venerdì 1 ottobre 2021

IL LIBRO DELL'INQUIETUDINE Fernando Pessoa

 


         

IL LIBRO DELL'INQUIETUDINE

Fernando Pessoa

[...]Nella vita odierna il mondo appartiene agli stolti e agli indifferenti. Oggi il diritto di vivere e di trionfare si ottiene con gli stessi requisiti con cui si ottiene il ricovero in un manicomio: l’incapacità di pensare, l’amoralità e l’eccessiva agitazione. [...]


IL LIBRO DELL’INQUIETUDINE
Prima fase


1 (90)
Penso a volte che non uscirò mai da questa Rua dos Douradores. E se lo scrivo, mi sembra l'eternità.
2 (124) Il viaggio dentro la testa
Dal mio quarto piano sull'infinito, nella plausibile intimità della sera che sopraggiunge, a una finestra che dà sull'inizio delle stelle, i miei sogni si muovono con l'accordo di un ritmo, con una distanza rivolta verso viaggi a paesi ignoti, o ipotetici, o semplicemente impossibili.
3 (81)
Oggi, in uno di quei vaneggiamenti senza motivo e senza dignità che costituiscono in gran parte la sostanza spirituale della mia vita, mi sono immaginato libero per sempre da Rua dos Douradores, dal signor Vasques, mio principale, dal contabile Moreira, da tutti gli impiegati, dal garzone, dal fattorino e dal gatto. Ho sentito in sogno la mia liberazione come se i Mari del Sud mi avessero offerto delle isole meravigliose da scoprire. Sarebbe allora la quiete, l'arte riuscita, il compimento intellettuale del mio essere.
Ma all'improvviso, nel bel mezzo della fantasticheria che stavo inseguendo nel caffè, durante la mia modesta vacanza meridiana, un sentimento di scontento è sceso sul mio sogno. Ho sentito che ne avrei provato rincrescimento. Sì, lo dico con una certa solennità: ne avrei provato rammarico. Il signor Vasques, il contabile Moreira, il cassiere Borges, tutti questi bravi ragazzi, il giovanotto allegro che va a spedire la posta, il fattorino che si occupa di tutte le commissioni, il gatto affettuoso: tutto questo è diventato parte della mia vita; non potrei lasciare tutto questo senza piangere, senza capire che, nonostante mi sembrasse insopportabile, era una parte di me che restava con tutti loro, che il separarmi da loro era una dimidiazione e che somigliava alla morte.
Inoltre, se domani mi allontanassi da tutti loro e mi spogliassi di questi panni di Rua dos Douradores, a quale altra cosa mi avvicinerei (perché a un'altra cosa dovrei pure avvicinarmi); quali altri panni indosserei (perché altri dovrei pure indossare)?
Per tutti noi c'è un signor Vasques, per alcuni visibile, per altri invisibile. Per me si chiama veramente Vasques ed è un uomo sano, garbato, talvolta brusco ma senza doppiezza, egoista ma in fondo giusto, con una sua giustizia che manca a molti grandi geni e a molte meraviglie della civiltà umana di destra e di sinistra. Per molti c'è la vanità, l'ansia di maggior ricchezza, la gloria, l'immortalità... Io preferisco il signor Vasques in carne e ossa mio padrone, che nei momenti di difficoltà è più disponibile di tutti i padroni astratti del mondo.
L'altro giorno un amico, socio di una ditta florida che fa affari con lo Stato, ha notato che il mio stipendio è basso. "Lei si fa sfruttare, Borges,"2 mi ha detto. La sua osservazione mi ha fatto pensare che mi lascio effettivamente sfruttare; ma siccome nella vita tutti dobbiamo essere sfruttati, mi domando se non sarà meglio essere sfruttato da un Vasques dei tessuti piuttosto che dalla vanità, dalla gloria, dal dispetto, dall'invidia o dall'impossibile.
 
Ci sono uomini che sono sfruttati perfino da Dio: sono profeti e santi, nella vacuità di questo mondo.
E rientro, come altri rientrano nella loro famiglia, nella casa altrui, nell'ampio ufficio di Rua dos Douradores. Mi avvicino alla mia scrivania come a un baluardo che mi difende dalla vita. Sento tenerezza, tenerezza fino alle lacrime, per i miei libri di altri nei quali faccio i conti, per il calamaio vecchio, per le spalle curve di Sergio che poco più in là prepara bollette d'accompagnamento. Sento affetto per tutto questo, forse perché non ho più niente da amare: o forse anche perché niente merita l'amore di un'anima; e se dobbiamo dare amore per sentimentalismo, è indifferente se lo riserviamo alle piccole sembianze del calamaio o alla grande indifferenza delle stelle.
4 (114)
Senza nulla di più di ciò che un sorriso rappresenta per l'anima, così, con serenità, considero il chiudersi continuo della mia vita in questa Rua dos Douradores, in questa stanza, nell'ambiente di queste persone. Avere ciò che basta al mio sostegno, un tetto, quel poco spazio nel tempo di libertà per il sogno; scrivere, dormire: cosa altro potrei chiedere agli Dei o volere dal Destino?
Ho avuto grandi ambizioni e sogni turgidi - ma i sogni li hanno avuti anche il garzone e la sartina, perché tutti sognano. Quello che distingue le persone le une dalle altre è la forza di farcela, o di lasciare che sia il destino a farla a noi.
Nei miei sogni sono uguale alla sarta e al garzone. Sono diverso da loro solo perché scrivo. Sì, la scrittura è un atto, una mia realtà che mi contraddistingue. Ma nell'anima sono simile ad essi.
So perfettamente che esistono isole del Sud e grandi passioni cosmopolite e [...]. Sono sicuro che se tenessi il mondo in pugno lo scambierei con un biglietto per Rua dos Douradores.
Forse la mia sorte è di essere un contabile in eterno; e la poesia o la letteratura una farfalla che posandosi sulla mia testa mi rende tanto più ridicolo quanto maggiore è la sua bellezza.
Avrò nostalgia di Moreira. Ma cosa è la nostalgia in confronto alle vertigini dell'ascensione?
So perfettamente che il giorno in cui diventerò contabile dell'Impresa Vasques e C. sarà uno dei grandi giorni della mia vita. Me ne rendo conto con una previsione amara e ironica, e con il privilegio intellettuale della certezza.
5 (91)
Il principale, il signor Vasques. Sento spesso, inspiegabilmente, l'ipnosi del signor Vasques. Ma che cosa è per me quest'uomo, oltre all'ostacolo occasionale di essere padrone delle mie ore, nello spazio diurno della mia vita? Mi tratta con simpatia, mi si rivolge con gentilezza, salvo che in certi inaspettati momenti di preoccupazione, allorché non è gentile con nessuno. Sì, ma perché mi preoccupa? È un simbolo? È una ragione? Cosa è?
Il principale, il signor Vasques. Ho già il suo ricordo proiettato nel futuro con la nostalgia che proverò allora. Io allora vivrò in pace in una casetta alla periferia di qualcosa, godendomi una tranquillità in cui non dovrò fare il lavoro che comunque anche ora non faccio e cercando, per continuare il mio non fare niente, scuse diverse da quelle con le quali oggi evito il confronto con me stesso. Oppure sarò ricoverato in un ospizio per poveri, pago della mia completa sconfitta e confuso fra quei relitti umani che pensavano di essere geniali e invece erano solo mendicanti carichi di sogni; io, insieme alla massa anonima di coloro che non ebbero la forza per vincere e neppure la generosa rinuncia per vincere alla rovescia. Dovunque sia, proverò nostalgia per il principale, il signor Vasques, per questa stanza di Rua dos Douradores. E la monotonia della vita quotidiana sarà per me come il ricordo degli amori che non ebbi, o dei trionfi che non sarebbero stati miei. Il principale, il signor Vasques. Oggi lo vedo da quell'allora, come lo vedo oggi esattamente da qui: statura media, tarchiato, rozzo, con le sue doti e i suoi limiti, franco e astuto, brusco e affabile, un padrone, oltre che per i suoi soldi, anche per quelle sue mani villose e lente, dalle vene sporgenti come piccoli muscoli colorati, col collo robusto ma non grasso, con le guance colorite eppure lisce sotto la barba scura sempre accuratamente rasata. Lo vedo, vedo i suoi gesti lenti ed energici, i suoi occhi che portano dentro di lui le cose dell'esterno; colgo il turbamento del momento in cui mi disapprova, e il mio animo si rallegra per un suo sorriso, un sorriso vasto e umano, come l'applauso di una folla. Forse sarà perché non ho vicino a me una figura più importante del signor Vasques che, spesso, questa figura comune e perfino volgare mi si inserisce nella mente e mi distrae da me stesso. Credo che egli sia un simbolo. Credo, sono quasi certo, che da qualche parte, in una vita remota, quest'uomo sia stato nella mia vita qualcosa di più importante di ciò che oggi non sia. 6 (155) Ah, ho capito! Il signor Vasques è la Vita. La Vita, monotona e imprescindibile, legiferante e sconosciuta. Quest'uomo banale rappresenta la banalità della Vita. Egli, all'esterno, è tutto per me, perché la Vita per me è tutta all'esterno. E se l'ufficio di Rua dos Douradores per me rappresenta la Vita, questo secondo piano dove alloggio, nella stessa Rua dos Douradores, rappresenta per me l'Arte. Sì, l'Arte che alloggia nella stessa strada della Vita, però in un luogo diverso; l'Arte che allevia dalla Vita senza alleviare dal vivere, e che è tanto monotona quanto la vita, ma soltanto in un luogo diverso. Sì, questa Rua dos Douradores abbraccia per me l'intero senso delle cose, la soluzione di tutti gli enigmi, posto che esistano enigmi; fatto, questo, che non può avere soluzione. 5.4.1930   7 (63) 8 (153) Sono entrato dal barbiere con la disposizione consueta, col piacere che mi dà il fatto di poter entrare senza imbarazzo nei luoghi conosciuti. La mia sensibilità al nuovo è terribile: mi sento calmo solo nei luoghi in cui sono già stato. Mentre mi accomodavo sulla poltrona mi è venuto fatto di domandare al garzone che mi stava collocando intorno al collo un lino freddo e pulito, come stesse il suo collega che serviva alla poltrona accanto, quel tipo spiritoso, più anziano di lui, che era malato. Glielo ho domandato senza che mi premesse sapere: è stata una domanda suggerita dal luogo e dal ricordo. "È morto ieri," mi ha risposto senza tono la voce che stava dietro di me e le cui dita stavano finendo di inserire l'asciugamano fra la mia nuca e il mio colletto. Tutto il mio immotivato buonumore è svanito all'improvviso, come il barbiere della poltrona accanto assente per l'eternità. È sceso il freddo sui miei pensieri. Non ho detto niente. Nostalgia! Ho nostalgia perfino di ciò che non è stato niente per me, per l'angoscia della fuga del tempo e la malattia del mistero della vita. Volti che vedevo abitualmente nelle mie strade abituali: se non li vedo più mi rattristo; eppure non mi sono stati niente, se non il simbolo di tutta la vita. Il vecchio anonimo dalle ghette sporche che mi incrociava quasi sempre alle nove e mezzo del mattino? Il venditore zoppo dei biglietti della lotteria che mi seccava senza successo? Il vecchietto tondo e rubizzo, col sigaro in bocca, che sostava sulla porta della tabaccheria? Il pallido tabaccaio? Cosa ne sarà di tutti costoro che, solo per averli sempre visti, hanno fatto parte della mia vita? Domani anch'io scomparirò da Rua da Prata, da Rua dos Douradores, da Rua dos Fanqueiros. Domani anch'io - l'anima che sente e pensa, l'universo che io sono per me stesso - sì, domani anch'io sarò soltanto uno che ha smesso di passare in queste strade, uno che altri evocheranno vagamente con un "che ne sarà stato di lui?". E tutto quanto ora faccio, quanto ora sento e vivo non sarà niente di più che un passante in meno nella quotidianità delle strade di una città qualsiasi. Il socio più importante di questa ditta, quello che ha più soldi, che è sempre malato in un luogo imprecisato, ha voluto, non so per quale capriccio di un intervallo della malattia, avere una fotografia di gruppo del personale dell'ufficio. E così, ieri l'altro, ci siamo schierati tutti in posa, su indicazione dell'allegro fotografo, contro il tramezzo bianco-sporco che divide, con il fragile legno, l'ufficio comune dal gabinetto del signor Vasques. Il signor Vasques stava al centro; ai due lati, in una distribuzione prima definita, poi casuale di categorie, le altre anime umane che ogni giorno riuniscono in questo luogo i loro corpi per attendere a piccoli doveri di cui solo il segreto degli Dei conosce l'ultimo scopo. Oggi, quando sono arrivato in ufficio, un po' tardi e in realtà già dimentico dell'avvenimento statico della fotografia scattata due volte, ho trovato Moreira, inaspettatamente mattutino, e uno degli impiegati di banco, golosamente chini su delle cose annerite che ho subito riconosciuto con un trasalimento come le prime prove delle fotografie. Invece erano soltanto due copie della stessa fotografia, quella che era venuta meglio. Ho patito la verità di vedermi lì, dato che, come è naturale, ho cercato per primo me stesso. Non ho mai avuto un'idea nobile della mia presenza fisica, ma mai l'avevo sentita così insignificante come in confronto agli altri visi, che conoscevo così bene, in quella fila di persone di ogni giorno. Sembro un gesuita smunto. Il mio viso magro e inespressivo non possiede intelligenza né intensità, né una cosa qualsiasi che lo faccia emergere dalla marea morta degli altri visi. O meglio, non è una marea morta. Vi sono dei volti veramente espressivi. Il signor Vasques è esattamente com'è: la larga faccia gioviale e dura, lo sguardo fermo, i baffi rigidi che danno il tocco finale. L'energia, la furbizia di quell'uomo (tutto sommato così banali e così spesso riprodotte in tante migliaia di uomini in tutto il mondo) sono scritte in quella fotografia come in un passaporto psicologico. I due commessi viaggiatori sono stupendi; il commesso del banco è venuto bene ma è rimasto quasi nascosto da una spalla di Moreira. E Moreira! Il mio superiore Moreira, essenza della monotonia e della continuità, è molto più vivo di me! Perfino il garzone (me ne accorgo senza poter reprimere un sentimento che cerco di supporre non sia invidia) possiede una sicurezza di lineamenti, un'espressione diretta che è a migliaia di sorrisi di distanza dal mio squallore insignificante da sfinge di cartoleria. Che cosa significa tutto ciò? Qual è mai questa verità che una pellicola sa afferrare? Qual è questa certezza che una fredda lente documenta? Chi sono io per essere così? Tuttavia... E l'insulto dell'insieme? "Lei è riuscito benissimo in fotografia," dice ad un tratto Moreira. E poi interpella il commesso di banco, "È proprio lui tale e quale, non trova?". E l'impiegato di banco annuisce subito con un'allegria amichevole che mi riduce a spazzatura. 9 (27) La mia anima è una misteriosa orchestra; non so quali strumenti suoni e strida dentro di me: corde e arpe, timballi e tamburi. Mi conosco come una sinfonia. 10 (28) 1.12.1931 All'improvviso oggi ho dentro una sensazione assurda e giusta. Ho capito, con una illuminazione segreta, di non essere nessuno. Nessuno, assolutamente nessuno. Nel balenìo del lampo quella che avevo creduto essere una città era una radura deserta; e la luce sinistra che mi ha mostrato me stesso non ha rivelato nessun cielo sopra di essa. Sono stato derubato dal poter esistere prima che esistesse il mondo. Se sono stato costretto a reincarnarmi, mi sono reincarnato senza di me, senza essermi reincarnato. Io sono la periferia di una città inesistente, la chiosa prolissa di un libro non scritto. Non sono nessuno, nessuno. Non so sentire, non so pensare, non so volere. Sono una figura di un romanzo ancora da scrivere, che passa aerea e sfaldata senza aver avuto una realtà, fra i sogni di chi non ha saputo completarmi. Penso in continuazione, sento in continuazione; ma il mio pensiero è privo di raziocinio, la mia emozione è priva di emozione! Da una botola situata lassù, sto precipitando per lo spazio infinito, in una caduta senza direzione, infinitupla e vuota. La mia anima è un maèlstrom nero, una vasta vertigine intorno al vuoto, un movimento di un oceano senza confini intorno ad un buco nel nulla, e nelle acque, che più che acque sono turbini, galleggiano le immagini di ciò che ho visto e sentito nel mondo: vorticano case, volti, libri, casse, echi di musiche e spezzoni di voci in un turbine sinistro e senza fondo. E io, proprio io, sono il centro che esiste soltanto per una geometria dell'abisso; sono il nulla intorno a cui questo movimento gira, come fine a se stesso, con quel centro che esiste solo perché ogni cerchio deve possedere un centro. Io, proprio io, sono il pozzo senza pareti ma con la resistenza delle pareti, il centro del tutto con il nulla intorno. E in me è come se l'inferno ridesse, senza neppure l'umanità di diavoli che ridono, la follia starnazzante dell'universo morto, il cadavere girante dello spazio fisico, la fine di tutti i mondi che fluttua oscuramente al vento, disforme, fuori del tempo, senza un Dio che l'abbia creata, senza neppure se stessa che sta girando nelle tenebre delle tenebre, impossibile, unica, tutto. Poter saper pensare! poter saper sentire! Mia madre è morta molto presto, ed io non l'ho conosciuta... 11 (29) Dare ad ogni emozione una personalità, ad ogni stato d'animo un'anima.   12 (67) 20.6.1931 Questa è una giornata nella quale mi pesa, come un ingresso in carcere, la monotonia di tutto. Ma la monotonia di tutto non è altro che la monotonia di me stesso. Ciascun volto, anche lo stesso che abbiamo visto ieri, oggi è un altro, perché oggi non è ieri. Ogni giorno è il giorno che è, e non ce n'è mai stato un altro uguale al mondo. L'identità è solo nella nostra anima (l'identità sentita con se stessa, anche se falsa), attraverso la quale tutto si somiglia e si semplifica. Il mondo è cose staccate e spigoli distinti; ma se siamo miopi, esso è una nebbia insufficiente e continua. Il mio desiderio è fuggire. Fuggire da ciò che conosco, fuggire da ciò che è mio, fuggire da ciò che amo. Desidero partire: non verso le Indie impossibili o verso le grandi isole a Sud di tutto, ma verso un luogo qualsiasi, villaggio o eremo, che possegga la virtù di non essere questo luogo. Non voglio più vedere questi volti, queste abitudini e questi giorni. Voglio riposarmi, da estraneo, dalla mia organica simulazione. Voglio sentire il sonno che arriva come vita e non come riposo. Una capanna in riva al mare, perfino una grotta sul fianco rugoso di una montagna, mi può dare questo. Purtroppo soltanto la mia volontà non me lo può dare. La schiavitù è la legge della vita, e non c'è altra legge perché questa deve compiersi, senza possibile rivolta o rifugio da trovare. Certuni nascono schiavi, altri diventano schiavi, ad altri ancora la schiavitù viene imposta. L'amore codardo che tutti noi proviamo per la libertà (libertà che, se la conoscessimo, troveremmo strana perché nuova, e la rifiuteremmo) è il vero indizio del peso della nostra schiavitù. Io stesso, che ho appena detto che desidererei una capanna o una grotta per essere libero dalla noia di tutto, che poi è la noia che provo per me, oserei forse andare in quella capanna o in quella grotta consapevole che, dato che la noia mi appartiene, essa sarebbe sempre presente? Io stesso, che soffoco dove sono e perché sono, dove mai respirerei meglio se la malattia è nei miei polmoni e non nelle cose che mi circondano? Io stesso, che ardentemente sogno il sole puro e i campi liberi, il mare visibile e l'orizzonte largo, chissà se mi adatterei al letto o al cibo o a non dover scendere otto rampe di scale per arrivare alla strada o a non entrare nella tabaccheria dell'angolo o a non scambiar il buongiorno con l'ozioso barbiere. Quello che ci circonda diventa parte di noi stessi, si infiltra in noi nella sensazione della carne e della vita e, quale bava del grande Ragno, ci unisce in modo sottile a ciò che è prossimo, imprigionandoci in un letto lieve di morte lenta dove dondoliamo al vento. Tutto è noi e noi siamo tutto; ma a che serve questo, se tutto è niente? Un raggio di sole, una nuvola il cui passaggio è rivelato da un'improvvisa ombra, una brezza che si leva, il silenzio che segue quando essa cessa, qualche volto, qualche voce, il riso casuale fra le voci che parlano: e poi la notte nella quale emergono senza senso i geroglifici infranti delle stelle. 13 (133) Penso spesso a come sarei se, protetto dal vento della fortuna e dal paravento della ricchezza, la mano onesta di mio zio non mi avesse mai condotto in un ufficio di Lisbona; e da quel luogo non fossi passato ad altri impieghi fino a raggiungere questa vetta a buon mercato di aiutante contabile, con un lavoro che è una specie di siesta e uno stipendio che mi permette di vivere. So bene che se quel passato che non fu fosse stato, io oggi non sarei l'uomo in grado di scrivere queste pagine indubbiamente più belle (perché almeno sono alcune pagine) di quella nessuna pagina che in circostanze più favorevoli avrei soltanto vagheggiato. Perché di fatto la banalità è una forma di intelligenza, e la realtà, soprattutto se è stupida o ingrata, è un complemento naturale dell'anima. Devo al fatto di essere un contabile una grande parte di ciò che posso sentire e pensare come negazione e fuga dai miei doveri. Se dovessi rispondere a un questionario sulla mia formazione letteraria scrivendo in uno spazio ideale che non prevede le lettere di risposta, aprirei lo spazio stellato con il nome di Cesario Verde, 3  ma non lo chiuderei senza includere i nomi del signor Vasques, di Moreira, l'altro contabile, di Vieira, il commesso, e di Antonio, il garzone. E per tutti costoro scriverei a lettere maiuscole l'indirizzo chiave: LISBONA. Perché infatti sia Cesario Verde che tutti costoro hanno apportato alla mia visione del mondo alcuni coefficienti di correzione. Mi pare che è questa l'espressione, di cui evidentemente ignoro il senso esatto, con la quale l'ingegneria designa il trattamento a cui è sottoposta la matematica affinché essa possa applicarsi alla vita. Se questo trattamento esiste, per me esso è avvenuto. Se non esiste, che sia inteso per ciò che potrebbe essere, e che la mia intenzione valga per la metafora fuori luogo. D'altronde, se con la chiarezza di cui sono capace rifletto sulla mia vita visibile, essa mi appare come una cosa colorata (la stagnola di un cioccolatino o l'anello di carta di un sigaro) che la spazzola leggera della cameriera che origlia al piano di sopra, sparecchiando la tavola, spazzola via insieme alle briciole e alle croste della realtà propriamente detta. [La vita] si stacca dalle cose la cui fine è identica, per un privilegio che abbraccia anche la spazzatura, mentre la conversazione degli dèi continua al di sopra dello spazzolare, indifferente agli incidenti di servizio del mondo. Sì: se io fossi stato ricco, vezzeggiato, spazzolato ed esornativo, non avrei potuto essere neppure quel breve episodio di graziosa carta fra le briciole; sarei rimasto in un vassoio della fortuna - "no, grazie" - e mi avrebbero riposto ad invecchiare sulla credenza. Così, buttato via dopo che hanno mangiato il mio midollo pratico, vado nella pattumiera con la polvere di ciò che rimane del corpo di Cristo, senza neppure immaginare ciò che sarà dopo, e fra quali astri; ma ci sarà pure un dopo. tutti. Esistono certe impressioni così vaghe che solo più tardi, quando ci ricordiamo di esse, sappiamo di averle avute; da queste impressioni, credo, è formata una parte (la parte interna, forse) di tale duplice attenzione di ogni uomo. Nel mio caso le due realtà a cui attendo hanno uguale importanza. In ciò consiste la mia originalità. In ciò consiste, probabilmente, la mia tragedia - e la sua commedia. Curvo sul libro nel quale traccio per bilanci la storia inutile di un'oscura azienda, vado scrivendo con diligenza; e al contempo il mio pensiero segue, con uguale attenzione, la rotta di un inesistente transatlantico attraverso paesaggi di un Oriente che non esiste. Entrambe le cose sono ugualmente nitide, ugualmente visibili davanti a me: il foglio sulle cui righe scrivo con cura, i versi dell'epopea commerciale di Vasques & Company; e il ponte sul quale vedo chiaramente, vicino alle connessure calafatate degli interstizi delle tavole, le sdraio allineate e le gambe stese dei passeggeri che riposano. (Se io fossi investito dalla bicicletta di un bambino, quella bicicletta di bambino diventerebbe parte della mia storia.) Nella mia prospettiva c'è l'angolo dello smoking room; per questo si vedono solo le gambe. Allungo la penna verso il calamaio e dalla porta dello smoking room [...] proprio vicino a dove sento di essere, esce la sagoma di uno sconosciuto. Mi gira le spalle e avanza verso gli altri. Il suo modo di camminare è lento e i fianchi non dicono molto [...]. Comincio un'altra scrittura contabile. Cerco di capire dov'è che avevo fatto un errore. L'errore era nel debito e non nel credito di Marques (lo vedo, grasso, amabile, pieno di battute, e in un attimo, il transatlantico si dissolve).   14 (118) Ho scoperto che penso sempre e attendo sempre a due cose allo stesso tempo. Presumo che come me siano un po'   15 (20) 30.12.1932 Da quando le ultime piogge hanno lasciato il cielo e si sono fermate in terra - cielo pulito, terra umida e tersa - la chiarità della vita che insieme all'azzurro è salita in alto e, nella freschezza per l'acqua che è stata, ha gioito in basso, ha lasciato un suo cielo nell'anima, una sua freschezza nel cuore.   Siamo, anche se non lo vogliamo, schiavi del momento, dei suoi colori e delle sue forme, sudditi del cielo e della terra. Perfino colui che più si rintana in se stesso, disdegnando ciò che lo circonda, costui non si rintana nello stesso modo quando piove o quando il cielo è sereno. Oscure mutazioni, forse avvertite solo nell'intimo dei sentimenti astratti, si verificano perché piove o perché ha smesso di piovere, si avvertono senza che le avvertiamo, perché senza sentirlo abbiamo sentito il tempo. Ognuno di noi è più di uno, è molti, è una prolissità di se stesso. Perciò colui che odia il suo ambiente non è la persona che per esso si rallegra o soffre. Nella vasta colonia del nostro essere c'è una folla di molte specie che pensa e sente in modo diverso. In questo stesso momento in cui scrivo queste poche frasi impressionistiche, durante una sacrosanta sosta del lavoro che oggi è scarso, io sono colui che le scrive attentamente, sono colui che è contento perché in questo momento non deve lavorare, sono colui che sta guardando fuori il cielo, invisibile da qui, sono colui che sta pensando tutto questo, sono colui che sente il suo corpo contento e le sue mani ancora vagamente fredde. E tutto questo mio mondo di persone a se stesse estranee, proietta, come una folla diversa ma compatta, un'unica ombra: questo corpo calmo che scrive, questo corpo col quale mi curvo, in piedi, verso la scrivania alta del signor Borges, dove mi sono recato per prendere la mia carta assorbente che gli avevo prestato. 16 (74) [...], imbarcazioni che passano nella notte e non si salutano e non si conoscono [...] 17 (96) La tragedia principale della mia vita è, come ogni tragedia, un'ironia del Destino. Rifiuto la vita reale come una condanna; rifiuto il sogno come una liberazione ignobile. Ma vivo la parte più sordida e più quotidiana della vita reale; e vivo la parte più intensa e più costante del sogno. Sono come uno schiavo che si ubriaca durante il riposo: due miserie in un unico corpo. Sì, vedo nitidamente, con la chiarezza con la quale i lampi della ragione fanno risaltare dall'oscurità della vita gli oggetti vicini che ce la raffigurano, quanto di vile, di stracco, di abbandonato e di fittizio c'è in questa Rua dos Douradores, che è per me la vita intera: quest'ufficio sordido di gente fino al midollo, la mia camera affittata al mese, dove non succede niente di interessante oltre il fatto che ci vive un morto, questa drogheria dell'angolo di cui conosco il padrone come ci si conosce fra persone, quei ragazzi sulla porta dell'antica taverna, quest'inutilità laboriosa di giorni tutti uguali, questa ripetizione persistente degli stessi personaggi come un dramma che consista solo nello scenario e lo scenario sia alla rovescia... Ma vedo anche che fuggire da tutto questo significherebbe dominarlo o ripudiarlo, e io non lo domino perché non lo travalico all'interno della realtà, e non lo ripudio perché, qualunque cosa sogni, rimango sempre dove sono. E il sogno, la vergogna di fuggire verso me stesso, la codardia di avere come vita quella spazzatura dell'animo che gli altri hanno soltanto nel sonno, nella immagine della morte attraverso la quale russano, nella tranquillità, che li fa sembrare dei vegetali progrediti! Non poter avere un gesto nobile che non sia fatto in privato né un desiderio inutile che non sia veramente inutile! Cesare definì bene l'ambizione quando disse: "Meglio il primo nel villaggio che il secondo a Roma!" Io non sono niente né nel villaggio né in nessuna Roma. Almeno il droghiere dell'angolo è stimato in un raggio che va da Rua da Assuncào fino a Rua da Viteria; è il Cesare di un rione. Sono forse superiore a lui? E in che cosa mai, visto che il niente non presuppone superiorità né inferiorità né paragone? Lui è il Cesare di tutto un rione, e giustamente le donne lo apprezzano. E così, facendo quello che non voglio fare e sognando quello che non posso avere, trascino la mia vita [...], assurda come un orologio civico fermo. Quella sensibilità tenue ma ferma, il sogno lungo ma cosciente [...] che costituisce nel suo insieme il mio privilegio di penombra. 18 (107) Nelle prime giornate dell'autunno giunto all'improvviso, quando l'imbrunire acquista l'evidenza di un avvenimento prematuro e ci sembra di avere indugiato troppo sulle nostre faccende quotidiane, io assaporo, anche nel bel mezzo del lavoro di ogni giorno, questa anticipazione dell'ozio che l'ombra reca, perché è notte - e la notte è sonno, focolare, liberazione. Quando si accendono le luci nell'ampio ufficio che emerge dall'oscurità, e noi ci accingiamo allo straordinario serale senza nessuna sosta per l'intera giornata, sento un conforto assurdo come se fosse il ricordo di un altro, e scrivendo mi sento tranquillo, come se leggessi aspettando il sonno. Siamo tutti schiavi di circostanze esterne: una giornata di sole ci spalanca vasti campi in mezzo a un caffè di vicolo; un'ombra in campagna ci fa ritrarre dentro di noi e cerchiamo riparo alla meno peggio nella casa priva di porte di noi stessi; un imbrunire, perfino fra le cose del giorno, allarga, come un ventaglio che si apre lentamente, l'intima consapevolezza di dover riposare. Eppure il lavoro non subisce ritardi: si anima. Non lavoriamo più; ci intratteniamo con il dovere a cui siamo condannati. E all'improvviso, attraverso il foglio grande e rigato del mio destino algebrico, la vecchia casa delle zie antiche, chiusa sul mondo, alberga il sonnolento tè delle dieci, e la lampada a petrolio della mia infanzia perduta, che brilla solo sul lino del tavolo, mi oscura, con la sua luce, la visione di Moreira, illuminato da una elettricità nera, molti infiniti lontano da me. Viene servito il tè (lo serve la cameriera più vecchia delle zie, con avanzi di sonno e il cattivo umore paziente della tenerezza di un antico vassallaggio) e io scrivo senza sbagliare una cifra o una somma attraverso tutto il mio passato morto. Mi riassorbo, mi perdo in me stesso, mi dimentico in notti lontane, incontaminate di dovere e di mondo, vergini di mistero e di futuro. E talmente soave è la sensazione che mi estrania dal debito e dal credito che, se qualcuno mi interpella, rispondo con dolcezza, come se il mio essere fosse vuoto, come se io fossi soltanto la macchina da scrivere che porto con me, portatile di un me stesso aperto. L'interruzione dei miei sogni non mi turba: sono sogni così dolci che continuo a sognarli mentre parlo e rispondo e converso. E in tutto questo, il tè perduto termina, ed è il momento di chiudere l'ufficio... Alzo dal libro che chiudo lentamente gli occhi esausti per lacrime non versate, e con un miscuglio di sentimenti soffro, perché con la chiusura dell'ufficio si chiude anche il mio sogno; perché il gesto della mia mano che chiude il registro occulta il mio passato irreparabile; perché mi reco al letto della vita privo di sonno, di compagnia e di tranquillità, nel flusso e riflusso della mia consapevolezza confusa come due maree che si mescolano nella notte buia, al limite dei destini della nostalgia e della desolazione. 19 (115) Oggi, che mi opprimeva il corpo quella angustia antica che a volte straripa, non ho mangiato molto e non ho bevuto come di norma bevo, in quel ristorante anzi trattoria, nel cui mezzanino fondo la prosecuzione della mia esistenza. E mentre stavo uscendo, il cameriere accorgendosi che metà del vino era rimasta nella brocca, si è girato verso di me e mi ha detto: "A stasera, signor Soares, e auguri per la sua salute." Al suono di clarino di questa semplice frase il mio animo si è rischiarato come se in un cielo annuvolato il vento all'improvviso scacciasse via le nuvole. E allora ho capito quello che non avevo mai capito chiaramente: che questi camerieri dei caffè e dei ristoranti, questi barbieri, questi facchini di strada, provano nei miei confronti una simpatia spontanea e naturale sulla quale non posso contare da parte della gente che frequento con maggiore intimità (intimità per modo di dire). La fraternità ha delle sfumature. Alcuni amministrano il mondo, altri sono il mondo. Fra un miliardario americano con possedimenti in Inghilterra o in Svizzera e il sindaco socialista di un paese non c'è differenza di qualità, ma soltanto di quantità. Sotto [...] costoro, noi, gli amorfi: il caotico drammaturgo William Shakespeare, il maestro di scuola John Milton, il vagabondo Dante Alighieri, il garzone che ieri mi ha fatto una commissione, il barbiere che mi racconta barzellette o il cameriere che mi ha appena mostrato il suo fraterno interesse per la mia salute perché avevo bevuto soltanto la metà del vino. 20 (56) Una sola cosa mi meraviglia più della stupidità con la quale la maggior parte degli uomini vive la sua vita: l'intelligenza che c'è in questa stupidità. La monotonia delle vite comuni è apparentemente terribile. Sto pranzando in questo dozzinale ristorante e guardo, oltre il banco, la figura del cuoco e, vicino a me, il vecchio cameriere che mi serve come, da trent'anni credo, serve in questa trattoria. Che vita è la vita di questi uomini? Da quarant’anni quell'uomo passa quasi tutta la giornata in una cucina; gli sono consentite brevi pause; dorme poche ore; ogni tanto torna al suo paesino, dal quale rientra senza esitazione e senza dispiacere; mette da parte lentamente denaro lento che non intende spendere; si ammalerebbe se dovesse lasciare definitivamente la sua cucina per i campi che ha comprato in Galizia 4 ; sta a Lisbona da quarant’anni e non è mai stato alla Rotunda né a un teatro; solo una volta al Coliseu: pagliacci nelle riposte vestigia della sua vita. Ignoro con chi si è sposato e perché, ha quattro figli e una figlia, e il suo sorriso nel chinarsi dall'altra parte del banco esprime una grande, solenne, soddisfatta felicità. Egli non simula e non ha motivo di simulare. Se sente questa felicità significa che ce l'ha davvero. E il vecchio cameriere che mi serve e ha appena posato davanti a me quello che dev'essere il milionesimo caffè dell'atto di posare un caffè sui tavoli? Conduce la stessa vita del cuoco, a soli quattro o cinque metri di distanza: quei metri che separano colui che si muove nella cucina da colui che sta nella sala da pranzo della trattoria. Per il resto, ha solo due figli, va più spesso in Galizia, ha visto più Lisbona dell'altro e conosce Oporto dove ha vissuto per quattro anni - ed è ugualmente felice. Rivedo, con una meraviglia sgomenta, il panorama di queste vite e, nel provare spavento e pena e sdegno, mi accorgo che non provano spavento né pena né sdegno proprio coloro che ne avrebbero tutto il diritto: coloro che vivono quella vita. È questo l'errore centrale dell'immaginazione letteraria: essa suppone che gli altri sono noi e che devono sentire come noi. Ma, per fortuna dell'umanità, ogni uomo è soltanto chi è, e al genio è concesso soltanto di essere qualche persona in più. Dopotutto ogni cosa ci viene data in relazione a ciò che diamo. Un piccolo incidente stradale che richiama sulla porta il cuoco di questa trattoria riesce a intrattenerlo più di quanto non mi intrattenga la contemplazione di una originalissima idea, la lettura del miglior libro, il più grato dei sogni inutili. E, se la vita è essenzialmente monotonia, in realtà quell'uomo è scampato alla monotonia più di me. E continua a sfuggire alla monotonia più facilmente di me. La verità non è sua e non è mia perché la verità non è di nessuno; ma la felicità è sicuramente sua. Il saggio è colui che riesce a rendere monotona l'esistenza, poiché allora ogni piccolo incidente possiede il privilegio di stupirlo. Il cacciatore di leoni non prova più l'avventura dopo il terzo leone. Per questo cuoco monotono, una rissa nella strada ha sempre qualcosa di una modesta apocalisse. Chi non ha mai lasciato Lisbona farà un viaggio infinito sul tram che va a Benfica, e se costui un giorno si reca a Sintra ha la sensazione di avere fatto un viaggio fino a Marte. Il viaggiatore che ha percorso il globo, dopo cinquemila miglia non trova novità, trova soltanto delle cose nuove; un'altra volta la novità, la vecchiaia dell'eterno nuovo, ma il concetto astratto di novità è rimasto in mare con la seconda di esse. Un uomo, se possiede la vera sapienza, può godere l'intero spettacolo del mondo seduto su una sedia, senza saper leggere, senza parlare con nessuno, soltanto con l'uso dei sensi e il fatto che l'anima non sappia essere triste. Rendere monotona l'esistenza affinché essa non sia monotona. Render anodino il giorno-per-giorno affinché la più piccola cosa sia una distrazione. In mezzo al mio lavoro quotidiano, opaco, uguale e inutile, mi appaiono visioni di fuga, immagini sognate di isole lontane, feste in viali di parchi d'altri tempi, altri paesaggi, altri sentimenti, altro io. Ma riconosco, fra due scritture contabili, che se avessi tutto questo, niente di questo sarebbe mio. In verità, il signor Vasques è meglio dei Re di Sogno; in verità, meglio l'ufficio di Rua dos Douradores dei grandi viali dei parchi impossibili. Tenendomi un signor Vasques, posso godere il sogno dei Re di Sogno; avendo l'ufficio di Rua dos Douradores posso godere la visione interiore dei paesaggi che non esistono. Ma se avessi i Re di Sogno, cosa mi resterebbe da sognare? Se avessi i paesaggi impossibili, cosa mi resterebbe di impossibile? La monotonia, l'opaca somiglianza dei medesimi giorni, la mancanza di differenza fra oggi e ieri: che ciò mi rimanga sempre, con l'anima sveglia per divertirmi con la mosca che mi distrae e svolazza a caso davanti ai miei occhi; con la risata che si innalza volubile dalla strada, con il grande senso di liberazione dell'ora di chiusura dell'ufficio, col riposo infinito di un giorno festivo. Posso immaginare tutto perché non sono niente. Se fossi qualcosa non potrei immaginare. L'aiutante contabile può sognare di essere un imperatore romano; il Re d'Inghilterra non lo può fare perché il Re d'Inghilterra nei suoi sogni non può essere altro se non il re che già è. La sua realtà non gli permette di sentire. 21 (119) In mezzo al caseggiato, in un alternarsi di luce e di ombra (o meglio, di luce e di minore luce) il mattino si scioglie sulla città. Sembra che esso non nasca dal sole, ma dalla città e che la luce dell'alto si stacchi dai muri e dai tetti: non da essi fisicamente, ma da essi perché sono lì. Sento, nel sentirla, una grande speranza; ma riconosco che la speranza è letteraria. Mattino, primavera, speranza, sono uniti in musica dalla stessa intenzione melodica; sono uniti nell'anima dallo stesso ricordo di un'uguale intenzione. No: se osservo me stesso come osservo la città riconosco che l'unica cosa che posso sperare è che questo giorno abbia una fine, come tutti i giorni. Anche la ragione vede l'aurora. La speranza che ho riposto in essa, se mai c'era, non era mia: era quella degli uomini che vivono l'ora che passa e dei quali ho assunto, senza volerlo, la consapevolezza esterna in questo momento. Sperare? Cosa devo sperare? Il giorno non mi promette altro che il giorno e io so che esso ha un decorso e una fine. La luce mi anima ma non mi migliora, perché uscirò da qui come sono arrivato qui: più vecchio di ore, più allegro di una sensazione, più triste di un pensiero. In ciò che nasce possiamo sentire ciò che in esso nasce o pensare ciò che in esso dovrà morire. Ora, sotto la luce ampia e alta, il paesaggio della città è come quello di un campo di case: è naturale, è esteso, è strutturato. Ma anche nel vedere tutto ciò, potrò forse dimenticarmi che esisto? La mia consapevolezza della città è, dal di dentro, la consapevolezza di me stesso. Mi ricordo all'improvviso di quando ero bambino e vedevo, come non posso vedere oggi, il mattino che sfavillava sulla città. Essa allora non sfavillava per me, ma per la vita, perché io allora, non essendo cosciente, ero la vita. Vedevo il mattino e sentivo allegria; oggi vedo il mattino e sento allegria e divento triste. Il bambino è rimasto, ma è ammutolito. Vedo come vedevo, ma dietro agli occhi mi vedo mentre vedo; e questo basta a oscurarmi il sole e a far diventare vecchio il verde degli alberi e a fare appassire i fiori prima che fioriscano. Sì, una volta io appartenevo a questo luogo; oggi, ad ogni paesaggio per me nuovo ritorno straniero, ospite e pellegrino della sua presentazione, forestiero di ciò che vedo e sento, vecchio di me. Ho già visto tutto, perfino ciò che non ho mai visto e che non vedrò mai. Nel mio sangue scorre perfino il più infimo dei paesaggi futuri e l'angoscia di ciò che dovrò vedere di nuovo è per me una monotonia anticipata. E affacciato al davanzale, godendomi la giornata al di sopra del volume della città intera, un unico pensiero mi riempie l'animo: il desiderio intimo di morire, di finire, di non vedere più alcuna luce su città alcuna, di non pensare, di non sentire, di lasciare indietro, come una carta da imballaggio, il percorso del sole e dei giorni; di togliermi di dosso, come un abito pesante, vicino al grande letto, lo sforzo involontario di essere.   22 (123) Mi alzo dalla sedia con uno sforzo mostruoso, ma ho l'impressione di portarmela dietro, ho l'impressione che è più pesante, perché è la sedia del soggettivismo. zione di vita simile a quella delle strade che ho descritto. Di giorno esse traboccano di un movimento privo di senso; di notte traboccano dell'assenza di quel movimento privo di senso. Di giorno io sono nulla; di notte io sono io. Non c'è nessuna differenza fra me e le vie del quartiere dell'Alfàndega, se non che esse sono vie e io sono anima, il che può non avere alcuna importanza di fronte all'essenza delle cose. C'è un destino uguale - uguale perché astratto - per gli uomini e per le cose: una designazione egualmente indifferente nell'algebra del mistero. Ma c'è anche qualcos'altro... In quelle ore lente e vuote mi sale dal cuore alla mente una tristezza di tutto il mio essere: l'amarezza che tutto sia al contempo una mia sensazione e una cosa esterna che non mi è concesso di alterare. Ah, quante volte i miei stessi sogni mi si fanno cose, non per sostituirsi alla realtà, ma per dichiararsi pari a me nel fatto di non dipendere da me, nel fatto di provenire dal di fuori, come il tram che sbuca dalla curva o la voce del tardivo venditore ambulante (chissà di che cosa) che sgorga con una cadenza araba, come un fiotto improvviso, dalla monotonia del crepuscolo.   23 (65) Amo, negli interminabili crepuscoli estivi, la calma della città bassa, soprattutto quella calma che per contrasto si accentua nella zona che il giorno immerge in una maggior confusione. Rua do Arsenal, Rua da Alfàndega, il prolungamento delle vie malinconiche che si spargono verso levante dopo la fine di Rua da Alfàndega, la linea tratteggiata dei moli immoti: tutto ciò mi conforta tristemente se mi tuffo, in quei pomeriggi, nella solitudine del suo insieme. Vivo in un'epoca anteriore a quella in cui vivo: mi piace sentirmi contemporaneo di Cesario Verde, porto dentro di me versi che, anche se non sono uguali ai suoi, di quei versi hanno uguale sostanza.   24 (68) Sto scrivendo, è la tarda mattinata domenicale di un'ampia giornata di luce soave in cui, sui tetti della città ininterrotta, l'azzurro sempre inedito del cielo chiude nell'oblio la misteriosa esistenza degli astri. Anche in me è domenica... Anche il mio cuore va in una chiesa che non sa dov'è, e va vestito con un abito di velluto-fanciullo, con il volto arrossato dalle prime impressioni, sorridendo senza occhi tristi sopra il colletto molto grande.   25 (12) 26 (24) Invidio - ma non so se è invidia - coloro dei quali si può scrivere una biografia, o che possono scrivere la propria. In questi miei appunti sconnessi, e che non ambiscono ad avere un nesso, racconto con indifferenza la mia autobiografia priva di avvenimenti, la mia storia priva di vita. Sono le mie confessioni, e se in esse non dico niente è perché non ho niente da dire. Che cosa c'è da confessare che valga la pena o che sia utile? Quello che è successo a noi, o è successo a tutti o esclusivamente a noi; nel primo caso non è una novità e nel secondo caso non è una cosa che si possa capire. Se scrivo ciò che sento è perché così facendo abbasso la febbre di sentire. Quello che confesso non ha importanza perché niente ha importanza. Con ciò che sento costruisco dei paesaggi. Fabbrico delle vacanze con le sensazioni. Mi è facile capire le ricamatrici che ricamano per pena e coloro che fanno la calza perché esiste la vita. La mia vecchia zia faceva dei solitari durante l'infinito delle sere di veglia. Queste confessioni del sentire sono i miei solitari. Non li interpreto come chi interroga le carte per conoscere il destino. Non le scruto perché nei solitari le carte non hanno un valore preciso. Mi srotolo come una matassa multicolore oppure invento con me stesso delle figure di spago come quelle che fra bambini si tessono con le dita aperte e si passano da un bambino all'altro. L'unica cosa che mi sta a cuore è che il pollice non sbagli il laccio che gli spetta. Poi giro la mano e l'immagine cambia. E io ricomincio. Vivere è fare l'uncinetto con l'opinione degli altri. Ma, mentre lo si fa, il pensiero è libero e tutti i principi incantati possono passeggiare nei loro parchi tra un tuffo e l'altro dell'uncinetto d'avorio. Uncinetto delle cose... Intervallo... Niente... Del resto in che cosa posso contare su di me? Un terribile acume delle sensazioni, e la profonda consapevolezza di stare sentendo... Un'intelligenza acuta per distruggermi, e un potere di sogno desideroso di distrarmi... Una volontà morta e una riflessione che la culla come un figlio vivo... Sì, uncinetto... Alla fine di questa giornata rimane ciò che è rimasto di ieri e ciò che rimarrà di domani; l'ansia insaziabile e molteplice dell'essere sempre la stessa persona e un'altra. 27 (59) Temporale Quest'aria bassa di nuvole ferme. L'azzurro del cielo sporco di un bianco traslucido. Il garzone, in fondo all'ufficio, smette per un attimo di avvolgere lo spago attorno al pacco eterno... "Com'è [...]," commenta statisticamente. Un silenzio freddo. I rumori della strada come se fossero tagliati col coltello. Si è avvertita a lungo, come un malessere di tutto, una cosmica sospensione del respiro. Si era fermato l'intero universo. Attimi, attimi, attimi. Le tenebre si sono carbonizzate di silenzio. All'improvviso, acciaio vivo [...]. Com'era umano il tintinnio metallico dei tram! Quale paesaggio allegro la semplice pioggia nella strada resuscitata dall'abisso! Oh Lisbona, mio focolare! 28 (40) Con voce dolcissima cantava una canzone di un paese lontano. La musica rendeva familiari le parole incomprensibili. Sembrava un fado per l'anima ma non gli assomigliava affatto. La canzone diceva, attraverso le parole velate e la melodia umana, cose che sono dentro ciascuno di noi e che nessuno conosce. L'uomo cantava immerso in una specie di torpore, ignorando con lo sguardo gli ascoltatori, in una piccola estasi da trivio.   La gente che si era radunata lo ascoltava senza apparente derisione. La canzone apparteneva a tutti noi, e le parole a volte si rivolgevano a noi, segreto orientale di una razza estinta. Il brusio della città si era spento mentre lo ascoltavamo, e le carrozze ci passavano così vicino che una mi sfiorò un lembo del cappotto. Ma io la sentii e non la vidi. Nel canto dello sconosciuto c'era un rapimento che stimolava quanto in noi sogna o non riesce a sognare. Era un fatto della strada, e tutti ci accorgemmo che una guardia era sbucata lentamente dall'angolo. Altrettanto lentamente egli si avvicinò. Si fermò qualche attimo dietro al ragazzo che vendeva gli ombrelli, come se avesse visto qualcosa. In quello stesso momento il cantante tacque. Nessuno disse niente. Allora la guardia si fece avanti. 29 (87) Nella leggera nebbia del mattino di mezza primavera la Baixa si sveglia intorpidita e si direbbe che il sole sorga lentamente. C'è un'allegria tranquilla nell'aria semifredda, e la vita, al soffio leggero della brezza che non c'è, rabbrividisce vagamente per il freddo passato, più per il ricordo del freddo che per il freddo, per il confronto con l'estate prossima più che per il tempo attuale. I negozi, eccetto i caffè e le latterie, non sono ancora aperti; ma la quiete non è torpida come quella della domenica: è quiete soltanto. Una traccia bionda si preannuncia nell'aria che si apre e l'azzurro si colora pallidamente di rosso attraverso la bruma che scema. Il nascere del traffico rareggia per le strade, risalta la distanza fra i pedoni e nelle rare finestre aperte, in alto, anche alcune figure cominciano a albeggiare. I tram disegnano a mezz'aria la loro sagoma mobile gialla e numerata. E di minuto in minuto, in modo sensibile, le strade si popolano. Diventato una pura attenzione dei sensi, fluttuo senza pensiero e senza emozione. Mi sono svegliato presto; sono uscito per strada senza idee fatte. Osservo come se riflettessi. Vedo come se pensassi. E una leggera nebbia di emozione sorge assurdamente dentro di me; la bruma che sta svanendo sembra infiltrarsi lentamente dentro di me. Sento involontariamente che sto pensando alla mia vita. È successo senza che me ne accorgessi. Credevo soltanto di vedere e di sentire, di non essere altro, in tutto questo mio ozioso itinerario, che un riflettore di immagini, un paravento bianco dove la realtà proietta colori e luce invece di ombre. Ma senza saperlo ero di più. Ero ancora l'anima che si nega; e il mio stesso astratto osservare era anch'esso una negazione. Si offusca l'aria per la mancanza di nebbia, si oscura di una luce pallida nella quale la nebbia si è infiltrata. Mi accorgo all'improvviso che il rumore è molto più grande, che esiste molta più gente. I passi dei più numerosi passanti sono meno affrettati. Rompendo la sua assenza e la minore fretta degli altri, ecco il passo di corsa delle pescivendole, l'oscillazione dei panettieri, mostruosi con la cesta; e l'uniformità divergente delle venditrici di altri prodotti perde monotonia soltanto per il contenuto delle ceste, dove i colori divergono più del contenuto. I lattai scuotono come chiavi vuote e assurde i disuguali recipienti di latta del loro mestiere ambulante. I vigili urbani sono immobili agli incroci, come una statica smentita in divisa della civiltà al movimento invisibile del giorno che nasce. Come vorrei, lo sento in questo momento, essere una persona che fosse capace di vedere tutto questo come se non avesse con esso altro rapporto se non vederlo: contemplare le cose come se io fossi il viaggiatore adulto arrivato oggi alla superficie della vita! Non aver imparato fino dalla nascita a attribuire significati usati a tutte queste cose; poter separare l'immagine che le cose hanno in sé dall'immagine che è stata loro imposta. Poter scorgere nella pescivendola la sua realtà umana, a prescindere dal fatto che sia chiamata pesci-Vendola, e dal sapere che esiste e che vende. Guardare un vigile urbano come lo guarda Dio. Capire tutto per la prima volta, non in modo apocalittico, come se fosse una rivelazione del Mistero, ma direttamente, come una fioritura della Realtà. Sento suonare i rintocchi della campana o dell'orologio grande; devono essere otto, ma io non li conto. Mi fa risvegliare da me stesso la banalità che esistano le ore, clausura che la vita sociale impone alla continuità del tempo, frontiera nell'astratto, limite nello sconosciuto. Mi risveglio da me stesso, vedo che tutto è già pieno di vita e della abituale umanità, e mi accorgo che la nebbia (che ormai ha sgombrato il cielo, eccetto qualche brandello non azzurro nell'azzurro) mi ha davvero intriso l'anima e contemporaneamente ha intriso il lato segreto di tutto ciò che esiste, quel lato attraverso il quale le cose comunicano con la mia anima. Smarrisco l'immagine che vedevo. Sono diventato un cieco che vede. Il mio modo di sentire ormai appartiene alla banalità. Tutto questo non è più la Realtà: è semplicemente la Vita. ...Sì, la vita alla quale anch'io appartengo e che mi appartiene; non più la Realtà che appartiene solo a Dio o a se stessa, che non contiene mistero e verità che (proprio perché è reale o finge di esserlo) esiste da qualche parte, fissa, libera di essere temporale o eterna, immagine assoluta, idea di un'anima esterna. Dirigo i miei lenti passi (più rapidamente di quanto penso) al portone per salire di nuovo a casa. Ma non entro; esito; proseguo. Praga da Figueira, sbadigliando mercanzie di vari colori, popolandosi di compratori 5  mi copre l'orizzonte di girovago. Avanzo lentamente, defunto, e la mia visione non è più mia, non è più niente: è quella dell'animale umano che ha ereditato senza volere la cultura greca, l'ordine romano, la morale cristiana e tutte le altre illusioni che formano la civiltà all'interno della quale io percepisco. Dove saranno i vivi? 30 (142) 26.1.1932 Una delle mie preoccupazioni costanti è capire com'è che esista altra gente, com'è che esistano anime che non sono la mia anima, coscienze estranee alla mia coscienza; la quale, proprio perché è coscienza, mi sembra essere l'unica possibile. Capisco che colui che sta di fronte a me e che mi parla con parole uguali alle mie, o fa dei gesti analoghi a quelli che io faccio o potrei fare, sia in qualche modo un mio simile. Eppure mi succede la stessa cosa con le figure delle illustrazioni che sogno, con i personaggi di romanzo che leggo, con le persone da dramma che si avvicendano sul palcoscenico attraverso gli attori che le interpretano.   Credo che nessuno ammetta davvero la reale esistenza di un'altra persona. Può ammettere che tale persona sia viva, che pensi e senta come lui: eppure ci sarà sempre un ineffabile elemento di differenza, uno scarto materializzato. Ci sono figure di altri tempi, immagini-fantasmi di libri che sono per noi realtà maggiori di certe insignificanze incarnate che parlano con noi dal terrazzo o che ci guardano casualmente sul tram, o che ci sfiorano passando nel caso morto delle strade. Gli altri non sono per noi altro che paesaggio e, quasi sempre, il paesaggio invisibile di una strada nota. Considero mie, con maggiore consanguineità e intimità, talune figure che sono scritte nei libri, certe immagini che ho conosciuto nelle illustrazioni, più di molte persone che sono considerate reali, che sono fatte di quell'inutilità metafisica chiamata carne ed ossa. E "carne ed ossa", infatti, è una perfetta descrizione: sembrano cose fatte a pezzi ed esposte sul banco di marmo di una macelleria, morti che sanguinano come la vita, gambe e cotolette del Destino. Non ho vergogna di avere tali impressioni, perché ho capito che tutti noi abbiamo impressioni simili. Il disprezzo che sembra esistere fra uomo e uomo, l'indifferenza che permette che si uccidano persone senza capire che si uccide, come fra gli assassini, o senza pensare che si sta uccidendo, come fra i soldati, sono dovuti al fatto che nessuno presta la dovuta attenzione alla circostanza, che sembra astrusa, che anche gli altri sono anime. In certi giorni, in certe ore che mi reca chissà quale brezza, che mi apre chissà quale porta che si apre, sento all'improvviso che il droghiere dell'angolo è un ente spirituale, che il commesso che in questo momento si affaccia sulla porta sopra il sacco di patate è un'anima capace di soffrire. Quando ieri mi hanno detto che il garzone della tabaccheria si era suicidato ho avuto un'impressione di menzogna.   Poveretto, anche lui esisteva! Ce ne eravamo dimenticati tutti, tutti noi che lo conoscevamo allo stesso modo di coloro che non l'hanno conosciuto. Domani lo dimenticheremo meglio. Ma che egli avesse un'anima, questo è certo: era indispensabile per uccidersi. Passioni? Angosce? Senza dubbio... Ma per me, come per tutti gli altri, resta solo il ricordo di un sorriso stolto sopra una giacca di fustagno, sporca e con le spalle disuguali. È quanto resta a me di chi ha sentito così intensamente da uccidersi perché sentiva; perché, in fin dei conti, nessuno si uccide per nient'altro... Una volta, mentre mi vendeva le sigarette, ho pensato che presto sarebbe diventato calvo. Non ha avuto tempo di diventarlo. È uno dei ricordi che mi rimangono di lui. Quale altro ricordo mi sarebbe potuto restare visto che questo non appartiene a lui, ma a un mio pensiero? E all'improvviso vedo il cadavere, la bara in cui è stato messo, la fossa, totalmente estranea, nella quale è stato probabilmente portato. E mi accorgo, sempre all'improvviso, che il commesso della tabaccheria era, in certo qual modo, con la sua giacca sbilenca e tutto il resto, l'intera umanità. È stato solo un momento. Oggi, ora, chiaramente, come l'uomo che io sono, egli è morto. Nient'altro. Sì, gli altri non esistono... È per me che questo tramonto pesantemente alato trattiene i suoi colori nebbiosi e duri. Sotto il tramonto, senza che io lo veda scorrere, il grande fiume si increspa per me. Per me è stata fatta questa piazza aperta sul fiume che si sta gonfiando per la marea. Oggi nella fossa comune è stato sepolto il garzone della tabaccheria. Non è per lui il tramonto di oggi. Ma, poiché ho pensato questo, e senza che lo voglia, neppure per me è questo tramonto. 31 (150) Ho davanti a me le grandi pagine del pesante registro; raddrizzo nel vecchio banco, con gli occhi stanchi, l'anima più stanca degli occhi. Al di là del niente che questo rappresenta, il magazzino, fino a Rua dos Douradores, mostra i suoi scaffali regolari, i suoi impiegati regolari, l'ordine delle cose umane e la calma delle cose comuni. Sulla vetrata c'è il rumore del diverso, e il rumore diverso è comune come la calma presso gli scaffali. Abbasso gli occhi nuovi sulle pagine bianche dove i miei numeri diligenti hanno trascritto il bilancio dell'azienda. E, con un sorriso che serbo per me, penso che la vita, che ha queste pagine con nomi di stoffe e denari, coi loro spazi bianchi, con le loro righe dei conti, con le loro parole, comprende anche i grandi navigatori, i santi e i poeti di tutte le epoche, tutti non registrati, la grande moltitudine emarginata da coloro che fanno le stime del mondo. Nella registrazione di una stoffa sconosciuta mi si aprono le porte dell'Indo e di Samarcanda, e la poesia della Persia, che non appartiene a nessun luogo, offre con le sue quartine dal terzo verso senza rima un remoto sostegno alla mia inquietudine. Ma non commetto errori: scrivo, sommo: e la partita va avanti sulla pagina, registrata come di consueto da un contabile di questa ditta. 32 (151) 10-11.9.1931 Fin dal primo mattino, a dispetto della consuetudine solare di questa città chiara, un manto leggero di nebbia, indorato a poco a poco dal sole, avvolgeva la successione delle case, la mancanza di soluzione degli spazi, i dislivelli del terreno e degli edifici. Poi, al sopraggiungere del mattino pieno, la bruma leggera ha cominciato a sfilacciarsi e a dissolversi in maniera indefinibile con aliti di ombre di veli. Verso le dieci, soltanto l'azzurro torbido del cielo rivelava il passaggio della nebbia. Con la caduta della maschera offuscante, il volto della città è risorto: come se una finestra si spalancasse, il giorno già alto si è alzato. Si è verificato un leggero cambiamento nel rumore di ogni cosa. Poi altri rumori si sono levati. Un'intonazione di azzurro si è insinuata persino nelle pietre delle strade e nell'aura impersonale dei passanti. Il sole era caldo, ma di un caldo ancora umido. La nebbia ormai inesistente lo filtrava in modo invisibile.     Lo svegliarsi di una città, che avvenga con la nebbia o altrimenti, per me è sempre più commovente dello spuntare del giorno in campagna. Ci sono molte più cose che tornano alla vita, ci sono molte più cose da aspettarsi
 quando il sole, invece di limitarsi a indorare (prima di luce oscura, poi di luce umida, infine di oro luminoso) i prati, le sporgenze degli arbusti, le palme delle mani delle foglie, moltiplica i suoi possibili effetti sulle finestre, sui muri, sui tetti [...]. Un'aurora in campagna mi fa star bene; un'aurora in città mi fa star bene e male, e perciò mi fa star meglio. Sì, perché la maggiore speranza che mi arreca possiede, come tutte le speranze, il sapore lontano e nostalgico di non essere realtà. Un mattino in campagna esiste; un mattino in città promette; il primo fa vivere; il secondo fa pensare. E io sentirò sempre, come i grandi maledetti, che è meglio pensare che vivere. 33 (154) 15.9.1931 Nuvole... Oggi sono consapevole del cielo, poiché ci sono giorni in cui non lo guardo ma solo lo sento, vivendo nella città senza vivere nella natura in cui la città è inclusa. Nuvole... Sono loro oggi la principale realtà, e mi preoccupano come se il velarsi del cielo fosse uno dei grandi pericoli del mio destino. Nuvole... Corrono dall'imboccatura del fiume verso il Castello; da Occidente verso Oriente, in un tumultuare sparso e scarno, a volte bianche se vanno stracciate all'avanguardia di chissà che cosa; altre volte mezze nere, se lente, tardano ad essere spazzate via dal vento sibilante; infine nere di un bianco sporco se, quasi volessero restare, oscurano più col movimento che con l'ombra i falsi punti di fuga che le vie aprono fra le linee chiuse dei caseggiati. Nuvole... Esisto senza che io lo sappia e morirò senza che io lo voglia. Sono l'intervallo fra ciò che sono e ciò che non sono, fra quanto sogno di essere e quanto la vita mi ha fatto essere, la media astratta e carnale fra cose che non sono niente, più il niente di me stesso. Nuvole... Che inquietudine se sento, che disagio se penso, che inutilità se voglio! Nuvole... Continuano a passare, alcune così enormi (poiché le case non lasciano misurare la loro esatta dimensione) che paiono occupare il cielo intero; altre di incerte dimensioni, come se fossero due che si sono accoppiate o una sola che si sta rompendo in due, a casaccio, nell'aria alta contro il cielo stanco; altre ancora piccole, simili a giocattoli di forme poderose, palle irregolari di un gioco assurdo, da parte, in un grande isolamento, fredde. Nuvole... Mi interrogo e mi disconosco. Non ho mai fatto niente di utile né farò niente di giustificabile. Quella parte della mia vita che non ho dissipato a interpretare confusamente nessuna cosa, l'ho spesa a dedicare versi prosastici alle intrasmissibili sensazioni con le quali rendo mio l'universo sconosciuto. Sono stanco di me oggettivamente e soggettivamente. Sono stanco di tutto e del tutto di tutto. Nuvole... Esse sono tutto, crolli dell'altezza, uniche cose oggi reali fra la nulla terra e il cielo inesistente; brandelli indescrivibili del tedio che loro attribuisco; nebbia condensata in minacce incolori; fiocchi di cotone sporco di un ospedale senza pareti. Nuvole... Sono come me, un passaggio sfigurato fra cielo e terra, in balìa di un impulso invisibile, temporalesche o silenziose, che rallegrano per la bianchezza o rattristano per l'oscurità, finzioni dell'intervallo e del discammino, lontane dal rumore della terra, lontane dal silenzio del cielo. Nuvole... Continuano a passare, continuano ancora a passare, passeranno sempre continuamente, in una sfilza discontinua di matasse opache, come il prolungamento diffuso di un falso cielo disfatto. 34 (158) 16.12.1931 Oggi è partito per la sua terra natale, pare definitivamente, colui che viene designato come il fattorino, quello stesso uomo che ero abituato a considerare come parte di questa casa umana e dunque come parte di me e del mio mondo. Se n'è andato oggi. Nel corridoio, quando ci siamo incontrati casualmente per l'attesa sorpresa del commiato, gli ho dato un abbraccio che mi ha timidamente retribuito, e ho avuto sufficiente coraggio per non piangere come, dentro il mio cuore, desideravano senza che io lo volessi i miei occhi caldi. Ogni cosa che è stata nostra, seppur solo per accidente di convivenza o di visione, appunto perché è stata nostra diventa noi stessi. Oggi per me non è stato dunque il fattorino dell'ufficio a partire per un paesino della Galizia che ignoro, è stata una parte vitale, perché visiva e umana, della sostanza della mia vita. Oggi ho subito un'amputazione. Non sono più esattamente lo stesso. Il fattorino dell'ufficio è partito. Tutto quanto succede nel dove in cui viviamo, succede in noi. Tutto quanto cessa in ciò che vediamo, cessa in noi. Tutto ciò che è stato, se lo abbiamo visto quando era, quando se ne va è tolto da dentro di noi. Il fattorino dell'ufficio è partito. Più pesante, più vecchio, meno volitivo mi siedo all'alta scrivania e continuo la contabilità della partita di ieri. Ma la piccola tragedia di oggi interrompe con meditazioni che devo faticosamente arginare il processo automatico della contabilità della partita. Riesco a lavorare solo perché posso, con un'inerzia attiva, essere schiavo di me stesso. Il fattorino è partito. Sì, domani o un altro giorno, o quando suonerà per me la campana senza suono della morte o della partenza, anch'io sarò colui che non è più qui, un libro di copia che sarà riposto nell'armadio del sottoscala. Sì, domani o quando il Destino lo dirà, avrà fine colui che ha finto in me di essere me. Andrò nel mio paese natale? Non so dove andrò. Oggi la tragedia è visibile per l'assenza, sensibile perché non merita che si senta. Dio mio, Dio mio, il fattorino è partito. 35 (159) 21.4.1930 Ci sono sensazioni che sono dei sonni, che occupano come una nebbia l'intero spazio dell'anima, che non permettono di pensare, che non permettono di agire, che non permettono chiaramente di essere. Come se avessimo dormito, qualcosa del sogno sopravvive in noi, e il sole ha un torpore che riscalda la superficie immobile dei sensi. È un'ubriachezza di non essere niente, e la volontà è un secchio che viene rovesciato nel cortile da un movimento indolente di un piede che passa. Guardiamo ma non sentiamo. La lunga strada formicolante di animali umani è una specie di insegna caduta nella quale le lettere sono mobili e non hanno senso. Le case sono soltanto case. Perdiamo la possibilità di dare un senso a ciò che vediamo, ma per certo vediamo bene cosa è. Sulla soglia i colpi del martello del falegname risuonano con una stranezza prossima. Colpi spaziati da lunghi silenzi, echeggiami e inutili. I rumori delle vetture sembrano quelli di certe giornate quando incombe un temporale. Le voci sgorgano dall'aria e non dalle corde vocali. Là in fondo il fiume è stanco. Quanto sentiamo non è tedio. Quanto sentiamo non è pena. È una voglia di addormentarsi provvisti di un'altra personalità, di dimenticare forniti di un aumento di stipendio. Non sentiamo niente se non un meccanismo rasoterra che aziona delle gambe che ci appartengono e che le obbliga a battere per terra, a muovere involontariamente i piedi che sentiamo dentro le scarpe. Forse non sentiamo neanche questo. C'è una stretta dall'interno della testa, intorno agli occhi e come delle dita negli orecchi. Sembra un raffreddore nell'animo. E con l'immagine letteraria dell'essere malati nasce il desiderio che la vita sia una convalescenza immobile; e l'idea di convalescenza evoca le case di campagna dei dintorni, ma nel loro interno, dove sono case, lontano dalla strada e dalle ruote. Sì, non sentiamo niente. Dormendo soltanto con l'impossibilità di dare al corpo un'altra direzione, valichiamo consapevolmente la porta attraverso la quale dobbiamo entrare. Valichiamo tutto. Che ne è del tuo tamburello, orso immobile? Lieve, come una cosa che comincia, il salmastro della brezza si è diffuso sul Tago e si è sparso sporcando le prime case della Baixa. Nauseava frescamente, in un torpore freddo di mare tiepido. Ho sentito la vita nello stomaco e l'olfatto mi è diventato una cosa dietro agli occhi. Nuvole rade e alte, cirri, posavano sul nulla, in un grigio che si disfaceva in falso bianco. L'atmosfera aveva la minaccia di un cielo vigliacco, come quella di un temporale non udibile, fatto soltanto di aria. C'era una stasi perfino nel volo dei gabbiani; sembravano cose più leggere dell'aria, abbandonate da qualcuno. Non c'era niente di pesante. La sera calava in un'inquietudine nostra; l'aria rinfrescava a intervalli.   Povere speranze che ho avuto, uscite dalla vita che mi è toccato avere. Esse sono come quest'ora e quest'aria, nebbie senza nebbia, punti di imbastitura rotti di una bufera falsa. Ho paura di gridare, per finirla con il paesaggio e la meditazione. Ma c'è del salmastro nel mio proposito, e la bassa marea in me ha lasciato scoperto il nerume melmoso che è lì fuori e che non vedo se non attraverso l'odore. Quanta illogicità nel volere bastarmi! Quanta coscienza sarcastica delle sensazioni ipotetiche! Quale intrigo dell'animo con le sensazioni, e dei pensieri con l'aria e il fiume, per dire che mi duole la vita nell'olfatto e nella coscienza, per non saper dire come nella frase semplice e ampia del Libro di Giobbe "La mia anima è stanca della mia vita!" 36 (170) Oh, notte dove le stelle mentiscono luce, notte, unica cosa della dimensione dell'Universo, fammi diventare, corpo e anima, parte del tuo corpo, fa che io mi perda nel fatto di essere mera tenebra e diventi notte anch'io, senza sogni che siano stelle in me né sole aspettato che risplenda dal futuro. 37 (130) 4.11.1931 Se qualcuno volesse redigere un campionario di mostri non dovrebbe far altro che fotografare con parole quelle cose che la notte porta agli animi assopiti che non riescono a prendere sonno. Queste cose posseggono tutta l'incoerenza del sogno senza l'incognito alibi dello stare dormendo. Si librano come pipistrelli sulla passività dell'anima o vampiri che succhiano il sangue della sottomissione. Sono larve del precipizio e della dissipazione; ombre che riempiono la valle, le orme che restano del destino. A volte sono vermi che provocano nausea alla stessa coscienza che li culla e che li crea; altre volte sono spettri, e sinistramente rondano il nulla; altre volte ancora emergono come serpi dalle assurde caverne delle emozioni perdute. Zavorra del falso, non servono ad altro se non a farci essere inutili. Sono dubbi dell'abisso che appiattiti nell'animo trascinano pieghe sonnolente e fredde. Hanno durata di fumo, passaggio di orme; e altro non c'è se non l'essere esistiti nella sterile sostanza della consapevolezza che abbiamo avuto di essi. Alcuni sono come l'elemento recondito di un fuoco d'artificio: s'incendia un attimo fra i sogni; e il resto è l'inconsapevolezza della consapevolezza con cui lo abbiamo visto. Fiocco sciolto, l'anima non esiste in se stessa. I grandi paesaggi sono per il domani, e noi abbiamo già vissuto. La conversazione interrotta è fallita. Chi lo avrebbe mai detto che la vita sarebbe stata così? Mi perdo se mi incontro, dubito se trovo, non possiedo se ho ottenuto. Come se passeggiassi, dormo, ma sono sveglio. Come se dormissi, mi sveglio, e non mi appartengo. In fondo la vita è in se stessa una grande insonnia e c'è un lucido risveglio brusco in tutto quello che pensiamo e facciamo. Sarei felice se potessi dormire. È un'opinione di ora, perché non dormo. La notte è un peso immenso dietro al soffocamento della coperta muta di ciò che sogno. Ho un'indigestione nell'animo. Sempre, dopo il dopo, verrà il giorno, ma sarà tardi, come sempre. Tutto dorme ed è felice, ma non io. Riposo un poco senza osare dormire. E grandi teste di mostri inesistenti emergono confuse dal fondo di chi io sono: draghi dell'Oriente dell'abisso, con lingue di un rosso illogico, con occhi che guardano senza vita la mia vita morta che non li guarda. Il coperchio, per l'amore del cielo, il coperchio! Mi completino l'incoscienza e la vita! Per fortuna, dalla finestra fredda con le imposte aperte, un triste filo di luce pallida comincia a spazzare l'ombra dall'orizzonte. Per fortuna, ciò che sta per nascere è il giorno. E mi acquieto quasi della stanchezza dell'inquietudine. Un gallo canta, assurdo, in piena città. Il giorno livido comincia nel mio vago sonno. Una volta dormirò. Un rumore di ruote è una carrozza. Le mie palpebre dormono, ma io non dormo. Tutto, finalmente, è il Destino. 2.7.1931   38 (152) 39 (61) Dopo una notte mal trascorsa nessuno ci vuole bene. Il sonno sfuggito si è portato via qualcosa che ci rendeva umani. Sembra che ci sia un'irritazione latente contro di noi perfino nell'aria inorganica che ci circonda. Il fatto è che noi abbiamo abbandonato noi stessi, ed è fra noi e noi che si tesse la strategia della sorda battaglia. Oggi ho trascinato per la strada le mie gambe e la mia grande stanchezza. Ho l'anima ridotta a una matassa aggrovigliata, e quello che sono e sono stato, che sono io, ha dimenticato il suo nome. Se ho un domani, so solo che non ho dormito e la confusione di vari intervalli offre grandi silenzi alla mia conversazione interiore. Ah, grandi parchi degli altri, giardini abituali a tanti, meravigliosi viali di coloro che non mi conosceranno mai! Io vegeto fra veglie, come chi non ha mai osato essere superfluo, e ciò che medito trasalisce come un sogno alla fine. Sono una casa vedova, claustrale in se stessa, abitata da spettri timidi e furtivi. Mi trovo sempre nella stanza accanto, o vi si trovano loro, e sento grandi fruscii di alberi intorno a me. Divago e trovo; trovo perché divago. Miei giorni di bambino, anche voi con il grembiule addosso! E in mezzo a tutto ciò cammino per la strada, pelandrone del mio vagabondaggio-foglia. Un vento lento mi ha spazzato dal suolo ed io erro come la fine di un crepuscolo fra gli avvenimenti del paesaggio. Le palpebre mi pesano nei piedi che trascino. Vorrei dormire perché cammino. Ho la bocca serrata come se le labbra dovessero appiccicarsi. Faccio naufragare il mio vagabondaggio. Sì, non ho dormito, ma sono più a posto così, se non ho dormito e se non dormo. Sono veramente io in questa eternità casuale e simbolica dello stato di mezz'anima nel quale illudo me stesso. Alcune persone mi guardano come se mi conoscessero e non mi riconoscessero. Sento che anch'io le guardo con orbite avvertite sotto le palpebre che le sfiorano, e non voglio saperne del fatto che esista il mondo. Ho sonno, molto sonno, tutto il sonno! Prima è un rumore che produce un altro rumore nella cavità notturna delle cose. Poi è un urlo incerto, accompagnato dall'oscillazione cigolante delle insegne della strada. Poi, ancora, c'è un'altezza improvvisa nella voce lavata dello spazio, e tutto rabbrividisce, e non oscilla e c'è silenzio nella paura di tutto questo con una paura sorda che [...] soltanto quando è passata. Poi non c'è altro che il vento: solo il vento; io ho sonno, e mi accorgo che le porte fissate vibrano e le finestre emettono un rumore di vetro che resiste. Non dormo. Intra-sono. 6 Nella mia coscienza ci sono vestigia. Pesa in me il sonno anche se non mi pesa l'incoscienza... Non esisto. Il vento... Mi sveglio e mi addormento di nuovo. Non ho ancora dormito. C'è un paesaggio dal suono alto e torvo oltre il quale mi disconosco. Assaporo in segreto la possibilità di dormire. In effetti dormo, ma non so se dormo. In ciò che noi pensiamo consista il rumore c'è sempre rumore da momento finale, il vento nell'oscurità e, se io ascolto ancora, il rumore dei polmoni e del cuore. 40 (49) Anche se non posseggo altre virtù, ho almeno una virtù: la novità perenne della sensazione libera. Oggi, mentre percorrevo Rua Nova do Almada mi sono messo a osservare le spalle di un uomo che camminava davanti a me. Erano le spalle comuni di un uomo qualsiasi, la giacca di un vestito modesto addosso a un passante occasionale. Portava una vecchia borsa sotto il braccio sinistro e batteva per terra, accompagnandolo al suo passo, un ombrello chiuso che reggeva con la mano destra.   All'improvviso ho provato per quell'uomo una sensazione simile alla tenerezza. Ho avuto per lui la tenerezza che si prova verso la comune banalità umana, verso il grigiore quotidiano del capofamiglia che si reca al lavoro, verso il suo focolare umile e allegro, verso i piaceri allegri e tristi di cui è fatta la sua vita senza scampo, verso l'innocenza di chi vive senza scervellarsi sulle cose, verso la naturalezza animalesca di quelle spalle vestite. Ho puntato gli occhi sulla schiena di quell'uomo, finestra attraverso la quale ho visto questi miei pensieri. La sensazione è stata identica a quella che ci assale in presenza di qualcuno che dorme. Tutte le creature che dormono sono nuovamente bambini. Forse perché nel sonno non si può fare del male e non ci si accorge della vita per una naturale magia, anche il peggiore criminale o il più assoluto egoista nel sonno diventano sacri. Credo che non ci sia differenza fra uccidere un bambino e uccidere qualcuno che dorme. E le spalle di quest'uomo dormono. Tutto lui, che cammina davanti a me con un passo uguale al mio, dorme. Cammina incosciente. Vive incosciente. Dorme, perché tutti dormiamo. Tutta la vita è un sonno. Nessuno sa quel che fa, nessuno sa quel che vuole, nessuno sa quel che sa. Dormiamo la vita, eterni bambini del Destino. Perciò, se penso con questa sensazione, provo una tenerezza informe e immensa per tutta l'umanità infantile, per tutta la vita sociale che dorme, per tutti, per tutto. Ciò che provo in questo momento è un umanitarismo diretto, senza tesi e senza ideali: una tenerezza come un dio che guarda. Attraverso la compassione di un unico consapevole li vedo tutti, questi poveri uomini, questa povera umanità. Ma tutto ciò che senso ha? Ogni movimento, ogni intenzione vitale, dalla primitiva vita respiratoria alla costruzione di città e di confini degli imperi, mi sembrano una sonnolenza: qualcosa come sogni o tregue che hanno luogo involontariamente nell'intervallo fra una realtà e un'altra realtà, fra un giorno e un altro giorno dell'Assoluto. E come una persona astrattamente materna, mi chino nottetempo sui buoni e sui cattivi figli, accomunati dal sonno che li fa miei. Mi intenerisco con una vastità di infinito. Distolgo gli occhi dalle spalle dell'uomo che mi precede e guardando tutti coloro che camminano in questa strada, tutti li abbraccio con nitore nella medesima tenerezza assurda e fredda che mi è giunta dalle spalle di colui che non sa e che io seguo. Costui è tutto questo: sono tutte queste apprendiste che parlano presso il loro atelier, questi giovani impiegati che ridono sotto le finestre dell'ufficio, queste servette pettorute che ritornano dalle compere pesanti, questi garzoni che fanno la loro prima commissione; tutto ciò è una stessa incoscienza diversificata in volti e in corpi distinti, come fantocci mossi da fili che li collegano alle dita della mano di un essere invisibile. Camminano con tutti gli atteggiamenti con i quali la coscienza si manifesta, e non hanno coscienza di nulla perché non hanno coscienza di avere coscienza. Alcuni intelligenti, altri stupidi, sono tutti ugualmente stupidi. Alcuni vecchi, altri giovani, sono della stessa età. Alcuni uomini, altri donne, sono di uno stesso sesso inesistente. 41 (50) Ci sono giorni nei quali ogni persona che incontro e, ancor più, le persone abituali della mia convivenza obbligata e quotidiana, assumono aspetti di simboli e, isolati o fra loro connessi, formano un alfabeto profetico od occulto che descrive in ombre la mia vita. L'ufficio diventa per me una pagina con parole fatte di gente; la strada è un libro; le parole scambiate con i conoscenti o gli sconosciuti che incontro sono espressioni per le quali mi viene meno il dizionario ma non completamente la comprensione. Parlano, si esprimono; eppure non parlano di se stesse e non esprimono se stesse; sono parole, ho detto, e non indicano, lasciano solo intendere. Ma, nella mia visione crepuscolare, distinguo solo vagamente quanto queste vetrate, che si rivelano sulla superficie delle cose, lasciano trasparire dalla loro interiorità che custodiscono e rivelano. Intendo senza arrivare alla coscienza, come un cieco al quale si parli di colori. A volte, passando per la strada, colgo brani di conversazioni intime, e si tratta quasi sempre di conversazioni sull'altra donna, sull'altro uomo, sul ragazzo di una o sull'amante dell'altro, [...]. Per il solo fatto di sentire queste ombre di discorso umano, che poi in fondo è tutto ciò di cui si occupa la maggioranza delle vite coscienti, porto dentro di me un tedio disgustato, l'angoscia di un esilio fra ragni e l'immediata consapevolezza della mia umiliazione fra gente reale; la condanna, nei confronti del proprietario e del luogo, di essere simile agli altri inquilini dell'agglomerato; di stare a spiare con disgusto, fra le sbarre del retrobottega, l'immondizia altrui che si ammucchia sotto la pioggia in quel cortile interno che è la mia vita. 42 (165) 16.3.1932 Alcuni mesi sono trascorsi dalle ultime cose che ho scritto. Ho attraversato un sonno dell'intelletto grazie al quale la mia vita è stata la vita di un altro. Ho avuto frequentemente una sensazione di felicità traslata. Non sono esistito, sono stato un altro, ho vissuto senza pensare. Oggi, all'improvviso, sono tornato a ciò che sono o sogno di essere. È stato un momento di grande stanchezza, dopo un lavoro senza particolare importanza. Ho poggiato la testa contro le mie mani, con i gomiti appoggiati all'alto tavolo inclinato. E, ad occhi chiusi, mi sono ritrovato. In un falso sonno lontano ho ricordato tutto quanto ero stato, ed è con nitidezza della vista di un paesaggio che mi si è alzata all'improvviso, prima o dopo tutto, la parte larga del vecchio podere di campagna, dove a metà della visione, l'aia era vuota. Ho sentito subito l'inutilità della vita. Vedere, sentire, ricordare, dimenticare; tutto questo mi si è confuso in un vago dolore ai gomiti, con il mormorio incerto della strada vicina e i piccoli rumori del lavoro tranquillo nell'ufficio calmo. Quando ho appoggiato le mani sul tavolo inclinato e ad esso ho rivolto lo sguardo che doveva essere di una stanchezza piena di mondi morti, la prima cosa che ho visto, nel vedere, è stata una grossa mosca (quel lieve ronzio che non era dell'ufficio!) posata sul calamaio. L'ho contemplata dal fondo dell'abisso, anonimo e sveglio. Aveva dei toni verdi di un azzurro nero con un luccichio ributtante ma non brutto. Una vita! Chissà se per ignote forze supreme (dèi o demoni della Verità nella cui ombra erriamo), anch'io non sarò la mosca luccicante che si posa un attimo davanti a loro? Un pensiero facile? Un'osservazione già vecchia? Una filosofia senza sostanza? Forse; ma io non ho pensato: ho sentito. È stato carnalmente, direttamente, con un orrore profondo e [...] ho fatto il risibile paragone. Sono stato mosca quando mi sono paragonato a una mosca. Mi sono sentito mosca quando ho creduto di sentirlo. E mi sono sentito un'anima di mosca, ho dormito da mosca, mi sono sentito rinchiuso come mosca. E il più grande orrore è che nello stesso tempo mi sono sentito io. Senza volere ho alzato gli occhi verso il soffitto, nel caso non scendesse su di me un righello supremo per schiacciarmi, come io potrei schiacciare quel moscone col mio righello. Per fortuna, quando ho abbassato gli occhi, la mosca senza fare rumore era sparita. Involontariamente l'ufficio era di nuovo privo di filosofia. 43 (168) 11.6.1932 Da quando il caldo è cessato e la prima leggerezza della pioggia è cresciuta fino a farsi sentire, nell'aria è rimasta una quiete che l'aria del caldo non aveva, una nuova pace a cui l'acqua dava una sua brezza. L'allegria di questa pioggia soave era così chiara, senza bufera né oscurità, che anche coloro (che erano poi quasi tutti) che non avevano l'ombrello o l'impermeabile, ridevano e parlavano camminando rapidamente lungo la strada lustra. In un intervallo di indolenza, mi sono avvicinato alla finestra aperta dell'ufficio (era stata aperta per il caldo, ma non era stata chiusa per la pioggia) e ho contemplato con l'attenzione intensa e indifferente, che è la mia maniera, proprio quello che ho appena esattamente descritto prima di averlo visto. Sì, eccola là, l'allegria dei due uomini banali che parlavano e sorridevano sotto la pioggerella, con passo svelto ma non affrettato, nella luce pulita della giornata che si era velata. Ma, all'improvviso, dalla sorpresa di un angolo che già era lì, è venuto incontro al mio sguardo un uomo vecchio e dimesso, povero ma non umile, che camminava con impazienza sotto la pioggia fattasi più leggera. Costui, che certamente non aveva una meta, aveva almeno impazienza. L'ho guardato non con l'attenzione disattenta che concediamo alle cose ma con l'attenzione definitoria che concediamo ai simboli. Era il simbolo di nessuno; per questo aveva fretta. Era il simbolo di chi non era stato niente; per questo soffriva. Apparteneva non a coloro che sorridendo avvertono l'allegria scomoda della pioggia, ma apparteneva alla stessa pioggia: un uomo così inconsapevole che sentiva la realtà. Eppure non era questo che volevo dire. Fra la mia osservazione del passante (che poi ho perso subito di vista perché ho smesso di guardarlo) e il nesso di queste osservazioni mi si è inserito un qualche mistero della disattenzione, un'emergenza dell'anima che mi ha lasciato senza prosecuzione. E in fondo alla mia sconnessione, senza che io li senta, sento i rumori dei discorsi dei magazzinieri, in fondo all'ufficio, dove comincia il magazzino, e vedo senza vedere gli spaghi da imballaggio dei pacchi postali, passati due volte, con i nodi scorsoi, due volte, intorno ai pacchi di carta scura e resistente, sul tavolo vicino alla finestra che dà sul cortile interno, fra barzellette e forbici. Vedere è aver visto. 44 (167) 2.11.1933 Non possiamo distinguere se certi tormenti profondi, per la loro essenza sottile e ambigua, appartengono all'anima o al corpo, se sono il malessere causato dal fatto di avvertire la futilità della vita, o l'indisposizione che deriva da un abisso organico: lo stomaco, il fegato, il cervello. Quante volte mi si appanna la consapevolezza volgare di me stesso, in un torvo sedimento di inquieta stasi! Quante volte mi duole esistere, con una nausea a tal punto incerta che non so distinguere se si tratta di tedio o di un sintomo di vomito! Quante volte... Oggi la mia anima è triste fino al corpo. Tutto me stesso mi duole: la memoria, gli occhi e le braccia. In tutto ciò che io sono c'è come una specie di reumatismo. Sul mio essere non ha nessun influsso la luce limpida del giorno, il cielo di un grande azzurro puro, l'alta marea immobile di luce diffusa. Non mi lenisce affatto il lieve soffio fresco autunnale, come se l'estate non passasse, che dà tono all'aria. Nulla è nulla per me. Sono triste, ma non con una tristezza definita, e nemmeno con una tristezza indefinita. Sono triste là fuori, nella strada dove si accumulano le casse. Questa descrizione non traduce esattamente ciò che sento, perché nulla può tradurre esattamente ciò che qualcuno sente. Ma tento in qualche modo di dare l'idea di ciò che sento, un miscuglio di varie specie di io e della strada estranea che, proprio perché la vedo, anch'essa, in un modo sotterraneo che non so analizzare, mi appartiene, fa parte di me. Vorrei vivere diverso in paesi lontani. Vorrei morire altro fra bandiere sconosciute. Vorrei essere acclamato imperatore in altre epoche, oggi migliori perché non sono di oggi, viste in un barlume colorito, inedite di sfingi. Vorrei tutto quanto può rendere ridicolo ciò che sono, e perché rende ridicolo ciò che sono. Vorrei, vorrei... Ma c'è sempre il sole quando brilla il sole e la notte quando arriva la notte. C'è sempre la pena quando la pena ci duole e il sogno quando il sogno ci culla. C'è sempre quello che c'è e mai quello che dovrebbe esserci, non perché è meglio o perché è peggio, ma perché è altro. C'è sempre... Nella strada piena di casse i facchini stanno lavorando. Con risate e scherzi stanno caricando le casse una per una sui carri. Dall'alto della mia finestra dell'ufficio li sto guardando con occhi pigri con le palpebre che dormono. E qualcosa di sottile, di incomprensibile, collega quello che sento alle operazioni di carico che vedo; una sensazione sconosciuta trasforma in una cassa tutto questo mio tedio, o angoscia, o nausea, e lo alza sulle spalle di chi scherza ad alta voce, fino ad un carro che non c'è. E la luce del giorno, serena, come sempre, splende obliquamente, perché la strada è stretta, sul luogo in cui stanno alzando le cassette: non sulle cassette, che sono all'ombra, ma sull'angolo laggiù in fondo dove i facchini stanno facendo il non fare niente, indeterminatamente. 45 (99) L'orologio che si trova in fondo alla casa deserta, deserta perché tutti dormono, scocca lentamente il quadruplo suono chiaro delle quattro ore della notte. Non mi sono ancora addormentato e credo che non mi addormenterò. Seppure non ci sia niente che fermi la mia attenzione e che non mi faccia addormentare, o qualcosa che mi pesi nel corpo senza farmi riposare, distendo l'ovattato silenzio del mio corpo estraneo nell'ombra che il vago chiardiluna dei lampioni della strada rende ancor più scompagnata. A causa del sonno che mi invade non riesco neppure a pensare, e a causa del sonno che non riesco a raggiungere mi è perfino impossibile sentire. Intorno a me è l'universo nudo, astratto, fatto di negazioni notturne. Mi scindo, stanco ed inquieto, e giungo a sfiorare con la sensazione del corpo una conoscenza metafisica del mistero delle cose. Talvolta la mia anima diventa molle, e allora certi particolari senza forma della vita quotidiana vengono a galleggiare alla superficie della mia coscienza e mi trovo a fare scritture contabili galleggiando sul sonno impossibile. Altre volte mi riscuoto dall'interno del dormiveglia in cui ristagnavo, e immagini vaghe, di un cromatismo poetico e casuale lasciano fluire sulla mia disattenzione il loro spettacolo senza rumore. I miei occhi non sono chiusi del tutto. Una luce lontana mi incornicia lo sguardo fiacco; sono i lampioni pubblici accesi per strada, nei confini deserti delle vie. Finire, dormire, sostituire questa coscienza discontinua con malinconiche cose migliori, cose dette in segreto a qualcuno che mi ignori!... Finire, passare fluido e limitrofo, flusso e riflusso di un mare largo, per coste visibili di una notte nella quale si dorma davvero!... Finire, essere clandestino ed esterno, movimento di rami in viali lontani, tenue cadere di foglie percepito nel suono più che nella caduta, alto mare sottile con zampilli in lontananza; e tutto l'indefinito dei parchi nella notte, sperduti fra grovigli continui, labirinti naturali della tenebra!... Finire, cessare finalmente, ma con una sopravvivenza traslata, essere la pagina di un libro, la ciocca di capelli sciolta, l'oscillare del rampicante vicino alla finestra socchiusa, i passi senza importanza sul ghiaino fine della curva, l'ultimo fumo alto del villaggio che si addormenta, la frusta dimenticata dal vetturale sul ciglio mattutino della strada... L'assurdo, il caos, la cancellazione: tutto quanto non sia la vita... E a modo mio, senza sonno né riposo, dormo questa vita vegetativa della supposizione; e sotto le mie palpebre inquiete si libra, come la spuma quieta di un mare sporco, il riflesso lontano dei lampioni muti della strada. Dormo e sdormo. Dall'altra parte di me, oltre il luogo in cui giaccio, il silenzio della casa tocca l'infinito. Sento cadere il tempo, goccia a goccia, e nessuna goccia che cade si sente cadere. Il cuore fisico mi opprime fisicamente la memoria di tutto quanto fu o fui, fatta un grumo di nulla. Avverto la mia testa posata materialmente sul cuscino nel quale essa affonda. L'epidermide della federa ha con la mia epidermide un contatto di persone nell'ombra. Perfino l'orecchio sul quale poggio mi si stampa matematicamente contro il cervello. Sbatto le palpebre per la stanchezza e le mie ciglia emettono un suono minuscolo, impercettibile, sul bianco sensibile dell'alto cuscino. Respiro sospirando e il mio respiro ha luogo: non è mio. Soffro senza sentire e senza pensare. L'orologio della casa, luogo sicuro là nel fondo delle cose, scocca la mezza, secca e nulla. Tutto è tanto, tutto è così fondo, tutto è così buio e così freddo! Oltrepasso tempi, oltrepasso silenzi; e mondi senza forma passano vicino a me. All'improvviso, come un bambino misterioso, un gallo canta ignaro della notte. Posso dormire perché in me è mattino. E sento la mia bocca che sorride, premendo leggermente contro le morbide pieghe della federa che mi imprigiona il viso. Posso abbandonarmi alla vita, posso dormire, posso ignorarmi... E attraverso il vergine sonno che mi oscura, ripenso al gallo che ha cantato; o invece è davvero quel gallo che canta per la seconda volta.   46 (101) 18.5.1930 Vivere è essere un altro. Neppure sentire è possibile se si sente oggi come si è sentito ieri: sentire oggi come si è sentito ieri non è sentire, è ricordare oggi quello che si è sentito ieri, è essere oggi il cadavere vivo di ciò che ieri è stata la vita perduta. Cancellare tutto dalla lavagna da un giorno all'altro, essere nuovo ad ogni nuova alba, in una nuova verginità perpetua dell'emozione: questo e solo questo vale la pena di essere o di avere, per essere o avere quello che in modo imperfetto siamo. Quest'alba è la prima alba del mondo. Questo colore rosa, che attraverso il giallo volge verso un caldo bianco, non si è mai posato prima sulla facciata occidentale che il caseggiato con i suoi occhi vitrei punta sul silenzio che sopraggiunge dalla luce crescente. Mai c'è stata quest'ora, o questa luce, o questo mio essere. Ciò che sarà domani sarà un'altra cosa e ciò che vedrò sarà visto da occhi ricomposti, pieni di una nuova visione. Alti monti della città! Grandi architetture che i pendii scoscesi reggono e ingrandiscono, slittare di edifici raggrumati in varie forme che la luce intesse di ombre e di ustioni: siete l'oggi, siete me; poiché vi vedo siete ciò che [...] e vi amo dalle mie murate come un piroscafo che incrocia un altro piroscafo e c'è un'ignota nostalgia al passaggio. 47 (102) Dalla terrazza di questo caffè guardo con un fremito la vita. Vedo poco di essa: il suo disordine, in questo suo concentrarsi entro questa piazzetta nitida e mia. Una fiacchezza, come il principio di una sbornia, mi illumina di cose l'anima. Fuori di me, nei passi dei passanti [...] scorre la vita evidente e unanime. In quest'attimo i miei sensi si assopiscono e tutto mi sembra un'altra cosa: le mie sensazioni sono un errore confuso e lucido, apro le ali ma non mi muovo, come un condor ipotetico. Quale uomo di ideali, chissà se la mia aspirazione più alta non sia quella di occupare questa seggiola al tavolo di questo caffè? Ogni cosa è vana come rimestare la cenere, vaga come il momento in cui non è ancora l'alba. E la luce sgorga così serenamente e perfettamente sulle cose, le avvolge talmente di realtà ilare e mesta! Tutto il mistero del mondo precipita fino a materializzarsi davanti ai miei occhi in banalità e strada. Ah, in quale modo le cose quotidiane sfiorano misteri in noi! In quale modo alla superficie toccata dalla luce di questa vita così complessa in quanto umana, l'Ora, sorriso incerto, sale alle labbra del Mistero! Come sembra moderno tutto ciò! E allo stesso tempo così antico, così occulto, con un senso così diverso da quello che risplende in tutto! 48 (103) Sapendo perfettamente come le cose insignificanti abbiano la capacità di torturarmi, evito deliberatamente il contatto con le cose insignificanti. Chi, come me, soffre quando una nuvola passa davanti al sole, come potrebbe non soffrire nell'oscurità del giorno perennemente annuvolato della sua vita? La mia solitudine non consiste in una ricerca di felicità, che non ho la forza di raggiungere; né di tranquillità, che si ottiene soltanto se non la si è mai perduta. Ma è una ricerca di sonno, di annullamento, di piccola rinuncia. Le quattro pareti della mia stanza disadorna sono per me al contempo prigione e lontananza, letto e bara. Le mie ore più felici sono quelle in cui non penso a nulla, in cui non voglio nulla, in cui non sogno neppure, perso in un torpore di vegetale errato, mero muschio cresciuto sulla superficie della vita. E senza amarezza assaporo l'assurda consapevolezza di non essere nulla, sapore previo della morte e della cancellazione.   Non ho mai avuto qualcuno da poter chiamare "Maestro". Nessun Cristo è morto per me. Nessun Budda mi ha indicato una strada. Sulla cima dei miei sogni nessun Apollo e nessuna Minerva mi sono mai apparsi per illuminare la mia anima. 49 (104) Non riesco più a sopportare niente, a parte la vita: l'ufficio, la casa, le strade (perfino il loro contrario, se ciò fosse possibile), ogni cosa mi pesa e mi opprime; solo l'insieme mi dà sollievo. Sì, in questo insieme, una cosa da nulla è sufficiente a consolarmi. Un raggio di sole che inestinguibile entri nell'ufficio morto; il grido di uno strillone che sale rapido fino alla finestra della mia camera; che la gente esista; che esista il clima e la mutevolezza del tempo, l'incredibile obiettività del mondo... All'improvviso il raggio di sole è entrato per me, che all'improvviso l'ho visto... Era solo un filo di luce sottilissimo e quasi incolore che tagliava come una lama nuda lo scuro pavimento di legno, ravvivando al suo passaggio i chiodi vecchi e i solchi fra le tavole, nere falserighe del non-bianco. Per lunghi minuti ho seguito l'effetto insensibile della penetrazione del sole nell'ufficio tranquillo... Passatempi del carcere! Soltanto i reclusi guardano in questo modo il sole che si muove, come chi guarda le formiche. 50 (105) A intervalli una lucciola seguita a succedere a se stessa. Tutt'intorno, buia, la campagna è una grande mancanza di rumore che quasi profuma. La pace di tutto duole e pesa. Un tedio senza forma mi soffoca. Raramente vado in campagna, e quasi mai vi passo una giornata o vi resto da un giorno all'altro. Ma oggi, che l'amico al quale ho fatto visita non ha permesso che rifiutassi il suo invito, sono venuto in questo luogo con impaccio, come un timido a una grande festa; sono arrivato qui allegro, ho gradito l'aria e l'ampio paesaggio, ho ben pranzato e ben cenato e ora, che è notte fonda, nella mia stanza senza luce il luogo incerto mi riempie di angustia. La finestra della stanza dove dormirò dà sulla campagna aperta, una campagna indefinita che è tutte le campagne, sulla grande notte vagamente stellata dove si avverte una brezza silenziosa. Seduto vicino alla finestra contemplo con i sensi tutto questo nulla della vita universale che è là fuori. L'ora si armonizza in una sensazione inquieta, dall'invisibilità visibile di tutto fino al legno vagamente rugoso per la tinta vecchia screpolata del davanzale biancheggiante dove, aperta, si appoggia di fianco la mia mano sinistra. Quante volte però non desidero con gli occhi questa pace dalla quale quasi fuggirei ora, se fosse facile o decoroso! Quante volte mi è sembrato di credere (stando là, fra le strette vie delle case alte) che la pace, la prosa, il definitivo siano qui, fra le cose naturali, invece che là dove la tovaglia della civiltà fa dimenticare il legno ora verniciato del tavolo sottostante! E ora, qui, sentendomi sano e sanamente stanco, sono inquieto, prigioniero, nostalgico. Può darsi che non succeda soltanto a me, ma anche a tutti coloro che la civiltà ha fatto nascere per la seconda volta. Eppure ho l'impressione che per me, o per coloro che sentono come me, l'artificialità sia diventata una cosa naturale, ed è il naturale che sembra strano. Mi correggo: l'artificialità non è diventata naturale; il naturale è diventato diverso. Ne faccio a meno e detesto i veicoli, ne faccio a meno e detesto i prodotti della scienza (telefoni, telegrafi) che rendono la vita facile, o i sottoprodotti della fantasia (grammofoni, ricettori herziani) che rendono divertente la vita di coloro che riescono a divertire. Nulla di tutto ciò mi interessa, nulla di tutto ciò desidero. Ma amo il Tago perché sulla sua riva c'è una grande città. Assaporo il cielo perché lo vedo da un quarto piano di una strada della Baixa. Non c'è niente che la campagna o la natura mi possono dare che sia pari alla maestà irregolare della città tranquilla vista dalla Graga o dal belvedere di S. Pedro de Alcantara sotto la luna. Non ci sono per me fiori che siano pari al cromatismo di Lisbona sotto il sole.   Soltanto le razze che portano i vestiti capiscono la bellezza di un corpo nudo. Il pudore vale soprattutto per la sensualità, così come l'ostacolo per l'energia. L'artificialità è un modo di assaporare la naturalità. Ciò che ho assaporato di questi vasti campi, l'ho assaporato perché non vivo qui. Colui che non è mai vissuto in costrizione non capisce la libertà. La civiltà è l'educazione della natura. L'artificialità è la strada per un avvicinamento al naturale. Eppure non bisogna mai confondere l'artificiale col naturale. La naturalità dell'animo umano superiore consiste nell'armonia fra il naturale e l'artificiale. 51 (106) 15.5.1930 Un breve scorcio di campagna, al di là di un muro di periferia, mi libera più completamente di quanto un intero viaggio non libererebbe un'altra persona. Ogni punto della visuale è l'apice di una piramide rovesciata la cui base è indeterminabile. 52 (39) Alzata di spalle Di solito attribuiamo alla nostra idea dell'ignoto il colore delle nostre nozioni del noto. Se la morte la definiamo un sonno è perché essa ci sembra un sonno dal di fuori; se chiamiamo la morte una nuova vita è perché ci sembra una cosa diversa dalla vita. Attraverso piccoli malintesi nei confronti del reale noi costruiamo le fedi e le speranze, e così ci nutriamo di croste che chiamiamo dolci, come i bambini poveri che giocano a essere felici. Ma è così la vita; o almeno è così quel particolare sistema di vita che di norma è definito civiltà. La civiltà consiste nel dare a qualcosa un nome che non è il suo, e poi sognare sul risultato. E in verità il nome falso e il sogno vero creano una nuova realtà. L'oggetto diventa veramente altro, perché noi l'abbiamo reso altro. Fabbrichiamo realtà. La materia prima è ancora la stessa ma la forma che l'arte le conferisce la allontana da se stessa. Un tavolo di pino è legno di pino, ma è anche tavolo. Ci sediamo al tavolo e non al pino. Un amore è un istinto sessuale, però non amiamo con l'istinto sessuale, ma presupponendo un altro sentimento. E quella supposizione è ormai, in effetti, un altro sentimento. Non so quale effetto sottile di luce, o rumore vago, o ricordo di profumo o musica suonata da non so quale influenza esterna mi abbiano evocato all'improvviso, mentre passeggiavo per la strada, queste divagazioni che registro senza fretta mentre mi siedo distrattamente al caffè. Non so dove portavo i miei pensieri o dove avrei preferito portarli. È una giornata di leggera nebbia umida e calda, triste ma non minacciosa, immotivatamente monotona. Sento pena per un sentimento che ignoro; mi manca un argomento su qualcosa che ignoro; i miei versi sono privi di volontà. Sono triste nel profondo della coscienza. E scrivo queste righe vergate disordinatamente, non per dire questo, né per dire qualunque cosa, ma per dare un compito alla mia disattenzione. Riempio lentamente, con tratti stanchi di un lapis spuntato (che non ho il sentimentalismo di temperare) il foglio di carta bianco nel quale sono avvolti i panini che mi hanno fornito al caffè - perché non avevo bisogno di un foglio migliore, me ne bastava uno purché fosse bianco. E mi sento soddisfatto, mi appoggio all'indietro. La sera cala monotona e senza pioggia, in un tono di luce malinconico ed incerto... E smetto di scrivere perché smetto di scrivere. 53 (124) Sciocchezze, cose normali della vita, insignificanze della quotidianità e dell'insignificanza, polvere che sottolinea con un tratto sbiadito e grottesco la sordidezza e la viltà della mia vita umana. Il Registro di Cassa aperto davanti ai miei occhi che vagheggiano tutti gli orienti; la battuta inoffensiva del capufficio che offende l'intero universo; una telefonata per il principale da parte dell'amichetta, cioè "la signora", come viene definita [,..] in mezzo alla mia meditazione del periodo più asessuato di una teoria estetica e mentale. Tutti hanno un capufficio dalla battuta sempre inopportuna [?] e l'animo fuori dall'universo. Tutti hanno un principale e l'amica del principale, con una telefonata nel momento più inopportuno, mentre la sera splendida sta calando e le amanti [...] rischiano di parlare contro l'amico [?] che sta facendo la pipì come noialtri sappiamo. Ma tutti coloro che sognano, anche se non sognano in un ufficio della Baixa o davanti a un bilancio di una ditta di tessuti, tutti hanno davanti a sé un Registro di Cassa, sia esso la donna che hanno sposato, sia la [...] di un futuro che hanno ereditato, sia quel che sia, purché di fatto [?] lo sia. Poi gli amici, bravi ragazzi, bravi ragazzi, ma che piacevole chiacchierare con loro, pranzare con loro, cenare con loro, e non so come dire, tutto così sordido, così spregevole, così meschino, sempre dentro una ditta di tessuti anche se per la strada, sempre davanti al Registro di Cassa anche se all'estero, sempre con il principale anche se nell'infinito. Tutti noi che sognamo e pensiamo siamo aiutanti e contabili in un Emporio di tessuti o di qualsiasi altra merce in una qualsiasi Baixa. Facciamo conti e perdiamo; sommiamo e passiamo via; chiudiamo il bilancio, e il saldo invisibile è sempre contro di noi. Scrivo sorridendo con le parole, ma il mio cuore è come se andasse in pezzi, in pezzi come le cose che vanno in pezzi, in frantumi, in cocci: spazzatura che la pattumiera, nel gesto che passa sopra le spalle, porta verso il carro dell'eterno [?] di ogni municipio. E ogni cosa aperta e decorata aspetta il Re che deve arrivare e che già arriva, che la polvere del seguito è una nuova nebbia nell'Oriente lento e le lance ormai brillano in lontananza con una loro alba. 54 (43) I sogni hanno questo di volgare: che tutti sognano. Nel buio pensa a qualcosa il garzone che durante il giorno si appisola appoggiato al lampione, nell'intervallo fra una vettura e l'altra. Io lo so che cosa pensa fra sé e sé: pensa alla stessa cosa nella quale mi inabisso fra un'addizione e l'altra nel tedio estivo dell'ufficio silenzioso. 55 (85) A volte, quando alzo la testa stanca dai libri nei quali segno i conti altrui e l'assenza di una vita mia, avverto una sorta di nausea fisica che forse deriva dalla posizione curva, ma che trascende i numeri e la delusione. La vita mi disgusta come una medicina inutile. Ed è allora che io capisco, con una chiara visione, come sarebbe facile cacciare questo tedio se io semplicemente avessi forza di volerlo davvero cacciare. Noi viviamo attraverso l'azione, cioè attraverso la volontà. Noi, coloro che non sanno volere (esseri geniali o pezzenti), siamo affratellati dall'impotenza. Che senso ha considerarmi un genio, se la mia qualifica è "aiutante contabile"? Quando Cesario Verde si fece annunciare al medico non come il signor Verde, impiegato, ma come il poeta Cesario Verde, impiegò una verbosità di quel vano orgoglio che è la spia della vanità. Di fatto egli fu sempre, poveretto, il signor Verde, impiegato. Il poeta nacque dopo che egli era morto, perché solo dopo la sua morte nacque la stima per il poeta. Agire, ecco la vera intelligenza. Sarò quel che vorrò essere. Ma devo volere ciò che sarà. L'esito è nell'avere esito, e non nell'avere condizioni di esito. Dappertutto, in ogni vasta terra, esistono condizioni palazzesche. Ma dove sarà il palazzo se non viene costruito?     56 (113) Sogno fra Cascais e Lisbona. Sono andato a Cascais per conto del signor Vasques per pagare le tasse di una casa che egli possiede a Estoril. Ho assaporato in anticipo il piacere di andarci, un'ora per l'andata, un'ora per il ritorno, guardando le fisionomie sempre diverse del grande fiume e della sua foce atlantica. Per la verità, all'andata mi sono perso in meditazioni astratte, vedendo senza vederli i paesaggi acquatici che avrei visto con piacere; e al ritorno mi sono perso nell'individuazione di queste sensazioni. Non sarei capace di descrivere il più piccolo dettaglio del viaggio, la più piccola porzione del visibile. Ho guadagnato queste pagine per dimenticanza e contraddizione. Non so se questo è meglio o peggio del suo contrario, che pure ignoro. Il treno rallenta, siamo al Cais do Sodré. Sono arrivato a Lisbona, ma non a una conclusione. 57 (230) 3.12.1931 Quando mi trasferii a Lisbona, nell'appartamento sopra il nostro c'era una musica di pianoforte che eseguiva esercizi di scale, il tirocinio monotono di una bambina che non ho mai visto. Scopro oggi che, a causa di processi di infiltrazione che disconosco, ho ancora nelle cantine dell'animo, udibili se si apre la porta, le ripetute scale della tastiera della bambina che oggi è una signora, altra, o morta, e racchiusa in un luogo bianco dove i neri cipressi verdeggiano. Io ero un bambino e oggi non lo sono; però nel ricordo il suono è uguale a ciò che era nella realtà, e ha, perennemente presente, se si alza dal luogo in cui finge di dormire, la stessa lenta tastiera, la stessa ritmica monotonia. Mi invade, per il fatto di considerarlo o di sentirlo, una tristezza diffusa, angosciosa, mia. Non piango la perdita della mia infanzia; piango il fatto che tutto, e in esso la mia infanzia, si perde. È la fuga astratta del tempo, non la fuga concreta del tempo (che è mio) a dolermi nel cervello per la ricorrenza ripetuta, involontaria, delle scale del piano di sopra, terribilmente anonimo e lontano. È tutto il mistero della fugacità del tutto che martella ripetutamente cose che non arrivano a essere musica, ma che sono nostalgia nel fondo assurdo del mio ricordo. Insensibilmente, in un alzare visuale, vedo il salottino che non ho mai visto, dove la studente di pianoforte che non ho conosciuto sta ancora oggi ripetendo, un dito dopo l'altro, con cura, le scale sempre uguali di ciò che è già morto. Vedo, vedo ancora di più, ricostruisco nel vedere. E tutta la vita di famiglia dell'appartamento di sopra, nostalgica oggi ma non ieri, si innalza fittizia a poco a poco dalla mia contemplazione perplessa. Suppongo però che in tutto questo io sono traslato, che la nostalgia che sento non è proprio mia, né proprio astratta, ma l'emozione intercettata di non so quale terza persona, per la quale queste emozioni, che in me sono letterarie, sarebbero (lo direbbe Vieira) 7  letterali. È nella mia supposizione di sentire che mi addoloro e che mi angoscio; e la nostalgia, per la cui sensazione i miei occhi si riempiono di lacrime, la penso e la sento per immaginazione ed estraneità. E sempre, con una costanza che proviene dal fondo del mondo, con una persistenza che studia metafisicamente, risuonano, risuonano, risuonano le scale di chi studia il pianoforte, lungo la spina dorsale fisica del mio ricordo. Sono le antiche strade con altra gente, oggi le stesse strade diverse; sono persone morte che mi parlano attraverso la trasparenza della loro assenza odierna; sono rimorsi di quello che ho fatto o non ho fatto, suoni di ruscelli nella notte, rumori a pianterreno nella casa quieta. Ho voglia di gridare dentro la testa. Voglio fermare, schiacciare, rompere quell'impossibile disco di grammofono che suona dentro di me, in una casa altrui, torturatore intangibile. Voglio fermare l'anima affinché essa, in quanto veicolo che mi [...], prosegua da sola e mi lasci. Divento pazzo per il fatto di dover sentire. E finalmente io, nel mio cervello odiosamente sensibile, nella mia pelle accapponata, nei miei nervi a fior di pelle, sono i tasti suonati in scale; oh, orribile e personale pianoforte del nostro ricordo! E sempre, sempre, come in una parte del cervello diventata indipendente, risuonano, risuonano, risuonano le scale al pianterreno della prima casa di Lisbona nella quale abitai. za. Se è l'ora, rientro in ufficio come qualsiasi altro impiegato. Se non è l'ora d'ufficio, vado al fiume a guardare il fiume, come una persona qualsiasi. Sono uguale. E al riparo di questo fatto, cielo mio, mi faccio costellazione di nascosto e ho il mio infinito.     58 (55) 20.7.1930 Quando dormo molti sogni esco per strada con gli occhi aperti, ancora con la traccia e la certezza dei sogni. E mi meraviglio del mio automatismo del quale gli altri non si rendono conto. Perché passo per la vita di ogni giorno senza lasciare la mano della nutrice astrale, e i miei passi per strada sono concordi e consoni a oscuri disegni dell'immaginazione di dormire. E per la strada cammino sicuro; non vacillo; rispondo bene; esisto. Ma quando c'è un intervallo e non devo vigilare il corso della mia marcia, per evitare i veicoli o non disturbare i pedoni, quando non devo parlare a qualcuno né entrare in un portone vicino, mi abbandono di nuovo nelle acque del sogno come una barca di carta piegata agli angoli; e di nuovo ritorno all'illusione languida che mi aveva cullato la coscienza vaga del mattino che nasceva fra il cigolio dei barrocci carichi di legumi. 8 Ed è allora, nel mezzo alla vita, che esistono grandi schermi per il sogno. Scendo una strada irreale della Baixa e la realtà delle vite che non esistono mi avvolge teneramente la fronte con un panno bianco di reminiscenze false. Navigo nel disconoscimento di me stesso. Dove non sono mai stato, là ho sempre vinto. Ed è una brezza nuova questa sonnolenza con la quale posso camminare, piegato in avanti nella marcia sull'impossibile. Ognuno ha il suo alcool. Io ho alcool abbastanza nell'esistere. Ubriaco di sentirmi, mi aggiro e cammino con sicurezza   59 (368) Quando sono sdraiato nella mia poltrona e solo un tenue filo mi lega alla vita, con quale chiarezza descrivo nella mia riflessione, dettandoli all'inerzia, i paesaggi che non potrò mai narrare e le frasi che non scriverò mai! Scandisco periodi interi, perfetti in ogni loro parola; ascolto trame di drammi che esistono nella mia immaginazione; seguo verso per verso la scansione ritmica di interi poemi; e un grande [...] come uno schiavo invisibile mi segue nella penombra. Ma se mi muovo dalla poltrona dove alimento queste sensazioni quasi perfette e mi siedo al tavolo per scriverle, le parole svaniscono, e i drammi si interrompono; e di quel nesso vitale che univa il mormorio del ritmo, resta soltanto una remota nostalgia, una traccia di sole su monti lontani, un vento che fa mulinellare le foglie su una soglia deserta, una parentela mai rivelata, i piaceri degli altri, la donna che speravamo ci avrebbe rivolto il suo sguardo e che invece non esiste. Ho avuto tutti i progetti possibili. L'Iliade che ho composto possedeva la logica di un'ispirazione e una successione ferrea di epodi sconosciuti a Omero. Al confronto con la studiata perfezione dei miei versi inesistenti l'esattezza di Virgilio è povera e la forza di Milton è fiacca. Le mie allegorie satiriche sono superiori a Swift per precisione simbolica e per la perfezione dei dettagli. E quanti Orazi sono stato! Ma ogni volta che mi alzo dalla poltrona dove queste cose ebbero un'esistenza che non è solo l'esistenza del sogno, provo la duplice tragedia di sapere che non esistono e che non sono state solo un sogno: che qualcosa di esse sopravvive sulla soglia astratta del mio averle pensate e del loro essere state. Sono stato un genio in qualcosa di più che nel sogno e in qualcosa di meno che nella vita. La mia tragedia è questa: essere l'atleta che è caduto un attimo prima del filo di lana, mentre guidava la corsa. 61 (33) 60 (186) 13.6.1930 Vivo sempre nel presente. Non conosco il futuro. Non ho più il passato. L'uno mi pesa come la possibilità di tutto, l'altro come la realtà di nulla. Non ho speranze né nostalgie. Conoscendo ciò che è stata la mia vita fino ad oggi (tante volte e per tanti versi l'opposto di come avrei voluto), cosa posso presumere della mia vita di domani se non che sarà ciò che non presumo, ciò che non voglio, ciò che mi succede dal di fuori, perfino attraverso la mia volontà? Non c'è niente nel mio passato che mi faccia ricordare una cosa con il desiderio inutile di avere di nuovo quella cosa. Non sono mai stato altro che un residuo e un simulacro di me stesso. Il mio passato è ciò che non sono riuscito ad essere. Non ho nostalgia nemmeno delle sensazioni di momenti passati: quello che sentiamo esige il suo momento; quando il momento è passato si volta pagina, la storia continua ma non continua il testo. Breve ombra scura di un albero cittadino, lieve rumore di acqua che cade nella fontana triste, verde dell'erba regolare (giardino pubblico sul far del crepuscolo): voi siete per me, in questo momento, l'universo intero, perché siete il contenuto pieno della mia sensazione cosciente. Dalla vita non voglio altro che sentirla perdersi in queste sere impreviste, al suono di questi bambini esti nei che giocano in questi giardini sbarrati dalla malinconia delle strade che li circondano, e incorniciati, oltre che dai rami alti degli alberi, dal vecchio cielo dove le stelle ricominciano. Pensando, mi sono creato eco e abisso. Approfondendomi, mi sono moltiplicato. Il più piccolo episodio - un'alterazione della luce, il cadere contorto di una foglia secca, il petalo che si stacca ingiallito, la voce dall'altra parte del muro o i passi di chi pronuncia quella voce insieme ai passi di chi la deve ascoltare, il portone socchiuso della vecchia tenuta, il patio che si apre con un arco sulle case strette sotto il chiarore della luna - tutte queste cose, che non mi appartengono, imprigionano con corde di risonanza e di nostalgia la mia meditazione sensitiva. In ognuna di codeste sensazioni sono altro, mi rinnovo dolorosamente in ogni impressione indefinita. Vivo di impressioni che non mi appartengono, dissipatore di rinunce, altro nel mio essere io. 62 (34) Ho creato in me varie personalità. Creo costantemente personalità. Ogni mio sogno, appena lo comincio a sognare, è incarnato in un'altra persona che inizia a sognarlo, e non sono io. Per creare, mi sono distrutto; mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi. 63 (36) Ha detto Amiel che un paesaggio è uno stato d'animo, ma la frase è l'esile felicità di un esile sognatore. Quando il paesaggio è un paesaggio, esso cessa di essere uno stato d'animo. Oggettivare significa creare; e nessuno direbbe che una poesia scritta è lo stato d'animo di pensare di farla. Vedere è forse sognare, ma se lo chiamiamo vedere invece di chiamarlo sognare è perché distinguiamo il sognare dal vedere. Del resto, a cosa servono queste speculazioni di grammaticale psicologia? Indipendentemente da me cresce l'erba, piove sull'erba che cresce, e il sole indora il prato d'erba che è cresciuta o crescerà; i monti si ergono da tempi immemorabili, e il vento passa nello stesso modo in cui Omero, anche se non fosse esistito, l'ha sentito. Sarebbe più giusto dire che uno stato d'animo è un paesaggio; la frase avrebbe il vantaggio di non ospitare la menzogna di una teoria ma solo la verità di una metafora. Queste parole improvvisate mi sono state suggerite dalla grande estensione della città vista alla luce universale del sole, dall'alto belvedere di S. Pedro de Alcantara. Tutte le volte che contemplo una vasta distesa, e mi libero dal mio metro e settanta di altezza e dai miei sessantun chili di peso nei quali fisicamente consisto, rivolgo un sorriso fortemente metafisico a coloro che sognano che il sogno è sogno, e amo la verità dell'esterno assoluto con una virtù nobile dell'intelletto. Il Tago in lontananza è un lago azzurro, e i monti dell'Altra Riva sono quelli di una Svizzera più piatta. Una piccola nave - un mercantile scuro - salpa dalle parti di Poco do Bispo verso la foce che non posso scorgere. Che gli Dei mi conservino, fino all'ora in cui finirà questa mia immagine, la nozione chiara e solare della realtà esterna, l'istinto della mia insignificanza, il conforto dell'essere bambino e di poter pensare di essere felice. 64 (38) 29.1.1932 Allorché le ultime calure estive andavano perdendo la ferocia sotto il sole velato, l'autunno cominciava prima della sua entrata, con una lieve tristezza prolissamente indefinita, come se il cielo non avesse voglia di sorridere. Era un azzurro a volte più chiaro, altre volte più verde con l'identica assenza di sostanza del colore profondo; era una specie di oblio nelle nuvole, porpore diverse e sfumate; non era più un torpore ma un tedio, in tutta la sua immobile solitudine attraversata dalle nuvole. L'entrata del vero autunno si annunciava poi con un freddo dentro il non-freddo dell'aria, con una sfumatura dei colori che ancora non sfumavano, con un qualcosa come una penombra e un allontanamento, con ciò che era stato il tono del paesaggio e la fisionomia sfocata delle cose. Niente era ancora morto, ma ogni cosa, come in un sorriso ancora assente, si tramutava in nostalgia verso la vita. E poi, ecco il vero autunno. L'aria diventava fredda di vento; le foglie fremevano con un rumore secco, anche se non erano foglie secche; la terra acquistava il colore e la forma impalpabile di una vaga palude. Ciò che era stato l'ultimo sorriso scoloriva in una stanchezza di palpebre, in una indifferenza di gesti. E così tutto quello che possiede una capacità di sentire, o che crediamo abbia una capacità di sentire, stringeva intimamente al seno il commiato da se stesso. Un rumore come una folata in un cortile attraversava la consapevolezza che avevamo di un'altra cosa. Si aveva voglia di essere convalescenti per sentire veramente la vita. Ma le prime piogge dell'inverno che sopraggiungevano nell'autunno ormai solido, lavavano via senza rispetto queste mezze tinte. Alti venti, che facevano cigolare le cose ferme, che scompigliavano le cose sicure, che portavano via le cose mobili, innalzavano fra i suoni intermittenti della pioggia parole assenti in un'ignota protesta, suoni tristi e quasi rabbiosi di disperazione senz'anima. E poi l'autunno finiva in freddi e grigiori. Era un autunno di inverno quello che ora arrivava, una polvere diventata fango di tutto, ma insieme un qualcosa di buono che il freddo dell'inverno porta: l'inflessibile estate lontana, la primavera futura, l'autunno che infine si è risolto in inverno. E sul cielo alto dove i toni opachi non ricordavano più il caldo e la tristezza, tutto era propizio alla notte e alla meditazione libera. Tutto per me era in questo modo prima che lo pensassi. Oggi lo scrivo perché lo ricordo. E l'autunno che vivo è quello che ho perduto.     65 (434) 14.9.1931 Dietro alle prime tregue della morente estate sono sopraggiunti, nella casualità della sera, certi coloriti più blandi del cielo ampio, certi ritocchi di brezza fresca che annunciavano l'autunno. Non era ancora lo scemare del verde del fogliame, o lo staccarsi delle foglie, né quella vaga angustia che accompagna la nostra consapevolezza della morte esterna, perché sarà anche la nostra. Era come una stanchezza della vitalità esistente, un vago sonno che invadeva gli ultimi gesti dell'agire. Ah, sono sere di una indifferenza così addolorata che, prima di cominciare nelle cose, l'autunno comincia in noi. Ogni autunno che arriva è più vicino all'ultimo autunno che avremo; e ciò vale anche per l'estate; ma la natura dell'autunno fa venire in mente la fine di tutto, cosa che in estate è facile dimenticare. Non è ancora l'autunno, non c'è ancora nell'aria il giallo delle foglie morte o la tristezza umida del futuro inverno. Ma c'è un'incrinatura di tristezza anticipata, c'è un dolore pronto a partire nell'attenzione che prestiamo ai colori diffusi delle cose, al diverso tono del vento, alla quiete che sul far della notte si diffonde sull'inevitabile presenza dell'universo. Sì, passeremo tutti, passerà tutto. Nulla resterà di colui che usava sentimenti e guanti, di colui che parlava della morte e della politica locale. Come esiste la luce che illumina i volti dei beati e le ghette dei passanti, ci sarà la mancanza di luce che lascerà al buio il nulla che resterà del fatto che alcuni furono santi e altri portatori di ghette. Nel vasto mulinello, come quello delle foglie secche, in cui giace indolentemente il mondo intero, hanno lo stesso valore i regni e i vestiti delle sarte, e le trecce delle bambine bionde vanno nello stesso giro mortale degli scettri che simboleggiarono imperi. Tutto è niente, e nell'atrio dell'Invisibile la cui porta aperta mostra soltanto, di fronte a sé, una porta chiusa, ballano, serve di quel vento che le rimescola senza mani, tutte le cose, piccole e grandi, che hanno formato, per noi e in noi, il sistema avvertito dell'universo. Tutto è ombra e polvere agitata, e non c'è altra voce se non il rumore di ciò che il vento innalza e trascina, né altro silenzio se non quello di ciò che il vento lascia. Alcuni, foglie lievi, facili da sollevare perché più leggeri, si alzano dal mulinello dell'atrio e cadono lontano dal mucchio di coloro che sono pesanti. Altri, invisibili quasi, polvere uguale, diversa solo a osservarla da vicino, si scavano un giaciglio nel mulinello. Altri ancora, miniature di tronchi, sono trascinati intorno e muoiono qua e là. Un giorno, alla fine della conoscenza delle cose, la porta di fondo si aprirà e tutto quello che siamo stati - detriti di stelle e di anime - sarà spazzato fuori dalla casa affinché quello che esiste ricominci. Il mio cuore mi fa male come un corpo estraneo. Il mio cervello dorme quando io sento. Sì, è l'inizio dell'autunno che porta all'aria e alla mia anima quella luce senza sorriso che orla di giallo morto le rotondità sfumate delle poche nuvole del tramonto. Sì, è l'inizio dell'autunno, e chiara è la consapevolezza, nell'ora limpida, dell'insufficienza anonima di ogni cosa. L'autunno, sì, l'autunno, quello che esiste ora o quello che esisterà poi, e la stanchezza anticipata di ogni gesto, la delusione anticipata di ogni sogno. Cosa posso sperare, e da che cosa? Ormai, in ciò che penso di me, vago fra le foglie e la polvere dell'atrio, nell'orbita priva di senso di nessuna cosa, facendo un rumore di vita sulle lastre pulite che un sole obliquo illumina di morte proveniente da un luogo ignoto. Tutto quello che ho pensato, tutto quello che ho sognato, tutto quello che ho fatto e che non ho fatto: tutto se ne andrà in autunno, come i fiammiferi usati che ricoprono il pavimento in diversi sensi, o i fogli di carta appallottolati in palline false, o i grandi imperi, tutte le religioni, le filosofie con le quali si sono baloccati i bambini sonnolenti dell'abisso. Tutto quanto fu la mia anima, dalle mie aspirazioni più nobili fino alla povera casa dove abito, dagli dèi che ho avuto al principale, il signor Vasques: tutto se ne va in autunno, tutto nell'autunno, nella tenerezza indifferente dell'autunno. Tutto nell'autunno, sì, tutto nell'autunno... 10.12.1930   66 (144) 67 (66) Lento, nel chiarore lunare della notte lenta, il vento là fuori muove cose che fanno ombra nel muoversi. Forse non sono soltanto i panni stesi al piano superiore, ma l'ombra in sé non conosce camicie e fluttua impalpabile in un accordo muto con tutte le cose. Ho lasciato le imposte aperte per svegliarmi presto, ma fino ad ora (e la notte è già così avanzata che non si sente nulla) non ho potuto abbandonarmi al sonno né restare completamente sveglio. Il chiarore lunare sta oltre le ombre della mia camera senza penetrare dalla finestra. Esiste, come una giornata di argento vuoto, e i tetti del palazzo dirimpetto che vedo dal letto sono liquidi di oscurata bianchezza. Come un augurio che venga dall'alto a chi non può sentire, c'è una pace triste nella luce dura della luna. E senza vedere, senza pensare, gli occhi ormai chiusi nel sonno assente, penso con quali parole vere si può descrivere un chiarore lunare. Gli antichi direbbero che il chiardiluna è bianco, o che è d'argento. Ma il biancore falso del chiardiluna è di molti colori. So che se mi alzassi dal letto e guardassi da dietro i vetri freddi nell'alta aria isolata, il chiardiluna sarebbe di un bianco grigio azzurrino sul giallo sfumato; che sui tetti variati, con dislivelli di oscurità degli uni sugli altri, il chiarore talvolta indora di bianco-nero gli edifici docili, altre volte inonda di un colore privo di colore il rosso marrone delle tegole alte. In fondo alla strada, placido abisso dove le pietre nude si arrotondano irregolarmente non c'è altro colore che l'azzurro che proviene forse dal grigio delle pietre. Sul lontano orizzonte c'è una sorta di blu scuro, diverso dal blu nero del cielo basso. Sulle finestre il chiarore lunare è di un giallo-nero. Da qui, dal mio letto, se apro gli occhi assonnati da un sonno che io non ho, c'è un'aria di neve trasformatasi in colore sulla quale galleggiano filamenti di madreperla tiepida. E, nel pensarlo con i sensi, il chiardiluna è un tedio fatto ombra bianca che si oscura come se gli occhi si chiudessero su questo biancore indistinto. Ho grandi stasi. Non mi succede, come succede a tutti, di lasciare passare giorni e giorni prima di rispondere con una cartolina alla lettera urgente che mi è stata scritta. E non mi succede neppure, come non succede a nessuno, che io rimandi all'infinito la cosa facile che mi risulta utile o la cosa utile che mi risulta piacevole. La mancanza di intendimento con me stesso è ancora più sottile. Ho una stasi perfino nell'anima. Si verifica in me una sospensione della volontà, dell'emozione, del pensiero, e questa sospensione dura lunghi giorni: solo la vita vegetativa dell'anima, la parola, il gesto e l'abitudine, parlano di me stesso agli altri e, attraverso gli altri, a me stesso. In questi periodi dell'ombra sono incapace di pensare, di sentire, di volere. Non so scrivere altro che numeri o linee. Non provo sentimenti, e l'eventuale morte di una persona amata mi darebbe l'impressione di essere avvenuta in una lingua straniera. Non posso; è come se dormissi e come se i miei gesti, le mie parole, le mie azioni sicure non fossero altro che un respiro periferico, l'istinto ritmico di un organismo qualunque. Così scorrono i giorni e non saprei dire quanto tempo della mia vita, se facessi la somma, sia passato così. A volte mi assale l'idea che quando mi spoglio di questa mia stasi, forse non sono così nudo come suppongo e che esistono ancora vesti impalpabili che coprono l'eterna assenza della mia anima vera; mi assale l'idea che pensare, sentire, volere, possono essere anche loro delle stasi, nei confronti di un modo di pensare più segreto, nei confronti di un sentire più mio, e di una volontà sperduta chissà dove nel labirinto di ciò che veramente sono. Ad ogni modo, lascio che sia così. E al dio o agli dèi eventualmente esistenti abbandono ciò che sono, come la fortuna comanda e il caso vuole, fedele a un dimenticato impegno. 9.6.1934 27.6.1930   68 (148) 69 (132) Il sopraggiungere dell'estate mi rattrista. Si potrebbe credere che la luminosità, anche se acre, delle ore estive conforti colui che non sa chi è. Ma non è così: io non ne sono confortato. C'è un contrasto troppo grande fra l'esuberante vita esterna e ciò che sento e penso, senza saper sentire né pensare: il cadavere perennemente insepolto delle mie sensazioni. Ho l'impressione di vivere, in questa patria informe chiamata l'universo, sotto una tirannia politica che, anche se non mi opprime direttamente, tuttavia offende un qualche principio occulto della mia anima. E allora scende in me, sordamente, lentamente, la nostalgia anticipata, nostalgia dell'esilio impossibile. Ho soprattutto sonno. Non un sonno che ha in sé latente (come ogni sonno, anche quello malato) il privilegio fisico della quiete. E neppure un sonno che, per essere dimentico della vita e probabile latore di sogni, offre sul vassoio con il quale ci tocca l'anima i placidi doni di una grande abdicazione. No: questo è un sonno che non riesce a dormire, che pesa sulle palpebre senza chiuderle, che riunisce in un gesto che sappiamo stupido e ripulsivo, l'attaccatura delle labbra incredule. Questo è il sonno che pesa inutilmente sul corpo durante le grandi insonnie dell'anima. Soltanto quando arriva la notte provo in qualche modo non un'allegria, ma un riposo che è soddisfatto con analogia dei sensi e per il fatto che altri riposi sono soddisfatti. Allora il sonno passa, la confusione dell'imbrunire mentale che quel sonno aveva portato sfuma, si schiarisce, quasi si illumina. Per un attimo, vive la speranza di altre cose. Ma quella speranza è breve. Ciò che sopravviene è un tedio senza sonno e senza speranza, il cattivo risveglio di chi non è riuscito a dormire. E dalla finestra della mia stanza guardo, povera anima col corpo stanco, molte stelle; molte stelle, nulla, il nulla, ma molte stelle... La vita è per noi ciò che immaginiamo in essa. Per il contadino per il quale il suo campicello è tutto, quel campo è un impero. Per il Cesare al quale non basta il suo impero, quell'impero è un campo. Il povero possiede un impero; il grande possiede un campo. Ma in verità non possediamo altro che le nostre sensazioni; in esse, dunque, e non in ciò che esse credono, noi dobbiamo basare la realtà della nostra vita. Questo non viene a proposito di nulla. Ho sempre sognato molto. Sono stanco di aver sognato, ma non sono stanco di sognare. Nessuno si stanca di sognare, perché sognare è dimenticare e il dimenticare non pesa ed è un sonno senza sogni fatto in stato di veglia. In sogno ho raggiunto tutti gli scopi. Talvolta mi sono anche risvegliato, ma cosa importa? Quanti Cesari sono stato! E i gloriosi, che meschini! Cesare, salvato dalla morte dalla generosità di un pirata, lo fa crocifiggere appena l'ha catturato dopo un'accurata ricerca. Napoleone fa il suo testamento a Sant'Elena e lascia un'eredità a un facinoroso che aveva tentato di assassinare Wellington. Oh, grandezze, pari alla grandezza d'animo della dirimpettaia strabica! Oh, grandi uomini della cuoca di un altro mondo! Quanti Cesari sono stato e sogno ancora di essere! Ma i Cesari che io fui non sono Cesari reali. Sono stato davvero imperiale mentre sognavo, e dunque non sono mai stato nulla. I miei eserciti sono stati sopraffatti, ma la disfatta è stata bonaria e nessuno è morto. Non ho perso stendardi. Non ho sognato fino a quel punto dell'esercito [?] nel quale essi sarebbero apparsi al mio sguardo nel cui sogno c'è un'angolatura. Quanti Cesari sono stato, proprio qui, in Rua dos Douradores. E i Cesari che sono stato vivono ancora nella mia immaginazione; ma i Cesari che sono esistiti sono morti e la Rua dos Douradores, cioè la Realtà, non può conoscerli. Lancio la scatola di fiammiferi vuota verso l'abisso che è la strada, oltre il davanzale della mia finestra alta senza balcone. Mi alzo sulla sedia e mi metto in ascolto. Nitidamente, come se avesse un significato, la scatola di fiammiferi vuota risuona nella strada che intuisco deserta. Non c'è nessun altro rumore, oltre a tutti i rumori della città. Sì, i rumori della città di una domenica: tanti, indecifrabili, e tutti giusti. Quale pochezza, nel mondo reale, costituisce la base delle meditazioni migliori! Il fatto di essere arrivato tardi per il pranzo, il fatto che i fiammiferi fossero finiti, il fatto che io abbia personalmente lanciato la scatola nella strada (ero di cattivo umore perché avevo mangiato fuori orario), il fatto che fosse domenica, il preannuncio nell'aria di un brutto tramonto, il fatto di non essere nessuno al mondo - è tutta la metafisica. Ma quanti Cesari sono stato! 70 (145) Oggi mi sono svegliato molto presto con uno scatto intricato, e mi sono alzato subito dal letto in preda al soffocamento di un tedio incomprensibile che non era stato provocato da alcun sogno; e che nessuna realtà poteva avere provocato. Era un tedio assoluto e completo ma fondato su qualcosa. Nel fondo oscuro della mia anima, invisibili, si combattevano forze sconosciute, e il mio essere era il terreno di battaglia e io tremavo per lo scontro ignoto. Una nausea fisica della vita intera si è verificata al mio risveglio. Un orrore per il dover vivere si è alzato dal letto insieme con me. Tutto mi è sembrato vuoto e ho avuto la fredda impressione che non esiste soluzione per nessun problema. Un'enorme inquietudine mi faceva rabbrividire i minimi gesti. Ho avuto paura di impazzire non di follia ma proprio per i gesti [?]. Il mio corpo era un grido latente. Il mio cuore batteva come se singhiozzasse. Scalzo, a passi larghi e falsi che invano cercavo di rendere diversi, ho percorso la piccola lunghezza della camera e la diagonale vuota della stanza interna con la porta all'angolo che dà sul corridoio. Con movimenti incoerenti e imprecisi ho sfiorato le spazzole sul cassettone, ho spostato una sedia e ho urtato con la mano oscillante il ferro ruvido dell'inferriata del letto inglese. Ho acceso una sigaretta che ho fumato senza rendermene conto, e solo vedendo la cenere caduta sul capezzale (come è stato possibile, se non mi ero chinato sul capezzale?) ho capito che ero posseduto, o qualcosa di analogo nell'essere, se non nel nome, e che la consapevolezza che avrei dovuto avere di me stesso si alternava con l'abisso. È arrivato l'annuncio dell'alba, la scarsa luce fredda che colora di un vago azzurro bianco l'orizzonte che si disegna, come un bacio di gratitudine delle cose. Nel senso che quella luce, quel vero giorno, mi liberava, mi liberava non so da che cosa, offriva il braccio alla mia vecchiaia ignota, accarezzava la mia infanzia posticcia, sosteneva il riposo mendicante della mia sensibilità dilagante. Ah, che mattino è mai questo, che mi sveglia alla stupidità della vita e alla sua grande tenerezza! E ho quasi le lacrime agli occhi nel vedere schiarirsi davanti a me, sotto di me, la vecchia strada stretta; e quando le imposte della drogheria dell'angolo diventano di un marrone sporco alla luce traboccante, il mio cuore prova un sollievo da racconto di fate reali e comincia a conoscere la sicurezza di non sentirsi. Quale mattino è questa pena! E quali ombre si allontanano? E quali misteri ci sono stati? Nulla: il suono del primo tram è come un fiammifero che illumina il buio dell'anima, e i passi alti del primo passante sono la realtà concreta che mi esorta con voce amichevole a non essere così. 71 (181) 16-17.10.1931 Sì, è il tramonto. Sbocco sulla foce di Rua da Alfàndega, neghittoso e disperso, e quando mi rischiara il Terreiro do Pago, vedo, nitida, la luminosità senza sole del cielo occidentale. È un cielo di un azzurro verdino che sfuma nel grigio bianco, dove, dalla parte sinistra, sui monti dell'altra riva, si accovaccia in un cumulo una nebbia brunita da un rosa vecchio. C'è una grande pace dispersa freddamente nell'autunnale aria distratta: una grande pace che io non ho. Non avendola, patisco il vago piacere di supporre che essa esista. Ma, in realtà, non c'è pace o mancanza di pace: solo cielo, cielo pieno di colori che languiscono: azzurro bianco, verde azzurrino, grigio pallido fra il verde e l'azzurro, vaghi toni remoti di colori di nuvole che non sono nuvole, giallamente ombrate di un rosso spossato. E tutto costituisce una visione che si esaurisce nello stesso momento in cui ha luogo, un intervallo fra nulla e nulla, alato, collocato in alto, prolisso e indefinito, con tonalità di cielo e angustia. Sento e dimentico. Una nostalgia, quella nostalgia che tutti hanno per tutto, mi invade come un oppio di aria fredda. C'è in me un'estasi di vedere, intima e posticcia. Dalle parti della foce, dove l'estinto sole sempre più si estingue, la luce muore in un bianco livido che si azzurra di verdastro freddo. C'è nell'aria il torpore di ciò che non si ottiene mai. Tace alto il paesaggio del cielo. In quest'ora, in cui sento fino a traboccare, vorrei avere la malizia intera di dire, e per destino il libero capriccio di uno stile. E invece no. Solo il cielo alto e remoto, che si abolisce, è tutto; e l'emozione che ho, e che sono tante emozioni, unite e confuse, non è altro che il riflesso di questo cielo nullo di un lago in me, lago prigioniero fra irte rocce, silente, sguardo di morto, in cui l'altezza si contempla dimentica. Tante volte, tante, come ora, mi è stato grave sentire che sento; sentire come un'angustia, solo perché è sentire, l'inquietudine di stare qui, la nostalgia di un'altra cosa che non si è conosciuta, il ponente di tutte le emozioni; sentire ingiallirmi consunto dalla cinerea tristezza nella mia coscienza esterna di me. Ah, chi mi salverà dall'esistere? Non è la morte che voglio, né la vita: è quel qualcosa che brilla nel fondo dell'inquietudine come un diamante possibile nel fondo di un pozzo in cui non si può scendere. È tutto il peso e tutta la pena di questo universo reale e impossibile, di questo cielo vessillo di un esercito sconosciuto, di questi toni che vanno impallidendo nell'aria fittizia da cui l'immaginaria falce crescente della luna emerge con una bianchezza elettrica immobile, ritagliata di lontananza e insensibilità. È tutta l'assenza di un Dio vero che è il cadavere vacuo del cielo alto e dell'anima chiusa. Carcere infinito: perché sei infinito non si può evadere da te! 72 (381) Per gradini di sogni e stanchezze mie, scendi dalla tua irrealtà, scendi e vieni a sostituire il mondo. 73 (384) 23.6.1932 La vita è un viaggio sperimentale fatto involontariamente. È un viaggio dello spirito attraverso la materia, e poiché è lo spirito che viaggia, è in esso che noi viviamo. Ci sono perciò anime contemplative che hanno vissuto più intensamente, più largamente, più tumultuosamente di altre che hanno vissuto la vita esterna. Conta il risultato. Ciò che abbiamo sentito è ciò che abbiamo vissuto. Si ritorna stanchi da un sogno come da un lavoro reale. Non si è mai vissuto tanto come quando si è pensato molto. Colui che sta in un canto del salone balla con tutti i danzatori. Egli vede tutto e, dato che vede tutto, vive tutto. E poiché tutto, in fin dei conti, è una nostra sensazione, tanto vale il contatto con un corpo come la vista di esso o come il suo ricordo. Io ballo quando vedo ballare. Posso dire, come il poeta inglese che disteso sull'erba guardava da lontano tre mietitori: "C'è un quarto mietitore, e quello sono io." Tutto questo, detto come lo sento, viene a proposito della grande stanchezza apparentemente senza causa che è scesa oggi all'improvviso su di me. Non sono soltanto stanco ma anche amareggiato, e anche l'amarezza è ignota. Dall'angoscia che provo sono sull'orlo del pianto: non di lacrime che si versano, ma che si reprimono; lacrime di un male dell'anima, non di un dolore sensibile. Ho vissuto tanto senza avere vissuto! Ho pensato tanto senza aver pensato! Mondi di violenze immobili, di avventure trascorse senza movimento, pesano su di me. Sono stanco di ciò che non ho mai avuto e che non avrò, stanco di Dei che non esistono. Porto con me le ferite di tutte le battaglie che ho evitato. Il mio corpo è dolorante per lo sforzo che non ho nemmeno pensato di fare.   Opaco, muto, nullo... Il cielo alto è di un'estate morta, imperfetta. Lo guardo come se non ci fosse. Dormo ciò che penso, sono coricato e cammino, soffro senza sentire. La mia grande nostalgia è di nulla, è nulla, come il cielo alto che non vedo e che sto fissando in modo impersonale. 74 (387) Viaggiare? Per viaggiare basta esistere. Passo di giorno in giorno come di stazione in stazione, nel treno del mio corpo, o del mio destino, affacciato sulle strade e sulle piazze, sui gesti e sui volti, sempre uguali e sempre diversi come in fondo sono i paesaggi. Se immagino, vedo. Che altro faccio se viaggio? Soltanto l'estrema debolezza dell'immaginazione giustifica che ci si debba muovere per sentire. "Qualsiasi strada, questa stessa strada di Entepfuhl, ti porterà in capo al mondo." Ma il capo del mondo, da quando il mondo si è consumato girandogli intorno, è lo stesso Entepfuhl da dove si è partiti. In realtà il capo del mondo, come il suo inizio, è il nostro concetto del mondo. È in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo; se li creo esistono; se esistono li vedo come vedo gli altri. A che scopo viaggiare? A Madrid, a Berlino, in Persia, in Cina, al Polo; dove sarei se non dentro me stesso e nello stesso genere delle mie sensazioni? La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo. 75 (388) L'unico viaggiatore con animo da viaggiatore che ho conosciuto era un ragazzino, un garzone di un ufficio dove una volta ho lavorato. Costui collezionava dépliants pubblicitari di città, di compagnie turistiche; possedeva delle carte geografiche (alcune strappate da qualche rivista, altre che raccoglieva qua e là); aveva delle illustrazioni di paesaggi, delle stampe di costumi esotici, delle fotografie di navi ritagliate da giornali e riviste. Andava alle agenzie di viaggio, a nome di un ipotetico ufficio, o forse a nome di qualche ufficio esistente, forse l'ufficio nel quale lavorava, e chiedeva dépliants per un viaggio in Italia, per dei viaggi in India; opuscoli pubblicitari delle rotte navali fra il Portogallo e l'Australia. Non era solo il più grande viaggiatore, perché il più vero, che ho conosciuto: era anche una delle persone più felici che ho avuto occasione di incontrare. Mi dispiace aver perso sue notizie; o in realtà suppongo solo che mi dispiaccia; in realtà non mi dispiace, perché oggi, passati più di dieci anni dal breve tempo in cui l'ho conosciuto, deve essere un uomo, stupido, un uomo che compie i suoi doveri, forse sposato, sostegno sociale di qualcuno. Insomma, un cadavere della sua stessa vita. È perfino possibile che abbia viaggiato con il corpo, lui che sapeva viaggiare così bene con l'anima. Ora all'improvviso mi ricordo: costui sapeva esattamente per quali ferrovie si andava da Parigi a Bucarest, per quali ferrovie si percorreva l'Inghilterra; e nella sua pronuncia sbagliata di nomi bizzarri c'era l'olimpica certezza della sua grandezza d'animo. Oggi, sì, deve esistere come un morto; ma forse un giorno, da vecchio, si ricorderà quanto sia non solo migliore ma più vero sognare Bordeaux che sbarcare a Bordeaux. Ma forse tutta quella storia aveva un'altra spiegazione ed egli stava soltanto imitando qualcuno. Oppure... Sì, considerando la spaventosa differenza che c'è fra l'intelligenza dei bambini e la stupidità degli adulti, a volte credo che nell'infanzia siamo accompagnati da un angelo custode che ci presta la sua intelligenza astrale e che dopo, forse con dispiacere ma per una legge superiore, ci abbandona come le femmine degli animali abbandonano i loro cuccioli cresciuti, al verro che è il nostro destino.     76 (389) C'è un'erudizione della conoscenza che è esattamente ciò che chiamiamo erudizione, e c'è un'erudizione dell'intelletto che è ciò che si chiama cultura. Ma c'è anche un'erudizione della sensibilità. L'erudizione della sensibilità non ha niente a che vedere con l'esperienza della vita. L'esperienza della vita non insegna niente, così come niente insegna la Storia. La vera esperienza consiste nel diminuire il contatto con la realtà e nell'aumentare l'analisi di quel contatto. In tal modo la sensibilità si allarga e si approfondisce, perché in noi c'è tutto; basta cercarlo e saperlo cercare. Cosa significa viaggiare e a cosa serve viaggiare? Qualsiasi tramonto è il tramonto; non è necessario andare a vederlo a Costantinopoli. E il senso di libertà che nasce dai viaggi? Posso averlo andando da Lisbona a Benfica e forse con un'intensità maggiore di chi va da Lisbona in Cina, perché se la libertà non è in me non la troverò da nessuna parte. "Qualsiasi strada," ha detto Carlyle, "perfino questa strada di Entepfuhl, ti porta in capo al mondo." Ma la strada di Entepfuhl, se la percorriamo tutta, e fino in fondo, ritorna a Entepfuhl, in modo che lo stesso Entepfuhl nel quale ci trovavamo è il capo del mondo che volevamo raggiungere. Condillac comincia così il suo celebre libro: "Per quanto in alto possiamo salire e per quanto in basso possiamo scendere, non usciamo mai dalle nostre sensazioni." Non sbarchiamo mai da noi stessi. Non arriviamo mai ad essere altri se non diventando altri attraverso l'immaginazione sensibile di noi stessi. I veri paesaggi sono quelli che noi stessi creiamo, perché così, essendo i loro Dei, noi li vediamo come essi sono veramente, cioè come sono stati creati. Nessuna delle sette parti del mondo è quella che mi interessa e quella che posso vedere veramente; è l'ottava parte quella che io percorro, ed essa è mia. Colui che ha varcato tutti i mari ha varcato soltanto la monotonia di se stesso. Ho già varcato più mari di tutti. Ho già visto più montagne di quelle che esistono sulla terra. Ho già attraversato più città di quelle che esistono, e i grandi fiumi di nessun mondo sono passati, assoluti, sotto i miei occhi contemplativi. Se io viaggiassi troverei la brutta copia di ciò che ho già visto senza viaggiare. Gli altri visitano paesi come anonimi pellegrini. Nei paesi che ho visitato non sono stato solo il piacere segreto del viaggiatore incognito, ma la maestà del Re che vi regna, e il popolo che vi abita e tutta la storia di quella nazione e delle altre. Gli stessi paesaggi, le stesse case, li ho visti perché io sono stato loro, fatti in Dio con la sostanza della mia immaginazione. 77 (400) L'idea di viaggiare mi seduce per traslazione, come se fosse l'idea per sedurre qualcun altro. Tutta la vasta visibilità del mondo, in un movimento di tedio colorato, percorre la mia immaginazione desta; abbozzo un desiderio come chi non vuol più fare gesti, e la stanchezza anticipata dei paesaggi possibili mi tormenta, come un vento turpe, il fior del cuore che vegeta. E, come i viaggi, le letture, e come le letture tutto... Sogno una vita erudita, nella coabitazione silenziosa degli antichi e dei moderni, rinnovando le emozioni attraverso le emozioni altrui, riempiendomi di pensieri contraddittori nella contraddizione di coloro che meditano e di coloro che hanno "quasi" pensato - e che sono la maggioranza di coloro che hanno scritto. Ma la sola idea di leggere si dilegua se prendo dal tavolo un libro qualsiasi; il fatto fisico di dover leggere mi inibisce la lettura... Similmente, l'idea di viaggiare mi svanisce se per caso mi avvicino a un molo d'imbarco. E faccio ritorno alle sole due cose di cui sono certo nella mia nullità: la mia vita quotidiana di passante incognito e i miei sogni come insonnie di uomo desto. E come le letture, tutto. Dal momento che posso sognare qualcosa che interrompe davvero il decorso muto dei miei giorni, indirizzo un'occhiata di vibrante protesta alla silfide che mi si addice: quella poveretta che forse sarebbe una sirena se avesse imparato a cantare.   78 (422) 81 (64) Alcuni hanno un grande sogno nella vita e mancano a quel sogno. Altri non hanno nella vita nessun sogno, e mancano anche a quel sogno. 79 (51) Tre giorni di seguito di caldo senza tregua, temporale latente nel malessere della bonaccia di tutto, ora che il temporale è scivolato altrove, hanno recato alla superficie lucente delle cose una lieve frescura tiepida e grata. Così a volte, in questo decorso della vita, l'anima, che ha sofferto il peso della vita, sente un subito sollievo pure se in essa non succede qualcosa che giustifichi un tale sollievo. Credo che noi siamo dei climi sui quali aleggia la minaccia di un temporale che si verifica altrove. L'immensità vuota delle cose, la grande dimenticanza che c'è nel cielo e nella terra... Ogni alterazione dell'orario abituale reca sempre all'anima una fredda novità, un piacere lievemente scomodo. Chi ha l'abitudine di uscire dall'ufficio alle sei e un giorno esce alle cinque, prova subito una vacanza mentale e qualcosa simile a un dispiacere di non saper cosa fare di se stesso. Ieri, avendo un impegno lontano da qui, sono uscito dall'ufficio alle quattro, e alle cinque avevo sbrigato la mia commissione. Non ho l'abitudine di stare per strada a quell'ora, e per questo mi trovavo in una città diversa. Il tono lento della luce sulle facciate abituali era di una dolcezza superflua, e i passanti di sempre mi passavano accanto nella città accanto, come marinai sbarcati dalla flotta di ieri sera. A quell'ora l'ufficio era ancora aperto. Vi sono rientrato provocando il naturale stupore degli altri impiegati dai quali mi ero già accomiatato. Come, di nuovo qui? Sì, sono tornato. Stavo lì, libero di sentire, solo fra coloro che stavano con me e che per il mio spirito non erano presenti... In un certo qual modo quello era il focolare, cioè il luogo nel quale non si hanno sentimenti.   80 (60) Mi sono sentito inquieto. Il silenzio aveva cessato d'un tratto. All'improvviso si è spezzato un giorno infinito di acciaio. Mi sono piegato sul tavolo come un animale, con le mani come artigli inutili sul legno levigato. Una luce senz'anima era entrata negli angoli e negli animi e un suono di montagna vicina era precipitato dall'alto, strappando con un grido il velo duro dell'abisso. Il mio cuore si è fermato. La gola mi pulsava. La mia coscienza ha visto solo una macchia di inchiostro su un foglio di carta. 82 (75) Sorge dalle parti dell'Oriente la luce bionda della luna d'oro. La scia che lascia nel fiume largo apre serpenti nel mare. 83 (80) Paesaggio sotto la pioggia In ogni goccia di pioggia la mia vita fallita piange nella natura. C'è un po' della mia inquietudine nel gocciolìo, nelle raffiche attraverso le quali la tristezza della giornata si rovescia inutilmente sulla terra.     Piove tanto, tanto. Ho l'anima umida a forza di sentirlo. Tanto... La mia carne è liquida e acquosa intorno alla sensazione che ho di essa. Un freddo inquieto pone delle mani gelide intorno al mio povero cuore. Le ore cineree e [...] si allungano, si impiantano nel tempo; gli istanti si trascinano. Come piove! Le grondaie vomitano minuscoli torrenti di acqua sempre nuova. Perfino sul fatto che io presti attenzione alle grondaie scende un rumore molesto di acqua. Batte contro la vetrata, indolentemente, lamentosamente la pioggia; nella [...]. Un mano fredda mi stringe la gola e non mi permette di respirare la vita. Tutto muore in me, anche il sapere che posso sognare! Non riesco a trovare pace in nessuna posizione. Anche la cosa più morbida su cui mi adagio ha degli spigoli per la mia anima. Tutti gli sguardi che guardo sono così scuri perché batte in loro la luce impoverita di questa giornata propizia a morire senza dolore. 84 (110) La lama di un fievole lampo ha guizzato cupamente nella stanza larga. E il suono imminente, sospeso in un'ampia sorsata, ha rimbombato profondo, emigrando. Il rumore della pioggia ha pianto in modo acuto come le prefiche nell'intervallo delle orazioni. I piccoli suoni si sono disgregati qui dentro, inquieti. 85 (11) 2.11.1932 Nebbia o fumo? Saliva dalla terra o scendeva dal cielo? Chissà; più che una discesa o un'emanazione sembrava una malattia dell'aria. A volte sembrava un disturbo degli occhi piuttosto che una realtà della natura. Qualunque cosa fosse, una torva inquietudine attraversava il paesaggio; un'inquietudine fatta di dimenticanza e di attenuazione. Era come se il silenzio del sole malvagio prendesse come suo un corpo imperfetto. Si sarebbe detto che stesse per succedere qualcosa e che dappertutto ci fosse un'intuizione con cui il visibile si copriva. Era difficile dire se nel cielo c'erano nuvole o nebbia. Era un torpore opaco, colorato qua e là, un grigiore imponderabilmente giallastro eccetto laddove si sfaldava in un rosa falso o laddove ristagnava diventando azzurro; ma non si discerneva se là era il cielo che si rivelava o se era un altro azzurro che lo copriva. Nulla era definito, neppure l'indefinito. Per questo veniva voglia di definire la nebbia fumo, perché essa non sembrava nebbia; o chiedere se era nebbia o fumo, perché non si capiva cosa fosse. Perfino la temperatura dell'aria corroborava il dubbio. Non era caldo né freddo né fresco; la temperatura sembrava composta da elementi tolti da cose diverse dal caldo. Si sarebbe detto in realtà che una nebbia, fredda a vedersi, era calda al tatto, come se tatto e vista fossero due modi sensibili dello stesso senso. E intorno alle sagome degli alberi o agli spigoli degli edifici, non c'era quel dissolversi di sagome o di spigoli che porta con sé la vera nebbia, quando ristagna, o che il vero fumo, naturale, socchiude e offusca. Era come se ogni cosa proiettasse un'ombra vagamente diurna in tutti i sensi, senza una luce che la giustificasse in quanto ombra, senza un luogo di proiezione che la giustificasse in quanto visibile. E non era neanche visibile: era come un inizio di qualcosa che si sarebbe vista, ma dappertutto in modo uguale, come se quello che doveva esser rivelato esitasse ad apparire. E che sentimento c'era? L'impossibilità di averlo, il cuore disfatto nel cervello, i sentimenti confusi, un torpore di esistenza desta, un perfezionamento di qualcosa di animistico come l'udito, verso una rivelazione definitiva, inutile, sempre sul punto di apparire, come la verità, sempre, come la verità, gemella del non apparire mai. Ho allontanato persino la voglia di dormire che il pensiero ricorda, perché il mero sbadiglio di averla sembra uno sforzo. Persino cessare di vedere fa male agli occhi. E nell'abdicazione incolore di tutta l'anima soltanto i rumori esterni in lontananza sono il mondo impossibile che esiste ancora. Ah, un altro mondo, altre cose, un'altra anima con cui sentirle, un altro pensiero col quale sapere di quell'anima! Tutto, perfino il tedio; ma non questo anodino sfumare dell'anima e delle cose, questo abbandono azzurrino dell'indefinizione di tutto! 86 (141) 4.4.1930 Il cielo scuro in fondo, a Sud del Tago, era sinistramente nero contro le ali, al contrasto vividamente bianche, dei gabbiani che volavano inquieti. Tuttavia non era una giornata di temporale. Tutto il peso della minaccia della pioggia era passato sull'altra riva; e la città bassa, ancora umida della breve pioggia, sorrideva ad un cielo che si tingeva di azzurro a settentrione, seppure pallidamente. L'aria primaverile era leggermente fredda. In certi momenti come questo, vuoti e imponderabili, amo condurre volontariamente il pensiero verso riflessioni da nulla, ma che mantengano, nella loro limpidezza di nulla, qualcosa della freddezza solitaria della giornata rischiarata, con il fondo buio in lontananza e certe intuizioni simili a gabbiani, che evocano per contrasto il mistero di tutto nel grande buio. Ma all'improvviso, contrariamente al mio intimo proposito letterario, il fondo nero del cielo meridionale mi evoca, come un ricordo vero o falso, un altro cielo, forse visto in un'altra vita, in un settentrione di fiume minore, con giuncaie tristi, senza città. Senza che me ne renda conto, un paesaggio da anitre selvatiche si allarga nella mia immaginazione; e con la nitidezza di un sogno raro mi sento vicino alla vastità che immagino. Terra di giuncaie lungo i fiumi, lande fatte per cacciatori e angosce, con rive irregolari che entrano come piccole corde sporche nelle acque color piombo giallo, rientrando in baie melmose adatte a imbarcazioni come giocattoli, che formano ruscelli con acque che scintillano alla superficie del fango nascosto fra gli steli neroverdi dei giunchi, laddove camminare a piedi non è possibile. È la desolazione di un grigio cielo morto che si raggrinzisce qua e là in nuvole ancora più nere del cielo. Non sento vento, ma c'è; e l'altra riva è un'isola lunga, dietro alla quale si distingue (grande e abbandonato fiume!) l'altra riva vera, coricata nella distanza senza rilievo. Non vi arriva nessuno, né vi arriverà mai. E anche se per una fuga contradittoria del tempo e dello spazio io potessi evadere dal mondo per entrare in quel paesaggio, nessuno mai vi arriverebbe. Aspetterei invano ciò che non saprei di aspettare, e alla fine di tutto ci sarebbe solo il cadere lento della notte, mentre lo spazio lentamente assume il colore delle nuvole più nere che a poco a poco si sono immerse nell'insieme abolito del cielo. E avverto qui, improvvisamente, il freddo di quel luogo. Mi tocca il corpo, proveniente dalle ossa. Respiro forte e sono sveglio. L'uomo che mi incrocia sotto la Loggia vicino alla Borsa mi guarda con la diffidenza di chi non capisce. Il cielo nero, rimpicciolendo, si è fatto più basso sopra il Sud. 87 (160) (pioggia) E finalmente, sopra l'oscurità dei tetti lustri, la luce fredda del tiepido mattino appare come un supplizio dell'Apocalisse. È di nuovo l'immensa notte della luce che cresce. È di nuovo l'orrore di sempre: il giorno, la vita, l'utilità fittizia, l'attività senza soluzione. È di nuovo la mia persona fisica, visibile, sociale, trasmissibile attraverso parole che non dicono nulla, utilizzabile dai gesti altrui e dalla coscienza altrui. Sono io un'altra volta, così come non sono. Con l'inizio della luce di tenebre che riempie di dubbi grigi le fessure delle imposte delle finestre (quanto lontano dall'essere ermetiche, Dio mio!), sento a poco a poco che non potrò più conservare il mio rifugio dello stare coricato, di non dormire potendo dormire, di sognare senza sapere che c'è verità o realtà fra un caldo fresco di biancheria pulita e una non conoscenza, salvo per il conforto, dell'esistenza del mio corpo. Sento a poco a poco che mi sfugge l'incoscienza beata con la quale sto assaporando la mia coscienza, il sonnecchiare animalesco con cui spio, con palpebre di un gatto al sole, i movimenti della logica della mia immaginazione separata. Sento a poco a poco che mi svaniscono i privilegi della penombra, e i fiumi lenti sotto gli alberi delle ciglia intraviste, e il sussurrare delle cascate perdute fra il rumore del sangue lento negli orecchi e il vago persistere della pioggia. A poco a poco mi perdo fino ad essere vivo. Non so se dormo o se invece sento soltanto di dormire. Non sogno l'intervallo vero ma come se cominciassi a svegliarmi da un sonno non dormito, avverto i primi rumori della vita della città che salgono come una piena dal luogo vago, laggiù in fondo, dove stanno le strade che Dio ha fatto. Sono rumori allegri, filtrati dalla tristezza della pioggia che cade o che forse è caduta, perché ora non la sento... (c'è solo il grigiore eccessivo della luce fessurata fino a un dove più lontano che, nelle ombre di un chiarore debole, mi comunica l'insufficienza per questo momento dell'alba che non so quale è). Sono suoni allegri e dispersi e mi fanno male nella coscienza come se attraverso di essi fossi chiamato per un esame o per un'esecuzione. Ogni giorno che sento sorgere dal letto nel quale la conoscenza mi è vietata, mi sembra il giorno di un grande avvenimento che non avrò coraggio di affrontare. Ogni giorno, se avverto quel giorno che si leva dal letto delle ombre, con un cadere di lenzuola giù per le strade e per i vicoli, ogni giorno viene a chiamarmi davanti a un tribunale. Sarò processato ogni oggi che esiste. E il condannato perenne che c'è in me si aggrappa al letto come alla madre che ha perduto, e accarezza il guanciale come se la nutrice lo difendesse dalla gente. Il riposo felice del grosso animale all'ombra degli alberi, la fresca spossatezza del vagabondo fra l'erba alta, il torpore del negro nel pomeriggio tiepido e lontano, la delizia dello sbadiglio che pesa sugli occhi stanchi, tutto ciò che lusinga l'oblio nel dare sonno, la quiete del riposo nella testa, che chiude piano le imposte dell'anima, la carezza anonima di dormire. Dormire, essere lontano senza saperlo, esser coricato, dimenticare con il corpo; avere la libertà di essere incosciente, un rifugio del lago dimenticato immobile fra chiome di alberi, nelle vaste lontananze delle foreste. Un nulla con respiro dal di fuori, una morte lieve dalla quale ci si risveglia con nostalgia e freschezza, un cedere dei tessuti dell'anima ai panni dell'oblio. Ah, e ancora una volta, come la rinnovata protesta di chi non è convinto, sento il frastuono brusco della pioggia che sciaborda nell'universo schiarito. Sento un freddo fin dentro le ossa ipotetiche, come se avessi paura. E accoccolato, annientato, umano, solo con me stesso nella poca tenebra che ancora mi resta, piango, sì, piango, piango di solitudine e di vita, e la mia pena superflua come un'automobile senza ruote giace sull'orlo della realtà fra gli sterchi dell'abbandono. Piango per tutto: la perdita del grembo, la morte della mano che qualcuno mi tendeva, le braccia che ignoravo come mi abbracciavano, la spalla che non potrei mai avere... E il giorno che sorge definitivamente, la pena che sorge in me come la verità cruda del giorno, quello che ho sognato, quello che ho pensato, quello che si è dimenticato in me stesso: tutto questo, in un amalgama di ombre, di finzioni e di rimorsi, si mescola nell'orbita in cui girano i mondi e cade fra le cose della vita come lo scheletro di un grappolo d'uva, mangiato all'angolo della strada dai monelli che l'hanno rubato. Il rumore del giorno umano aumenta all'improvviso, come il suono di un campanello che chiama. Schiocca dentro la casa la serratura soave della prima porta che si apre verso l'universo. Sento un rumore di ciabatte in un corridoio assurdo che conduce al mio cuore. E in un gesto brusco, come chi finalmente si uccide, sollevo dal mio corpo duro le coltri profonde che mi riparano. Mi sono svegliato. Il rumore della pioggia si fa più sfumato in altezza, nell'indefinito fuori. Mi sento più felice. Ho eseguito qualcosa che ignoro. Mi alzo, vado alla finestra, apro le imposte con una decisione di grande coraggio. Riluce un giorno di pioggia chiara che mi sommerge gli occhi di luce opaca. Apro anche i vetri della finestra. L'aria fresca mi inumidisce la pelle calda. Piove, si, ma anche se tutto è identico, tutto è in fondo così di meno! Voglio rinfrescarmi, vivere, e piego il collo alla vita come a un giogo immenso.   88 (112) 1.2.1931 Dopo tutte le giornate di pioggia, di nuovo il cielo porta l'azzurro che aveva nascosto ai grandi spazi alti. Fra le strade, dove le pozzanghere dormono come acquitrini di campagna, e l'allegria chiara che si raffredda in alto c'è un contrasto che rende piacevoli le strade sporche e primaverile il cielo opaco d'inverno. È domenica e non ho niente da fare. La giornata è così bella che non ho neanche voglia di sognare. L'assaporo con una sincerità dei sensi alla quale l'intelligenza si abbandona. Passeggio come un commesso liberato. Mi sento vecchio soltanto per avere il piacere di sentirmi ringiovanire. Nella grande piazza domenicale c'è un movimento solenne da giornata di un'altra specie. Alla chiesa di S. Domingos c'è l'uscita di una messa e sta per cominciarne un'altra. Vedo le persone che escono e le persone che non entrano ancora, aspettando, mentre altri invece non guardano chi esce. Sono cose senza importanza. Sono, come tutto nella banalità della vita, un sonno dei misteri e dei merli [di un castello], e come un messaggero che è arrivato io guardo la pianura della mia meditazione. Una volta, quando ero bambino, venivo a questa stessa messa, o forse all'altra, ma probabilmente era questa. Con la dovuta consapevolezza indossavo il mio unico vestito buono e assaporavo tutto: perfino quanto non avevo ragione di assaporare. Vivevo dal di fuori e il vestito era pulito e nuovo. Che altro desidera ancora chi deve morire ignaro tenendo per mano sua madre? Una volta assaporavo tutto questo, perciò soltanto ora, forse, capisco quanto lo assaporavo. Entravo in chiesa come in un grande mistero e uscivo dalla messa come se uscissi in una radura. E così era veramente e ancora veramente è. Soltanto la creatura che non crede e ha un corpo adulto, con un'anima che ricorda e piange; soltanto quella creatura è la finzione e il disorientamento, il disordine e la tomba fredda. Sì, colui che io sono sarebbe insopportabile se non potessi ricordare ciò che sono stato. E questa folla estranea che continua a uscire dalla messa, e l'inizio della possibile folla che comincia ad arrivare per partecipare alla prossima messa: sono come imbarcazioni che mi passano vicino, un fiume lento sotto le finestre aperte della mia casa costruita sulla riva. Memorie, domeniche, messe, piacere di essere stato, miracolo del tempo che è rimasto perché è passato e non si dimentica mai perché è stato mio... Diagonale assurda delle sensazioni probabili, suono improvviso di carrozza che fa cigolare le ruote in fondo ai silenzi rumorosi delle automobili e che a suo modo, per un materno paradosso del tempo, sussiste oggi, proprio qui, fra colui che sono e colui che ho smarrito, nello sguardo anteriore del me che chiamo io... Cosa so? Cosa cerco? Cosa sento? Cosa chiederei se dovessi chiedere? 89 (93) 31.5.1932 Non è nei vasti campi o nei grandi giardini che vedo arrivare la primavera, ma nei radi alberi poveri di una piazzetta di città. Qui il verde si evidenzia come un dono ed è allegro come una buona tristezza. Amo certe piazzette solitarie, insinuate fra strade di scarso traffico, anch'esse senz'altro traffico che le strade. Sono radure inutili, cose che aspettano fra tumulti lontani. Sono piazze di paese dentro la città. Le attraverso, percorro una strada qualsiasi che vi conduce, poi ripercorro quella strada in senso inverso per ritornarvi. Vista dall'altra parte la piazza è diversa, ma la medesima pace lascia indorare d'improvvisa nostalgia (il sole al tramonto) la parte che non avevo visto all'andata. Tutto è inutile, e io lo sento in quanto tale. Ciò che ho vissuto l'ho dimenticato come se l'avessi sentito distrattamente. Ciò che sarò non me lo ricordo, come se l'avessi vissuto e dimenticato. Un tramonto di pena lieve si libra vago intorno a me. Tutto si raffredda, non perché si raffreddi, ma perché sono entrato in una via stretta e la piazzetta è finita.   90 (54) Da quando le ultime piogge sono scese a meridione ed è rimasto solo il vento che le ha spazzate via, sulla città è tornata l'allegria del sole sicuro e si vedono molti panni appesi che sventolano sui fili tesi dai sostegni alle finestre alte dei palazzi variopinti. Anch'io sono contento, perché esisto. Sono uscito di casa con un grande scopo, che era quello di arrivare in orario in ufficio. Ma oggi perfino la pulsazione della vita partecipava di un'altra buona pulsazione: quella che fa in modo che il sole appaia nelle ore del calendario secondo la latitudine e la longitudine dei luoghi della terra. Mi sono sentito felice perché non potevo sentirmi infelice. Ho percorso la strada tranquillamente, pieno di certezza perché, tutto sommato, l'ufficio noto, la gente nota che vi lavora, erano delle certezze. Non è da meravigliare che mi sentissi libero, senza sapere da che cosa. Nelle ceste posate lungo i marciapiedi di Rua da Prata, le banane in vendita, sotto il sole, erano di un grande giallo. In fin dei conti mi accontento di ben poco: il fatto che la pioggia sia cessata, il fatto che ci sia un sole buono in questo Sud felice, banane più gialle perché hanno macchie nere, la gente che le vende e che parla, i marciapiedi di Rua da Prata, il Tago in fondo, azzurro e verde dorato, tutto quest'angolo domestico del sistema dell'Universo. Verrà il giorno in cui non vedrò più tutto questo, in cui mi sopravviveranno le banane del marciapiede e le voci delle fruttivendole solerti, e i giornali di oggi che il ragazzino ha sistemato fianco a fianco all'angolo dell'altro marciapiede della strada. So bene che le banane saranno altre, e che altre saranno le venditrici, e che i giornali avranno, per coloro che si fermeranno a guardarli, una data che non è quella di oggi. Ma essi, per il fatto di non vivere, perdurano anche se saranno altri; io, per il fatto che vivo, passo, anche se sarò lo stesso. Potrei veramente rendere quest'ora solenne comprando delle banane, perché mi pare che in esse si sia proiettato tutto il sole della giornata come un riflettore privo di origine. Ma ho pudore dei rituali, dei simboli, di comprare cose per la strada. Le banane potrebbero essere male incartate, potrebbero essermi vendute come non devono essere vendute, perché io non saprei comprarle come devono essere comprate. Qualcuno potrebbe trovare strana la mia voce nel chiedere il prezzo. È meglio scrivere che osar vivere, anche se vivere non è altro che comprare banane al sole, finché c'è il sole e ci sono banane da vendere. Più tardi, forse... Sì, più tardi... Un altro, forse... Non so... 91 (109) Una raffica opaca di sole torvo ha incenerito nei miei occhi la sensazione fisica di guardare. Un giallo di calura ha ristagnato nel verde nero degli alberi. Il torpore [...]. 92 (175) 18.9.1933 Dicono che il tedio è la malattia degli oziosi, o che attacca solo coloro che non hanno nulla da fare. Eppure questo malessere dell'anima è più sottile: più che i veri oziosi attacca coloro che hanno disposizione per essa e coloro che lavorano, o che fingono di lavorare (che nella fattispecie è lo stesso). Non c'è nulla di peggio del contrasto fra lo splendore naturale della vita interiore, con le sue Indie naturali e i suoi paesi sconosciuti, e la sordidezza, anche se in realtà non è sordida, della quotidianità della vita. Il tedio pesa di più quando non ha la scusa dell'ozio. Il tedio dei grandi indaffarati è il peggiore di tutti. Il tedio non è la malattia della noia di non aver nulla da fare, ma una malattia maggiore: sentire che non vale la pena di fare alcunché. E poiché è così, quanto più c'è da fare, tanto più tedio bisogna sentire. Quante volte sollevo la testa vuota del mondo intero dal registro sul quale sto scrivendo! Sarebbe meglio per me oziare, non fare nulla, senza aver nulla da fare, perché così assaporerei quel tedio, anche se reale. Nel mio tedio presente non c'è quiete né nobiltà, né il benessere del malessere: c'è un enorme annullamento di ogni gesto compiuto, e non una stanchezza virtuale dei gesti che non compirò. 93 (174) 29.3.1933 Non so perché (me ne accorgo all'improvviso) sono solo in ufficio. Ne avevo già avuto il presentimento in maniera indefinita. In una zona della mia consapevolezza di me stesso c'era la vastità di un sollievo, un respiro più profondo di polmoni diversi. Il ritrovarsi da soli in una casa che di solito è affollata e rumorosa o che non è nostra, è una delle più curiose sensazioni che ci può provocare il caso degli incontri o delle assenze. All'improvviso proviamo un'impressione di padronanza assoluta, di dominio facile e ampio, di vastità (come ho detto), di sollievo e quiete. Che piacere essere ampiamente soli! Poter parlare ad alta voce con noi stessi, passeggiare senza il fastidio di altri sguardi, reclinarsi sulla sedia in una fantasticheria indisturbata! Ogni edificio diventa una campagna, ogni stanza ha l'estensione di una fattoria. I rumori sono estranei, come se appartenessero a un universo vicino ma indipendente. Finalmente siamo dei sovrani. In fondo ciascuno di noi ha questa aspirazione, e forse noi plebei abbiamo questa aspirazione più degli sfiziosi fatti d'oro posticcio. Per un attimo noi siamo i pensionati dell'universo, ci adagiamo nella routine del vitalizio che ci è stato concesso, privi di necessità e preoccupazioni. Ah, ma ecco che riconosco nel passo che sale le scale, ignorando chi possa essere, quel qualcuno che interromperà la villeggiatura della mia solitudine. Il mio impero implicito sarà invaso dai barbari. Il suono dei passi non mi è noto e non mi ricorda nessuno. Eppure il sordo istinto dell'anima mi dice che colui che sta salendo è diretto qui (per ora sono soltanto dei passi), e all'improvviso lo vedo, perché penso a lui. E infatti è uno degli impiegati. Si ferma, sento il rumore della porta, entra. Ora lo vedo. Entrando mi dice: "Qui da solo, signor Soares?" E io rispondo: "Sì, come di norma..." E allora lui dice, sfilandosi la giacca e con lo sguardo sull'altra giacca, quella vecchia appesa all'attaccapanni: "Che seccatura essere qui da soli, signor Soares. E per di più..." "È vero, è una seccatura," rispondo io. "Fa venire voglia di dormire," dice lui, con la giacca sdrucita addosso, incamminandosi verso la sua scrivania. "È proprio così," confermo sorridendo. Poi, nello stendere la mano verso la penna dimenticata, rientro, graficamente, nella salute anonima della vita normale. 94 (176) Spesso trascorro ore intere al Terreiro do Paco, sulla sponda del fiume, in inutili meditazioni. La mia impazienza vorrebbe sempre strapparmi a quella quiete, e la mia inerzia costantemente mi ci trattiene. Medito, allora, in un sopore fisico che assomiglia alla voluttà come il sussurro del vento assomiglia a voci umane, nell'eterna insaziabilità dei miei desideri vaghi, nella perenne instabilità delle mie ansie impossibili. Soffro principalmente del male di poter soffrire. Mi manca qualcosa che non desidero e soffro per il fatto che esso non sia esattamente una sofferenza. Il molo, la sera, il salmastro, entrano tutti, ed entrano insieme, nella composizione della mia angoscia. I flauti dei pastori impossibili non sono più soavi del fatto che qui non ci siano flauti e che proprio questo li evoca in me. Gli idilli lontani, vicino ai ruscelli, mi danno pena in quest'ora analoga da dentro [...] 95 (136) 29.8.1933 Esistono in città certe tranquillità di campagna. Ci sono dei momenti, soprattutto nei mezzogiorni d'estate, in questa Lisbona luminosa, in cui la campagna, come un vento ci invade. E proprio qui, in Rua dos Douradores, godiamo di un sonno tranquillo. Quanto è bello per l'animo osservare sotto un tranquillo sole alto, il silenzio, di questi barrocci di paglia, di queste cassette da riempire, questi passanti lenti di villaggio dislocato! E anch'io mentre guardo affacciato alla finestra di quest'ufficio nel quale sono da solo mi disloco: mi trovo in una calma cittadina di provincia, in un villaggio sconosciuto, e sono felice perché mi sento un altro. Lo so: se alzo gli occhi ho davanti a me la lunga facciata lurida del caseggiato, le finestre da lavare di tutti gli uffici della Baixa, le finestre insensate degli ultimi piani nei quali abitano degli inquilini; e, sopra di essi, nello spiovente delle mansarde, i panni di sempre al sole fra vasi e piante. Lo so, ma così soave è la luce che indora tutto questo, così insensata l'aria calma che mi circonda, che io non ho neppure motivi visuali per rinunciare al mio villaggio posticcio, alla mia cittadina di provincia dove il commercio è una pace. Lo so, lo so... È vero che è l'ora di pranzo, o del riposo, o dell'intervallo. Tutto va bene alla superficie della vita. Anch'io dormo, anche se sono affacciato al balcone come se fosse il parapetto di una nave su un paesaggio inedito. E non mi tormento, come se fossi in provincia. Ed ecco, improvvisa, una cosa nuova che mi avvolge, mi comanda: oltre il meriggio della cittadina, in ogni cosa della cittadina, vedo la vita intera; vedo la grande felicità stupida della vita domestica, la grande felicità stupida della vita dei campi, la grande felicità stupida della pace nella nullità. Lo vedo perché lo vedo. Ma non ho visto, e mi sveglio. Mi guardo intorno sorridendo, e prima di tutto tolgo dalle maniche del vestito (purtroppo scuro) la polvere del davanzale che nessuno ha pulito, perché non sapevano che un giorno questo davanzale sarebbe stato, anche se solo per un attimo, il parapetto senza polvere possibile di una nave che viaggiava per una crociera infinita. 96 (89) Ho chiesto così poco alla vita, e quel poco la vita me l'ha negato. Un guizzo di una fetta di sole, un campo [...], un poco di tranquillità con un pezzo di pane, non sentire molto il peso di sapere che esisto, non pretendere nulla dagli altri e che gli altri non pretendano nulla da me. Tutto questo mi è stato negato come chi nega l'ombra [?] non per mancanza di buon cuore ma per non dover sbottonarsi la giacca [...]. Pieno di tristezza scrivo, nella mia stanza tranquilla, solo come sono sempre stato, solo come sempre sarò. E penso se la mia voce, apparentemente così incolore, non possa incarnare la sostanza di migliaia di voci, la fame di raccontarsi di migliaia di vite, la pazienza di milioni di anime sottomesse come la mia, nel destino quotidiano, al sogno inutile, alla speranza senza memoria. In questi momenti il mio cuore batte più forte per la consapevolezza che ho di esso. Vivo di più perché vivo più grande. Sento nella mia persona una forza religiosa, una specie di preghiera, qualcosa simile ad un clamore. Ma la reazione contro di me viene dall'intelligenza... Mi vedo al quarto piano di Rua dos Douradores, ho sonno; guardo sul foglio scritto per metà la vita vana senza bellezza e la sigaretta a buon mercato [...] sulla carta assorbente logora. Eccomi qui, in questo quarto piano, a interpellare la vita!, a dire ciò che le anime sentono!, a fare della prosa [...]. 97 (147) 2.7.1932 Sulla nitida perfezione della giornata pesa comunque un'aria gravida di sole. Non è la pressione già presente del temporale prossimo, malessere dei corpi involontari, opaco vago del cielo azzurro. Ma è il torpore sensibile dell'insinuazione dell'ozio, piuma che sfiora leggermente il volto che si abbandona al sonno. È estate ma [?] stagione estiva. La campagna attira anche chi non la ama. Credo che se io fossi un altro oggi sarebbe per me una giornata felice, perché la avvertirei senza pensarci. Finirei il mio lavoro normale con un'allegria anticipata: il che ogni giorno è per me monotonamente anormale. Prenderei il tram per Benfica, dopo aver preso un appuntamento con amici. Ceneremmo in pieno tramonto, fra gli orti. La nostra allegria farebbe parte del paesaggio e sarebbe compresa da tutti coloro che ci vedessero. Ma siccome sono io mi godo un po' il poco che è immaginare l'altro. Sì, più tardi, egli-io, sotto una pergola di vite o sotto un albero, mangerà il doppio di quanto mangio io, berrà il doppio di quanto io oso bere, riderà il doppio di quanto io posso immaginare. Più tardi lui, ora io. Sì, per un attimo sono stato un altro: ho visto e ho vissuto in qualcun altro quell'allegria umile e umana di esistere come un essere animale in maniche di camicia. Grande giornata che mi ha fatto sognare in questo modo! Nel cielo tutto è azzurro e sublime come il mio sogno effimero di essere un garzone di bottega pieno di salute, in una vacanza di fine giornata. 98 (97) (Scritto a intervalli e da correggere accuratamente) Dopo che il declino delle stelle è impallidito fino a scomparire nel cielo mattutino e la brezza è diventata meno fredda nel giallo appena arancione della luce sulle poche nuvole basse, finalmente io che non avevo dormito ho potuto alzare lentamente il mio corpo esausto di niente dal letto nel quale avevo pensato l'universo. Mi sono affacciato alla finestra con gli occhi caldi perché non erano chiusi. Sui tetti densi la luce creava differenze di giallo pallido. Sono rimasto a contemplare tutto con la grande stupidità della mancanza di sonno. Nelle sagome erette delle case alte il giallo era aereo e nullo. Verso Occidente, dove tenevo lo sguardo, l'orizzonte era ormai di un bianco-verde. So che la giornata sarà per me pesante come il fatto di non capire. So che tutto quello che farò oggi parteciperà, non tanto della stanchezza del sonno perduto, ma dell'insonnia che mi ha perseguitato. So che vivrò un sonnambulismo più accentuato, più epidermico, non soltanto perché non ho dormito ma perché non ho potuto dormire. Ci sono giornate che sono filosofie, che ci suggeriscono interpretazioni della vita, che sono appunti a margine, pieni di un'alta critica, nel libro del nostro destino universale. Questa è una di quelle giornate, lo sento. Ho l'assurda impressione che con i miei occhi pesanti e col mio cervello assente si stiano tracciando, come con un lapis insensato, le lettere del commento profondo e inutile. 99 (172) 25.12.1929 Da quando le ultime gocce della pioggia hanno preso a rallentare sull'obliquità dei tetti e l'azzurro del cielo ha cominciato a specchiarsi lentamente sul centro lastricato della strada, il rumore dei veicoli ha preso un altro canto, più alto e allegro, e si sono sentite le finestre che si spalancavano contro la fine della dimenticanza del sole. Allora, nella via stretta, dall'angolo vicino è salito l'invito alto del primo venditore dei biglietti della lotteria, e i chiodi piantati nelle casse della falegnameria dirimpetto riverberavano nello spazio chiaro. Era un'incerta giornata festiva, autorizzata e senza durata. C'erano riposo e lavoro insieme, e io non avevo niente da fare. Mi ero alzato presto e indugiavo a prepararmi ad esistere. Passeggiavo avanti e indietro nella stanza e sognavo ad alta voce delle cose prive di nesso e di ipotesi: gesti che mi ero dimenticato di fare, ambizioni impossibili realizzate a caso, conversazioni ferme e continue che, se esistessero, sarebbero esistite. E in questo vaneggiamento privo di grandezza e di calma, in questo indugiare privo di speranza e di scopo, i miei passi andavano sperperando la mattinata di libertà, e le mie parole alte, pronunciate a voce bassa, risuonavano multiple nel chiostro del mio semplice isolamento. La mia figura umana, se la osservavo con un'attenzione esterna, partecipava del ridicolo che ogni cosa umana assume nell'intimità. Sui panni semplici del sonno abbandonato avevo indossato un vecchio cappotto che mi serve per queste veglie mattutine. Le mie vecchie ciabatte erano rotte, principalmente quella sinistra. E con le mani infilate nelle tasche del soprabito postumo percorrevo il viale della mia piccola stanza con passi larghi e decisi, compiendo attraverso il vaneggiamento inutile un sogno uguale ai sogni di tutti. Attraverso la freschezza aperta della mia unica finestra si sentivano ancora cadere dai tetti le grosse gocce della pioggia passata. C'era ancora un leggero fresco rimasto dalla pioggia. Però il cielo era di un azzurro conquistatore, e le nuvole sopravvissute alla pioggia sconfitta o stanca, ripiegando verso il Castello, sgombravano tutte le legittime strade del cielo. Era l'occasione di essere allegri. Ma mi pesava qualcosa, un'ansia sconosciuta, un desiderio senza definizione, ma non spregevole. Forse rallentava la sensazione di essere vivo. E quando mi sono affacciato alla finestra altissima sulla strada che ho guardato senza vederla, mi sono sentito all'improvviso uno di quegli stracci umidi che servono per pulire le cose sporche e che si mettono ad asciugare alla finestra, uno straccio che poi si dimentica aggomitolato sul parapetto che lentamente si macchia. 100 (199) 21.2.1930 All'improvviso, come se un destino chirurgo mi avesse operato per una cecità antica ottenendo un grande successo immediato, alzo la testa dalla mia vita anonima verso la chiara conoscenza del come esisto. E vedo che tutto quanto ho fatto, tutto quanto ho pensato, tutto quanto sono stato, è una specie di inganno e di follia. Mi stupisco di quello che non sono riuscito a vedere. Mi sorprendo di quanto sono stato accorgendomi che in fin dei conti non sono. Guardo, come in una distesa al sole che rompe le nuvole, la mia vita passata; e mi accorgo, con uno stupore metafisico, di come tutti i miei gesti più sicuri, le mie idee più chiare e i miei propositi più logici non siano stati altro che un'ebbrezza congenita, una pazzia naturale, una grande ignoranza. Non ho neppure recitato. Sono stato recitato. Non sono stato l'attore, ma i suoi gesti. Tutto quanto ho fatto, ho pensato e sono stato, è una somma di subordinazioni, sia a un ente falso che ho creduto mio perché ho agito partendo da lui, sia di un peso di circostanze che ho scambiato per l'aria che respiravo. In questo momento del vedere, sono un solitario immediato che si riconosce esiliato nel luogo in cui si è sempre creduto cittadino. Nel più intimo di ciò che ho pensato non sono stato io. Mi sopravviene allora un terrore sarcastico della vita, uno sconforto che va oltre i limiti della mia individualità cosciente. So che sono stato errore e traviamento, che non ho mai vissuto, che sono esistito soltanto perché ho riempito tempo con coscienza e pensiero. E la mia sensazione di me è quella di chi si sveglia dopo un sonno pieno di sogni reali, o quella di chi è liberato, grazie a un terremoto, dalla poca luce del carcere a cui si era abituato. Mi pesa, mi pesa veramente, come una condanna a conoscere, questa nozione improvvisa della mia vera individualità, di quella che ha sempre viaggiato in modo sonnolento fra ciò che sente e ciò che vede. È così difficile descrivere ciò che si sente quando si sente che si esiste veramente, e che l'anima è un'entità reale, che non so quali sono le parole umane con cui si possa definirlo. Non so se ho la febbre, come sento, se ho smesso di avere la febbre di essere dormitore della vita. Sì, lo ripeto, sono come un viaggiatore che all'improvviso si trovi in una città estranea senza sapere come vi è arrivato; e mi vengono in mente i casi di coloro che perdono la memoria, e sono altri per molto tempo. Sono stato un altro per molto tempo (dalla nascita e dalla coscienza), e mi sveglio ora in mezzo al ponte, affacciato sul fiume, sapendo che esisto più stabilmente di colui che sono stato finora. Ma la città mi è sconosciuta, le strade nuove, e la malattia senza rimedio. Aspetto dunque affacciato al ponte, che passi la verità, e che io mi ristabilisca nullo e fittizio, intelligente e naturale. È stato un attimo, ed è già passato. Vedo ormai i mobili che mi circondano, il disegno della vecchia carta alle pareti, il sole attraverso i vetri polverosi. Ho visto la verità per un attimo. Sono stato per un attimo, coscientemente, ciò che i grandi uomini sono verso la vita. Ricordo i loro atti e le loro parole, e non so se non sono stati anche loro tentati vittoriosamente dal Demone della Realtà. Non sapere di sé vuol dire vivere. Sapere poco di sé vuol dire pensare. Sapere di sé, all'improvviso, come in questo momento lustrale, vuol dire avere subitamente la nozione della monade intima, della parola magica dell'anima. Ma una luce improvvisa brucia tutto, consuma tutto. Ci lascia nudi perfino di noi stessi. È stato solo un attimo e mi sono visto. Poi, non so più dire ciò che sono stato. E, alla fine, ho sonno, perché, non so perché, penso che il senso è dormire. 101 (138) È un'irrimediabile oleografia. La guardo senza sapere se la vedo. In vetrina, oltre a quella, ce ne sono altre. Si trova al centro della  vetrina
 nascondendomi il vano delle scale .