. Non volevo parlargliene e invece ecco che gliene sto parlando. Che cosa dicono? Non so. Cose strane. Ma non è che le sento davvero. Cioè, sono indubbiamente voci, ma al tempo stesso senza suono. Voci senza suono. Già. È come se sentissi il significato delle parole che vengono pronunciate senza il sonoro. Sento il significato ma so che sono parole che vengono pronunciate. Di solito da personediverse. Chi sono queste persone? Non ne conosco nessuna. Una ragazza mi ha chiesto di fare l’amore con lei. Be’, è normale... gli uomini le sognano certe cose. È più di un sogno. Io poi non la conoscevo. Una ragazza con un vestitino leggero lungo fino alle caviglie. E le scarpe da running. Aveva un accenno di lentiggini sotto gli occhi, sembrava che la luce del sole le schiarisse il volto, anche se stava all’ombra. Talmente carina da spezzarti il cuore! Mi ha preso per mano. Be’, questo è più di una voce, di certo più di una voce senza suono. Secondo me succede che produco mentalmente un’immagine da associare al significato che sento... Bene, possiamo tornare a Andrew lo scienziato cognitivo? Faccio fatica a dirle che sento le voci senza suono anche da sveglio, nella mia vita quotidiana. Ma sì, perché non dovrei? C’è stata una mattina, per esempio, mentre andavo al lavoro, ero fermo al semaforo con il giornale e il caffè che avevo preso al deli. Stavo osservando il conto alla rovescia dei secondi del rosso. E una voce mi ha detto: Già che sei lì, perché non aggiusti la zanzariera della porta. Era molto, molto reale, talmente vicina a una vera voce sonora che mi sono girato per vedere chi avevo alle spalle. Solo che non c’era nessuno, ero da solo a quell’incrocio. E qual è stata l’immagine che ha prodotto sentendo quella frase? Era un’anziana. Ho messo me stesso sulla soglia della porta di servizio, nella sua cucina. Era un edificio rurale, una fattoria in rovina. Ho pensato che potesse essere nella Pennsylvania occidentale. Nel cortile c’era un vecchio camioncino con il cassone senza sponde. La donna indossava un grembiule scolorito. Ha alzato gli occhi dal lavandino, per niente sorpresa, e mi ha detto quella frase. Seduta al tavolo, una bambina stava disegnando con un pastello. Era la nipote della donna? Non lo sapevo. Mi ha guardato un attimo prima di tornare al disegno, poi con improvvisa violenza si è messa a scarabocchiarlo tutto: qualsiasi cosa avesse disegnato ora lo stava distruggendo. Lei per caso è l’uomo che chiama il suo amico Andrew, lo scienziato cognitivo che ha portato una bambina di pochi mesi a casa della ex moglie? Sì. E mi sta dicendo che ha sognato di fuggire e di ritrovarsi sulla porta di servizio di una fattoria in rovina non si sa dove? Allora. Non era un sogno, era una voce. Cerchi di stare un po’attento. Questa voce mi ha fatto provare la stessa sensazione di quando avevo sentito il bisogno di scappare dopo che la mia bambina avuta con Martha era morta e con lei la mia vita con Martha. Non mi importava dove sarei andato. Salgo sul primo pullman che vedo a Port Authority. Mi addormento, e al risveglio il pullman si sta inerpicando lungo le strade tortuose della Pennsylvania occidentale. Ci fermiamo davanti alla piccola agenzia di viaggi in uno di quei paesotti e scendo per fare due passi nella piazza: saranno state le due o le tre del mattino, era tutto chiuso di quello che c’era, un drugstore, un negozietto di cianfrusaglie, un corniciaio, un cinema, e a occupare un lato intero della piazza una specie di tribunale in stile neoromanico. Nel quadrato di erba secca ingiallita c’era una statua nero-verdastra di un uomo a cavallo all’epoca della Guerra di Secessione. Il tempo di tornare all’agenzia di viaggi e il pullman è sparito. Così mi avvio fuori dall’abitato, di là dai binari della ferrovia, oltrepassando alcuni magazzini, e due o tre chilometri dopo –ormai era l’alba –trovo questo edificio fatiscente, una fattoria in abbandono. Avevo fame. Entro nel cortile. Nessun segno di vita, così faccio il giro e arrivo alla porta-zanzariera. E ci sono queste due uguali a come me le ero inventate o pensavo di averle inventate, la bambina e la vecchia. E la vecchia è quella che aveva detto quella frase la mattina che stavo con il caffè e il giornale a Washington, in attesa del verde. Insomma mi sta dicendo di essere scappato e di essersi ritrovato proprio sulla stessa porta di servizio di una fatiscente fattoria della Pennsylvania che aveva precedentemente immaginato? No, maledizione. Non è questo che sostengo. Sono salito davvero sul pullman e il viaggio è stato esattamente come ho detto. Lo squallido paesotto, la fattoria diroccata. E quando sono arrivato all’edificio è vero che in cucina c’erano quelle due persone, la vecchia e la bambina coi pastelli. C’era anche un foglio di carta moschicida appeso al lampadario, nero di mosche appiccicate sopra. Perciò era tutto molto reale. Solo che nessuno mi ha chiesto di sistemare la porta. No? Sono stato io a offrirmi di aggiustarla. Ero stanco e avevo fame. Non vedevo uomini da nessuna parte. Ho pensato che in cambio di qualche lavoretto mi avrebbero permesso di lavarmi, mi avrebbero dato qualcosa da mangiare. Non volevo la carità. Così sorrido e dico: Buongiorno. Mi sono mezzo perso, ma vedo che la porta ha bisogno di essere riparata e penso di riuscire ad aggiustarla se mi offrite una tazza di caffè. Avevo notato che non si chiudeva bene, il cardine superiore veniva via dal telaio, la maglia della zanzariera era lenta. Come porta-zanzariera era del tutto inutile, motivo per cui avevano dovuto appendere la carta moschicida al cordino del lampadario. Vede perciò che non era stata una visione paranormale a condurmi in quel luogo. Ero salito su quel pullman e avevo visto la fattoria e quelle due persone e poi le avevo cancellate dalla mia mente fino a quella mattina a Washington, mentre ero in piedi all’incrocio in attesa che i secondi del rosso arrivassero a zero e ho sentito—All’epoca lavorava a Washington? —sì, come consulente del governo, ma non mi chieda a far cosa –e ho sentito la voce della vecchia dire più o meno quello che avevo detto io quando ero comparso sulla porta della sua cucina. Solo che nella sua voce le parole avevano un tono di riprovazione, tanto che l’effetto era: “Visto che non stai facendo niente, perché per una volta non ti rendi utile e aggiusti la zanzariera”. C’è una definizione per questo tipo di esperienza nel suo manuale, giusto? Sì. Ma non sono sicuro che stiamo parlando dello stesso tipo di esperienza. Anche noi abbiamo il nostro manuale, sa? Il suo campo è la mente, il mio è il cervello. Si incontreranno mai? La cosa importante di quel viaggio in
pullman è che ero arrivato ad avere la sensazione che qualsiasi cosa facessi avrebbe arrecato danno alle persone che amavo. Pensa di sapere cosa si prova, Mr Analista seduto sulla sua poltrona ergonomica? Non mi riusciva di capire per tempo cosa fare per evitare il disastro, come se a ogni mio comportamento dovesse per forza seguire qualcosa di terribile. Così sono salito su quel pullman, per scappare e basta, non mi importava altro. Volevo comprimere la mia vita, dedicarmi a sciocche minuzie quotidiane. Non che ci sia riuscito. Le sue parole ne furono l’evidente riprova. Le parole di chi? Del colossale marito di Martha. Quando Andrew varcò la porta d’ingresso vide il colossale marito di Martha che infilava cappotto e berretto e Martha che saliva le scale con la bambina tra le braccia, togliendole il cappuccio, aprendo la lampo della tutina imbottita. Andrew prese nota di una casa spaziosa e ben arredata, molto più elegante di quella in cui avevano vissuto lui e Martha da sposati. L’ingresso aveva un pavimento a parquet di legno scuro. Sulla sinistra intravide un confortevole soggiorno, con soffici divani e poltrone, il fuoco acceso nel camino, e sul muro sopra la mensola il ritratto di quello che gli parve uno zar russo in abito lungo con una croce ortodossa appesa al collo e una corona che somigliava a un copricapo ricamato. Alla sua destra, in uno studio tappezzato di libri, lo Steinway nero di Martha. La scalinata, rivestita da una passatoia rosso scuro con una bacchetta di ottone alla base di ogni gradino, disegnava una curva sinuosa insieme al corrimano, al quale Martha non si stava aggrappando mentre saliva con la bambina in braccio. Era in pantaloni. Andrew notò che aveva conservato la linea e si sorprese a rimarcare, come non faceva da anni, la forma e il vigore elastico del suo sedere. Il cappotto del colossale marito di Martha era di quelli con le spalle arrotondate, il collo a mantellina e le maniche svasate. Un modello che non portava più nessuno. Il berretto, un affarino sportivo indeformabile, era troppo piccolo per la testa del colossale marito di Martha. Disse Martha senza voltare il capo: Va’con lui, Andrew, con lo stesso tono di voce pacatamente imperativo che usava quando erano sposati. Andrew corse ad aprire la portiera del passeggero. Era gratitudine quella che provava mentre il colossale marito di Martha lo raggiungeva e si sistemava sul sedile. Partirono alla volta del pub preferito dal colossale marito di Martha, il quale lo indirizzava senza parlare, segnalando destra o sinistra agli incroci, grugnendo e indicando il parcheggio dopo che furono arrivati. Era un bar in un centro commerciale. Andrew si aspettava una conversazione, una qualche intesa reciproca –dopo tutto condividevano l’esperienza della stessa moglie –, ma una volta seduti al bancone con davanti i drink in alti bicchieri lavorati, e nonostante Andrew attendesse l’inizio della conversazione, il colossale marito di Martha non parlava. Così Andrew disse qualcosa del seguente tenore: Tutto quello che sei convinto di sapere su di me è vero. È vero che ho accidentalmente fatto morire la mia bambina avuta con Martha: le ho somministrato in buona fede il medicinale che ero convinto fosse stato prescritto dal nostro pediatra. Il farmacista aveva spedito il medicinale sbagliato e io non sono stato attento quanto avrei dovuto, avevo passato tutto il giorno sulla mia tesi in scienza cognitiva, ero stato ore in laboratorio oltre a riunioni al dipartimento eccetera, e ho diligentemente versato il medicinale nella sua piccola bocca con un contagocce. Per tutta la notte l’ho fatto ogni due ore, finché la bambina ha smesso di piangere ed era morta. Non mi ero accorto che fosse morta, pensavo avesse finalmente preso sonno. Ero stanco e mi sono coricato a mia volta, toccava a me restare alzato con la bambina malata perché Martha era esausta, aveva dato le sue lezioni di pianoforte tutto il giorno e l’uomo di casa, dopo tutto, ero io. A svegliarmi è stato l’urlo di Martha, un urlo non umano, il verso di un enorme animale selvatico con la zampa impigliata in una trappola d’acciaio, e forse nemmeno un animale dei nostri tempi, qualcosa di simile alla sua versione paleontologica. Disse il colossale marito di Martha, lo sguardo fisso sullo specchio blu dietro il bancone: Quando un animale si ritrova la zampa in una trappola lo sai cosa fa per liberarsi? Se la stacca a morsi. Ma resta menomato per sempre, incapace di provvedere a se stesso e condurre una vita normale. Ti riferisci a Martha, disse Andrew. Già. E così sono rimasto storpiato per sempre anch’io, avendo sposato per amore una donna irrimediabilmente ferita non più in grado di praticare la propria professione. Grazie a Sir Andrew l’Impostore. È questo che sono, Sir Andrew l’Impostore? Già, la cui gentile, bendisposta, generosa, affascinante inettitudine è il modus operandi del più letale dei killer. Facciamocene un altro. Quando Andrew prese il bicchiere per scolare rapidamente il drink, in modo da onorare il debito morale nei confronti del colossale marito di Martha ordinandone un altro, senza averne davvero voglia, il bicchiere gli scivolò di mano. Nel tentativo di recuperarlo agganciò la ciotola di arachidi con la manica della giacca, e nella smania dell’improvvisa necessità di raddrizzare due cose nello stesso momento le perse entrambe, con il bicchiere e il suo contenuto, cubetti di ghiaccio e spicchio di lime compresi, che seguirono la cascata di arachidi sulle ginocchia del colossale marito di Martha. Si sentì offeso da quello che disse? Il colossale marito di Martha. Si infuriò? No, lui è un cantante lirico. La lirica è l’arte delle emozioni incontrollate. Succede una cosa e quelli ci cantano su per ore. Ciò che disse, sebbene espresso in una voce da basso-baritono di grande e minacciosa risonanza zarista, era vero. Non potevo offendermi né infuriarmi, non solo perché era una cosa di me stesso che sapevo già, ma anche perché nel mio cervello c’è una cesura... e perciò l’onore, tra le altre virtù, è qualcosa con cui io non ho alcun legame. Non ce l’ho. Dentro di me, al fondo della mia anima, ammesso che l’anima esista, sono sostanzialmente indifferente a quello che ho fatto. Una pallida sfumatura di rammarico per bambine morte, per mogli morte, per gli incendi che ho appiccato mio malgrado, e nei miei sogni tutte queste sciagure potranno anche farmi fuggire in chissà quale luogo dove io non possa nuocere, ma nella vita di ogni giorno sono sordo al mio rimorso. Però dopo il terribile evento della morte della piccola salì su un pullman diretto verso la Pennsylvania occidentale. Non è così? O adesso sta dicendo che si è sognato tutto? No, quello che è successo davvero è come l’ho descritto. Be’, quindi nella vita di ogni giorno come nei sogni, non stava forse fuggendo? Questo non mi sembra essere sordi al proprio rimorso. Momenti del genere possono capitare ma non sono caratteristici, sono accidentali rispetto allo stato d’animo prevalente. Rimasugli del po’di umanità che posso aver avuto. Capisco. Perché la verità è che io scrollole spalle e tiro dritto. Affabile come sono, generoso e disponibile come cerco di essere, alla fin fine non ho sentimenti, nel bene o nel male. Nelle profondità del mio essere, succeda quel che succeda, resto freddo, impenetrabile al rimpianto, al lutto, alla felicità, pur essendo capace di fingere talmente bene da ingannare persino me stesso. Sto cercando di dire che sono, alla fin fine, tremendamente insensibile. La mia anima giace in un profondo, immobile, meraviglioso, imperturbabile, calmo, freddo lago di silenzio. Ma no, non inganno me stesso. Un killer, ecco cosa sono. E, ciliegina sulla torta, sono incapace di punirmi, di togliermi la vita per la disperazione della rovina in cui ho gettato la vita delle persone, bambine inermi o donne che amo. Ed è questo che il colossale cantante lirico marito di Martha non riusciva a capire mentre mi condannava, magari con la speranza che avessi un’illuminazione e la facessi finita. [riflette] Naturalmente non lo farei mai. Insomma, però Martha aveva una bambina adesso, un surrogato della figlia che aveva perduto. Io non la vedevo da questa prospettiva. Non era mia intenzione consegnarle la bambina punto e basta. È solo che avevo bisogno di aiuto. Per un anno o due. Ero ancora sotto choc per la morte di Briony. Martha invece prese possesso della bimba come se fosse il legittimo genitore. Le diede fastidio? Non ero in condizione di eccepire. Devo farti il disegnino? Sei così duro di comprendonio? Avevo già ammazzato una bambina, volevi che ne ammazzassi un’altra? Comunque ci rincontreremo un giorno. Ha gli stessi occhi azzurri di Briony. Gli stessi colori chiari. Aveva ragione il colossale marito di Martha nel sostenere che lei fosse in qualche modo responsabile anche della morte di sua moglie? Non del tutto. Che significa? È stato indiretto... non un rapporto di causa-effetto. E allora come è andata? Si riferisce al parto? No, non mi riferisco a quello. Come è morta? Non voglio parlarne. [riflette] Posso dirti che, dopo aver ammazzato la bambina avuta da Martha, Andrew accettò una poco remunerativa cattedra di professore a contratto in un piccolo college statale del West di cui non aveva mai nemmeno sentito parlare. Perché? Perché, secondo te? Perché era lontano. Perché dopo aver ottenuto il divorzio a Martha piaceva farsi trovare davanti al palazzo quando lui tornava a casa dal lavoro. Faceva un tiro di sigaretta, la buttava per terra, la schiacciava e se ne andava. Perciò agli occhi di lei la colpa era sua. Sua e soltanto sua. E di chi altri? Del farmacista, per esempio? Non pensaste di denunciarlo? Oddio, tu non hai idea, vero?, di come la realtà sociale si cancelli completamente in seguito a una cosa del genere. Il cervello frastornato dalla consapevolezza che ciò che hai fatto è irreversibile. Denunciare qualcuno? C’era forse riscatto in questo? Cosa ne avrei ricavato, denaro? Cristo, non so che parlo a fare con te. Denunciare qualcuno avrebbe forse riportato in vita la bambina? E chi avremmo dovuto denunciare? Il pediatra che aveva trasmesso la prescrizione per telefono? il farmacista che l’aveva evasa? il pony express che ci aveva consegnato il medicinale? Dov’è che c’era stato l’inghippo? Chi avremmo dovuto denunciare? Avrei potuto leggere l’etichetta. Avrei potuto denunciare me stesso. Ero stato io a somministrare il medicinale. Solo quello Martha vedeva, che ero stato io, indiscutibilmente, io e nessun altro.
E tu eri d’accordo. Certo. Ero stato io, punto e basta. Ed ecco allora Andrew in esilio volontario in questo college statale alle pendici di una catena montuosa detta dei Wasatch. All’inizio le montagne mi piacevano. Vi arrivai ai primi di settembre, un finale d’estate ancora caldo con tracce di vecchia neve invernale sulle cime. Mi fece capire in che mondo inumano viviamo. Te ne rendi conto quando esci dalla città. Agli americani piace scroccare un passaggio in quel mondo. Cos’è che stai dicendo? Scendere da una montagna con un paio di sci ai piedi – è una corsa gratis, per esempio. Cavalloni del mare, fiumi d’acqua bianca. Un vento cui tenersi aggrappati. Passaggi offerti dal pianeta. Tutti pronti a tua disposizione, puoi salire, scendere, o farti ammazzare.