venerdì 8 ottobre 2021

Come Rain or Come Shine Kazuo Ishiguro Estratto da "Notturni"

 


Come Rain or Come Shine

Kazuo Ishiguro

Estratto da  Notturni Cinque storie di musica e crepuscolo

Come me, anche Emily amava le canzoni americane della vecchia Broadway. Lei era più per i brani uptempo, tipo Cheek to Cheek di Irving Berlin e Begin the Beguine di Cole Porter, mentre io propendevo per le ballate agrodolci: Here’s That Rainy Day oppure It Never Entered My Mind. Ma avevamo molti amori in comune e del resto, all’epoca, trovare qualcuno che avesse gusti simili ai tuoi in un campus universitario dell’Inghilterra meridionale risultava pressoché miracoloso. Un giovane di oggi può ascoltare ogni genere di musica. Mio nipote, che comincia l’università l’autunno venturo, è in piena fase tango argentino. Ma non disdegna Édith Piaf, nonché tutta la produzione delle più recenti indie rock band. Ai nostri tempi invece si coltivavano interessi assai meno eclettici. I miei compagni di studi si dividevano essenzialmente in due vaste categorie: hippy dai capelli lunghi e i vestiti svolazzanti, appassionati di «progressive rock»; e giovani perbene in eterni completi di tweed, per i quali tutto ciò che esulava dalla musica classica era solo un baccano infernale. Di quando in quando capitava di imbattersi in qualcuno che si professava amante del jazz, ma si trattava immancabilmente del cosiddetto crossover jazz, vale a dire di interminabili improvvisazioni affatto dimentiche delle canzoni stupende a cui si ispiravano.

Era perciò un sollievo scoprire che qualcun altro, una ragazza per giunta, amava il Grande Repertorio della Canzone Americana. Come me, anche Emily collezionava LP dei classici in interpretazioni vocali di grande semplicità e purezza – dischi del genere, scarti della generazione passata, si trovavano spesso a prezzi stracciati dai rigattieri. Emily adorava Sarah Vaughan e Chet Baker. Io preferivo Julie London e Peggy Lee. Nessuno dei due andava pazzo per Ella Fitzgerald o Sinatra.

Quel primo anno, Emily abitava al college e, nella sua stanza, aveva un giradischi portatile, un modello al tempo piuttosto diffuso. Assomigliava a una grossa cappelliera, con superfici in finta pelle celeste e un’unica cassa acustica interna. Solo sollevando il coperchio si vedeva il piatto. La sonorità era alquanto scadente paragonata agli standard attuali, ma ricordo che insieme passammo ore felici accucciati lì intorno a togliere un disco e appoggiare con delicatezza la puntina sul successivo. Ci piaceva tanto ascoltare più versioni dello stesso brano, per poi discuterne il testo, o le varie interpretazioni. Quel verso particolare richiedeva davvero un tono così ironico? Era meglio cantare Georgia on My Mindcome se Georgia fosse una donna, o intendendo l’omonimo stato americano? Il massimo per entrambi era trovare registrazioni – come quella di Come Rain or Come Shine interpretata da Ray Charles – in cui il testo era lieto, ma la voce spezzava il cuore.

L’amore di Emily per questi dischi era palesemente così intenso che sorprenderla a parlare con altri studenti di qualche frivolo gruppo rock o vacuo cantautore californiano mi lasciava sempre di stucco. A volte si metteva a discutere di un concept album con lo stesso ardore con cui discettava con me di Gershwin o di Arlen, e allora dovevo proprio mordermi la lingua per mascherare il fastidio.

Al tempo, Emily era sottile e bellissima e, se non si fosse impegnata con Charlie quasi all’inizio della carriera universitaria, sono sicuro che un mucchio di ragazzi se la sarebbero contesa. Ma non è mai stata un tipo leggero o facile, perciò quando si mise con Charlie, gli altri pretendenti si ritirarono in buon ordine.

– È l’unico motivo per cui mi tengo Charlie intorno, – mi disse una volta, con faccia serissima, per poi scoppiare a ridere di fronte al mio sbalordimento. – Scherzavo, scemo. Charlie è il mio grande, grandissimo amore.

Charlie era il mio migliore amico all’università. Il primo anno, fummo inseparabili ed è così che ebbi occasione di conoscere Emily. L’anno dopo, Emily e Charlie si stabilirono insieme in centro e, pur andando spesso a trovarli, le discussioni con Emily accanto al suo giradischi diventarono solo un ricordo. Prima di tutto, quando passavo da loro, incrociavo sempre parecchi altri studenti in giro per casa a ridere e scherzare, e poi ormai c’era uno stereo raffinato da cui fiottava musica rock che ci costringeva tutti ad alzare la voce.

Charlie e io siamo rimasti buoni amici negli anni. Magari non ci vediamo con la frequenza di un tempo, ma perlopiù dipende dalle distanze. Io sono stato a lungo qui in Spagna, come pure in Italia e in Portogallo, mentre Charlie ha sempre fatto base a Londra. Ora, se questo dà l’impressione che dei due io sia il mondano e lui lo stanziale, beh, c’è da ridere. Perché in effetti è Charlie quello che da sempre prende il volo – Texas, Tokyo, New York - costretto dai suoi impegni sensazionali, mentre il sottoscritto è rimasto inchiodato un anno dopo l’altro negli stessi umidi condomini, a preparare verifiche di ortografia e a condurre identiche conversazioni in un inglese al rallentatore. My name is Ray. What is your name? Do you have children?

Quando iniziai a insegnare inglese, dopo la laurea, la vita non mi pareva male, una specie di prolungamento degli anni universitari. Le scuole di lingue spuntavano come funghi in tutta Europa e, se è vero che insegnare era una noia e lo stipendio uno scandalo, quando si è giovani non ci si fa molto caso. Si passa parecchio tempo al bar; farsi nuovi amici non è difficile, e si ha la sensazione di essere parte di una vasta rete che unisce l’intero pianeta. Ti capita di incontrare persone appena tornate da soggiorni in Perù o in Thailandia, il che ti dà l’illusione che, volendo, potresti girare il mondo in lungo e in largo per sempre, sfruttando i contatti che hai per trovare un impiego negli angoli più remoti della terra. Senza peraltro dover uscire dall’immensa, accogliente famiglia dei maestri itineranti, pronti a scambiarsi, fra un bicchiere e l’altro, aneddoti su ex colleghi, direttori psicolabili, e stravaganti responsabili del British Council.

Verso la fine degli anni Ottanta, girava voce che ci si potesse arricchire andando a insegnare in Giappone, e progettai seriamente di partire, ma poi lasciai perdere. Feci un pensierino anche sul Brasile, mi lessi qualche pubblicazione sulla cultura locale e spedii alcune domande. Ma chissà perché, tanto lontano non mi sono mai spinto. Italia del Sud, un breve periodo in Portogallo, e di nuovo qui in Spagna. Poi, senza sapere come, ti ritrovi addosso quarantasette anni, e scopri che quelli con cui eri partito hanno lasciato il posto a una nuova generazione che sparla di cose diverse, assume altre droghe e ascolta altra musica.

Frattanto, Emily e Charlie si erano sposati e stabiliti a Londra. Una volta Charlie mi aveva detto di volermi come padrino di uno dei suoi figli, quando ne fossero venuti. Ma non è mai successo. Voglio dire che non c’è mai stato nessun bambino, e adesso immagino sia troppo tardi. Devo ammettere di averlo preso un po’ come un tradimento. Forse ho continuato a pensare che come padrino di un loro figlio mi sarei garantito un legame ufficiale, per quanto esile, tra la loro vita in Inghilterra e la mia quaggiù.

Sta di fatto che, all’inizio della bella stagione, sono andato a trovarli a Londra. La cosa era stata organizzata con largo anticipo e, quando li avevo chiamati un paio di giorni prima della partenza, Charlie mi aveva detto che stavano tutti e due «magnificamente». Perciò, dopo alcuni mesi che non si potevano certo definire i migliori della mia vita, non avevo ragione di aspettarmi altro che riposo e premure.

Anzi, uscendo dalla fermata della metropolitana quella mattina di sole, i miei pensieri si baloccavano sulle probabili migliorie apportate alla «mia camera» nel tempo trascorso dall’ultima visita. Nel corso degli anni, c’era sempre stata una novità. Una volta, un aggeggio elettronico nuovo fiammante sistemato in un angolo; un’altra volta, la stanza completamente ridecorata. E comunque, direi quasi per principio, la mia camera veniva preparata come in un albergo di lusso: asciugamani puliti, una scatola di biscotti sul comodino, una selezione di CD sulla cassettiera. Qualche anno prima, Charlie mi aveva accompagnato e, con malcelato orgoglio, si era messo ad armeggiare su una serie di interruttori, producendo l’accendersi e spegnersi di una moltitudine di punti luce nascosti: dietro la testiera del letto, sopra il guardaroba, e così via. Un altro interruttore invece aveva innescato un cupo ronzio che accompagnò il calare di tapparelle alle due finestre.

– Guarda, Charlie, che non mi servono le tapparelle, – avevo detto in quella occasione. – Quando mi sveglio voglio guardare fuori. Le tende vanno benissimo.

– Sono tapparelle di fabbricazione svizzera, – aveva detto lui, come se tanto bastasse.

Questa volta invece, Charlie mi portò di sopra mugugnando qualcosa tra sé e, entrando in camera, capii che si stava scusando. E poi vidi la stanza come non l’avevo mai vista prima. Il letto era nudo, il materasso, sghembo e chiazzato. Per terra, pile di riviste e tascabili, mucchi di vestiti vecchi, una mazza da hockey e una cassa acustica rovesciata di lato. Mi bloccai sulla soglia stupefatto mentre Charlie sgombrava uno spazio per il mio bagaglio.

– Hai la faccia di uno che sta per chiedere di parlare con il direttore, – disse, seccato.

– No, no, solo che è strano vederla così.

– È un casino, lo so. Un casino –. Si buttò a sedere sul materasso con un sospiro. – Pensavo che le ragazze delle pulizie l’avrebbero sistemata. È chiaro che non l’hanno fatto. Dio sa come mai.

Sembrava molto avvilito, ma all’improvviso schizzò in piedi di nuovo.

– Senti, usciamo a mangiare. A Emily lascio un messaggio. Possiamo farci un bel pranzetto tranquillo e quando torniamo, la tua camera, e anche la casa, saranno in ordine.

– Non possiamo pretendere che Emily pulisca tutto.

– No, non lei. Lo fa fare. Lei sì che è capace di strigliarle, quelle ragazze. Io non ho nemmeno il loro numero. Pranzo, dài, un bel pranzo. Primo, secondo e dolce, vino, ogni cosa.

Quello che Charlie definiva il loro alloggio erano in realtà i due piani alti di una villetta a schiera affacciata su una via residenziale ma rumorosa. Uscendo dall’ingresso principale, ci ritrovammo subito circondati da una folla di gente e di auto. Seguii Charlie costeggiando uffici e negozi, fino a un piccolo ristorante italiano. Non avevamo prenotato, ma i camerieri accolsero Charlie come un amico e ci condussero a un tavolo. Mi guardai intorno e mi accorsi che il locale era pieno di uomini d’affari in giacca e cravatta; per fortuna anche Charlie era trasandato come me. Dovette leggermi nel pensiero, perché mentre ci sedevamo mi disse:

– Oh, Ray, quanto sei tradizionalista. Ormai è tutto diverso, comunque. Sei stato all’estero troppo tempo –. E in un tono di voce paurosamente alto aggiunse: – Siamo noi quelli che han l’aria di avercela fatta. Tutti gli altri qui dentro sembrano direttorucoli di bassa lega –. Poi si chinò verso di me e mi disse piano: – Senti, dobbiamo parlare. Ho bisogno di un favore.

Nemmeno me la ricordavo, l’ultima volta che Charlie aveva chiesto il mio aiuto, ma abbozzai un cenno disinvolto del capo e rimasi in attesa. Giocherellò per qualche secondo con il menu, prima di appoggiarlo sul tavolo.

– La verità è che io e Emily stiamo attraversando un momento un po’ rognoso. Anzi, negli ultimi tempi, ci siamo decisamente evitati. È per questo che non era in casa a darti il benvenuto. Attualmente, mi sa che ti tocca scegliere di stare con uno dei due, purtroppo. Un po’ come in quelle commedie dove lo stesso attore recita due parti. Non è pensabile di avere me e Emily contemporaneamente nella stessa stanza. Infantile, vero?

– È evidente che ho scelto il momento sbagliato per venire a trovarvi. Subito dopo pranzo, me ne vado. Posso stare a Finchley da mia zia Katie.

– Ma che diavolo dici? Tu non mi stai a sentire. Te l’ho appena detto. Ho bisogno di un favore da te.

– Pensavo fosse il tuo modo di dirmi…

– Ma no, scemo, sono io quello che deve andarsene. Ho una riunione a Francoforte, parto in aereo oggi pomeriggio. Torno tra un paio di giorni, giovedì al più tardi. Nel frattempo, tu rimani qui. Sistemi le cose, fai tornare tutto a posto. Dopodiché mi presento io, allegro come se questi due mesi non ci fossero mai stati, saluto mia moglie con un bacio, e si ricomincia da capo.

A quel punto la cameriera venne per le ordinazioni e, dopo che si fu allontanata, Charlie non parve più intenzionato a riprendere l’argomento. Si mise invece a sparare domande a raffica sulla mia vita in Spagna e, ogni volta che gli dicevo una cosa, bella o brutta che fosse, lui reagiva con lo stesso sorrisetto acido, e scuoteva la testa, come se stessi confermando le sue peggiori convinzioni. A un certo punto, ad esempio, cercavo di aggiornarlo sui miei notevoli progressi in cucina – raccontandogli di quando avevo preparato praticamente da solo un banchetto natalizio per più di quaranta persone tra studenti e insegnanti –, ma lui mi interruppe senza lasciarmi finire la frase.

– Stammi a sentire, – disse. – La tua è una situazione disperata. Devi dare le dimissioni. Prima però, ti devi trovare un altro lavoro. Sfrutta quel poveraccio di un portoghese, usalo come tramite. Ti tieni in caldo il posto a Madrid, poi molli l’appartamento. Ok, senti come devi fare. Primo.

Alzò la mano e si mise a contare sulle dita le varie voci dei suoi suggerimenti. Gliene restavano ancora un paio, quando arrivarono le ordinazioni, ma lui non si lasciò distrarre e proseguì fino alla fine. Poi cominciammo a mangiare e lui disse:

– Ho già capito: non farai niente di quel che ti ho detto.

– No, no, è tutto molto sensato.

– Solo che quando torni, riprendi esattamente come prima. E tra un anno ci ritroviamo e tu ricominci a lamentarti delle stesse identiche cose.

– Ma io non mi sono lamentato…

– Sai una cosa, Ray? C’è un limite ai consigli che gli altri ti possono dare. Da un certo punto in poi, devi proprio pensarci da solo, alla tua vita.

– D’accordo, mi impegnerò, lo prometto. Però, prima mi stavi dicendo di un favore.

– Ah, sì –. Masticò il boccone con aria pensosa. – A essere onesti, si tratta del vero motivo per cui ti ho invitato. Rivederti è sempre bello, per carità. Ma la cosa importante dal mio punto di vista era questa: devi fare una cosa per me. In fondo sei il mio più vecchio amico, siamo amici da una vita…

All’improvviso, ricominciò a mangiare e mi accorsi con grande stupore che singhiozzava in silenzio. Allungai la mano sul tavolo per toccargli una spalla, ma lui continuò a ingozzarsi di pasta senza alzare gli occhi. Dopo un paio di minuti di questa scena, ripetei il gesto sulla spalla, senza ottenere niente di più della prima volta. Comparve la cameriera e, con un sorriso cordiale, ci chiese se era tutto di nostro gradimento. Rispondemmo che era buonissimo e quando lei se ne andò Charlie pareva avere riguadagnato un po’ di contegno.

– Allora, Ray. Quello che ti chiedo di fare è di una semplicità estrema. Voglio solo che tu resti accanto a Emily per qualche giorno, da bravo ospite. Tutto qui. Solo finché non torno.

– Tutto qui? Mi chiedi solo di badare a lei in tua assenza?

– Esatto. Anzi, di lasciare che sia lei a badare a te. Sei tu l’ospite. Vi ho organizzato alcune cosette. Biglietti del teatro e così via. Io rientro giovedì al più tardi. La tua missione è solo farle tornare il buonumore e conservarglielo. Così quando arrivo e le faccio: «Ciao, tesoro», e l’abbraccio, lei mi risponde: «Oh, ciao, amore, bentornato, com’è andata?», e mi abbraccia a sua volta. E possiamo riprendere come prima. Prima che cominciasse questo strazio. Ecco la tua missione. Facile, no?

– Se posso fare qualcosa, sono contento, – dissi. – Però, Charlie, sei sicuro che sia in vena di avere ospiti? È chiaro che state attraversando una specie di crisi. Emily sarà scombussolata almeno quanto te. Francamente, non capisco perché mi hai chiamato proprio adesso.

– In che senso, non capisci? Ti ho chiamato perché sei il mio migliore amico. Sì, certo. Di amici ne ho parecchi. Ma alla fine, ci ho pensato tanto e ho capito che sei l’unico all’altezza.

Devo ammettere che questo mi commosse un po’. Eppure mi rendevo conto che qualcosa non tornava, che non mi stava dicendo tutto.

– Potrei capire invitarmi se ci foste tutti e due, – dissi. – Ho un’idea di come potrebbe funzionare. Non vi rivolgete la parola, invitate un amico per avere una distrazione, vi sforzate di comportarvi meglio che potete, e l’ambiente comincia a scaldarsi. Ma in questo caso non andrà così, perché tu non ci sarai.

– Ti prego, Ray, fallo per me. Sono convinto che possa funzionare. Emily è sempre di buonumore con te.

– Di buonumore con me? Ti assicuro, Charlie, mi piacerebbe rendermi utile. Però forse stai sbagliando qualcosa. Perché in tutta sincerità io ho l’impressione di non metterla affatto di buonumore, Emily, neanche nelle migliori circostanze possibili. Le ultime volte che sono venuto l’ho trovata, come dire, piuttosto impaziente con me.

– Senti, Ray, fidati. So quel che faccio.

Al nostro ritorno Emily era in casa. Lo ammetto, rimasi sorpreso da quanto la trovai invecchiata. Non si era solo considerevolmente appesantita dall’ultima volta; la sua faccia, un tempo di una bellezza del tutto naturale, aveva assunto tratti da mastino e una smorfia amara sulle labbra. Seduta sul divano in soggiorno, leggeva il «Financial Times», e accolse il mio ingresso alzandosi con un’aria abbastanza scontrosa.

– Contenta di vederti, Raymond, – disse baciandomi svelta sulla guancia, prima di risedersi. Il suo atteggiamento generale mi invogliò a profondermi in scuse per essermi presentato in un momento così infelice. Ma prima che potessi proferire parola, Emily mi indicò lo spazio vuoto accanto a lei sul divano e disse: – Allora, Raymond, vieni qui, ho delle cose da chiederti. Voglio sapere tutto quello che ti è successo.

Mi sedetti e lei cominciò a interrogarmi, proprio come aveva fatto Charlie al ristorante. Charlie, intanto, preparava i bagagli per il viaggio, entrando e uscendo dal soggiorno in cerca di svariati effetti personali. Notai che non si guardavano, ma non sembravano nemmeno poi tanto a disagio di trovarsi nella stessa stanza, a differenza di quanto aveva sostenuto lui. E benché non si rivolgessero mai direttamente la parola, Charlie continuava a intervenire nella conversazione come in uno strano a parte. Ad esempio, mentre spiegavo a Emily come mai fosse tanto difficile trovare un compagno con cui dividere le spese di affitto, Charlie strillò dalla cucina:

– Il posto dove sta, non è attrezzato per due! Va bene per una persona sola, ma dev’essere una persona con più soldi di quanti lui riuscirà mai a mettere insieme!

Emily non fece alcun commento, ma dovette registrare l’informazione ricevuta, perché proseguì dicendo: – Raymond, non dovevi andare a sceglierti un alloggio del genere.

Questa storia continuò per una buona ventina di minuti, con Charlie che elargiva il proprio contributo dalla scala, o mentre era di passaggio in cucina, di solito gridando affermazioni nelle quali si riferiva a me in terza persona. A un certo punto, Emily disse:

– Oh, Raymond, veramente. Hai deciso di farti sfruttare in tutti i modi possibili in quella squallida scuola di lingue, ti lasci pelare dal padrone di casa, e poi cosa fai? Ti metti al traino di un’oca qualsiasi che ha il vizio del bere e nemmeno uno straccio di impiego per pagarselo. Sembra quasi che tu voglia a tutti i costi far saltare i nervi a quei pochi che ancora ci tengono, a te!

– Una tribù in via di estinzione, deve saperlo! – tuonò Charlie dall’ingresso. Dal rumore intuivo che ormai aveva portato lì la sua valigia. – Se uno vuole continuare a comportarsi da adolescente dieci anni dopo il limite massimo, per carità, tutto bene. Ma non mollare così, anche adesso che si avvicinano i cinquanta!

– Sono solo quarantasette…

– In che senso, solo quarantasette? – Emily aveva alzato la voce esageratamente, considerando che le stavo seduto accanto. – Solo quarantasette. È quel «solo» che ti sta rovinando la vita, Raymond. Solo, solo, solo. Faccio solo del mio meglio. Ho solo quarantasette anni. Tra un po’ ne avrai solo sessantasette e continuerai a girare in tondo alla disperata ricerca di un tetto, accidenti.

– Deve assolutamente darsi una regolata, cazzo! – urlò Charlie dalla scala. – Tirar fuori i coglioni finché è in tempo!

– Raymond, ma non ti fermi mai a chiederti chi sei? - domandò Emily. – Quando pensi al tuo talento, non ti vergogni? Ma guarda come ti sei ridotto a vivere! È una cosa… è una cosa che fa incazzare e basta! È esasperante!

Charlie comparve sulla soglia; aveva addosso l’impermeabile e per un attimo mi gridarono all’unisono cose diverse. Poi Charlie si interruppe, annunciò che se ne andava – quasi nauseato dalla mia persona – e sparì.

La sua partenza placò di colpo la furia di Emily, e io colsi l’occasione per schizzare in piedi, dicendo: – Scusami, vado un attimo a dare una mano a Charlie col bagaglio.

– Chi ha detto che ho bisogno d’aiuto? – disse Charlie dall’ingresso. – Ho un’unica valigia.

Ma mi permise di accompagnarlo giù in strada e mi lasciò di guardia al bagaglio, mentre lui scendeva dal marciapiede per fermare un taxi. Sembrava non ce ne fossero nei pressi, perciò si sporse preoccupato, tenendo il braccio pronto.

Mi avvicinai e dissi: – Charlie, io non credo proprio che funzionerà.

– Che cosa?

– Emily mi detesta con tutta se stessa. E mi ha sott’occhio da qualche minuto. Te lo immagini come sarà da qui a tre giorni? Come diavolo fai a credere che tornando troverai un’armonia celestiale?

Già mentre pronunciavo queste parole, mi si affacciò alla mente un’idea e ammutolii. Notando il cambiamento, Charlie si voltò a scrutarmi con attenzione.

– Forse ho capito – dissi alla fine – perché dovevo essere io e non un altro.

– Ma no? Vuoi dire che il buon Ray ha visto la luce?

– Sì, forse sì.

– Ma che importanza ha comunque? La cosa che ti chiedo di fare, rimane la stessa identica di prima –. Gli si erano di nuovo riempiti gli occhi di lacrime. – Ti ricordi, Ray, quando Emily diceva di credere in me? Ha continuato a sostenerlo per anni e anni. Io ho fiducia in te, Charlie, non ti devi fermare, col talento che hai. Lo diceva ancora fino a tre, quattro anni fa. Hai idea di quanto fosse diventato insostenibile? Me la cavavo bene. Me la cavo bene anche adesso. Benissimo, anzi. Ma a sentire lei io ero destinato a… che cazzo ne so, alla presidenza del mondo, per Dio! Io sono un coglione qualunque che se la cava. Ma non è quello che vede lei. È questo il nocciolo della faccenda, è da lì che ha cominciato ad andare tutto a rotoli.

Si avviò sul marciapiede, molto preoccupato. Corsi a prendergli la valigia e me la trascinai appresso sulle ruotine. La via era ancora piuttosto affollata, perciò non era facile stargli dietro senza ingombrare il passaggio agli altri pedoni. Però Charlie teneva il suo passo, incurante delle mie difficoltà.

– Secondo lei mi sono lasciato andare, – diceva intanto. – Ma non è vero. Io me la cavo alla grande. Gli orizzonti sconfinati vanno benissimo finché si è giovani. Però quando si arriva alla nostra età bisogna saper guardare alle cose in prospettiva. È questo che ha continuato a frullarmi in testa, ogni volta che lei diventava insopportabile. Prospettiva, le manca la prospettiva. E intanto mi dicevo, tranquillo, tu te la cavi alla grande. Guarda un mucchio di altra gente che conosciamo. Prendi Ray. Lui sì che si è ridotto la vita una fogna. Le manca proprio la prospettiva.

– E a quel punto hai deciso di invitarmi da voi. Mi hai eletto Mister Prospettiva.

Finalmente, Charlie si interruppe e incrociò il mio sguardo. – Non mi fraintendere, Ray. Non stavo dicendo che sei un fallito completo, o roba del genere. Per esempio non fai uso di droghe e non hai ammazzato nessuno. Certo che in confronto a me, diciamocelo, non sei proprio l’uomo più riuscito del mondo. Ecco perché ti ho chiesto, ti sto chiedendo di farmi questo favore. Le cose tra noi due sono davvero agli sgoccioli, sono disperato, mi serve il tuo aiuto. In fondo che cosa ti chiedo, santo Dio? Solo di comportarti dall’uomo gentile che sei. Né più né meno. Fallo per me, Raymond. Per me e per Emily. Tra noi non è ancora finita, me lo sento. Fa’ solo te stesso per due o tre giorni, finché non torno. Non è chiedere tanto, no?

Feci un respiro lungo e dissi: – Va bene, d’accordo, se pensi che possa servire. Ma non credi che prima o poi Emily mangerà la foglia?

– E perché? Sa che ho una riunione importante a Francoforte. Dal suo punto di vista non c’è niente di strano. Per lei si tratta di occuparsi di un ospite, tutto qui. Farlo le piace, e le piaci anche tu. Ecco, arriva un taxi –. Prese a sbracciarsi e, mentre l’auto accostava, mi afferrò per un braccio. – Grazie, Ray. Sento che ci farai ritrovare armonia.

Al mio ritorno, l’atteggiamento di Emily aveva subito una trasformazione completa. Mi accolse in casa come se fossi un parente molto fragile e anziano: tutta sorrisi comprensivi e tocchi lievi. Quando accettai di bere una tazza di tè, mi portò in cucina, mi fece sedere al tavolo e, per qualche secondo, rimase a fissarmi con aria preoccupata. Alla fine mi disse, sottovoce:

– Mi dispiace di averti aggredito in quel modo prima, Raymond. Non avevo nessun diritto di parlarti così –. Poi, allontanandosi per mettere su il tè, proseguì: – Sono passati anni da quando eravamo compagni di università. Tendo a scordarmelo. Non mi sognerei mai di rivolgermi così a nessun altro amico. Ma quando si tratta di te, beh, ti guardo e probabilmente mi sembra di tornare ad allora, a come eravamo tutti quanti, e dimentico il resto. Ti prego, non prendertela.

– Ma no, figurati. Non me la sono presa per niente –. Stavo ancora pensando alla conversazione appena conclusa con Charlie e non escludo di avere avuto un tono un po’ distaccato. Emily dovette fraintendermi, perché la sua voce si addolcì ulteriormente.

– Mi dispiace tantissimo di averti fatto arrabbiare –. Intanto disponeva con cura file di biscotti sul piatto davanti a me. – Il fatto è, Raymond, che all’epoca ti si poteva dire qualunque cosa, tu ti facevi una risata insieme a noi, e diventava tutto uno scherzo. Che idiota sono stata, a pensare che potesse essere ancora così.

– Beh, in realtà, io sono ancora più o meno quello di una volta. Non ci ho davvero fatto caso.

– Non mi sono resa conto – riprese lei, come se non mi avesse sentito – di quanto tu sia diverso adesso. Di quanto ti debba sentire finito.

– Ehi, Emily, credimi, non va poi così male…

– Gli anni che passano devono averti trascinato in pessime acque. Sei come sull’orlo di un abisso. Basta una spintarella e vai in pezzi.

– E precipito, intendi.

Lei armeggiava con il bollitore, ma si voltò di scatto a fissarmi. – No, Raymond, non parlare così. Nemmeno per scherzo. Non voglio sentirti parlare così.

– No, non hai capito. Hai detto che andrei in pezzi, ma se sono sull’orlo dell’abisso, posso solo precipitare, non andare in pezzi.

– Oh, poverino –. Sembrava continuasse a non cogliere quello che le dicevo. – Del Raymond di allora è rimasto solo il guscio vuoto.

Stabilii che forse era meglio non replicare e, per qualche momento, aspettammo in silenzio che l’acqua giungesse a bollore. Emily preparò un’unica tazza e me la mise di fronte.

– Non sai quanto mi spiace, Ray, ma ora devo tornare in ufficio. Ho due riunioni alle quali non posso proprio mancare. Se solo avessi saputo in che stato eri, non ti avrei abbandonato. Mi sarei organizzata diversamente. Ma ora come ora, mi aspettano. Povero Raymond. Che cosa pensi di fare qui, tutto solo?

– Starò benissimo. Sul serio. Anzi, pensavo. Che ne dici se mentre sei via, io preparo la cena? Stenterai a crederlo, ma sono diventato un discreto cuoco ultimamente. Pensa che poco prima di Natale, abbiamo allestito un banchetto…

– Che pensiero gentile da parte tua, voler dare una mano. Però, secondo me è meglio se per ora ti riposi. Sai, una cucina che non si conosce può innervosire parecchio. Perché invece non ti metti a tuo agio, ti fai un bel bagno aromatico, ascolti un po’ di musica. Alla cena penserò io quando torno.

– Non puoi avere voglia di preoccuparti della cena, dopo tante ore di ufficio.

– No, Ray, tu pensa solo a rilassarti –. Estrasse un biglietto da visita e lo appoggiò sul tavolo. – Qui hai il numero diretto del mio interno, e quello del cellulare. Ora devo proprio scappare, ma puoi chiamarmi quando vuoi. E mi raccomando: niente strapazzi, in mia assenza.

È da un po’ che faccio fatica a rilassarmi in casa mia. Stare solo mi rende sempre più inquieto; mi affligge il pensiero di perdermi chissà quale incontro fondamentale, là fuori. Se invece mi ritrovo in casa di qualcun altro, spesso mi succede di sentirmi avvolgere da un delizioso senso di pace. Adoro distendermi su un divano che non conosco, immerso nella lettura del primo libro che capita. Ed è proprio questo che feci, appena Emily se ne fu andata. O meglio, non mi spinsi oltre un paio di capitoli di Mansfield Park, prima di appisolarmi per una ventina di minuti.

Al risveglio, il sole del pomeriggio invadeva l’appartamento. Lasciai il divano e presi a ficcare il naso un po’ in giro. Forse mentre eravamo a pranzo c’erano state davvero le ragazze delle pulizie, o forse era stata Emily a riordinare; sta di fatto che l’ampio soggiorno adesso era impeccabile. Ordine a parte, la stanza era stata arredata con classe, con pezzi in stile moderno e oggetti d’arte, anche se uno sguardo malevolo avrebbe potuto notare che si era badato troppo all’effetto. Passai in rassegna i libri, e diedi un’occhiata alla raccolta di cd. Quasi unicamente rock e classica, ma alla fine, dopo qualche ricerca, seminascosta nell’ombra, scovai un’esigua sezione dedicata a Fred Astaire, Chet Baker, Sarah Vaughan. Mi stupii che Emily non avesse sostituito una parte più cospicua della sua amatissima collezione di vinile con le rispettive reincarnazioni in cd, ma non mi ci soffermai, e proseguii la perlustrazione in cucina.

Ero intento ad aprire a caso armadietti, a caccia di qualche biscotto o della cioccolata, quando l’occhio mi cadde su un piccolo quaderno che stava sul tavolo. La copertina viola imbottita lo rendeva notevole nel trionfo di superfici lucide e minimaliste di quella cucina. Prima di andarsene in fretta e furia, Emily aveva svuotato la borsa che poi aveva riempito di nuovo, mentre io bevevo il mio tè. Chiaramente doveva aver lasciato il quaderno per sbaglio. L’attimo dopo, però, mi balenò in testa un’idea diversa, e cioè che il taccuino viola fosse una specie di diario personale e che Emily lo avesse lasciato di proposito, con il preciso intento di farmi sbirciare dentro; come se per qualche misteriosa ragione non osasse confidarsi più apertamente e avesse quindi fatto ricorso a questo stratagemma per rivelarmi il suo turbamento interiore.

Restai lì per un poco a fissare il taccuino. Poi mi allungai e, infilando l’indice a metà delle pagine, sollevai con cautela l’oggetto. La vista della fitta grafia di Emily mi portò d’istinto a ritirare il dito e ad allontanarmi dal tavolo, dicendo a me stesso che non avevo il diritto di ficcare il naso, indipendentemente dalle intenzioni di Emily in un momento irrazionale.

Ritornai in soggiorno, mi sistemai sul divano e lessi ancora qualche pagina di Mansfield Park. Ma scoprii di non riuscire a concentrarmi. Il pensiero tornava in continuazione al taccuino viola. E se non si fosse trattato di un gesto impulsivo? E se invece l’avesse programmato da giorni? Se avesse scritto qualcosa apposta per farmelo leggere?

Un’altra decina di minuti, e tornai in cucina a fissare il taccuino un altro po’. Mi sedetti dove stavo prima a bere il tè, mi feci scivolare il quaderno viola davanti, e lo aprii.

Fu presto chiarissimo che, qualora Emily confidasse i suoi intimi pensieri a un diario, il testo in questione era altrove. Quello che avevo davanti agli occhi era tutt’al più la versione nobilitata di un’agenda; a fondo pagina di ogni giorno si era appuntata una serie di indicazioni personali, alcune delle quali dal sapore chiaramente motivazionale. Una di queste in pennarello spesso diceva: «Se ancora non chiamato Mathilda, COSA ASPETTI, ACCIDENTI? FALLO!!!»

E un’altra: «Finito quel cazzo di Philip Roth. Restituire a Marion!»

Poi, continuando a sfogliare, mi imbattei in un: «Lunedì arriva Raymond. Che lagna».

Voltai un altro paio di pagine e trovai: «Domani Ray. Ce la farò?»

E infine, quella stessa mattina, tra promemoria di commissioni varie: «Comprare vino per sua altezza il Principe dei Frignoni».

Principe dei Frignoni? Mi ci volle un po’ per accettare l’idea che potesse davvero trattarsi di me. Considerai una serie di opzioni possibili – un cliente? un idraulico? – ma a lungo andare, visti la data e il contesto, dovetti rassegnarmi a essere l’unico probabile candidato. Poi, tutto a un tratto, l’ingiustizia profonda di attribuirmi un simile epiteto mi colpì con violenza inattesa e, senza neanche accorgermene, mi ritrovai in mano la pagina incriminata.

Il gesto non fu particolarmente feroce: non avevo nemmeno strappato la pagina. Mi ero limitato a serrare il pugno un istante; il secondo successivo già avevo ripreso perfettamente il controllo, ma ormai era troppo tardi. Riaprendo la mano mi resi conto che non soltanto la pagina in questione, ma anche le due successive erano rimaste vittima della mia collera. Tentai di stirarle e farle tornare come prima, ma si accartocciavano di nuovo, quasi che il loro desiderio più intenso fosse quello di trasformarsi in pallottole di carta straccia.

Ciononostante, per un bel po’ continuai a stirare spaventato i fogli malconci. Ero quasi sul punto di accettare l’inutilità di tutti i miei sforzi, e l’idea che non potevo fare nulla per cancellare gli effetti del mio gesto, quando mi accorsi che da qualche parte nell’alloggio squillava un telefono.

Decisi di non badarci e mi concentrai sul significato di quanto era accaduto. Poi però si inserì la segreteria telefonica e sentii la voce di Charlie lasciare un messaggio. Forse mi parve un appiglio, forse volevo solo qualcuno con cui confidarmi, sta di fatto che mi precipitai in soggiorno e afferrai il telefono sul tavolino di vetro.

– Ah, allora ci sei –. Charlie pareva vagamente irritato che gli avessi interrotto il messaggio.

– Charlie, ascolta. Ho appena fatto una stupidaggine.

– Sono in aeroporto, – disse lui. – Il mio volo è in ritardo. Voglio chiamare l’agenzia che manda l’auto a prendermi a Francoforte, ma non ho portato con me il numero. Ho bisogno che tu me lo legga.

Cominciò a impartirmi istruzioni su dove trovare la rubrica telefonica, ma io lo fermai, dicendo:

– Senti, ho appena fatto una stupidaggine. Non so come comportarmi.

Ci fu un silenzio che durò alcuni secondi. Poi Charlie disse: – Magari, Ray, ti sei fatto delle idee. Magari pensi che ci sia un’altra. Che me ne stia andando da lei. Mi è venuto in mente che forse è questo che credi. In fondo, sarebbe in linea con tutto quello che hai avuto modo di vedere. L’atteggiamento di Emily alla mia partenza, e tutto il resto. E invece ti sbagli.

– Sì, capisco cosa intendi. Però, ascolta, c’è una cosa di cui ti devo parlare…

– Credimi, Ray. Ti sbagli. Non c’è nessun’altra donna. Sto andando a Francoforte per una riunione sul futuro trasferimento della nostra agenzia in Polonia. È lì che sto andando.

– D’accordo, ho capito.

– Non c’è mai stata di mezzo un’altra, in questa storia! Non mi sogno nemmeno di guardarle, le altre, non seriamente, almeno. È la verità. La stramaledetta verità, punto e basta!

Si era messo a gridare, ma forse dipendeva dal chiasso che aveva intorno nell’area di imbarco. Poi si interruppe e io tesi l’orecchio per capire se stava piangendo di nuovo, ma mi arrivarono solo i rumori dell’aeroporto. All’improvviso disse:

– So cosa stai pensando. Stai pensando, e va bene, non c’è un’altra di mezzo. Magari però c’è un altro. E su, dài, ammettilo, è questo che pensi, no? Avanti, dillo!

– Francamente, no. Non mi è mai passato per la testa che potessi essere gay. Nemmeno quella volta dopo gli esami, che eri ubriaco fradicio e facevi finta…

– Sta’ zitto, idiota! Intendevo un altro, nel senso di un Amante di Emily! Un Amante di Emily, cazzo, ma può esistere un personaggio del genere? È qui che voglio arrivare. Perché la risposta, secondo me, è no, no, no. Dopo tutti questi anni, Emily per me è un libro aperto. Il problema però è che, conoscendola così bene, mi rendo conto di un’altra cosa. E cioè che ha cominciato a pensarci. Esatto, Ray, ha cominciato a guardarsi intorno. A interessarsi a uomini come quello stronzo di David Corey!

– E chi sarebbe?

– Quello stronzo di David Corey è un coglione schifoso che fa l’avvocato ed è sulla cresta dell’onda al momento. So esattamente quanto gli vanno bene le cose, perché Emily, sul punto, mi tiene informato al limite del tollerabile.

– Credi… che si vedano?

– Ma no, te l’ho appena detto! Non c’è niente, per ora! In ogni caso, quello stronzo di David Corey non la degnerebbe di uno sguardo. È sposato con una figa d’alto bordo, una che lavora per la Condé Nast.

– Allora sei a posto…

– No, che non sono a posto, perché c’è anche Michael Addison. E Roger Van Den Berg, vale a dire il nuovo astro nascente della Merrill Lynch, uno che ogni anno riesce a farsi mandare al World Economic Forum…

– Ti prego, Charlie, ascolta un momento. Ho un problema qui. Per molti aspetti, un’inezia, mi rendo conto. Ma è un problema lo stesso. Per favore, ascoltami.

E finalmente riuscii a dirgli che cosa era successo. Gli raccontai tutto con la massima onestà, magari glissando un tantino sull’idea che Emily potesse aver lasciato un messaggio confidenziale apposta per me.

– Lo so che è stato molto stupido, – dissi, concludendo. – Ma l’aveva lasciato lì, proprio sul tavolo di cucina.

– Eh, sì –. Charlie sembrava parecchio più calmo. – In effetti, ti sei lasciato un po’ prendere la mano.

E scoppiò a ridere. Incoraggiato dalla reazione, risi anch’io.

– Forse sto esagerando, – dissi. – Alla fine, non è il suo diario personale o roba simile. Giusto un’agenda… – Lasciai perdere, perché Charlie intanto continuava a ridere e c’era una leggera vena isterica in quella risata. Poi si interruppe e, con voce piatta, disse:

– Se lo scopre, vorrà segarti le palle.

Ci fu una breve pausa, durante la quale ascoltai il baccano dell’aeroporto. Poi proseguì:

– Più o meno sei anni fa, l’ho aperto anch’io quel taccuino, o l’equivalente dell’anno in corso. Così, per caso; ero seduto in cucina e lei stava ai fornelli. Sai com’è; l’ho aperto mentre dicevo qualcosa, soprappensiero. Lei se n’è subito accorta e mi ha detto che non le andava. Anzi, mi ha proprio detto che mi avrebbe segato le palle. In quel momento aveva in mano un mattarello, perciò le ho fatto notare che con quello strumento non sarebbe riuscita a rendere la minaccia effettiva. E a quel punto lei mi ha risposto che il mattarello serviva per dopo. Per quello che intendeva fare alle mie palle, dopo averle segate.

Si sentì sullo sfondo l’annuncio di un volo.

– Allora, che cosa mi suggerisci di fare? – chiesi.

– Che cosa puoi fare ormai? Continua a lisciare le pagine. E spera che non se ne accorga.

– Ci ho provato, ma non funziona. È escluso che non se ne accorga…

– Senti, Ray, io ho un mucchio di pensieri. Sto cercando di dirti che tutti questi uomini su cui fantastica Emily non sono davvero potenziali amanti. Sono solo personaggi che le sembrano meravigliosi perché li crede pieni di successo. Si rifiuta di vedere i loro nei. La loro disumanità bella e buona. E comunque è tutta gente fuori dalla sua portata. Il punto, e questo è l’aspetto più triste e patetico di tutta la faccenda, il punto è che, in fondo in fondo, lei ama me. Mi ama ancora. Io me ne accorgo. Lo so.

– Insomma, Charlie, non hai consigli da darmi.

– No che non ho consigli da darti, cazzo! – Stava di nuovo strillando a pieni polmoni. – Tirati fuori da solo! Tu monti sul tuo aereo e io monto sul mio. E staremo a vedere chi si schianta!

E con questo, lo persi. Mi buttai sul divano e tirai un bel respirone. Mi dissi che dovevo mantenere la giusta prospettiva sulla vicenda, ma mi sentivo crescere nello stomaco una certa nausea da panico. Mi passarono in testa svariate idee. Una soluzione era quella di darmi alla fuga, e sparire dalla vita di Emily e Charlie per parecchi anni, per poi rifarmi vivo con una cauta lettera molto misurata nelle parole. Ma perfino nelle condizioni di quel momento, accantonai l’ipotesi, perché mi parve un po’ troppo disperata. Un piano migliore poteva essere quello di darmi seriamente da fare con le bottiglie del mobile bar, in modo che al suo ritorno Emily mi potesse trovare ubriaco fradicio. Almeno avrei potuto sostenere di avere sbirciato nel diario e stracciato le pagine in preda al delirio etilico. Anzi, grazie alla demenzialità dell’ebbrezza, avrei perfino potuto assumere il ruolo della vittima, mettermi a strepitare e accusarla dicendole quanto male mi avesse fatto leggere quelle parole sul mio conto, scritte da una persona sul cui affetto di amica sincera avevo sempre contato, il cui pensiero mi aveva anzi sostenuto nei momenti peggiori passati in squallide località straniere. Ma se questo piano mostrava alcuni vantaggi da un punto di vista pratico, ci sentivo dentro qualcosa che non andava - come del fango sul fondo che non avevo nessuna voglia di guardare da vicino – e che di sicuro me l’avrebbe reso impraticabile.

Dopo un po’, il telefono squillò un’altra volta ed ecco di nuovo la voce di Charlie. In principio mi parve molto più tranquillo di prima.

– Sono all’imbarco, – disse. – Scusa se mi sono scaldato un po’ troppo prima. Colpa dell’aeroporto. Non riesco a tranquillizzarmi fino a quando non sono seduto nei pressi dell’uscita giusta. Senti, Ray, mi è venuta in mente una cosa. Riguardo al nostro piano.

– Il nostro piano?

– Sì, il piano generale. Come avrai capito, non è il momento adatto per ritoccare la verità quanto basta a mostrarsi sotto una luce migliore. No, proprio non è il momento per le piccole fandonie innocenti, giusto per darsi un tono. No, no. Non te lo sei scordato, spero, come hai avuto questo incarico. Ray, conto su di te: devi mostrarti a Emily per quello che sei, né più né meno. Tu segui il copione e vedrai che il nostro piano procederà.

– Beh, sta’ a sentire, non mi faccio grandi illusioni di venirne fuori come l’insuperabile eroe di Emily…

– Sì, tu sei uno che afferra le situazioni e di questo ti sono grato. Ma mi è appena venuta in mente una cosa. C’è solo un particolare, un dettaglio del tuo personaggio che nel caso specifico non funziona. Come sai, Ray, Emily si è messa in testa che tu abbia buongusto in campo musicale.

– Ah…

– In pratica l’unica circostanza in cui usa la tua persona per sminuire la mia è quando si parla di gusti musicali. Non fosse per questa inezia, saresti assolutamente perfetto per svolgere il compito che ti ho affidato. Perciò, Ray, mi devi promettere che non sfiorerai l’argomento.

– Oh, santo cielo…

– Fallo per me, Ray. Non è chiedere molto. Evita solo di attaccare la solfa su quella… lagna nostalgica che le piace tanto. E se tira fuori lei l’argomento, tu lascialo cadere. Chiedo solo questo. Per tutto il resto, mi basta che tu sia te stesso. Allora, Ray, ci posso contare, no?

– Ma sì, contaci. Stiamo comunque azzardando soltanto ipotesi. Non riesco proprio a vederci, tutti presi a chiacchierare di qualsiasi argomento stasera.

– Bene! Siamo d’accordo, allora. E adesso, veniamo al tuo problemino. Sarai contento di sapere che ci ho riflettuto. E ho trovato la soluzione. Mi ascolti?

– Sì, certo che ti ascolto.

– C’è una coppia che ci viene sempre a trovare. Angela e Solly. Brava gente, ma se non fossero nostri vicini, non avremmo ragione di frequentarli. Comunque, si presentano spesso. Sai, arrivano senza preavviso, nella speranza di scroccare un tè. Ed ecco il punto. Capita sovente che vengano dopo che hanno portato fuori Hendrix.

– Hendrix?

– Hendrix è un puzzolentissimo labrador irrefrenabile e dai possibili istinti omicidi. Per Angela e Solly, ovviamente, la bestiaccia è il figlio che non hanno mai avuto. O che non hanno ancora avuto, visto che sarebbero abbastanza giovani per mettere al mondo dei figli veri. Ma loro, no, preferiscono quel tesoro di Hendrix. E quando vengono da noi, il tesoro gira regolarmente per casa demolendo quello che trova con la fredda determinazione di un rapinatore. Tira per terra la lampada a stelo. Oh poverino, non fa niente, tesoro, ti sei spaventato? Hai presente, no? Beh, senti questa. Un annetto fa, avevamo un libro prezioso – valore: una fortuna –, pieno di foto artistiche di giovani omosessuali in posa in varie casbah nordafricane. A Emily piaceva tenerlo aperto a una pagina particolare: secondo lei, si intonava al divano. Se ti azzardavi a girare pagina, andava su tutte le furie. Beh, un anno fa, appunto, è arrivato Hendrix e se l’è divorata. Hai sentito bene, ha affondato i denti dentro quella fotografia patinata e si è spazzolato un’altra ventina di pagine prima che Mammina sua lo convincesse a desistere. Lo capisci, no, perché ti sto raccontando questa storia?

– Sì. Cioè, intravedo una possibile via di scampo, ma…

– D’accordo, allora ti spiego. Ecco che cosa devi dire a Emily. Suonano alla porta, tu vai ad aprire, e ti trovi davanti questi due con Hendrix che tira il guinzaglio. Si presentano come Angela e Solly, due cari amici venuti a riscuotere la loro tazza di tè. Li fai entrare, Hendrix fa il diavolo a quattro, e si mangia il taccuino. È perfettamente plausibile. Che c’è? Cosa aspetti a ringraziarmi? Sua signoria non è soddisfatta, forse?

– Ti ringrazio tanto, Charlie. Ci sto solo riflettendo, tutto qui. Scusa, ma metti caso che questi due poi si presentino sul serio? Dopo che è tornata Emily, intendo.

– È possibile, in effetti. Posso solo dire che saresti davvero iellato se succedesse. Quando ho detto che venivano spesso, intendevo al massimo una volta al mese. Piantala di fare il difficile e abbi un po’ di riconoscenza.

– Ma Charlie, non è un tantino improbabile che il cane si avventi proprio solo sul diario, e su quelle pagine in particolare?

Lo sentii sospirare. – Pensavo di non doverti spiegare anche il resto. È ovvio che dovrai allestire un po’ la scena. Tirare giù la lampada a stelo, rovesciare lo zucchero sul pavimento in cucina. Dovrà dare l’idea che Hendrix sia passato in casa come un tornado. Senti, stanno chiamando il mio volo. Devo andare. Ti richiamo appena arrivo in Germania.

Mentre ascoltavo Charlie, avevo cominciato a sentirmi un po’ come quando qualcuno attacca a raccontarmi un sogno che ha fatto, o le circostanze in cui gli si è ammaccata la portiera dell’auto. Il suo piano era molto buono - ingegnoso, perfino – ma non capivo che cosa c’entrasse con qualunque cosa avrei potuto fare al ritorno di Emily, perciò mi ritrovai a provare un’impazienza crescente. Eppure, appena Charlie ebbe riattaccato, scoprii che le sue parole avevano avuto su di me una specie di effetto ipnotico. Da una parte scartavo l’idea giudicandola insensata, e dall’altra il mio corpo si apprestava a mettere in atto la sua «soluzione».

Cominciai reclinando di lato la lampada a stelo. Badai a non danneggiare altro ed ebbi cura di sfilare prima il paralume, per poi rimetterlo sghembo, solo dopo aver posizionato la lampada a terra. Poi tirai giù da una mensola un vaso e lo poggiai sul tappeto, disponendo tutto intorno il suo contenuto di piante essiccate. Infine, individuai accanto al tavolino il punto adatto per «rovesciare» il cestino della carta straccia. Procedevo nel lavoro straniato, come un automa. Ero convinto che niente di tutto ciò sarebbe servito a qualcosa, ma trovavo l’esecuzione del piano molto tranquillizzante. Poi ricordai che in teoria quegli atti vandalici dovevano collegarsi al taccuino, e mi trasferii in cucina.

Ci riflettei un momento, presi nell’armadietto una zuccheriera, la misi sul tavolo poco lontano dal quaderno viola, e la inclinai piano piano fino a far fuoriuscire lo zucchero. Ebbi qualche difficoltà a impedire che il contenitore cadesse dal tavolo, ma alla fine ci riuscii. A quel punto, il tormentoso senso di panico di poc’anzi era svanito. Non che fossi precisamente tranquillo; diciamo che mi pareva sciocco essermi ridotto in quello stato penoso.

Tornai in soggiorno, mi distesi sul divano e ripresi il romanzo della Austen. In capo a poche righe, fui colto da un’immensa spossatezza e, senza nemmeno accorgermene, scivolai un’altra volta nel sonno.

Fui svegliato dallo squillo del telefono. Quando riconobbi la voce di Emily sulla segreteria telefonica, mi decisi a rispondere.

– Oh, Raymond, meno male. Allora ci sei. Come stai, tesoro? Come ti senti adesso? Sei riuscito a rilassarti?

Le assicurai che ci ero riuscito eccome, che mi ero perfino addormentato.

– Oh che peccato! Magari non dormivi come si deve da settimane, e proprio ora che ce l’avevi fatta a trovare un momento di scampo, arrivo io a disturbarti! Scusami, ti prego! E c’è un’altra cosa di cui mi devo scusare, Ray, devo darti una delusione. Siamo in piena crisi qui, perciò non riesco a tornare a casa presto come avevo sperato. Anzi, mi ci vorrà ancora almeno un’oretta. Tu resisti, vero?

Le ripetei che mi ero riposato e che stavo benissimo.

– Sì, sento dalla voce che ti sei messo tranquillo. Mi spiace moltissimo, Raymond, ma devo proprio risolvere la situazione. Tu intanto, fa’ come se fossi a casa tua. Ci vediamo, caro.

Misi giù il telefono e mi stirai. Ormai il sole andava calando, perciò mi aggirai per casa accendendo le luci. Poi osservai la «devastazione» del soggiorno e più la guardavo, più mi pareva esageratamente artefatta. Tornò a prendermi un senso di panico alla bocca dello stomaco.

Il telefono suonò ancora, e questa volta era Charlie. Mi disse che si trovava al ritiro bagagli di Francoforte.

– Ci stanno mettendo delle ore, cazzo. Non abbiamo ancora visto arrivare una sola valigia. A te come vanno le cose, da quelle parti? Madame non è ancora rientrata?

– No, non ancora. Senti, Charlie, a proposito del tuo piano. Non può funzionare.

– In che senso, non può funzionare. Non mi dirai che sei stato lì a elucubrare fino adesso, rigirandoti i pollici.

– Ho seguito i tuoi consigli. Ho fatto casino, ma non mi convince. Non sembra che sia passato un cane. Sembra più un’installazione artistica.

Tacque per un momento, forse concentrandosi sul nastro trasportatore. Poi disse: – Capisco qual è il problema. Non è roba tua. È ovvio che tu sia a disagio. Perciò, senti, ora ti faccio un elenco di oggetti che sarei felice di vedere in pezzi. Mi stai ascoltando, Ray? Voglio che tu mi distrugga i seguenti articoli. Quello stupido simil-bue di ceramica. Sta vicino al lettore cd. È un regalo di David Corey, lo stronzo; ce l’ha portato da Lagos. Puoi cominciare a spaccare quello, intanto. Anzi, sai che ti dico, che non mi importa di cosa distruggi. Fracassa pure tutto quanto.

– Charlie, credo sia meglio se ti calmi.

– Ok, va bene. Ma quella casa è piena di schifezze. Come il nostro matrimonio in questo periodo. Piena di vecchie schifezze. Tipo il soffice divano rosso, hai presente quale dico, Ray?

– Sì. In effetti ci ho appena fatto una dormita.

– Beh. Sono secoli che dovrebbe stare in una discarica. Che ne dici di strappare la fodera e di tirare fuori l’imbottitura.

– Charlie, devi darti una regolata. Anzi, ora che ci penso, così non cerchi affatto di aiutarmi. Mi usi solo per sfogare la tua rabbia e il tuo senso di frustrazione…

– Oh, piantala con queste stronzate! Certo che voglio aiutarti. E il mio è un ottimo piano. Ti assicuro che funzionerà. Emily lo detesta quel cane, come detesta Angela e Solly, perciò è pronta a cogliere la palla al balzo per detestarli ancora di più. Ascolta –. Abbassò la voce fin quasi a un sussurro. – Ora arriva il pezzo forte. L’ingrediente segreto con cui la convincerai di sicuro. Avrei dovuto pensarci prima. Quanto tempo ti resta?

– Più o meno un’ora…

– Bene. Stammi a sentire. Ci vuole l’odore. Sì, hai capito bene. Devi fare in modo che l’aria puzzi di cane. Se ne accorgerà appena mette piede in casa, anche se è appena percettibile. Dopodiché entra in soggiorno, vede il bue di ceramica del caro David per terra in frantumi, l’imbottitura di quell’orrendo divano rosso un po’ ovunque…

– Ehi, aspetta, non ho detto che avrei…

– Zitto e ascolta! Vede quel putiferio e subito, razionalmente o meno, lo associa al puzzo di cane. La scena di Hendrix le attraversa la testa con la chiarezza di un lampo, prima ancora che tu le abbia detto una sola parola. È magnifico, no?

– Charlie, ma tu deliri. Allora, sentiamo, secondo te come riesco a far puzzare casa tua di cane?

– Io so benissimo come si può produrre il puzzo di cane –. La voce era ancora un mormorio concitato. – Lo so benissimo, perché lo facevo sempre con Tony Barton in quinta elementare. Lui aveva una sua ricetta, ma io poi l’ho migliorata.

– Ma perché?

– Come perché? Perché la sua puzzava più di cavolo che di cane.

– No, volevo dire, perché uno… Vabbè, lasciamo perdere. Tanto vale che tu me la dia; basta che poi non mi costringi a uscire per procurarmi una scatola da piccolo chimico.

– Bene. Finalmente ci sei. Hai una penna, Ray? Scrivi. Ah, ecco qua; era ora –. Doveva essersi messo il telefono in tasca, perché per alcuni secondi non sentii altro che rumori intestinali. Poi fu di ritorno e mi disse:

– Ora devo andare. Perciò, scrivi. Sei pronto? Il tegame medio. Probabilmente è già sul gas. Ci metti dentro un mezzo litro d’acqua. Aggiungi due dadi di carne, un cucchiaino di cumino, un cucchiaio di paprika, due cucchiai d’aceto, una bella manciata di foglie di alloro. Scritto? Ora ci ficchi dentro una scarpa o uno stivale di cuoio, capovolto, di modo che la suola non sia immersa nel liquido. È per evitare che si senta odore di gomma bruciata. Dopodiché accendi il gas, porti a bollore, e lasci cuocere a fuoco lento. Di lì a poco, cominci a sentire. Non è una puzza tremenda. La ricetta originale di Tony Barton prevedeva anche qualche lumaca, ma questa è di gran lunga più raffinata. Sa proprio di cane. Lo so, stai per chiedermi dove trovi tutti gli ingredienti. Erbe e simili, sono nell’armadietto di cucina. Se invece apri l’armadio del sottoscala, ci trovi un paio di vecchi stivali. Non i Wellington, mi raccomando. Dico quelli distrutti, più scarponcini alti che stivali. Me li mettevo sempre per andare al parco comunale. Non ne possono più e aspettano solo di essere buttati via. Usa uno di quelli. Che ti prende? Senti, Ray, fa’ come ti dico e basta, ok? Mettiti in salvo. Fidati, Emily incazzata non è uno scherzo. Ora devo andare. Ah, e ricordati. Niente sparate sulla tua fantastica competenza musicale.

Forse fu semplicemente l’effetto di aver ricevuto istruzioni precise, per quanto opinabili; sta di fatto che, quando misi giù il telefono, mi sentivo determinato come un automa. Avevo ben chiaro che cosa dovevo fare. Andai in cucina e accesi le luci. Come volevasi dimostrare, il tegame «medio» stava sul gas, in attesa del suo prossimo utilizzo. Lo riempii d’acqua a metà e lo rimisi sul fornello. Intanto, mi resi conto di dovermi preoccupare di un altro fattore importante, prima di procedere oltre, vale a dire la quantità esatta di tempo disponibile per completare l’operazione. Tornai in soggiorno, presi il telefono e composi il numero di Emily.

Mi rispose la sua segretaria e mi disse che Emily era in riunione. Con un tono di voce che mescolava cordialità e risolutezza, le chiesi di chiamarla comunque, «sempre ammesso che non si tratti di una scusa». L’attimo dopo, Emily era in linea.

– Che succede, Raymond? Che c’è?

– Non succede niente. Ho chiamato solo per sapere come stavi.

– Hai una voce strana, Ray. Che c’è?

– In che senso, ho una voce strana? Ti ho chiamata solo per sapere a che ora ti devo aspettare. Lo so che mi consideri un perdigiorno, ma mi fa comunque piacere avere una specie di programma.

– Raymond, non è il caso di prendersela così. Allora, vediamo. Ci vorrà ancora un’ora… Facciamo un’ora e mezza. Mi dispiace moltissimo, ma siamo proprio in piena crisi qui.

– Diciamo tra i sessanta e i novanta minuti, dunque. Perfetto. Volevo solo sapere questo. Bene, a più tardi, allora. Puoi tornare ai tuoi impegni adesso.

È possibile che stesse per replicare qualcosa, ma io riagganciai e tornai spedito in cucina, deciso a non perdermi per strada la voglia di fare. Cominciavo anzi a sentirmi davvero euforico e non capivo come avessi potuto lasciarmi prendere dall’avvilimento, poco prima. Passai in rassegna gli armadietti e allineai con precisione accanto al fornello tutte le erbe e le spezie necessarie. Ne misurai la quantità da aggiungere all’acqua, rimestai velocemente, e andai in cerca della scarpa.

L’armadio del sottoscala conteneva un mucchio di pietose calzature. Dopo averci frugato dentro per qualche minuto, scovai uno degli scarponcini ai quali di sicuro si era riferito Charlie – un esemplare particolarmente malconcio incrostato di fango vetusto tutto intorno al tacco. Lo presi in punta di dita, me lo portai in cucina e lo immersi con cautela a suola in su. Accesi un fuoco medio sotto il tegame, sedetti al tavolo e attesi che l’acqua si scaldasse. Quando il telefono squillò di nuovo, avrei voluto ignorarlo, ma poi sentii la voce di Charlie blaterare senza sosta sulla segreteria. Perciò alla fine abbassai la fiamma e andai a rispondere.

– Che cosa dicevi? – gli chiesi. – Mi parevi in vena di compatirti parecchio, ma ero troppo occupato e mi sono perso il motivo.

– Sono arrivato in albergo. È solo un tre stelle. Pensa che faccia tosta! Una ditta di quelle dimensioni. La stanza poi è un buco!

– Ma ti fermi solo un paio di notti…

– Senti, Ray, non sono stato onesto fino in fondo con te, prima. E non è giusto. Dopotutto, mi stai facendo un favore, ti fai in quattro per me per cercare di sanare il sanabile con Emily e io invece non te la conto proprio tutta giusta.

– Se ti riferisci alla ricetta della puzza di cane, ormai è tardi. L’ho già messa sul fuoco. Tutt’al più posso ancora aggiungere un ingrediente, qualcosa…

– Se non sono stato sincero con te, è solo perché non lo sono stato neanche con me stesso. Ma ora che sono venuto via, sono in grado di vedere le cose come stanno. Ray, ti ho detto che non c’era di mezzo nessun altro, ma non è del tutto vero. Una ragazza c’è. È davvero una ragazza: sulla trentina al massimo. Una tutta presa dallo sviluppo dell’alfabetizzazione nel mondo e dalla diffusione di un mercato eticamente sostenibile. Non è stata una storia di sesso; diciamo che il sesso è venuto come effetto collaterale. A conquistarmi è stato il suo idealismo inossidabile. Mi ha ricordato come eravamo tutti noi una volta. Te lo ricordi, Ray?

– Scusami, Charlie, ma non non mi pare che tu sia mai stato particolarmente idealista. Anzi, sei sempre stato un egoista assoluto e un edonista…

– D’accordo, può darsi che al tempo fossimo tutti una banda di schifosi debosciati. Ma dentro di me c’è sempre stata una persona diversa che non vedeva l’ora di potersi manifestare. È stato questo in lei ad attrarmi…

– Quando, Charlie? Quando è successo?

– Quando è successo cosa?

– La relazione, a quando risale?

– Non c’è stata nessuna relazione! Non ho mai fatto sesso con lei, niente! Non abbiamo mai nemmeno pranzato insieme. Mi sono semplicemente… assicurato di continuare a vederla.

– In che senso, continuare a vederla? – A quel punto ero tornato in cucina e osservavo il mio intruglio.

– Beh, nel senso che continuavo a vederla, – fece lui. – Continuavo a fissare altri appuntamenti per vederla.

– Vuoi dire che è una squillo.

– No, no, te l’ho detto, non abbiamo mai fatto sesso. No, fa la dentista. Tornavo da lei, mi inventavo un dolore qui, un fastidio alle gengive là. Sai, la tiravo per le lunghe. E alla fine, ovviamente, Emily se n’è accorta –. Per un attimo, Charlie parve trattenere un singhiozzo. Poi la diga cedette. – Ha scoperto tutto… ha scoperto tutto… perché non ci avevo mai dato tanto dentro con il filo interdentale! – La voce gli era andata in un mezzo falsetto. – Mi ha detto: «Non avevi mai usato così tanto il filo interdentale, mai

– Ma non ha senso. Se ti curi di più i denti, avrai meno occasione di tornare da lei.

– Chi se ne frega se ha senso o no? Io volevo solo farla felice!

– Senti, Charlie, non ci sei uscito, non ci hai fatto sesso, dov’è il punto?

– Il punto è che desideravo immensamente una donna così, una che stanasse l’altro me stesso, quello intrappolato dentro…

– Stammi a sentire, Charlie. Dalla tua ultima telefonata, io mi sono ripreso parecchio. E francamente credo che dovresti farlo anche tu. Possiamo discutere ogni cosa quando torni. In compenso, Emily sarà a casa tra un’ora, più o meno, e io devo avere tutto pronto. Al momento me la sto cavando alla grande qui, Charlie. Immagino si capisca dalla voce.

– Beh, fantastico, cazzo! Tu te la cavi alla grande, eh? Splendido! Bell’amico, cazzo…

– Charlie, forse sei arrabbiato perché non ti piace l’albergo. Ma dovresti darti una regolata. Vedere le cose nella giusta prospettiva. E farti coraggio. Io vado alla grande qui. Ora finisco di preparare ’sta roba del cane, e poi reciterò la mia parte fino in fondo per amor tuo. Emily, le dirò, Emily, guarda come sono patetico. La verità è che siamo patetici quasi tutti. Ma Charlie, no, lui è diverso. Charlie è di tutt’altra categoria.

– Non puoi dire una cosa simile. Sembra studiata dalla a alla z.

– Non le dirò esattamente così, è ovvio, imbecille. Senti, lascia fare a me. Ho davvero tutto sotto controllo. Perciò, calmati. Ora però devo andare.

Misi giù il telefono e osservai il tegame. A quel punto il liquido aveva cominciato a bollire e c’era parecchio vapore nella stanza, ma nessun odore in particolare, per il momento. Regolai la fiamma fino a ottenere un bel bollore vivace. Fu allora che mi prese la smania di una boccata d’aria fresca e, non avendo ancora visto il terrazzo dell’attico, aprii la porta di cucina e uscii.

Per essere una serata di inizio giugno in Inghilterra, il clima era stranamente mite. Giusto la punta aggressiva della brezza mi ricordava che non ero più in Spagna. Il cielo non si era fatto ancora buio, ma già si riempiva di stelle. Oltre il muro che segnava la fine del terrazzo, lo sguardo abbracciava miglia e miglia di finestre e cortili delle proprietà vicine. C’erano parecchie luci accese e quelle in lontananza, se socchiudevo gli occhi, parevano quasi un proseguimento delle stelle. Pur non essendo molto spazioso, l’attico aveva senza dubbio un che di romantico. Ti ci vedevi bene una coppia, due perfetti cittadini che, nelle serate tiepide, se ne venivano qui a passeggiare abbracciati fra i vasi di fiori raccontandosi com’era andata la giornata.

Se avessi ascoltato la mia voglia, sarei rimasto ancora lì un bel po’, ma ebbi paura di perdermi lo slancio. Rientrai in cucina e, passando accanto al tegame che bolliva, mi fermai sulla soglia del soggiorno per controllare lo scenario allestito. Il grosso sbaglio, capii all’improvviso, consisteva nel non essere riuscito affatto a svolgere il compito dal punto di vista di una creatura come Hendrix. La strategia vincente, ora mi accorgevo, era quella di aderire completamente allo spirito e alla visione della realtà di Hendrix.

Una volta imboccata questa via, non solo vidi l’inadeguatezza dei miei sforzi precedenti, ma anche l’assoluta inefficacia dei consigli di Charlie. Per quale ragione un cane iperattivo avrebbe mai dovuto selezionare un bue-soprammobile su un apparecchio stereo e mandarlo in pezzi? E l’idea di squarciare il divano e sparpagliarne l’imbottitura in giro? Che idiozia. Hendrix avrebbe dovuto avere dei rasoi al posto dei denti per riuscire nell’impresa. La zuccheriera rovesciata in cucina non era male, ma il soggiorno doveva essere ripensato dal principio, senza dubbio.

Entrai nella stanza accucciato, in modo da vederla grossomodo dal livello di osservazione di Hendrix. Subito le lucide riviste impilate sul tavolino si presentarono come un bersaglio scontato, perciò le scaraventai giù dal ripiano secondo una traiettoria coerente con l’ipotesi di una violenta musata. Il modo in cui atterrarono mi parve di una plausibilità soddisfacente. Incoraggiato, mi inginocchiai, aprii una rivista e ne strappai una pagina sperando che la modalità del gesto potesse produrre un’eco agli occhi di Emily, quando avesse poi trovato il suo diario. Questa volta però il risultato fu una delusione: troppo palesemente opera della mano di un uomo, piuttosto che di fauci canine. Ero ripiombato nel mio errore di prima: non mi ero identificato a sufficienza in Hendrix.

Mi piazzai perciò a quattro zampe e, abbassando il capo sulla stessa rivista, affondai i denti tra le pagine. Il sapore era aromatico, niente affatto sgradevole. Aprii una seconda rivista più o meno a metà, pronto a ripetere la procedura. La tecnica ideale, cominciavo a capire, non era lontana da quella necessaria per quell’attrazione da luna park nella quale si richiede al concorrente di azzannare una mela a galla nell’acqua, senza fare uso delle mani. La strategia migliore consisteva in morsi multipli e leggeri, accompagnati da un movimento elastico e continuo delle mandibole: in tal modo le pagine si arruffavano e stropicciavano a dovere. Un morso troppo netto, al contrario, non faceva che «graffettare» più pagine insieme senza grandi risultati.

Credo di dover attribuire alla mia assoluta concentrazione in tali dettagli se non mi accorsi del fatto che Emily nel frattempo stava nell’ingresso e mi osservava poco lontano dalla soglia. Non appena mi resi conto della sua presenza, la prima sensazione non fu di panico né di imbarazzo, bensì di sdegno all’idea che si trovasse lì senza avere in nessun modo annunciato il proprio arrivo. Anzi, ricordando di essermi preso la briga di chiamarla in ufficio appena pochi minuti prima, al preciso scopo di scongiurare la situazione che al momento mi travolgeva, mi sentii vittima di un deliberato inganno. Fu forse per questo che la mia prima reazione visibile si ridusse a un sospiro stanco, senza il minimo tentativo di abbandonare la postura a quattro zampe. A quel sospiro, Emily entrò nella stanza e mi appoggiò dolcemente una mano sulla schiena. Non sono sicuro se anche lei si inginocchiò, ma sentii la sua faccia vicina alla mia quando disse:

– Raymond, sono tornata. Adesso vieni a sederti, vuoi?

Mi aiutò a rimettermi in piedi e dovetti resistere alla tentazione di divincolarmi.

– Lo sai, è strano, – dissi. – Non più di pochi minuti fa stavi per entrare in riunione.

– È vero, infatti. Ma dopo la tua telefonata, mi sono resa conto che era più importante che tornassi a casa.

– In che senso, più importante? Emily, per favore, non serve che tu mi sorregga per un braccio in questo modo, non sto per crollare, sai? In che senso, era più importante che tu tornassi a casa?

– La tua chiamata. Ho capito subito cos’era. Un grido di aiuto.

– Ma neanche per sogno. Io volevo solo… – Ammutolii, perché mi accorsi che Emily si guardava intorno con un’espressione stupefatta.

– Oh, Raymond, – mormorò, quasi tra sé e sé.

– Mi sa che sono stato un po’ maldestro oggi. Avrei rimesso tutto a posto, solo che sei tornata prima del previsto.

Allungai un braccio verso la lampada a stelo rovesciata, ma Emily mi trattenne.

– Non fa niente, Ray. Davvero, non ha nessuna importanza. Possiamo occuparcene insieme, più tardi. Adesso però siediti e rilassati.

– Scusa, Emily, so bene che questa è casa tua e tutto. Ma come mai sei entrata zitta zitta?

– Non sono entrata zitta zitta, caro. Ti ho chiamato, entrando, ma sembrava che tu non ci fossi. A quel punto sono andata un momento in bagno e quando sono uscita, eccoti lì, invece. Ma perché tante storie? Non ha importanza. Ora sono qui e possiamo concederci una serata tranquilla insieme. Siediti, ti prego, Raymond. Ti faccio un tè.

E così dicendo, già si dirigeva in cucina. Io intanto armeggiavo con il paralume, perciò mi ci volle un attimo prima di ricordare che cosa avrebbe trovato, ma a quel punto era già troppo tardi. Mi misi in ascolto di eventuali reazioni, ma ci fu solo silenzio. Alla fine deposi il paralume e mi avviai verso la porta di cucina.

Il tegame continuava a sobbollire allegramente, con una fitta nuvola di vapore che si alzava dallo scarpone capovolto. L’odore, che fino a quel momento avevo pressoché ignorato, era decisamente più forte in cucina. Un odore acre, è ovvio, un po’ simile a quello del curry. Ma soprattutto ricordava quello di quando si sfila di colpo il piede sudato da uno scarpone, dopo una lunga marcia.

A pochi passi dal fornello, Emily allungava il collo per riuscire a vedere dentro il tegame meglio che poteva, da una distanza di sicurezza. Sembrava concentrata a guardare, tanto che quando annunciai la mia presenza con una risatina, non soltanto non si voltò, ma non distolse nemmeno lo sguardo.

Stringendomi, le passai accanto e sedetti al tavolo. Finalmente, mi si rivolse con un sorriso affettuoso. – Che pensiero gentile, Raymond, davvero.

E, quasi involontariamente, tornò a fissare il fornello.

Davanti a me avevo la zuccheriera rovesciata – e il diario – e fui sopraffatto da un’immensa stanchezza. All’improvviso tutto mi parve faticosissimo, perciò decisi che l’unico modo per procedere fosse fermare il gioco e uscire allo scoperto. Feci un lungo respiro e dissi:

– Senti, Emily. Qui le cose ti devono sembrare un po’ strane, immagino. Ma è tutta colpa del tuo diario. Questo qui –. Lo aprii alla pagina danneggiata e gliela mostrai. – Non avrei mai dovuto, non sai quanto mi dispiace. Ma l’ho aperto per caso e poi, beh, sì, insomma, ho strappato una pagina. Così… – Ripetei una versione meno cruda del gesto di prima, e la guardai.

Con mio sbigottimento, Emily riservò al diario niente di più che un’occhiata di sfuggita prima di tornare a concentrarsi sul tegame, dicendo: – Oh, quello è solo un taccuino qualunque. Niente di personale. Non ti preoccupare, Ray –. Poi si avvicinò alla pentola per esaminarla meglio.

– In che senso? In che senso, non ti preoccupare? Come puoi dire una cosa simile?

– Che problema c’è, Raymond? È semplicemente un taccuino sul quale annoto cose che potrei dimenticare.

– Ma se Charlie mi ha detto che saresti andata su tutte le furie! – Il mio sdegno a quel punto era accresciuto dalla constatazione che Emily aveva chiaramente scordato la natura delle cose che aveva scritto sul mio conto.

– Sul serio? Charlie ti ha detto che mi sarei arrabbiata?

– Sì! Anzi, secondo lui una volta gli avresti detto che eri pronta a segargli le palle se avesse mai sbirciato dentro quel taccuino!

Non sapevo con certezza se l’aria sconcertata di Emily dipendesse da ciò che le stavo dicendo, o da uno stupore residuo dovuto al contenuto del tegame. Sedette accanto a me a pensare per un momento.

– No, – sentenziò alla fine. – C’era di mezzo ben altro. Ricordo benissimo, adesso. Più o meno un anno fa, esattamente in questo periodo, Charlie era depresso per qualcosa e mi domandò che avrei fatto se si fosse ucciso. Voleva solo mettermi alla prova, è troppo vigliacco per fare un gesto simile. Comunque me lo chiese e allora io gli dissi che se avesse mai fatto una cosa del genere, gli avrei segato le palle. È l’unica volta in cui ho usato quell’espressione. Sì, insomma, non è un mio ritornello.

– Non capisco. Se lui si fosse ucciso, gli avresti fatto quello? Dopo che si era ucciso?

– È un parlare figurato, Raymond. Volevo fargli capire quanto non sopporti il pensiero di lui che si ammazza. Volevo farlo sentire importante.

– Non afferri il punto, però. Se glielo fai dopo, che razza di deterrente è? Ma forse hai ragione tu, sarebbe…

– Raymond, lasciamo stare. Lasciamo perdere tutto. C’è del pasticcio di agnello di ieri, ne è avanzato più di metà. Ieri sera non era malaccio, e oggi deve essere anche meglio. E possiamo stapparci una buona bottiglia di bordeaux. Sei stato un tesoro a mettere su qualcosa per la cena. Ma secondo me, il pasticcio è perfetto per stasera, che dici?

Qualsiasi tentativo di produrre una spiegazione mi pareva ormai impensabile. – D’accordo, ci sto. Vada per il pasticcio di agnello. Favoloso. Sì, sì.

– Allora… questo lo possiamo spegnere per il momento?

– Sì, sì. Fa’ pure. Fallo sparire, per favore.

Mi alzai e raggiunsi il soggiorno, che ovviamente era ancora a soqquadro, ma a me mancava l’energia per mettermi a riordinare. Mi sdraiai invece sul divano a fissare il soffitto. A un certo punto, sentii che Emily era entrata nella stanza, e pensai che fosse solo passata per andare in ingresso, ma poi mi accorsi che, accucciata in un angolo, armeggiava con lo stereo. L’attimo dopo, la stanza si riempì delle note di sontuosi archi e fiati malinconici e Sarah Vaughan prese a cantare Lover Man.

Fui pervaso da un senso di benessere e sollievo. Accennando al ritmo con brevi movimenti del capo, chiusi gli occhi, ricordando come, tanti anni prima, nella sua stanza al college, Emily e io avessimo per più di un’ora cercato di capire se Billie Holiday cantasse da sempre quel brano meglio di Sarah Vaughan.

Emily mi sfiorò su una spalla porgendomi un bicchiere di rosso. Si era messa un vezzoso grembiulino sul tailleur, e reggeva anche lei un bicchiere. Sedette in fondo al divano sorseggiando il vino. Poi abbassò un poco il volume con il telecomando.

– Che giornata tremenda, – disse. – Non intendo solo al lavoro, che peraltro è un disastro. Mi riferisco alla partenza di Charlie, e tutto il resto. Non devi pensare che non ci stia male a vederlo partire così senza che siamo riusciti a fare la pace. E per completare l’opera, ti ci metti pure tu a dare di fuori –. E si concesse un lungo sospiro.

– No, Emily, aspetta, non è poi una tragedia. Per cominciare, Charlie ti adora. E quanto a me, sto bene. Sto bene davvero.

– Balle.

– No, credimi, mi sento bene…

– Mi riferivo a Charlie che mi adora.

– Ah, capisco. Beh, se credi che siano tutte balle, ti sbagli proprio di grosso. Anzi, so per certo che Charlie non ti ha mai amata tanto.

– Ma come fai a saperlo, Raymond?

– Lo so perché… beh, prima di tutto me l’ha più o meno detto, a pranzo. E anche se non è stato del tutto esplicito, l’ho capito. Senti, Emily, lo so che al momento le cose sono un po’ difficili. Ma devi aggrapparti a ciò che conta di più. E cioè che ti ama ancora tanto.

Diede in un altro sospiro. – Sai, erano secoli che non ascoltavo questo disco. Colpa di Charlie. Se metto su questo genere di musica, comincia subito a sbuffare.

Per qualche minuto non parlammo, limitandoci ad ascoltare Sarah Vaughan. Poi, approfittando di un passaggio strumentale, Emily disse: – Immagino, Raymond, che tu preferisca l’altra versione. Quella solo con il piano e la chitarra basso.

Non replicai, assumendo invece una posizione più comoda per bere.

– Scommetto che è così, – disse. – Preferisci l’altra versione. Dico bene, Raymond?

– Beh, – risposi, – non saprei. Francamente, non me la ricordo, l’altra.

Sentii Emily muoversi al fondo del divano. – Vuoi scherzare, Raymond.

– È strano, ma di questi tempi non ascolto molto questa roba. Ho scordato quasi tutto. Non sono neanche sicuro di aver riconosciuto il pezzo, in effetti –. Mi produssi in una risatina, che forse non uscì molto convincente.

– Ma che diavolo vai dicendo? – All’improvviso sembrava contrariata. – È ridicolo. A meno che non ti abbiano lobotomizzato, escludo che tu possa averlo dimenticato.

– Beh, sono passati tanti anni. Le cose cambiano.

– Ma cosa dici? – C’era un’ombra di panico adesso nella sua voce. – Le cose non possono cambiare fino a questo punto.

Non vedevo l’ora di parlare d’altro. Così dissi: – Che peccato che le cose sul lavoro non ti vadano bene.

Emily ignorò del tutto le mie parole. – Ma che vuoi dire? Vuoi dire che non ti piace più questa musica? Vuoi che la spenga, è così?

– No, no, Emily, per carità, è bella. Mi… mi fa ricordare tante cose. Per favore, Emily, rimettiamoci qui tranquilli in silenzio, come un attimo fa.

Sospirò di nuovo, e quando riprese a parlare, la sua voce era tornata affettuosa.

– Scusa, caro. Dimenticavo. Hai giusto bisogno che mi metta a sbraitarti addosso, eh? Scusami tanto.

– No, no, non fa niente –. Mi misi decisamente a sedere. – Sai, Emily, Charlie è un tipo a posto. Un tipo proprio a posto. E ti vuole bene. Non puoi trovare di meglio, credimi.

Emily si strinse nelle spalle e prese un sorso di vino. – Probabilmente hai ragione. Oltretutto non siamo più dei ragazzi, ormai. Si fa quel che si può. Dovremmo ritenerci fortunati. Eppure, non siamo mai contenti, a quanto pare. Chi lo sa, perché. Perché, se ci ragiono su mi rendo conto che non voglio nessun altro, in effetti.

Per un minuto circa, continuò a sorseggiare il suo vino e ad ascoltare la musica. Poi disse: – Hai presente, Raymond, quando sei a una festa dove si balla? E suonano un lento, e sei proprio con la persona con cui ti va di stare, e il resto della gente in teoria dovrebbe sparire? Solo che non succede. Non so perché, ma non succede. Tu lo sai benissimo che in giro non c’è nessuno che vale la metà dell’uomo che stringi fra le braccia. Eppure… ci sono gli altri dappertutto nella sala. Non ti lasciano in pace. Continuano a gridare e a sbracciarsi e a fare stupidaggini solo per attirare l’attenzione. «Ehi! Ma come puoi essere soddisfatta? Puoi avere di meglio! Guarda da questa parte!» È come se ti strillassero cose di questo tipo in continuazione. E non c’è più verso, non puoi più ballare in santa pace con il tuo uomo. Hai presente cosa intendo, Raymond?

Ci pensai su un momento, poi dissi: – Beh, io non sono fortunato come te e Charlie. Non ho accanto una persona speciale come avete voi. Comunque, sì, in un certo senso, capisco che cosa intendi. È difficile sapere quando si è arrivati. Dove fermarsi.

– Esatto, cazzo. Quanto vorrei che la piantassero, tutti quegli intrusi. Che la piantassero e ti lasciassero andare per la tua strada.

– Sai, Emily, non scherzavo affatto poco fa. Charlie ti adora sul serio. È disperato ora che le cose tra voi non vanno tanto bene.

Mi dava quasi le spalle, e non disse nulla per un pezzo. Poi Sarah Vaughan attaccò la sua splendida versione, forse un po’ troppo lenta, di April in Paris, e Emily scattò in piedi, come se Sarah l’avesse chiamata per nome. Si volse verso di me e scosse la testa.

– Non mi capacito, Ray. Non mi capacito che tu possa non ascoltare più questa musica. Ci mettevamo sempre questi brani, ai tempi. Su quel mio giradischi minuscolo che la mamma mi aveva comprato prima dell’università. Come hai fatto a dimenticare?

Mi alzai e mi avvicinai alla portafinestra, col bicchiere del vino ancora in mano. Guardando fuori in terrazzo, mi resi conto che avevo gli occhi pieni di lacrime. Aprii la porta e uscii per asciugarmeli senza farmi notare da Emily, ma lei mi aveva subito seguito, perciò magari se ne accorse, non saprei.

Era una bella serata tiepida, e Sarah Vaughan fluttuò nell’aria del terrazzo con la sua orchestra. Le stelle si erano fatte più luminose di prima, mentre le luci del quartiere scintillavano ancora come un’estensione del cielo notturno.

– Adoro questa canzone, – disse Emily. – Avrai scordato anche questa, immagino. Ma anche se l’hai scordata, puoi ballare lo stesso, no?

– Sì. Penso di sì.

– Potremmo fare come Fred Astaire e Ginger Rogers.

– Come no.

Appoggiammo i bicchieri sul tavolino di pietra e cominciammo a ballare. Non particolarmente bene – ci prendemmo più volte a ginocchiate. Però mi stringevo Emily addosso, e il profumo dei suoi abiti, della pelle, dei suoi capelli mi invase i sensi. Stringendola così, mi capitò di ripensare che aveva messo su parecchi chili.

– Hai ragione, sai, Raymond, – mi sussurrò all’orecchio. – Charlie è un bravo ragazzo. Dovremmo mettere la testa a posto.

– Sì. Proprio così.

– Sei un grande amico, Raymond. Che cosa faremmo senza di te?

– Mi fa piacere, se sono un buon amico. Perché per il resto valgo ben poco. Anzi, sono decisamente inutile, direi.

Sentii uno strattone forte alla spalla.

– Non dire così, – mormorò. – Non devi parlare così –. E, un istante dopo, ripeté: – Sei un grandissimo amico, Raymond.

Era April in Paris nella versione del 1954 di Sarah Vaughan, con Clifford Brown alla tromba. Perciò sapevo che il brano era lungo, otto minuti almeno. Mi faceva piacere che durasse tanto, perché ero sicuro che, a canzone finita, non avremmo più ballato, ma saremmo rientrati a mangiare il pasticcio di agnello. E, chissà, magari Emily sarebbe ritornata anche su quel che avevo combinato al suo taccuino per decidere, questa volta, che non si trattava poi proprio di un’inezia. Come saperlo? Ma ancora per qualche minuto, eravamo al sicuro, e continuammo a ballare sotto le stelle.