venerdì 1 ottobre 2021

VAI TROPPO SPESSO AD HEIDELBERG Heinrich Böll


   

Quei tempi là

Dopo che la compagnia ebbe lasciato il cortile della caserma, Renatus tornò ancora in fretta in camerata per vestire la divisa di tela bianca, com’era prescritto dal regolamento per il suo servizio.

Il silenzio dei corridoi gli mise quasi paura. In pieno giorno, priva della solita animazione, la caserma rivelava un volto ignoto. Il pavimento pareva tremare sotto il passo dei suoi stivali chiodati. Ogni cosa sembrava gridare, muta: «Sono morta!» Come se si trovasse veramente in una tomba, Renatus istintivamente camminò più piano. Qui però non c’era nulla che parlasse dello spirito. Un vuoto, squallido deserto. E una povertà totale: nemmeno la sofferenza di tutti coloro che qui avevano sudato e sanguinato, gemendo sotto il peso del «servizio», era riuscita a creare una sorta di genius loci. Giunto in camerata, Renatus si cambiò la giubba con la fretta affannosa di un ladro e tornò indietro di corsa. Fu come una liberazione quando giunse al piano di sotto e sentì delle voci che provenivano dalla fureria.

Frattanto, sull’area rossa e liscia del cortile, s’erano schierate altre compagnie per il cosiddetto «servizio d’ordine». Il servizio di quest’ordine consisteva nell’eseguire per ore e ore, con le mani e coi piedi, un certo numero di movimenti prescritti, ciascuno dei quali era uno scalino che conduceva al tempio dove un giorno, incoronati, i perfetti esecutori di tutti questi esercizi avrebbero avuto il diritto di entrare in qualità di «energici» soldati. Che spreco di forza e di abilità umana, che usura di solide corde vocali, in queste occupazioni! Che spavento, il fervore religioso dedicato al culto del fucile! In che maniera indegna ascetismo, penitenza, resistenza a ogni sorta di strapazzi venivano qui messi al servizio d’una gerarchia dell’ottusità.

Tutto il cortile era occupato da gruppi schierati in bell’ordine, che si movevano, come tirati da un filo, l’uno dopo l’altro. Il piccolo dio competente caso per caso fissava, con un fischio, l’esercizio da eseguire nei prossimi dieci minuti. Gli uomini erano come marionette che si movevano attaccati al filo dell’obbedienza, che andava a mettere capo in un cervello privo d’intelligenza. Pensare era compito dei cavalli!

Nell’attraversare il cortile affollato, Renatus dovette salutare ogni gallone, ogni spallina e tutto quel lungo percorso di varie centinaia di metri fu un continuo alzar la destra e lasciarla ricadere di colpo, quella destra che doveva essere portata all’altezza del capo con uno scatto innaturale, secondo un’angolazione ben precisa, eseguendo un movimento che, considerato in sé, non era altro che pretto dileggio della persona umana. E ogni volta sentiva, fino al midollo delle ossa, la classica paura della recluta di non aver forse eseguito questo cosiddetto saluto con l’esattezza pretesa dagli dèi spietati che stavano nel tempio dell’ottusità.

Dalla piazza d’armi coperta che stava di traverso al cortile come un gigantesco mattatoio, liscia e pulita, usciva l’orrendo canto di un’intera compagnia che si esercitava, per così dire, a cantare. Una melodia banale, infarcita della pappa d’un testo insipido, saliva nell’aria, spinta da duecento voci stentoree, come una marea distruttiva.

Ma il dolce cielo primaverile s’incurvava sorridendo, sì, sorridendo sopra la caserma.

Renatus toccò la porta della mensa ufficiali come un porto di salvezza. Si soffermò dapprima nell’atrio, appoggiato al muro, poi salì lentamente la scala. Lentamente percorse il lungo corridoio che portava alla sala da pranzo. Qui regnava una certa eleganza altera e al tempo stesso priva di sicurezza: la pannellatura era di buona qualità e costosa, ma troppo rigida, quasi scostante; alle pareti, gli inevitabili ritratti di comandanti, come se ne vedevano in tutte le mense ufficiali del Reich sulla stessa parete della stessa sala. Persino le pesanti tende rosse, che avevano un che di depravato, facevano pensare a uniformi; nemmeno nel peccato sembrava che qui ci fosse un’evasione dalla vuota forma irrigidita a cui era asservita ogni cosa, ogni cosa...

 

L’assalto

 

Il giorno, tenero e sorridente, si levò con la sua rosatezza spietata, sopra le stanche figure grigie rannicchiate nelle loro trincee. Dapprima, quasi in avanscoperta, qualche raggio di luce sventagliò sopra l’orizzonte, poi fu un flusso inarrestabile, luminoso e rosseggiante, come se qualcuno lo seminasse a piene mani, finché tutta la sfera del sole si librò sospesa sopra la linea lontana dall’altra parte del fiume...

Si acquattarono intirizziti nelle buche appena scavate e, con le spalle scosse da brividi, si scrollarono di dosso il peso della notte... ancora e ancora... ma le loro spalle non se ne liberarono; era un gioco vano, un’impresa sciocca e senza senso. Chi avrebbe potuto togliere quel peso dalle loro spalle? Con occhi avviliti si guardarono intorno nel chiarore crescente, per ispezionare la postazione che avevano occupato solo quella notte. Stavano su un piccolo dosso davanti a un’ondulazione del terreno che, a est, risaliva abbastanza ripido verso gli ostili boschi scuri che orlavano la riva scoscesa del fiume. Alle loro spalle, pochi cespugli, un campo di girasoli sconvolto dai carri armati, poi ancora un bosco, un bosco dal verde più chiaro. Ma che differenza faceva? La terra restava terra, e la guerra guerra.

Il giorno prima avevano marciato per molti chilometri in una torrida calura, entro un mulinello di nubi di polvere che salivano dai campi e dai sentieri polverizzati dalla siccità. Esausti, si erano trascinati barcollando, al buio, fino a questo cosiddetto appostamento, con le loro ultime forze (ah, quante ne avevano di ultime forze!) avevano scavato faticosamente in terra le loro buche e, insonni, tremanti e madidi di sudore, tormentati dalla sete, sognando angosciosamente acqua e calore, avevano combattuto per attraversare la montagna tenebrosa di quella lunga notte. L’immobilità apatica di quelle figure grigie si animò con una velocità spettrale quando a un tratto spuntò qualcuno con la gamella piena d’acqua, indicando con un sorriso di trionfo dove l’aveva presa. — È un po’ sporca, — disse come a scusarsi, continuando a sorridere. Era un ragazzo pallido, impacciato e molto sudicio.

Un’orda scatenata si disperse, ciascuno con una gavetta sbatacchiante. Un portaordini si affrettava da una buca all’altra e diceva in fretta: — Sono le quattro e quarantacinque esatte. L’assalto è alle cinque e quindici —. Ma i pensieri di tutti quanti si limitavano alle gavette piene d’acqua sporca, che avrebbero portato alle labbra e bevuto... bevuto... bevuto... Strapparono le gavette di mano ai sopravvenuti e avvicinarono la latta fredda alle labbra tremanti. Ma, dopo il lunghissimo tormento della sete, il godimento elementare, indicibilmente delizioso dell’acqua durò solo pochi secondi; gli stomaci vuoti accolsero con ripugnanza quella broda tiepida e sporca. Un ruttare disgustoso, l’orribile sensazione di essersi sporcati ancora di più, e non rimase che l’atroce certezza che si sarebbe andati all’assalto con lo stomaco pieno di lurida acqua fredda.

Poco prima delle cinque il pallido sottotenente passò davanti alle buche, spiegò ancora una volta che cosa si doveva fare, cercò di buttar là qualche parola di conforto, ma poi fu come respinto dall’apatia mortuaria dei suoi uomini. Quando iniziò il fuoco preparatorio dell’artiglieria, lui abbassò istintivamente la testa, e visto che i colpi cadevano proprio davanti alla postazione, saltò con faccia irritata nella buca più vicina e gridò forte verso destra: — Passi parola: che Bauer spari un razzo verde... se no saltiamo in aria sotto le nostre stesse granate —. Ma la salva successiva era già più lunga, verso le posizioni avversarie, anche stavolta però senza far centro. Poi quelle misere scariche arrivarono fino al bosco, colpirono e schiantarono gli alberi, e se ne sentì il rimbombo, più lontano, nella valle del fiume.

Il sottotenente, dentro la buca, si guardò intorno; i suoi occhi si sviarono, confusi, dalla faccia indifferente di un soldato già anziano e si posarono su un piccoletto che, atterrito dal suo stesso fuoco, si appiattiva sul ventre contro il fondo della buca. Si vedevano le sue spalle tremanti, le mani unite sul petto come in preghiera. Il sottotenente, con un sorriso tormentato, lo afferrò per un braccio, lo tirò su e disse ridendo: — Dài, ragazzo... non c’è pericolo... è la nostra stessa artiglieria che prepara l’assalto —. E, in poche parole, gliene spiegò la semplice tecnica. Il giovane soldato, un contadinotto con la testa tonda e le guance ancora quasi rosse, i capelli castani irsuti, guardò fiducioso la faccia dolorosamente contratta dell’ufficiale, si rimise a posto il berretto che gli era scivolato giù e, obbediente, tornò a volgersi verso il nemico. Ma a ogni nuova esplosione trasaliva impaurito.

Senza volerlo l’ufficiale guardò la sigaretta del soldato anziano e aspirò fiutando il gradito odore del tabacco; il volto freddo, indifferente del soldato magro e barbuto si contrasse in uno strano sorriso, tra beffardo e impietosito: — Ne vuole una? Tenga! — Gli porse l’intero pacchetto, ma poi, come per una risoluzione improvvisa, tirò fuori diversi pacchetti di tasca e disse, imperturbabile: — Ne faccia dare una a ciascuno —. Il giovane ufficiale non poté trattenere il tremito delle sue mani mentre accendeva la sigaretta a quella dell’altro. Con piacere incontrollato, quasi nostalgico, aspirò profondamente il fumo. Poi balbettò con imbarazzo — Grazie — e domandò, esitante: — Ma dica un po’, dov’è che le ha...

— Sgraffignate, — rispose il soldato, laconico. — E in che modo, se no? Stanotte, dai carri armati —. Il sottotenente si guardò improvvisamente intorno con apprensione e mormorò: — A proposito, questi carri armati, com’è che non si vedono? Sono le cinque e tre minuti... — Poi gridò di nuovo, più forte, verso la buca vicina: — Fate venire qui Bauer... subito... c’è una sigaretta per ciascuno!

Nella pausa imbarazzata che seguì, il debole fuoco d’artiglieria continuò a scavalcarli con un brontolio monotono e regolare. Come una cosa estranea, in uno strano bagliore, le granate esplodevano al di là del bosco, là dove si doveva trovare il fiume... il fiume ch’essi avrebbero dovuto raggiungere e possibilmente varcare. Ma nessuno in tutta la divisione, generale compreso, pensava che sarebbero anche solo arrivati a vederlo.

Il soldato fece scattar via col dito la cenere della sua sigaretta, si rimise in tasca il mozzicone con molta cautela e poi domandò, sarcastico: — Davvero credeva che i carri armati sarebbero venuti a darci appoggio? — Il giovane volto del sottotenente si trasformò sotto una forte paura che, come una maschera irrigidita, cadde sopra il suo viso ancora fanciullesco.

Fissò il soldato, mormorò, smarrito: — Sì! — Poi saltò fuori dalla buca e, mentre correva, gridò: — Voglio vedere... — Erano le cinque e cinque.

Il fuoco crebbe un po’, ora riecheggiava più minaccioso e pericoloso, poi si abbatté di nuovo, con pugni infocati, sugli alberi del bosco. Il soldato si volse al piccoletto, ancora tremante, gli toccò calmo la spalla e gli disse, quasi affettuoso: — Bene, e adesso prepariamoci...

Si affibbiò tranquillamente il cinturone, da cui pendeva solo, bello gonfio, il tascapane, si staccò la decorazione scintillante, se la mise in tasca, poi si assestò il berretto. Il soldatino aveva disposto sul parapetto davanti a sé tutto il suo fabbisogno: maschera antigas, lanciarazzi anticarro, una cassetta di munizioni, alcune bombe a mano, l’equipaggiamento d’assalto, la vanga, una custodia che conteneva delle bandiere, il cinturone appesantito dalle giberne e il tascapane. Ora cominciò a prender su tutto quel ciarpame con mani tremanti: tremava, perché il fuoco, aumentando sempre più, minaccioso, ora rotolava verso il fiume come un rullo compressore.

Il sole era già alto, ormai era immerso nella propria luce che s’irradiava, calda e chiara, sulla terra scura. I soldati, che si erano appena svegliati dal freddo amplesso di quella notte di maggio, temevano già di nuovo il caldo che aumentava pian piano, un caldo che, diventato torrido, e mescolato alla polvere, si sarebbe rivelato non meno crudele del freddo della notte.

Paul, il soldato magro, il volto improvvisamente contratto da un furore cieco, afferrò improvvisamente tutte le carabattole del soldatino, tutto tranne il fucile, e le scaraventò all’indietro, giù per quel lieve pendio. Si fermò, esausto, riprese fiato con un gran respiro e si accese un’altra sigaretta. La sua faccia tremante si calmò a poco a poco, batté sulla spalla, rassicurante, al soldatino spaventato, inorridito, e disse rauco: — Ecco, tutta roba che non ti serve... ne è già caduto più d’uno, perché a causa di quel ciarpame non ce l’ha fatta a correre indietro abbastanza in fretta... Sta’ calmo, adesso! — Il piccoletto guardava sconvolto la sua roba gettata via e voleva aprire la bocca: — Signor... caporal... — Ma Paul lo fece tacere con un’energica scrollata del capo.

Il fragore dell’artiglieria si spense di colpo, e per mezzo secondo planò sulle linee un silenzio agghiacciante, ma poi, smarrita e stranamente stridula, si levò la voce chiara del sottotenente, che si mescolò con voci più grossolane provenienti da destra e da sinistra: — In piedi! Marsch, marsch! — La voce, acuta, salì in alto come un uccelletto magro, squarciando quel silenzio paralizzante. Gli uomini grigi balzarono su dalle loro buche e ora vedevano, a destra e a sinistra, la lunghissima fila della loro divisione come un serpente che si avvoltola per il lungo, incontro al muto bosco nemico.

Il sottotenente marciava in testa, con passi lunghi e nervosi, e controllava inquieto se non c’erano fratture, in quella lunga catena, a destra e a sinistra. Il pendio li tirò quasi verso il basso; toccarono il fondo dell’avvallamento. Paul si teneva accanto al piccoletto, che si passava il fucile, sconvolto, da una mano all’altra, mentre si sforzava, nervoso, di mantenere le distanze prescritte. Solo pochi sentivano il sommesso, crepitante rumore degli spari. All’improvviso Paul si buttò a terra, trascinandosi dietro il piccoletto, che continuava a correre avanti ignaro. Subito dopo, la cortina di ferro d’un fuoco impazzito rombò giù davanti a loro sulla terra tutta vortici e schizzi. Un lancio dopo l’altro grandinò sulla fila scompigliata. Con ghignante voluttà le granate, appena percettibili attraverso un sottile ronzio, rovinarono a terra come un muro che crolli: davanti a loro, dietro a loro e nel bel mezzo di quella catena paralizzata fatta di corpi grigi. Miagolando e sibilando e urlando e scoppiando il crudele silenzio spalancò le sue fauci tremende e vomitò la distruzione. Durante le brevissime pause la misera voce del sottotenente strillava: — Qua la mitragliatrice... la mitragliatrice... — Uno si levò di colpo con un grido terribile, come raggelato, e movendo le membra come un fantoccio meccanico, corse a folle velocità verso il bosco, dove scomparve come dentro una voragine.

Il primo shock decise l’esito dell’assalto. Si sarebbe ancora fatto in tempo a buttarsi di corsa al di là di quella cortina di fuoco, un’azione senza senso ma coraggiosa; però l’attimo della decisione era già passato, la paralisi della paura era completa e quei corpi grigi erano ormai stesi sul banco del macellaio. Le grida dei feriti erompevano, orrende e incessanti, attraverso ogni minimo varco di silenzio.

Paul aveva tirato a sé, forte forte, il soldatino, quasi che potesse tranquillizzare quel povero fagotto gemente col contatto del suo corpo. Lo aveva trascinato dentro uno dei crateri stranamente piatti, dall’aspetto innocuo.

Ancora una volta il silenzio calò su quei due, stesi là in fondo, come un angelo sterminatore. Torreggiò sopra di loro come una montagna di piombo e di orrore. Perfino i feriti tacquero un istante. Poi si udì ancora lo stridulo: — In piedi! Marsch, marsch! — del sottotenente. Il quale balzò su, fece alcuni passi di corsa e poi stramazzò a terra, vorticando goffamente le braccia.

Dal bosco vennero avanti, con cupo brontolio, dei carri armati. La paralisi generale si sciolse. I sopravvissuti si alzarono gridando selvaggiamente e tornarono di corsa verso le colline, trascinando con loro feriti urlanti.

Paul scrollò il piccoletto, ma quello non si mosse più: nessuna scheggia, nessun proiettile lo aveva ferito; il suo cuore di bambino era stato strozzato dalla paura, e tremava ancora nella morte, appena appena, come il vento che la mattina scherzava tra gli alberi, davanti alla casa di suo padre.

Quando finalmente Paul, quasi contro voglia, dovette fuggire all’avvicinarsi di quei mostri cingolati, non poté fare a meno di voltarsi più e più volte indietro a guardare il corpo grigio del soldatino, che giaceva laggiù nella vallata, quieto e silenzioso. E non si rese nemmeno conto che piangeva, ch’era semplicemente scoppiato in singhiozzi, benché di morti ne avesse già visti tanti.

  

Mercoledì delle ceneri

 

La faccia di lei, pallida, vista dietro il vetro appannato pareva di cera. Le gocce di pioggia lungo il vetro parevano far parte del volto: stille di sudore o lacrime che scivolavano giù lente, scavando larghi solchi luminosi che talvolta affluivano insieme in curve e lasciavano cadere goccioloni che precipitavano sulle sue mani. La corrente d’aria invisibile che agitava le stelle filanti entrò anche nei suoi capelli, li sollevò come una vela troppo pesante, che ricadeva di continuo. Più in basso, le sue stanche mani coperte di gocce raccoglievano maschere e pistole-giocattolo, turgidi petardi di carta colorata che parevano voler esplodere come pance troppo piene; staccavano grandi mascheroni di cartapesta da fili di ferro dove stavano appesi, ghigne ridanciane, piangenti, gialle e rosse, che dondolavano dolcemente al soffio del ventilatore invisibile.

Nel buio della persiana aperta spuntavano di continuo due grasse, larghe e pelose mani d’uomo, che prendevano in consegna tutta quella roba e la mettevano via.

La strada era deserta. Dietro le facciate grigie delle case tutto sembrava morto. Davanti a una finestra era appeso un palloncino, uno straccio di gomma rossiccio e grinzoso il cui gas non bastava più a sollevarlo: pendeva giù, flaccido, fissato con una cordicella sporca alla ringhierina verde di un davanzale; accanto al palo in miniatura che lo tratteneva c’era una bottiglia di latte, più indietro un vasetto di cetrioli, d’un verde spento come i ferri della ringhiera.

Da una betoniera abbandonata una larga traccia fangosa, con mille impronte di piedi, si allungava sul lastrico accidentato, e il tubo della stufa che sporgeva dal chiosco delle sigarette sbuffava fumo: nuvolette nero-azzurrastre, che appena uscite dal camino venivano sparpagliate dalla pioggia.

Nella vetrina, al di sopra del vestito azzurrino della donna, esattamente sopra i capelli biondi di lei, che avevano un riflesso verdognolo, lui vide anche se stesso: il suo mento era appoggiato allo spigolo nero, duro, che delimitava la vetrina, e nel buio ammuffito della bottega quell’ovale appariva, isolato e indistinto, d’un verde bianchiccio, come una maschera dimenticata con le occhiaie scure, i capelli morti, ricavati da un materasso di crine vegetale e appiccicati al cranio. L’unica cosa viva era il fumo della sua sigaretta, visibilissimo, d’un grigio molto chiaro, che usciva dalla cavità oscura della bocca, vorticava in allegre spirali verso l’alto e si dissolveva nel buio del soffitto.

Proprio in mezzo a quelle larghe mani pelose spuntò a un tratto una testina ovale, pallidissima, la bocca, il naso, gli occhi delineati a tratti assai marcati: pareva un uovo sodo dipinto, con su un berretto rossiccio; poi venne coperto da una manciata di stelle filanti che la donna depose in quelle mani aperte.

L’uomo volse lo sguardo a destra: accanto a lui c’era un ragazzo che seguiva quello sgombero con occhi svegli e astuti. Sulla sua fronte, sotto la visiera del berretto, la croce del mercoledì delle ceneri era segnata con due forti tratti d’un nero intenso, quasi brillante: una croce così viva che l’uomo, involontariamente, immaginò il largo pollice di un pretone robusto, che aveva immerso il dito nella bacinella del carbone e con due segni decisi l’aveva tracciata sulla fronte del ragazzo, nero su bianco. Dalla rigonfia tasca sinistra della giacca penzolava giù, al ragazzo, il segnalibro rossastro del suo testo di lettura. Ora il ragazzo lo guardò e sorrise: il suo volto bianco era energico e bello: le righe delle sopracciglia erano scure, nere, e quando lui chiudeva le palpebre, le ciglia si posavano sulle guance, con linda delicatezza, come fuggevoli farfalle. L’uomo gli fece un cenno col capo e si volse in là, poi di colpo portò la faccia vicinissimo al vetro appannato: là dentro la donna, con una scopetta, spazzava la vetrina ormai vuota, le larghe mani erano scomparse e adesso l’uomo batteva delicatamente, con la nocca dell’indice destro, contro il vetro: vide la donna alzar gli occhi, la scopetta sfuggì dalla sua piccola mano, le sue labbra tremarono e lui indietreggiò.

Il ragazzo era inginocchiato all’orlo del marciapiede, dalla sinistra gli penzolava una fionda, mentre la sua destra sembrava cercar sassi nella cunetta.

L’uomo andò verso destra e si appoggiò, stanco, all’ingresso della casa. La verniciatura a olio ormai era tutta grattata, ma la tavoletta di legno dove si trovavano le targhette dei nomi e i bottoni dei campanelli pareva indenne: il legno era impregnato di sporcizia, vecchissimo, quasi nero, i bottoni dei campanelli lustrati dall’uso. A vedere quelle targhette fu subito sbalestrato dal presente al passato, dieci, vent’anni addietro, molto molto tempo avanti: il nome Kremer, inciso nel lucido ottone, annerito con lucida, resistente vernice nera, risvegliò il ricordo di un corridoio ammuffito, da cui ormai era ineliminabile l’odore di salse a base di farina, il volto verdognolo, ossuto di una donna che non smetteva mai di lamentarsi e la nuca ben tesa di un uomo che, con le scarpe lustre, il cappello sulle orecchie carnose, ogni mattina marciava verso il tram. Le targhette ballavano davanti ai suoi occhi, parevano far le esercitazioni come un drappello di reclute ubriache che si movessero in fila, parallelamente, di traverso, un alfabeto che continuamente si scompigliava, si riordinava, figure vive della stessa grandezza, evidenziate in vernice nera su una superficie di lucido ottone: la tavoletta di legno nero simile a una scatola ottusa in cui venissero agitate quelle figurine lustre, una scatola da cui si effondeva un odore di cera da pavimenti di qualità media. L’uomo stesso si sentiva come fluttuare impotente in quel contenitore del passato, scalciava inutilmente in quel bagno di bruttezza, un infinito scoramento e la noia stagnante di innumerevoli domeniche pomeriggio, quando lo strimpellio insipido di un pianoforte invocava aiuto.

Poco dopo che il suono scuro e bello della campana lo riscosse, l’uomo sentì un tintinnio acuto, tagliente, poi frammenti di vetro che cadevano. Si chinò in avanti e vide il ragazzo, la fionda sventolante in mano, venir di corsa da dietro l’angolo, e in quello stesso istante, mescolandosi al suono scuro e regolare della campana, sentì levarsi l’urlio stridulo d’una voce di donna. Sopra il palloncino floscio vide una faccia magra, quasi azzurrina, circondata da capelli esageratamente biondi: alla sua sinistra la bottiglia del latte, rovesciata, la cui parte superiore s’era impigliata nella ringhierina del davanzale. Lungo la facciata verde della casa il latte ruscellava giù in una striscia argentea che si allargava, si restringeva e, da basso, si raccoglieva tra le pietre in una piccola pozzanghera, sulla cui superficie l’inconsistente sporcizia della strada si depositava con sorprendente rapidità...

Una mano ossuta afferrò il barattolo di cetrioli, strappò il palloncino dalla sua fune, la finestra venne chiusa con un tonfo. In quell’attimo la campana della chiesa aveva toccato il vertice del suo bel suono pieno. L’uomo dalle mani grasse, larghe, pelose uscì dal negozio, la sua figura se ne andò a passi misurati. Lui allora abbandonò l’ingresso della casa, abbassò la maniglia della porta ed entrò in bottega.

Lei stava dietro il banco, tra le mani una quantità di scatolette colorate piene di penne stilografiche. Il suo viso pallido si scurì, le dita le si aprirono, le scatole rotolarono sul banco, ed essa esclamò sottovoce:

— Willi! Willi!

Lui le si avvicinò e per un attimo posò la guancia sui capelli di lei.

— Maria, — disse piano.

Le mani di lei si erano posate sulla sua schiena, ma si staccarono presto.

— Quanto tempo ti fermi?

— Poco, — rispose lui subito, — poco. Lui quando torna?

— Tra non molto, è solo andato in chiesa. Hai un brutto aspetto, come stai?

L’uomo la osservò, attento. — Anche tu... Però non cambi.

— Come stai?

— Male, — le rispose con veemenza, — molto male.

— Che cosa fai?

— Niente.

— Non lavori più, neanche tu hai più lavoro...?

— No, — disse lui, — non lavoro nemmeno più per Brecht —. Scrollò le spalle. — Non ho più idee e loro hanno grafici migliori —. Le prese la mano e con quella si lisciò la guancia, lentamente.

— Hai bisogno di denaro?

— Sì.

Lei si staccò da lui e, costeggiando il banco, sparì nel retrobottega. La seguì con lo sguardo, pensoso. Era venuto lì solo per quello, ora gli era tornato in mente. Per via dei soldi. Ne aveva bisogno. Nell’uscio che la donna si era sbattuta alle spalle il vetro verde dei pannelli tremava ancora. Lui fissò gli occhi alle pareti, guardò tutti quegli scaffali pieni di blocchi, di cartoline illustrate, di quaderni scolastici, di libri, scorse le vecchissime insegne di marche di sigarette che non esistevano più da vent’anni, e attraverso il sottilissimo strato del presente cadde di nuovo indietro nel passato: dieci anni, venti, trenta, sprofondava giù giù come in un ascensore i cui cavi si fossero spezzati, lungo piani tenebrosi, finché urtò in basso, e allora vide se stesso, in piedi in quel punto, la testa che appena sporgeva dal banco, con degli spiccioli nelle mani sporche, nell’atto di porgerli alla gran mano larga e pelosa per averne in cambio delle caramelle...

Sull’uscio dai vetri verdi sembrava librarsi il numero 3, 30, 300, poi arrivarono rotolando gli zeri, minuscole uova lerce in una fila lunghissima che si moltiplicavano svelte, finché il numero tornò a ridursi: 30, ora niente più 3, soltanto uno zero, un grande zero ovale, netto: il volto di lei...

— Che cos’hai? — gli domandò la donna, spaventata.

— Niente.

Essa gli porse un mucchietto di banconote che lui, senza guardarlo, piegò in due e si mise in tasca. Mentre la guardava in faccia, l’uomo cercò di calcolare su per giù che somma si era cacciata nella tasca del mantello: parevano almeno dieci biglietti di banca, e benché non avesse mai maneggiato molto denaro, credeva di sentire che fossero biglietti da cinque, un pacchettino di sudici pezzi di carta.

— Sarai contenta, — disse lui, rauco, — quando me ne sarò andato, vero?

Lei tacque e abbassò la testa. Lui vide i capelli della donna così vicini da poterne sentir l’odore, quell’incantevole mescolanza d’argento e d’oro che odorava, odorava veramente di sapone e di capelli.

— Sii sincera, — le disse.

Essa alzò gli occhi e cominciò a radunare le scatolette multicolori, le sue dita le raggruppavano automaticamente in piccole unità di sei pezzi, che poi impilava l’una sull’altra.

— Rispondi.

— Sì, — disse lei.

— Un tempo mi amavi.

Lei restò calma. — Vai ancora su da tua madre?

— No!

— Le faresti piacere.

— Le scriverò.

Lei si strinse nelle spalle. — Già. La posta viene ancora consegnata qui in bottega.

La campana della chiesa ricominciò a sonare, pian piano, ma poi sempre più forte, e lui di colpo disse: — Ora devo andare.

— Vuoi che saluti tua madre?

— No, no, le scrivo io... arrivederci.

— Arrivederci, — rispose lei.

Come fu fuori, vide quell’omaccione svoltare l’angolo, si avvicinò alla vetrina e attese: dentro, i rivoletti di pioggia sembravano ancora scie di lacrime sul volto di lei, le cui mani si movevano quasi per conto loro. La donna riordinava in silenzio le cose di un altro tempo dell’anno, che ormai era segnalato dal calendario: libri di preghiere con su delle croci d’oro venivano disposti in vetrina su uno sfondo di carta rossastra, le scatolette multicolori venivano sistemate in graziose piramidi, grandi matite, lunghe come piccoli giavellotti, venivano messe su come una stecconata, quaderni scolastici appoggiati a sostegni di fil di ferro e cartellini dei prezzi collocati qua e là da quelle tranquille mani bianche. La donna non alzò più gli occhi.

Poi lui sentì alle sue spalle quei passi pesanti, la porta della bottega venne aperta e il volto, là dentro, scomparve all’improvviso dal riquadro buio della vetrina, poi seguirono le mani. Ora lui sapeva che la strada era libera, guardò ancora una volta la lontana maschera verdognola appoggiata all’assicella nera e fuggì via. Mentre quasi correva, stringeva più forte che mai i biglietti di banca dentro la tasca del mantello...

 

Il villaggio rivisitato

 

Là, ormai, è tornato quasi tutto com’era prima. Il villaggio è ricaduto nel suo silenzio e vi si sentono solo i vecchi rumori: il lento cigolio di un carro che torna dai campi o ci sta andando, il richiamo di un contadino che, nel silenzio meridiano, incita il servo al lavoro. L’unica cosa eccitante è lo stridore insolito della sega circolare, che col suo vitreo ronzio taglia tronchetti di faggio levando la sua voce selvaggia su su nella muta volta del cielo, quasi volesse segare anche la sua superficie grigia per farla ricadere in tanti pezzi su quest’opprimente quiete; ma non può che sfogare la sua rabbia, all’infinito, su quel legno innocuo...

Non più il brontolio maligno dei carri armati o il latrare spocchioso dei piccoli automezzi, non più - ogni notte - il tremendo rumore della fanteria in ritirata che cerca invano di sfuggire al grande accerchiamento e che nel primo pomeriggio, con nuove armi e nuovi superiori, ripercorre la stessa strada per tornar di nuovo indietro, di fuga, in piena notte; non più il volo circolare - terrificante nella sua calma che man mano, con sinistra dolcezza, cresceva in volume - degli apparecchi da caccia, che come uccelli da preda si muovono sopra il terreno per piombare poi sulla preda con un urlo improvviso e un feroce ululato...

Anche gli odori sono di nuovo quelli di prima: la putredine soave della terra umida si mescola all’asprezza bruciante e piccante dei fuochi coperti che consumano le erbacce, e talvolta dolci inebrianti zaffate di fieno là dove un tempo sboffi maleodoranti di pessimi combustibili investivano case e stalle, mentre tutt’intorno il rombo delle battaglie avvampava lungo l’orizzonte, si stringeva sempre di più come un cappio maneggiato da un boia dalla mano sicura...

Tutto ciò che poteva essere anche solo minimamente utile, i contadini l’hanno recuperato, svitandolo o staccandolo a forza, dai più vari relitti, e le carcasse metalliche arrugginite di carri armati o di automezzi distrutti cominciano pian piano a coprirsi di sterpaglia, e nemmeno la curiosità insaziabile dei bambini ci scopre ancora qualcosa che si possa staccare e utilizzare per qualche gioco.

Trincee e crateri di bombe ormai sono stati spianati, e al posto degli alberi schiantati dalle granate se ne sono fatti venir su dei nuovi che già iniziano a crescere, a buttar nuovi rami, nuove foglie, tanto che i vuoti cominciano a non farsi più notare. Anche la chiesa è stata rabberciata con sorprendente pazienza: le tegole nuove hanno lo stesso colore delle vecchie, e anche l’orologio cammina di nuovo e quando le due lancette s’incontrano sul dodici viene puntualmente sonato l’Angelus. Le case sono ricadute nel loro anonimato primitivo, dopo aver dato ospitalità a più d’un comando militare che sembrava importante e che aveva destato in loro il rumore insolito di telefoni che squillavano in continuazione, quel girar di manovelle, quel gridare affannoso con cui si cerca di guidare la sorte delle battaglie...

Molti hanno dovuto abbandonare queste case e sono stati inviati in Paesi molto, molto lontani, la cui terra scura portava anch’essa patate, fagioli e diversi vegetali ch’essi non conoscevano: steli di girasole in numero infinito o alberelli di limone, oppure dovettero farsi cacciare nella sterminatezza della steppa che non aveva orizzonte, ma era al tempo stesso cielo, terra e orizzonte: opprimente nuvolaglia del nulla, piena soltanto dello scintillio perlaceo di una noia vertiginosa...

Molti non sono più tornati, dormono in terra straniera sotto arbusti stranieri eppure i loro posti non sono rimasti vuoti in questo cimitero: stranieri dormono qui sotto elmetti arrugginiti, le cui forme differenti tendono sempre più a identificarsi quanto più a lungo la pioggia, il vento e il sole li coprono di carezze gentili o tempestose...

 

Ispezione

 

La grigia fiancata della chiesa era squarciata tra due contrafforti, e dall’apertura traspariva la luce del giorno come attraverso un portone: tutt’intorno, frammenti di pietra come dopo l’esplosione di una roccia, detriti un po’ dappertutto, ma davanti all’ingresso avevano sgombrato, e lui vi si avviò tra mucchi di macerie e aprì la porta di assi che metteva nell’interno. Dentro, un gran silenzio. In quello spazio svolavano uccelli, lui li sentiva fischiare, e da qualche parte gli giungeva il pigolio dei piccoli. La catena di un lampadario tutto ammaccato, ancora fissata al soffitto, strideva sommessamente, e l’uomo vide due grassi passerotti che dondolavano sulla ghirlanda di metallo. Quando andò avanti, si levarono in volo. Avevano spazzato solo intorno alla porta. Lui scalò con molta attenzione tutti quei detriti e si fermò in mezzo alla navata centrale: attraverso il grande squarcio nella parete la luce pioveva abbagliante su quella distruzione. I santi, là in alto, erano precipitati tutti quanti, i loro piedistalli erano vuoti. Sul muro, lassù, se ne scorgevano ancora brutti avanzi inespressivi: due gambe fino alle ginocchia, il moncone d’un braccio isolato, che pareva fissato fermamente alla volta, e una larga crepa correva giù lungo il muro, nera e ben delineata, come il profilo di una scala. In mezzo al soffitto si vedeva il cielo, simile a un lembo grigio dai contorni seghettati, e l’uomo vide una seconda grossa crepa che scendeva sino in fondo alla fiancata, man mano restringendosi, tutta piena di luce chiara. L’altare era coperto di calcinacci, gli stalli del coro rovesciati a terra: ne vide le larghe pareti posteriori, color marrone, inclinate in avanti come in un prosternarsi beffardo. Anche la fila più bassa dei santi lungo le colonne aveva dei vuoti: torsi scheggiati, pietra mutila, mozza, deformata. Parecchi volti avevano un ghigno da storpi inferociti perché mancavano di un’orecchia o del mento, erano spaccati da fenditure, qualche altra statua era addirittura senza testa. Terribili erano i santi rimasti senza mani: sembravano quasi sanguinare, in un gesto di muta implorazione, e una figura barocca di gesso era sfondata come un uovo: la faccia pallida del santo era intatta, un’affilata, triste faccia di gesuita, ma la pancia e il petto erano lacerati e schiacciati, il gesso era piovuto giù in briciole, eccolo in scaglie bianchicce ai piedi della statua, mentre dalla buia cavità del ventre sbuzzava fuori paglia imbevuta di gesso indurito.

Continuò ad avanzare faticosamente in mezzo alle macerie, oltrepassò il banco della comunione, arrivò alla conca dell’abside, a sinistra: gli affreschi erano indenni, la luce del giorno cadeva in pieno su quei pallidi colori. Anche l’altare laterale era salvo, anzi pareva l’avessero pulito: la mensa era spazzata e davanti a un tabernacolo di pietra c’era un mazzo di fiori. Quando lui si guardò intorno, volgendo gli occhi alla navata laterale, i confessionali gli apparvero leggermente inclinati in avanti. Finalmente vide una luce e andò in quella direzione. La candela ardeva davanti all’immagine della Madonna e accanto pendeva il crocifisso che un tempo era appeso alla volta, davanti al lampadario. La candela tremolava inquieta davanti all’immagine miracolosa, il cui fondo di legno s’era leggermente distorto e pareva voler perdere il rivestimento d’oro. Qua e là si era già persino staccato, e lungo il volto di Maria correvano come striature biancastre. Soltanto i fiori erano freschi e belli, stupendi, grandi garofani dalle corolle massicce, strette entro calici ben tesi.

L’uomo cercò di pregare, ma subito trasalì: aveva sentito un canto, sotto di sé, un canto che veniva di sotto terra. Ma il brivido durò poco: si ricordò della cripta, che probabilmente era intatta. Le voci avevano poco volume, sembravano stranamente filtrate, si sarebbe detto ch’erano in pochi a cantare.

 

Tosse durante il concerto

 

Mio cugino Bertram è uno di quei nevrotici che, senza essere minimamente raffreddati, durante i concerti cominciano di punto in bianco a tossire. La cosa comincia con una blanda, quasi gentile raschiatina di gola non dissimile dall’accordatura di uno strumento, poi man mano aumenta finché, con una snervante consequenzialità, assurge a un abbaiare esplosivo, che fa sventolare come leggerissime vele i capelli delle signore che siedono dinanzi a noi.

Conforme alla sua sensibilità, Bertram tossisce forte quando la musica scende al pianissimo, più leggermente quando invece aumenta di volume. Con quella sua voce sgradevole egli costituisce, per così dire, un contrappunto disarmonico. Per di più, siccome ha una memoria eccellente e conosce le partiture da cima a fondo, mi fa quasi da guida musicale, a me che ho così poca cultura. Quando comincia a sudare, le orecchie gli si arrossano, quando trattiene il fiato e tira fuori di tasca delle pasticche per la tosse, quando comincia a diffondersi un odore penetrante di eucalipto, io so che la musica promette di attenuarsi. E in effetti: l’archetto del violinista sfiora appena lo strumento, le mani del pianista sembrano aleggiare immateriali sul pianoforte. Un’interiorità tutta tedesca, che par quasi di afferrare coi sensi, si diffonde nella sala, e Bertram siede ora con le guance gonfie, negli occhi una profondissima melanconia, finché di colpo esplode.

Dato che nella nostra città ai concerti vanno solo le persone ben educate, è naturale che nessuno si volta a guardarlo e nemmeno bisbiglia qualche formula pedagogica al suo indirizzo, eppure si sente come il pubblico stenta a reprimere l’indignazione, come ogni volta ha un sussulto, perché ormai Bertram non ha più freni. Esce dalla sua bocca un muggito quasi ininterrotto, che poi decresce quando il tempo da eseguire «piano» volge finalmente al termine. Dopo di che Bertram trangugia tutto quel succo di eucalipto, e il suo pomo d’Adamo va su e giù come un ascensore molto veloce.

Il tremendo è che Bertram, con la sua tosse, sembri chiamare in lizza gli altri nevrotici più o meno latenti. Come cani che si riconoscono al latrato, quelli gli rispondono da ogni angolo della sala. E, cosa strana, io stesso, che di solito non mi raffreddo mai e ho tutt’altro che i nervi scossi, io stesso, quanto più a lungo dura il concerto, sento una voglia sempre più irresistibile di tossire. Sento che le mani mi s’inumidiscono, che un crampo interno mi afferra. E a un tratto so che ogni sforzo è inutile, so che dovrò tossire. Mi sento raschiare in gola, non riesco più a respirare, sono in un bagno di sudore, il mio spirito è fuori servizio e la mia anima è piena d’angoscia esistenziale. Comincio a sbagliare la respirazione, tiro fuori il fazzoletto, nervoso, per premerlo contro la bocca in caso di emergenza, e ormai non ascolto più il concerto, ma l’abbaiare nevrotico di questi ipersensibili che da un momento all’altro sono stati fatti scendere in lizza.

Poco prima dell’intervallo mi accorgo che l’infezione nevrotica ha ormai toccato il fondo. Non resisto ormai più e comincio a emulare Bertram, arrivo tra un colpo di tosse e l’altro sino all’inizio della pausa, poi corro al guardaroba appena iniziano gli applausi. Marcio di sudore, scosso da convulsioni, corro all’aperto passando davanti al portiere.

Ciascuno capirà che ho cominciato a rifiutare con cortese fermezza gl’inviti di Bertram. Solo di tanto in tanto partecipo con lui a qualche manifestazione culturale: quando sono sicuro che in orchestra prevalgono gli ottoni o che cori maschili intonino canti come Il rombo del tuono o La slavina, composizioni insomma dov’è garantita una certa quantità di «fortissimi». Però è proprio questo tipo di musica che m’interessa meno.

Non ha nessun senso che i medici vogliano convincermi che è un fenomeno nervoso, per cui basta che faccia uno sforzo di volontà. Lo so che è un fenomeno nervoso, ma il fatto è che i miei nervi mi tradiscono quando sto vicino a Bertram. E non c’è sforzo di volontà che tenga. Non ce la faccio proprio. Si vede che stava scritto in cielo che come sforzi di volontà sarei sempre stato una frana.

Scorro adesso con tristezza i programmi delle società di concerto. Non posso accettare le loro gentili offerte, perché so che sarà presente anche Bertram. E appena avrò sentito la sua prima raschiatina di gola, non riuscirò più a controllarmi.

 

Il soffitto di allora

 

Quando prendemmo possesso della nostra stanza, del vero e proprio soffitto non era rimasto quasi nulla: un paio di avanzi di stucco aderivano come oasi serene in mezzo al rozzo deserto delle travature, e quando la sera ce ne stavamo a letto scoprivamo che quei pezzi di gesso avevano dei volti e formavano figure.

Il pezzo più grande era come un incrocio tra un dromedario e un cane, un essere dal bacino basso, maestoso, allungato, con la lingua fuori. Altri, più piccoli, parevano piovre, poi c’era una serie di idoletti distorti che cominciavano a prendere vita nella penombra. Ma uno dei più grandi pareva proprio la silhouette di una giovane indiana che doveva essere la moglie di un capo perché sulla schiena snella si vedeva benissimo che portava un ornamento di penne.

Ma alla fine, anche se era interessante, la sera, starsene a letto e osservare quelle strane figure, alla fine ci decidemmo ad adescare un imbianchino che, dietro buon compenso, schizzò grandi quantità d’una mistura di sabbia e surrogato di calce contro il soffitto, livellò il tutto con un’asse e si grattò la testa.

Ma il cane-dromedario continuava a vivere, e così i piccoli idoli e la dolce, bella indiana, perché i vecchi resti erano levigatissimi, pregni di gesso e di calce, e ora eccoli impastati a materiale grossolano, estremamente ruvido. Poco dopo sentimmo il desiderio di far intonacare il soffitto e adescammo un tizio che si vantava di saperlo fare. Questo vantone non faceva altro, tutto il giorno, che trascinarsi dietro una lunga scala e schizzar su intonaco da un secchio spruzzato di bianco.

Ma i nostri fantasmi di stucco erano sempre là: l’intonaco era penetrato nel nuovo colore grossolano, lo aveva ingiallito, ma il bianco immacolato del vecchio intonaco nessuno poteva renderlo più bianco di quello che era, e così i fantasmi trionfavano: la loro solida trasparenza aveva debellato i materiali opachi di una nuova età.

Poco dopo l’intonaco nuovo cominciò a sbriciolarsi: dapprima opache stelle filanti precipitarono da quel cielo senza gioia, poi vennero giù pezzi interi che, se calpestati, rivelavano di che misera sostanza fossero fatti: sabbia comune, mescolata a un grigio, volgare prodotto chimico.

Per mesi girammo nella nostra stanza col cappello in testa, e ci abituammo al sollievo paradossale che ci veniva dal fatto di potercelo togliere quando uscivamo di casa. Ne furono la conseguenza certi strani complessi che ci guadagnarono la fama di stravaganti: se entravamo in un luogo coperto, non ci toglievamo il cappello ma ce lo mettevamo, e quando uscivamo all’aperto ci toglievamo il copricapo con un senso di liberazione. Effettivamente il pericolo, dentro la nostra stanza, aumentò a tal punto che credo si possano capire le nostre misure di sicurezza: dal nostro soffitto si staccavano ogni giorno grandi placche di quella sostanza più vile, per coprire il nostro pavimento come brutti calcinacci.

Nel frattempo il nostro padrone di casa ha dimostrato una qualità che finora non avevamo nessun motivo di accreditargli: la coscienza, abbinata a una cosa che ancor meno avremmo creduto di potergli attribuire: il denaro, due cose che si è degnato di voler investire a nostro favore. Vennero erette impalcature rassicuranti, arrivarono mastelli pieni d’un liquido grasso e pesante: una solida mistura di gesso e di calce. I vecchi resti vennero abbattuti e ora le travature sono coperte da uno strato bianco di riposante levigatezza, che però ci sembra alquanto insidiosa, insidiosa quanto basta per indurci, provvisoriamente, a tenerci il cappello in testa.

 

Le gambe di mio fratello

 

Che io abbia vissuto per un certo tempo delle gambe di mio fratello è una confessione che mi procurerà la fama del cinico, ma non so che farci: è la pura verità. Persone diffidenti sospetteranno qualche sfondo sessuale, ma sbaglierebbero di grosso: mio fratello, per fortuna, è normale, almeno in questo. Non fa né il ballerino né la controfigura cinematografica dei toreri, le sue gambe non vengono fotografate a scopo pubblicitario per reclamizzare calzini da uomo, né io mi sono mai reso colpevole, neppure per breve tempo, del reato di antropofagia.

L’animo semplice di mio fratello basta appena per fare l’ala sinistra dell’AC Pest e il suo lavoro di gambe gli ha già attirato l’attenzione di quotati allenatori. Lui mantenne anche me, cosa tutt’altro che difficile dati i suoi guadagni, ma che è pur sempre degna di plauso perché i servizi che io gli rendevo erano, se non privi d’importanza, certo abbastanza secondari: cucinavo per lui, sorvegliavo la sua dieta, lo massaggiavo. Dedicavo molte cure ai suoi fasci muscolari, che costituivano la base della nostra esistenza.

Mio fratello non è male, anzi sa essere molto simpatico, ma si sa, avere un paio di gambe come le sue, oggetto d’invidia di numerose grandi società calcistiche, può essere piuttosto pericoloso per il carattere (supposto che uno ce l’abbia).

A parte i servizi materiali, che io considero subalterni, mi ero assunto anche l’assistenza psichica di mio fratello. La cosa era già più difficile, e a questo punto devo proprio sfogare la pena che ho nel cuore. Mio fratello non è sciocco, neanche per sogno, anzi dispone di una certa intelligenza parziale: dico davvero. Non parlo pro domo mea, ma bisogna dire che in certe cose la sua ricettività è davvero scarsa. Da noi, fortunatamente, certe carriere sono legate a determinati esami, e mio fratello, che non solo lavora bene con le gambe ma è anche ambizioso, si è messo in testa di fare l’allenatore. A tale scopo doveva sostenere un esame che richiedeva anche un minimo di nozioni psicologiche. Per quel che mi riguarda, non do nessun peso alla psicologia, ma chi vuol diventare allenatore bisogna che la conosca, almeno in parte, ed è qui che cominciarono le mie difficoltà, perché non riuscii a trapiantare l’intelligenza dalle gambe alla testa di mio fratello. Mio fratello diventò antipaticissimo perché gli consigliai di restare ala sinistra e di rinunciare alla corona dell’allenatore. Ma lui la voleva ostinatamente, mi metteva in croce, e così consumammo due manuali di psicologia pratica del calcio senza arrivare a un risultato positivo.

— Attaccante, accontentati delle tue gambe! — dissi a mio fratello, ma lui era arrivato al punto in cui la citazione di un proverbio ti dà il colpo di grazia, e così mi scaraventò fuori.

Da allora vivo come un cane. Ronzo intorno alla sede dell’AC Pest, ben sapendo che non sono degno di entrarci per come sono vestito. Ripenso, pentito, all’offesa che ho arrecato a quel popolarissimo lavoratore di gambe che è mio fratello, e ricordo con la dovuta umiltà le pentole piene di carne di questo lavoratore delle gambe.

 

La notizia di Betlemme

 

La porta non era una vera porta: erano assi inchiodate, con molte fessure, e un cappio di fil di ferro infilato sul chiodo la fissava allo stipite. L’uomo si fermò e attese: «È una vergogna, però, — pensava, — che una donna debba partorire qui dentro». Staccò delicatamente il cappio dal chiodo, aprì la porta e trasalì: vide il bambino steso nella paglia, la madre giovanissima gli stava accoccolata accanto e gli sorrideva... In fondo, contro il muro, stava in piedi uno che l’uomo non osava guardare in faccia: poteva essere uno di quelli che i pastori avevano creduto angeli. Quello che se ne stava là, appoggiato al muro, aveva un camiciotto color grigio topo e reggeva dei fiori a due mani: erano lunghi gigli giallastri. L’uomo sentì il timore crescergli dentro e pensò: «Forse le cose incredibili che i pastori hanno raccontato in città sono vere».

A questo punto la giovane donna alzò gli occhi, lo guardò gentilmente, con espressione interrogativa, e lui, il giovane uomo, domandò sottovoce: — È qui che abita il falegname?

La giovane donna scosse la testa: — Non fa il falegname, fa il carpentiere.

— Non importa, — disse l’uomo, — saprà pure riparare una porta, se ha con sé gli attrezzi.

— Gli attrezzi li ha, — disse Maria, — e una porta sa ripararla. Lo faceva anche a Nazareth.

Dunque erano proprio di Nazareth.

Quello coi fiori in mano guardò l’uomo in faccia e disse: — Non aver timore —. Il suono della sua voce era così bello che l’uomo trasalì ancora una volta, ma adesso alzò gli occhi: il Grigio aveva un aspetto molto gentile ma anche triste.

— Il carpentiere è Giuseppe, — disse la giovane donna, — ora lo sveglio. Deve riparare una porta?

— Sì, all’albergo «L’uomo rosso», deve piallare un po’ l’incassatura e controllare il rivestimento. La porta s’inceppa. Aspetto fuori, se tu intanto vuoi chiamarlo.

— Aspetta pure qui, — disse la giovane donna.

— No, preferisco aspettare fuori —. Lanciò una rapida occhiata al Grigio, che gli sorrise con un cenno del capo, poi uscì a ritroso e richiuse delicatamente la porta, infilando il cappio di fil di ferro sul chiodo. Aveva sempre trovato buffi gli uomini coi fiori in mano, ma il Grigio non pareva un uomo, e nemmeno una donna, e meno che mai gli era sembrato buffo.

Quando venne fuori Giuseppe con la cassetta degli attrezzi, lo prese per il braccio e disse: — Vieni, dobbiamo svoltare a sinistra —. Lo fecero, e qui finalmente l’uomo trovò il coraggio di dire ciò che già avrebbe voluto dire alla giovane donna, ma non ne aveva trovato il coraggio perché era lì presente quello coi fiori. — I pastori, — disse, — stanno raccontando cose incredibili, in città, sul conto vostro —. Giuseppe non rispose in proposito, ma disse: — Spero che abbiate almeno uno scalpello da legno, il mio ha il manico rotto. Le porte sono più d’una?

— No, una sola, — rispose l’uomo, — e uno scalpello l’abbiamo. È una riparazione molto urgente. Vengono ad acquartierarsi da noi.

— Ad acquartierarsi? Adesso? Non ci sono mica le manovre.

— No, le manovre no, ma verrà a Betlemme un’intera compagnia di soldati. E da noi, — disse con fierezza, — da noi verrà ad alloggiare il capitano. I pastori... —, ma s’interruppe, si fermò, e si fermò anche Giuseppe. Sull’angolo della via sostava il Grigio, aveva tutto il braccio carico di fiori, di gigli bianchi, e li distribuiva a bambini piccoli che cominciavano appena a camminare. Ne venivano sempre di più, e arrivavano delle mamme con altri bambini che non sapevano ancora camminare, e l’uomo ch’era venuto a prendere Giuseppe ebbe quasi spavento perché il Grigio piangeva: già la voce, gli occhi lo avevano colpito, ma le sue lacrime erano ancor più sconvolgenti. Sfiorava con la mano la bocca dei bambini, la loro fronte, baciava le loro piccole mani sporche e dava a ciascuno di loro un giglio.

— Ti ho cercato, — disse Giuseppe al Grigio, — mentre dormivo ho sognato...

— Lo so, — disse il Grigio, — dobbiamo andarcene via subito.

Attese ancora un attimo che una minuscola bambinetta sudicia fosse arrivata fino a lui.

— Non devo più riparare la porta per quel capitano?

— No, dobbiamo partire subito —. Il Grigio volse le spalle ai bambini, afferrò Giuseppe per il braccio, e Giuseppe disse all’uomo ch’era venuto a prenderlo: — Mi dispiace, credo che sia proprio impossibile.

— Oh, non fa niente, — disse l’uomo. Seguì con gli occhi quei due che tornavano alla stalla, poi guardò la strada, ch’era tutto un viavai di bambini che ridevano, coi loro grandi gigli bianchi. Sentì allora alle sue spalle lo scalpitio di zoccoli equini, si voltò indietro e vide lo squadrone che, venendo dalla via maestra, entrava in città. «Mi piglierò di nuovo una sgridata, — pensò, — perché la porta non è stata riparata».

I bambini stavano sul ciglio della strada e salutavano i soldati sventolando i fiori. Così i soldati entrarono cavalcando in Betlemme tra due ali di gigli bianchi, e l’uomo ch’era andato a prendere Giuseppe pensò: «Credo che i pastori abbiano ragione in tutto quello che ci hanno raccontato...»

 

Il sapore del pane

 

Dalla cantina gli veniva incontro un’aria afosa e acidula. Scese lentamente i gradini scivolosi e avanzò a tastoni entro un buio giallognolo: da qualche parte sgocciolava, si vede che il tetto era danneggiato o che qualche condotta d’acqua era scoppiata. L’acqua si mescolava alla polvere e ai calcinacci, rendendo gli scalini sdrucciolevoli come il fondo di un acquario. Lui andò avanti. Da una porta, in fondo, usciva della luce, a destra egli lesse nella penombra una targhetta: «Gabinetto radiologico, si prega di non entrare». Si avvicinò alla luce, era gialla e tenue, e lui capì da come vacillava che doveva trattarsi di una candela. Andando avanti vide dei locali scuri, distinguendo un gran caos di sedie, di sofà rivestiti di cuoio, di armadi appiattiti.

La porta da cui usciva la luce era spalancata. Accanto al gran cero d’altare stava in piedi una suora vestita di blu: in una bacinella di smalto stava rimescolando dell’insalata. Le numerose foglioline verdi avevano delle macchie biancastre. In fondo all’insalatiera l’uomo sentì il rumore liquido della salsa. La larga mano rosea della suora faceva mulinare le foglie, e di tanto in tanto una fogliolina cadeva oltre l’orlo del vassoio. Lei le raccoglieva tranquilla e le ributtava dentro. Vicino al candeliere c’era una gran brocca di latta da cui esalava un odore un po’ stantio di brodo, di acqua calda, di cipolle e di qualche condimento artificiale.

Lui disse, forte: — Buona sera.

La monaca si voltò a guardarlo, la sua larga faccia rosea ebbe un’espressione impaurita, ed essa mormorò: — Mio Dio, lei che vuole? — Dalle sue mani sgocciolava la salsa lattiginosa e alle sue morbide braccia infantili erano appiccicate alcune minuscole foglioline d’insalata. — Mio Dio, — disse, — che spavento mi ha fatto. Desidera qualcosa?

— Ho fame, — disse lui sottovoce.

Ma ormai non guardava più la suora: il suo sguardo si era diretto a destra, dentro un armadio aperto, la cui anta era stata divelta dallo spostamento d’aria. L’avanzo tutto a pezzi di quell’usciolo di compensato pendeva ancora dai cardini, e il pavimento era disseminato di frammenti di vernice sbriciolati. Nell’armadio c’erano dei pani, tanti pani. Accatastati alla svelta, si vedeva più di una dozzina di pagnotte diventate tutte rugose. Lui si sentì venire subito l’acquolina in bocca, la trangugiò e pensò: «Mangerò del pane, in ogni caso mangerò del pane...» Guardò in faccia la suora: il suo occhio infantile esprimeva compassione e paura. — Fame? — disse. — Lei ha fame? — e guardò con fare interrogativo l’insalatiera, la brocca del brodo e quel pane ammucchiato.

— Pane, — disse lui, — pane, la prego.

Lei si avvicinò all’armadio, ne tirò fuori una pagnotta, la posò sul tavolo e cercò un coltello dentro un cassetto.

— Grazie, — disse lui a bassa voce, — non importa, il pane si può anche spezzare...

La suora si mise l’insalatiera sotto il braccio, prese la brocca del brodo e, passandogli accanto, uscì dalla stanza.

Lui spezzò in fretta un cantuccio di pane: il mento gli tremava ed egli sentì che i muscoli della bocca e della mascella gli guizzavano. Poi affondò i denti nel morbido punto accidentato dove aveva rotto il pane e mangiò. Stava mangiando del pane. Era pane vecchio, certo vecchio di una settimana, pane scuro, secco, con l’etichetta rossa di qualche fabbrica. Continuò a scavare coi denti, addentò anche la crosta coriacea, brunastra, afferrò la pagnotta con tutte e due le mani e ne staccò un altro boccone. Ora staccava dei pezzi con la destra, mentre teneva fermo il pane con la sinistra. Continuò a mangiare, si sedette sull’orlo di una cassa, e quando aveva staccato un pezzo con la mano, prima addentava il punto morbido da cui lo aveva tirato via: sentiva allora, tutt’intorno alla bocca, il contatto col pane come una carezza asciutta, mentre i suoi denti continuavano a scavare.

 

Finché la morte non vi separi

 

La corrente d’aria provocata dalla porta che oscillava avanti e indietro le spense il fiammifero, un altro si spezzò sfregandolo contro la superficie ruvida. L’avvocato di lei fu molto gentile a porgerle il suo accendino, riparando la fiammella con la mano. Così lei poté finalmente fumare. Le fece bene sia la sigaretta che il sole. La cosa era durata dieci minuti scarsi, un’eternità, e forse era l’interminabilità, il non finir mai di questi lunghissimi corridoi a mettere fuori gioco le lancette dell’orologio. Quella ressa, tutta quella gente che cercava i numeri delle varie stanze le ricordavano la svendita di fine estate al magazzino Strössel. Che differenza c’era tra un divorzio e gli asciugamani da spiaggia della svendita di fine estate? Nell’uno e nell’altro caso bisognava far la fila, solo che, così le pareva, nel caso del divorzio la decisione finale veniva comunicata più alla svelta, e lei aveva proprio voluto che si facesse alla svelta. Schröder-Schröder. Divorziati. Naumann-Naumann. Divorziati. Blutzger-Blutzger. Divorziati.

Quella persona gentile dell’avvocato avrebbe ora detto quello che doveva dire? L’unica cosa che potesse dire? Sì, la disse: — Non se la prenda troppo —. Lo disse anche se sapeva che lei non è che se la prendesse troppo, eppure doveva dirlo, e lo disse in modo carino, e fu carino che lo dicesse in modo carino. Lui, naturalmente, aveva poco tempo, doveva correre alla prossima udienza, di nuovo alla sbarra, di nuovo a far la fila. Klotz-Klotz. Divorziati.

La stessa cosa si verificava alla svendita di fine estate. Aspettare con pazienza, con cortesia, senza mai far pressioni ma sempre abbastanza tesa fin quando la donna ch’era troppo vecchia per consumare anche solo un asciugamani da spiaggia si fosse decisa a comprarne un’intera dozzina; poi si passava alla prossima cliente, che aveva preso tre costumi da bagno. In fin dei conti da Strössel c’era ancora un certo individualismo, non era un volgare negozio pop, dove si vendeva sotto costo e basta. E non si poteva pretendere che l’avvocato restasse ore e ore con lei, quando ormai non c’era altro da dire tranne «Non se la prenda troppo». La sua posizione sul gradino più alto della scalinata le ricordava troppo un’altra ch’essa aveva assunto sette anni prima, sul gradino più alto della scalinata davanti al municipio: genitori, testimoni di nozze, suoceri, un fotografo, i bimbi deliziosi di Irmgard, Ute e Oliver, che reggevano lo strascico; mazzi di fiori, il taxi ornato di rose bianche, nell’orecchio la frase «Finché la morte non vi separi», e avanti in taxi verso la seconda celebrazione, e lì ancora una volta, ora per bocca della Chiesa: «Finché la morte non vi separi».

C’era anche lo sposo, là in fondo alla scalinata la stava aspettando, raggiante per il successo conseguito, anche se un po’ imbarazzato, e visibilmente fiero del secondo successo conseguito in quel giorno: l’aver trovato, proprio davanti allo scalone, in uno dei parcheggi più difficili della città, un posto dove mettere l’auto. Altri successi di svariata natura avevano avuto una certa importanza nel corso della causa di divorzio.

Adesso non era stata la morte ma il tribunale a separarli, e in maniera che non si sarebbe potuto desiderare meno solenne. E se il tribunale, nel pronunciare il divorzio, aveva riscontrato la morte, perché non si faceva almeno una sepoltura? Catafalco, persone in lutto, candele, discorso funebre? O perché almeno non si svolgeva il matrimonio a ritroso? Bimbi deliziosi, stavolta forse quelli di Herbert, cioè Gregor e Marika, che le toglievano lo strascico, la corona nuziale dalla testa, scambiavano l’abito bianco con uno da passeggio, pubblicamente in cima alla scalinata una specie di strip-tease nuziale, visto che non si faceva nessuna sepoltura.

Naturalmente lei se lo aspettava che lui l’avrebbe aspettata qui: un altro colloquio senza senso, ormai che la morte era stata accertata, senza senso perché lui non capiva ch’essa da lui non voleva più niente, dal giorno che si era trasferita col ragazzo in quel piccolo appartamento; né soldi, né la sua parte delle «ricchezze guadagnate insieme», e nemmeno quelle sei sedie Luigi (qual era, dei Luigi?) che appartenevano senza discussione a lei, provenendo dall’eredità di sua nonna. Probabilmente un giorno o l’altro lui gliele avrebbe fatte mettere davanti alla porta, perché «non poteva sopportare una situazione patrimoniale poco chiara». Lei non voleva né le sedie né il servizio di porcellana di Meissner (trentasei pezzi), non voleva nessuna «compensazione di valori». Niente. Essa aveva ancora il ragazzo, almeno provvisoriamente, dato che lui viveva ancora, senza averla sposata, con quell’altra... era la Lotte o la Gaby? Solo quando lui avesse sposato la Lotte o la Gaby (o non era una Conny?), avrebbero dovuto «dividersi» il ragazzo (e non c’era nessun Salomone che tenesse la spada sospesa sul ragazzo da dividere), la disgustosa pignolaggine del diritto di tutela era stata concordata, fissata nei minimi particolari, e da allora in poi ci sarebbero state delle visite obbligatorie: dar da mangiare al bambino avuto in consegna («Davvero non vuoi più panna, e ti piace proprio eh questa nuova giacca a vento, ma sì che te lo regalo quell’aeromodello»). Un giorno, due, o un giorno e mezzo, poi venivano a ritirarlo. («No, non posso davvero comprarti una nuova giacca a vento, e anche per la prima comunione — o era la cresima? — non posso regalarti un televisore portatile. No»).

Un’altra sigaretta? Meglio di no. Questa corrente d’aria provocata dalla porta a vento l’avrebbe costretta, ora che quel gentile avvocato col suo bell’accendino non era più con lei, ad accendere la nuova sigaretta sulla vecchia, e un piccolo particolare come quello avrebbe rafforzato l’impressione che fosse una sgualdrina, cosa che certamente le avrebbero rimproverato al momento di assegnare definitivamente il ragazzo all’uno o all’altra di loro. Quella sua abitudine di fumare in strada era già finita negli atti del divorzio, e poiché lei aveva pure confessato d’aver commesso adulterio (prima di lui, anche questo lo aveva dovuto ammettere), così negli atti processuali l’avevano registrata come una specie di sgualdrina. Questa diatriba sul se o il perché una donna non potesse o non dovesse fumare in strada, l’avvocato della controparte glielo aveva rimproverato come una fanfaronata «pseudoemancipatoria», che stonava col suo «livello culturale».

Fu un bene che lui non salisse la scala, che si limitasse a sventolar le braccia in maniera invitante, fu anche un bene che scotesse il capo, in segno di disapprovazione, quando lei finì per accendersi la seconda sigaretta, non sulla prima ma con un fiammifero, benché la svendita di fine estate tenesse in continuo movimento la porta a vento. Se non erano intervenuti né un prete né un ufficiale dello stato civile, se non si erano visti occhi umidi di lacrime di madri e di suocere, né un fotografo né bimbi deliziosi, avrebbero almeno dovuto mandare un impresario di pompe funebri, che portasse via qualcosa (che cosa?) dentro una cassa, lo cremasse e lo seppellisse da qualche parte (dove?) in segreto.

Probabilmente lui stava arrivando in ritardo a qualche udienza (forse le trattative di fusione con la Hocker e Hocker, in cui spettava a lui risolvere i problemi del personale), ma era possibile che per un paio di seggiole lui mancasse alle trattative con Hocker e Hocker? Quell’uomo non capiva, non riusciva a capire che lei non lo odiava affatto, che da lui non voleva proprio niente, che lui non le era nemmeno diventato indifferente, solo estraneo, una persona che un tempo aveva conosciuto, che aveva sposato, uno ch’era diventato un altro. Gli era riuscita ogni cosa, a loro due: far carriera, mettere su casa, ma non trattenere la morte. Non era morto lui solo, ma anche lei; suo marito non riusciva neanche a ricordarselo. E forse le Chiese... e anche i funzionari civili non potevano e non volevano capire che quel «Finché la morte non vi separi» non si riferiva alla morte fisica, e nemmeno a una morte precedente la morte fisica, ma solo all’ingresso, nella camera da letto coniugale, di un essere totalmente estraneo, che voleva rivendicar diritti che ormai non gli appartenevano più. Il ruolo del tribunale, che stendeva quell’atto di morte e lo chiamava divorzio, era secondario come quello del prete e dell’ufficiale di stato civile: nessuno poteva dar la vita ai morti o far sì che la morte non fosse più morte.

Lei buttò via la sigaretta, la spense col piede e fece all’ex marito un gesto energico e definitivo di andarsene. Non c’era più niente da discutere, ed essa sapeva bene dove lui l’avrebbe portata in auto: al caffè del parco Haydn, dove a quell’ora la cameriera turca metteva su ogni tavolo minuscoli vasetti di rame ciascuno con dentro un tulipano e un giacinto, spianava le tovaglie; dove, a quell’ora, in secondo piano si sentiva ancora il ronzio dell’aspirapolvere. Lui l’aveva sempre chiamato il «Caffè dei ricordi», constatando con la sua caratteristica condiscendenza che «andava proprio bene, senza essere raffinato e tanto meno elitario». No, essa ripeté il suo gesto definitivo di rifiuto, una, due volte, finché lui, scotendo il capo, salì nella sua macchina rossa, sbucò fuori dal parcheggio e, senza farle altri gesti di saluto, se ne partì guidando «con prudenza ma con energia», com’essa era abituata vedergli fare.

Non erano ancora le nove e mezzo, e ora, finalmente, la donna poté scendere la scala, comprarsi un giornale e andare al caffè di fronte. Che sollievo che lui se ne fosse andato. Essa ora aveva tempo, e c’erano alcune cose su cui riflettere. A mezzogiorno, quando il ragazzo fosse tornato a casa dalla scuola, essa gli avrebbe cucinato una frittata con marmellata di ciliege, e in più pomodori sulla griglia, due cose che gli piacevano molto. Avrebbe giocato con lui, lo avrebbe aiutato a fare i compiti e forse lo avrebbe portato al cinema o addirittura al parco Haydn per accertare che il ricordo era definitivamente morto. Mentre mangiava la marmellata di ciliege, la frittata e i pomodori sulla griglia il ragazzo le avrebbe certo chiesto se intendeva sposarsi di nuovo, e lei avrebbe risposto di no, di no. Una morte le bastava. Le avrebbe chiesto anche se avrebbe di nuovo lavorato da Strössel, dove lui poteva starsene nel retrobottega a fare i compiti, a giocare con scampoli di stoffa e dove quel buon uomo del signor Strössel di tanto in tanto veniva a fargli una carezza sul capo. No. No.

La tovaglia sul tavolino del caffè le piaceva, dava piacere alle sue mani, quello era veramente cotone puro, rosa antico con strisce d’argento. Ricordò le tovaglie del caffè al parco Haydn: le prime, sette anni fa, color giallo mais, erano piuttosto grossolane; poi quelle verdi con le margherite applicate, e infine quelle giallo vivo, in tinta unita, con l’orlo a frangia. Lui, a quel tempo (e lo avrebbe fatto anche oggi) aveva continuamente giocherellato con quella frangia, cercando di convincerla ch’essa aveva senz’altro diritto a una specie di indennizzo, almeno quindicimila marchi, forse ventimila, per i quali lui avrebbe potuto accendere molto facilmente un’ipoteca sulla casa fin lì non gravata da nulla. In fin dei conti lei era sempre stata, per lui, una «buona moglie, avveduta, economa pur non essendo avara, anche se infedele» e aveva contribuito «all’edificazione della loro esistenza in modo decisamente positivo e produttivo», sicché quelle sedie in stile Luigi non-so-quale e la porcellana di Meissen le venivano di diritto. La sua rabbia per il fatto che la donna non accettasse niente da lui era stata più grande di quella che gli aveva ispirato il suo fallo con Strössel. Alla fine lui strappò (e l’avrebbe fatto anche oggi) alcune di quelle frange da poco prezzo e le gettò in terra: occhiata di disapprovazione della cameriera turca, che stava appunto portando del tè e del caffè, tè per lui, caffè per lei; un altro motivo per fare delle osservazioni minacciose sulla salute di lei e per indicare sarcasticamente il posacenere (che tra parentesi era brutto, marrone scuro, color pavimento, e dove effettivamente c’erano già tre mozziconi).

Sì. Caffè. Lei ne beveva già un altro, sfogliava il giornale. Qui al caffè poteva anche fumare indisturbata senza che qualcuno la fissasse con aria ebete o la prendesse di petto. Ripensò a quel viavai, a quella ressa nei lunghissimi corridoi del palazzo di giustizia, dove tutti quelli che si sentivano ingiuriati o che avevano ingiuriato, tutti quelli che non avevano pagato o ricevuto l’affitto non facevano che correre su e giù; dove tutto veniva deciso e nulla chiarito da parte di gentili avvocati e gentili giudici che non erano in grado di trattenere la morte.

La donna si sorprendeva di continuo a sorridere quando rifletteva sul momento esatto della morte che li aveva separati. Era cominciata un anno prima, quand’erano entrambi a cena dal capufficio di lui, che a un tratto disse di lei che veniva «dal ramo tessile»: era come se avesse detto che lei era un’annodatrice di tappeti, una tessitrice o una disegnatrice, quando invece era stata una semplice commessa in un negozio di tessuti, e con che piacere aveva fatto quel lavoro: spiegare e ripiegare tutte quelle stoffe con le sue mani, bello per le mani e per gli occhi, e poi rimettere ordine quando non c’erano clienti, risistemare tutto sugli scaffali, nei cassetti, negli scomparti: asciugamani, lenzuola, fazzoletti, camicie e calzini. Un bel giorno era arrivato quel simpatico ragazzo che adesso era morto e si era fatto mostrare delle camicie, benché non avesse nessuna intenzione (e nemmeno denaro) di acquistarne una, era entrato solo perché cercava qualcuno a cui poter confidare, caldo caldo, il suo successo: che tre soli anni dopo aver conseguito la maturità alle scuole serali («Vengo dall’elettrotecnica», e invece era soltanto elettricista) si era già diplomato e si era fatto assegnare il tema per la sua tesi di laurea. E ora dunque quella frase, «Mia moglie viene dal ramo tessile», che se non altro doveva far pensare all’artigianato artistico, se non proprio all’arte, e lui che s’era infuriato, che s’era quasi ammalato di rabbia, quando lei aveva detto: «Sì, facevo la commessa in un negozio di tessuti, e qualche volta vado ancora a dare una mano». In automobile, durante il ritorno a casa, neanche una parola, neanche una sillaba, silenzio di ghiaccio, le mani contratte sul volante.

Il caffè era incredibilmente buono, il giornale noioso («Troppo bassi i profitti, troppo alti i salari»), e tutto ciò che lei riusciva a cogliere a volo sapeva di tribunale. («Distorsione dei fatti». «Posso dimostrare che il divano-letto appartiene a me». «Non permetterò a nessuno di portarmi via il ragazzo»). Toghe, borse di avvocati. Un fattorino portò dei documenti che vennero aperti con molta serietà, poi sfogliati con molta attenzione. Poi accadde che la cameriera che ora le portava il secondo caffè le posasse la mano sulla spalla e le dicesse: — Non se la prenda troppo. Passerà. Io ho pianto per settimane, le dico, per settimane —. Lei a tutta prima fu lì lì per infuriarsi, ma poi sorrise e disse: — È già passata —. E la cameriera: — Anch’io del resto ero anche colpevole —. Anch’io? pensò lei. Sono colpevole, io, e se lo sono, come mai lo si nota: forse perché fumo? Perché bevo il caffè, leggo il giornale e sorrido? Sì, certo ch’era colpevole, si era rifiutata di accertare in tempo la morte già avvenuta, e aveva vissuto ancora vicino a lui e con lui quei mesi micidiali. Finché lui una sera le portò a casa un nuovo abito da sera, color rosso sgargiante, con una profonda scollatura, dicendole: «Indossalo stasera al ballo della ditta, vorrei che tu ballassi col mio capo e gli mostrassi tutto quello che hai». Ma lei si era messo quello vecchio, color grigio-argento, con un bell’ornamento di conterie, e un mese dopo, quando venne fuori la sua relazione con Strössel, la rabbia del marito che gridò: «Quello che non hai voluto mostrare al mio capo, lo hai mostrato a quell’altro».

Sì, era andata così. Poco dopo che lui si era trasferito dalla camera da letto a quella degli ospiti e la mattina dopo ch’era tornato in camera da letto con tutta quella robaccia porno e con la frusta e aveva cominciato una tremenda piazzata sui suoi successi sessuali, che lei gli negava ma di cui lui aveva urgente bisogno, erano in un contrasto così stridente coi suoi successi professionali da ridurlo alla nevrosi, quasi alla psicosi; lei non aveva potuto procurargli alcun successo, gli aveva strappato di mano la frusta e gli aveva chiuso la porta alle spalle. Tutta quell’esperienza l’aveva resa di ghiaccio, ed era stata colpa sua se non aveva ancora accertato la morte ormai avvenuta, se non si era preso il ragazzo, non aveva chiamato un taxi e non se n’era andata via. Anzi, aveva ancora contribuito al completamento della casa: camera degli ospiti, bagno degli ospiti, saletta del televisore, biblioteca, sauna, stanza dei bambini. Era stata un’idea sua andare da Strössel a chiedergli uno sconto su teli da bagno e asciugamani, federe, copri-piumini, stoffe per tende. Naturalmente si era sentita un po’ a disagio quando Strössel l’aveva guardata ben bene negli occhi e aveva portato lo sconto dal venti al quaranta per cento, e quando gli occhi di lui si erano annebbiati e lui aveva cercato di abbracciarla al di sopra del banco, lei aveva mormorato: «Mio Dio, ma non qui, non qui», e Strössel aveva capito male (o benissimo), pensando che in qualche altro posto lei ci sarebbe stata, e in effetti lei lo aveva seguito al piano di sopra, quello scapolone grassoccio e calvo che aveva vent’anni più di lei e si era dimostrato felice quando lei gli si era distesa accanto. Nel frattempo lui aveva lasciato il negozio aperto e la cassa senza sorveglianza, e a lei non era sembrato imbarazzante nemmeno l’inevitabile sbottonare e abbottonare dei vari capi di vestiario. Quando più tardi, accanto alla cassa, lui le aveva impacchettato i diversi acquisti, Strössel non le aveva praticato nessuno sconto ma le aveva fatto pagare il pieno prezzo di listino, e quando le aveva aperto la porta non aveva tentato di baciarla. L’avvocato della controparte aveva cercato di farsi confermare da Strössel quella notizia, cioè che «lui non aveva praticato alcuno sconto dopo che lei gli si era concessa», ma poi il simpatico avvocato di lei era riuscito a tenere Strössel fuori della faccenda. «Non per fare degli acquisti?» «No». «Quante volte?» Questo lei non lo sapeva, non lo sapeva proprio. Non le aveva mai contate, le volte. Non avevano mai parlato di matrimonio, la parola amore non era stata pronunciata mai. Era quella beatitudine molle, commossa e commovente di Strössel che la spaventava, come se sprofondasse in un cuscino rosa.

No, essa non poteva tornare da lui, e sì che il suo negozio antiquato sarebbe stata la cosa giusta per lei, che vi conosceva ogni cassa e cassetto, ogni scatola e ogni scomparto, il magazzino intero, dove si vendeva davvero solo lana e cotone; lei con le sue mani, ch’erano infallibili nello scovare anche il più piccolo filo di materia sintetica che degradava il tessuto. No, non poteva nemmeno lavorare in qualche volgare negozio pop, come li chiamava Strössel. No, non si sarebbe più sposata, non voleva più veder morire uno ch’era ancora in vita, ed esserne di nuovo separata dalla morte. Forse era venuto il tempo in cui i mariti diventavano osceni in modo brutale e gli amanti invece teneri e beati in maniera antiquata, quasi rosa.

— Vede, — disse la cameriera mentre lei pagava, — ora stiamo già meglio. Lei, in fondo, è ancora una bella donna, giovane, e, — ma sì, disse proprio così, — la vita è ancora davanti a lei, e il bambino starà dalla sua parte —. Lei sorrise ancora una volta alla cameriera nell’uscire dal caffè.

Al ragazzo avrebbe cucinato anche una torta di noci, ne avrebbe comprato gl’ingredienti mentre tornava a casa, e quando lui le avesse chiesto: «Devo andare davvero da quella donna?» (Conny, Gaby, Lotte?), lei gli avrebbe risposto: «No». C’era poi sempre la ditta Haunschüder, Kremm & C., i vecchi concorrenti di Strössel, dove l’infallibilità delle sue mani sarebbe stata ugualmente apprezzata. Solo ch’era più che altro una ditta di spedizioni, e non avrebbe più avuto spesso l’occasione di spiegare e lisciare una camicia come quella volta per quel simpatico ragazzo che aveva appena conseguito il diploma e si era visto assegnare il tema per la sua tesi di laurea. Ma forse, invece della marmellata di ciliege, essa avrebbe comprato delle aringhe affumicate: gli piacevano altrettanto, e il ragazzo sarebbe stato vicino a lei mentre quelle diventavano croccanti nella padella, con la pasta che le circondava da ogni parte e si dorava man mano. C’erano buone possibilità che venisse assunta come commessa da Haunschüder, Kremm & C.: delle sue mani poteva veramente fidarsi, non le sfuggiva neanche un solo filo estraneo che degradasse il tessuto.


  

Cortesia quando è inevitabile violare la legge

 

Mi sembra inutile lodare le più ovvie forme di cortesia:

che a un bambino, com’è naturale, si tenga aperta la porta di casa

che, quando si fanno le spese, non solo non si spinga indietro ma si dia la precedenza a un bambino

che si lasci tranquillamente il suo posto a sedere, in tram, in autobus o in treno, a uno scolaro affaticato che sta tornando a casa, senza disturbarlo a parole, o anche solo fissandolo con occhio morale-educativo, nella sua ben meritata pace

considero anche logico che non si faccia soffrir la fame al proprio bambino, al proprio gatto, cane o uccello, e che, in caso di necessità, si sia disposti a rubar del cibo, ed è chiaro che neanche alla propria moglie o amica bisognerebbe far soffrire la fame o la sete

e tutti costoro non vanno nemmeno picchiati, anche se lo desiderano loro stessi, essendo la cortesia delle mani una delle cortesie più importanti

al gradito ospite, poi, non bisogna versare solo una prima tazza di tè, ma anche una seconda, possibilmente anche una terza e addirittura una quarta, memori del detto cinese: la cortesia sta presso il fondo della teiera...

una delle cortesie più ovvie è che quando si parla con persone d’ambo i sessi che si considerano nostri inferiori, perché in sé il concetto di inferiorità è chiaramente inammissibile, si sia di alcuni toni più sommessi, più discreti che quando si tratta con quelli che si ritengono nostri superiori; naturalmente anche il concetto di superiore, IN SÉ, è inammissibile, perché nessuno può essere nostro superiore come se abitasse un piano più in alto, e non dico che a questi superiori ci si debba rivolgere urlando e con villania, ma solo di qualche tono meno sommessi e con cortesia un tantino minore: un modo di fare che forse potrebbe cambiare un po’ le strutture sociali.

A uno che ci è antipatico non bisognerebbe nemmeno dirglielo in faccia, ad esempio con le parole: «La sua ghigna non mi va!» Si può esprimere la propria riprovazione anche in modo cortese, ad esempio nella forma seguente, possibilmente per iscritto, dato che il discorso orale rischia sempre di essere grossolano: «In seguito a motivi imperscrutabili, che non è dato analizzare, non voglio dire per colpa di costellazioni cosmiche perché non voglio attribuire tutta la responsabilità soltanto alle stelle e ai loro ascendenti... dunque, in seguito a circostanze che non si possono considerare né totalmente colpa né totalmente destino, i vincoli — diciamo — di simpatia tra noi due, purtroppo — la prego di vedere in questo «purtroppo» un’espressione sia del mio rincrescimento, sia del mio rispetto in assoluto per la sua personalità —, i vincoli di simpatia tra noi due, purtroppo, dimostrano di non poter essere più ravvivati, benché lei, «in sé», sia una persona e un personaggio molto gradevole. Credo perciò consigliabile, anzi necessario, ridurre il numero dei nostri incontri al minimo, quel minimo che, per ragioni professionali, di tanto in tanto ci obbliga a stringerci la mano, a discutere particolari che, data l’importanza crescente della produzione di... (a questo punto si può inserire il prodotto corrispondente, ad esempio romanzi, madreviti, aringhe in gelatina), risultano inevitabili. Al di là di questo minimo indispensabile vedremo di risparmiarci a vicenda il suono delle nostre voci, la vista della nostra epidermide e dei nostri capelli, la percezione degli odori che il nostro corpo emana. Le comunico quanto sopra non senza tristezza, nella speranza che quelle imperscrutabili costellazioni e combinazioni possano modificarsi, che i vincoli di simpatia tra noi due possano ravvivarsi, che un cambiamento sul fronte della nostra simpatia possa metterci in condizione di estendere alla sfera privata i nostri necessari contatti professionali. Con l’espressione della mia più alta stima».

Forme di cortesia come questa per me sono troppo ovvie perché mi ci soffermi sopra.

Tanto difficile quanto necessario mi sembra invece raccomandare la cortesia in situazioni anticonvenzionali, anzi persino illegali. Occorre sottolineare che le azioni di cui vorrei occuparmi, IN SÉ non sono soltanto anticonvenzionali o immorali, ma decisamente criminose. Prendiamo ad esempio un delitto in sé tanto criminale quanto scortese come una rapina o l’assalto a una banca, e ricordiamoci di quella signora fin qui così osservante della legge, beneducata, rispettabile, che in pieno giorno, per essere più esatti, verso le ore 15,29, nel sobborgo di una grande città tedesca alleggerì una cassa di risparmio di ben settemila marchi. Si immagini la scena: una signora di sessantun anni, del tipo che si è solito definire fragile, che a vederla fa subito pensare ai solitari con le carte o al bridge, vedova di un tenente colonnello, entra nella filiale di una cassa di risparmio per appropriarsi illegalmente di una somma di denaro! Se questa signora è diventata famosa come la «rapinatrice cortese», ed è anzi stata registrata negli atti della polizia sotto questa denominazione, l’aggettivo «cortese» sta a indicare la sua particolare pericolosità. Questa signora ha fatto per istinto quello che ogni cortese scassinatore di banca deve fare: del tutto escluse le armi, la violenza, gli urli, metodi così crassi non sono nemmeno da prendere in considerazione. Non solo è scortese ma è anche pericoloso agitare pistole o mitra gridando: «Qua il malloppo, o sparo!», e poi una signora come la nostra non va alla prima banca che trova solo per un’astratta avidità di danaro, e nemmeno perché di punto in bianco ha perso l’equilibrio mentale, ma al contrario perché, in una situazione imbrogliata, quell’equilibrio lo ha ritrovato. Ha riflettuto ben bene su quest’impresa e ha i suoi buoni motivi!

La situazione di emergenza che costringe quella signora a un’azione a dir poco anticonvenzionale dev’essere schizzata brevemente: la donna ha un figlio che ha abbandonato la retta via, ha subito diverse piccole pene detentive, ma che ora, dimesso ancora una volta dalla prigione, ha trovato un’amica che esercita su di lui un’influenza stabilizzatrice e ottiene ch’egli cerchi un posto di rappresentante in medicinali. Sua madre ha investito un piccolo patrimonio in telefonate e spese postali, ha messo in movimento tutte le relazioni di cui disponeva (tra cui due generali ancora in servizio) affinché il ragazzo possa avere quell’incarico. Ed ecco arrivare, inaspettata e all’ultimo momento, la richiesta della ditta: cinquemila marchi di cauzione! La madre, la signora che è diventata ormai famosa come la rapinatrice cortese, gli ha procurato un appartamentino, ha preso a ben volere la sua amica, tutto sta andando per il meglio, quando arriva quella tegola improvvisa: cinquemila marchi di cauzione! Ci si figuri ancora una volta la situazione: la signora ha già apportato notevoli salassi al suo conto in banca, la sua pensione si è ridotta al minimo di sopravvivenza, la parte più rilevante torna alla cassa della banca, la signora ha chiesto soldi in prestito a tutti quelli che poteva, amiche del bridge, vecchi compagni d’armi del marito, tra cui due colonnelli e un generale, tutta gente simpatica; ha già rinunciato all’uovo nella prima colazione, e ora se ne sta lì nel suo appartamento e le viene in testa soltanto la frase: «Di dove prenderli senza rubare?» e questo detto così diffuso riuscirà relativamente fatale alla cassa di risparmio. «Di dove prenderli senza rubare»: e il furto ti si offre quasi da sé. Bisogna aggiungere che quella signora non è solo fragile ma anche orgogliosa. Infinite volte si è dovuta lasciar umiliare, ammaestrare, ha dovuto sorbirsi alcune migliaia di consigli benintenzionati, ha ingoiato osservazioni maligne sul figlio che le è tanto caro, ha venduto la maggior parte dei suoi mobili, si è disfatta del collie a cui era così affezionata, e a questo proposito ha rotto l’amicizia con la sua migliore amica che ha avuto il coraggio di dirle: «Un cane in cambio di un cane: non mi sembra un affare», ha visitato il figlio in varie prigioni, ha pagato avvocati, sostenuto spese di viaggio. L’unico lusso che le sia rimasto è il telefono: affinché suo figlio possa telefonarle in qualsiasi momento, e lei a lui, quando il figlio ha il telefono. Ci sono momenti nei quali essa non crede soltanto di capirlo, ma lo capisce davvero. Le esperienze sociali degli ultimi quattro anni l’hanno ridotta, internamente, sull’orlo dell’asocialità, non così invece esternamente, almeno per ora: essa è sempre una signora molto curata, sembra più giovane di quello che è, e ora che il figlio le ha dato per telefono la tremenda notizia, le viene in mente quella frase fatale: «Di dove prenderli senza rubare?», e la morale di quella frase si aggancia in lei a un punto che i diffusori di simili frasi non avevano certo immaginato. Rubare, pensa lei, ecco la soluzione, quando verso le due e mezzo le torna in mente quella linda piccola filiale della cassa di risparmio che, in un sobborgo vicino, si trova nei pressi di un parco. Prima di uscire di casa, dà ancora il mangime ai suoi graziosi fringuelli nani, minuscoli uccelli grandi come un pollice, ch’essa si può ancora permettere. La parola rubare, con la quale fino allora aveva avuto così poca dimestichezza, le diventa sempre più familiare, mentre si avvicina al parco di quel sobborgo, dove arriva intorno alle 15,05. Rubare, pensa: dove si ruba il pane? In panetteria. Dove si ruba la salsiccia? In macelleria. Dove si ruba il denaro? In un registratore di cassa o in una banca. Il registratore di cassa viene subito escluso, per lei è troppo personale, la signora non vuole derubare nessuno direttamente. E poi: quale negozio tiene in cassa cinquemila marchi? Inoltre, svaligiare un registratore di cassa le sembra troppo indiscreto, quasi invadente. Di rimorsi non ne sente più da un pezzo, ormai è tutta assorbita da riflessioni tattiche e strategiche. Di dietro una siepe adocchia la piccola, raffinatissima cassa di risparmio laggiù, della quale sa che chiude alle 15,30. La sala degli sportelli è vuota, e intanto le sfrecciano per la mente cose assai curiose: naturalmente di tanto in tanto essa ha guardato la televisione, qualche volta va anche al cinema, e ora pensa... non a un’arma, nemmeno a un’arma giocattolo, ma a quelle calze da donna che i rapinatori si mettono in faccia. È una cosa che l’ha sempre fatta rabbrividire, perché feriva il suo senso estetico vedere un volto umano deturpato a quel modo. Per di più lo considera al di sotto della sua dignità togliersi una calza qui dietro la siepe; un particolare, oltre tutto, che la renderebbe riconoscibile a qualche eventuale inseguitore. In questa riflessione s’incontrano, come il benigno lettore non avrà difficoltà a osservare, estetica, morale e tattica in modo assolutamente unico! Nella borsetta la signora ha messo un paio di giganteschi occhiali da sole (un regalo di suo figlio, che pensava le sarebbero stati bene), e ora lei se li mette, si scarmiglia i capelli di regola sempre così ordinati, esce di dietro la siepe, attraversa la strada, entra nella cassa di risparmio. Allo sportello di destra c’è una giovane donna occupata con dei documenti contabili e che le sorride gentile ma leggermente seccata perché gli sportelli si chiuderanno tra pochi minuti. Lo sportello centrale è chiuso; quello a sinistra è servito da un giovanotto di circa trentaquattro anni, che sta contando gl’incassi giornalieri: alza gli occhi, sorride cortese alla cliente e dice la solita frase: — In che posso servirla, signora? — In quell’attimo lei affonda la mano nella borsetta, la estrae stretta a pugno, si avvicina allo sportello e sussurra: — Una situazione di emergenza eccezionale mi costringe a questa rapina purtroppo inevitabile. Nella mia mano destra ho una capsula di nitrito che potrebbe provocare una catastrofe. Mi dispiace moltissimo di doverla minacciare, ma ho immediato bisogno di cinquemila marchi. Me li dia. Se no...

La tragicità della situazione viene accresciuta dal fatto che anche quell’impiegato di banca, come la maggior parte dei suoi colleghi, è una persona cortese, a cui quel «se no» non fa minimamente paura, ma che capisce all’istante la situazione disperata in cui si trova la donna. Per di più i rapinatori professionali non chiedono mai delle somme precise, ma vogliono tutto. Perciò sospende il conteggio delle banconote (ha appunto in mano i biglietti da cinquecento marchi!) e bisbiglia: — Lei mi mette in una situazione molto spiacevole se non usa un po’ più di violenza. Nessuno mi crederà se racconto la storia della capsula esplosiva, a meno che lei gridi, minacci, faccia una scenata convincente. In fin dei conti anche la rapina a una banca obbedisce a certe regole del gioco. Lei procede in modo completamente sbagliato —. In quel momento la giovane impiegata lascia il suo sportello, chiude la banca dall’interno, ma lascia la chiave nella toppa. La vecchia signora, non meno decisa, anzi più decisa che mai, coglie al balzo la buona occasione. — Questa capsula, — sussurra in tono minaccioso. — Il nitrito, — dice l’impiegato di banca, — non è esplosivo, è solo velenoso. Immagino che lei intenda la nitroglicerina. — Non solo intendo quella, ma ce l’ho —. Come si vede, l’impiegato di banca, o il suo denaro, è già perduto. Invece di premere semplicemente il segnale d’allarme, si attarda in discussioni. Ma intanto gli sono spuntate delle goccioline di sudore sulla fronte e sul labbro superiore, mentre si sta chiedendo perché la signora abbia bisogno di quella somma: beve? è drogata? ha dei debiti di gioco? un amante turbolento? Medita troppo a lungo, non fa uso del suo diritto, e in quell’intermezzo, si può dire fortemente meditativo, la vecchia signora allunga semplicemente la mano, abbastanza furba per farlo con la sinistra, afferra tutti i biglietti da cinquecento che può, corre alla porta, la apre, attraversa la strada, scompare tra i cespugli, e solo quando ormai non la si vede più da un pezzo l’impiegato dà l’allarme. È abbastanza sicuro che questo impiegato di banca avrebbe affrontato con assai più energia un rapinatore scortese, lo avrebbe colpito sulla mano stretta a pugno, avrebbe dato l’allarme.

Quest’episodio, naturalmente, ebbe più di uno strascico. Accenniamo ai più importanti: la signora non venne mai arrestata, il cassiere non venne licenziato ma solo trasferito a un incarico dove non avrebbe più avuto da maneggiar denaro né si sarebbe trovato a contatto diretto col pubblico. Quando scoprì di aver preso in banca settemila marchi invece di cinquemila, la signora ne spedì indietro millenovecento, e fu abbastanza raffinata da non rimettere la somma per vaglia telegrafico, cosa che avrebbe potuto farla identificare. Si permise un taxi, andò alla stazione, col treno successivo raggiunse suo figlio: questo le costò circa novanta marchi, gli altri dieci li usò per caffè e cognac consumati in carrozza-ristorante, un ristoro che le pareva di aver meritato. Quando consegnò i denari al figlio, gli mise la mano sulla bocca e disse: — Non chiedermi mai dove li ho presi —. Telefonò poi alla sua vicina e la pregò di dare il mangime ai suoi graziosi fringuelli nani. È quasi superfluo dire che con suo figlio le cose andarono a finir bene. Lui lesse sul giornale, naturalmente, della strana aggressione da parte della «rapinatrice cortese», e il fatto che sua madre solidarizzasse con lui mediante un’azione criminosa ebbe un’influenza stabilizzatrice sul suo morale, più che migliaia di buoni consigli, più ancora dell’influenza che aveva sempre esercitato su di lui la sua amica. Diventò un serio rappresentante di medicinali con possibilità di far carriera, ma in più di un’occasione non poté fare a meno di dire a sua madre: — Incredibile che tu abbia potuto fare quello per me —. Che cosa fosse «quello» non venne mai specificato. Dopo essersi consultata a lungo con se stessa, la signora decise di restituire la somma alla banca nella misura di un marco al mese, giustificando l’esiguità delle rate con la ragione che «le banche possono attendere». All’impiegato spediva ogni tanto dei fiori, un libro o un biglietto per il teatro, e gli lasciò in eredità l’unico mobile di pregio che ancora possedesse: una farmacia domestica intagliata, in stile neogotico.

Come si vede la cortesia è vantaggiosa tanto ai rapinatori che agli impiegati di banca, e se un giorno i primi escluderanno totalmente armi o capsule esplosive, parole villane, gesti violenti, forse si smetterà di parlare di aggressioni e di rapine in banca, ma solo di prestiti forzati, in cui si tratterà solo di un duello non violento tra due diverse forme di cortesia.

Bisogna poi aggiungere che una rapina in banca, se effettuata senza violenza né danni fisici, è un delitto abbastanza popolare: ogni rapina in banca andata a segno e senza che nessuno sia rimasto ferito suscita la felicità e anche l’invidia di coloro che, se ne avessero il coraggio, una rapina in banca felicemente riuscita e senza l’uso della violenza sarebbero disposti a effettuarla in qualsiasi momento.

Molto più difficile è anche solo menzionare la cortesia in un delitto altrettanto punibile come la diserzione. Stranamente si pensa che i disertori siano vili, un giudizio che, a un esame un po’ più attento, non si può sostenere in alcun modo. In guerra il disertore rischia la fucilazione: da parte degli amici o dei nemici, perché il disertore non sa mai in quali mani va a cadere, anche se crede di sapere a quali mani sfugge. Quale che sia il metro nazionale che si voglia applicare in questo caso (e, stranamente, qui tutte le nazioni sono concordi) il disertore in guerra rischia qualcosa, e questo rischio bisognerebbe rispettarlo. Ma in questa sede vorremmo parlare del disertore cortese in tempo di pace, di quel giovane sconosciuto che abbandona il servizio militare senza far uso dei propri diritti, ad esempio il diritto di rifiuto. Che se la svigna, scompare, possibilmente all’estero, perché semplicemente non ne ha più voglia ed è stufo del maggior peso della vita militare, la noia; che né il cameratismo, più o meno imposto, né il cosiddetto servizio riescono ad attirare, e nemmeno la paga, il vitto, la patente di guida, le possibilità d’imparare una professione, le offerte di far carriera; un simpatico giovane tedesco il quale, diciamo, ha letto la sua parte di Eichendorff a scuola, trovandolo «una cannonata»; un ragazzo simpatico che non terminò gli studi perché avevano finito per annoiarlo; che scelse il mestiere del falegname perché gli piaceva; che poco prima dell’esame da garzone venne chiamato alle armi, del tutto indifferente ai mezzi corazzati, alle armi di ogni tipo, indifferente anche alla politica, molto interessato invece, anche se non in modo esclusivo, alla fabbricazione dei mobili, come aveva visto fare, nel corso di vari soggiorni in Italia, nelle botteghe a piano terra di Roma e di Firenze, fors’anche di Siena; non dà importanza a problemi morali (che di tanto in tanto ci sia chi i mobili li falsifica), gli basta che lo attirasse, che lo attiri quel mestiere, e invece eccolo in una caserma di fanteria di, poniamo, Neu-Offenbach. È chiaro che a questo giovane si possono rimproverare moltissime cose: che non ha il senso dello Stato, che avrebbe fatto meglio a scappare a, diciamo, Bologna, non dopo, ma prima di ricevere la cartolina-precetto; gli si può rinfacciare che non ha il senso del dovere, anche se non è esatto, perché il mastro falegname che gli ha insegnato il mestiere, e che nel frattempo è finito vittima della ristrutturazione economica, gli rilasciò un attestato eccellente; i suoi genitori, i suoi insegnanti, persino il suo migliore amico hanno sempre cercato di fargli capire che bisogna ragionare in modo realistico, ma questo simpatico giovane ragiona sì in modo realistico, pensa a legno stagionato, a colla e viti, a banchi da falegname e a gambe di sedia arcuate, naturalmente pensa anche alle ragazze, al vino e a cose del genere. Però: non solo la Bundeswehr non gli va a genio: essa non gli dice nulla, non gli dà un bel niente. Sono cose che succedono. Non serve deplorarlo, anche se la cosa, in sé, è deplorevole. Quel ragazzo è fatto così, e bisogna dargli atto che si è comportato in maniera relativamente leale, perché l’istruzione di base lui l’ha fatta: non perché ne fosse convinto, ma perché lo aveva incuriosito, pur non persuadendolo. Ma ora ne ha semplicemente piene le scatole, e allora non si rivolge a qualche ufficio di consulenza (ecclesiastica, statale, apartitica), no, taglia semplicemente la corda: però, siccome è una persona cortese, non se ne va alla chetichella, ma, da una lontananza sicura e con un’affrancatura ingannevole, cioè svizzera, scrive un messaggio al suo comandante di compagnia.

«Egregio signor capitano, non si offenda se non sento nessuna attrattiva per la sua professione, che dovrei esercitare per un anno ancora. Anzi, la prego di non considerare la mia diserzione un’offesa, e meno che mai un’offesa personale. Che vuole, io non sono proprio un soldato e non lo diverrò mai, e a me non verrebbe mai in mente di rimproverarle che non è un falegname e che probabilmente non sa che cos’è un telaio e meno ancora com’è che lo si fabbrica. Naturalmente so bene — e la prego di considerarlo pacifico — che esistono delle leggi che possono obbligare una persona a fare il soldato per un anno e tre quarti, mentre non esistono leggi che ti possano obbligare a sapere che cos’è un telaio, e così mi rendo conto che il mio paragone soldato-falegname zoppica un po’. Lasciamolo dunque zoppicare, e se esiste questa legge che mi obbliga ad annoiarmi in maniera tremenda per un altro anno, io le comunico con questa mia che questa legge la violerò. Quello che mi dispiace è che lei era un superiore così gentile, simpatico, comprensivo. Preferirei di gran lunga infliggere a un bestione di ufficiale scocciatore il dispiacere che suppongo d’infliggere a lei. Lei, vedendo che capisco così poco certe assurde disposizioni di servizio, mi ha evitato un paio di volte una punizione, a varie sciocchezze che irritavano il mio sergente e persino i miei camerati, ha sorriso con molta comprensione, anzi con tanta comprensione che io sospetto in lei un disertore segreto, un’altra cosa che vorrei non le sembrasse un’offesa ma un complimento. Sarò breve: come superiore, lei era ancor meglio del mio maestro di falegnameria, ma ciò che lei — o, per essere più esatti: l’esercito — mi proponeva, era semplicemente insopportabile, e non parlo né del vitto né della paga, ma di quella spaventosa attività che si chiama «ammazzare il tempo». Io non voglio più ammazzarlo, il mio tempo, ma anzi voglio chiamarlo in vita: niente di più, ma anche niente di meno.

L’unica cosa ragionevole, la sola che io abbia gustato furono i quattro giorni in cui fummo impiegati a recar soccorso durante l’alluvione di Oberduffendorf: fu un vero beneficio spostarci sul canotto pneumatico di casa in casa a portar minestra, caffè, pane e il giornale «Bild» ai sinistrati dell’alluvione: più di una faccia era raggiante di gratitudine. Ma mi dica lei, signor capitano, non sarebbe macabro o addirittura criminoso aspettare altre catastrofi per trovare un senso nel servizio militare? Nella speranza che lei comprenda alcuni dei miei pensieri, che non disprezzi le mie ragioni, mi dico, con un cortese saluto, suo...»


Vai troppo spesso a Heidelberg

Per Klaus Staeck,

il quale sa che questa storia è inventata

da cima a fondo ma corrisponde al vero.

 

Alla sera, seduto in pigiama sulla sponda del letto, aspettando il notiziario di mezzanotte e fumando ancora una sigaretta, cercava di trovare in retrospettiva il punto in cui quella bella domenica gli era scappata di mano. La mattina era stata piena di sole, fresca come in un giorno di maggio, anche se era già giugno, eppure si sentiva già il calore che si sarebbe avuto a mezzogiorno: la luce e la temperatura gli avevano ricordato i giorni lontani in cui andava ad allenarsi fra le sei e le otto, prima di andare al lavoro.

La mattina aveva fatto un’ora e mezzo di bicicletta, su stradicciole di periferia, fra orticelli e terreni industriali, costeggiando campi verdi, pergolati, giardini, poi il grande cimitero fino a giungere ai margini del bosco, già ben fuori di città; su tratti asfaltati aveva aumentato l’andatura, verificando accelerazione e velocità, aveva fatto qualche scatto e aveva trovato che era ancor sempre in forma e che poteva arrischiarsi a riprendere il via fra i dilettanti; nelle gambe la gioia dell’esame superato e il proposito di riprendere ad allenarsi regolarmente. Lavoro, liceo serale, guadagnare soldi, studiare...: negli ultimi tre anni aveva potuto fare ben poco. Gli ci voleva solo una macchina nuova; non era un problema, se domani sistemava le cose con Kronsorgeler, e non c’era dubbio che avrebbe sistemato le cose con Kronsorgeler.

Dopo l’allenamento, ginnastica sulla moquette della sua stanza, doccia, biancheria pulita, poi era uscito in macchina per fare colazione dai suoi genitori: caffè e pane tostato, burro, uova fresche e miele sulla terrazza che papà aveva fatto aggiungere alla loro casetta; quella bella tenda alla veneziana (un regalo di Karl), e nella mattina che si faceva più calda la frase stereotipata e rassicurante dei suoi: «Beh, ce l’hai quasi fatta; ancora un po’ e ce l’hai fatta». La madre aveva detto «ancora un po’». Il padre «quasi», sempre con quel compiaciuto riferimento alla paura degli anni passati, che essi non si erano rinfacciati, che avevano condiviso fra loro: da quando era stato campione distrettuale dei dilettanti e elettricista fino all’esame passato ieri, una paura superata che cominciava a diventare orgoglio di veterano; e tornavano sempre a chiedergli come si diceva in spagnolo questo o quello: carota o automobile, regina dei cieli, ape e zelo, colazione, cena e rosso di sera, e come erano contenti quando si era fermato anche a pranzo e li aveva invitati a festeggiare il suo esame il martedì in camera sua: il padre era uscito a comprare il gelato per dessert, e lui aveva preso anche il caffè, anche se di lì a un’ora avrebbe dovuto prenderne un altro dai genitori di Carola; aveva preso anche un kirsch, e parlato con loro di suo fratello Karl, di sua cognata Hilda, di Elke e Klaus, i loro due bambini, di cui essi affermavano concordi che erano viziati: tutto il giorno con quei pantaloni sfrangiati e quelle loro musicassette, e a ogni piè sospinto ci infilavano quei sospiri compiaciuti «Beh, ce l’hai quasi fatta, ancora un po’ e ce l’hai fatta». Quei «quasi», quegli «ancora un po’» lo rendevano inquieto. Lui ce l’aveva fatta! Non restava che il colloquio con Kronsorgeler, il quale fin dal principio era stato ben disposto verso di lui. E all’Università Popolare aveva avuto un buon successo con i suoi corsi di spagnolo, e anche con quelli di tedesco al liceo serale spagnolo.

Più tardi aiutò suo padre a lavare la macchina e la madre a togliere erbacce, e quando stava per andarsene la madre gli andò ancora a prendere nel congelatore carote, spinaci e ciliege in confezione ermetica, mise tutto in una borsa frigorifera e poi insistette perché aspettasse mentre lei raccoglieva dei tulipani in giardino per la madre di Carola; intanto suo padre guardava girare il motore, lo ascoltava pieno di diffidenza, per avvicinarsi poi al finestrino abbassato e chiedergli: — Vai sempre tanto spesso a Heidelberg, e con l’autostrada? — La domanda suonava come se si riferisse alle prestazioni della sua macchina, vecchia e alquanto mal ridotta, che due o anche tre volte alla settimana doveva farsi quegli ottanta chilometri tra andata e ritorno.

— Heidelberg? Sì, ci vado ancora, due o tre volte alla settimana: ci vorrà ancora un po’ prima che possa permettermi una Mercedes.

— Già, già, Mercedes, — disse il padre, — c’è giusto quel tale del governo, Istruzione, credo, che anche ieri mi ha portato di nuovo la sua Mercedes a controllare. Vuole essere servito solo da me. Com’è già che si chiama?

— Kronsorgeler?

— Sì, lui. Una persona gentilissima. Lo definirei addirittura un tipo distinto, senza ironia.

Arrivò la madre con il mazzo di fiori, e disse: — Porta i nostri saluti a Carola, e ai signori, naturalmente; ci vediamo martedì —. Poco prima che partisse, suo padre si avvicinò ancora una volta e disse:

— Non andare tanto spesso a Heidelberg... con questa carriola!

 

Carola non c’era ancora, quando lui arrivò dagli Sculte-Bebrung. Aveva telefonato dicendo che non aveva ancora finito i suoi rapporti, ma che avrebbe fatto in fretta; potevano incominciare a prendere il caffè.

La terrazza era più grande, la veneziana, anche se sbiadita, era più grandiosa, l’insieme più elegante, e persino nell’aspetto impercettibilmente sciupato dei mobili da giardino, nell’erba che cresceva fra le connessure delle mattonelle rosse, c’era qualcosa che lo irritava altrettanto quanto certe ciance che si sentivano alle dimostrazioni studentesche; queste cose e il modo di vestire erano argomenti spinosi fra lui e Carola, la quale gli rimproverava sempre di vestire in modo troppo corretto, troppo borghese. Parlò con la madre di Carola di orti, con suo padre di ciclismo, trovò il caffè peggiore che a casa e cercò di non fare diventare irritazione il suo nervosismo. In fondo era gente simpatica, progressista, che lo aveva accettato senza pregiudizi, annunciandolo perfino ufficialmente sul giornale; adesso lui ci si era proprio affezionato, anche alla madre di Carola, il cui eterno «incantevole» all’inizio gli dava sui nervi.

Alla fine il dottor Sculte-Bebrung (un po’ impacciato, così gli era parso) lo pregò di seguirlo in garage e gli mostrò la bicicletta che si era appena comprato, con la quale la mattina faceva «un paio di giri» attorno al parco e al vecchio cimitero; una bici di gran gala, che egli lodò con entusiasmo, senza alcuna invidia; vi salì per un giretto di prova attorno al giardino, spiegò a Sculte-Bebrung il lavoro dei muscoli delle gambe (si ricordava che i vecchi signori del circolo soffrivano sempre di crampi!) e una volta che fu ridisceso ed ebbe appoggiato di nuovo la bicicletta alla parete del garage, Sculte-Bebrung gli domandò: — Cosa ne dici, quanto ci metterei con questa bici di gala, come la chiami tu, per arrivare di qui, diciamo, a Heidelberg? — Suonava come una cosa buttata là a caso, innocentemente, tanto più che Sculte-Bebrung proseguì: — Io ho studiato a Heidelberg, anche allora avevo una bicicletta e di là a qui ci mettevo a quei tempi (con le mie energie giovanili) due ore e mezzo —. Sorrideva veramente senza secondi fini, parlava di semafori, di ingorghi, del traffico che a quei tempi non era certo lo stesso; in macchina, aveva già fatto la prova, gli ci volevano trentacinque minuti per arrivare in ufficio, con la bicicletta solo trenta. — E tu quanto ci metti con la macchina per arrivare a Heidelberg? — Mezz’ora.

L’aver accennato alla macchina rendeva un po’ meno casuale l’aver parlato di Heidelberg, ma in quel momento era arrivata Carola, ed era gentile come sempre, carina come sempre, un po’ scarmigliata, si vedeva bene che in effetti era stanca morta, e lui, stando adesso seduto sulla sponda del letto, tenendo in mano una seconda sigaretta non ancora accesa, non sapeva se il suo nervosismo era già irritazione, trasmessasi da lui a lei, oppure se lei era nervosa e irritata e glielo aveva trasmesso. Lo baciò con naturalezza, ma gli sussurrò che oggi non sarebbe andata con lui, poi parlarono di Kronsorgeler, che lo aveva tanto lodato, parlarono di posti in organico, dei confini distrettuali, di ciclismo, di tennis, di spagnolo, e discussero se lui avrebbe avuto il massimo dei voti o no. Quanto a lei, aveva avuto solo una buona sufficienza. Quando lo invitarono a restare a cena, si scusò col pretesto della stanchezza e del lavoro, e nessuno aveva particolarmente insistito perché rimanesse; d’improvviso sulla terrazza l’aria si fece più fresca; diede una mano a portare in casa le sedie e le tazze, e accompagnandolo alla macchina Carola lo aveva baciato con un ardore sorprendente, lo aveva abbracciato e appoggiandosi a lui gli aveva detto: — Tu sai che ti voglio tanto, tanto bene, e io so che sei un ragazzo di prim’ordine, hai solo un piccolo difetto: vai troppo spesso a Heidelberg.

Era rientrata di corsa in casa, gli aveva fatto cenni e sorrisi, mandandogli baci con la mano, e lui guardando nello specchietto poteva vederla ancora lì in piedi a fargli dei gran cenni di saluto. Gelosia non poteva essere. Lei sapeva che a Heidelberg lui andava da Diego e Teresa, li aiutava a tradurre domande, a riempire formulari e questionari; che presentava istanze e batteva a macchina in bella; per l’ufficio stranieri, l’assistenza sociale, il sindacato, l’università, l’ufficio di collocamento; che si trattava di posti a scuola e all’asilo, di borse di studio, di sovvenzioni, di vestiario, di soggiorni sovvenzionati; sapeva bene che cosa faceva lui a Heidelberg, c’era andata anche lei una volta o due, aveva scritto a macchina a tutto spiano e dimostrato una sorprendente padronanza del linguaggio burocratico; una volta o due aveva persino portato Teresa al cinema e al caffè e aveva avuto dei soldi da suo padre per un fondo a favore dei cileni.

Invece di andare a casa era andato a Heidelberg, non aveva trovato Diego e Teresa, e neanche Raoul, l’amico di Diego; al ritorno era capitato in una gran coda di macchine, verso le nove era passato da suo fratello Karl, che gli era andato a prendere della birra in frigorifero, mentre Hilda gli preparava delle uova al tegame. Avevano guardato insieme, alla televisione, un servizio sul Giro della Svizzera, in cui Eddy Merckx non faceva affatto bella figura, e al momento di venir via Hilda gli aveva dato un sacchetto pieno di abiti smessi dei bambini «per quel cileno tutt’ossa così carino e sua moglie». Ecco finalmente il notiziario, che ascoltò solo distrattamente: pensava alle carote, agli spinaci e alle ciliege che doveva ancora mettere in ghiaccio; accese finalmente la seconda sigaretta: da qualche parte (era in Irlanda?) c’erano state le elezioni: una frana; qualcuno (ma era il presidente federale?) aveva detto qualcosa di molto positivo a proposito delle cravatte; qualcuno faceva smentire qualcosa; i corsi erano in rialzo: Idi Amin era sempre introvabile. Non finì di fumare la seconda sigaretta, la spense in un bicchiere di yoghurt ancor mezzo pieno; era davvero stanco morto, e si addormentò subito, sebbene la parola Heidelberg gli rintronasse in testa.

Fece una colazione frugale, solo pane e latte; riordinò la stanza, fece la doccia e si vestì con cura; annodandosi la cravatta pensò al presidente federale (o era il cancelliere?) Un quarto d’ora prima del tempo stava seduto sulla panca davanti all’anticamera di Kronsorgeler, vicino a lui c’era un tipo grasso in abbigliamento moderno e disinvolto; lo conosceva per averlo visto a lezione di pedagogia, il nome non lo sapeva. Il grasso gli sussurrò: — Io sono comunista, anche tu? — No, — disse lui, — no, davvero, non prendertela —. Il grasso non rimase a lungo da Kronsorgeler, uscendo fece un gesto che doveva voler dire «chiuso». Poi la segretaria lo invitò ad entrare; era gentile, non più tanto giovane, lo aveva sempre trattato affabilmente: fu sorpreso che gli desse una spintarella d’incoraggiamento. L’aveva creduta troppo ritrosa per una cosa del genere. Kronsorgeler lo accolse affabilmente; era simpatico, conservatore ma simpatico; obiettivo; non vecchio, al massimo sui quaranta. Appassionato di ciclismo, lo aveva appoggiato moltissimo, e per prima cosa parlarono del Giro della Svizzera; il problema era se Merckx avesse bluffato, perché lo sottovalutassero al Giro di Francia, o se invece fosse proprio calato; Kronsorgeler pensava che Merckx avesse bluffato, lui no, pensava che Merckx fosse davvero quasi alla fine, certi segni di esaurimento non si possono bluffare. Poi parlarono dell’esame: avevano riflettuto a lungo, disse, se potevano dargli proprio il massimo; gli era andata male in filosofia; ma tutto il resto... quell’eccellente lavoro all’Università Popolare, al liceo serale; nessuna partecipazione a dimostrazioni, solo, disse, c’era (Kronsorgeler ebbe un sorriso davvero gentile) un unico, un piccolo neo.

— Sì, lo so, — disse lui, — vado troppo spesso a Heidelberg.

Kronsorgeler si fece quasi rosso, in ogni caso il suo imbarazzo fu evidente: era un uomo di sentimenti delicati, riservato, quasi timido, i discorsi troppo espliciti non gli andavano.

— Come lo sa?

— Me lo sento dire da tutte le parti. Dovunque io vada, con chiunque io parli. Mio padre, Carola, suo padre, non faccio che sentir dire: Heidelberg. Lo sento chiaramente, e mi domando: se telefono al servizio ora esatta o all’ufficio informazioni della stazione, non mi sentirò dire anche lì: Heidelberg?

Per un istante sembrò che Kronsorgeler stesse per alzarsi e mettergli le mani sulle spalle per rassicurarlo, le aveva già sollevate, le riabbassò, le posò di piatto sulla scrivania e disse: — Non posso dirle quanto questo mi sia penoso. Ho seguito con simpatia la sua strada, una strada difficile... ma c’è qui un rapporto su questo cileno, che non è molto favorevole. Non posso ignorare questo rapporto, non posso. Io non ho solamente delle prescrizioni, ho anche delle istruzioni, non ho solo delle direttive, ricevo anche consigli telefonici. Il suo amico... suppongo che sia suo amico?

— Sì.

— Adesso per qualche settimana lei avrà molto tempo libero. Che cosa farà?

— Mi allenerò molto... riprenderò ad andare in bicicletta, e andrò spesso a Heidelberg.

— In bicicletta?

— No, in macchina.

Kronsorgeler sospirò. Era evidente che soffriva, soffriva proprio. Dandogli la mano gli sussurrò: — Non vada a Heidelberg, di più non le posso dire —. Poi sorrise e disse: — Pensi a Eddy Merckx.

Già chiudendosi la porta alle spalle e attraversando l’anticamera pensò ad alternative: traduttore, interprete, guida turistica, corrispondente in lingua spagnola presso un’agenzia di cambio. Per diventare professionista era troppo vecchio, e di elettricisti adesso ce n’erano a sufficienza. Aveva dimenticato di salutare la segretaria, tornò indietro e le fece un cenno con la mano. troppo spesso a Heidelberg

Per Klaus Staeck,

il quale sa che questa storia è inventata

da cima a fondo ma corrisponde al vero.

 

Alla sera, seduto in pigiama sulla sponda del letto, aspettando il notiziario di mezzanotte e fumando ancora una sigaretta, cercava di trovare in retrospettiva il punto in cui quella bella domenica gli era scappata di mano. La mattina era stata piena di sole, fresca come in un giorno di maggio, anche se era già giugno, eppure si sentiva già il calore che si sarebbe avuto a mezzogiorno: la luce e la temperatura gli avevano ricordato i giorni lontani in cui andava ad allenarsi fra le sei e le otto, prima di andare al lavoro.

La mattina aveva fatto un’ora e mezzo di bicicletta, su stradicciole di periferia, fra orticelli e terreni industriali, costeggiando campi verdi, pergolati, giardini, poi il grande cimitero fino a giungere ai margini del bosco, già ben fuori di città; su tratti asfaltati aveva aumentato l’andatura, verificando accelerazione e velocità, aveva fatto qualche scatto e aveva trovato che era ancor sempre in forma e che poteva arrischiarsi a riprendere il via fra i dilettanti; nelle gambe la gioia dell’esame superato e il proposito di riprendere ad allenarsi regolarmente. Lavoro, liceo serale, guadagnare soldi, studiare...: negli ultimi tre anni aveva potuto fare ben poco. Gli ci voleva solo una macchina nuova; non era un problema, se domani sistemava le cose con Kronsorgeler, e non c’era dubbio che avrebbe sistemato le cose con Kronsorgeler.

Dopo l’allenamento, ginnastica sulla moquette della sua stanza, doccia, biancheria pulita, poi era uscito in macchina per fare colazione dai suoi genitori: caffè e pane tostato, burro, uova fresche e miele sulla terrazza che papà aveva fatto aggiungere alla loro casetta; quella bella tenda alla veneziana (un regalo di Karl), e nella mattina che si faceva più calda la frase stereotipata e rassicurante dei suoi: «Beh, ce l’hai quasi fatta; ancora un po’ e ce l’hai fatta». La madre aveva detto «ancora un po’». Il padre «quasi», sempre con quel compiaciuto riferimento alla paura degli anni passati, che essi non si erano rinfacciati, che avevano condiviso fra loro: da quando era stato campione distrettuale dei dilettanti e elettricista fino all’esame passato ieri, una paura superata che cominciava a diventare orgoglio di veterano; e tornavano sempre a chiedergli come si diceva in spagnolo questo o quello: carota o automobile, regina dei cieli, ape e zelo, colazione, cena e rosso di sera, e come erano contenti quando si era fermato anche a pranzo e li aveva invitati a festeggiare il suo esame il martedì in camera sua: il padre era uscito a comprare il gelato per dessert, e lui aveva preso anche il caffè, anche se di lì a un’ora avrebbe dovuto prenderne un altro dai genitori di Carola; aveva preso anche un kirsch, e parlato con loro di suo fratello Karl, di sua cognata Hilda, di Elke e Klaus, i loro due bambini, di cui essi affermavano concordi che erano viziati: tutto il giorno con quei pantaloni sfrangiati e quelle loro musicassette, e a ogni piè sospinto ci infilavano quei sospiri compiaciuti «Beh, ce l’hai quasi fatta, ancora un po’ e ce l’hai fatta». Quei «quasi», quegli «ancora un po’» lo rendevano inquieto. Lui ce l’aveva fatta! Non restava che il colloquio con Kronsorgeler, il quale fin dal principio era stato ben disposto verso di lui. E all’Università Popolare aveva avuto un buon successo con i suoi corsi di spagnolo, e anche con quelli di tedesco al liceo serale spagnolo.

Più tardi aiutò suo padre a lavare la macchina e la madre a togliere erbacce, e quando stava per andarsene la madre gli andò ancora a prendere nel congelatore carote, spinaci e ciliege in confezione ermetica, mise tutto in una borsa frigorifera e poi insistette perché aspettasse mentre lei raccoglieva dei tulipani in giardino per la madre di Carola; intanto suo padre guardava girare il motore, lo ascoltava pieno di diffidenza, per avvicinarsi poi al finestrino abbassato e chiedergli: — Vai sempre tanto spesso a Heidelberg, e con l’autostrada? — La domanda suonava come se si riferisse alle prestazioni della sua macchina, vecchia e alquanto mal ridotta, che due o anche tre volte alla settimana doveva farsi quegli ottanta chilometri tra andata e ritorno.

— Heidelberg? Sì, ci vado ancora, due o tre volte alla settimana: ci vorrà ancora un po’ prima che possa permettermi una Mercedes.

— Già, già, Mercedes, — disse il padre, — c’è giusto quel tale del governo, Istruzione, credo, che anche ieri mi ha portato di nuovo la sua Mercedes a controllare. Vuole essere servito solo da me. Com’è già che si chiama?

— Kronsorgeler?

— Sì, lui. Una persona gentilissima. Lo definirei addirittura un tipo distinto, senza ironia.

Arrivò la madre con il mazzo di fiori, e disse: — Porta i nostri saluti a Carola, e ai signori, naturalmente; ci vediamo martedì —. Poco prima che partisse, suo padre si avvicinò ancora una volta e disse:

— Non andare tanto spesso a Heidelberg... con questa carriola!

 

Carola non c’era ancora, quando lui arrivò dagli Sculte-Bebrung. Aveva telefonato dicendo che non aveva ancora finito i suoi rapporti, ma che avrebbe fatto in fretta; potevano incominciare a prendere il caffè.

La terrazza era più grande, la veneziana, anche se sbiadita, era più grandiosa, l’insieme più elegante, e persino nell’aspetto impercettibilmente sciupato dei mobili da giardino, nell’erba che cresceva fra le connessure delle mattonelle rosse, c’era qualcosa che lo irritava altrettanto quanto certe ciance che si sentivano alle dimostrazioni studentesche; queste cose e il modo di vestire erano argomenti spinosi fra lui e Carola, la quale gli rimproverava sempre di vestire in modo troppo corretto, troppo borghese. Parlò con la madre di Carola di orti, con suo padre di ciclismo, trovò il caffè peggiore che a casa e cercò di non fare diventare irritazione il suo nervosismo. In fondo era gente simpatica, progressista, che lo aveva accettato senza pregiudizi, annunciandolo perfino ufficialmente sul giornale; adesso lui ci si era proprio affezionato, anche alla madre di Carola, il cui eterno «incantevole» all’inizio gli dava sui nervi.

Alla fine il dottor Sculte-Bebrung (un po’ impacciato, così gli era parso) lo pregò di seguirlo in garage e gli mostrò la bicicletta che si era appena comprato, con la quale la mattina faceva «un paio di giri» attorno al parco e al vecchio cimitero; una bici di gran gala, che egli lodò con entusiasmo, senza alcuna invidia; vi salì per un giretto di prova attorno al giardino, spiegò a Sculte-Bebrung il lavoro dei muscoli delle gambe (si ricordava che i vecchi signori del circolo soffrivano sempre di crampi!) e una volta che fu ridisceso ed ebbe appoggiato di nuovo la bicicletta alla parete del garage, Sculte-Bebrung gli domandò: — Cosa ne dici, quanto ci metterei con questa bici di gala, come la chiami tu, per arrivare di qui, diciamo, a Heidelberg? — Suonava come una cosa buttata là a caso, innocentemente, tanto più che Sculte-Bebrung proseguì: — Io ho studiato a Heidelberg, anche allora avevo una bicicletta e di là a qui ci mettevo a quei tempi (con le mie energie giovanili) due ore e mezzo —. Sorrideva veramente senza secondi fini, parlava di semafori, di ingorghi, del traffico che a quei tempi non era certo lo stesso; in macchina, aveva già fatto la prova, gli ci volevano trentacinque minuti per arrivare in ufficio, con la bicicletta solo trenta. — E tu quanto ci metti con la macchina per arrivare a Heidelberg? — Mezz’ora.

L’aver accennato alla macchina rendeva un po’ meno casuale l’aver parlato di Heidelberg, ma in quel momento era arrivata Carola, ed era gentile come sempre, carina come sempre, un po’ scarmigliata, si vedeva bene che in effetti era stanca morta, e lui, stando adesso seduto sulla sponda del letto, tenendo in mano una seconda sigaretta non ancora accesa, non sapeva se il suo nervosismo era già irritazione, trasmessasi da lui a lei, oppure se lei era nervosa e irritata e glielo aveva trasmesso. Lo baciò con naturalezza, ma gli sussurrò che oggi non sarebbe andata con lui, poi parlarono di Kronsorgeler, che lo aveva tanto lodato, parlarono di posti in organico, dei confini distrettuali, di ciclismo, di tennis, di spagnolo, e discussero se lui avrebbe avuto il massimo dei voti o no. Quanto a lei, aveva avuto solo una buona sufficienza. Quando lo invitarono a restare a cena, si scusò col pretesto della stanchezza e del lavoro, e nessuno aveva particolarmente insistito perché rimanesse; d’improvviso sulla terrazza l’aria si fece più fresca; diede una mano a portare in casa le sedie e le tazze, e accompagnandolo alla macchina Carola lo aveva baciato con un ardore sorprendente, lo aveva abbracciato e appoggiandosi a lui gli aveva detto: — Tu sai che ti voglio tanto, tanto bene, e io so che sei un ragazzo di prim’ordine, hai solo un piccolo difetto: vai troppo spesso a Heidelberg.

Era rientrata di corsa in casa, gli aveva fatto cenni e sorrisi, mandandogli baci con la mano, e lui guardando nello specchietto poteva vederla ancora lì in piedi a fargli dei gran cenni di saluto. Gelosia non poteva essere. Lei sapeva che a Heidelberg lui andava da Diego e Teresa, li aiutava a tradurre domande, a riempire formulari e questionari; che presentava istanze e batteva a macchina in bella; per l’ufficio stranieri, l’assistenza sociale, il sindacato, l’università, l’ufficio di collocamento; che si trattava di posti a scuola e all’asilo, di borse di studio, di sovvenzioni, di vestiario, di soggiorni sovvenzionati; sapeva bene che cosa faceva lui a Heidelberg, c’era andata anche lei una volta o due, aveva scritto a macchina a tutto spiano e dimostrato una sorprendente padronanza del linguaggio burocratico; una volta o due aveva persino portato Teresa al cinema e al caffè e aveva avuto dei soldi da suo padre per un fondo a favore dei cileni.

Invece di andare a casa era andato a Heidelberg, non aveva trovato Diego e Teresa, e neanche Raoul, l’amico di Diego; al ritorno era capitato in una gran coda di macchine, verso le nove era passato da suo fratello Karl, che gli era andato a prendere della birra in frigorifero, mentre Hilda gli preparava delle uova al tegame. Avevano guardato insieme, alla televisione, un servizio sul Giro della Svizzera, in cui Eddy Merckx non faceva affatto bella figura, e al momento di venir via Hilda gli aveva dato un sacchetto pieno di abiti smessi dei bambini «per quel cileno tutt’ossa così carino e sua moglie». Ecco finalmente il notiziario, che ascoltò solo distrattamente: pensava alle carote, agli spinaci e alle ciliege che doveva ancora mettere in ghiaccio; accese finalmente la seconda sigaretta: da qualche parte (era in Irlanda?) c’erano state le elezioni: una frana; qualcuno (ma era il presidente federale?) aveva detto qualcosa di molto positivo a proposito delle cravatte; qualcuno faceva smentire qualcosa; i corsi erano in rialzo: Idi Amin era sempre introvabile. Non finì di fumare la seconda sigaretta, la spense in un bicchiere di yoghurt ancor mezzo pieno; era davvero stanco morto, e si addormentò subito, sebbene la parola Heidelberg gli rintronasse in testa.

Fece una colazione frugale, solo pane e latte; riordinò la stanza, fece la doccia e si vestì con cura; annodandosi la cravatta pensò al presidente federale (o era il cancelliere?) Un quarto d’ora prima del tempo stava seduto sulla panca davanti all’anticamera di Kronsorgeler, vicino a lui c’era un tipo grasso in abbigliamento moderno e disinvolto; lo conosceva per averlo visto a lezione di pedagogia, il nome non lo sapeva. Il grasso gli sussurrò: — Io sono comunista, anche tu? — No, — disse lui, — no, davvero, non prendertela —. Il grasso non rimase a lungo da Kronsorgeler, uscendo fece un gesto che doveva voler dire «chiuso». Poi la segretaria lo invitò ad entrare; era gentile, non più tanto giovane, lo aveva sempre trattato affabilmente: fu sorpreso che gli desse una spintarella d’incoraggiamento. L’aveva creduta troppo ritrosa per una cosa del genere. Kronsorgeler lo accolse affabilmente; era simpatico, conservatore ma simpatico; obiettivo; non vecchio, al massimo sui quaranta. Appassionato di ciclismo, lo aveva appoggiato moltissimo, e per prima cosa parlarono del Giro della Svizzera; il problema era se Merckx avesse bluffato, perché lo sottovalutassero al Giro di Francia, o se invece fosse proprio calato; Kronsorgeler pensava che Merckx avesse bluffato, lui no, pensava che Merckx fosse davvero quasi alla fine, certi segni di esaurimento non si possono bluffare. Poi parlarono dell’esame: avevano riflettuto a lungo, disse, se potevano dargli proprio il massimo; gli era andata male in filosofia; ma tutto il resto... quell’eccellente lavoro all’Università Popolare, al liceo serale; nessuna partecipazione a dimostrazioni, solo, disse, c’era (Kronsorgeler ebbe un sorriso davvero gentile) un unico, un piccolo neo.

— Sì, lo so, — disse lui, — vado troppo spesso a Heidelberg.

Kronsorgeler si fece quasi rosso, in ogni caso il suo imbarazzo fu evidente: era un uomo di sentimenti delicati, riservato, quasi timido, i discorsi troppo espliciti non gli andavano.

— Come lo sa?

— Me lo sento dire da tutte le parti. Dovunque io vada, con chiunque io parli. Mio padre, Carola, suo padre, non faccio che sentir dire: Heidelberg. Lo sento chiaramente, e mi domando: se telefono al servizio ora esatta o all’ufficio informazioni della stazione, non mi sentirò dire anche lì: Heidelberg?

Per un istante sembrò che Kronsorgeler stesse per alzarsi e mettergli le mani sulle spalle per rassicurarlo, le aveva già sollevate, le riabbassò, le posò di piatto sulla scrivania e disse: — Non posso dirle quanto questo mi sia penoso. Ho seguito con simpatia la sua strada, una strada difficile... ma c’è qui un rapporto su questo cileno, che non è molto favorevole. Non posso ignorare questo rapporto, non posso. Io non ho solamente delle prescrizioni, ho anche delle istruzioni, non ho solo delle direttive, ricevo anche consigli telefonici. Il suo amico... suppongo che sia suo amico?

— Sì.

— Adesso per qualche settimana lei avrà molto tempo libero. Che cosa farà?

— Mi allenerò molto... riprenderò ad andare in bicicletta, e andrò spesso a Heidelberg.

— In bicicletta?

— No, in macchina.

Kronsorgeler sospirò. Era evidente che soffriva, soffriva proprio. Dandogli la mano gli sussurrò: — Non vada a Heidelberg, di più non le posso dire —. Poi sorrise e disse: — Pensi a Eddy Merckx.

Già chiudendosi la porta alle spalle e attraversando l’anticamera pensò ad alternative: traduttore, interprete, guida turistica, corrispondente in lingua spagnola presso un’agenzia di cambio. Per diventare professionista era troppo vecchio, e di elettricisti adesso ce n’erano a sufficienza. Aveva dimenticato di salutare la segretaria, tornò indietro e le fece un cenno con la mano.

 

La tosse di mio padre

 

Quando mio padre raggiunse l’età che ora sto raggiungendo io, a me pareva (naturalmente?) più vecchio di quanto io ora mi senta. Da noi non si festeggiavano compleanni, lo si considerava una «cattiva usanza dei protestanti», e così non ricordo nessun festeggiamento, ma solo alcuni particolari dell’atmosfera generale che regnava in quell’ottobre del 1930. (Mio padre aveva in comune con Lenin l’anno di nascita, il 1870, ma credo nient’altro).

Era un’annata cupa. Crollo finanziario totale, non proprio un «fallimento» classico, solo un «concordato preventivo», un procedimento per me un po’ misterioso, comunque sonava alquanto meglio che non «bancarotta», era collegato al crac di una banca artigiana il cui direttore, se ben ricordo, finì anche in galera. Abuso di fiducia, garanzie scadute, speculazioni poco serie. La nostra casa in mezzo al verde dovette essere venduta, e della somma che se ne ricavò non rimase un centesimo. Eravamo sconvolti, ci trasferimmo in un grande, troppo grande appartamento sull’Ubierring di Colonia, di fronte alla vecchia sede della scuola professionale.

Ufficiali giudiziari a ripetizione, un sigillo dopo l’altro. Noi li strappavamo fintanto ch’erano ancora freschi, non tenevamo in nessun conto quella presa di possesso provvisoria. Più tardi, divenuti ormai indifferenti, li lasciammo stare, e così poteva accadere che su determinati mobili (ad esempio sul pianoforte) gli avvisi di sequestro infittissero addirittura a fungaia. Con gli ufficiali giudiziari andavamo d’accordo. Ironia da una parte e dall’altra, nessuna durezza né da una parte né dall’altra.

Ricordo la particolarità «politica» che distingueva il conio della moneta da quattro Pfennig; era collegata all’ordinanza di emergenza e all’imposta sui tabacchi. Questa moneta da quattro Pfennig era di rame, grande, ben disegnata, ma può anche darsi che entrasse in circolazione solo negli anni 1931-32. I nazisti avevano fatto il loro ingresso trionfale nel Reichstag. Brüning era presidente del consiglio. Noi leggevamo la «Kölnische Volkszeitung». I miei fratelli più grandi giuravano invece sulla RMV («Rhein-Mainische-Volkszeitung»).

Diedi l’addio ai giochi all’aperto. Doloroso. Là fuori, nel sobborgo di Raderberg, avevamo ancora giocato a hockey sulla strada (con vecchi manici di ombrelli e lattine vuote); nel Vorgebirgspark avevamo giocato molte partite di palla-e-caccia, un po’ meno di calcio. Decapitavamo anche le rose del parco, a colpi di fionda. Nel lancio del cerchio scaraventavamo vecchi cerchioni di bicicletta giù per un tenue pendio erboso. Chi faceva rotolare il cerchio più lontano aveva vinto. Si stabilivano dei record. Si giocava anche a far correre il cerchio intorno all’immenso isolato; era considerato scorretto l’uso di cerchi di legno acquistati nei negozi. Ping-pong sulla terrazza, l’altalena in giardino; col fucile ad aria compressa esercitazioni di tiro su lampadine ormai fuori uso, ancora con l’innesto a baionetta. Quelle esercitazioni di tiro, per noi, non avevano niente di militaresco, e meno che mai di marziale. Dieci anni di libertà, e molti giochi liberi che non posso enumerare tutti. (Fiaccole di san Martino, costruire e far volare aquiloni di carta, bilie).

Nel lungo corridoio dell’appartamento sull’Ubierring continuammo le esercitazioni di tiro, ora con bersagli e proiettili regolamentari, proiettili chiamati «Flümmchen» (come scopro nel vocabolario del vecchio Wrede, la parola deriva da «Flaum», che a sua volta discende dal latino pluma: infatti quei proiettili avevano un piumino variopinto). Naturalmente, durante questi esercizi bisognava mettere in guardia chi entrava in bagno, in cucina o in camera da letto, o chi vi si trovava dentro. Stato d’animo generale: leggerezza e paura. Che non si escludevano a vicenda. Com’è ovvio, non tutti i guadagni venivano dichiarati all’ufficiale giudiziario. C’era del lavoro clandestino, introiti provenienti dal noleggio a ore dei nostri macchinari. Di recente ho letto in Isaac Bashevis Singer (Nemici, storia di un amore): «Se si voleva vivere bisognava violare la legge, perché tutte le leggi ti condannavano a morte». Noi volevamo vivere.

Si tirava avanti modestamente, ma senza che la modestia diventasse la nostra parola d’ordine. Di preoccupazioni e di debiti ne avevamo abbastanza. L’affitto, il mangiare, il vestiario, libri, riscaldamento, luce elettrica. L’unico rimedio a tutto ciò era una spensieratezza temporanea, che riusciva appunto solo temporaneamente. In qualche modo si dovevano pur trovare i soldi per il cinema, le sigarette, per l’indispensabile caffè, cosa che non sempre riusciva, ma qualche volta sì. Scoprimmo i monti dei pegni.

Non tutto era così allegro come potrebbe sembrare. Quanto più si tirava avanti modestamente, tanto meno la modestia diventava la nostra parola d’ordine. Ricordo con gratitudine la generosità dei miei fratelli e delle mie sorelle più grandi che a me, ultimo nato, risparmiarono vari sacrifici, passandomi di nascosto qualcosetta. Quello che più mi ha angustiato, in quel tempo, è la tosse di mio padre. Era un uomo slanciato (tra i venti e gli ottantacinque anni il suo peso oscillò appena di uno o due chili, è solo dopo gli ottantacinque anni che dimagrì decisamente). Era un uomo sobrio, ma gli piaceva fumare pur senza inalare mai, e non rinunciava (o almeno, non completamente!) alla sua «Lundi», un tipo di sigarette forti e sottili dentro astucci di latta. Era triste, in una situazione come quella, impotente contro le circostanze, e a volte credo che noi bambini non abbiamo condiviso in pieno la sua tristezza.

La sua tosse copriva perfino il travolgente fragore del tram numero 16, e noi la sentivamo già da lontano. Ma soprattutto m’inquietava la sua tosse di domenica, nella chiesa di San Severino piena zeppa. Noi non si andava mai a Messa «in gruppo», ma ciascuno per sé, succedeva di rado che due o tre di noi ragazzi sedessero insieme nello stesso banco, e così, ciascuno al suo posto, aspettavamo con trepida tensione la tosse di nostro padre, che sarebbe esplosa ben presto, sarebbe aumentata fin quasi all’attacco di asfissia, poi sarebbe scemata mentre mio padre si allontanava dalla chiesa. C’era da immaginare che poi se ne stesse di fuori, fumando una «Lundi» contro la tosse.

Giunto ormai all’età che aveva allora mio padre, devo constatare che evidentemente ho ereditato la sua tosse (e non soltanto io). A casa nostra c’è qualcuno che, quand’io parcheggio nella strada ingorgata di automobili, mi riconosce dalla tosse in mezzo al frastuono del traffico. Raramente ho bisogno di suonare il campanello o d’infilare la chiave nella porta di casa: me la vedo aprire prima ancora ch’io faccia l’una o l’altra cosa.

La mia tosse dev’essere su una lunghezza d’onda che penetra non solo il frastuono del traffico e lo stridio dei freni, e persino certe sinfonie di clacson, eppure non credo che la mia tosse si possa definire «penetrante»: è fatta di variazioni su diverse note di raucedine, per lo più esprime imbarazzo, di rado è sintomo di raffreddore, e alcuni sanno bene che essa è più di una semplice tosse... e anche meno.

Una mia nipotina, ad esempio, che ha un anno, la considera evidentemente una forma di linguaggio o di allocuzione, perciò la imita, e così tra noi s’instaurano dialoghi a base di tosse che hanno un carattere ironico e divertito, e in cui abbiamo palesemente qualcosa da dirci. Mi fa pensare a Beuys, che una volta tenne un discorso fatto solo di tossicchiamenti e raschiamenti di gola, tra parentesi un discorso molto intelligente.

Forse bisognerebbe aprire delle scuole di tossicchiamento, o almeno prenderlo in considerazione come materia scolastica; bisognerebbe liberare la tossetta dalla sua stupida funzione di avvertimento, ad esempio per mettere in guardia da una gaffe che qualcuno stia per commettere. L’art pour l’artdel tossire e del tossicchiare.

Bisognerebbe anche pensare se qualche cervello fino non dovrebbe inventare la lettera al direttore tutta tossicchiata.

 

Confessione di un dirottatore aereo

 

Compagno Gospodin, dopo essermi consultato a lungo con quell’istanza che controlla — non sempre con successo, come devo purtroppo ammettere — il mio furfante interno; dopo aver auscultato intensamente, fin quasi allo spasimo, quello spazio interiore che vorrei chiamare la mia coscienza civica, mi sono deciso a rilasciare una confessione.

È vero, ho cercato di penetrare a forza in un aereo. Sì. E mi sono servito a tale scopo di un’arma da fuoco: certo, era solo un’imitazione — un pezzo di legno, molta crema per scarpe nera — tuttavia doveva servire come minaccia. Fortunatamente mi venne strappata di mano prima che potessi farne uso. La prego, compagno Gospodin, di prestare attenzione alle parole che ho scelte, «prima che potessi farne uso», e di non accusarmi di giochi formalistici (come si può usare seriamente un’arma fasulla, fatta di legno e di crema per scarpe?) perché la mia formulazione non significa che ne avrei fatto davvero uso o che avessi anche solo quest’intenzione; quell’arma, per me, aveva solo la funzione di una chiave, no, non voglio diffamare uno strumento rispettabile come una chiave: essa aveva per me la funzione di un grimaldello, volevo fare irruzione con esso in quelle zone ultrariservate che sono accessibili solo agli stranieri e ai compagni benemeriti. Si può fare nulla di più riprovevole? No.

La spinta interna che mi fece tentare di dirottare l’aereo — e non adduco alcuna attenuante, anzi chiedo che la legge mi colpisca in tutto il suo vigore — fu quello che un tempo si chiamava Sehnsucht, diciamo la nostalgia; per di più — il che raddoppia la mia colpa, e così la legge mi colpisca pure con doppio vigore — la nostalgia di un Paese non socialista. Tuttavia qui, per amore di giustizia, devo attenuare la mia colpa: non sentivo il desiderio di vedere quel Paese perché non fosse, ma benché non fosse socialista, e tra questo «perché non» e il «benché non» c’è, come fa giustamente notare l’Accusatore, un’«insicurezza ideologica», vale a dire — com’egli ha ancora fatto giustamente notare — la mia «disponibilità a essere sedotto dalla propaganda capitalistica». È perfettamente vero.

In effetti mi è venuto in mano in maniera inammissibile, direi quasi cialtronesca, un prospetto turistico della città di Copenaghen: io — e voglia scusarmi se, ricordando questa mia sporca azione, mi vengono le lacrime, e la prego di non volerle considerare un’ipocrisia — ho pescato tale prospetto in un cestino della carta di via Gorkij sul quale mi ero curvato per buttarci dentro, appallottolata, la «Pravda» che, faccio notare, avevo letto sino in fondo.

Ora, so benissimo che il solo fatto di gettare via la «Pravda» mi rende sospetto, però torno a dire: l’avevo letta tutta, tutta, potrei riferirle ancor oggi il contenuto dell’articolo di fondo. La cosa grave però è che, attratto dalla figura di una donna svestita che vedevo splendere tra i rifiuti, io abbia allungato la mia mano destra, in mezzo al pattume, verso quella foto femminile.

Io sono sposato, compagno Gospodin, ho tre figli che crescono, la mia vita coniugale è senza conflitti, e mi dispiacerebbe darle l’impressione che, in fin dei conti, sia stata la figura di una donna nuda a farmi tentare un dirottamento aereo. No, quella donna era solo l’esca gettata abilmente, un’esca capitalistico-pornografica; in realtà, i torbidi istinti che nemmeno la mia educazione socialista è riuscita a spegnere, in me, restarono delusi da quella donna: mi sono imposto di essere sincero, compagno Gospodin, e voglio esserlo anche su questo punto.

In fondo non sono un ignorante, la geografia mi è stata insegnata assai bene, sono un appassionato contemplatore di carte geografiche, e così con la punta del dito, cominciando da Leningrado, attraverso il Mar Baltico, arrivo sino alla città di Copenaghen, ed è lì, compagno Gospodin, che si desta in me la nostalgia: quella città meravigliosa mi ha semplicemente stregato, e le giuro per tutto ciò che deve essermi sacro: non volevo andarci per via dei cinema e dei negozi pornografici, no; quello che mi attirava era la bellezza architettonica, i canali, i vecchi magazzini che avevo visto in quel prospetto, dopo che il fascino superficiale di quella donna svestita si era dissolto; e non solo l’architettura, ma anche la filosofia.

Sono soltanto un semplice lavoratore sovietico, ma la filosofia non ha mai cessato di attirarmi, anzi mi ha affascinato, e anche di questo devo dir grazie alla mia eccellente formazione scolastica. Una volta, nella biblioteca di un conoscente della mia defunta zia, ho letto un breve scritto di quel Kierkegaard che pare sia stato un contemporaneo dell’incomparabile Karl Marx, e a questo punto lei mi domanderà con giusto rimprovero perché la mia nostalgia non andasse alla graziosa vecchia città di Treviri.

Bene, devo confessare un’altra cosa: io sono di nazionalità ebraica e certi avvenimenti storici che riguardano il popolo ebreo riducono molto il mio desiderio di visitare un Paese abitato da tedeschi, e certo non occorre che io precisi — per un cittadino sovietico è naturale — che escludo da tale mia considerazione gli abitanti della Repubblica democratica tedesca. Però Treviri non si trova nella Rdt e in Danimarca non ci sono i tedeschi, e per di più Treviri non sta sul mare, e non ha il Tivoli, non ha lo stupendo circo di Copenaghen, e io a Copenaghen volevo andarci non solo per amore di Kierkegaard, ma anche per la bellezza e l’allegria di quella città, e se desidero vedere dei circhi danesi non significa affatto che io disprezzi i nostri meravigliosi circhi sovietici; noi abbiamo i migliori clown, abbiamo dei giocolieri strepitosi, ma insomma volevo vedere, una volta tanto, un circo non sovietico, volevo una volta tanto trascorrere una vacanza in mezzo a non-sovietici.

Non nego affatto né le bellezze della Crimea né quelle del Caucaso, che ho potuto godere personalmente, così come non nego le bellezze del Mar Baltico presso i nostri popoli fratelli, i Lettoni, gli Estoni, i Lituani. Tutto questo l’ho veduto e ha fatto versare lacrime di gioia, anzi di entusiasmo al mio senso del bello. Però, ecco, volevo andare una volta in Danimarca, e tutti i miei numerosi tentativi per vedere quel bel Paese per via legale, da turista sovietico, fallirono, tutte le mie richieste vennero respinte, e allora mi decisi a usare in modo criminale la mia abilità di provetto, anzi di premiato meccanico di precisione: di nascosto, mentre la mia famiglia dormiva, sotto pretesto di perfezionarmi professionalmente, ho intagliato in un pezzo di legno di faggio una pistola molto ben imitata, le ho dato, usando la nostra ottima, incomparabile crema per scarpe sovietica, una lucentezza metallica, fingendo di volerlo visitare mi sono recato all’aeroporto, ho preso nota dei voli per Copenaghen e in quel famoso giorno ho cercato di penetrare a forza, superando lo sbarramento, in un aereo di linea della Sas. Il mio tentativo fallì grazie alla vigilanza della nostra milizia, che a questo punto vorrei ringraziare.

Giuro, compagno Gospodin, giuro per la vita di mia moglie, dei miei figli, per la vita di tutti i miei cari compagni e amici: sarei ritornato, mi sarei costituito, pieno di pentimento, alle autorità e, dopo aver subito la meritata pena, sarei tornato al mio lavoro di meccanico di precisione, avrei passato il resto della mia vita nella mia amata patria, nella patria dei lavoratori, così come non ho il minimo dubbio che, dopo pochi giorni trascorsi a Copenaghen, mi sarei stancato di quel mondo decadente. In fin dei conti — e la prego di non voler vedere in queste mie parole alcuna allusione ironica — la perfezione con cui da noi s’insegna la geografia, la completezza con cui da noi s’impara la filosofia non può far nascere di queste nostalgie!

 

L’Accusatore si limitò a trattare la confessione dell’accusato in forma di breve relazione obiettiva, ma non le riconobbe, come poi illustrò per disteso, nessunissimo valore di attenuante. Era del tutto irrilevante, disse, che una persona confessasse un crimine già comprovato, registrato agli atti, confermato dal reo stesso con la sua firma. Gravi invece, erano, nella confessione, i riferimenti a cose ovvie: i pregi dell’insegnamento della geografia e della filosofia come viene impartito nell’Unione sovietica. Negli elogi fatti a queste cose fuori discussione c’era un che di strisciante, di ipocrita. Ma una circostanza molto aggravante nel giudizio da formulare sul carattere dell’accusato era il suo elogio della crema per scarpe sovietica, di cui tutti sapevano — dirigenti del partito, governanti e, non ultimo, l’intero popolo sovietico — che era, se non proprio scadente, certo non così buona come aveva detto l’accusato. Esistevano dei rapporti — tutt’altro che segreti — su questa crema per scarpe, che bollavano l’accusato di servile mendacio. Ecco — e a questo punto l’Accusatore trasse dalla sua borsa l’imitazione della pistola e la posò davanti ai giudici — era dimostrato dalle analisi chimiche — e posò le perizie accanto alla pistola — che quel manufatto destinato a intimidire i piloti dell’aereo era stato trattato con crema per scarpe di marca americana e in tal modo aveva preso quella lucentezza che faceva veramente pensare al metallo.

Come seconda prova esibiva — attingendo ancora una volta alla sua borsa — una pistola falsa trattata con crema per scarpe sovietica: come potevano constatare, si vedeva trasparire il legno, il colore non era nero-metallico, ma solo nerastro, i riflessi non erano grigio-acciaio, ma solo grigiastri.

A condannare l’accusato non era soltanto la sua azione né la sua confessione superflua, ma il suo elogio della crema per scarpe sovietica, con in più la sua ironia da cosmopolita, il suo sarcasmo disgregatore. Perciò la corte avrebbe fatto bene a non lasciarsi incantare da quelle espressioni di finto pentimento. Quanto a lui, l’Accusatore, richiedeva, se non il massimo della pena, certo una pena molto severa.

 

Appuntamento con Margret ovvero: Happy end

 

Il viaggio di andata fu piacevole. Il Reno ancora sotto i vapori mattutini; salici piangenti, chiatte, sirene. La durata del viaggio lunga esattamente quanto mi serve per far colazione; il caffè e panini godibili, uova fritte. Niente bagagli, solo sigarette, giornale, fiammiferi, biglietto di ritorno, penna a sfera, portafogli e fazzoletto, e la certezza di rivedere Margret: dopo tanti anni, dopo alcuni appuntamenti falliti. Dopo che la conoscevo da più di quarant’anni ero sorpreso ed eccitato da qualcosa che non conoscevo ancora: dalla sua scrittura, insieme robusta e graziosa, che su quell’annuncio di morte aveva vergato con sorprendente energia: «Vieni, mi farebbe tanto piacere rivederti». Quel «ti» scritto minuscolo mi fece capire che Margret non se l’era mai intesa bene con la «T» maiuscola. Ciascuno di noi inciampa in qualche lettera dell’alfabeto.

All’arrivo mi liberai del collo più ingombrante: il giornale, che lasciai nella carrozza ristorante. Al cimitero ci arrivai puntuale a modo mio: troppo tardi per il largo, il de profundis e l’incenso nel loggiato, troppo tardi anche per mettermi ancora in coda sulla sfilata di amici e parenti. Vidi ancora i chierici che, mentre se ne andavano, si sfilavano le cotte e se le arrotolavano sotto il braccio. Quello più grande svitò la croce astile in tre parti staccate, le sistemò in un’apposita valigia, e quando entrarono nel taxi in attesa si accesero tutti una sigaretta: il prete, l’autista e i chierici. Il tassista fece accendere al prete, il chierico più giovane a quello più grande, e poi uno di loro doveva aver detto una spiritosaggine perché li vidi ridere tutti, vidi il chierico più anziano tossire dalle risate e dal fumo. Dovetti ridere anch’io, ripensando agli armadi di sacrestia in cui, cinque minuti dopo, essi avrebbero infilato le loro carabattole: quercia, barocco, trecento anni, l’orgoglio della parrocchia di San Francesco Saverio, che nel 1925 era stata ribattezzata San Pietro Canisio, e non ero stato io, ma il morto che avevano appena seppellito e sulla cui cassa continuavano a tonfare palate di terra, era stato lui, nel 1945, ad aver avuto la provvidenziale idea della profondità di quegli armadi, dove dietro la biancheria d’altare ammucchiata in bell’ordine e a ogni sorta di sacri arredi nascondevamo sigarette e caffè che rubacchiavamo agli americani quando lasciavano incustodite le loro jeep o c’invitavano a gruppi a una specie di rieducation tipo «lupo mannaro».

Lui, non io, con astuzia da corrotto europeo, aveva valutato esattamente l’ingenua soggezione degli americani di fronte alle istituzioni ecclesiastiche, e per anni mi ero chiesto con stupore come mai lui non aveva mai rivendicato quel colpo d’intuito, ma l’avesse invece attribuito a me. Solo più tardi, quando ormai ero via da casa da un pezzo, avevo capito che quell’aneddoto non avrebbe giovato alla sua rispettabilità, mentre invece «si addiceva» a me, anche se quell’idea io non l’avevo mai avuta né mai avrei potuto averla.

Mi avvicinai cauto alla tomba della famiglia Zerhoff, non lungo i sentieri dove avrei potuto incontrare signori con o senza cilindro, signore con o senza pelliccia di persiano, compagni di scuola diventati membri di qualche ordine cavalleresco: percorsi il sentiero a me ben noto tra le file delle tombe, compresa quella della mia stessa famiglia, dove c’era stata l’ultima sepoltura, quella di mio padre, cinque anni prima. Mi avevano fatto sapere ch’era morto profondamente afflitto perché nessuno dei suoi due figli gli aveva suscitato un qualche discendente maschile dal grembo di una donna; be’, non aveva nemmeno discendenti femminili. La tomba era in ordine, l’abbonamento era stato rinnovato, la ghiaietta era davvero candida come la neve, le aiuole a forma di cuore contenevano viole del pensiero che (saranno state nove, undici) erano a loro volta a forma di cuore. Sul basamento di marmo a forma di leggio, i nomi della mamma, di mio padre, di Josef; accanto a quello di Josef l’inevitabile croce di ferro. Le lastre degli antenati morti già da tanto tempo erano coperte di edera e, emergente su tutte quelle pietre, la semplice croce neoclassica, già con un che di nazarenico, con la scritta apposta più tardi, in carattere di stile guglielmino: LAMORE NON FINISCE MAI. Per me, l’ultimo a portare quel cognome, c’era pronta un’altra lastra. Il trattino dopo il mio nome e l’anno di nascita, quel grafico «dal-al», aveva qualcosa di minaccioso. Chi avrebbe pagato quell’abbonamento (abbastanza caro) il giorno che io non fossi più stato a questo mondo? Forse Margret. Era una donna sana e anche benestante, senza figli, bevitrice di tè, moderata nel fumo, e dalla melodia della sua scrittura, soprattutto dalla sua «T» minuscola, deducevo che sarebbe vissuta a lungo.

Me ne stavo dietro l’ormai foltissima siepe di tuia che separa la tomba degli Zerhoff dalla nostra quando a un tratto la vidi: mi piacque più che mai in passato, più della quindicenne con cui mi ero steso sull’erba, più della ventenne, della trentenne e della trentacinquenne con la quale mi ero dato appuntamenti miseramente andati a male, l’ultima volta, quindici anni fa, a Sinzig, quando lei aveva fatto dietro-front ed era ripartita davanti alla camera dell’albergo. Non mi aveva neanche permesso di accompagnarla alla stazione. Adesso doveva essere sulla cinquantina, i suoi capelli robusti, d’un biondo quasi grossolano, erano diventati piacevolmente grigi, e il nero le donava.

Spesso da bambini si era dovuti venire qui per innaffiare i fiori: mio fratello Josef, Margret, io e il fratello di Margret, Fränzchen, nella cui tomba gli ultimi della fila stavano gettando i loro fiori o una palata di terra: quel ben noto crepitare della terra sul legno, il tonfo dei mazzolini di mimose come quando atterra un uccello. Sovente coi soldi del tram c’eravamo comprati un gelato, avevamo fatto a piedi la lunga via del ritorno a casa, poi sotto la calura estiva ci eravamo pentiti della nostra leggerezza, ma Josef aveva sempre messo mano a qualche «riserva», ci aveva offerto il viaggio di ritorno, e in tram, sollevati e stanchi, si stava poi a discutere se quello che lui ci aveva offerto era il gelato o il biglietto del tram.

Ancora adesso mi costava fatica trattenere le lacrime quando ripensavo a Josef, e continuavo a non sapere, dopo la bellezza di trentaquattro anni, se mi spuntavano le lacrime per la sua morte o per il suo ultimo desiderio. In fondo al binario, al di là della tettoia, prima che arrivasse la tradotta dei militari in licenza, avevamo ancora passato in esame tutte le possibilità di non tornare al fronte: febbre, incidenti, attestati. Alla fine fu Margret che infranse il tabù e parlò di «Come si dice? Diserzione». Mio padre aveva pestato il piede in terra, furioso, dicendo: «La diserzione non c’è mai stata, nella nostra famiglia», e Josef aveva riso dicendo: «E dove andrei? Devo andare a nuoto oltre la Manica, o in Svezia, o in Svizzera attraversando il lago di Costanza... e Vladivostok, sapete, è piuttosto lontana». Stava già sul predellino, il capostazione fischiava già, quando a un tratto si chinò ancora una volta verso di noi e disse ben chiaro, più a me che a mio padre: «Per favore, niente preti sulla mia tomba o all’ufficio funebre». Aveva diciannove anni, aveva rinunciato agli studi di teologia e a quel tempo Margret era considerata quasi la sua fidanzata. Non lo abbiamo visto mai più. Trasalimmo, io più di mio padre, Margret meno, come se al momento dell’addio Josef ci avesse frustati, e naturalmente, quando ci arrivò la notizia della sua morte, ricordai a mio padre l’ultimo desiderio di Josef, non ripetendo le sue parole, non ne avrei avuto il coraggio, ma dicendogli soltanto: «Ricordi che preghiera ci ha rivolto, quale è stato il suo ultimo desiderio?» Ma il babbo mi aveva fatto cenno di tacere e naturalmente non aveva accontentato Josef. Così avevano fatto i loro bei funerali con tanto d’incenso, latino, catafalco, con grande solennità e precisione avevano eseguito la loro coreografia coi loro paramenti di broccato nero ricamati in oro, e avevano persino scovato un coro di studenti in teologia che aveva cantato qualcosa in greco. Già allora la chiesa orientale era considerata chic. Da allora non ero mai più entrato in una chiesa, solo come chierico e, più tardi, nella mia qualità di commerciante in articoli religiosi, e quando servivo messa insieme con Fränzchen Zerhoff in occasione di qualche requiem solenne, i preti, coi loro pesanti paramenti di broccato ricamati in oro mi avevano talvolta ricordato i marescialli sovietici con le loro massicce spalline dorate e il petto ornato da circa centocinquanta decorazioni. Sempre molto latino, coro maschile con sciarpe biancorosse, i cilindri tremavano nelle loro mani e l’aria tremava della veemenza delle loro note di petto.

La bocca di Margret era sorprendentemente piccola e non ancora dura sotto il naso severo, essa si era fatta snella. Solo intorno ai polsi le scoprii ancora qualche traccia di grasso. Se ne stava là, dignitosa, immobile, stringeva mani, annuiva, ma aveva conservato quel non so che di rapido, di fugace, di elastico. Il grigio dei suoi capelli mi ricordava la polvere bianco-grigia che le stava sul capo quando uscimmo barcollando dalla casa in fiamme e ci sdraiammo sull’erba del giardino e ci unimmo in quella notte di giugno, dopo l’addio di Josef, quando tanti valori erano stati distrutti. Ricordai anche la polvere nei suoi baci, nelle sue lacrime, le nostre frivole risate quando anche mio padre uscì barcollando di casa e ci vide là distesi, e come i nostri volti incipriati di polvere si contorsero dalle risa quando lo vedemmo girare in aria la chiave della cassaforte, come se l’aria contenesse i suoi titoli e tutte le cartacce legalizzate dal notaio. Naturalmente né lui né alcuno di noi sapeva che persino in questa guerra, convenzionale in modo quasi amabile, si raggiungevano gradi di calore cui nessuna cassaforte antiquata poteva reggere. Più tardi, quando frugarono tra le cianfrusaglie rimaste, in quell’armadio blindato, ormai fuso dal fuoco, lui aveva trovato solo cenere, e fu Margret, non io, lei che aveva familiarità con questi detti, a ricordargli: «Memento quia pulvis es et...», ma il resto non lo disse. Per un certo tempo fummo inseparabili, ma non ci accostammo mai più fisicamente, nemmeno con un bacio, nemmeno con una stretta di mano.

Margret si volse verso di me, e il suo viso di donna si trasformò con una specie di gioia amara nel viso di quella fanciulla che insieme con me, in quella notte di giugno, aveva disprezzato i valori; o forse allora avevo abbracciato la Margret di oggi, tanto che solo adesso io avevo raggiunto lei e lei me? Forse che solo adesso la maledizione di Josef ci aveva veramente uniti? Ripensai a lui, alla sua frustata che mi aveva fatto uscire di carreggiata, e solo adesso, qui, mi venne da pensare che lui aveva proprio voluto questo: farmi uscire di carreggiata, via dai broccati trapunti in oro, dai cori maschili, dalle tombe di famiglia, dai cavalieri effettivi e potenziali. Forse era l’unica cosa ch’egli avesse imparato in quella guerra stupendamente convenzionale, e oggi, qui di fronte a Margret, non avevo alcun motivo di fargliene un rimprovero. Non rimproveravo nessuno, nemmeno mio padre, che più tardi divenne quieto, quasi umile, e mi guardava con espressione di trepida attesa ogni volta che Margret veniva a farci visita dalla casa accanto. Noi si andava al cinema, a teatro, a passeggio, discutevamo, ma non riuscimmo più a stringerci le mani, nemmeno il battito di palpebre di quel ricordo. Io continuai a fare il chierico, lo esercitai quasi come un mestiere (mance e colazioni gratis). Passai al mercato nero, conclusi la scuola, me ne andai da casa, dal mercato nero passai a quello degli articoli di devozione il giorno che, a una prima comunione in un ambiente di vignaioli della Mosella, dovetti procurare in cambio di burro, e ci riuscii, una riproduzione di Leonardo da Vinci. Avevo degli amori, penso che ne avesse anche Margret.

Ero abbastanza vicino per poter leggere sulla bocca di Margret, la parola «Merlo». Accennai di sì, mi ritirai e mi avviai verso il «Merlo», dove da sempre si consumano le «colazioni funebri». Bastava che tornassi all’uscita, che attraversassi la strada, poi cinque minuti di camminata tra gli abeti americani. Al «Merlo» erano già indaffarati a tagliare panini molli, a spalmarli di burro, a imbottirli di salsiccia o di formaggio e a decorarli di maionese. Chissà se era ancora viva zia Marga, che ostinatamente voleva solo sanguinaccio con cipolle, e con un’avidità come se stesse morendo di fame, quando tutti sapevano che nemmeno lei conosceva l’entità del suo patrimonio? La macchina del caffè era sotto pressione, i vassoi si coprivano di bicchieri da cognac con accanto bottiglie aperte (certo Margret aveva preteso energicamente un prezzo «a calo»), si stappavano bottiglie di acqua minerale, si mettevano fiori dentro vasetti. Sempre il fare di una volta, all’antica. Riconobbi il parroco, ch’era venuto senza chierici: sedeva in un angolino e fumava una sigaretta con la faccia di chi è smontato dal lavoro. Mi fece un cenno col capo. Non poteva avermi riconosciuto, non ci eravamo incontrati mai. Aveva un aspetto simpatico, mi sedetti accanto a lui e lo interrogai sulla valigia speciale per la croce svitabile. Quand’ero chierichetto, noi avevamo sempre dovuto trascinarci dietro la croce intera, ed era sempre stato un problema sistemarla in automobile senza rompere qualche vetro o far cadere il cilindro dalla testa di qualcuno. Sapevo anche di alcune comunità rurali in cui si usava ancora la vecchia croce tutta d’un pezzo. Lui mi nominò la ditta, io ne presi nota sul mio biglietto di ritorno, poi ci scambiammo delle osservazioni sul perché si restasse ancora fedeli a questi panini molli. Gli dissi che già da bambini li chiamavamo «pappa del merlo con maionese», sia che fossimo venuti qui come persone in lutto che come chierici, oppure, cosa che avveniva di frequente, come chierici in lutto. Non corrispondeva più allo stile del tempo, ci sarebbero voluti dei «toast Haway» o qualcosa di simile, e poi sherry e non cognac, e non pellicce di persiano ma di visone, e invece di quel miserabile caffè (perché doveva essere sempre e dovunque così cattivo?) si sarebbe dovuto servire il moca, che a volte riusciva un caffè veramente buono.

Guardai il mio biglietto di ritorno, dove mi ero segnato i vari treni: ore 14,22, 15,17 e poi solo 17,03, adesso erano esattamente le undici, e se volevo portar con me Margret, se stasera dopo trentaquattro anni volevo sfiorare i suoi capelli dovevo certo fermarmi ancora un po’, a rischio di ritrovare un compagno di scuola tra quelli con la sciarpa biancorossa o addirittura tra gli appartenenti a un ordine cavalleresco: uno di loro mi avrebbe urlato nell’orecchio, in greco, s’intende, i versi iniziali dell’Odissea, per dimostrare che la sua educazione umanistica non era poi passata senza lasciar tracce; un altro, benché la licenza liceale l’avessimo ormai presa da trent’anni, senza che da allora ci fossimo più visti, mi avrebbe annoiato, supponendo che io fossi d’accordo con lui, lamentandosi della civiltà moderna, dei suoi figli viziati, dei socialdemocratici, della decadenza morale in genere, mi avrebbe raccontato che il lavoro professionale gli stava rovinando la salute, mentre la sua terza o quarta casa d’affitto, causa questa maledetta inflazione, diventava sempre più cara. Tutto questo ero disposto ad accettarlo. Conoscevo queste conversazioni funeralizie a cui partecipavo non come parente o amico in lutto, ma per ragioni di lavoro. In fondo ho anche una rappresentanza di pietre tombali, e il mio cilindro fa parte della mia tenuta da lavoro, e posso detrarlo dalle tasse. Ma la cosa non sarebbe poi andata tanto per le lunghe, se non il treno delle 14,22, avremmo ancora preso quello delle 15,17.

Ebbi fortuna: fu Bertholdi a sedersi accanto a me. Ricordai che in otto anni di scuola non avevo scambiato con lui neanche quaranta parole. Non c’era stata occasione, ecco, e adesso avevo motivo di dolermene. Bertholdi era molto simpatico, non aveva quell’espressione acidulo-amara che sembra inevitabile, all’inizio dell’ultimo terzo della loro vita, tanto in uomini di successo quanto in quelli che non l’hanno avuto. S’interessò del mio lavoro, e quando gli dissi che già da parecchio tempo commerciavo in articoli religiosi mi disse che, nell’era postconciliare, doveva essere abbastanza difficile. Gli confermai che, nell’insieme, c’era stato un calo, ma gli parlai anche di una certa ripresa, e quando lui domandò «Lefebvre?» gli accennai di sì ma insieme feci anche un cenno di diniego. La sua intelligente domanda poteva avere una risposta solo parzialmente affermativa. Gli spiegai che, anche a parte il signore da lui nominato, c’era un ritorno alla tradizione che si esprimeva in cilindri, strascichi, prime comunioni, cresime e matrimoni celebrati in stile alto-borghese, cosa che indirettamente favoriva la vendita di oggetti devozionali moderni, ad esempio copie di icone artigianalmente ben fatte, e in genere ogni sorta di roba orientale.

Poiché parlava in maniera così simpatica di sua moglie e dei suoi figli, gli raccontai spontaneamente che, insieme con alcuni colleghi, stavo per aprire un nuovo mercato alle nostre buone riproduzioni di icone: l’Unione sovietica, che noi, illegalmente, è ovvio, rifornivamo di eccellenti riproduzioni che laggiù, incollate su legno vecchio e magari tarlato, venivano ritoccate da valenti artigiani e trovavano un buono smercio. Parecchie di quelle icone, dato che artisti, artigiani e mercanti preferivano valuta estera, tornavano a noi tramite il mercato nero per turisti. Vi dava il suo contributo, anche se non partecipava direttamente ai profitti, un’organizzazione intitolata «Immagini per la Chiesa orientale». Troppi cittadini sovietici, in tutte le varie repubbliche, avevano svenduto le loro icone di famiglia e adesso, in piena ondata religiosa, si trovavano senza immagini. Poi, nervoso perché Margret non si era ancora data pace mettendosi seduta, raccontai a Bertholdi l’aneddoto, ormai classico nel nostro ramo, di un collega ormai morto da un pezzo, che a suo tempo, confidando nella ripresa religiosa durante la prima guerra mondiale, si era trovato con circa diecimila ritratti invenduti di Benedetto XV e non aveva avuto la forza né finanziaria né fisica di toccar la sponda dei due lunghi pontificati dei due Pii. Alla domanda di Bertholdi, se ancora adesso avrei investito molto su Paolo VI, risposi: — Come uomo d’oggi forse sì, come venditore di articoli devozionali no —. E aggiunsi che l’unico papa che fosse andato forte anche dopo la morte era Giovanni XXIII.

Bertholdi mi ringraziò di averlo iniziato alle «sottigliezze» del mio lavoro e mi ricambiò con confidenze autobiografiche. Era «consigliere superiore governativo» nel campo scolastico, non si lagnò né dei suoi figli né della gioventù odierna, parlò con amore di sua moglie, mi prospettò ridendo la propria pensione con tutti gli aumenti e le detrazioni probabili. Mi disse che sperava, che sperava veramente di andare in pensione prima del tempo per poter finalmente leggersi in pace Proust, e anche Henry James. Finalmente Margret venne a sedermisi accanto, accennò a una cameriera, con un bricchetto di moca, di venire da me, mi posò la mano sul braccio e disse: — Ricordo quanto tu detesti il caffè cattivo, — e, non ritirò la mano, — un momento fa, mentre ti vedevo là in piedi, mi è venuto in mente, dopo tanti anni mi è venuto in mente che Josef non ha mica maledetto Dio.

— No, — risposi, — ha maledetto solo i maledetti da Dio. E quella maledizione fu la benedizione che ci lasciò.

Willi Offermann, che sedeva di fronte a noi accanto al parroco, tentò di provocarmi parlando di Gerusalemme, del Santo Sepolcro, e di gente che non aveva nessuna religione eppure ne viveva lautamente. Alludeva a me o ai venditori di articoli religiosi di Gerusalemme? Non ho nessuna religione io, e ne vivo lautamente? Due domande che mi riempirono di dubbi. Ne vivevo, sì, della religione, ma non così lautamente come lui sembrava credere, nemmeno la mia rappresentanza di pietre tombali rendeva molto, benché io abbia da offrire un designquanto mai moderno e buone pietre africane; e talvolta, quando esaminavo un nuovo assortimento di rosari (che non erano più un affare, almeno adesso, nonostante Lefebvre), mi accadeva di trattenerne uno in mano e recitarlo da cima a fondo. Per non tener sempre gli occhi su Margret, che si era alzata un’altra volta per indirizzare un cameriere, con pane sanguinaccio e cipolla, là dove sedeva effettivamente zia Marga, guardai la moglie di Offermann, che sedeva accanto al parroco e che, chinandosi al di là del prete, cercava di calmare il marito, il quale improvvisamente aveva alzato la voce e inveiva contro le «canaglie rosse», invettive insensate, perché erano trentun anni che non mi vedeva e non poteva sapere se io ero rosso o verde. Per di più, un minimo di logica avrebbe dovuto dirgli che nessun venditore di articoli religiosi dotato di buon senso, e io ne ero dotato, avrebbe mai votato per un partito che non avesse una C. Una cosa talmente ovvia, che si sarebbe potuto risparmiare le sue provocazioni avventate. Io mi comportai come se l’allusione non potesse riguardarmi in alcun modo e sorrisi a sua moglie, una donna così carina che lui certo non se la meritava.

Poi di nuovo Margret accanto a me, che mi versò il moca e si ricordava ancora che ci prendevo insieme la panna montata. Ne aveva portato un piattino pieno. Margret odorava di sapone, di lozione per il viso e di sudore, un odore che captai come cosa familiare, anche se a pensarci bene era impossibile che lo fosse. Era come se fossimo vissuti insieme per tutti questi trentaquattro anni, i suoi anni diventavano i miei, un comune memoriale del tempo: alcune cose mancate, ma nulla di perduto. La trovai molto più bella che in quella notte di giugno. Non era mai stata quello che si dice una bellezza, dava sempre l’impressione di una ragazza che era sudata per essere corsa troppo in bicicletta, e sì che in bicicletta non ci era andata mai. Mentre la guardavo, diventò sempre più giovane, finché la vidi giocare a palla sul sentiero tra le nostre due case, accaldata, appassionata, eppure silenziosa. Tuttavia fu la prima e unica donna dalla cui bocca io avessi sentito la parola «diserzione». Mi tenne la mano sul braccio, e Offermann diventò ancora più eccitato, profetizzò sciagure, parve rendere responsabile me, me personalmente, della simultanea decadenza della fede e dei costumi, e nemmeno quando parlò di mio fratello Josef («Eh, se vivesse ancora tuo fratello Josef, ma sono sempre i migliori a cadere») mi lasciai provocare, rispondendogli ad esempio: neanche tu però sei caduto. E così Margret, che impallidì mentre la mano sul mio braccio le tremava. Alla fine Offermann se la prese col parroco, che definì troppo passivo, e fui io, proprio io, che per calmarlo gli sussurrai al di là del tavolo i versi iniziali dell’Odissea. La cosa ebbe effetto: il suo volto si distese e sua moglie mi sorrise con gratitudine; il parroco ne fu sollevato. Io avevo già dato un’occhiata all’ora, constatando ch’erano appena le dodici e che avremmo ancora preso il treno delle 14,22. Mentre recitavo Omero pensai al caffè pomeridiano in treno, pensai al vagone ristorante pieno zeppo che adesso viaggiava verso la roccia della Loreley e dove probabilmente servivano ancora, come unico dolce, il baumkuchen, ch’era roba da strozzarti. Ma era parecchio tempo che al pomeriggio non viaggiavo in carrozza ristorante, ricordavo solo che a Margret piaceva quella maledetta torta. Quella volta, nel treno per Sinzig, mi aveva detto che le ricordava una sua zia morta, a cui era molto affezionata. Feci un cenno alla cameriera e la pregai di chiamarmi un taxi per le ore 13,45.

 

Utopie tedesche, I:
per Helmut Gollwitzer l’instancabile

 

1. Günter Grass, invitato a prendere il caffè dalla famiglia Strauss, s’incontra nell’uscire in Rudi Dutschke. La padrona, il padrone di casa e i loro figli gridano a Grass che esce e a Dutschke che entra: — Il socialismo ha vinto —. Dutschke corregge: — Non ha vinto ilsocialismo, ma un socialismo —. Ci si scambiano abbracci, scorrono lacrime, fiumi di caffè, straripa molta simpatia, mentre Dutschke, non riuscendo a spezzettare col cucchiaio certi dolci di pasta lievitata, si decide a farlo senz’altro con le mani. I figli di casa chiedono notizie di Hosea Che. Nella camera accanto, quasi intimiditi, aspettano Tandler, Kiesl e Spranger: hanno appena messo insieme un opuscolo in cui si smaschera Lattmann come deviazionista di destra. Si aspettano un elogio, almeno un riconoscimento, foss’anche solo un colpetto sulla spalla, ci terrebbero tanto a essere inclusi in quella cerchia sempre più cordiale. Dutschke, commosso dalla loro trepidazione, li prega di entrare. Tandler scoppia in lacrime, a Kiesl e a Spranger s’inumidiscono soltanto gli occhi.

 

2. Nel quadro di nuove leggi antiterroristiche, per impedire che soffiate calde finiscano su liste fredde viene introdotta un’istituzione che più tardi verrà chiamata «Termometro vivente delle soffiate»: a tutte le telefonate e denunce anonime vengono immediatamente collegati dieci psicologi e acustologi, che devono valutare se quella soffiata debba essere considerata calda o fredda. La possibilità che soffiate calde finiscano su liste fredde è così irrilevante che non la si prende in considerazione.

 

3. Persino moderatori, commentatori, redattori dalla lingua assai sciolta ci mettono un po’ di tempo per abituarsi alla parola eteropterocrazia. Da quando c’è la legge che abolisce la sfera privata, da quando ciascuno può, anzi deve spiare il prossimo, i cittadini della Repubblica federale sono caduti in preda alla noia: persino spiare quanto c’è di più intimo nella sfera intima non provoca ormai che sbadigli. Perciò i cittadini hanno cominciato a spiare se stessi: nasce così l’eteroptero internista, volgarmente detto l’elicottero dell’anima. La spiata-lampo contro se stessi è ormai di moda. Ma da quando nessuno ha più segreti, nemmeno di fronte a se stesso, si diffonde una sorta d’irrigidimento psichico che provoca un forte calo di rendimento. Lo slogan «Ciò che la flora intestinale è per la digestione, lo sono i segreti per l’anima» schiude le porte a un nuovo mercato: il commercio dei segreti. La vendita dei segreti dà un incremento temporaneo all’economia, ma provoca una grave crisi nei servizi segreti. Non solo non c’è più nessuno che abbia dei segreti, ma addirittura i segreti sono scomparsi. Tuttavia il cardinale Höffner confida pubblicamente un segreto a Dorothee Sölle: lui è sempre stato per il socialismo. Dorothee Sölle, da tempo collaboratrice esterna del «Rheinischer Merkur» (ha rifiutato un’offerta della «Kölnische Rundschau» con le parole «No, non fino a questo punto!»), pregata dal cardinale, svela il segreto in quella sede. Ci sono ancora dei cattolici che ci si arrabbiano.

 

4. Ormai è deciso: le torri del duomo di Colonia verranno demolite. Beuys, responsabile dell’impresa come incaricato culturale del Land Renania settentrionale e Vestfalia, vi fa partecipare la popolazione di Colonia. Ispirandosi alla Costruzione della torre di Babele di Breughel, fa costruire delle stabili rampe spiraliformi, su cui si può salire senza pericolo fino in cima alle torri, per poi ridiscendere portando ciascuno due pezzi di muratura. Uno di questi ciascuno può conservarlo come ricordo, l’altro servirà a edificare «un libero seminario cattolico per il perfezionamento della teologia e l’abolizione dei dogmi». Si forma un’associazione per la «ricostruzione del duomo». Si sente odor di combriccola.

 

5. Il regime sovietico, fin qui solo interessato al denaro e ai confini, chiede aiuto spirituale al governo della Germania federale. Nell’Unione sovietica si sono formati due partiti che, con le solite abbreviazioni semplicistiche, vengono chiamati «I religiosi» e «I non religiosi». Il portavoce dei «Religiosi» è un alto funzionario del partito, quello dei «Non religiosi» un patriarca della chiesa ortodossa. Naturalmente non è che il funzionario del partito sia religioso né che il patriarca sia non religioso, e non è nemmeno semplicemente il contrario: la cosa, come sempre, è molto più complicata. I religiosi vogliono far di nuovo dell’ortodossia la religione di Stato, cosa che i non religiosi rifiutano. Il disorientamento occidentale di fronte ai problemi sovietici aumenta sempre più. Comunque: il regime sovietico, visto che non si fida dei Polacchi né dei Cechi, e tanto meno dei Tedeschi della Ddr (i quali, una volta ancora, non sanno come giudicare questo nuovo corso!), chiede consiglio al governo della Repubblica federale. Il quale governo, alla fine, prega Helmut Gollwitzer, cui conferisce la qualifica di ambasciatore straordinario, di assistere il regime sovietico. Il risultato viene atteso con estremo interesse. L’industria tedesca di articoli devozionali già riceve crediti d’investimento. Gollwitzer, a Mosca, è esposto a massicci tentativi di ricatto da parte di affaristi e intrallazzatori occidentali. Ma lui resiste. Religioso com’è, sta dalla parte dei non religiosi. Un uomo politico tedesco, di solito considerato un pragmatista, gli ha affidato un incarico speciale segreto: portare all’Ovest frammenti, bacilli, batteri dell’«anima russa» per rianimare la scena tedesca, ormai così senz’anima.

 

Utopie tedesche, II:
per Grieshaber

 

1. Coppik diventa ministro federale, Horst Mahler ministro degli interni regionale del Land Renania settentrionale e Vestfalia; Rudi Dutschke viene nominato segretario di Stato di Mahler contro il voto del capo dell’opposizione Rau, per il quale Dutschke è troppo conservatore. Coppik e Mahler fondano insieme un gruppo di lavoro che acquista notorietà nella pubblicistica della Repubblica federale come «gruppo anti-estensione». Varie leggi promulgate un po’ troppo in fretta si sono dimostrate eccessivamente estensibili. Il corpo legislativo viene preso da una vera febbre anti-estensione: leggi sulle pensioni, il «paragrafo sulla violenza», il decreto del presidente del consiglio (comunemente noto come Radikalenerlass), tutto viene sottoposto a un processo anti-estensivo. In Baviera si sono levate voci che invocano insegnanti di orientamento marxista, in altri Länder (ad esempio in Assia) si desiderano maestri (e maestre) cristiani anziché cristiano-democratici. L’immagine del «tedesco cattivo» è scomparsa dalla scena internazionale, la Repubblica federale è considerata un Paese progressista.

 

2. Le centrali atomiche, spogliate dei loro nuclei pericolosi, vengono lasciate visitare liberamente, si trasformano in scuole, dato che ormai le si considera «mostri di una sviata e deviante ideologia dello sviluppo»; la popolazione viene invitata ad affrescare quegli enormi cubi di calcestruzzo. I ministeri dell’economia, delle scienze e della pubblica istruzione si contendono il finanziamento del materiale per dipingere. Si addiviene a un compromesso del 40-40-20 a favore del secondo e terzo ministero. I mostri diventano popolari mete d’escursioni, si organizzano tavole calde e luoghi per picnic.

 

3. Dopo che l’esame di coscienza per i renitenti alla leva è stato introdotto, abolito, reintrodotto, di nuovo abolito, finalmente lo si è introdotto ancora una volta dopo che si è dovuto constatare che nemmeno la disoccupazione, tuttora presente, riesce a colmare di volontari le file della Bundeswehr. Il vecchio esperto militare Wörner deplora questa gioventù ch’egli definisce «disarmata», ma poi si corregge dicendo che intendeva dire «favorevole al disarmo». In Olanda viene introdotto l’esame di coscienza per coloro che si vogliono arruolare nell’esercito, dopo che un ex renitente alla leva è stato nominato ministro della difesa.

 

4. Il vecchio capo dell’opposizione Kohl scrive un romanzo a chiave dedicato agli uomini politici. Ha i suoi problemi per lo straniamento, i suoi grattacapi per le nomenclature. Si fa consigliare da uno scrittore, il quale gli spiega che è troppo grossolano trasformare Barzel in Harzel, o Kohl in Hohl, Wohl, Mohl, Sohl oppure Pohl, fare di Carstens Martens o di Strauss (=struzzo) Uccello della steppa o addirittura Trauss. L’associazione fonica tra un nome e l’altro, sostiene l’esperto, è irrilevante, quello che conta è la caratterizzazione. Consigliabile anche il cambiamento di sesso. In tal modo Scheel diventa una signora a cui si dà il nome di Akshusen; anche Brandt diventa una lady di nome Logwiesen. Si legge Proust; si fanno passeggiate al cimitero, si prospettano e rigettano nomi. Si consiglia invece a Kohl di usare il nome Schmidt per mascherare quello di Schmidt (lui aveva previsto Schmitz!). Si cambiano anche le confessioni religiose: Schmidt e Carstens diventano cattolici, Strauss diventa protestante (e ci si accorda di dargli il nome di Krusbühl), Wehner diventa riformato (nome proposto: Trohspehl). Il romanzo dovrà avere un lieto fine, tutti i personaggi della vicenda, anche se politicamente ostili, diventano amici personali e cantano in coro, nel giardino di una birreria, «Se anche tutti diventassero infedeli, noi saremo fedeli in eterno».

 

5. Dregger, tuttora (o di nuovo) capo dell’opposizione nell’Assia, propone di intitolare a Rosa Luxemburg l’università di Francoforte. Al partito socialdemocratico, che si rifiuta di appoggiare la sua proposta, lancia l’accusa di aver tradito il marxismo. Al Parlamento di Wiesbaden si giunge a scandalosi alterchi.

 

6. Klaus Staeck si dedica ormai completamente a un soggetto a cui Grieshaber è riuscito a interessarlo: si occupa esclusivamente di Madonne, è quasi diventato un madonnologo (alcuni lo giudicano addirittura un madonnomane!) Entra nell’ordine francescano, il saio gli sta sorprendentemente bene. In povera cella poveramente nutrito, si dedica per intero alla signora da lui fin lì del tutto misconosciuta, le cui raffigurazioni egli cerca di inserire in un sistema di coordinate sociologico-storico-estetiche. Grieshaber, a cui il saio non donava (vestito così, sembrava troppo autentico), lo convince a intraprendere con lui un pellegrinaggio alla Madonna di Cluxambuqua, che Grieshaber ritiene sia la Madonna proletaria. A Cluxambuqua succede una cosa che mette in imbarazzo Staeck e fa scoppiare Grieshaber in una risata di trionfo: Staeck viene miracolato! Diventa infatti ciò che, nonostante il saio e le Madonne, non era ancora: cattolico, mentre Grieshaber, nonostante il miracolo, rimane protestante. I due spediscono insieme un identico telegramma a Beuys e al «Bayernkurier»: SCONVERTITOTESTIMONE: G. Sulla scena della Germania federale, grandissimo scompiglio.