lunedì 25 ottobre 2021

22.11.63 Stephen King




22.11.63

Stephen King 

Nota 

22/11/’63 non è un libro politico, non è un libro filosofico, è una Grande Storia che casualmente parla dell’assassinio di Kennedy. Oswald e Kennedy sono solo degli espedienti che servono per raccontare una bellissima storia in grado di inquietare, appassionare, divertire e commuovere.

È un libro che vale la pena di leggere perché è in grado di tenere il lettore incollato alla pagina dall’inizio alla fine delle oltre settecento pagine. Anzi, a un certo punto non vi ritroverete più con di fronte una pagina scritta. Sarete a Derry, a Jodie, a Dallas, a respirare l’aria (maleodorante e fumosa) dei primi anni ’60, a ballare il lindy-hop, a bere una root beer dal sapore intenso. È questa la grande magia racchiusa in 22/11/’63: il libro stesso è un rabbit-hole che conduce nel mondo descritto da King.
C’è gente che lo dice ogni volta che King pubblica un romanzo, perché è una bella frase a effetto. Questa volta mi aggiungo anch’io perché 22/11/’63 merita.


 22.11.63


«È virtualmente inconcepibile, per il nostro raziocinio, che un solitario ometto sia riuscito ad abbattere un gigante attorniato dalle sue limousine, dalle sue legioni, dalla sua folla e dal suo servizio di sicurezza. Se una tale non-entità ha distrutto il leader della più potente nazione della Terra, allora un mondo di sproporzioni ci avviluppa, e viviamo in un universo assurdo.»

NORMAN MAILER

«Se c'è l'amore, le cicatrici da vaiolo sono graziose come fossette.» Proverbio giapponese

La danza e vita.

 Non sono mai stato un uomo facile alle lacrime.

Un giorno, mia moglie mi disse che il mio «gradiente emotivo pari a zero» era il motivo principale per cui mi stava lasciando. Come se il tizio che aveva conosciuto alle riunioni degli Alcolisti Anonimi non c'entrasse per niente. Christy disse che avrebbe forse potuto perdonarmi per non aver pianto al funerale di suo padre: lo conoscevo soltanto da sei anni e non potevo capire che uomo fantastico e generoso fosse stato (quando s'era diplomata le aveva regalato una Mustang decappottabile, tanto per fare un esempio); ma quando non avevo pianto a quelli dei miei genitori (morti a due anni di distanza l'uno dall'altra, papà di cancro allo stomaco e mamma fulminata da un attacco di cuore mentre passeggiava su una spiaggia della Florida), Christy aveva iniziato a capire la faccenda del «gradiente». Nel gergo degli AA, non ero in grado di «Sentire i miei sentimenti».

«Non ti ho mai visto versare una lacrima», affermò col tono piatto di chi sta mettendo la parola fine a una relazione. «Nemmeno quando mi hai detto che, se non mi disintossicavo, tra noi due era finita.»

Sei settimane dopo quella conversazione, Christy fece le valigie, prese la macchina e andò a vivere con Mel Thompson dall'altra parte della citta. «Ragazzo conosce ragazza dagli AA», ecco un'altra battuta che gira in quell'ambiente.

Non piansi quando la vidi partire. Non piansi quando rientrai nella nostra casetta, comprata con un mutuo da svenarsi. La casa che non aveva visto nascere nessun bambino, e che ormai non lo avrebbe visto più. Mi sdraiai sul letto che adesso era tutto mio e mi coprii gli occhi con un braccio, solo col mio dolore.

Senza lacrime.

Eppure, non ho nessun blocco emotivo. Su questo, Christy aveva torto. Un giorno, quando avevo undici anni, mia madre mi attese sull'uscio al ritorno da scuola. Mi disse che il mio collie, Tag, era stato investito e ucciso da un'auto. Chi la guidava non si era nemmeno disturbato a fermarsi. Non piansi quando lo seppellimmo, anche se mio padre mi aveva detto che potevo farlo, non c'era nulla di male, nessuno mi avrebbe considerato una mammoletta; ma piansi quando mi diedero la notizia. In parte perché era la mia prima esperienza con la morte, ma soprattutto perché era compito mio assicurarmi che stesse al sicuro, chiuso nel nostro cortile.

E piansi quando il medico di mamma mi chiamo per spiegarmi cos'era successo quel giorno sulla spiaggia. «Mi dispiace, non c'è stato niente da fare», disse. «A volte capita all'improvviso. Noi dottori tendiamo a vederla come una benedizione.»

Christy non c'era. Quel giorno era dovuta restare a scuola fino a tardi, per parlare con una mamma che aveva da ridire sull'ultima nota presa dal figlio. A ogni modo, io piansi. Entrai nella stanzetta del bucato, presi un lenzuolo dalla cesta e ci piansi dentro. Non durò a lungo, ma le lacrime le versai. Avrei potuto raccontarglielo, ma non ne vedevo l'utilità: da un lato, avrebbe pensato che andavo in cerca di commiserazione (non è un'espressione degli AA, ma forse dovrebbe esserlo); dall'altro, non penso che la capacità di scoppiare in lacrime a comando sia tra i requisiti di un felice matrimonio.

Non ho mai visto piangere nemmeno mio padre, ora che ci penso. Al culmine dell'emozione, poteva forse emettere un sospiro profondo, o grufolare una risatina. Non si batteva il petto ne rideva di cuore, William Epping. Era il tipo forte e taciturno, e per molti versi mia madre era come lui. Può darsi, in effetti, che la mia difficolta a piangere abbia cause genetiche. Ma… bloccato? Incapace di «sentire i sentimenti»? No, mai stato ne l'una ne l'altra cosa.

A parte il giorno che seppi di mamma, nella mia vita adulta ricordo solo un'altra volta in cui mi misi a piangere. Fu quando lessi la storia del padre del bidello. Ero seduto, da solo, nella sala insegnanti della Lisbon High School, e correggevo di buona lena una pila di temi scritti dagli studenti del corso serale. Dal fondo del corridoio giungevano i tonfi del pallone da basket, la sirena del time-out, le grida della folla mentre le bestie sportive si battevano. I levrieri di Lisbon contro le tigri di Jay.

Chi può dire quando una vita si trova in bilico, e perché?

Il tema che avevo assegnato era: «Il giorno che mi ha cambiato la vita». Quasi tutti gli svolgimenti erano sentiti ma terribili. Storie melense: una zia gentile che aveva accolto una teenager incinta, un commilitone che aveva dimostrato cosa sia davvero il coraggio, un incontro casuale con una celebrità (mi sembra fosse Alex Trebek, il presentatore di Jeopardy!, ma forse era Karl Malden). Se tra di voi ci sono insegnanti che si sono guadagnati tremila o quattromila dollari extra insegnando ad adulti che vogliono prendere il diploma parificato, sapranno quanto possa essere scoraggiante leggere quei temi. Non è una questione di voti, o almeno non lo era per me: io davo la sufficienza a tutti, perché non mi e mai capitato uno studente adulto che non si facesse il mazzo. Se consegnavi a Jake Epping (insegnante d'inglese alla Lisbon High School) un foglio con sopra della scrittura, una spintarella da parte sua era garantita, e se la scrittura era addirittura divisa in paragrafi, prendevi come minimo un 7.

A rendere il lavoro difficile era il fatto che la penna rossa avesse sostituito la bocca come prima strumento d'insegnamento, e io praticamente la consumavo. A rendere il lavoro confortante era la consapevolezza che di quelle correzioni in rosso non sarebbe rimasto quasi nulla. Se arrivi all'età di venticinque o trent'anni senza sapere l'ortografia (completamente, non conpletamente) o distinguere le parole (Casa Bianca, non casabianca), e se a quell'età non sai scrivere una frase che contenga al tempo stesso un sostantivo e un verbo, probabilmente non imparerai più. Eppure noi combattiamo, e tracciamo circoletti intorno a frasi come Mio marito mi giudico con precipitazzione, o tiriamo una riga su se potrei nella frase Se potrei andare al mare quando voglio.

Proprio a questo lavoro faticoso e vano mi stavo dedicando quel tardo pomeriggio, mentre a poca distanza da me una partita di basket correva verso il fischio finale, uguale a tante altre nei secoli dei secoli, amen. Non era trascorso molto tempo da quando Christy si era disintossicata, e suppongo che, se avevo un pensiero in testa, era la speranza di trovarla sobria al mio rientro (e così sarebbe andata: era più brava a conservare la sobrietà che a conservarsi il marito). Ricordo che avevo un po' di mal di testa e mi stavo accarezzando le tempie, come chi cerca di impedire che un doloretto diventi un'emicrania coi fiocchi. Ricordo di aver pensato: Ancora tre di questi, soltanto tre, e posso filarmela. Vado a casa, mi preparo una bella tazza di cioccolata e mi immergo nell'ultimo romanzo di John Irving, senza pensare a questa roba sincera ma scritta coi piedi.

Non si udirono violini ne campane d'allarme quando presi dalla pila il tema del bidello e lo posai di fronte a me. Nessun preavviso che non solo la mia piccola vita ma le vite di tutti gli abitanti del mondo stavano per cambiare. Ma non lo sappiamo mai prima, giusto? La vita è un lancio di monetina.

Aveva scritto con una penna a sfera da quattro soldi, lasciando macchie su tutti e cinque i fogli, e probabilmente anche sui polpastrelli. La grafia era intricata, tutta un ghirigoro, ma era leggibile, e doveva aver calcato molto: le parole erano praticamente incise sulle pagine di quaderno. Se avessi chiuso gli occhi e passato le dita sul retro di quei fogli strappati, sarebbe stato come leggere in braille. C'era un segnetto, come uno svolazzo sotto ogni y minuscola. È una cosa che mi e rimasta impressa.

Ricordo anche come iniziava il tema. Ricordo ogni parola. Certo che ricordo. Il giorno che cambiò la vita di Harry Dunning cambiò anche la mia.

Non era un giorno ma una notte. La notte che cambio la mia vita fu la notte che mio padre assasinò mia madre e due dei miei fratelli e mi ferì gravemente. Fece male anche a mia sorella, così male che lei fini in coma. In tre anni morì, senza essersi mai più svegliata. Si chiamava Ellene le volevo tanto bene. Le piaceva coliere i fiori e metterli nei vasi.

A meta della prima pagina, gli occhi iniziarono a bruciarmi e posai sui tavolo la mia fidata penna rossa. Fu quando arrivai al momento in cui lui strisciava sotto il letto col sangue che gli colava negli occhi («mi scese anche in gola e aveva un sapore orribile»), fu a quel punto che mi misi a piangere. Christy sarebbe stata fiera di me. Lessi fino alla fine senza fare una sola correzione, asciugandomi gli occhi perché le lacrime non cadessero su quelle pagine, che certamente gli erano costate un grande sforzo. Fino a quel giorno lo avevo considerato più tardo di comprendonio del resto della classe, giusto? Forse una sola spanna sopra chi e definito «ritardato educabile». Be', perdio, c'era un buon motivo. E anche per la zoppìa. Anzi, era un miracolo che fosse ancora vivo. Era un signore simpatico che sorrideva sempre e non alzava mai la voce coi ragazzi. Un signore simpatico che aveva passato l'inferno e sgobbava – con umiltà e fiducia nel futuro, come quasi tutti gli altri – per ottenere un diploma. Sapendo bene che, comunque andasse, sarebbe rimasto un bidello per il resto della vita, solo un tizio in calzoni verdi o cachi, intento a passare la ramazza o a raschiare via chewing-gum secco dal pavimento, col coltellino che teneva sempre in tasca. Forse un tempo sarebbe potuto diventare altro, ma una notte la monetina era caduta su testa anziché su croce, e ora era solo un tizio in calzoni da lavoro, e i ragazzini lo chiamavano Harry Saltarospo, per via di come camminava.

E così piansi. Non a lungo, ma furono lacrime vere, di quelle che vengono dal profondo. Nella palestra, la banda della Lisbon High School suonò la canzone della vittoria. La squadra di casa aveva vinto, buon per loro. Più tardi, forse, Harry e due suoi colleghi avrebbero spazzato le gradinate e raccolto tutto il ciarpame lasciato per terra. Scrissi un bel 9 rosso sul primo foglio del tema. Lo rimirai per qualche istante, poi lo corressi in un 10, perché era un buon tema, e perché il dolore di Harry mi aveva emozionato, aveva colpito il lettore. E non è questo a rendere uno scritto meritevole del voto più alto? Non è il fatto di provocare una reazione?

Quanto a me, rimpiango che l'ex signora Epping non avesse ragione. Magari avessi avuto un blocco emotivo. Perchè tutto quel che accadde dopo, ogni terribile cosa che accadde dopo, fu conseguenza di quelle lacrime.

PARTE PRIMA

Lo spartiacque

5

1

CAMMINAI lungo la facciata dell'essiccatoio, come la prima volta. Passai sotto la catena con il cartello VIETATO L'ACCESSO, come la prima volta. Girai l'angolo del grande edificio cubico verde, come la prima volta, e poi sbattei contro qualcosa. Non sono molto pesante, considerata la mia altezza, comunque ho un po' di carne intorno alle ossa (Non rischi che il vento ti porti via, soleva dirmi mio padre), eppure l'Uomo con la Tessera Gialla mi fece cadere. Fu come essere aggredito da un soprabito nero pieno di uccelli che battono le ali all'impazzata. Stava urlando qualcosa, ma ero troppo stupito (non esattamente spaventato, era successo troppo in fretta) per capire una singola parola.

Lo spinsi via e indietreggiò barcollando. Sbatté contro il muro dell'essiccatoio, il soprabito vorticante intorno alle sue gambe. Si sentì un tonfo quando la testa colpì la parete, e il sudicio cappello di feltro cadde a terra. Lui lo seguì, non proprio cadendo, ma afflosciandosi come una fisarmonica. Fui subito dispiaciuto di quel che avevo fatto, prima ancora che il cuore tornasse al suo battito normale, e fui ancora più dispiaciuto quando l'uomo raccolse il cappello e spazzò via la polvere con una mano lurida. Quel cappello non sarebbe mai tornato pulito, e, con ogni probabilità, nemmeno il suo proprietario.

«Tutto a posto?» gli domandai, ma quando mi chinai per toccargli una spalla, si allontanò in fretta, lungo il muro dell'edificio, spingendosi con le mani e strisciando sulle chiappe. Potrei dire che sembrava un ragno azzoppato, ma non è vero: sembrava quel che era, un barbone col cervello affogato nel vino. Un uomo che forse era vicino alla morte tanto quanto Al Templeton, perché nell'America degli anni Cinquanta, probabilmente non c'erano rifugi gestiti da associazioni di volontariato, né programmi di disintossicazione per quelli come lui. Il dipartimento Reduci lo avrebbe anche accolto, se per caso aveva indossato un'uniforme, ma chi mai ce l'avrebbe portato? Nessuno, quasi sicuramente, anche se qualcuno (presumibilmente un capetto della fabbrica), poteva chiamare gli sbirri per farlo arrestare. Lo avrebbero messo nella cella degli ubriachi per ventiquattro o quarantotto ore, e se mentre era dentro non moriva tra le convulsioni del delirium tremens, lo avrebbero rilasciato, e il ciclo sarebbe ripartito. Mi ritrovai a rimpiangere che la mia ex moglie non fosse lì: avrebbe potuto trovargli un gruppo di Alcolisti Anonimi. Solo che Christy non era ancora nata, mancavano ancora ventun anni.

Mi misi la valigetta tra le gambe e gli mostrai le mani, per dimostrare che erano vuote, ma lui si fece ancora più piccolo contro l'edificio. Gocce di saliva brillavano sul suo mento stopposo. Mi guardai intorno, per essere sicuro che non stessimo attirando l'attenzione, vidi che quella parte del cortile era tutta per noi, e ritentai. «Ti ho spinto solo perché mi hai preso alla sprovvista.»

«Tu chi cazzo sei?» mi chiese, con la voce che crepitava attraverso cinque diverse tonalità. Per fortuna avevo già sentito la domanda nel mio viaggio precedente, altrimenti non avrei mai capito cosa mi stava chiedendo, ma… Anche se lo strascicamento era lo stesso, stavolta la cadenza non era un po' diversa? Non ne ero sicuro, ma mi pareva di sì. È innocuo, ma non è come tutti gli altri, aveva detto Al. È come se sapesse qualcosa. Secondo Al, era perché gli era capitato di trovarsi vicino alla buca del coniglio alle 11:58 antimeridiane del 9 settembre 1958, e ne sentiva l'influenza, allo stesso modo in cui produci elettricità statica su uno schermo TV se ci azioni accanto un frullatore. Forse era per quello. O forse, maledizione, forse era solo un avvinazzato.

«Nessuno di importante», dissi nel mio tono più rassicurante. «Nessuno di cui ti debba fregare qualcosa. Mi chiamo George, e tu?»

«Figlio di troia!» ringhiò, e si allontanò ancora di più. «Tu non dovresti essere qui!»

«Non preoccuparti, vado via subito», dissi. Raccolsi la valigetta per dimostrare che dicevo sul serio, e lui si strinse nelle spalle (finché queste ultime non gli toccarono le orecchie) come se temesse che volessi lanciargliela contro. Era come un cane che è stato picchiato tante volte da non aspettarsi nessun altro trattamento. «Da me non hai niente da temere, capito?»

«Vattene, bastardo! Torna a casa tua e lasciami in pace!»

«Affare fatto.» Mi stavo ancora riprendendo dalla sorpresa, e l'adrenalina che avevo in circolo reagiva male con la compassione che provavo, per non dire dell'esasperazione. La stessa esasperazione di quando tornavo a casa e trovavo Christy di nuovo sbronza, sbronza marcia nonostante tutte le promesse di riprendersi e rigare diritta, e mollare la bottiglia una volta per tutte. La miscela di emozioni reagiva con il caldo di quella giornata estiva, e provavo una leggera nausea. Probabilmente non era lo stato migliore in cui cominciare una missione di soccorso.

Pensai alla Kennebec Fruit Company e a quant'era buona quella root beer.

Rividi lo sbuffo di condensa uscire dal freezer mentre Frank Anicetti senior tirava fuori la tazza grande. E poi, là dentro c'era un provvidenziale fresco. Senza perdere altro tempo, mi incamminai in quella direzione, con la mia nuova (ma attentamente invecchiata agli angoli) valigetta che mi picchiava contro la coscia.

«Ehi, tipo! Oh, Cometichiami!»

Mi girai. L'avvinazzato si stava rialzando, appoggiandosi al muro dell'essiccatoio. Aveva ripreso il cappello e se lo teneva contro l'inguine, tutto schiacciato. Mentre lo risistemava, mi disse: «Ho una tessera gialla del posto verde, dammi un dollaro, figlio di troia, perché oggi è il giorno del vale-doppio».

Di nuovo il normale corso delle cose. Era confortante. A ogni modo, feci attenzione a non andargli troppo vicino. Non volevo spaventarlo ancora o provocare un altro attacco. Mi fermai a due metri da lui e allungai la mano. La moneta che mi aveva dato Al brillava sul palmo. «Non posso darti un dollaro, ma eccoti mezzo pezzo.»

Esitò. Ora teneva il cappello nella mano sinistra. «Meglio per te se non vuoi un pompino.»

«Sarei tentato, ma penso di poter resistere.»

«Eh?» Alzò lo sguardo dalla moneta per lanciarmi un'occhiata, poi tornò a guardare il mezzo pezzo. Con la mano destra si asciugò la bavetta dal mento, e io notai un'altra differenza rispetto al primo incontro. Nulla di eclatante, ma sufficiente a farmi dubitare, contro la sicurezza mostrata da Al, che ogni volta fosse la prima volta, il resettaggio completo.

«Non m'importa se la prendi o no, ma deciditi», dissi. «Ho da fare.»

Afferrò la moneta, poi tornò ad appoggiarsi al muro. Aveva occhi grandi e umidi. Sul mento era riapparsa la bava. Al mondo non c'è nulla di comparabile al fascino di un etilista all'ultimo stadio. Non capisco come mai le ditte produttrici di liquori non li usino nelle loro pubblicità: «Bevi bourbon Jim Beam e vedrai scarafaggi più belli».

«Chi sei? Cosa ci fai qui?»

«Sono venuto per un lavoro. Senti, ti sei rivolto agli AA per quel problemino che hai con la bott…»

«Vaffanculo, Jimla

Non avevo idea di cosa fosse un «jimla», ma il «vaffanculo» arrivò forte e chiaro. Mi incamminai di nuovo verso il cancello, aspettandomi che mi gridasse altre domande. Non lo aveva fatto la prima volta, ma quest'incontro era stato molto diverso.

Perché non era l'Uomo con la Tessera Gialla, non stavolta. Quando si era asciugato il mento, avevo visto la tessera che stringeva nella mano. Non era più gialla.

Era sempre sporca, ma stavolta era arancione.

2

Attraversai senza indugi il parcheggio della fabbrica, ancora una volta picchiettando sul cofano della Plymouth Fury bianca e rossa, come gesto portafortuna. Di sicuro avrei avuto bisogno di tutta la fortuna disponibile. Passai oltre i binari del treno, e di nuovo sentii il ciuf-ciuf, ma stavolta sembrava più lontano, perché il nuovo incontro con l'Uomo con la Tessera Gialla (ormai l'Uomo con la Tessera Arancione) era durato un po' di più. L'aria puzzava di gas di scarico, come la volta precedente, e passò la stessa corriera. Poiché ero in leggero ritardo, non feci in tempo a leggere la scritta, ma la ricordavo: LEWISTON EXPRESS. Mi chiesi, oziosamente, quante volte Al avesse visto quella stessa corriera, con gli stessi passeggeri che guardavano fuori dai finestrini.

Mi affrettai ad attraversare la strada, cercando di allontanare da me il fumo azzurro di scappamento. Il ribelle rockabilly era nella sua postazione all'ingresso del negozio, e per un istante mi chiesi cosa avrebbe detto se gli avessi rubato la battuta. Ma se, con la stessa meschinità con cui spaventeremmo di proposito un barbone, rubassimo a un ragazzino la sua lingua segreta, non gli rimarrebbe nulla da dire. Quello lì non poteva nemmeno tornarsene a giocare con la Playstation. Così mi limitai a un cenno col mento.

Me lo restituì e disse: «Ciao ciao, paparino».

Entrai. La campanella suonò. Superai gli albi a fumetti e andai dritto al bancone, da Frank Anicetti senior. «In cosa posso esserle utile oggi, amico mio?» Per un momento rimasi attonito, perché non era la frase che aveva detto la volta precedente. Poi capii il perché: la volta precedente avevo preso il giornale dalla rastrelliera. Ora invece no. Forse ogni nuovo viaggio nel 1958 riazzerava il contachilometri (fatta eccezione per l'Uomo con la Tessera Gialla), ma appena cambiavi qualcosa, tutto tornava imprevedibile. L'idea era al contempo spaventosa e liberatoria.

«Mi farebbe piacere una root beer», dissi.

«E a me fa piacere servirla, ecco un bell'incontro di anime. Da cinque o da dieci cent?»

«Direi da dieci.»

«E io direi che dice bene.»

La tazza ghiacciata uscì dal congelatore. Col manico di un cucchiaio di legno tolse la schiuma in eccesso. Riempì la tazza fino all'orlo e la posò di fronte a me. Come la prima volta.

«Fanno dieci cent, più un penny per il governatore.»

Gli diedi uno dei dollari vintage di Al, e mentre Frank 1.0 prendeva il resto, mi lanciai un'occhiata alle spalle e vidi l'ex Uomo con la Tessera Gialla in piedi di fronte al negozio di liquori (il «posto verde»), ciondolante di qua e di là. Mi ricordò un fachiro indù che avevo visto in qualche vecchio film, intento a soffiare in un piffero per attirare un cobra fuori da un cesto di vimini. E sul marciapiede, puntualissimo, ecco Frank Anicetti il Giovane.

Mi girai, bevvi un sorso di root beer e sospirai: «Proprio quel che ci voleva».

«Già, niente di meglio di una bibita fredda in una giornata afosa. Non è di queste parti, vero?»

«No, vengo dal Wisconsin.» Gli porsi la mano. «George Amberson.»

La strinse, mentre la campanella sopra la porta tornava a suonare. «Frank Anicetti. E questo è mio figlio, Frank junior. Saluta il signor Amberson dal Wisconsin, Frankie.»

«Buongiorno, signore.» Mi sorrise e mi fece un cenno del mento, poi si rivolse a suo padre. «Titus ha cominciato a lavorare al furgone. Dice che sarà pronto prima delle cinque.»

«Bene.» Mi aspettavo che Anicetti 1.0 si accendesse una sigaretta, e non restai deluso. Inalò, poi mi guardò e mi chiese: «Viaggio d'affari o di piacere?»

Non potei rispondere subito, ma non perché non sapessi che dire. A sorprendermi era il modo in cui quella scena continuava ad allontanarsi dal copione, per poi tornarci. In ogni caso, Anicetti non sembrò accorgersi di niente.

«Be', ha comunque scelto il momento giusto per venire qui. Quasi tutti i vacanzieri se ne sono già andati, e appena succede, noi ci rilassiamo. Ci vuole una cucchiaiata di vaniglia, nella root beer? Di solito sono cinque centesimi extra, ma il martedì costa solo mezzo decino.»

«Quella battuta era già vecchia dieci anni fa, papà», disse Frank junior, divertito.

«Grazie, mi piace così, risposi. «Viaggio d'affari. Devo chiudere l'acquisto di un immobile a… Sabattus? Mi sembra si chiami così. Conosce quella città?»

«Oh, solo da quando sono nato», rispose Frank. Buttò fuori fumo dalle narici, poi mi diede un'occhiata sagace. «Bel viaggetto, solo per comprare un immobile.»

Io gli rivolsi un sorriso del tipo Se sapesse quel che so io… Dovevo essere riuscito nell'intento, perché Anicetti mi strizzò l'occhio. La campanella all'ingresso suonò di nuovo, ed entrarono le signore della frutta. L'orologio del caffè Cheer-Up segnava le 12:28. A quanto pareva, la parte di copione in cui io e Frank junior parlavamo di Shirley Jackson era stata tagliata dalla nuova stesura. Finii la bibita in tre lunghe sorsate, e mentre lo facevo, un crampo mi strinse le viscere. Nei romanzi è raro che uno debba andare di corpo, ma nella vita reale, spesso lo stress psicologico provoca una reazione fisica.

«Senta, per caso c'è un bagno qui?»

«No, mi dispiace», rispose Frank senior. «Continuo a dirmi che devo farne costruire uno, ma d'estate siamo troppo occupati e d'inverno non sembrano mai esserci abbastanza soldi per una ristrutturazione.»

«Può girare l'angolo e andare da Titus», disse Frank junior! Stava mettendo del gelato in un cilindro di metallo, pronto a prepararsi un frappè. La volta precedente non lo aveva fatto, e con un certo disagio pensai al cosiddetto effetto farfalla. Pensai che la farfalla stava spiegando le ali proprio sotto i miei occhi. Stavamo cambiando il mondo. Solo in piccoli, infinitesimali modi, ma sì, lo stavamo cambiando.

«Signore?»

«Chiedo scusa, ho avuto un episodio senile.»

Parve perplesso, poi si mise a ridere. «Questa non l'avevo mai sentita, ma non è male.» E siccome non era male, forse l'avrebbe usata anche lui, la prossima volta che si fosse perso nei suoi pensieri, e una frase che non si era immessa nel brillante flusso dello slang comune americano prima degli anni Settanta o addirittura Ottanta, avrebbe fatto il suo debutto prima del previsto. Anzi, non si poteva nemmeno dire così, perché in quel flusso temporale, sarebbe arrivata al momento giusto.

«L'officina di Titus è dietro l'angolo, sulla destra», disse il padre. «Se è, ehm, urgente, può anche usare il nostro bagno privato, al piano di sopra.»

«No, non si preoccupi», risposi, e anche se avevo già guardato l'orologio alla parete, ostentatamente controllai il mio Bulova con il bel cinturino Speidel. Per fortuna non potevano vedere il quadrante, perché mi ero scordato di regolarlo e faceva ancora l'ora del 2011. «Devo proprio andare. I miei impegni mi attendono. A meno che non sia molto fortunato, mi terranno bloccato per più di un giorno. Può consigliarmi un buon motel nei dintorni?»

«Intende dire una locanda per automobilisti?» chiese Frank Anicetti. Spense il mozzicone in uno dei posacenere Winston allineati sul bancone.

«Esatto.» Stavolta il mio sorriso era più da stupido che da furbo… e le mie viscere tornarono a farsi sentire. Se non mi occupavo subito di quel problema, di lì a poco sarebbe diventato un'emergenza. In Wisconsin li chiamiamo motel.»

«Be', direi il Tamarack, circa sette chilometri più su lungo la 196, direzione Lewiston. Vicino al drive-in.»

«Grazie del consiglio.» Mi alzai dallo sgabello.

«Non c'è di che. E se vuole tagliarsi i capelli prima dei suoi incontri di lavoro, può andare al negozio di Baumer. È molto bravo.»

«Grazie, un altro buon consiglio.»

«I consigli sono gratuiti, la root beer costa valuta americana. Si goda la permanenza in Maine, signor Amberson. E, Frankie? Quando hai finito quel frappè, torni a scuola.»

«Certo, papà.» Stavolta fu il figlio a farmi l'occhiolino.

«Frank?» chiamò una delle signore con una vocina yu-huuu. «Queste arance sono fresche?»

«Fresche come il tuo sorriso, Leola», replicò lui, e le signore risposero cinguettando. Non è prosa di quart'ordine: vi assicuro che cinguettarono.

Passai loro accanto, le salutai («Signore…»), la campanella suonò e io tornai fuori, nel mondo che era esistito prima della mia nascita. Stavolta, anziché attraversare subito la strada diretto alla buca del coniglio, in quel mondo mi ci addentrai. Dall'altra parte della via, il barbone dal lungo soprabito nero gesticolava al commesso col camice. La tessera che sventolava era arancione anziché gialla, ma il resto era fedele al copione.

Lo accolsi come un buon segno.

3

L'officina e stazione di servizio Titus Chevron era oltre il supermercato Red & White, dove Al aveva comprato le stesse scorte di carne per il suo ristorante, una volta dopo l'altra, all'infinito. Il cartello in vetrina diceva che l'aragosta costava quarantatré cent al chilo. Di fronte al supermercato, in uno spiazzo di terreno che nel 2011 sarebbe stato vuoto, c'era un vecchio fienile marrone col portone spalancato, e dentro ogni sorta di mobili usati: in particolare, sembrava esserci grande disponibilità di culle, sedie a dondolo e poltrone superimbottite del genere «Papà-si-sta-rilassando». L'insegna sopra la porta diceva: THE JOLLY WHITE ELEPHANT, L'allegro elefante bianco. Sul marciapiede, piazzato in modo da attirare gli sguardi dei passanti in Lewiston Road, un cartello verticale dichiarava arditamente: SE NON L'ABBIAMO, VUOL DIRE CHE NON TI SERVE. Un tizio che immaginai fosse il proprietario sedeva su una delle sedie a dondolo, fumando una pipa. Mi stava guardando. Indossava una canottiera e larghi calzoni marrone. Portava un pizzetto, cosa che mi parve audace su quel particolare isolotto nel fiume del tempo. I suoi capelli, anche se pettinati all'indietro e tenuti al loro posto con una sorta di brillantina, cadevano a riccioli sul collo e mi fecero pensare a uno di quei vecchi filmati di rock'n'roll: Jerry Lee Lewis che salta sul pianoforte mentre canta Great Balls of Fire. Probabilmente il proprietario del Jolly White Elephant era considerato il beatnik locale.

Lo salutai col pollice alzato. Col mento mi rivolse il più lieve dei cenni di saluto, e continuò a fumare la sua pipa.

Alla stazione di servizio (dove la normale costava 19,9 cent e la «Super» un penny di più), un uomo in tuta blu e con un duro taglio di capelli da marine stava lavorando su un furgone (quello degli Anicetti, supponevo) alzato sul ponte.

«Signor Titus?»

Mi diede un'occhiata da sopra la spalla: «Sì?»

«Il signor Anicetti mi ha detto che potrei usare il suo bagno.»

«La chiave è appesa all'ingresso dell'officina», mi rispose con un fortissimo accento del Maine.

«Grazie.»

La chiave era appesa a una pala di legno con scritto: UOMINI. Sull'altra pala c'era scritto RAGAZZE. La mia ex moglie ci sarebbe rimasta di merda, pensai, non senza compiacimento.

Il bagno era pulito ma puzzava di fumo. Di fianco al water c'era un posacenere a forma di urna. A giudicare dalla quantità di mozziconi che lo costellavano, conclusi che a un bel po' di visitatori di quella stanzetta piaceva fumare mentre cagavano.

Quando uscii, notai una ventina o poco più di auto usate in un parcheggio vicino all'officina. Sopra di esse dondolava una fila di bandierine colorate agitate dalla brezza leggera. Macchine che nel 2011 sarebbero state d'epoca e vendute a migliaia e migliaia di dollari, lì avevano prezzi tipo settecentocinquanta. Una Cadillac che sembrava quasi nuova te la portavi via con ottocento. L'insegna sopra l'ufficetto delle vendite (dentro c'era una ragazza carina con la coda di cavallo e un chewing-gum tra i denti, assorta nella lettura di Photoplay) diceva: TUTTE QUESTE AUTO FUNZIONANO BENE E LE ACQUISTATE CON IL BUONO GARANZIA DI TITUS: CI PRENDIAMO CURA DI QUELLO CHE VENDIAMO! Riappesi la chiave, ringraziai Titus (che bofonchiò qualcosa senza distogliere lo sguardo dal furgone), e tornai verso Main Street, pensando che sarebbe stata una buona idea tagliarmi i capelli prima di visitare la banca. Mi ricordai del beatnik col pizzetto, e d'istinto attraversai la strada, diretto alla rivendita di mobili usati.

«Buongiorno», dissi.

«Be', è quasi ora di dire 'buonasera', ma come preferisce lei.»

Tirò una boccata dalla pipa, e quel venticello di tarda estate mi portò alle narici l'aroma di Cherry Blend, insieme con un ricordo di mio nonno, che lo fumava quand'ero bambino. A volte me lo soffiava nell'orecchio per calmare il dolore da otite, terapia che probabilmente non aveva il placet dell'ordine dei medici.

«Lei vende valigie?»

«Sì, ne ho qualcuna. Non più di duecento, direi. Vada fino in fondo al magazzino e guardi sulla destra.»

«Se ne compro una, posso lasciarla qui per un paio d'ore, mentre faccio un po' di spese?»

«Resto aperto fino alle cinque», disse, e alzò lo sguardo verso il sole. «Dopo quell'ora, dovrà arrangiarsi.»

4

Per due dollari vintage di Al comprai una valigia di pelle, la lasciai dietro il bancone del beatnik, poi mi recai in Main Street con la ventiquattrore che sbatteva contro la gamba, gettai un'occhiata al «posto verde» e vidi il commesso seduto accanto al registratore di cassa, intento a leggere un giornale. Nessuna traccia del mio amico col soprabito nero.

Sarebbe stato difficile perdersi nella zona commerciale: consisteva in un solo isolato. Tre o quattro negozi oltre la Kennebec Fruit Company, trovai la bottega di Baumer, il barbiere. Nella vetrina spiraleggiava la tipica colonna bianca e rossa. Accanto a questa, un manifesto elettorale di Edmund Muskie. Me lo ricordavo come un uomo vecchio, provato e con le spalle curve, ma quella versione sembrava quasi troppo giovane per potersi candidare, figurarsi per ricoprire una carica. Sul manifesto era scritto: MANDA ED MUSKIE AL SENATO DEGLI STATI UNITI, VOTA DEMOCRATICO! Qualcuno aveva aggiunto una striscia di carta bianca sul fondo. C'era scritto in stampatello: DICEVANO CHE IN MAINE NON ERA POSSIBILE, E INVECE CI SIAMO RIUSCITI! PROSSIMA TAPPA: HUMPHREY NEL 1960!

Dentro, due signori attempati sedevano contro la parete, mentre un signore altrettanto anziano si faceva tagliare i capelli. Entrambi gli uomini in attesa fumavano come locomotive, e fumava anche il barbiere (immaginai fosse Baumer), che tagliava capelli tenendo un occhio strizzato per proteggerlo dal fumo. Tutti e quattro mi squadrarono in un modo che mi era familiare: il non-del-tutto- diffidente sguardo di valutazione che Christy una volta aveva chiamato «l'occhiata yankee». Era bello constatare che certe cose non erano cambiate.

«Non sono di queste parti, ma sono amico», esordii. «Ho sempre votato democratico.» Alzai la mano in un gesto Dio-mi-è-testimone.

Baumer borbottò qualcosa, divertito. Cenere cadde dalla sua sigaretta.

Svagatamente, se la spazzò via dal camiciotto. Per terra, tra i capelli tagliati, c'erano svariati mozziconi. «Quel signore lì si chiama Harold, ed è un repubblicano. Stia attento che non la morda.»

«Non c'ha più le zanne per mordere nessuno», commentò uno degli altri, e tutti si misero a ridere.

«Da dove viene, signore?» chiese Harold il Repubblicano.

«Dal Wisconsin.» Presi una copia di Men's Adventure per bloccare sul nascere la conversazione. In copertina, un tizio asiatico dall'aspetto subumano teneva una frusta nella mano guantata, rivolto verso una bionda legata a un palo. L'articolo che l'immagine illustrava si intitolava: «Nel Pacifico, schiave sessuali dei giapponesi». Lodare della bottega era una dolce, portentosa miscela di talco, brillantina e fumo di sigarette. Quando Baumer mi fece cenno di sedermi sulla poltrona, ero immerso nell'articolo sulle schiave sessuali. Non era eccitante come l'immagine in copertina.

«È in viaggio, signor Wisconsin?» mi chiese mentre mi copriva con un telo bianco di rayon e mi cingeva il collo con un collarino di carta.

«Sì, un viaggio bello lungo», dissi, ed era la verità.

«Be', adesso è nel Paese di Dio. Quanto corti li vuole?»

«Mmh, abbastanza corti da non farmi sembrare…» stavo per usare la parola «hippie», ma Baumer non avrebbe capito. «…un beatnik», conclusi.

«Eh, lo vedo che le sono un po' sfuggiti di mano.» E intanto iniziò a tagliare.

«Un po' più lunghi di così, e finiva per sembrare quel finocchio del Jolly White

Elephant.»

«Non sia mai.»

«Infatti, non è un bello spettacolo, quello là.»

Quando ebbe finito di tagliare, Baumer mi mise il talco sulla nuca rasata, mi chiese se volevo Vitalis, Brylcreem o Wildroot, e mi fece pagare quaranta cent.

Un vero affare.

5

Il mio versamento di mille dollari alla Hometown Trust non fece alzare sopracciglia. Probabilmente la tosatura di fresco fu d'aiuto, ma soprattutto, quella era una società basata sui contanti, in cui le carte di credito erano ancora una novità… e forse guardata con sospetto dai parsimoniosi yankee. Un'impiegata austera e di bell'aspetto, capelli raccolti in stretti boccoli e un cammeo al collo, contò i miei soldi, annotò la cifra in un libro mastro, poi chiamò il vicedirettore, che ricontò la valuta, controllò il libro mastro, poi compilò una ricevuta dov'era segnato sia il mio versamento sia il totale nel mio nuovo conto corrente.

«Se posso permettermi, signor Amberson, quella è una cifra molto alta da tenere su un conto corrente. Non vuole aprire un deposito a risparmio? Al momento offriamo un interesse del 3%, capitalizzato ogni trimestre.» Spalancò gli occhi per farmi capire che era un affare fantastico. Sembrava quel direttore d'orchestra cubano, Xavier Cugat.

«Grazie, ma devo fare molte transazioni.» Abbassai la voce. «Devo chiudere un affare immobiliare, o almeno spero.»

«Buona fortuna», disse, adottando lo stesso tono confidenziale. «Lorraine le fornirà un po' di assegni. Cinquanta bastano, per cominciare?»

«Cinquanta vanno benissimo.»

«Più avanti, possiamo dargliene con stampato il suo nome e indirizzo.» Alzò le sopracciglia, trasformando la frase in una domanda.

«Probabilmente sarò a Derry. Mi metterò in contatto io.»

«Bene. Io rispondo al Drexel otto quattro-sette-sette-sette.»

Non avevo idea di cosa stesse dicendo, finché non mi diede un biglietto da visita. Sopra c'era scritto: JEFFREY DUSEN, VICEDIRETTORE, e poi: DREXEL 8- 4777. Già, nel '58 c'erano ancora i numeri di telefono con le lettere iniziali.

Lorraine mi consegnò gli assegni e un libretto in finta pelle d'alligatore. La ringraziai e misi tutto nella mia valigetta. Sull'uscio, mi girai e diedi un'ultima occhiata. Due impiegati stavano usando calcolatrici meccaniche, ma per il resto tutte le transazioni erano del genere penna & olio di gomito. Pensai che in quell'ambiente, fatta eccezione per pochi dettagli, Charles Dickens si sarebbe sentito a casa. Pensai anche che vivere nel passato era un po' come stare sott'acqua respirando da un tubo.

6

Al Mason's Menswear comprai gli indumenti che Al mi aveva consigliato, e il commesso mi disse che sì, sarebbe stato lieto di accettare un assegno, purché fosse emesso da una banca del posto. Grazie a Lorraine, fui in grado di accontentarlo.

Tornai al Jolly White Elephant, dove il beatnik rimase a guardarmi mentre trasferivo il contenuto di tre sporte da shopping dentro la mia nuova valigia.

Quando la chiusi, finalmente espresse il suo parere: «Strano modo di fare shopping, amico».

«Mi sa di sì», risposi. «Ma è uno strano mondo, no?»

Sorrise. «È una bella scommessa. Pelle, Jackson!» E mi mostrò la mano tesa, a palmo in su.

Per un istante fu come cercare di capire il significato della parola Drexel seguita da alcuni numeri. Poi mi ricordai del film Dragstrip Girl, e capii che il beatnik mi stava offrendo la versione anni Cinquanta di un saluto nocche-a- nocche. Feci passare il mio palmo sul suo, sentendo il calore e il sudore, pensando ancora una volta: Questo è reale. Sta succedendo.

«Pelle, amico», dissi.

7

Riattraversai la strada e tornai alla Titus Chevron, con la mia nuova valigia in una mano e la ventiquattrore nell'altra. Nel mondo del 2011 da cui provenivo, era solo metà mattinata, eppure mi sentivo stanchissimo. Probabilmente stavo soffrendo una specie di jet-lag da Ai confìni della realtà. Tra la stazione di servizio e l'adiacente parcheggio c'era una cabina del telefono. Ci entrai e lessi la scritta a mano, in stampatello, sopra l'antiquato apparecchio: RICORDA CHE ORA LE TELEFONATE COSTANO UN DECINO, GRAZIE A «MAMMA» BELL.

Sfogliai le Pagine Gialle e trovai la ditta Lisbon Taxi. Nella sua pubblicità c'era il disegno di un taxi con occhi al posto dei fari e un sorriso a tutti denti sulla griglia del radiatore. L'annuncio prometteva «Servizio solerte e cortese». Suonava bene. Misi la mano in tasca per prendere una monetina, e invece trovai una cosa che avrei dovuto lasciare nel 2011: il mio telefonino Nokia. Era un vecchio modello nel mondo da cui venivo (da un po' di tempo pensavo di cambiarlo con un iPhone), ma qui non aveva alcun senso. Se qualcuno lo avesse visto, mi avrebbe fatto cento domande a cui non potevo rispondere. Lo misi nella valigetta. Per il momento, lì non mi avrebbe dato problemi, almeno credevo, ma prima o poi avrei dovuto liberarmene. Tenerlo equivaleva ad andare in giro con una bomba inesplosa.

Trovai un decino, lo infilai nella fessura, e subito rispuntò nello scivolo del resto. Lo ripescai, e un'occhiata fu sufficiente per capire il problema: come il Nokia, quel decino veniva dal futuro, una moneta in lega di rame e nichel, niente più che un penny con qualche pretesa. Tirai fuori tutte le mie monete, le esaminai a una a una, e pescai un decino del '53 che probabilmente mi avevano dato come resto alla Kennebec Fruit Company, quando avevo preso la root beer. Stavo per inserirlo, quando un pensiero mi raggelò: e se anziché scendere nello scivolo, il mio decino del 2002 fosse rimasto incastrato nel telefono? Cosa sarebbe successo quando il tecnico AT &T addetto ai telefoni pubblici di Lisbon Falls l'avesse trovato?

Avrebbe pensato che era uno scherzo, ecco tutto. Solo una beffa un po' elaborata.

In realtà ne dubitavo: la monetina era troppo perfetta. Il tizio l'avrebbe mostrata in giro, magari sarebbe uscito un articolo sul giornale. Per il momento avevo avuto fortuna, ma la prossima volta sarebbe potuta andare peggio. Dovevo stare più attento. Pensai di nuovo al mio cellulare, con crescente disagio. Poi infilai nella fessura il decino del '53 e fui ricompensato dal segnale. Composi il numero lentamente e con attenzione, cercando di ricordare se avessi mai usato un telefono col disco numerico. Mi sembrava di no. Ogni volta che lo lasciavo andare, il disco tornava indietro con uno strano rumore meccanico.

«Lisbon Taxi», disse una voce femminile. «Dove i chilometri sono sorrisi. Come possiamo aiutarla?»

8

Mentre aspettavo la vettura, passai in rassegna le auto in vendita nel parcheggio di Titus. In particolare, mi colpì una Ford decappottabile rossa del '54. Era una Sunliner, diceva la scritta sotto il faro cromato sul lato del passeggero. Aveva pneumatici bianchi e neri e un tettuccio di vera tela. I tipi cool di Dragstrip Girll'avrebbero definita «una convertibile».

«Quella non è per niente male, signore», disse Bill Titus alle mie spalle. «Va come una casa in fiamme, posso testimoniarglielo personalmente.»

Mi girai. Si stava pulendo le mani con uno straccio rosso che sembrava ancora più sporco.

«C'è un po' di ruggine lungo i pannelli», dissi.

«Già, sa, è il clima.» Fece spallucce. «Ma il motore è in ottimo stato, quella è la cosa importante. E gli pneumatici sono quasi nuovi.»

«Motore V8?»

«Y-block», disse, e io annuii come se avessi inteso alla perfezione. «L'ho comprata da Arlene Hadley, a Durham, quando è morto suo marito. Se c'era una cosa che Bill Hadley sapeva bene, era come prendersi cura di un'auto… Ma lei non può conoscerli, perché non è di qui, vero?»

«No. Vengo dal Wisconsin. George Amberson», e gli tesi la mano.

Scosse il capo, sorridendo un poco. «Piacere di conoscerla, signor Amberson, ma non voglio sporcarla di grasso. Faccia come se gliel'avessi stretta. Lei è un acquirente o un semplice curioso?»

«Ancora non lo so», ma non ero sincero. Pensavo che la Sunliner fosse la macchina più fica che avessi mai visto. Aprii la bocca per chiedere quanti chilometri facesse con un litro, ma mi resi conto subito che era una domanda senza senso, in un mondo in cui potevi fare il pieno con due dollari. Gli chiesi invece se avesse il cambio manuale.

«Oh, certo. E quando ingrana, è meglio stare attenti agli sbirri. Va col fuoco alle chiappe. Vuole farci un giro?»

«Non posso. Ho appena chiamato un taxi.»

«Non è un buon modo di viaggiare», disse Titus. «Se comprasse questa, tornerebbe in Wisconsin con stile e non penserebbe più al treno.»

«Quanto chiede? Su questa non c'è il prezzo.»

«No, l'ho presa dentro solo l'altro ieri. Non ho ancora avuto il tempo di metterlo.» Prese il pacchetto di sigarette. «La vendo a trecentocinquanta, e sa che le dico? Sono trattabili.»

Strinsi i denti per impedire alla mascella di cadere, e gli dissi che ci avrei pensato sopra. Se il mio pensiero fosse andato nella giusta direzione, sarei tornato il giorno dopo.

«Farà meglio a sbrigarsi, signor Amberson, questa non rimarrà qui a lungo.»

Di nuovo mi sentii sollevato. Avevo monetine che non funzionavano nei telefoni pubblici, nelle banche si scriveva a mano, e i telefoni facevano strani rumori quando componevi il numero, ma alcune cose rimanevano le stesse.

9

Il tassista era un uomo grasso, sul suo cappello malconcio c'era scritto: SERVIZIO CON REGOLARE LICENZA. Fumava Lucky Strikeuna dopo l'altra e teneva la radio sintonizzata sulla WJAB. Ascoltammo Sugartime delle McGuire Sisters, Bird Dog degli Everly Brothers e Purple People Eater, cantata da uno strano essere chiamato Sheb Wooley. Di quella avrei anche potuto fare a meno. Ogni due canzoni, un trio di donnine stonate cantava: «Quattordici-quaranta, WJABiii… il big jab!» Venni a sapere che al Romanow erano iniziati i saldi di fine estate, e che da Woolworth era arrivata la nuova fornitura di hula-hop, un dollaro e trentacinque l'uno, un affarone.

«Con quei dannati aggeggi, le ragazze imparano solo a dimenare i fianchi», disse il tassista, e gettò un po' di cenere dal finestrino. Fu l'unico tentativo di chiacchierare che fece tra la Titus Chevron e il Tamarack.

Abbassai il vetro per far uscire un po' di fumo e vidi un mondo diverso scorrere davanti ai miei occhi. Ancora non esisteva l'edificato suburbano tra Lisbon Falls e Lewiston. A parte alcune stazioni di servizio, l'Hi-Hat Drive-In e il cinema all'aperto (sull'insegna era reclamizzato un doppio programma, con La donna che visse due volte e La lunga estate calda, entrambi in Cinemascope e Technicolor), eravamo nell'aperta campagna del Maine. Si vedevano più mucche che persone.

La locanda per automobilisti era abbastanza discosta dalla strada, e ombreggiata non da larici come diceva il nome, ma da imponenti, sontuosi olmi. Non fu come vedere un branco di dinosauri, ma quasi. Li guardai stupito mentre Mr. Regolare Licenza si accendeva un'altra sigaretta. «Le serve una mano coi bagagli, signore?»

«No, grazie, ce la faccio.» La cifra sul tassametro non era sontuosa come gli olmi, ma la guardai con altrettanta meraviglia. Diedi al tizio due dollari e chiesi indietro cinquanta cent. Parve soddisfatto. Con quella mancia, dopotutto, poteva comprarsi un pacchetto di Lucky Strike.

10

Presi una stanza (contanti sul bancone, niente documenti d'identità) e feci un lungo pisolino. L'aria condizionata consisteva in un ventilatore sulla finestra. Mi risvegliai rinfrescato (bene), ma poi mi risultò impossibile riaddormentarmi la sera (non bene). Dopo il tramonto, sulla strada il traffico era quasi inesistente, e la quiete era tale da sconcertarmi. Il televisore era uno Zenith da tavolo che doveva pesare cinquanta chili. In cima c'era un'antenna a dipolo, di quelle dette «a baffo». Appoggiato all'antenna c'era un cartello: REGOLATE L'ANTENNA A MANO, NON USATE PROLUNGHE DI CARTA STAGNOLA. LA DIREZIONE RINGRAZIA.

C'erano tre canali. La ricezione della NBC era troppo disturbata, per quanto muovessi i «baffi». Quanto alla CBS, era impossibile regolare il quadro, che continuava a scorrere verso l'alto. L'ABC arrivava forte e chiara, e stava trasmettendo un telefilm della serie Le leggendarie imprese di Wyatt Earp, con Hugh O'Brian. Wyatt sparò a qualche fuorilegge, poi arrivò uno spot delle sigarette Viceroy. Steve McQueen spiegò che le Viceroy avevano un filtro da uomo che pensa e un gusto da uomo che fuma. Mentre se ne accendeva una, mi alzai dal letto e spensi la TV.

A quel punto, si sentì solo il frinire dei grilli.

Mi misi in mutande, mi sdraiai e cercai di dormire. La mia mente tornava sempre ai miei genitori. In quel momento, papà aveva sei anni e abitava a Eau Claire. Mia madre ne aveva solo cinque, e viveva in una fattoria dell'Iowa che sarebbe andata in fiamme di lì a poco. A quel punto la sua famiglia si sarebbe trasferita in Wisconsin, più vicina all'incrocio di vite che alla fine avrebbe prodotto… me.

Sono pazzo, pensai. Sono pazzo e sto avendo un'allucinazione terribilmente credibile, nel letto di qualche ospedale psichiatrico. Forse un dottore scriverà di me su qualche rivista scientifica. Dopo L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, ecco L'uomo che credeva di essere nel 1958.

Ma con una mano carezzai il ruvido tessuto del copriletto, e seppi cos'era, seppi che esisteva. Pensai a Lee Harvey Oswald, anche se Oswald apparteneva ancora al futuro e non era lui a turbare il mio sonno, in quella stanza da museo.

Sedetti sull'orlo del letto, aprii la valigetta e presi il telefonino, un gadget che aveva viaggiato nel tempo ed era assolutamente inutile in quel contesto. Eppure non potei fare a meno di aprirlo e accenderlo. RETE ASSENTE, comunicò il display. Certo, cos'altro mi ero aspettato? Cinque tacche? Torna a casa, Jake, disse una voce lamentosa, prima di combinare qualcosa di irrimediabile. Che stupida, superstiziosa idea. Se avessi fatto qualche danno, sarebbe stato rimediabile, perché ogni ritorno nel passato riazzerava tutto. Il viaggio nel tempo era fornito con la garanzia.

Quel pensiero mi fu di conforto, ma avere un telefono cellulare in un mondo in cui la TV a colori era la più grande innovazione nell'elettronica di consumo, quello no, non era di alcun conforto. Se l'avessero trovato, non mi avrebbero impiccato come uno stregone, ma forse gli sbirri del luogo mi avrebbero arrestato e tenuto in una cella fino all'arrivo dei ragazzi di J. Edgar Hoover, partiti da Washington apposta per interrogarmi.

Lo posai sul letto, poi tolsi dalle tasche tutte le monete e le divisi in due pile.

Quelle del '58 o più vecchie tornarono in tasca. Quelle del futuro finirono in una delle buste che avevo trovato nel cassetto dello scrittoio, accanto a una bibbia della Gideons International e al menu del servizio a domicilio dell'Hi-Hat. Mi vestii, presi la chiave e uscii dalla stanza.

Fuori, i grilli si sentivano ancora più forte. Uno spicchio di luna brillava in cielo. Al di là del suo chiarore, le stelle non erano mai state tanto splendenti e vicine. Sulla 196 passò un camion, poi la strada tornò silenziosa. Ero in campagna, e la campagna dormiva. Lontano, un autotreno perforò la notte con un fischio.

C'erano solo due auto parcheggiate di fronte a due appartamenti dalle luci spente. Sentendomi un malfattore, camminai fino al prato al di là del piazzale. L'erba alta frusciava contro i miei jeans, che l'indomani avrei sostituito con gli altri calzoni.

A delimitare il terreno del Tamarack c'era un recinto di filo metallico. Dall'altra parte c'era un piccolo stagno, di quelli che la gente di campagna chiama «vasche». Lì accanto, cinque o sei vacche dormivano nella notte tiepida. Una di loro alzò la testa e mi guardò, mentre passavo sotto il recinto e mi avvicinavo. Perse subito interesse e riabbassò la testa. Non la alzò nemmeno quando il mio Nokia cadde in acqua con uno splash! Chiusi la busta con dentro le monetine e la spedii dove già stava il telefonino. Poi tornai per la via da cui ero venuto, e mi fermai dietro il motel per accertarmi che il cortile fosse ancora vuoto. Lo era.

Rientrai nella mia stanza, mi spogliai, e mi addormentai quasi all'istante.

1

HARRY Dunning si diplomò senza problemi. Io andai alla cerimonia nella palestra della scuola, perché lui mi aveva invitato. Non aveva nessun altro, e a me faceva piacere.

Dopo la benedizione di padre Bandy, che raramente si perdeva una funzione alla LHS, mi feci largo nella calca di amici e parenti e raggiunsi Harry, che indossava la larga toga nera. In una mano teneva il diploma e nell'altra il tocco preso in affitto. Gli presi il cappello per potergli stringere la mano. Lui sorrise, mostrandomi arcate piene di denti storti e spazi vuoti, ma era un sorriso raggiante e coinvolgente.

«Grazie per essere venuto, signor Epping. Grazie davvero.»

«Mi faceva piacere. E puoi chiamarmi Jake. È una concessione che faccio a ogni studente abbastanza vecchio da poter essere mio padre.»

Per un memento parve perplesso, poi si mise a ridere. «Che mi ven… Già, mi sa che l'età e quella!» Risi anch'io. Intorno a noi ridevano in tanti. E c'era anche chi piangeva, è naturale. Quello che e difficile per me risulta facile a molte persone.

«E quel 10! Cribbio, non ne avevo mai preso uno in tutta la vita. E nemmeno me l'aspettavo!»

«Lo meritavi, Harry. Allora, qual e la prima cosa che farai da diplomato?»

Il sorriso si affievolì un poco. Chiaramente, non ci aveva ancora pensato.

«Mi sa che tornerò a casa. Ho una casetta in affitto in Goddard Street.» Alzò il diploma, tenendolo tra i polpastrelli come se temesse di sbavarne l'inchiostro. «Lo incornicerò e lo appenderò al muro. Dopodiché, penso che mi verserò un bicchiere di vino, mi siederò sul divano e lo guarderò fino all'ora di andare a letto.»

«Mi sembra un bel programma», dissi, «ma prima, ti va di farti un hamburger con patatine? Potremmo andare da Al.»

Mi ero atteso una smorfia, ma Harry non era come i miei colleghi, per non dire di quasi tutti gli studenti. Quelli evitavano Al's come la peste, preferivano il Dairy Queen, proprio di fronte alla scuola, o l'Hi-Hat sulla Route 196, dove un tempo c'era il vecchio Lisbon Drive-In.

«Molto volentieri, signor Epping, grazie!»

«Ricordi cosa ti ho detto? Chiamami Jake.»

«Certo, Jake.»

E cosi lo portai alla tavola calda di Al. Tra i1 personale della scuola, io ero l'unico aficionado, e anche se quell'estate c'era una cameriera, Al ci servì di persona. Come sempre, aveva una sigaretta accesa (proibita in qualunque luogo di ristorazione, ma a lui non importava) a un angolo della bocca, e un occhio strizzato per via del fumo. Quando vide la toga ripiegata sui braccio di Harry, e capì di che occasione si trattasse, insistette per offrire il pasto (non che avessimo speso chissà quale cifra: Al aveva prezzi incredibilmente bassi, cosa che aveva alimentato dicerie sulla sorte degli animali randagi dei dintorni). Ci fece anche una foto, che più tardi appese su quella che chiamava la «parete delle celebrità locali». Tra le «celebrità» c'erano il fu Albert Dunton, titolare della gioielleria Dunton; Earl Higgins, un ex preside della LHS; John Crafts, proprietario di un noto autosalone; e, ovviamente, padre Bandy, della parrocchia di St. Cyril. Accanto al prete, papa Giovanni XXIII, che non era del posto ma era riverito da Al Templeton, il quale si definiva «Un buon cattolico». Nella foto che Al scattò quel giorno, Harry Dunmng aveva un grande sorriso stampato in faccia. Io ero di fianco a lui, ed entrambi mostravamo il diploma. La sua cravatta aveva il nodo leggermente storto. Ricordo quel dettaglio perché mi fece venire in mente gli svolazzi che faceva in fondo alle minuscole. Ricordo tutto. Ricardo tutto molto bene.

2

Due anni dopo, ultimo giorno dell'anno scolastico, sedevo nella stessa sala insegnanti e leggevo una sfilza di tesine scritte dagli studenti del mio seminario intensivo sulla poesia americana. I ragazzi se n'erano già andati, sguinzagliati verso una nuova estate, e presto io avrei fatto la stessa cosa, ma per il momento mi andava bene restare li, a godermi l'insolita quiete. Pensai addirittura di pulire l'armadietto dei viveri, prima di andarmene. Qualcuno doveva pur farlo.

Quella mattina, dopo l'ora di appello e comunicazioni varie (che era stata particolarmente rumorosa, come sempre accade l'ultimo giorno di scuola), Harry Dunning mi aveva raggiunto zoppicando e mi aveva dato la mano.

«Volevo solo dirle grazie per tutto quanto.»

Io sorrisi. «Lo avevi già fatto, mi sembra di ricordare.»

«Si, ma questo è il mio ultimo giorno. Vado in pensione, così volevo dirle grazie un'ultima volta.»

Mentre gli stringevo la mano, un ragazzino di passaggio (uno di prima, a giudicare dalla fioritura di brufoli e dalla dubbia spruzzata di peli che aspirava a diventare pizzetto) borbotto: «Hop, hop, Harry Saltarospo!».

Feci per afferrarlo, con l'intenzione di obbligarlo a chiedere scusa, ma Harry mi fermò. Il suo sorriso era aperto come sempre, e non mostrava tracce d'offesa.

«Nah, non c'è problema. Ci sono abituato, sono solo ragazzi.»

«Sì, risposi, «ed e nostro compito insegnar loro come…»

«Lo so, è lei e molto bravo, ma non è il mio lavoro essere il… come si dice… l'esempio istruttivo per qualcun altro. Soprattutto, non oggi. Mi stia bene, signor Epping.» Era abbastanza vecchio da essere mio padre, ma proprio non gli veniva di chiamarmi Jake.

«Stammi bene anche tu, Harry.»

«Non dimenticherò mai quel 10. Ho incorniciato pure quello, è proprio accanto al diploma.»

«Li hai meritati entrambi.»

E non era un modo di dire. Il suo tema era pura arte naïf, ma potente e veritiero come un quadro di Grandma Moses. Di certo, era meglio della roba che stavo leggendo in quel momento. Nelle tesine del seminario c'erano pochi errori d'ortografia, e le frasi erano chiare (anche se i miei cauti studenti avevano l'irritante tendenza alle costruzioni passive), ma la scrittura era esangue, tediosa. Erano ragazzi di terza (quelli dell'ultimo anno se li era presi Mac Steadman, il direttore del dipartimento d'inglese), però scrivevano come vecchiette con la bocca a culo di gallina, oooh, attenta a non scivolare su quel ghiaccio, Mildred. Nonostante gli sfondoni grammaticali e la grafia quasi illeggibile, Harry Dunning aveva scritto in modo eroico almeno una volta nella vita.

Mentre riflettevo sulla differenza tra scrivere sulla difensiva e scrivere «in attacco», l'interfono si schiarì la voce: «Per caso il signor Epping è nella sala professori dell'ala ovest? Jake, sei ancora li?» Mi alzai, pigiai il bottone e dissi: «Si, Gloria, sono ancora qui, a espiare i miei peccati. Posso aiutarti?»

«C'e una telefonata per te. Un certo… Al Templeton? Se vuoi te lo passo, oppure gli dico che sei già andato via.»

Al Templeton, proprietario e gestore di Al's, la tavola calda dove tutto il personale della LHS, fatta eccezione per il Vostro, si rifiutava di andare a mangiare. Persino il mio stimato direttore – che cercava di parlare come un decano di Cambridge e stava per raggiungere l'età della pensione – chiamava la specialità della casa «il Famoso Catburger di Al» anziché «il Famoso Fatburger».

Be', non è davvero gatto, diceva la gente, o almeno, è improbabile che sia gatto, ma di sicuro non può essere manzo, non a un dollaro e diciannove.

«Jake? Ti sei addormentato?»

«Sono sveglissimo», risposi. Ero solo curioso sul motivo per cui Al mi stesse chiamando a scuola. Anzi, sul motivo per cui mi stesse chiamando, punto. Il nostro era sempre rimasto un rapporto tra ristoratore e cliente. A me piaceva il suo rancio, a lui piaceva la mia compagnia. «Passamelo pure.»

«Come mai sei ancora li?»

«Mi sto flagellando.»

«Oooh», fece Gloria, e la immaginai battere le lunghe ciglia. «Mi piace quando parli sporco. Aspetta lo squillo.»

Chiuse la comunicazione. Il telefono suonò e io alzai il ricevitore.

«Jake? Compare, ci sei?»

Di primo acchito, pensai che Gloria avesse capito male il nome. Quella non poteva essere la voce di Al. Nemmeno il peggior mal di gola del mondo poteva aver prodotto un simile rantolo.

«Chi parla?»

«Al Templeton. Non te l'ha detto la tipa? Cristo, fa davvero schifo quella musichetta. Che fine ha fatto Connie Francis?»

Poi si mise a tossire, tanto forte che dovetti allontanare la cornetta dall' orecchio.

«Sembra che ti sia preso un'influenza.»

Rise, e intanto continuò a tossire. L'effetto combinato risultò sinistro. «Sì, mi sono preso qualcosa

«Alla faccia del contagio rapido», commentai. Ero stato a pranzo da lui soltanto il giorno prima: fatburger, patatine e un frappè alla fragola. Ritengo importante, per una persona che vive sola, pescare in tutti i gruppi nutrizionali.

«Puoi dido forte. Oppure, potresti dire che c'è voluto un bel po' di tempo.

Sono vere entrambe le cose.»

Non seppi cosa rispondere. Avevo chiacchierato spesso con Al, nei sei o sette anni di frequentazione del suo locale, e sapevo che ogni tanto parlava in modo strano (per esempio, insisteva a chiamare Boston Patriots i New England Patriots, e parlava di Ted Williams come se fossero stati amiconi), ma non avevo ancora avuto con lui una conversazione tanto bizzarra.

«Jake, ho bisogno di vederti. È una cosa importante.»

«Posso chiederti…»

«Oh, mi chiederai un sacco di cose, e io risponderò, ma non al telefono.»

Non sapevo quanto sarebbe riuscito a parlare prima di perdere totalmente la voce, ma promisi che lo avrei raggiunto nel giro di un'ora.

«Grazie. Anche prima, se riesci. Fare in tempo è, come suol dirsi, la condicio sine qua non.» E riaggancio, proprio cosi, senza nemmeno salutare.

Io mi sorbii altre due tesine, ormai ne mancavano solo quattro, ma a quel punto mi era passata la voglia. Misi il fascio di fogli in valigetta, e uscii. Mi venne la fugace idea di salire di sopra, in ufficio, per augurare a Gloria una buona estate, ma lasciai perdere. Sarebbe rimasta li tutta la settimana, a chiudere i conti dell'anno scolastico, e io dovevo tornare il lunedì successivo per pulire l'armadietto dei viveri. Era una promessa che avevo fatto a me stesso. Altrimenti, gli insegnanti dei corsi estivi l'avrebbero trovato pieno di scarafaggi.

Se avessi saputo cosa mi riservava il futuro, sicuramente sarei salito a salutarla. Forse avrei anche fatto atterrare il bacio che orbitava intorno a noi da un paio di mesi. Ma, ovviamente, non sapevo. La vita e un lancio di monetina.

3

La tavola calda di Al era in un grande prefabbricato color argento poco discosto da Main Street, all'ombra del vecchio stabilimento tessile Worumbo. Posti così possono essere squallidi, ma Al aveva decorato la spianata di cemento intorno al suo esercizio con belle fioriere. C'era persino un praticello, che curava egli stesso con un tosaerba vecchio tipo, di quelli a spinta. Il tosaerba era curato quanto il prato e i fiori: non un'ombra di ruggine sulle ronzanti, sgargianti lame. Sembrava acquistato al Western Auto da appena una settimana… Se il Western Auto di Lisbon Falls non avesse chiuso i battenti anni prima, vittima dei grandi centri commerciali, al giro di boa del nuovo secolo.

Percorsi il vialetto lastricato, salii i gradini, poi mi fermai perplesso. L'insegna BENVENUTI DA AL, LA CASA DEL FATBURGER era sparita. Al suo posto c'era un rettangolo di cartoncino con la Scritta: CHIUSO DEFINITNAMENTE CAUSA MALATTIA. GRAZIE PER IL VOSTRO SOSTEGNO NEL CORSO DEGLI ANNI & CHE DIO VI BENEDICA.

Non ero ancora entrato nella nebbia dell'irrealtà che presto mi avrebbe inghiottito, ma le prime spire iniziavano a circondarmi, e potevo sentirle. Non era stato un mal di gola estivo a causare la raucedine nella voce di Al, per non dire della tosse rantolante. Non era stata nemmeno un'influenza. A giudicare dal cartello, era qualcosa di più grave. Ma che genere di malattia grave colpisce in sole ventiquattr'ore? Anzi, meno di ventiquattr'ore: erano le due e mezzo, io avevo lasciato il locale alle cinque e tre quarti del giorno prima, e in quel momento lui stava bene. Era persino su di giri. Ricordavo di avergli chiesto se non avesse bevuto troppo caffè, e lui aveva risposto di no, stava solo pensando di prendersi una vacanza. Forse uno che si ammala – a tal punto da dover chiudere il business a cui si è dedicato per più di vent'anni – parla di andare in vacanza? Magari può capitare, ma non spesso.

La mia mano si stava ancora muovendo verso la maniglia quando la porta si aprì e vidi Al. Mi fissò senza sorridere. Lo fissai anch'io, sentendo la nebbia infittirsi intorno a me. La giornata era calda, ma la nebbia era fredda. In quel momento, avrei ancora potuto fare dietrofront e uscirne, tornare sotto il sole di giugno, e una parte di me voleva farlo. Ma rimasi fermo, pietrificato per lo stupore e lo sgomento. E anche per l'orrore, devo ammetterlo. Una malattia grave ci provoca orrore, non è così? Al era gravemente malato, bastava un'occhiata per capirlo. E forse «mortalmente» era l'avverbio più giusto.

Non era solo il fatto che le sue gote rubiconde fossero diventate flosce e giallastre. Non era la patina che offuscava i suoi occhi azzurri, che ora sembravano slavati e miopi. Non erano nemmeno i suoi capelli, che prima erano quasi tutti neri, e adesso erano quasi tutti bianchi. Una cosa del genere poteva succedere anche a chi usa una tinta e all'improvviso decide di lavarsela via e tenersi il colore naturale.

No, la cosa davvero irreale era che, nelle ventidue ore trascorse dall'ultima volta che l'avevo visto, Al Templeton aveva perso almeno quindici chili, forse anche venti, cioè un quarto del suo peso di sempre. Nessuno può perdere dai quindici ai venti chili in meno di un giorno, nessuno, eppure era successo, e lo stavo vedendo. E fu a quel punto, credo, che la nebbia mi avvolse del tutto.

Al sorrise, e vidi che oltre al peso aveva perso anche alcuni denti. Le sue gengive erano pallide, avevano un aspetto malsano. «Allora, Jake, ti piace il nuovo me?» Poi ricominciò a tossire, una sequela di rumori gutturali che sembravano salire da un abisso.

Aprii la bocca, ma non riuscii a dire niente. Una parte di me, vigliacca e in preda al disgusto, considerò di nuovo l'idea di fuggire, ma anche se quella parte avesse avuto il sopravvento, non avrei potuto. Era come se i miei piedi avessero messo radici.

Al riuscì a smettere di tossire, e prese dalla tasca un fazzoletto. Si asciugò la bocca, poi il palmo della mano. Prima che lo piegasse e rimettesse via, vidi che era sporco di sangue.

«Entra», mi invitò. «Ho molte cose da dirti, e penso tu sia l'unico che può ascoltarle. Ascolterai?»

«Al», dissi, con voce tanto bassa e fiacca che a malapena riuscivo a sentirmi, «Cosa ti è successo?»

«Ascolterai?»

«Certo che sì.»

«Mi farai domande, e io risponderò per quanto possibile, ma non farmene troppe, non ho più molta voce. Anzi, non ho più molta forza. Vieni dentro.»

Entrai. Il locale era buio, fresco, vuoto. Il bancone era lucido. Il cromo degli sgabelli scintillava. La brocca del caffè era immacolata e risplendente. Il cartello SE NON TI PIACE QUESTA CITTÀ, USA L'ORARIO FERROVIARIO era nel solito posto accanto al registratore di cassa. Mancavano solo i clienti.

No, mancava Anche il proprietario. Al posto di Al Templeton c'era lo spettro di un uomo anziano e sofferente. Quando girò il chiavistello, chiudendoci dentro, il suono rimbombò.

4

«È cancro ai polmoni», annunciò (una mera constatazione) quando ci fummo sistemati in un séparé in fondo alla sala. Con la mano si diede una pacca sul taschino della camicia, e io vidi che era vuoto. Il sempiterno pacchetto di Camel non c'era più. «Non e stata una grossa sorpresa. Ho cominciato a fumare che avevo undici anni, e non ho smesso fino al giorno della diagnosi. Fanno più di cinquant'anni. Tre pacchetti al giorno, finche il prezzo non è aumentato, nel 2007. A quel punto ho fatto un sacrificio, e sono passato a due pacchetti.» Buttò fuori un'ansimante risata.

Stavo per dirgli che aveva fatto male i conti, perché sapevo quanti anni aveva. Un giorno di fine inverno ero entrato nel locale e gli avevo chiesto come mai stesse alla griglia con in testa un capello da compleanno, e lui aveva risposto: «Perché oggi compio cinquantasette anni, compare. Come i 57 prodotti Heinz».

Ma mi aveva chiesto di limitare le domande al minimo indispensabile, e pensai che non fosse il caso di interromperlo con precisazioni.

«Se fossi in te (e mi piacerebbe essere te, anche se non vorrei mai che tu fossi me, conciato come mi ritrovo), starei pensando: Qui c'è qualcosa che stride, nessun tumore riduce così un uomo da un giorno all'altro. Te lo stai chiedendo?» Annuii. Me lo stavo chiedendo eccome.

«La risposta è semplice: non è successo da un giorno all'altro. Ho iniziato a tossire di brutto circa sette mesi fa, più o meno a maggio.»

Per me era una novità: se mai aveva tossito, lo aveva fatto in mia assenza. Inoltre, continuava a fare male i conti «Ehi Al? Siamo in giugno. Sette mesi fa era dicembre.»

Mi fece un cenno con una mano (le dita erano sottili, l'anello dei marines ballava intorno all'anulare su cui prima calzava alla perfezione), come per dire: lasciamola da parte questa cosa, per il momento.

«Pensavo di essermi preso un raffreddore. Ma non avevo febbre, e invece che passare, la tosse peggiorò. Poi iniziai a perdere peso. Insomma, compare, io non sono stupido, ho sempre saputo che potevo prendermi la Grande C… anche se mio padre e mia madre fumavano come dannate ciminiere e hanno entrambi superato gli ottanta. Troviamo sempre un modo di scusare le nostre cattive abitudini, vero?»

Ricominciò a tossire, e tirò fuori il fazzoletto. Quando la tosse si calmò, disse: «Non posso permettermi di divagare, ma l'ho fatto per tutta la vita ed è duro smettere. Più duro che smettere di fumare. La prossima volta che cambio argomento, basta che mi fai segno di stringere, OK?»

«OK», dissi, in tono abbastanza disponibile. A quel punto, mi ero convinto che fosse tutto un sogno. Se lo era, era un sogno estremamente vivido, pieno di dettagli, comprese le ombre proiettate dal ventilatore montato sul soffitto, ombre che percorrevano le tovagliette di carta con la scritta LA NOSTRA RISORSA PIÙ IMPORTANTE SEI TU!

«Per farla breve, sono andato da un dottore e mi ha fatto i raggi X, ed eccoli lì, grossi come le balle del diavolo: due tumori. Necrosi avanzata. Non operabili.»

Raggi X? pensai. Li usavano ancora per diagnosticare il cancro?

«Sono rimasto un po' in giro, poi sono dovuto tornare.»

«Da dove? Lewiston? Al Central Maine General?»

«Dalla mia vacanza.» I suoi occhi mi fissarono dalle orbite scure in cui stavano affondando. «Solo che non era una vacanza.»

«Al, niente di quello che stai dicendo mi sembra sensato. Ieri tu stavi bene.»

«Guardami bene in faccia. Inizia dai capelli, poi scendi. Cerca di ignorare quello che mi sta facendo il cancro (ha un effetto devastante sull'aspetto di una persona, questo è sicuro), poi dimmi se sono o no lo stesso uomo che hai visto ieri.»

«Be', è chiaro che ti sei lavato via la tinta…»

«Mai usata in vita mia. E non c'è bisogno che ti faccia notare che ho perso dei denti mentre ero… Mentre ero via. Lo so che te ne sei già accorto. Pensi siano stati i raggi X? O lo stronzio 90 nel latte? Manco lo bevo, il latte, a parte un goccio nell'ultima tazza di caffè della giornata.»

«Lo stronzio che?»

«Non importa. Entra in contatto con… com'è che si dice? La tua parte femminile. Guardami come fanno le donne quando calcolano l'età di altre donne.» Provai a fare come diceva, e anche se quel che osservai non avrebbe retto in tribunale, mi convinse. C'erano ragnatele di rughe ai lati degli occhi, e le palpebre avevano quelle piccole, delicate grinze che vedi in faccia a chi non deve più mostrare la tessera da pensionato alla cassa del cinema. Solchi ondulati che il giorno prima non c'erano gli attraversavano la fronte. Due pieghe molto più profonde mettevano la bocca tra parentesi. Il mento era più appuntito, e la pelle del collo più cascante. Mento ossuto e pappagorgia potevano essere conseguenza del catastrofico calo di peso, ma quelle rughe… E se non stava mentendo a proposito dei capelli…

Aveva in volto un lieve sorriso. Un sorrisetto amaro, eppure divertito, Il che rendeva peggiore la situazione. «Ti ricordi il mio compleanno, nel marzo scorso?

'Non preoccuparti, Al', hai detto. Se quello stupido cappellino prende fuoco mentre stai sulla griglia, ti spengo io con l'estintore.' Ti ricordi?»

Sì, ricordavo. «Hai detto che avevi cinquantasette anni, come 'i 57 prodotti Heinz'.»

«Esatto. E adesso ne ho sessantadue. So che il cancro mi fa sembrare anche più vecchio, ma queste… E queste…» Si toccò la fronte, poi le rughe intorno agli occhi. «Sono segni di vero invecchiamento. Tutte onorificenze, in un certo senso.»

«Al… Posso avere un bicchier d'acqua?»

«Ma certo. È un bello shock, eh?» Mi guardò con comprensione. «Stai pensando: O sono pazzo, o è pazzo lui, oppure lo siamo entrambi. Lo so, ci sono passato anch'io.»

Con uno sforzo si sollevò dalla sedia, la mano destra sotto l'ascella sinistra, come per impedirsi di cadere a pezzi. Poi mi accompagnò al bancone. Mentre lo faceva, mi accorsi di un'altra cosa che rendeva l'incontro irreale: a parte le occasioni in cui mi ero inginocchiato accanto a lui in chiesa (era accaduto di rado: anche se sono di famiglia cattolica, non sono molto praticante) o mi era capitato di incrociarlo per strada, non avevo mai visto Al senza il grembiule da cuoco.

Prese uno scintillante bicchiere e lo riempì d'acqua dallo scintillante rubinetto cromato. Lo ringraziai e mi girai per tornare al séparé, ma mi mise una mano sulla spalla. Avrei preferito non lo avesse fatto: fu come essere toccati dal vecchio marinaio di Coleridge, quello che «ferma uno dei tre».

«Prima che torniamo a sederci, voglio farti vedere una cosa. Così faremo prima. Solo che 'vedere' non è il verbo più adatto. Forse 'provare' ci va più vicino. Finisci di bere, compare.»

Bevvi mezzo bicchiere. L'acqua era buona e fresca, ma non distolsi mai lo sguardo da Al. La mia parte vigliacca si aspettava di essere aggredita, come la prima, malaccorta vittima in uno di quei film-con-pazzo-a-piede-libero, quelli che hanno sempre un numero nel titolo. Al restò con una mano appoggiata al bancone. La mano era rugosa, le nocche sporgenti. Non sembrava la mano di un cinquantenne, nemmeno di un cinquantenne col cancro, e…

«Sono state le radiazioni a fare quello?» chiesi all'improvviso.

«A fare cosa?»

«Sei abbronzato. Per non dire delle macchie scure sul dorso della mano.

Roba così ti viene per le radiazioni o per via del troppo sole.»

«Be', visto che di radiazioni non ne ho fatte, rimane solo il sole. Ne ho preso un bel po', negli ultimi quattro anni.»

Per quanto ne sapevo, Al aveva trascorso gli ultimi quattro anni girando hamburger sulla griglia e preparando frappè sotto le luci al neon, ma non dissi nulla. Mi limitai a finire il bicchiere. Quando lo posai sul ripiano di formica, mi accorsi che la mia mano tremava.

«OK, cos'è che vuoi farmi vedere, anzi, provare?»

«Vieni con me.»

Mi guidò nella lunga, stretta cucina, oltre la doppia griglia, le friggitrici, il lavello, il grosso frigo e l'alto, ronzante congelatore. Si fermò di fronte alla lavastoviglie spenta e indicò la porta in fondo. Era bassa, per passarci Al doveva certamente chinarsi, ed era alto solo un metro e settanta. Io ero uno e novantatré. Alcuni dei ragazzi mi chiamavano «Elicottero Epping».

«Eccoci», disse. «Entriamo lì.»

«Non è la tua dispensa, quella?» Domanda retorica: gli avevo visto portare fuori abbastanza barattoli, sacchi di patate e confezioni di cibi secchi per sapere bene cosa ci fosse là dietro.

Al parve non avermi sentito. «Lo sapevi che all'inizio avevo aperto a Auburn?»

«No.»

Annuì, e il movimento parve avviare una nuova scarica di colpi di tosse. La soffocò con il fazzoletto, sempre più fradicio. Quando l'ultimo sussulto si spense, lo gettò in una pattumiera lì vicino, poi prese un mazzo di tovagliolini da un distributore sul bancone.

«È una casa Aluminaire, fabbricata negli anni Trenta e più Art Déco che mai. Ne ho desiderata una fin da quando mio padre mi portò al Chat 'N Chew di Bloomington, quand'ero bambino. L'ho comprata con tutti gli accessori e l'ho fatta montare a Auburn, in Pine Street. Sono rimasto lì per quasi un anno, e ho visto che se ci fossi rimasto, in un altro anno sarei andato in bancarotta. C'erano già troppi snack bar e tavole calde in quel quartiere, alcuni erano buoni, altri meno, comunque tutti avevano la loro clientela. Ero come un avvocatino appena laureato che apre l'attività su una piazza dove ci sono già dieci o dodici studi legali di marpioni. E poi, in quei giorni il Famoso Fatburger di Al costava due e cinquanta. Persino allora, nel Novanta, meno di due e cinquanta non potevo fare.»

«E allora come diavolo fai a servirli oggi a meno della metà? A meno che non sia davvero carne di gatto…»

Sbuffò, un suono che produsse un'eco liquida nel suo petto. «Compare, quello che servo è al l 00% puro manzo americano, il migliore del mondo. Pensi che non lo sappia cosa dice la gente? Certo che lo so, ma me ne frego. Cos'altro dovrei fare? Dirgli di star zitti? È come chiedere al vento di non soffiare più.»

Gli feci segno di tagliar corto. Al sorrise.

«Eh già, stavo di nuovo divagando. Ma lasciami finire, perché fa parte della storia. Avrei potuto continuare a picchiare la testa contro il muro in Pine Street, ma Yvonne Templeton non ha tirato su dei figli imbecilli. 'Meglio battere in ritirata e tornare a combattere un altro giorno', ci diceva sempre. Ho preso quel che rimaneva dei miei fondi, ho convinto la banca a prestarmi altri cinquemila dollari (non chiedermi come) e mi sono trasferito qui a Lisbon Falls. Nemmeno qui gli affari sono andati a gonfie vele, tra lo stato in cui versa l'economia e quelle stupide dicerie sui Catburger, i Dogburger, le bistecche di puzzola o qualunque cosa solletichi la fantasia della gente, ma poi sono riuscito a svincolarmi dall'economia più di quanto possano fare gli altri, e il merito è tutto di quel che c'è dietro quella porta. Non c'era quando stavo a Auburn, posso giurarlo su una pila di bibbie alta tre metri. Si è manifestato solo qui.»

«Di cosa stai parlando?»

Mi fissò coi suoi occhi annacquati e invecchiati di recente: «Basta chiacchiere, per ora. Devi scoprirlo da solo. Vai, apri la porta».

Gli rivolsi uno sguardo dubbioso.

«Prendila come l'ultima richiesta di un moribondo», disse. «Forza, compare, se sei davvero mio amico. Apri la porta.»

5

Lo feci e mentirei se negassi che il cuore, quando ruotai la maniglia e tirai, non mi andò su di giri. Non avevo idea di cosa mi sarei trovato di fronte (anche se mi sembra di ricordare l'immagine fugace di gatti morti scuoiati, pronti per il tritacarne), ma quando Al allungò un braccio sopra la mia spalla e accese la luce, quel che vidi fu…

Be', una dispensa.

Era piccola, e in ordine come il resto del locale. Su entrambe le pareti c'erano scaffali carichi di grandi barattoli, confezioni da ristorante. In fondo alla stanza, dove il tetto scendeva, c'erano gli attrezzi per la pulizia. Scopa e spazzolone erano posati a terra, perché quella parte della stanza non era più alta di un metro. Sul pavimento c'era lo stesso linoleum grigio scuro del resto della tavola calda, ma al posto del vago odore di carne cotta, lì dentro c'era profumo di caffè, verdure e spezie. E anche un altro odore, tenue e non molto gradevole.

«OK», dissi. «È la dispensa. Linda e ben attrezzata. Ti meriti un 10 in Gestione degli strumenti di lavoro, se esiste una materia del genere.»

«Che odori senti?»

«Spezie, soprattutto. Caffè. Forse deodorante, ma non ne sono sicuro.»

«Sì, uso il Glade. Per via di quell'altro odore. Mi stai dicendo che non lo senti?»

«Sì, c'è qualcosa… Qualcosa di solforoso… Ricorda l'odore dei fiammiferi bruciati.» Mi ricordava anche quello del gas letale emesso da me e la mia famiglia dopo le cene a base di fagioli che mia madre preparava il sabato sera, ma non mi andava di dirlo. Forse le terapie per il cancro fanno scoreggiare?

«Sì, è zolfo. E c'è anche dell'altro, sicuramente non Chanel No 5. È la puzza della fabbrica, compare.»

Un'altra pazzia, ma tutto quel che dissi fu (con assurda cortesia da cocktail party): «Davvero?»

Sorrise ancora, mostrandomi gli spazi vuoti che il giorno prima non c'erano.

«Sei troppo educato per farmi notare che lo stabilimento Worumbo è stato chiuso ai tempi dei tempi. Di più: è stato quasi del tutto ridotto in cenere da un incendio, alla fine degli anni Ottanta, e adesso lì fuori…» Indicò alle proprie spalle con un pollice… «…c'è solo un outlet. La tipica sosta per turisti di passaggio, come la Kennebec Fruit Company durante il Moxie Day. Stai anche pensando che forse è ora di prendere il telefonino e chiamare i tizi in camice bianco. Ho indovinato, compare?»

«Non chiamerò nessuno, perché tu non sei matto.» In realtà, ne ero molto meno che sicuro. «Ma questa è solo una dispensa, ed è vero che la Worumbo Filati & Tessuti non produce un pezzo di stoffa da almeno venticinque anni.»

«Non chiamerai nessuno, su questo hai ragione, perché il cellulare devi darlo a me, come anche il portafogli e tutti i soldi che hai in tasca. Non è una rapina, ti restituirò tutto quanto. Lo farai?»

«Quanto durerà, Al? Perché ho ancora delle tesine da correggere prima di chiudere il registro di quest'anno e…»

«Durerà quanto vorrai tu», disse. «Tanto sono solo due minuti. Sono sempre due minuti. Prenditi un'ora e fatti un giro, se vuoi, ma lascerei stare se fossi in te, almeno la prima volta. È una bella botta. Lo vedrai coi tuoi occhi. Ti fidi di me?» Nel mio sguardo vide qualcosa che gli fece stringere le labbra su quel che restava dei suoi denti. «Per favore, Jake. Ultima richiesta di un moribondo.»

Ero ormai certo che fosse pazzo, ma ero altrettanto certo che stesse dicendo la verità sulla sua condizione. Da quando avevamo iniziato a parlare, i suoi occhi sembravano essersi ritratti ancor più a fondo nelle orbite. Inoltre, era esausto. La ventina di passi dal séparé alla dispensa gli aveva tagliato le gambe. E il fazzoletto insanguinato, mi dissi. Non scordarti il fazzoletto insanguinato.

E poi… A volte è meglio assecondare, no? «Lascia andare e affidati a Dio», dicono alle riunioni che frequenta la mia ex moglie, ma io avevo deciso che quella era una Circostanza da «Lascia andare e affidati ad Al». Almeno, fino a un certo punto. E poi, mi dissi, devi accettare molto più di questo anche solo per salire su un aeroplano, e non ti chiede nemmeno di mettere le scarpe su un nastro trasportatore.

Mi tolsi il cellulare dalla cintura e lo posai in cima a un cartone di scatolette di tonno. Ci misi anche il portafogli, un piccolo rotolo di banconote, un dollaro e mezzo in monetine, e il portachiavi.

«Le chiavi puoi tenerle, quelle non contano.»

Be', per me contavano, ma tenni la bocca chiusa.

Al si mise la mano in tasca e tirò fuori un rotolo di soldi ben più grosso di quello che avevo appena posato sul cartone. Me lo allungò. «Per le piccole spese. Nel caso volessi comprare un souvenir, qualcosa del genere. Vai e prendilo.»

«Perché non dovrei usare i miei soldi?» Sembrava un obiezione assennata. Come se l'intera, folle conversazione avesse un senso.

«Per adesso non pensarci», disse. «L'esperienza che farai risponderà a molte domande meglio di quanto potrei fare, io anche sentendomi in forma, e in questo momento sono all'estremo opposto del sentirmi in forma. Prendi questi soldi.»

Li presi e diedi loro un occhiata. I biglietti da un dollaro in cima al mucchio non avevano nulla di strano, ma poi ne vidi uno da cinque, che mi parve al tempo stesso familiare e sconosciuto. C'era la scritta SILVER CERTIFICATE accanto al ritratto di Lincoln, e alla sua sinistra un grande 5 azzurro. Lo tenni alto davanti agli occhi.

«Non è falso, se è quello che stai pensando.» Al era affaticato, ma sembrava divertito.

Falso magari no (anche al tocco pareva autentico), ma lo misi controluce, e l'immagine sull'altro lato non traspariva.

«Se è vero, allora è vecchio.»

«Tu mettiti i soldi in tasca, Jake.» Eseguii.

«Hai mica una calcolatrice? Altri apparecchi elettronici?»

«No.»

«Allora mi sa che sei pronto. Girati in modo da guardare la parete.» Ma non ebbi il tempo di farlo che si diede una pacca sulla fronte e disse: «Dio santo, dove ho il cervello? Mi stavo scordando dell'Uomo con la Tessera Gialla!»

«Chi? L'uomo con cosa?»

«L'Uomo con la Tessera Gialla. Io lo chiamo così il, nome non lo conosco. Ecco, prendi.» Si rovistò nelle tasche poi mi diede una moneta da cinquanta centesimi. Non ne vedevo una da anni, forse da quand'ero bambino.

La esaminai, affascinato dal suo peso. «Davvero vuoi darmela? Dev'essere di valore.»

«Certo che è di valore: vale mezzo dollaro.»

Ricominciò a tossire, e stavolta fu scosso come da un forte vento, ma quando mi mossi per aiutarlo mi respinse con un cenno della mano. Si appoggiò alla pila di scatoloni su cui avevo posato la mia roba, sputò nel mazzo di tovagliolini, li guardò, fece una smorfia, infine li strinse nel pugno. Il suo viso sofferente era coperto di sudore.

«Una vampata, o qualcosa del genere. Oltre a tutto il resto 'sto maledetto cancro mi sta sconvolgendo il termostato. Tornando all'Uomo con la Tessera Gialla: è un barbone avvinazzato, ed è innocuo, ma non è come tutti gli altri. È come se sapesse qualcosa. Penso sia solo una coincidenza (perché sta accucciato vicino al punto in cui sbucherai), ma volevo darti qualche elemento su di lui.»

«Be', non stai facendo un gran lavoro», dissi, «non ci ho capito un cazzo.»

«Lui ti dirà: 'Ho una tessera gialla del posto verde, dammi un dollaro, perché oggi è il giorno del vale-doppio'. Mi segui?»

«Ti seguo. Ma continuavo a non capire un cazzo.

«E lui ce l'ha davvero, la tessera, infilata nella fascia del cappello.

Probabilmente è solo il biglietto da visita di una compagnia di taxi, o un buono del Red & White che ha trovato per terra, ma ha il cervello in pappa e per lui è come il biglietto d'oro di Willy Wonka. Allora tu rispondi: 'Non posso darti un dollaro, ma eccoti mezzo pezzo', e glielo dai. A quel punto lui potrebbe dire…» Al sollevò un dito scheletrico. «…Potrebbe dire qualcosa tipo: 'Tu non sei lo stesso tizio'. Non ne sono sicuro, ma è possibile. Ci sono tante cose che non so. Qualunque cosa ti dica, lascialo lì vicino all'essiccatoio (è dove sta seduto) ed esci dal cancello. Quando te ne andrai, forse ti griderà dietro: «Lo so che potevi darmelo, un dollaro, brutto spilorcio!» ma tu ignoralo, non girarti. Attraversa i binari e sarai all'incrocio tra Main Street e Lisbon Street.» Mi fece un sorriso ironico. «Dopodiché, compare, il mondo è tuo.»

«L'essiccatoio?» Mi sembrava di ricordare vagamente che, sì, un tempo c'era stato qualcosa vicino a dove stava ora il ristorante, e forse era il vecchio essiccatoio della Worumbo, ma in ogni caso ormai non c'era più. Se ci fosse stata una finestra sul muro della piccola, ordinata dispensa dell'Aluminaire, avrebbe dato su nient'altro che un cortile in mattonelle di cemento e un negozio di abbigliamento chiamato Il tuo angolo di Maine. Ci avevo comprato un parka North Face poco dopo Natale, a un prezzo davvero basso.

«Non pensare all'essiccatoio, ricordati quello che ti ho detto. Ora girati verso il muro, sì, così, e fai due o tre passi in avanti. Piccoli. Passi da bimbo piccolo.

Fingi di cercare a luci spente l'ultimo gradino di una scala, fai la stessa attenzione.»

Feci come mi aveva detto, sentendomi l'uomo più idiota del mondo. Un passo, e abbassai la testa per non toccare il soffitto di alluminio… Due passi, e dovetti proprio piegare la schiena. Ancora due passi e avrei dovuto inginocchiarmi. Cosa che non avevo nessuna intenzione di fare, ultima richiesta di un moribondo o no.

«Al, è una cosa stupida. A parte prenderti uno scatolone di frutta o uno di questi pacchetti di caramelle, qui non posso fare nien…»

Fu a quel punto che il piede andò giù, come se avessi iniziato a scendere le scale. Solo che il piede era ancora lì, saldo sul linoleum grigio scuro. Lo vedevo coi miei occhi.

«Eccoci», disse Al. La sua voce suonò meno roca. Le sue parole erano levigate e piene di soddisfazione. «L'hai trovato, compare.»

Ma cosa avevo trovato? Cos'era che stavo provando, esattamente? La forza dell'autosuggestione sembrava la risposta più plausibile, perché, qualunque fosse la mia sensazione, il piede era lì sul pavimento, lo vedevo. Solo che…

Avete presente quando, in una giornata luminosa, uno chiude gli occhi e vede l'immagine postuma di quel che stava guardando? Era la stessa sensazione. Quando guardavo il piede, lo vedevo sul pavimento. Ma quando battevo le ciglia, un millisecondo prima o un millisecondo dopo aver chiuso gli occhi coglievo un'immagine del piede su un gradino di legno. E non era nella luce fioca di una lampada da sessanta watt: era illuminato dal sole.

Rimasi pietrificato.

«Vai avanti», disse Al. «Non ti accadrà niente di male compare. Vai avanti.» Tossì forte, poi, in una sorta di ringhio disperato: «Ho bisogno che tu lo faccia!»

E io lo feci.

Che Dio mi aiuti, io lo feci.

2

1

UN altro passo, e scesi un altro gradino. Gli occhi mi dicevano che stavo ancora sul pavimento della dispensa di Al, ma ero diritto e la mia testa non toccava più il soffitto. Cosa ovviamente impossibile. Lo stomaco cominciò a rivoltarsi, in risposta a quella confusione sensoriale, e sentivo il panino con uova e lattuga e la fetta di torta mangiati a pranzo prepararsi a premere il pulsante d'espulsione.

Alle mie spalle (eppure un po' distante, come se si trovasse a dieci metri da me anziché a un metro e mezzo) Al disse: «Chiudi gli occhi, compare. È più facile».

Quando obbedii (ancora una volta cogliendo quella strana immagine, solo che stavolta entrambi i piedi stavano sul gradino di legno), il senso di confusione svanì di colpo. Fu come raddrizzare lo sguardo dopo aver incrociato gli occhi. Oppure, come mettersi gli occhialini dopo aver iniziato a guardare un film 3D a occhio nudo. Sì, quello è un buon paragone. Mossi il piede destro e scesi di un altro gradino. Erano veri gradini: se tenevo gli occhi chiusi, il mio corpo non aveva dubbi al riguardo.

«Ancora due passi, poi riapri gli occhi», disse Al. Ora sembrava più distante che mai. Sembrava all'altro capo del ristorante anziché in piedi sulla soglia della dispensa.

Scesi col piede sinistro, poi di nuovo col destro, e all'improvviso sentii una specie di schiocco nella testa, come quando sei su un aereo e cambia la pressione. La cortina nera delle palpebre si fece rossa, e sentii calore sulla pelle. Era la luce del sole, non c'era dubbio. E quel lieve odore di zolfo si era fatto più denso, risalendo tutta la scala dall'appena percettibile all'effettivamente sgradevole. Anche su quello non c'era dubbio.

Riaprii gli occhi.

Non ero più nella dispensa. Non ero più nemmeno nell'edificio. Anche se la dispensa non aveva una porta sul mondo esterno, io ero fuori. Ero nel cortile, ma non era più pavimentato di mattoni, e non era più attorniato da outlet. Ero in piedi su una spianata di cemento sporco e dissestato. Svariati contenitori di metallo stavano appoggiati al muro bianco, nel punto dove avevo sempre visto Il tuo angolo di Maine. Erano accatastati, pieni di qualcosa e coperti da grandi teli di iuta marrone.

Mi girai per guardare il prefabbricato che conteneva la tavola calda di Al, ma non c'era più.

2

Al suo posto c'era la grande, rossa, dickensiana mole della Worumbo Filati & Tessuti, ed era nel pieno dell'attività. Sentivo il rombo degli impianti di tintura ed essiccatura, lo shat-HOOSH, shat-HOOSH degli enormi telai meccanici che un tempo avevano riempito il primo piano (avevo visto fotografie di quei macchinari, manovrati da donne in tuta e con fazzoletti in testa, nella piccola sede della Lisbon Historical Society, in Upper Main Street). Fumo grigiastro usciva da tre alte ciminiere che non avevo mai visto se non in fotografia: le aveva abbattute una tempesta negli anni Ottanta.

Ero accanto a un imponente edificio cubico, dipinto di verde. Doveva essere l'essiccatoio. Riempiva metà del cortile e arrivava a un'altezza di circa sei metri. Io avevo sceso una scala, ma ora non c'era nessuna scala. Nessun modo di tornare indietro. Mi colse un'ondata di panico.

«Jake?» Era la voce di Al, ma si sentiva appena. Sembrava giungermi alle orecchie grazie a un mero effetto acustico, come una voce che rimbalza per chilometri in una vallata lunga e stretta. «Puoi tornare indietro per la stessa via dell'andata. Cerca il gradino coi piedi.»

Alzai il piede sinistro, lo abbassai, e sentii il gradino. Il panico si attenuò.

«Vai avanti.» Un debole invito, una voce che sembrava amplificata dai suoi stessi echi. «Dai un'occhiata in giro, poi torna qui.»

Sulle prime non andai da nessuna parte: rimasi immobile, e mi asciugai la bocca col palmo della mano. Gli occhi parevano volermi uscire dalle orbite. Il mio cuoio capelluto e una striscia di pelle che scendeva fino a metà schiena erano accapponati. Ero impaurito, quasi terrorizzato, ma a compensare e tenere a bada il panico (almeno per il momento) c'era una potente curiosità. Vidi la mia ombra sul cemento, nitida come se fosse ritagliata su tela nera. Vidi sprazzi di ruggine sulla catena che chiudeva e delimitava l'essiccatoio. Annusai il potente fumo di scarico che usciva dalla tripla ciminiera, tanto forte da pungere gli occhi. Un ispettore della Protezione Ambientale, alla minima fiutata di quella merda, avrebbe chiuso all'istante l'intero stabilimento. Solo che… Non mi sembrava probabile che vi fossero ispettori nelle vicinanze. Non ero nemmeno certo che la Protezione Ambientale esistesse già. Sapevo dove mi trovavo: a Lisbon Falls, Maine, nel cuore della contea di Androscoggin.

La vera domanda non era dove, ma quando.

3

Appeso alla catena c'era un cartello, ma non riuscivo a leggerlo, perché la scritta era dall'altra parte. Feci per raggiungerlo, ma poi mi girai. Chiusi gli occhi e mossi i piedi in avanti, tenendo a mente che dovevo fare passi da bimbo. Quando il piede sinistro colpì il gradino più basso della scala che riportava alla dispensa di Al (o almeno, speravo che mi ci riportasse), infilai la mano nella tasca posteriore dei calzoni ed estrassi un foglio ripiegato. Era il promemoria che mi aveva lasciato il direttore del dipartimento: Passa una buona estate, e in luglio non scordarti la data del corso di aggiornamento. Mi chiesi che ne avrebbe pensato se Jake Epping, l'anno venturo, avesse fatto un corso di sei settimane sulla «Letteratura di viaggi nel tempo». Dopodiché, strappai un lembo del biglietto, lo accartocciai e lo lasciai cadere sul primo gradino della scala invisibile. Toccò terra, ovviamente, ma almeno segnava il punto esatto. Era un pomeriggio caldo e senza vento, e non pensavo che sarebbe volato via, ma presi comunque un pezzetto di cemento da usare come fermacarte, per essere sicuro. Atterrò sul gradino, ma atterrò anche sul pezzo di carta, perché… il gradino non c'era. Mi sovvenne una vecchia canzoncina: «Prima c'è una montagna, poi non c'è una montagna, poi c'è».

Dai un'occhiata in giro, aveva detto Al, e decisi che lo avrei fatto. Pensai che, se non ero già impazzito, sarei rimasto sano ancora per un po'. A meno di non vedere una parata di elefanti rosa o un UFO fermo sopra l'autosalone di John Crafts, ovviamente. Provai a dirmi che non stava succedendo, che non poteva succedere, ma non fui in grado di convincermi. I filosofi e gli psicologi possono anche fare distinguo su cosa sia reale e cosa no, ma noialtri che viviamo vite normali conosciamo e accettiamo la forma del mondo intorno a noi. Stava succedendo. A parte tutto, c'era troppa puzza perché fosse un'allucinazione.

Raggiunsi la catena, che era all'altezza delle mie cosce, e ci passai sotto. Sull'altro lato del cartello, in vernice nera, la scritta: VIETATO L'ACCESSO FINO A RIPARAZIONE DEL TUBO FOGNARIO. Mi guardai alle spalle, non vidi segni di riparazioni imminenti, girai l'angolo dell'essiccatoio e quasi inciampai sull'uomo seduto al sole. Non che potesse pensare di abbronzarsi: portava un vecchio soprabito nero che lo avvolgeva come un'ombra informe. Su entrambe le maniche c'erano tracce di muco secco. Il corpo dentro il soprabito era magro, quasi emaciato. I capelli grigi pendevano a ciocche ai lati delle guance ispide. La perfetta rappresentazione del barbone avvinazzato.

In bilico sulla testa, un sudicio cappello di feltro pendeva all'indietro.

Sembrava uscito da un film noir degli anni Cinquanta, di quelli dove le donne hanno grandi tette e tutti gli uomini parlano in fretta con sigarette tra le labbra. E sì, dalla fascia del cappello, come un vecchio lasciapassare da giornalista, sbucava un cartoncino giallo. Un tempo doveva essere stato di un giallo brillante, ma a forza d'esser maneggiato da mani sozze, si era fatto opaco.

Quando la mia ombra cadde sulle sue gambe, l'Uomo con la Tessera Gialla si girò verso di me e mi squadrò con occhi cisposi.

«E tu chi cazzo sei?» mi chiese, ma venne fuori come «tu ch' cazz' se'?»

Al non mi aveva dato istruzioni su come rispondere alle domande, perciò diedi la risposta che mi sembrava più sicura: «Fatti i cazzi tuoi».

«Be', vaffanculo!»

«Allora siamo d'accordo.»

«Eh?»

«Buona giornata», gli dissi, e feci per incamminarmi verso il cancello. Era di quelli a scorrimento, ed era aperto. Oltre l'uscita, sulla sinistra, c'era un parcheggio che non avevo mai visto prima. Era pieno di auto, molte delle quali malridotte, e tutte quante abbastanza vecchie da poter stare in un museo. C'erano Buick con le prese d'aria laterali e Ford coi musi a torpedine. Appartengono a veri operai della fabbrica, pensai. Veri operai, che lavorano là dentro in questo preciso istante.

«Ho una tessera gialla del posto verde», disse il beone. Aveva un tono al tempo stesso truce e disperato. «Dammi un dollaro, perché oggi è il giorno del vale-doppio.»

Gli mostrai la moneta da cinquanta centesimi. Poi, sentendomi un attore che ha una sola battuta, dissi: «Non posso darti un dollaro, ma eccoti mezzo pezzo».

E glielo dai, aveva detto Al, ma non ne ebbi bisogno. L'Uomo con la Tessera Gialla me lo strappò di mano e se lo tenne davanti alla faccia. Per un momento credetti che lo avrebbe morso, ma si limitò a chiudere a pugno le dita lunghe e scarne, facendo scomparire la moneta. Tornò a fissarmi, con un'espressione quasi comica di diffidenza.

«Chi sei tu? Cosa ci fai qui?»

«Che io sia dannato se ne ho la minima idea», dissi, e tornai a dirigermi verso il cancello. Mi aspettavo che mi gridasse qualche altra domanda, ma ci fu solo silenzio, e così varcai l'uscita.

4

Nel parcheggio, l'auto più nuova era una Plymouth Fury della seconda metà degli anni Cinquanta, almeno così mi parve. La targa sembrava una versione impossibilmente antiquata di quella della mia Subaru. Su richiesta della mia ex moglie, sulla mia targa c'era un nastro rosa, di quelli per la prevenzione del cancro al seno. Su quella che stavo guardando c'era scritto, come adesso, VACATIONLAND, ma era arancione anziché bianca. Come in molti Stati, ora le targhe del Maine hanno numeri e lettere. Quella della mia Subaru era 23383 IY. Ma quella della Fury bianca e rossa quasi nuova era 90-811. Soltanto numeri.

Toccai il cofano. Era duro e arroventato dal sole. Era reale.

Attraversa i binari e sarai all'incrocio tra Main Street e Lisbon Street.

Dopodiché, compare, il mondo è tuo.

Non c'erano binari ferroviari di fronte alla vecchia fabbrica. Non ai miei tempi. Eppure adesso c'erano. E non erano abbandonati: erano lucidi, scintillanti. E lontano, da qualche parte, si sentiva il ciuf-ciuf di un vero treno. Quand'era stata l'ultima volta che un treno aveva attraversato Lisbon Falls? Probabilmente quando la fabbrica era ancora aperta e la US Gypsum (che gli abitanti chiamavano «US Gyp'Em», US frégali) funzionava ventiquattr'ore su ventiquattro.

E adesso sta funzionando, pensai. Posso scommetterei. E così la tessitura.

Perché questo non è il secondo decennio del ventunesimo secolo.

Senza nemmeno pensarci, avevo ripreso a camminare, come in sogno. Mi ritrovai all'incrocio tra Main Street e la Route 196, nota anche come Old Lewiston Road. Solo che non era vecchia per niente. E dall'altra parte dell'incrocio…

La Kennebec Fruit Company. Nome altisonante, per un negozio che tirava avanti sull'orlo dell'oblio da almeno dieci anni, cioè da quando insegnavo alla LHS. La sua improbabile raison d'être e unico mezzo di sostentamento era il Moxie, la più strana delle bibite gassate. Una volta il proprietario del negozio, un signore anziano e bonario di nome Frank Anicetti, mi aveva detto che la popolazione del mondo si divideva naturalmente (e magari per retaggio genetico) in due gruppi: la piccola e fortunata élite che, tra tutte le bevande, preferiva il Moxie, e l'insieme di tutti gli altri, che Frank chiamava «la sventurata, svantaggiata maggioranza».

Ai miei tempi, la Kennebec Fruit Company era un cubo dalla sbiadita facciata verde e gialla, con una vetrina sporca e spoglia di merci… a meno che il gatto che ogni tanto ci dormiva non fosse in vendita. Il tetto era infossato per via dei troppi inverni nevosi. Dentro c'era ben poco, a parte i souvenir a tema Moxie: magliette arancione con la scritta IO BEVO MOXIE!, cappellini arancione, calendari vintage, e insegne di latta che sembravano vintage ma probabilmente le avevano fabbricate in Cina l'anno prima. Per buona parte dell'anno il negozio era deserto e quasi tutti gli scaffali vuoti… Anche se potevi ancora trovare qualche snack dolce o un sacchetto di patatine (se ti piacevano quelle aromatizzate all'aceto). Il frigo delle bibite conteneva solo Moxie. Quello delle birre era vuoto.

Tutti gli anni, a luglio, Lisbon Falls ospitava il Maine Moxie Festival.

C'erano bande, fuochi d'artificio e una parata che includeva (giuro che è vero) coppe di Moxie-e-gelato e reginette di bellezza autoctone in costume da bagno Moxie, cioè di un arancione tanto acceso da bruciarti la retina. Il cerimoniere era in costume da Dr. Moxie, ossia aveva un camice bianco, uno stetoscopio e uno specchio frontale. Due anni prima, aveva indossato quei panni la preside della LHS, Stella Langley, e di quell'immagine non si sarebbe più liberata.

Durante il festival, la Kennebec Fruit Companytornava alla vita e faceva grandi affari, principalmente grazie ad attoniti turisti diretti verso i luoghi di villeggiatura del Maine occidentale. Per tutto il resto dell'anno, il negozio era poco più di un guscio vuoto, infestato da un lieve odore di Moxie che mi ricordava sempre (probabilmente perché appartengo alla sventurata, svantaggiata maggioranza) il Musterole, portentosamente fetida sostanza che mia madre insisteva a spalmarmi sulla gola e sul petto quando avevo il raffreddore.

Ma quello che stavo guardando dalla parte opposta dell'incrocio, sul lato dell'Old Lewiston Road, era un negozio prosperoso e pieno di vita. L'insegna appesa sopra l'ingresso (RINFRESCATI CON 7 -UP in cima, e BENVENUTO ALLA KENNEBEC FRUIT COMPANY più in basso) era tanto luminosa da lanciarmi dardi di sole negli occhi. La pittura era recente, il tetto in perfetto stato. La gente entrava e usciva. E nella vetrina, al posto del gatto …

… Arance, mio Dio. Un tempo, la Kennebec Fruit Company aveva davvero venduto frutta. Chi l'avrebbe mai detto?

Stavo per attraversare l'incrocio, ma arretrai mentre una corriera veniva sbuffando verso di me. Al di sopra del parabrezza diviso in due, vidi la scritta LEWISTON EXPRESS. Quando frenò per fermarsi al passaggio a livello, notai che quasi tutti i passeggeri stavano fumando. A bordo, l'atmosfera doveva essere simile a quella di Saturno.

Quando il mezzo fu ripartito (lasciandosi dietro un tanfo di gasolio semicombusto che si mischiò a quello di uova marce proveniente dalle ciminiere della Worumbo), attraversai la via, chiedendomi per un istante cosa sarebbe accaduto se mi avesse investito un'auto. Sarei svanito nell'inesistenza? Mi sarei svegliato sul pavimento della dispensa di Al? Probabilmente, nessuna delle due ipotesi. Sarei morto lì, in un passato del quale molta gente provava nostalgia, forse perché si era scordata di quanto fosse puzzolente, o perché non aveva mai preso in considerazione quell'aspetto dei Bei Vecchi Anni Cinquanta.

Sull'uscio del negozio c'era un ragazzo, con un piede inguainato in uno stivaletto nero appoggiato allo stipite. Il colletto della camicia era alzato sulla nuca, e i capelli pettinati in uno stile che riconobbi, grazie ai vecchi film, come «Elvis prima maniera». A differenza dei ragazzi che ero abituato a vedere nelle mie classi, non aveva alcun pizzetto, nemmeno un ciuffetto sotto il mento. Mi resi conto che nel mondo che stavo visitando (e speravo fosse solo una visita), lo avrebbero cacciato a pedate dalla LHS se solo si fosse presentato con qualche pelo in faccia. All'istante.

Lo salutai con un cenno del mento. James Dean ricambiò il gesto e disse:

«Ciao ciao, paparino».

Entrai. Sopra la porta, suonò una campanella. Al posto della polvere e del legno vecchio, sentii odore di arance, mele, caffè e tabacco fragrante. Alla mia destra c'era un espositore carico di albi a fumetti (Archie, Batman, Captain Marvel, Plastic Man e Tales from the Crypt). Il cartello, scritto in stampatello, avrebbe provocato convulsioni a qualunque frequentatore di eBay: FUMETTI – 5 CENT L'UNO; TRE PER 10 CENT; NOVE PER 1/4 DI $ – SI PREGA DI NON SFOGLIARE SE NON INTENZIONATI ALL'ACQUISTO.

Sulla sinistra, un espositore di giornali. Niente New York Times, ma c'erano copie del Portland Press Herald e una del Boston Globe. Il titolone del Globe diceva: «Dulles accenna a concessioni se la Cina rinuncia alla forza contro Formosa». Su entrambi i quotidiani, la data era martedì 9 settembre 1958.

5

Presi il Globe, che costava otto centesimi, e mi avviai al bancone col ripiano in marmo, che ai miei tempi non esisteva più. Dietro di esso, ecco Frank Anicetti.

Era proprio lui, fino ai capelli brizzolati sopra le orecchie. Solo che quella versione – chiamiamola Frank 1.0 – era magra anziché paffuta, e portava lenti bifocali senza montatura. Era anche più alto. Sentendomi un estraneo nel mio stesso corpo, mi accomodai su uno degli sgabelli.

Anicetti indicò il giornale: «Prende solo quello o vuole qualcosa da bere?»

«Qualunque cosa purché sia fredda e non sia Moxie», mi sentii rispondere. Frank 1.0 sorrise. «Non lo teniamo, figliolo. Va bene una root beer?»

«Va benissimo.» Ed era vero. Avevo la gola secca e la testa bollente. Mi sembrava di avere la febbre.

«Cinque o dieci?»

«Come, scusi?»

«Una tazza da cinque o da dieci cent?» chiese, con un forte accento del Maine.

«Oh, da dieci, direi.»

«E io direi che dice bene.» Aprì il congelatore e tirò fuori una tazza ghiacciata, grande quasi quanto una caraffa da limonata. La riempì da una spina, e sentii subito l'aroma dell'estratto di radici, denso e forte. Rimosse la schiuma di troppo col manico di un cucchiaio di legno, poi riempì la tazza fino all'orlo e la posò sul bancone. «Ecco qui. Questa e il giornale fanno diciotto cent, più un penny per il governatore.»

Gli allungai uno dei dollari vintage di Al, e Frank 1.0 mi diede il resto.

Bevvi un sorso attraverso la schiuma, e rimasi sbalordito. Era… pieno.

Saporito. Non saprei come esprimere la sensazione meglio di così. Quanto a odori, quel mondo scomparso da cinquant'anni era peggio di quel che mi sarei aspettato, ma quanto a sapori era molto, molto meglio.

«È fantastica», dissi.

«Sì? Mi fa piacere che la apprezzi. Non è di queste parti, vero?»

«No.»

«Viene da un altro Stato?»

«Dal Wisconsin», dissi. Non era del tutto falso: la mia famiglia aveva vissuto a Madison fin quando mio padre non aveva ottenuto una cattedra di inglese all'Università del Maine. Io avevo undici anni. Da allora, mi ero sempre mosso nei confini dello Stato.

«Be', ha scelto il momento giusto per venire qui», disse Anicetti. «Quasi tutti i vacanzieri se ne sono già andati, e appena succede, i prezzi calano. Quello che sta bevendo, per esempio: dopo il Labor Day, una root beer da dieci cent costa solo un decimo di dollaro.»

La campanella sull'uscio suonò, le assi del pavimento scricchiolarono. Era uno scricchiolio simpatico. L'ultima volta che mi ero avventurato nel negozio, sperando di trovare un antiacido (ero rimasto deluso), le assi avevano mandato un gemito.

Un ragazzo che doveva avere diciassette anni si mise dietro il bancone. I capelli neri erano tagliati corti, anche se non proprio da marine. La somiglianza con l'uomo che mi aveva appena servito era inequivocabile, e mi resi conto che era quello il «mio» Frank Anicetti. Il tizio che aveva tolto la schiuma dalla mia bibita era suo padre. Frank 2.0 non mi dedicò più di una fugace occhiata, per lui ero un cliente qualunque.

«Titus ha cominciato a lavorare al furgone», disse a suo padre. «Dice che sarà pronto prima delle cinque.»

«Bene», rispose Anicetti senior, e si accese una sigaretta. Solo a quel punto vidi che il ripiano di marmo del bancone era costellato di piccoli posacenere in ceramica, su cui era scritto WINSTON HA IL SAPORE GIUSTO. LA SIGARETTA COME SI DEVE. Mi guardò e disse: «Vuole una cucchiaiata di vaniglia nella root beer? Offre la casa. Ci piace trattare bene i turisti, specialmente quando arrivano a fine stagione».

«Grazie, ma va bene così», dissi, ed era vero. Un altro po' di dolcezza e la mia testa sarebbe esplosa. Ed era forte. Come bere un espresso gassato.

Il ragazzo mi rivolse un sorriso dolce come il liquido nella tazza ghiacciata.

Non c'era traccia del divertito disdegno che avevo sentito nell'aspirante Elvis, là fuori. «A scuola abbiamo letto un racconto», disse, «in cui gli abitanti di un villaggio divorano i turisti se arrivano fuori stagione.»

«Frankie, ti pare una cosa da dire a un visitatore?» fece Anicetti senior, ma stava sorridendo.

«Non c'è problema», dissi. «Ho fatto leggere anch'io quel racconto ai miei studenti. È di Shirley Jackson, no? Gente d'estate.»

«Proprio quello», rispose Frank. «Non ci ho capito molto, ma mi è piaciuto.»

Bevvi un altro sorso di birra, e quando posai la tazza (fece un bel suono, pieno e soddisfacente, sul marmo del bancone), non mi sorprese vedere che l'avevo quasi finita. Potrei diventarne dipendente, pensai. Gli spacca il culo, al Moxie.

L'Anicetti più vecchio soffiò una nuvoletta di fumo verso il soffitto, dove un ventilatore la disperse con le sue pigre pale azzurre. «Lei insegna in Wisconsin, signor…?»

«Epping», risposi, troppo colto alla sprovvista per pensare a un nome falso.

«Sì, ma questo è il mio anno sabbatico.»

«Vuoi dire che si è preso un anno di ferie», spiegò Frank.

«Lo so cosa vuol dire», disse suo padre. Stava cercando di sembrare infastidito, ma non ci riusciva molto bene. Decisi che quei due mi piacevano almeno quanto la root beer. Mi piaceva persino l'aspirante teppistello là fuori, se non altro perché non sospettava di essere già uno stereotipo. Quel posto mi dava un senso di sicurezza, un senso di, non saprei… predeterminazione. Era sicuramente infondato, perché quel mondo era pericoloso come ogni altro, ma possedevo un pezzo di conoscenza che, fino a quel pomeriggio, avrei pensato riservato a Dio: sapevo che quel ragazzo sorridente a cui era piaciuto il racconto di Shirley Jackson (anche se «non ci aveva capito molto») sarebbe vissuto per tutto quel giorno e per più di cinquant'anni. Non sarebbe morto in un incidente stradale, non avrebbe avuto un infarto, non gli sarebbe venuto un cancro ai polmoni per colpa del fumo passivo. Frank Anicetti sarebbe vissuto.

Guardai l'orologio sulla parete (INIZIA LA GIORNATA CON UN SORRISO, diceva il quadrante, BEVI CAFFÈ CHEER-UP). Faceva le 12:22. Un'ora che per me non significava nulla, ma finsi di restare sorpreso. Bevvi il resto della mia bibita e mi alzai. «Devo muovermi, se voglio arrivare puntuale all'appuntamento coi miei amici di Castle Rock.»

«Be', stia attento sulla Route 117», disse Anicetti. «Quella strada è una carogna.» Erano anni che non sentivo un accento del Maine così forte. Poi mi resi conto che era letteralmente vero, e quasi mi scappò da ridere.

«Grazie, starò attento. E… figliolo? Riguardo a quel racconto di Shirley Jackson…»

«Sì, signore?» Signore. E detto senza alcun sarcasmo. Stavo per concludere che il 1958 era davvero un buon anno. Fatta eccezione per il tanfo della fabbrica e le sigarette, ovviamente.

«Non c'è niente da capire.»

«No? Non è quello che ha detto il professar Marchant.»

«Con il dovuto rispetto per il professar Marchant, riferiscigli quel che ti ha detto Jake Epping: a volte un sigaro è solo una cosa che si fuma, e un racconto è solo un racconto.»

Rise forte. «Lo farò! Ce l'ho domani alla terza ora!»

«Bene.» Salutai suo padre con un cenno del mento. Quanto mi sarebbe piaciuto dirgli che, grazie al Moxie, il suo negozio sarebbe rimasto all'incrocio di Main Street e Old Lewiston Road per molti anni dopo la sua morte. «Grazie per la root beer.»

«Torni quando vuole, amico, sto pensando di abbassare il prezzo della tazza grande.»

«A un decimo di dollaro?»

Sorrise. Come suo figlio, aveva il sorriso facile e sincero.

«Adesso sì che mi capisce!»

La campanella tintinnò di nuovo. Entrarono tre signore.

Niente pantaloni: portavano sottane lunghe fino alle caviglie. E cappellini! Due con veletta. Iniziarono a controllare la frutta nelle cassette, in cerca della perfezione. Mi staccai dal bancone, ma mi venne in mente una cosa e tornai a rivolgermi ad Anicetti.

«Mi può dire cos'è il 'posto verde'?»

Padre e figlio si scambiarono un'occhiata divertita che mi fece pensare a una vecchia storiella. Un turista di Chicago alla guida di una bella macchina sportiva si ferma di fronte a una fattoria. Il vecchio contadino è seduto sotto il portico e fuma una pipa fatta col tutolo del granturco. Il turista si sporge dal finestrino della Jaguar e chiede: «Ehi, vecchio, come ci arrivo a East Machias?» Il vecchio, pensieroso, tira altre due boccate dalla pipa e dice: «Non muoverti di un dannato centimetro».

«Lei è proprio un forestiero, eh?» chiese Frank. Il suo accento non era marcato come quello del padre. Probabilmente guarda più TV, pensai. Niente come la TV erode un accento locale.

«Sì, lo sono.»

«È strano, perché mi sembrava di sentire una cadenza yankee.»

«È la cadenza di noi yooper. Hai presente la Penisola Superiore?» Solo che – oh, cazzo! – la Penisola Superiore è il Michigan, non il Wisconsin. Ma nessuno di loro si accorse dell'errore. Anzi, il giovane Frank si scostò e si mise a lavare i piatti. A mano.

«Il 'posto verde' è il negozio di alcolici», disse Anicetti. «Proprio dall'altra parte della strada, se vuole prendersi una pinta o qualcosa del genere.»

«Sono già soddisfatto della root beer», dissi. «Ero solo curioso. Buona giornata.»

«Anche a lei. E torni a trovarci.»

Passai oltre il terzetto che esaminava la frutta, mormorando: «Buongiorno, signore». Mi sarebbe piaciuto avere un cappello, per toccarmi la tesa in segno di rispetto. Magari uno di feltro.

Come quelli che vedi nei vecchi film.

6

L'aspirante teppista aveva lasciato la postazione. Pensai di incamminarmi lungo Main Street per vedere cos'altro fosse cambiato, ma il proposito durò un secondo. Non aveva senso sfidare la sorte. E se qualcuno mi avesse chiesto dei miei vestiti? La mia giacca sportiva e i pantaloni non dovevano sembrare troppo strani, ma potevo esserne certo? Poi c'era il taglio di capelli: mi arrivavano al colletto della camicia. Nella mia epoca, era una cosa del tutto normale per un insegnante di liceo (addirittura un look conservatore), ma avrebbe potuto attirarmi occhiate in un decennio in cui rasare la nuca era normale compito di ogni barbiere e le basette erano esclusiva di ragazzotti rockabilly come quello che mi aveva chiamato «paparino». Certo, potevo dire di essere un turista, spiegare che in Wisconsin tutti gli uomini portavano i capelli un po' più lunghi e presto la moda sarebbe arrivata anche lì, ma i vestiti e i capelli (quella sensazione di stagliarsi sullo sfondo, come un extraterrestre che ha assunto sembianze umane basandosi su dati approssimativi) era solo parte del problema.

A dirla tutta, ero proprio alterato. La mia mente non vacillava, penso che un essere umano abbastanza equilibrato possa assorbire molte stranezze prima di vacillare, ma alterato lo ero, e seriamente. Continuavo a pensare a quelle signore con le loro gonne lunghe e i cappellini, donne che avrebbero provato imbarazzo al solo mostrare una spallina di reggiseno. E il sapore di quella root beer. La pienezza di quel sapore.

Dall'altra parte della strada c'era un modesto negozio con la scritta VENDITA ALCOLICI realizzata in lettere adesive sulla vetrina. E, sì, la facciata era verde chiaro. All'interno, riconobbi il mio amico dell'essiccatoio. Il lungo soprabito nero pendeva dalle spalle sottili come una gruccia. Si era tolto il cappello, e aveva i capelli sparati come quelli del personaggio di una vignetta che ha appena inserito il dito A nella presa elettrica B. Gesticolava con entrambe le mani, rivolto al commesso, e vidi che in una teneva la preziosa tessera gialla. Ero sicuro che nell'altra ci fosse il «mezzo pezzo» di Al Templeton. Il commesso, che indossava una corta tunica bianca abbastanza simile al camice del Dr. Moxie, non sembrava granché impressionato.

Arrivai all'incrocio, attesi il momento buono e attraversai, tornando sul lato dell'Old Lewiston Road dove c'era la Worumbo. Due uomini attraversavano il cortile spingendo un carrello carico di balle di tessuto. Fumavano e ridevano. Mi chiesi se avessero la minima cognizione di cosa il fumo di sigaretta, unitamente all'inquinamento della fabbrica, stesse facendo ai loro organi interni, e immaginai di no. E forse non saper niente era una benedizione, anche se era più una questione da insegnante di filosofia che da persona che si guadagna il pane spiegando ai sedicenni le meraviglie di Shakespeare, Steinbeck e Shirley Jackson.

Quando entrarono nello stabilimento, spingendo il loro carrello tra le fauci arrugginite di un portale alto tre piani, raggiunsi la catena con il cartello VIETATO L'INGRESSO. Mi dissi di non camminare troppo veloce, e di non guardarmi intorno, insomma di non fare nulla che potesse attirare l'attenzione, ma era difficile. Ora che ero quasi tornato al punto di partenza, la tentazione di muovermi in fretta era quasi irresistibile. Avevo la bocca secca, e tutta la root beer che avevo bevuto mi danzava nello stomaco. E se non fossi riuscito a tornare indietro? Se il foglietto che avevo usato per indicare il punto giusto fosse volato via? E se fosse stato ancora lì, ma fossero svaniti i gradini?

Calma, mi dissi. Calma.

Non potei fare a meno di sbirciarmi intorno prima di passare sotto la catena. Il cortile era tutto per me. Lontano, da qualche parte, come un suono proveniente da un sogno, sentii ancora quel basso ciuf-ciuf al diesel. Mi venne in mente il verso di un'altra canzone: «Questo treno ha il blues della ferrovia che scompare».

Camminai lungo la fiancata verde dell'essiccatoio, col cuore che batteva forte, alto nel petto. Il pezzetto di carta e il fermacarte di cemento erano ancora al loro posto. Fin lì, tutto bene. Allontanai il cemento con un calcetto, pensando: Ti prego, Dio, fa' che funzioni. Ti prego, Dio, fammi tornare indietro.

La punta della mia scarpa toccò il pezzo di cemento (lo vidi rotolare via), ma si fermò anche contro il gradino. Le due cose si escludevano a vicenda, eppure accaddero entrambe. Di nuovo mi guardai intorno, benché dal cortile nessuno potesse vedermi in quel vicolo, a meno di passare proprio davanti all'uno o all'altro imbocco. E non stava passando nessuno.

Salii sul primo gradino. Il mio piede lo sentiva, anche se gli occhi mi dicevano che stavo ancora sul cemento crepato del piazzale. Dal fondo dello stomaco, la root beer mandò un altro avviso. Chiusi gli occhi e mi sentii un po' meglio. Salii sul secondo gradino, poi sul terzo. Erano bassi, quei gradini. Quando salii sul quarto, il caldo dell'estate abbandonò la mia nuca e il buio oltre le palpebre si fece più fitto. Cercai di salire sul quinto gradino, solo che non c'era nessun quinto gradino. La mia testa sbatté contro il basso soffitto della dispensa. Una mano mi afferrò l'avambraccio e io quasi mi misi a urlare.

«Rilassati», disse Al. «Rilassati, Jake. Sei tornato.»

7

Mi offrì un caffè, ma io scossi il capo. Avevo ancora lo stomaco sottosopra.

Ne prese uno lui, e tornammo al séparé dove era iniziato quel viaggio da folli. Il mio portafogli, il cellulare e il denaro erano ordinatamente disposti al centro del tavolo. Al sedette con un gemito di dolore e di sollievo. Sembrava un po' meno teso e un poco più calmo.

«Allora», disse, «sei andato e sei tornato. Che ne pensi?»

«Al, non lo so cosa ne penso. Sono scosso fino alle fondamenta. L'hai scoperta per caso, questa cosa?»

«Certo che sì. Meno di un mese dopo aver aperto bottega qui. Dovevo avere ancora la terra di Pine Street sui tacchi delle scarpe. La prima volta sono addirittura caduto da quella scala, come Alice nella buca del coniglio. Pensavo di essere impazzito.»

Potevo immaginarlo. Io almeno avevo avuto un po' di preparazione, per quanto inadeguata. Ma a pensarci bene, c'era davvero una maniera adeguata di preparare una persona a un viaggio indietro nel tempo?

«Quanto tempo sono stato via?»

«Due minuti. Te l'ho detto, sono sempre due minuti, non importa quanto ti trattieni.» Tossì forte, sputò in un nuovo fagotto di tovagliolini, lo ripiegò lo e mise in tasca. «E quando scendi quegli scalini, sono sempre le 11:58 del 9 settembre 1958. Ogni viaggio è il primo viaggio. Dove sei andato?»

«Alla Kennebec Fruit Company. Ho bevuto una root beer. Era fantastica.»

«Sì, quella roba è migliore, là. Meno conservanti, o qualcosa del genere.»

«Conosci Frank Anicetti? L'ho incontrato da diciassettenne.»

Chissà perché mi ero aspettato che Al ridesse, ma la prese come una cosa normale. «Certo. L'ho incontrato tante volte. Ma lui mi incontra una volta sola. Nel passato, intendo. Per Frank, ogni volta è la prima volta. Lui entra, giusto? Viene dall'officina Chevron: 'Titus ha cominciato a lavorare al furgone', dice a suo padre. 'Dice che sarà pronto prima delle cinque.' L'ho sentita almeno cinquanta volte. Non è che vado sempre in quel negozio, quando torno là, ma se ci entro, la sento. Poi arrivano le donne per comprare la frutta. La signora Symonds e le sue amiche. E come vedere sempre lo stesso film, una volta dopo l'altra.»

«Ogni volta è la prima volta», dissi lentamente, facendo una pausa dopo ogni parola, cercando di trovarci un senso.

«Esatto.»

«E ogni persona che incontri ti sta incontrando per la prima volta, non importa quante volte tu l'abbia già incontrata.»

«Proprio così.»

«Potrei tornare là e avere la stessa conversazione con Frank e suo padre, e loro non lo saprebbero.»

«Di nuovo esatto. O potresti cambiare qualcosa, tipo ordinare un banana split al posto della root beer, e da quel momento la conversazione andrebbe da un'altra parte. L'unico che sembra sospettare qualcosa è l'Uomo con la Tessera Gialla, ma è troppo fottuto dal vino per rendersi conto di cosa sta sentendo. Ammesso e non concesso che sia come penso io, e lui senta davvero qualcosa. Se è così, è perché sta seduto vicino alla buca del coniglio. O qualunque cosa sia. Forse crea una specie di campo di forze. Lui…»

Gli venne un altro attacco di tosse e non riuscì a proseguire. Vederlo chinato in avanti, con la mano sul fianco, nel tentativo di non far vedere quanto dolore provasse, di non mostrare che quella cosa lo stava lacerando dentro, era già abbastanza doloroso. Non può andare avanti così, pensai. Era a una settimana dal ricovero in ospedale. Forse mancavano solo pochi giorni. E non era per quello che mi aveva chiamato? Perché doveva passare quell'incredibile segreto a qualcuno prima che il cancro gli chiudesse la bocca per sempre?

«Pensavo di riuscire a spiegarti tutto questo pomeriggio, ma non ce la faccio», disse Al quando riprese il controllo di sé. «Devo andare a casa, prendere un po' della mia droga, e sollevare i piedi. In tutta la vita non ho mai preso niente di più forte di un'aspirina, e quella merda di OxyContin mi spegne come un lume al vento. Dormirò per sei ore o giù di lì e per un po' mi sentirò meglio. Un po' più forte. Puoi venire da me verso le nove e mezzo?»

«Potrei, se sapessi dove vivi.»

«È un piccolo cottage su Vining Street. Numero 19. Cerca il nano da giardino accanto al portico. Non puoi sbagliare. Sventola una bandiera.»

«Di cosa dobbiamo parlare, Al? Voglio dire… Me l'hai fatto vedere. Adesso ti credo.» Ed era vero, ma… per quanto? La mia breve visita al 1958 stava già assumendo la consistenza sbiadita di un sogno. Ancora qualche ora (o qualche giorno) e probabilmente avrei potuto convincere me stesso che era stato un sogno.

«Dobbiamo parlare di un sacco di cose, compare. Allora, ci sarai?» Non ripeté «ultima richiesta di un moribondo», ma lo disse con lo sguardo.

«Va bene. Vuoi un passaggio a casa?»

I suoi occhi ebbero un guizzo. «Ho il mio furgone, e sono solo cinque isolati.

Ce la faccio da solo.»

«Certo che ce la fai», dissi, sperando che il tono suonasse più convinto di quanto fossi io. Mi alzai e iniziai a rimettermi in tasca le mie cose. Trovai il rotolo di contanti che mi aveva dato, e lo tirai fuori. Ora capivo perché il biglietto da cinque era diverso. Probabilmente c'erano differenze anche nelle altre banconote.

Feci per restituirglielo, ma scosse il capo: «Nah, tienilo tu, io ne ho tanti».

Ma lo posai sul tavolo. «Se ogni volta è la prima volta, come fai ad avere ancora i soldi quando torni indietro? Come mai, la volta successiva, non scompaiono?»

«Non ne ho proprio idea, compare, te l'ho detto. Ci sono molte cose che non so. Ci sono delle regole, e alcune le ho capite, ma non tante.» Il suo viso si accese in un sorriso tenue ma sinceramente divertito. «Tu l'hai portata con te quella root beer, no? Sta ancora sguazzando nel tuo stomaco, giusto?»

Di fatto, sì.

«Bene, ci vediamo stasera, Jake. Io sarò più riposato e parleremo di tutto quanto.»

«Posso farti un'ultima domanda?»

Con la mano mi fece segno di procedere. Notai che le sue unghie, che aveva sempre tenuto scrupolosamente pulite, erano gialle e malandate. Un altro brutto segno. Non eloquente come l'aver perso quindici chili, ma comunque brutto. Mio padre diceva che si possono capire tante cose sulla salute di una persona semplicemente dallo stato delle sue unghie.

«Il Famoso Fatburger.»

«Cosa vuoi sapere?» domandò, ma c'era un sorriso in agguato agli angoli delle sue labbra.

«Puoi far pagare poco perché compri a poco, giusto?»

«Spalla macinata, comprata al Red & White», disse. «Cento cent al chilo. Ci vado ogni settimana. O almeno, ci andavo prima della mia ultima avventura, che mi ha portato molto lontano da Lisbon Falls. Mi rivolgo al signor Warren. Se gli chiedo quattro chili mi risponde: 'Arrivano subito'. Se gliene chiedo cinque o sei, mi dice: 'Deve darmi un minuto per macinargliene altra. Cos'è, un raduno di famiglia?'»

«Sempre lo stesso dialogo.»

«Già.»

«Perché è sempre la prima volta.»

«Esatto. Sembra il miracolo dei pani e dei pesci, se ci pensi. Io compro lo stesso macinato, settimana dopo settimana. L'ho dato da mangiare a centinaia o migliaia di persone, nonostante le cazzate sul catburger, ma si rigenera sempre.»

«Tu compri sempre la stessa carne, tutte le volte.» Stavo cercando di fermarmi il concetto nel cranio.

«La stessa carne, allo stesso giorno e alla stessa ora, dallo stesso macellaio, che dice sempre le stesse cose, a meno che io non attacchi la conversazione in modo diverso. Devo ammetterlo, compare, che a volte ho avuto la tentazione di arrivargli di fronte e dirgli: 'Come va, Warren, vecchio bastardo pelato? Ti sei scopato qualche gallina, ultimamente?' La volta dopo, lui non se ne ricorderebbe. Ma non l'ho mai fatto. Perché è un brav'uomo. Molta della gente che ho incontrato là nel passato è brava gente.» Nel dire questo, assunse un'aria pensosa.

«Non capisco come tu possa comprare carne là… Servirla qui… E poi ricomprarla.»

«Non lo capisco nemmeno io, Jake, e adesso basta, OK? Apprezzo davvero molto il fatto che tu sia ancora qui. Ho corso il rischio di farti scappare. E se è per questo, non eri nemmeno tenuto a rispondere al telefono, quando ho chiamato la scuola.»

Una parte di me rimpiangeva che non lo avessi fatto, ma non lo dissi. Probabilmente non ce n'era bisogno. Era malato, ma non cieco.

«Vieni a casa mia stasera. Ti dirò cos'ho in mente, e poi puoi fare qualunque cosa tu ritenga giusta. Ma dovrai decidere in fretta, perché ho poco tempo. È ironico, no? considerando dove portano gli scalini invisibili della mia dispensa.»

Più lentamente che mai, dissi: «Ogni… volta… è… la prima volta».

Sorrise ancora. «Credo che tu abbia ormai afferrato il concetto. Ci vediamo più tardi, va bene? Vining Street 19. Cerca il nano con la bandiera.»

8

Uscii dalla tavola calda alle tre e mezzo. Le sei ore che mi separavano dall'appuntamento non furono strane come il viaggio nella Lisbon Falls di cinquantatré anni prima, ma quasi. Il tempo pareva trascinarsi e allo stesso tempo accelerare. Tornai a casa, la casa che stavo comprando a Sabattus (Christy e io avevamo venduto quella di Lisbon Falls quando avevamo divorziato, dividendo il guadagno a metà). Pensavo di schiacciare un pisolino, ma ovviamente non riuscii a dormire. Dopo venti minuti trascorsi sdraiato sulla schiena, rigido come un manico di scopa e con gli occhi puntati al soffitto, andai in bagno a vuotare la vescica. Guardando l'urina scendere nella tazza, pensai: Questa è root beer del '58. Eppure, allo stesso tempo pensavo che erano tutte stronzate, che Al mi aveva in qualche modo ipnotizzato.

Era sempre quell'effetto di sdoppiamento, capite?

Tentai di finire la lettura delle tesine, e non mi stupii del fatto di non riuscirci. Brandire la temutissima penna rossa di Epping? Esprimere giudizi critici? Mi veniva da ridere. Non ero nemmeno in grado di connettere le parole. Accesi il «tubo» (rigurgito di slang dei Bei Vecchi Anni Cinquanta: oggi le TV non ce l'hanno più, un tubo) e feci un po' di zapping. Sulla TMC davano un vecchio film intitolato Dragstrip Girl. Mi ritrovai a guardare quelle vecchie auto e quegli adolescenti in preda al mal di vivere. Li guardai così intensamente che mi venne mal di testa, e spensi il televisore. Preparai carne e verdure saltate in padella, ma non riuscii a mangiarle benché avessi fame. Rimasi seduto a fissare il piatto, pensando ad Al Templeton che aveva servito sempre le stesse quattro-cinque chili di hamburger, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Era davvero il miracolo dei pani e dei pesci, e che importava se, a causa del prezzo stracciato, circolavano quelle voci sugli hamburger di gatto? Visto quello che pagava per quella carne, doveva aver realizzato un profitto assurdo su ogni singolo pezzo.

Quando mi accorsi che stavo girando in tondo nella cucina (incapace di dormire, incapace di leggere, incapace di guardare la TV, buon cibo gettato nel tritarifiuti) salii in macchina e tornai in città. Ormai mancava un quarto alle sette, e Main Street era piena di posti dove parcheggiare. Accostai dall'altra parte della strada rispetto alla Kennebec Fruit Company e rimasi seduto al volante, intento a fissare quella reliquia, con la sua vernice scrostata. Un tempo era stata un florido esercizio. Adesso, nell'orario di chiusura, sembrava pronta per la demolizione. Gli unici segnali di presenza umana erano alcuni manifestini del Moxie nella vetrina impolverata (BEVETE MOXIE PER LA VOSTRA SALUTE! diceva il più grande), ed erano così antiquati che potevano essere lì da anni.

L'ombra del negozio traversava la strada e arrivava alla mia auto. Sulla mia destra, dove un tempo c'era la rivendita di liquori, si ergeva un lindo edificio in mattoni, che ospitava una filiale della Key Bank. Che bisogno c'era di un «posto verde», quando potevi fare un salto in qualunque emporio del Maine e uscirne con una bottiglia piccola di whisky e una grande di brandy al caffè? E non in un fragile sacchetto di carta: nei tempi moderni usiamo la plastica, figliolo. Dura migliaia di anni. E, parlando di empori, non avevo mai sentito di uno che si chiamasse Red & White. Se volevi comprare cibo a Lisbon Falls, andavi all'IGA, all'inizio della 196. Era proprio di fronte alla vecchia stazione ferroviaria. Quest'ultima era diventata una combinazione di negozio di magliette e salone tatuaggi.

Eppure, in quel preciso momento il passato sembrava molto vicino. Forse era solo il getto dorato dell'ultima luce estiva, che avevo sempre considerato un po' sovrannaturale. Era come se il 1958 fosse ancora lì, solo nascosto dietro la sottile pellicola degli anni trascorsi. E, se non mi ero immaginato gli eventi di quel pomeriggio, era proprio così.

Vuole che io faccia qualcosa, pensai. Qualcosa che avrebbe fatto lui stesso, ma il cancro glielo ha impedito. Ha detto che è tornato indietro ed è rimasto nel passato per quattro anni (almeno, questo mi sembra), ma quattro anni non sono bastati.

Ero disposto a scendere di nuovo quei gradini, a rimanere in quel mondo per più di quattro anni? Praticamente, a prenderci la residenza? E tornare due minuti dopo… ma quarantenne, con strisce di bianco che iniziavano a spuntarmi tra i capelli? Non riuscivo a immaginarmi una cosa del genere, ma del resto, non riuscivo nemmeno a immaginare cosa avesse scoperto Al di tanto importante. L'unica cosa che sapevo era che quattro o sei o sette anni della mia vita erano una richiesta esagerata, anche da parte di un moribondo.

All'appuntamento mancavano ancora due ore. Decisi di tornare a casa, cucinarmi un altro pasto, e stavolta sforzarmi di mangiarlo. Dopo, avrei fatto un ulteriore tentativo di leggere le tesine. Forse ero uno dei pochissimi ad aver viaggiato nel tempo (anzi, forse io e Al eravamo gli unici ad averlo mai fatto nella storia dell'umanità), ma non per questo i miei studenti potevano restare senza voto finale.

Durante il viaggio d'andata non avevo acceso la radio, ma ora lo feci. Come la TV, riceveva i suoi programmi da satelliti guidati da computer, in orbita intorno alla Terra a una quota di trentacinquemila chilometri. Di certo quell'idea sarebbe stata accolta a occhi sgranati (ma probabilmente senza eccessiva incredulità) dal Frank Anicetti adolescente dei tempi andati. Mi sintonizzai sulla stazione di musica anni Cinquanta e beccai Danny & the Juniors che ci davano dentro con Rock and Roll is Here to Stay: tre o quattro voci cantavano veloci in accordo su un piano martellante. A seguire, Little Richard che strillava Lucille a pieni polmoni, poi Ernie K-Doe che intonava lamentoso Mother-in-Law, con la suocera che «crede che i suoi consigli siano una benedizione / ma se levasse le tende, quella sarebbe la soluzione.» La musica suonava fresca e dolce, come le arance che la signora Symonds e le sue amiche avevano scelto quel pomeriggio.

Suonava nuova.

Volevo trascorrere anni e anni nel passato? No. Però volevo tornarci. Non foss'altro che per sentire Little Richard quand'era ancora un eroe da classifica. O salire su un volo Trans World senza dovermi togliere le scarpe e passare in un metal detector.

E volevo un'altra root beer.

3

1

IL nano sventolava davvero una bandiera, ma non era a stelle e strisce. Non era nemmeno quella del Maine, con l'alce sotto il pino. No, su quella del nano c'erano una striscia blu verticale e due più grosse orizzontali, una bianca e una rossa. E una stella. Passando, accarezzai il nano sulla punta del cappello. Salii i gradini della casetta di Al in Vining Street, con in testa una canzone di Ray Wylie Hubbard: «Fottiti, siamo del Texas».

La porta si aprì prima che suonassi il campanello. Al portava un accappatoio sul pigiama, e la sua nuova chioma bianca era tutta incasinata, il peggior caso di arruffamento da cuscino che avessi mai visto. A ogni modo, dormire (e prendere gli antidolorifici, ovvio) gli aveva fatto bene. Aveva ancora l'aspetto di un malato, ma le rughe intorno alla bocca erano meno profonde e l'andatura, mentre mi accompagnava lungo il piccolo atrio fino al soggiorno, sembrava meno incerta. Non si teneva più la mano destra sotto l'ascella sinistra, come per evitare di cadere a pezzi.

«Somiglio di più al vecchio me stesso, eh?» mi chiese con voce rotta mentre sedeva sulla poltrona di fronte alla TV. Solo che non fu proprio un sedersi: si mise in posizione, poi si lasciò cadere.

«Sì, è vero. Che ti hanno detto i medici?»

«Quello che mi ha visitato a Portland dice che non ho speranze, nemmeno con la chemio o le radiazioni. Stessa cosa che mi ha detto il dottore che ho visto a Dallas. Nel '62. È bello vedere che certe cose non cambiano, vero?»

Aprii la bocca, poi la richiusi. A volte non c'è proprio niente da dire. A volte si rimane solo attoniti.

«Non ha senso girarci attorno», disse. «Lo so che la morte imbarazza la gente, soprattutto se chi sta morendo può dare la colpa solo alle sue cattive abitudini, ma non posso perdere tempo con tatto e cortesia. Presto finirò in ospedale, se non altro perché non riuscirò più ad andare e tornare dal cesso da solo. Di certo non me ne starò qui a tossir fuori le cervella seduto in mezzo alla mia merda.»

«Cosa succederà al tuo ristorante?»

«Il mio ristorante è finito, compare. Anche se fossi sano come un pesce, non arriverebbe alla fine del mese. Lo sai che il terreno lo avevo solo affittato, no?»

Non lo sapevo, ma aveva senso. Anche se la Worumbo si chiamava ancora Worumbo, adesso era il classico centro commerciale trendy, il che voleva dire che Al pagava l'affitto a qualche grande compagnia.

«Il mio contratto è in scadenza, e la Mill Associates vuole quel lotto per farci un posto chiamato (il nome ti piacerà) L.L. Bean Express. Inoltre, dicono che la mia casa Aluminaire è antiestetica.»

«Ma è ridicolo!» esclamai, con un tono di sincera indignazione che strappò ad Al una risatina. La risatina cercò di trasformarsi in un attacco di tosse, ma lui glielo impedì. Lì, nella privacy di casa sua, non usava carta, tovagliolini o fazzoletti: sul tavolino accanto alla poltrona c'era una scatola di assorbenti. Non potevo fare a meno di guardarli. Cercavo di resistere all'impulso, magari osservando la foto sulla parete, quella in cui Al cingeva con un braccio le spalle di una bella donna, ma il mio sguardo tornava là. Ecco una delle grandi verità sulla condizione umana: se ti servono assorbenti per flusso abbondante per contenere i rigurgiti del tuo corpo offeso, sei davvero messo male.

«Grazie, compare. Potremmo anche brindare, adesso. I tempi in cui bevevo sono finiti, ma in frigo c'è del tè freddo. Fai come fossi a casa tua.»

2

Alla tavola calda, Al usava robusti bicchieri di vetro, ma la caraffa del tè freddo sembrava cristallo di Waterford. Un limone intero galleggiava placido nella bevanda, la buccia incisa per lasciar uscire l'aroma. Misi il ghiaccio in due bicchieri, versai il tè e tornai in soggiorno. Al bevve una lunga sorsata e chiuse gli occhi, riconoscente.

«È buono. In questo preciso istante, nel mondo di Al è tutto buono. Quella roba è meravigliosa. Dà una dipendenza della madonna, ma è meravigliosa. Addirittura, fa passare un po' la tosse. Il dolore si rifarà vivo verso mezzanotte, ma dovremmo avere abbastanza tempo per discutere la faccenda.» Bevve ancora e mi diede un'occhiata al tempo stesso contrita e divertita. «Le piccole cose della vita si apprezzano fino alla fine, a quanto sembra. Non lo avrei mai detto.»

«Al, cosa succede a quel… A quel buco che porta nel passato, se tolgono il tuo prefabbricato e ci mettono un negozio dell'outlet?»

«Non ne ho idea, come non ho idea di come sia possibile servire ogni volta la stessa carne. Credo che scomparirà. Penso che sia uno scherzo della natura, come il geyser Old Faithful di Yellowstone, o quei massi in bilico in Australia, o un fiume che scorre all'indietro in certe fasi lunari. Sono cose delicate, compare. Un minimo slittamento della crosta terrestre, un cambio di temperatura, pochi candelotti di dinamite, e non ci sono più.»

«Allora non pensi che ci sarà, non so, una specie di cataclisma?» Quel che mi stavo figurando era: si apre una breccia nella fusoliera di un aereo che vola a quota diecimila metri, e tutto viene risucchiato fuori, compresi i passeggeri. Avevo visto la scena in un film.

«No, non credo, però… So solo che, comunque vada, io non posso farci niente. A meno di intestare a te la proprietà. Dopodiché, potresti andare all'Associazione per la Conservazione del Patrimonio Storico e dire: 'Ehi, ragazzi, non potete lasciare che mettano un negozio nel cortile del vecchio stabilimento Worumbo. Là c'è un tunnel che porta indietro nel tempo. So che è difficile da credere, ma lasciate che ve lo mostri'.»

Per un momento presi davvero in considerazione quella mossa, perché probabilmente Al aveva ragione: quella fessura che dava sul passato era una cosa delicata. Per quel che ne sapevo (o che lui ne sapeva), forse bastava scuotere il prefabbricato per farla scoppiare come una bolla di sapone. Poi pensai: E se il governo scoprisse che può mandare agenti speciali nel passato, per cambiare tutto quello che vuole? Non sapevo se fosse possibile ma, nel dubbio, quelli che ci avevano regalato simpatici giocattoli come le armi biologiche e le bombe intelligenti telecomandate erano gli ultimi che volevo far accedere a un passato vivo e indifeso. Loro, e i loro bei programmi.

Nello stesso minuto in cui ebbi quell'idea (no, nello stesso secondo), capii cosa aveva in mente Al. Mancavano solo i dettagli precisi. Spinsi da parte il mio bicchiere di tè e mi alzai in piedi.

«No. Assolutamente no!»

Prese la mia reazione con calma. Poteva anche essere l'effetto dell'OxyContin, ma sapevo che non era così. Era certo che, qualunque cosa uscisse dalle mie labbra, non me ne sarei andato. La curiosità (per non parlare della fascinazione) mi si drizzava addosso come gli aculei di un istrice. Perché una parte di me voleva sapere i dettagli precisi.

«Mi sa che posso lasciar perdere la premessa e andare dritto al punto», disse Al. «Molto bene. Siediti, Jake, e ti rivelerò l'unico motivo per cui non ho ancora preso quelle pillole rosa tutte in una volta.» E dato che rimanevo in piedi, aggiunse: «Tu vuoi starmi a sentire, lo so. E che danno potrebbe arrecarti? Anche se potessi costringerti a fare qualcosa qui nel 2011 (e non posso), non potrei costringerti a far niente là nel passato. Una volta che ci arrivi, Al Templeton è solo un bimbo di quattro anni che vive a Bloomington, Indiana. Passa il tempo correndo per il cortile con una maschera da Lone Ranger, e non è ancora del tutto addestrato a usare la toilette. Quindi siediti. Come dicono nelle televendite: 'Senza alcun obbligo da parte tua'».

Giusto. Di contro, mia madre avrebbe detto che «la voce del diavolo è soave».

A ogni modo, mi misi a sedere.

3

«Lo sai che cos'è un 'momento spartiacque', compare?»

Annuii. Non bisognava essere un insegnante di inglese per saperlo. Non era nemmeno necessario saper leggere e scrivere. Era una di quelle irritanti frasi fatte usate nei programmi d'informazione della TV via cavo, giorno dopo giorno. Altri esempi: «Facendo due più due» e «Stando così le cose». La più irritante di tutte (ho più volte inveito contro di essa, di fronte ai miei visibilmente annoiati studenti) era l'insulsa: «È opinione diffusa che».

«Sai da cosa deriva? Che origine ha?»

«No.»

«Viene dalla cartografia. Lo spartiacque è una linea di confine tra due bacini idrografici. Anche la storia scorre come un fiume, giusto?»

«Sì, direi di sì», dissi, e bevvi un sorso di tè.

«A volte la storia è cambiata da eventi eclatanti. Piogge forti e prolungate possono causare inondazioni. Ma un fiume può uscire dagli argini anche in una giornata di sole. Basta un violento rovescio in un solo punto di quel territorio. Anche nella storia ci sono piene improvvise. Vuoi qualche esempio? Che ne dici dell'11 settembre? O della vittoria di Bush su Gore nel 2000?»

«Non puoi paragonare le elezioni a un'alluvione, Al.»

«Forse non tutte le elezioni, ma le presidenziali del 2000 furono un caso particolare. Immagina di poter tornare all'autunno di quell'anno, andare in Florida e spendere duecentomila dollari (o una cifra del genere) per conto di Al Gore.»

«L'ipotesi presenta due problemi», dissi. «In primis, io non ho duecentomila dollari. Inoltre, sono solo un insegnante. Posso spiegarti la tematica edipica nei romanzi di Thomas Wolfe, ma per quanto riguarda la politica, sono come un bambino sperduto nel bosco.»

Fece un cenno impaziente con la mano. L'anello dei marines ballò intorno al suo dito smagrito. «I soldi non sono un problema. Su questo, per adesso fidati di me. E la conoscenza anticipata, di solito, compensa del tutto l'inesperienza. Pare che in Florida lo scarto fosse di nemmeno seicento voti. Pensi di poter comprare seicento voti con un budget di duecentomila dollari, se si trattasse solo di comprarli?»

«Forse sì», dissi. «Potrei individuare alcune comunità dove c'è molta apatia e scarsa affluenza alle urne (non ci vorrebbe chissà quale ricerca), e andar lì coi bigliettoni.».

Al sorrise, mostrando gli spazi vuoti e le gengive dall'aspetto malsano.

«Perché no? A Chicago ha funzionato per anni e anni.»

L'idea che comprare la presidenza degli Stati Uniti costasse come due berline della Mercedes mi lasciò senza parole.

«Ma se parliamo del fiume della storia, i momenti spartiacque per eccellenza sono gli omicidi politici. Tanto quelli riusciti quanto quelli falliti. L'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d'Austria-Ungheria, viene ucciso da una mezzasega a cui manca qualche rotella, un certo Gavrilo Princip, ed è l'innesco della prima guerra mondiale. Sull'altro piatto, Claus von Stauffenberg non riesce a far fuori Hitler nel 1944 (anche se ci va vicino), così il conflitto continua e muoiono altri milioni di persone.»

Sì, avevo visto anche quel film.

«Non c'è niente che possiamo fare per l'arciduca o contro Hitler. Sono fuori dalla nostra portata.»

Pensai di contestargli l'uso della prima persona plurale, ma rimasi zitto. Mi sentivo come un uomo che legge un libro molto triste. Un romanzo di Thomas Hardy, per fare un esempio. Sai già come andrà a finire, ma questo non ti rovina la lettura, anzi, in qualche modo ne aumenta il fascino. È come guardare un bambino che fa andare il suo trenino elettrico sempre più veloce, aspettando che deragli su una delle curve.

«Per quanto riguarda 1'11 settembre, se tu volessi impedirlo, ti toccherebbe restare a zonzo per quarantatré anni. Avresti quasi ottant'anni, ammesso che ci arrivi.»

La bandiera del nano da giardino cominciava ad avere un senso. Era un souvenir dell'ultima spedizione di Al nel passato. «Non è nemmeno detto che arrivi al '63, giusto?»

Non rispose, ma mi fissò. I suoi occhi, che quel pomeriggio avevo visto slavati e cisposi, adesso erano vividi, quasi da giovane.

«Perché è di questo che stai parlando, vero? Dallas, 1963.»

«Esatto», disse. «Io ho dovuto rinunciare. Ma tu non sei malato, compare. Sei sano e sei nella primavera della vita. Tu puoi andare, e impedire che succeda.» Si chinò in avanti. I suoi occhi non erano solo vividi: sfavillavano.

«Puoi cambiare la storia, Jake, lo capisci? John Kennedy può salvarsi

4

Conosco i fondamenti della suspense. O almeno dovrei conoscerli, nella mia vita ho letto abbastanza thriller. La prima regola è: il lettore deve continuare a chiedersi cosa accadrà. Ma se avete colto qualcosa del mio personaggio, in base agli straordinari eventi di quel giorno, lo saprete già che io volevo essere convinto. Christy Epping era ormai Christy Thompson (ragazzo conosce ragazza dagli AA, ricordate?), e io ero un uomo senza impegni. Non avevamo nemmeno figli da contenderci. Avevo un lavoro, e mi piaceva, ma se vi dicessi che era una sfida, sarebbe una bugia. Un giro per il Canada in autostop in compagnia di un amico era l'esperienza più vicina a un'avventura che avessi mai vissuto. Risaliva a poco dopo la laurea e, data la natura cordiale e affabile di quasi tutti i canadesi, era stata ben poco avventurosa. Ora, all'improvviso, mi veniva offerta la possibilità di avere un ruolo importante non solo nella storia d'America, ma nella storia del mondo. E quindi sì, sì, sì, volevo essere convinto.

Ma avevo anche paura.

«E se qualcosa andasse storto?» Finii il bicchiere di tè in quattro lunghi sorsi, coi cubetti di ghiaccio che battevano sui denti. «E se riuscissi, Dio sa come, a impedire che avvenga, e le cose peggiorassero invece di migliorare? Pensa se tornassi indietro e scoprissi che l'America è diventata un regime fascista. O che l'inquinamento è peggiorato a tal punto che tutti vanno in giro con la maschera antigas.»

«A quel punto torneresti indietro», disse, «alle 11:58 del 9 settembre 1958, e cancelleresti tutto. Ogni viaggio è il primo viaggio, ricordi?»

«OK, ma se il cambiamento fosse stato tanto radicale da far svanire il tuo prefabbricato…»

Sorrise: «Ti toccherebbe vivere il resto dei tuoi anni nel passato. Ma sarebbe poi così brutto? Sei un insegnante d'inglese, puoi trovare lavoro anche là. Ma non ne avresti neppure bisogno: io ci sono rimasto quattro anni, Jake, e ho messo su un piccolo patrimonio. Lo sai come ho fatto?»

Avrei potuto tirare a indovinare, ma scossi il capo.

«Con le scommesse. Mi sono mosso con cautela, non volevo insospettire nessuno, e di sicuro non volevo che gli scagnozzi di qualche allibratore mi cercassero per spezzarmi le gambe, ma quando ti sei studiato tutti i più importanti eventi sportivi dall'estate del '58 all'autunno del '63, te lo puoi pure permettere, di muoverti con cautela. Non dico che puoi campare come un re, perché devi starci attento, ma non c'è motivo di viver male. E io credo che la tavola calda sarà ancora lì. È rimasta ad aspettare me, che di cose ne avevo cambiate parecchie. Tutti cambiano parecchie cose. Già girare l'angolo per comprare il pane e il latte cambia il futuro. Mai sentito parlare dell'effetto farfalla? È una teoria scientifica molto trendy, in pratica dice che…»

Ricominciò a tossire, il primo accesso di una certa durata da quand'ero arrivato. Prese uno degli assorbenti, se lo mise davanti alla bocca come un bavaglio, poi si chinò. Orribili conati salirono dal suo petto. Sembrava che metà dei suoi ingranaggi si fossero staccati e sbattessero l'uno contro l'altro, come le macchine di un autoscontro. Infine, la tosse calò. Al guardò nell'assorbente, fece una smorfia di disgusto, lo ripiegò e lo gettò.

«Mi spiace, compare. Queste mestruazioni orali fanno schifo.»

«Cristo, Al…»

Fece spallucce. «Se non puoi scherzarci sopra, che senso ha? Dov'ero rimasto?»

«All'effetto farfalla.»

«Giusto. Significa che piccoli eventi possono avere grandi – qual è la parola?

– ramificazioni. L'idea di fondo è che se un tizio uccide una farfalla in Cina, può darsi che quarant'anni dopo (o anche quattrocento anni dopo) ci sia un terremoto in Perù. Sembra folle anche a te?»

In effetti sì, ma mi sovvenne un vetusto paradosso da viaggio nel tempo, e lo tirai fuori: «Sì, ma se uno tornasse indietro e uccidesse suo nonno?»

Al mi diede un'occhiata perplessa: «Perché cazzo uno dovrebbe fare una cosa del genere?»

Era una bella domanda, così gli dissi di proseguire.

«Questo pomeriggio tu hai cambiato il passato in tanti piccoli modi, semplicemente entrando nel negozio di Anicetti, Eppure i gradini che riportavano nella dispensa e nel 2011 erano ancora lì, no? E Lisbon Falls è come l'avevi lasciata.»

«A quanto pare, sì. Ma tu stai parlando di qualcosa di un po' più drastico: salvare la vita a JFK.»

«Oh, parlo di molto più di questo, perché non si tratta di una farfalla in Cina. Per esempio, sto parlando di salvare la vita anche a suo fratello Bobby, perché se John non fosse stato ucciso a Dallas, probabilmente Bobby non si sarebbe candidato nel '68. Il Paese non sarebbe stato pronto a rimpiazzare un Kennedy con un altro.»

«Di questo non puoi essere sicuro.»

«No, ma stammi a sentire. Tu credi che se salvi la vita a John Kennedy, suo fratello Robert sarà ancora all'Ambassador a mezzanotte e un quarto del 5 giugno 1968? E anche qualora ci fosse, Sirhan Sirhan sarebbe nella cucina dell'hotel?» Forse sì, ma le probabilità sembravano davvero scarse. Se in un'equazione si introduce un milione di variabili, è chiaro che il risultato cambierà.

«E che mi dici di Martin Luther King? È ancora a Memphis nell'aprile del '68? E anche se c'è, è ancora sul balcone del Lorraine Motel proprio nel momento in cui James Earl Ray è appostato col fucile? Tu che ne dici?»

«Se quella teoria della farfalla è giusta, probabilmente no.»

«È quello che penso anch'io. E se MLK vive, non ci sono le sommosse razziali causate dalla sua morte. E forse a Chicago non viene ucciso Fred Hampton.»

«Chi?»

Al ignorò la mia domanda. «E forse non ci sarebbe nessun Esercito di Liberazione Simbionese, perché Donald DeFreeze e i suoi compagni volevano combattere il razzismo. E se non c'è quel gruppo armato, non c'è nemmeno il sequestro di Patty Hearst. E se non c'è il sequestro di Patty Hearst, nel ceto medio bianco cala un po' la paura dei neri.»

«Non ti seguo più. Ricordati che io mi sono laureato in inglese.»

«Non mi segui perché sai più cose della guerra civile dell'Ottocento che della guerra civile che lacerò il Paese dopo l'assassinio di Kennedy a Dallas. Se ti chiedo chi era il protagonista del Laureato, sono sicuro che sai rispondere. Ma se ti chiedo a chi sparò Lee Harvey Oswald solo pochi mesi prima dell'attentato a Kennedy, so che la tua risposta sarà: 'Eh?' Perché tutta quella storia si è persa.»

«Oswald sparò a qualcuno prima dell'attentato a Kennedy?» La cosa mi giungeva nuova, ma del resto, la maggior parte di quel che sapevo del caso Kennedy veniva da un film di Oliver Stone. In ogni caso, Al non rispose. Ormai era immerso nel suo ragionamento.

«E pensa al Vietnam: fu Johnson ad avviare quella folle escalation. Anche Kennedy era un uomo della Guerra Fredda, non c'è dubbio, ma Johnson portò la cosa a un livello più alto. Aveva lo stesso complesso da le-mie-balle-sono-più- grosse-delle-tue, come Bush quando, di fronte alle telecamere, ha detto: 'Fatevi sotto'. Kennedy avrebbe potuto cambiare idea, ma con Johnson e Nixon era fuori questione. Grazie a loro, abbiamo perso quasi sessantamila soldati in Vietnam. E i vietnamiti, tra il Nord e il Sud, hanno avuto milioni di vittime. Sarebbe stato tanto salato, il conto del macellaio, se Kennedy fosse tornato vivo da Dallas?»

«Non lo so. E non lo sai neanche tu, Al.»

«È vero, ma sono diventato uno studioso di storia americana recente, e credo che le possibilità di cambiare le cose per il meglio salvando Kennedy siano molto buone. E, davvero, non c'è nessuno svantaggio: se le cose vanno per il verso sbagliato, ricominci dall'inizio. Facile come cancellare una parolaccia da una lavagna.»

«Oppure non riesco a tornare, nel qual caso non saprò mai com'è andata.»

«Stronzate. Sei giovane. Se non ti investe un taxi e non ti viene un infarto, vivrai abbastanza a lungo da vedere che succede.»

Rimasi seduto in silenzio a capo chino, pensieroso. Al non mi mise fretta. Finalmente rialzai la testa.

«Devi avere letto un sacco di cose sull'attentato e su Oswald…»

«Tutto quello che sono riuscito a trovare, compare.»

«Come fai a essere certo che sia stato lui? Ci sono almeno mille teorie del complotto, persino io ne ho sentito parlare. Secondo alcuni, i colpi non sono stati esplosi dal deposito di libri ma dall'altura opposta. Che succede se torno indietro e fermo Oswald, ma un altro tizio spara a Kennedy dalla collina erbosa?»

«Collinetta erbosa. E sono quasi sicuro che sia stato Oswald. In primo luogo, le teorie del complotto sono tutte strampalate, e quasi tutte sono state smontate nel corso degli anni. Per esempio, quella secondo cui a sparare non fu Oswald, ma un tale che gli somigliava. Il cadavere è stato riesumato nel 1981, e hanno fatto il test del DNA. Era proprio il corpo di Oswald, quella mezza cartuccia piena di veleno.» Fece una pausa, poi aggiunse: «Io l'ho incontrato».

Lo fissai: «Mi prendi per il culo».

«Mi ha anche rivolto la parola. È successo a Fort Worth. Lui e Marina (sua moglie, era russa) erano venuti a trovare il fratello di Oswald. Se mai Lee ha voluto bene a qualcuno, era suo fratello Bobby. Io stavo accanto alla staccionata di Bobby Oswald, appoggiato a un palo del telefono. Fumavo una sigaretta e fingevo di leggere il giornale. Il cuore mi batteva a duecento al minuto. Lee e Marina sono usciti insieme. Lei portava in braccio la loro figlia, June. Una cosina piccola piccola, aveva meno di un anno. La bimba dormiva. Il nostro Ozzie indossava un paio di pantaloni cachi e una camicia Ivy League con il colletto consumato. I calzoni avevano la piega stirata, ma erano sporchi. Aveva abbandonato il taglio militare, ma i capelli erano comunque molto corti, uno non sarebbe riuscito ad afferrarli. E Marina… Dio santo, che bella donna! Capelli scuri, occhi azzurri, pelle liscia. Sembrava una stella del cinema. Se ci andrai, la vedrai coi tuoi occhi. Gli ha detto qualcosa in russo mentre percorrevano il vialetto. Lui le ha risposto. Sorrideva mentre le parlava, ma poi l'ha spinta. Lei è quasi caduta. La bimba si è svegliata e si è messa a piangere. Per tutto quel tempo, Oswald ha continuato a sorridere.»

«Tu l'hai vista, questa scena. L'hai vista davvero. Hai visto lui.» Benché io stesso avessi viaggiato nel tempo, ero ancora mezzo convinto che fosse tutta un'allucinazione, o una pura menzogna.

«Sì. Lei è uscita dal cancello e mi è passata accanto, a testa bassa, tenendosi la bimba stretta contro il petto. Come se io non ci fossi. Lui invece è venuto verso di me, abbastanza vicino da sentire l'odore dell'Old Spice che si metteva addosso per coprire il sudore. Aveva il naso pieno di punti neri. Dai vestiti che portava (e dalle scarpe, logore e con i tacchi consumati) si vedeva che non aveva un vaso per pisciarci dentro né una finestra per gettarla fuori, ma quando lo guardavi in faccia, capivi che non importava, a lui non importava. Era convinto di essere un grande.»

Al ci pensò sopra un momento, poi scosse il capo.

«No, meglio ancora: sapeva di essere un grande. C'era solo da aspettare che il resto del mondo se ne accorgesse. E adesso eccolo lì, proprio di fronte a me. Tanto vicino da poterlo strangolare, e non credere che l'idea non mi sia venuta…»

«Perché non l'hai fatto? Potevi anche andare dritto al punto, e sparargli.»

«Di fronte a sua moglie e alla figlia piccola? Tu ci saresti riuscito, Jake?» Non dovetti pensarci a lungo: «Credo di no».

«E nemmeno io. E poi, avevo altri motivi. Uno dei quali è la mia avversione per il carcere… o per la sedia elettrica. Eravamo per la strada, ricordalo.»

«Ah.»

«Appunto: 'Ah'. Quando mi è venuto incontro, aveva ancora quel sorrisetto in faccia. Arrogante e al tempo stesso affettato. Ha lo stesso sorriso in quasi tutte le foto che gli hanno fatto. Ce l'ha anche al commissariato di Dallas, dopo che l'hanno arrestato per aver ucciso il presidente e un poliziotto in moto che ha incrociato per caso mentre cercava di fuggire. Arriva da me e mi fa: 'Cos'hai da guardare tanto, mister?' E io: 'Niente, amico'. E lui: 'Allora fatti i cazzi tuoi'.

«Marina lo aspettava sul marciapiede, a dieci metri da noi. Cercava di riaddormentare la bimba, era una giornata afosa, ma portava un fazzoletto in testa, come all'epoca facevano molte donne europee. Lui l'ha raggiunta e l'ha presa per un braccio, come fosse uno sbirro invece che suo marito. Le ha detto: 'Prokhodi! Prokhodi!' Cammina, cammina! Lei gli ha risposto qualcosa, forse gli ha chiesto se poteva tenere lui la bimba. Sto tirando a indovinare. Lui le ha dato una spinta e ha detto: 'Prokhodi, cuka!' Cammina, puttana! Lei ha obbedito. Si sono diretti verso la fermata dell'autobus. Tutto qui.»

«Tu parli russo?»

«No, ma ho buone orecchie e un computer. Almeno, ce l'ho nel 2011.»

«Lo hai visto altre volte?»

«Solo da lontano, e ormai stavo parecchio male.» Sorrise. «Non c'è carne alla griglia più buona di quella di Fort Worth, e io non riuscivo a mangiarla. A volte il mondo è crudele. Sono andato dal dottore, mi ha fatto una diagnosi che a quel punto avrei potuto fare da solo, e sono tornato nel ventunesimo secolo. In fondo, ormai non c'era più nulla da vedere: solo un ometto magro che picchia sua moglie e aspetta di diventare famoso.»

Si protese verso di me.

«Tu lo sai com'era l'uomo che ha cambiato la storia americana? Era un solitario, con una madre lagnosa e dominante. Dormì con lei fino agli undici anni. Nessun padre, nella foto di famiglia. Era il tipico ragazzino che tira i sassi agli altri e poi scappa. Quando si arruolò nei marines (per essere come suo fratello Bobby: lui lo idolatrava), aveva già vissuto in una ventina di posti diversi, da New Orleans a New York. Aveva grandi idee, e non capiva perché la gente non volesse starle a sentire. Questo lo faceva arrabbiare, andava su tutte le furie, ma non perse mai quel sorrisetto sfrontato. Sai come lo ha definito William Manchester?»

«No.» Non sapevo nemmeno chi fosse, William Manchester.

«'Un orfanello infelice'. Manchester si riferiva a tutte le teorie del complotto fiorite dopo l'assassinio… e dopo che lo stesso Oswald era stato ucciso. Questo lo sai, no?»

«Certo che sì», dissi, un po' irritato. «Lo ha ucciso un tale di nome Jack Ruby.» Ma viste le lacune nella mia conoscenza storica, penso che avesse il diritto di dubitare.

«Manchester disse che mettendo su un piatto della bilancia il presidente assassinato, e sull'altro piatto Oswald (l'orfanello infelice), non c'era equilibrio possibile. Per dare un qualche significato alla morte di Kennedy, bisognava aggiungere del peso. Questo spiega il proliferare dei complottismi: è stata la mafia (su ordine di Carlos Marcello)… È stato il KGB… Oppure Fidel Castro, per vendicarsi del tentativo della CIA di ucciderlo con un sigaro avvelenato. Ancora oggi c'è gente che crede sia stato Lyndon Johnson, per diventare presidente. Ma alla fine dei conti…» Al scosse il capo. «È quasi sicuro che sia stato Oswald. Mai sentito parlare del Rasoio di Occam?»

Finalmente la bella sensazione di sapere qualcosa. «È una verità elementare, detto anche 'principio di parsimonia': A parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire. E allora perché non l'hai ucciso quando non era per strada con sua moglie e sua figlia? Sei stato un marine anche tu. Quando hai saputo di essere gravemente malato, perché non hai ucciso quell'arrogante figlio di puttana?»

«Perché il 95% non è il l 00%. Perché, testa di cazzo o meno, era un padre di famiglia. Perché quando lo arrestarono, Oswald disse di essere un capro espiatorio, e volevo essere certo che stesse mentendo. Penso che in questo mondo contorto nessuno possa essere sicuro al l 00% di qualcosa, ma volevo arrivare almeno al 98%. Non avevo alcuna intenzione di aspettare fino al 22 novembre e bloccarlo quand'era già al deposito di libri scolastici. Avrebbe significato cavarsela troppo a buon mercato, principalmente per un motivo che tra poco ti dirò.»

I suoi occhi non erano più tanto brillanti, e le rughe sul volto tornavano a inspessirsi. Mi spaventò constatare quanto poco durassero le sue riserve di energia.

«Ho scritto tutto quanto, voglio che tu lo legga. Di più: voglio che studi come un dannato. Guarda sopra il televisore, compare. Puoi farlo tu?» Mi offrì un sorriso stanco e aggiunse: «Ci metto troppo tempo ad alzarmi».

Era un grosso quaderno blu. Il prezzo stampato sulla copertina era venticinque cent. La marca non mi diceva niente: «Cos'è Kresge's?»

«La catena di supermercati che oggi si chiama Kmart. Infischiatene di cosa c'è sulla copertina, fai attenzione a quel che c'è dentro. È una cronologia su Oswald, più tutte le prove contro di lui… Non dovrai leggerle, se fai come dico io, perché fermerai il bastardello nell'aprile del 1963, quasi sei mesi prima dell'arrivo di Kennedy a Dallas.»

«Perché proprio in aprile?»

«Perché fu allora che qu alcuno tentò di uccidere il generale Edwin Walker… Che all'epoca non era più generale. Era stato destituito nel '61, da JFK in persona. Il caro Eddie distribuiva opuscoli segregazionisti ai suoi soldati, e ordinava loro di leggerli.»

«Fu Oswald a cercare di ucciderlo?»

«È quello che devi scoprire. Che fosse lo stesso fucile, non ci sono dubbi, lo dicono le perizie balistiche. Io aspettavo di vederlo nell'atto di sparare. Potevo permettermi di non interferire, perché quel giorno Oswald sbagliò mira. Il proiettile fu deviato dallo stipite della finestra della cucina di Walker. Non di molto, ma abbastanza: il proiettile gli passò letteralmente in mezzo ai capelli, e schegge di legno dello stipite gli tagliuzzarono un braccio. Fu l'unica ferita che riportò. Non dico che il tizio meritasse di morire. Sono davvero pochi gli uomini che meritano lo sparo di un cecchino. Ma avrei scambiato Walker con Kennedy in qualunque momento.»

Non feci molto caso all'ultima affermazione. Stavo sfogliando il «Dossier Oswald» scritto da Al, pagine e pagine di appunti fitti. All'inizio erano perfettamente leggibili, poi la grafia peggiorava, e negli ultimi fogli c'erano gli scarabocchi di un uomo molto malato. Chiusi il quaderno e dissi: «La conferma che fu Oswald a sparare al generale Walker avrebbe dissipato i tuoi dubbi?»

«Sì. Volevo essere certo che fosse in grado di farlo. Ozzie era un uomo cattivo, Jake. Di quelli che nel '58 erano chiamati 'manigoldi'. Ma picchiare tua moglie e tenerla segregata grazie al fatto che non parla inglese non giustifica l'omicidio. E c'è un'altra cosa: anche se non mi fossi preso il cancro, sapevo che non avrei avuto un'altra chance se, dopo che avevo ucciso Oswald, qualcun altro avesse sparato al presidente. Quando arrivi ai sessant'anni, ormai ti è scaduta la garanzia, non so se mi spiego.»

«Doveva essere per forza un'uccisione? Non potevi, chessò, incastrarlo con qualche accusa?»

«Forse, ma ormai stavo troppo male. Non so cosa avrei potuto fare nemmeno se fossi stato in forma. Di massima, avuta la conferma che cercavo, far fuori Oswald sembrava la cosa più semplice. Come schiacciare una vespa prima che possa pungerti.»

Di nuovo rimasi in silenzio, a pensare. L'orologio alla parete segnava le dieci e mezzo. Al aveva aperto la conversazione dicendo che sarebbe stato bene fin verso mezzanotte, ma mi bastava guardarlo per sapere che era stato troppo ottimista.

Presi i due bicchieri, li portai in cucina, li lavai e li misi sullo scolapiatti.

Sentivo una tromba d'aria infuriarmi nella testa. E non faceva mulinare nell'aria mucche e palizzate e cartacce, ma nomi: Lee Harvey Oswald, Bobby Oswald, Marina Oswald, Edwin Walker, Fred Hampton, Patty Hearst… Nel vortice c'erano anche luminosi acronimi, simili a ornamenti cromati che il vento aveva strappato dai cofani di auto di lusso: JFK, RFK, MLK, SLA… Il ciclone produceva anche un suono, due parole russe ripetute ad libitum con un accento strascicato del Sud: Prokhodi, cuka.

Cammina, puttana.

5

«Quanto tempo ho per decidere?» chiesi.

«Non molto. La tavola calda sarà smantellata alla fine del mese. Ho parlato con un avvocato, nel tentativo di avere una proroga, magari avviando una causa civile, ma non mi ha dato molte speranze. Hai mai visto, in qualche negozio di arredamento, quei cartelli tipo: SCADUTO IL CONTRATTO, SVENDIAMO TUTTO?»

«Certo.»

«Nove volte su dieci è solo un trucco di marketing, ma questo è il decimo caso. E a premere per avere quello spazio non è un negozietto qualunque: è L.L. Bean, e nella grande vendita al dettaglio, L.L. Bean è la bestia più grossa del Maine. Il primo giorno di luglio il mio locale sarà più morto della Enron. Ma non è nemmeno questo il problema maggiore: per quella data, io potrei essere ancora più morto. Potrei prendermi un raffreddore e morire di polmonite nel giro di tre giorni. Potrei avere un infarto, o un ictus. O potrei uccidermi per sbaglio con quelle maledette pillole di OxyContin. Stamattina, l'infermiera che verrà qui tutti i giorni si è raccomandata di fare attenzione al dosaggio, e io sto attento, ma si capisce che è preoccupata, teme di arrivare una mattina e trovarmi stecchito, magari perché, rintronato come sono, ho perso il conto. Inoltre, le pillole rendono più difficile respirare, e i miei polmoni sono già stracciati. Infine, ho perso un sacco di chili.»

«Davvero? Non me n'ero accorto.»

«A nessuno piacciono i furbetti, compare. Quando avrai la mia età, lo saprai anche tu. In ogni caso, oltre al quaderno volevo darti questa.» Mi porse una chiave. «È per entrare nel locale. Se dovessi chiamarmi domani e sentire dall'infermiera che sono morto durante la notte, dovrai muoverti in fretta. Ammesso e non concesso che tu voglia muoverti.»

«Al, non è che hai in mente di…»

«Ho solo in mente di fare le cose con attenzione. Perché è una faccenda importante, Jake. Per quel che mi riguarda, è più importante di qualunque altra cosa. Se mai hai voluto cambiare il mondo, questa è la tua occasione. Salva Kennedy. Salva suo fratello. Salva Martin Luther King. Ferma le rivolte razziali. E forse fermerai anche la guerra in Vietnam.» Si allungò in avanti. «Fai fuori l'orfanello infelice, compare, e salverai milioni di vite.»

«Questo sì è un discorso da venditore!» dissi. «Ma la chiave non mi serve. Domattina, quando sorgerà il sole, tu sarai ancora tra noi.»

«C'è un 95% di probabilità. Ma non basta. Prendi la dannata chiave.» Presi la dannata chiave e me la misi in tasca. «Ora ti lascio riposare.»

«C'è un'ultima cosa, prima che tu te ne vada. Devo parlarti di Carolyn Poulin e Andy Cullum. Siediti, Jake. Ci vorranno pochi minuti.

Io rimasi in piedi. «No, Al. Sei sfinito. Hai bisogno di dormire.»

«Dormirò quando sarò morto. Siediti.»

6

Al mi raccontò che, dopo avere scoperto quella che chiamava «la buca del coniglio», all'inizio si era accontentato di usarla per comprare merci, piazzare qualche scommessa presso un'agenzia di Lewiston, e accumulare soldi degli anni Cinquanta. Ogni tanto si era concesso una vacanza sul lago Sebago, che era zeppo di pesci saporiti e perfettamente sani. All'epoca la gente si preoccupava dei fall-out atomici, mi disse, ma il timore di avvelenarsi col mercurio assorbito dai pesci era ancora di là da venire. Al chiamava quelle spedizioni (di solito le faceva di martedì e mercoledì, ma a volte rimaneva fino al venerdì) le sue «mini villeggiature». C'era sempre bel tempo (perché era sempre lo stesso tempo) e la pesca andava sempre bene (probabilmente prendeva sempre gli stessi pesci, ogni volta per la prima volta).

«So bene come ti senti, Jake, perché io stesso, nei primi anni, continuavo a restare basito. Lo sai cos'è che ti manda fuori di testa? Quando scendi quei gradini nel mezzo di un gennaio del Nordest e trovi ad aspettarti quel sole, quel tempo da maniche corte.

«Ma se concedi a qualcuno un po' di tempo, si abituerà a qualunque cosa, e quando lo shock cominciò ad attenuarsi, iniziai a pensare che c'era una ragione per cui avevo trovato la buca del coniglio. Fu allora che mi venne in mente Kennedy. Ma la questione che hai posto anche tu ha alzato la sua brutta testa: si può cambiare il passato? A preoccuparmi non erano le conseguenze (almeno, non all'inizio), ma se si potesse fare o no. Durante una delle mie gite sul lago Sebago, con un coltello ho inciso AL T. - 2007 su un albero vicino al capanno. Quando sono tornato qui nel presente, sono saltato in macchina e sono andato a vedere. I capanni non ci sono più, al loro posto c'è un hotel per turisti. Ma l'albero è ancora lì. E c'è ancora la mia scritta. Vecchia, consumata, ma c'è: AL T.-.2007. Così ho capito che si poteva fare. È solo dopo che ho cominciato a pensare all'effetto farfalla.

«Negli anni Cinquanta a Lisbon Falls usciva un giornale, il Lisbon Weekly Enterprise. Nel 2005 la biblioteca ha digitalizzato tutto l'archivio dei microfilm. Adesso la consultazione è molto più veloce. Mi sono messo a cercare un incidente dell'autunno o dei primi giorni d'inverno del '58. Un incidente di un certo tipo. Mi sarei spinto fino agli inizi del '59, se necessario, ma ho trovato quel che mi serviva in data 15 novembre 1958. Una dodicenne di nome Carolyn Poulin era a caccia con suo padre, di là dal fiume, in quella parte di Durham che si chiama Bowie Hill. In quella stessa zona, intorno alle due del pomeriggio (era un sabato), un cacciatore di Durham, tale Andrew Cullum, sparò a un cervo. Mancò il bersaglio, ma colpì la ragazzina. Anche se era a quattrocento metri di distanza, colpì la ragazzina. È una cosa che ti dà da pensare: quando Oswald spara al generale Walker, è a meno di novanta metri da lui, forse appena cinquanta. Ma il proiettile tocca lo stipite di una finestra, e il colpo non va a segno. Il proiettile che paralizza la piccola Poulin viaggia per quattrocento metri (il doppio della distanza percorsa dal proiettile che ucciderà Kennedy), e riesce a evitare ogni tronco e ogni ramo lungo la via. Se avesse toccato un solo ramoscello, quasi certamente avrebbe cambiato traiettoria. Per questo dà da pensare.»

Quella fu la prima volta in cui mi venne in mente la frase «La vita è un lancio di monetina». Ma non fu l'ultima. Al afferrò un altro assorbente, tossì, sputò, gettò il fagotto nel cestino. Poi trasse la cosa più vicina a un lungo respiro, e si sforzò di andare avanti. Non cercai di fermarlo. Ero affascinato.

«Ho digitato il suo nome nel motore di ricerca dell'Enterprise, e ho trovato qualche altro articolo su di lei. Si è diplomata alla Lisbon High School nel '65 (un anno dopo il resto della sua classe, ma ce l'ha fatta) ed è andata all'Università del Maine. Si è laureata in gestione aziendale. È diventata una contabile. Vive a Gray, a pochi chilometri dal lago Sebago, dove io passavo le mie minivilleggiature, e lavora ancora come libera professionista. Prova a indovinare chi è uno dei suoi migliori clienti?»

Gli feci segno di dirmelo lui.

«John Crafts, proprio qui a Lisbon Falls. Squiggy Wheaton, uno dei venditori, viene spesso a mangiare da me. Un giorno mi ha detto che stavano sbrigando la contabilità annuale, e da loro c'era 'la signora dei numeri' che esaminava i registri. Sono andato a dare un'occhiata ed eccola lì. Adesso ha sessantacinque anni e… hai presente come certe donne di quell'età possano essere veramente belle?»

«Sì», risposi. Stavo pensando alla madre di Christy, che era diventata davvero bella dopo i cinquanta.

«Ecco, Carolyn Poulin è così. La faccia è quell'ovale perfetto per cui un pittore di duecento o trecento anni fa sarebbe impazzito, ha capelli bianchi come la neve e li porta lunghi fin sulla schiena.»

«Sembri innamorato, Al.»

Aveva ancora abbastanza energia da mostrarmi il dito medio.

«È anche in gran forma. Be', non c'è da sorprendersi: una donna non sposata che si solleva più volte al giorno dalla sedia a rotelle, e sale e scende dal furgone speciale che guida. Per non dire dell'alzarsi dal letto, dell'entrare e uscire dalla doccia, e tutto il resto. E fa tutto da sola, Squiggy dice che è completamente autosufficiente. Sono rimasto colpito.»

«E allora hai deciso di salvarla. Come esperimento cascava a fagiolo.»

«Sono tornato nel '58, ma stavolta sono rimasto sul lago per più di due mesi. Ho detto al proprietario che mio zio era morto e mi aveva lasciato un po' di soldi. Ricordati di questo, compare: la storiella dello zio ricco è collaudata e funziona sempre. Tutti ci credono, perché tutti vorrebbero averne uno. Finalmente è arrivato il giorno, il 15 novembre 1958. Ho lasciato perdere i Poulin: visto che avevo in mente di fermare Oswald, mi interessava molto di più Cullum, l'uomo che avrebbe sparato. Avevo fatto un po' di ricerche su di lui, e scoperto che viveva a un chilometro e mezzo da Bowie Hill, nei pressi della vecchia masseria di Durham. Pensavo di raggiungerlo prima che partisse, ma non è andata così.

«Ho lasciato il mio capanno molto presto, e per fortuna, perché non avevo fatto nemmeno un chilometro di strada quando la macchina a noleggio ha forato una gomma. Ho preso quella di scorta, l'ho messa su, e anche se sembrava a posto, a meno di un altro chilometro lungo la strada ho forato pure quella!

«Ho chiesto un passaggio fino alla stazione di servizio Esso di Naples, dove il tizio mi ha detto che aveva troppo lavoro per venire a montare una nuova ruota su una Chevrolet della Hertz. Penso che gli stesse sulle palle essersi perso la caccia del sabato. Una mancia da venti dollari gli ha fatto cambiare idea, ma sono riuscito ad arrivare a Durham solo a mezzogiorno passato. Ho imboccato la vecchia Runaround Pond Road perché è la strada più breve, e indovina un po'? Il ponte sul Chuckle Brook era crollato in acqua. Transenne bianche e rosse, lanterne da cantiere, un grande cartello arancione con scritto: STRADA CHIUSA. A quel punto, mi sono fatto una chiara idea di cosa stesse succedendo, e ho avuto il presentimento che non sarei riuscito a combinare niente. Ricordati che ero partito alle otto del mattino, per andare sul sicuro, e mi ci sono volute più di quattro ore per fare una trentina di chilometri! Ma non mi sono arreso. Ho preso la strada che portava alla chiesa metodista, spronando il più possibile l'auto, sollevando un gran polverone. Tutte le strade di quella zona, all'epoca, erano ancora sterrate.

«Ho cominciato a vedere macchine e furgoni parcheggiati ai lati della strada o all'imbocco di sentieri nel bosco, e cacciatori che camminavano con in braccio i fucili aperti. Non ce n'è stato uno che non mi abbia salutato con la mano, nel '58 la gente è più socievole, su questo non c'è dubbio. Io ricambiavo i saluti, e intanto mi aspettavo un'altra ruota a terra, o un guasto al motore, cosa che probabilmente mi avrebbe fatto sbandare e finire diritto nel fosso, perché filavo a più di cento all'ora. Ricordo che uno dei cacciatori mi ha fatto segno di rallentare, ma non gli ho dato retta.

«Sono arrivato a Bowie Hill al volo, oltre la chiesa, e ho adocchiato un furgone parcheggiato vicino al cimitero. Sulla portiera c'era scritto POULIN – CARPENTERIA E COSTRUZIONI. Era vuoto. Poulin e sua figlia erano in mezzo ai boschi, magari seduti in una radura a mangiare e a chiacchierare come fanno i padri con le figlie. O almeno immagino che facciano così, dato che non ho mai avuto fi…»

Un altro lungo attacco di tosse, che terminò con un orrendo suono liquido e strozzato.

«Cazzo, fa male», gemette.

«Al, devi fermarti.»

Di nuovo scosse il capo e col dorso della mano si asciugò una goccia di sangue dal labbro inferiore. «No, quel che devo fare è finire questa storia, perciò stai zitto e lasciamelo fare.

«Ho guardato il furgone, senza rallentare, e quando ho riportato gli occhi sulla strada, ho visto che la sbarrava un albero caduto. Ho frenato appena in tempo e sono riuscito a non sfracellarmi. Non era grosso, e prima che il cancro cominciasse a lavorarmi, ero abbastanza forte. Inoltre, ero incazzato nero. Sono sceso e ho iniziato a spostare il tronco. Mentre lo facevo, imprecando come non mai, è arrivata un'altra macchina, dalla direzione opposta alla mia. Scende un tizio, ha indosso un giubbotto da cacciatore arancione. Non sono sicuro che sia il mio tizio, sull'Enterprise non c'era la sua foto, ma sembra dell'età giusta.

«Mi dice: 'Lasci che l'aiuti, veterano'.

«'Grazie mille', faccio io, e gli porgo la mano. 'Bill Laidlaw.' «Lui la stringe e si presenta: 'Andy Cullum'. È proprio lui. Vista la fatica che ho fatto per arrivare a Durham, quasi stento a crederlo. Mi sembra di aver vinto la lotteria. Afferriamo il tronco, e tra tutti e due riusciamo a spostarlo. A quel punto, mi siedo sul ciglio della strada, con le braccia strette al torace. Mi chiede se va tutto bene. 'Non lo so', rispondo. 'Non ho mai avuto un attacco di cuore, ma questo gli somiglia.' Ecco, caro Jake, il motivo per cui Andy Cullum non è mai andato a caccia in quel pomeriggio di novembre, e per cui non ha mai sparato a una ragazzina. Era troppo impegnato a portare il povero, vecchio Bill Laidlaw al Central Maine General di Lewiston.»

«Allora ce l'hai fatta? Ce l'hai fatta davvero?»

«Puoi scommetterei il culo. All'ospedale ho raccontato che a pranzo avevo mangiato un panino enorme, di quelli che all'epoca chiamavano 'sandwich italiani', e la diagnosi è stata indigestione acuta. Ho pagato venticinque dollari in contanti e mi hanno dimesso. Cullum è rimasto ad aspettarmi e mi ha riportato alla mia Chevrolet presa a nolo, davvero un buon samaritano. Sono tornato a casa, nel 2011, la sera stessa… Solo che, ovviamente, erano passati solo due minuti. Sbalzi così ti danno il jet-lag senza bisogno di aeroplani.

«La prima tappa è stata la biblioteca, dove ho ripescato l'articolo sui diplomati del '65. Prima, era illustrato con una foto di Carolyn Poulin. Il preside di allora (Earl Higgins, che ha da tempo trovato la pace eterna), si chinava su di lei per darle il diploma. Lei era in sedia a rotelle, con toga e tocco. La didascalia diceva: 'Carolyn Poulin realizza un importante obiettivo sulla lunga strada della riabilitazione'.»

«E c'era ancora?»

«L'articolo sulla cerimonia sì, chiaramente. Il giorno dei diplomi ha sempre molto spazio sui piccoli giornali locali, lo sai meglio di me, compare. Ma dopo il mio ritorno dal '58, la foto era cambiata, c'era un ragazzo con un maldestro taglio di capelli alla Beatles, in piedi sul podio, e la didascalia diceva: 'Trevor "Buddy" Briggs tiene il discorso di commiato per la consegna dei diplomi'. Poi elencavano i nomi di tutti i diplomati (soltanto un centinaio), ma Carolyn Poulin non c'era. E così ho guardato l'articolo dell'anno prima, il '64, l'anno in cui si sarebbe diplomata se non avesse perso tempo per colpa di un proiettile alla spina dorsale, e… bingo! Niente foto, niente menzione speciale, ma era nell'elenco, tra David Platt e Stephanie Routhier.»

«Solo un'altra ragazza che cammina sulle note di Pomp and Circumstance

«Esatto. Poi ho cercato il suo nome col motore di ricerca, e ho trovato qualche occorrenza post 1964. Non molte: tre o quattro. Niente che non ti aspetteresti da una donna normale che vive una vita normale. Era andata all'Università del Maine, si era laureata in gestione aziendale, poi una specializzazione nel New Hampshire. Ho trovato un altro articolo, del '79, poco prima che il giornale chiudesse: 'Ex studentessa della LHS vince mostra floreale nazionale'. C'era una foto: Carolyn era ritta sulle sue gambe, con in mano il suo fiore, una bella di giorno. Viveva… Vive… Non so più che tempo verbale usare, forse vanno bene tutti e due… in una cittadina vicino ad Albany, New York.»

«È sposata? Ha figli?»

«Non credo. Nella foto lei regge il fiore, e non porta anelli sulle dita. So cosa stai pensando, nella sua vita non sembra essere cambiato granché oltre al poter camminare. Ma chi può dirlo veramente? Abitava in un altro posto, e influenzava la vita di persone diverse. Gente che non avrebbe mai conosciuto se Cullum le avesse sparato e fosse rimasta a vivere a Lisbon Falls. Capisci cosa intendo?»

Quel che capivo era che la faccenda restava imponderabile, ma ero d'accordo con lui. Soprattutto perché volevo che finisse la storia prima di collassare. E volevo vederlo al sicuro nel suo letto, prima di andarmene.

«Quel che sto dicendo, Jake, è che puoi cambiare il passato, ma non è facile come sembra. Quella mattina mi sembrava di essere un uomo che cerca di liberarsi da una calza di nylon. Sembra che stia cedendo, ma ecco che torna in posizione, più stretta di prima. Comunque, alla fine sono riuscito a strapparla.»

«Ma perché dovrebbe essere difficile? Perché il passato non vuole essere cambiato?»

«Qualcosa non vuole che il passato cambi, di questo sono abbastanza sicuro.

Ma cambiarlo si può. Tenendo conto delle resistenze, si può.» Al mi stava guardando negli occhi, occhi ancora vividi su quel volto tirato. «Dopotutto, si potrebbe dire che la storia di Carolyn Poulin termina con la frase 'E visse felice e contenta', giusto?»

«Giusto.»

«Apri il quaderno che ti ho dato, compare, e forse cambierai idea: È una cosetta che ho stampato oggi.»

Feci come mi aveva detto e vidi una tasca di cartone all'interno della copertina. Pensai servisse a conservare promemoria da ufficio o biglietti da visita. Dentro, c'era un foglietto ripiegato. Lo presi, lo aprii e lo fissai a lungo. Era la stampata di una prima pagina del Lisbon Weekly Enterprise. Nell'intestazione, la data era 18 giugno 1965. Il titolo diceva: «La classe '65 della LHS lascia la scuola tra lacrime e risate». Nella foto, un tizio calvo (con il tocco sottobraccio così che non gli scivolasse giù dal capo) si chinava su una sorridente ragazza in sedia a rotelle. Entrambi reggevano il diploma di lei. La didascalia recitava: «Carolyn Poulin realizza un importante obiettivo sulla lunga strada della riabilitazione».

Guardai Al, confuso. «Se hai cambiato il futuro e l'hai salvata, come fai ad avere questo?»

«Ogni viaggio è un nuovo inizio, compare. Ricordi?»

«Oh, mio Dio… Quando sei tornato indietro per fermare Oswald, tutto quello che avevi fatto per Carolyn è stato cancellato.»

«Sì… e no.»

«Che intendi dire?»

«Il viaggio nel passato per salvare Kennedy doveva essere l'ultimo, ma non avevo fretta di scendere in Texas. Perché avrei dovuto? Nel settembre del 1958, Ozzie il coniglio (così lo chiamavano i suoi compagni nei marines) non era nemmeno in America. Era a zonzo nel Pacifico del Sud con la sua unità, intento a difendere la democrazia in Giappone e a Formosa. Così sono tornato al capanno di Sebago, e sono rimasto lì fino al 15 novembre. Di nuovo. Ma quando è arrivato il giorno fatidico, sono partito ancora più presto, ed è stata una bella mossa, perché quella volta non ho forato due gomme: si è rotto direttamente l'albero motore della dannata Chevy. Ho dovuto dare sessanta dollari al benzinaio di Naples per poter usare la sua macchina, e come pegno gli ho lasciato il mio anello dei marines. Ho avuto qualche altra disavventura, che intendo risparmiarti.»

«A Durham il ponte era ancora crollato?»

«Non lo so, compare, non ci ho manco provato a prendere quella strada. Se uno non impara dal passato è un idiota, a mio modesto parere. Una cosa che io avevo imparato era da che parte sarebbe arrivato Andy Cullum, e gli sono andato subito incontro. L'albero sbarrava la strada, come la volta precedente. Quando Cullum è arrivato, io stavo cercando di spostarlo, come la volta precedente. Al momento giusto fingo il dolore al petto, come la volta precedente. Facciamo tutta la pantomima, Carolyn Poulin passa un bel sabato con suo padre in mezzo ai boschi, e un paio di settimane dopo io dico ciao ciao al Maine e prendo un treno per il Texas.»

«E allora come fai ad avere questa foto della cerimonia?»

«Perché ogni passaggio attraverso la buca del coniglio fa ricominciare tutto.» Al rimase a guardarmi, per vedere se avevo capito. Mi ci volle un minuto, ma alla fine ci arrivai.

«Io…»

«Esatto, compare. Questo pomeriggio non hai soltanto bevuto una root beer: hai anche rimesso Carolyn Poulin sulla sua sedia a rotelle.»

4

1

AL si lasciò accompagnare in camera da letto, e addirittura borbottò: «Grazie, compare», quando mi chinai per slacciargli e togliergli le scarpe. Si oppose soltanto quando mi offrii di aiutarlo in bagno.

«Cambiare in meglio il mondo è importante, ma è importante anche poter andare al cesso in autonomia.»

«Quel che conta è esser sicuri di riuscirci.»

«Ne sono sicuro, almeno per stasera, e del domani mi preoccuperò domani. Vai a casa, Jake. Comincia a leggere il quaderno, c'è un sacco di roba là dentro. Dormici sopra. Torna a trovarmi domattina e dimmi che decisione hai preso. Io sarò ancora qui.»

«Probabilità del 95%?»

«Non meno del 97%. Nel complesso, mi sento abbastanza bene. Non ero nemmeno sicuro di riuscire a raccontarti tutto. Già averlo fatto, e averti convinto che è vero, mi toglie un peso dalla mente.»

Non ero certo che mi avesse convinto, nemmeno dopo la mia avventura pomeridiana, ma non dissi niente. Gli augurai la buonanotte, gli ricordai di stare attento con le pillole («Sì, sì»), e me ne andai. Fuori, restai per un minuto buono a fissare il nano con la bandiera del Texas, poi tornai alla mia auto.

Non disturbare il Texas, pensai… Ma forse stavo per farlo. E vista la difficoltà con cui Al era riuscito a cambiare il passato (le gomme a terra, il motore rotto, il ponte crollato), ero dell'idea che, se avessi deciso di agire, sarebbe stato il Texas a disturbare me.

2

Dopo una serata del genere, non credevo che sarei riuscito ad addormentarmi prima delle due o tre di notte, ed era altamente probabile che non riuscissi ad addormentarmi per niente. Ma a volte il corpo afferma i propri imperativi: non appena arrivai a casa e mi feci un drink (poter tenere alcolici era uno degli svariati, piccoli vantaggi dell'essere tornato single), sentii le palpebre pesanti. Finii lo scotch e lessi le prime nove o dieci pagine del quaderno di Al, che a malapena riuscivo a reggere in mano. Sciacquai il bicchiere nel lavello, entrai in camera da letto (lasciandomi dietro una scia di vestiti a mano a mano che avanzavo, cosa per cui, ai tempi del mio matrimonio, Christy mi avrebbe certamente rotto le palle), e crollai sul letto a due piazze dove ormai dormivo solo. Pensai di allungare il braccio e spegnere la lampada, ma il braccio era pesante, troppo pesante. Sembrava passato molto, moltissimo tempo da quando stavo seduto nella sala professori a correggere le tesine del seminario di poesia. E non c'era niente di strano: lo sanno tutti che, per essere una cosa tanto inesorabile, il tempo ha una sua peculiare malleabilità.

Ho segato le gambe a quella ragazzina. L'ho rimessa sulla sedia a rotelle.

Non fare il cretino, quando hai disceso i gradini della dispensa, oggi pomeriggio, nemmeno sapevi chi fosse Carolyn Poulin. Inoltre, forse da qualche parte sta ancora camminando. Forse passare per quel buco crea realtà alternative, o biforcazioni nel tempo, o qualche altra cosa del genere.

Carolyn Poulin, sulla sua sedia a rotelle, riceve il diploma. L'anno in cui Hang On Sloopy dei McCoys è in cima alla classifica.

Carolyn Poulin passeggia nel suo giardino, tra le belle di giorno, nel 1979. L'anno in cui Y.M.C.A. dei Village People è in cima alla classifica. Ogni tanto si inginocchia per strappare un'erbaccia, poi si rialza e riprende a camminare.

Carolyn Poulin nel bosco con suo padre, in procinto di restare storpia per un proiettile.

Carolyn Poulin nel bosco con suo padre, in procinto di entrare in una normale adolescenza di provincia. Dove si trovava in quel continuum temporale, mi chiesi, quando la radio e la TV avevano dato notizia che il trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti era stato ucciso a Dallas?

Puoi cambiare la storia, Jake. John Kennedy può salvarsi.

E le cose sarebbero davvero andate meglio? Non c'erano garanzie.

Mi sembrava di essere un uomo che cerca di liberarsi da una calza di nylon.

Chiusi gli occhi e vidi pagine volar via da un calendario. Banale espediente narrativo da vecchio film. Le vidi uscire dalla finestra come uccelli.

Un altro pensiero mi sovvenne prima di crollare: lo stupido adolescente con l'ancor più stupido pizzetto sul mento, che sorrideva e borbottava: «Hop, hop, Harry Saltarospo». E Harry che mi fermava prima che potessi fargli chiedere scusa. Nah, non c'è problema. Ci sono abituato.

Poi andai KO.

3

Mi svegliai al primo chiarore dell'alba, con gli uccellini che cantavano. Mi toccai il volto, sicuro di aver pianto nel sonno. Avevo fatto un sogno, e anche se non lo ricordavo, doveva essere stato molto triste, perché non sono mai stato un uomo facile alle lacrime.

Guance asciutte. Niente lacrime.

Mi girai per guardare la sveglia e vidi che mancavano solo due minuti alle sei. Vista l'intensità della luce, sarebbe stata una splendida mattinata di giugno, e la scuola era finita. Il primo giorno di vacanza, di solito, è felice per gli insegnanti quanto per gli studenti, ma io ero triste. Triste. E non soltanto perché dovevo prendere una decisione difficile.

A metà strada tra il letto e la doccia, una frase mi scoppiò in testa, la frase di un vecchio show per bambini. Il saluto del gran capo Rombo-di-tuono: Kowabunga, Buffalo Bob!

Mi fermai, nudo, osservando la mia espressione stupefatta nello specchio sopra il cassettone. Adesso ricordavo il sogno, e non c'era da sorprendersi che mi fossi svegliato triste. Avevo sognato di essere nella sala insegnanti, intento a leggere temi di inglese delle serali, mentre in fondo al corridoio l'ennesima partita di basket correva verso il fischio finale. Mia moglie si era appena disintossicata. Speravo di trovarla sobria a casa al mio rientro, così non avrei dovuto passare un'ora al telefono per cercare di localizzarla, e poi andare a tirarla fuori da qualche bettola.

Nel sogno avevo spostato il tema di Harry Dunning in cima alla pila, e avevo iniziato a leggere:

Non era un giorno ma una notte. La notte che cambio la mia vita fu la notte che mio padre assasinò mia madre e due dei miei fratelli…

Quell'incipit aveva attirato tutta la mia attenzione, e subito. Be', avrebbe attirato l'attenzione di chiunque, no? Ma gli occhi avevano iniziato a bruciarmi solo quand'ero arrivato alla descrizione di cosa indossava. Quell'abbigliamento aveva senso: quando i ragazzini escono in quella speciale sera d'autunno, portando con sé sacchetti vuoti che sperano di riportare a casa pieni di dolcetti, i loro costumi rispecchiano sempre la voga del momento. Nella mia prima spedizione dolcetto-o-scherzetto, tante lune prima, io avevo percorso il marciapiede (con mia madre che mi seguiva a quattro-cinque metri di distanza, su mia pressante richiesta) sferragliando nel mio costume da Snowtrooper di Guerre Stellari. Era dunque così strano che Harry Dunning indossasse abiti di pelle scamosciata?

«Kowabunga, Buffalo Bob!» dissi al mio riflesso, e scattai verso il mio studio. Non conservo tutti i lavori degli studenti, nessun insegnante lo fa (ci annegherebbe dentro!), ma io avevo l'abitudine di fotocopiare i temi migliori. Sono preziosi strumenti d'insegnamento. Non avrei mai usato in classe il tema di Harry, era troppo personale, ma ne avevo fatto comunque una copia, per l'emozione che mi aveva dato. Aprii l'ultimo cassetto e iniziai a rovistare in quel casino di cartelline e fogli sparsi. Dopo cinque, sudati minuti, lo ritrovai. Mi sedetti alla scrivania e cominciai a leggere.

4

Non era un giorno ma una notte. La notte che cambio la mia vita fu la notte che mio padre assasinò mia madre e due dei miei fratelli e mi ferì gravemente. Fece male anche a mia sorella, così male che lei finì in coma. In tre anni morì, senza essersi mai più svegliata. Si chiamava Ellen e le volevo tanto bene. Le piaceva coliere i fiori e metterli nei vasi. Quello che è capitato era come un film dell'orrore. Io non vado mai a vedere i film dell'orrore, perché la sera di Halloween del 1958 ne ho vissuto uno in prima persona.

Mio fratello Troy era troppo grande per dolcetto o scherzetto (15 anni). Stava guardando la TV con mia madre e disse che ci voleva aiutare a mangiare i nostri dolcetti quando saremo tornati io ed Ellen, ma lei disse: no, mettiti un costume e trovateli da solo, e tutti risero perché volevamo bene a Ellen, aveva solo 7 anni ma era come Lucille Ball, faceva ridere tutti, perfino mio padre (se non era ubriaco, cioè, perché quand'era ubriaco era sempre furioso). Lei stava uscendo vestita da Principessa Summerfall Winterspring (ho cercato il nome, si scrive giusto così) e io ero Buffalo Bob, tutti e due erano nel Howdy Doody Show che a noi piaceva tanto. «Ehi ragazzi, che ora è?»

«Sentiamo cos'ha da dire il loggione!» e «Kowabunga, Buffalo Bob!», io ed Ellen amavamo quello show. A lei piaceva la principessa, a me il capo indiano e tutti e due amavamo Howdy! Volevamo che mio fratello Tugga (si chiamava Arthur ma tutti lo chiamavano Tugga, non mi ricordo il perché) si vestisse da sindaco Fineus T. Blaster ma lui non voleva, diceva che Howdy Doody era roba per bambini, lui voleva travestirsi da Frankenstàin anche se Ellen gli aveva detto che quella maschera la spaventava. E poi, Tugga me ne disse di tutti i colori perché portavo con me il mio fucile giocattolo Daisy, perché diceva che Buffalo Bob nello show non aveva nessun'arma, e allora mia madre disse: «Harry, portala se vuoi, non è un'arma vera, non spara neanche proiettili finti, Buffalo Bob non avrebe problemi». Quella fu l'ultima cosa che mia madre mi disse e sono contento che è stata una cosa carina perché a volte poteva essere severa.

Così eravamo pronti e io dissi aspettate un secondo che devo andare in bagno, ero eccitato e mi scappava. Mi presero tutti in giro, perfino la mamma e Troy dal divano ma fare pipì mi salvò la vita perché fu proprio in quel momento che arrivò mio padre con il martello. Mio padre era cattivo quando beveva e picchiava mia madre «Senza tregua». Una volta quando Troy aveva cercato di fermarlo e di convincerlo a lasciar perdere, lui gli aveva rotto un braccio. Quella volta era quasi andato in prigione (mio padre, voglio dire). Comunque mio padre e mia madre erano «Separati» già in quel periodo, e lei stava pensando di divorziare ma nel 1958 non era facile come adesso.

Comunque, entrò dalla porta e io ero in bagno a fare la pipì e sentii mia madre dire: «Esci di qui con quella cosa, tu non devi stare qui». Poi si mise a urlare. Poi urlarono tutti.

Seguivano altre tre pagine. Tre pagine terribili. Ma non ero io che dovevo leggerle.

5

Mancavano ancora pochi minuti alle sei e mezzo, ma trovai Al sull'elenco e feci il suo numero senza esitare. Non lo svegliai: rispose al primo squillo, la voce talmente roca che a stento si capivano le parole. Sembrava più il latrato di un cane che la parlata di un umano.

«Ehi, compare, siamo mattinieri.»

«Devo farti vedere una cosa. Il tema di uno studente. E conosci chi lo ha scritto, o almeno dovresti: hai la sua foto sulla tua parete delle celebrità.»

Al tossì, poi disse: «Ho un sacco di foto, su quella parete. Mi sa che ce n'è anche una di Frank Anicetti, scattata ai tempi del primo Moxie Festival. Dammi un aiutino.»

«Preferisco farti vedere. Posso venire?»

«Se puoi sopportare di vedermi in accappatoio… Ma devo chiedertelo, adesso che ci hai dormito sopra: hai deciso?»

«Mi sa che prima devo fare un altro viaggio nel passato.»

Riattaccai prima che potesse farmi altre domande.

6

Nella luce del mattino che entrava dalla finestra del soggiorno, Al sembrava più malato che mai. L'accappatoio bianco gli cadeva addosso come un paracadute afflosciato. Evitare la chemio gli aveva lasciato in testa i capelli, ma erano sempre più radi e sottili. Gli occhi sembravano ancora più infossati nelle orbite. Lesse il tema di Harry due volte, fece per riporlo, ma poi lo rilesse. Alla fine mi guardò e disse: «Gesù Cristo in carrozzella!»

«La prima volta che l'ho letto, mi sono messo a piangere.»

«Ti capisco bene. La parte sul fucile ad aria compressa è quella che mi commuove di più. Negli anni Cinquanta, c'era la pubblicità dei fucili Daisy sul retro di ogni albo a fumetti. Tutti i ragazzi del mio quartiere (almeno, tutti i maschi) volevano due cose: un fucile ad aria compressa Daisy e un cappello con la coda di procione alla Davy Crockett. Ha ragione, non c'erano proiettili, nemmeno finti, ma di solito mettevamo un po' di olio Johnson's Baby nella canna, così quando ci pompavi dentro l'aria e premevi il grilletto, veniva fuori uno sbuffo di fumo azzurro.» Tornò a fissare le fotocopie. «Quel figlio di troia ha ucciso sua moglie e tre dei suoi figli… con un martello? Gesù…»

Cominciò a picchiare con quello. Io tornai di corsa nel soggiorno e c'era sangue sui muri e roba bianca sul divano. Era il cervello di mia madre. Ellen era per terra, con la sedia-dondolo sulle gambe, e il sangue veniva fuori dalle orecchie e dai capelli. La TV era ancora accesa, a mia mamma piaceva tanto quel telefilm con Elery Quinn che risolveva i crimini.

Il crimine di quella sera non somigliava per niente a quelli eleganti e incruenti di cui si occupava Ellery Queen. Era stato un massacro. Il ragazzino di dieci anni che era andato a fare pipì prima di uscire a chiedere dolcetti ai vicini tornò in soggiorno appena in tempo per vedere suo padre, ubriaco e folle di rabbia, spaccare il cranio di Arthur «Tugga» Dunning, mentre Tugga cercava di strisciare verso la cucina. Poi si girò e vide Harry. Harry puntò l'arma ad aria compressa e disse: «Lasciami stare, papà, o ti sparo!»

Dunning scattò verso il ragazzo, brandendo il martello insanguinato. Harry sparò col suo fucile (mi parve di sentire il rumore, Craac! anche se non ne avevo mai usato uno), poi lo gettò a terra e scappò verso la camera da letto che divideva con l'ormai defunto Tugga. Suo padre non aveva chiuso la porta quand'era entrato in casa, e da qualche parte (Sembrava a mille miglia di distanza, aveva scritto il bidello) i vicini stavano urlando, e anche i bambini in costume stavano urlando.

Quasi sicuramente Dunning avrebbe ucciso anche il suo ultimo figlio, se non fosse inciampato sulla «sedia-dondolo». Cadde a faccia in avanti, si alzò e corse verso la camera dei più piccoli. Harry stava cercando di strisciare sotto il letto. Suo padre lo tirò fuori e gli assestò un colpo su un lato della testa, un colpo che lo avrebbe ucciso se il manico insanguinato non fosse scivolato tra le mani dell'assassino. Anziché spaccare il cranio di Harry, il martello ne fece solo incavare un pezzo poco sopra l'orecchio destro.

 

Non svenii ma quasi. Continuai a strisciare sotto il letto e quasi non lo sentii quando mi colpì alla gamba, ma lo fece e me la ruppe in 4 posti diversi.

 

A quel punto, dalla strada accorse un uomo che aveva accompagnato la figlia a chiedere dolcetti. Nonostante lo scempio in soggiorno, quel tizio ebbe la lucidità di prendere la paletta della cenere sistemata accanto alla stufa, e con quella colpì in testa Dunning mentre cercava di rovesciare il letto e arrivare al suo semincosciente, sanguinante figlio.

 

Dopodiché svenii come Ellen ma io ebbi la fortuna di risvegliarmi. I dottori dissero che forse mi avrebbero imputato la gamba, ma alla fine non lo fecero.

 

No, conservò la propria gamba e anni dopo diventò il bidello della Lisbon High School, noto presso più generazioni di studenti col nomignolo di Harry Saltarospo. I ragazzi sarebbero stati più gentili con lui se avessero saputo perché era zoppo? Probabilmente no. Anche se sono emotivamente sensibili e facili da ferire, gli adolescenti non sono molto empatici. È una cosa che si acquisisce più in là, se si acquisisce.

 

«Ottobre 1958. Dovrei pensare che è una coincidenza?» disse Al con la sua voce di carta vetrata.

Ricordai quel che avevo detto alla versione teenager di Frank Anicetti, a proposito del racconto di Shirley Jackson: «A volte un sigaro è solo una cosa che si fuma, e un racconto è solo un racconto. So solo che stiamo parlando di un altro momento spartiacque.»

«E perché non ho trovato questa storia sull'Enterprise?»

«Non è successa da queste parti. È accaduta più a nord. A Derry. Quando Harry si riprese e poté essere dimesso dall' ospedale, andò a vivere con i suoi zii a Haven, una quarantina di chilometri a sud di Derry. Lo adottarono e lo misero a lavorare nella loro fattoria, quando fu chiaro che non poteva tenere dietro agli studi.»

«Sembra Oliver Twist, o qualcosa del genere.»

«No, furono buoni con lui. Ricordati che all'epoca non c'erano classi di recupero, e l'espressione 'deficit cognitivo' non era nemmeno stata inventata…»

«Lo so», rispose secco Al. «All'epoca si dava subito del deficiente. E anche peggio.»

«Ma Harry non lo era, e non lo è nemmeno adesso», dissi. «Se c'è stato un danno neurologico, è guarito. Penso che fosse soprattutto sotto shock. Traumatizzato. Ci ha messo anni a superare quella sera, e quando ci è riuscito, gli anni della scuola erano già passati.»

«Poi si è rimesso a studiare per avere il diploma parificato, ma a quel punto era un uomo di mezza età, anzi, quasi vecchio.» Al scosse il capo. «Che spreco.»

«Cazzate», dissi. «Una vita onesta non è mai sprecata. Poteva andargli meglio? Certo che sì. E io posso fare qualcosa? Dopo quello che ho scoperto ieri, forse. Ma non è questo il punto.»

«No? E allora qual è? Perché a me sembra di nuovo la storia di Carolyn Poulin, e la verifica l'abbiamo già avuta. Sì, puoi cambiare il passato. E no, quando lo fai il mondo non scoppia come un palloncino. Mi versi un po' di caffè, Jake? E prendine uno anche tu, già che ci sei. È caldo, e sembri averne bisogno.»

Mentre mi versavo il caffè, vidi delle merendine. Gli chiesi se ne voleva una, ma disse di no. «I cibi solidi mi causano dolore quando inghiotto. Ma se proprio vuoi farmi mandar giù calorie, in frigo c'è una confezione da sei di Ensure. Per me sa di muco freddo, ma almeno riesco a mandarlo giù.»

Quando gli servii l'integratore in uno dei calici da vino che avevo trovato nella sua credenza, si mise a ridere: «Pensi che così migliori il sapore?»

«Forse. Tu fingi che sia pinot nero.»

Ne bevve metà, e vidi che lottava col suo esofago per non rigurgitare. Vinse la battaglia, ma poi ripose il calice e riprese la tazza di caffè. Non lo bevve, ma tenne la tazza tra le mani, come per assorbire un po' di calore. Vedendo quella scena, rifeci il calcolo di quanto tempo gli restasse.

«E allora», disse, «perché questo caso sarebbe diverso?»

Se non fosse stato tanto male, se ne sarebbe reso conto da sé. Era un uomo molto intelligente. «Carolyn Poulin non è mai stata un buon caso di studio. Tu non le hai salvato la vita, Al. Le hai salvato solo le gambe. In entrambe le esistenze, quella in cui Cullum le aveva sparato e quella in cui tu eri intervenuto, ha avuto una vita perfettamente normale. Non si è mai sposata, non ha mai avuto bambini. È come se…» Cercai le parole giuste. «Non per offendere, Al, ma quel che hai fatto è stato come curare un'appendice infetta. Buono per l'appendice, ma anche da sana non servirà a niente. Capisci cosa intendo dire?»

«Sì», rispose, ma pareva un poco irritato. «Carolyn Poulin mi è sembrata il meglio che potessi fare. Alla mia età, il tempo è limitato anche se stai bene. lo tenevo gli occhi su un trofeo più grosso.»

«Non ti sto criticando. Ma la famiglia Dunning è un caso molto migliore, perché non si tratta solo di una bambina paralizzata, per quanto sia stata una cosa terribile, per lei e la sua famiglia. Parliamo di quattro persone ammazzate e una quinta menomata a vita. Inoltre, quest'ultima la conosciamo di persona. Dopo che ha preso il diploma, siamo venuti da te a mangiare un hamburger, e quando hai visto tocco e toga, hai offerto tu. Ti ricordi?»

«Sì. È stato allora che ho scattato la foto.»

«Se ci riesco… Se riesco a fermare suo padre prima che faccia la strage… Pensi che quella foto sarà ancora sulla parete?»

«Non lo so», disse Al. «Forse no. Potrei anche non ricordare che c'era.»

Stavamo scivolando un po' troppo nella teoria, e non feci commenti. «Pensa agli altri tre figli: Troy, Ellen e Tugga. Di sicuro almeno uno di loro si sposerà, se riesce a diventare grande. E forse Ellen diventerà una comica famosa. Harry non ha scritto che era spiritosa come Lucille Ball?» Mi chinai verso Al. «L'unica cosa che voglio è un migliore esempio di cosa succede quando cambi un momento spartiacque. Ho bisogno di sapere, prima di infilarmi in qualcosa di enorme come l'assassinio Kennedy. Tu che ne dici, Al?»

«Dico che capisco molto bene.» A fatica, si alzò in piedi. Era doloroso guardarlo, ma quando feci per alzarmi anch'io, mi accennò di stare seduto. «No, non muoverti. Ho anch'io qualcosa per te. È nella stanza accanto, vado a prenderlo.»

7

Era una scatola di latta. Me la diede e mi disse di portarla in cucina. Là, sul tavolo, sarebbe stato più semplice mostrarmi il contenuto. Quando fummo seduti, l'aprì con una chiave che teneva appesa al collo. La prima cosa che estrasse fu una busta beige, piena zeppa di qualcosa. Tirò fuori un mucchio di banconote. Ne presi una e la rimirai, stupito. Era un biglietto da venti, ma al posto di Andrew Jackson c'era Grover Cleveland, personaggio che nessuno inserirebbe nella propria classifica dei dieci migliori presidenti. Sul retro c'erano una locomotiva e un battello a vapore che sembravano in rotta di collisione, sotto la scritta FEDERAL RESERVE NOTE.

«Sembrano soldi del Monopoli…»

«Non lo sono. E non sono tanti, nonostante l'apparenza, perché sono tutti pezzi piccoli, al massimo da venti. In questi giorni, quando un pieno di benzina può costare trenta-trentacinque dollari, un biglietto da cinquanta non attira l'attenzione di nessuno, nemmeno in un negozietto. Ma nel '58 le cose erano diverse, e attirare l'attenzione è l'ultima cosa che ti serve.»

«Questi sono soldi vinti con le scommesse?»

«In parte. Più che altro sono i miei risparmi. Dal '58 al '62 ho lavorato come cuoco, proprio come qui, e un uomo non sposato può mettere da parte parecchio, soprattutto se non esce con donne esose. Cosa che io non facevo. Nemmeno con le non esose, se è per qu esto. Restavo in buoni rapporti con tutti, e non mi avvicinavo troppo a nessuno. Ti consiglio di fare lo stesso. A Derry, e anche a Dallas se ci andrai.» Alzò il denaro con un dito scheletrico. «Sono un po' più di novemila dollari, a quanto ricordo. Al di là della buca del coniglio, ci compri quello che qui paghi sessantamila.»

Guardai tutti quei verdoni. «Il denaro torna indietro. E rimane, non importa quante volte passi nella buca.» Ne avevamo già parlato, ma stavo ancora cercando di capire.

«Sì, e al contempo gli stessi soldi esistono anche là. Resettaggio completo, ricordi?»

«Ma non è un paradosso?»

Mi fissò, sofferente, la pazienza che iniziava a sfilacciarsi. «Non lo so. Fare domande che non hanno risposta è una perdita di tempo, e a me non ne rimane molto.»

«Scusa. Cos'altro tieni in qu ella scatola?»

«Niente di che. Ma il bello è proprio questo: non ti serve granché. È un'epoca molto diversa, Jake. Puoi aver letto un sacco di libri di storia, ma finché non ci passi un po' di tempo non puoi capire davvero.» Mi passò una tessera della previdenza sociale. Il numero era 005-52-0223. Era intestata a George T. Amberson. Al mi porse una biro: «Firmala».

La penna era un gadget promozionale. Sulla canna c'era la scritta: TEXACO – AFFIDA L'AUTO ALL'UOMO CON LA STELLA. Sentendomi un po' come Daniel Webster quando sigla il suo patto col diavolo, firmai la tessera. Quando feci per restituirgliela, mi invitò a tenerla.

Poi mi diede la patente di guida di George T. Amberson. C'era scritto che ero alto uno e novanta, avevo occhi azzurri e capelli castani, pesavo ottanta chili. La data di nascita era il 22 aprile 1923, e vivevo al numero 19 di Bluebird Lane, a Sabattus. Guarda caso, era il mio indirizzo del 2011.

«Un metro e novanta è giusto?» mi chiese Al. «Ho calcolato a occhio.»

«Ci sei andato vicino.» Firmai anche la patente, un normale rettangolo di cartone di un burocratico beige. «Niente foto?»

«Nel Maine la introdurranno solo diversi anni dopo. E anche negli altri quarantasette Stati, se è per quello.»

«Quarantasette

«L'Alaska e le Hawaii diventeranno Stati membri solo l'anno successivo.»

«Ah.» Rimasi senza fiato, come se qu alcuno mi avesse dato un cazzotto nello stomaco. «Quindi… Quando ti fermano per eccesso di velocità, allo sbirro basta questo pezzetto di carta?»

«E perché no? Se nel 1958 parli di attacchi terroristici, la gente immagina adolescenti che ribaltano le mucche. Firma anche queste.»

Mi allungò una tessera da socio Hertz, una tessera punti benzina della Cities Service, una Diners Club Card e un'American Express. Quest'ultima era di celluloide, la Diners invece era di cartoncino. Su entrambe c'era il nome di George Amberson. Battuto a macchina, non stampato.

«L'anno prossimo potrai avere un'autentica American Express, se vuoi.» Sorrisi: «Niente libretto degli assegni?»

«Potrei rimediartene uno, ma a che ti servirebbe? Ogni scartoffia che ho compilato per conto di George Amberson verrà cancellata al prossimo riazzeramento. E anche i contanti depositati.»

«Ah.» Mi sentii stupido. «Giusto.»

«Non restarci male, per te è una situazione completamente nuova.

Comunque, aprire un conto ti servirà. Ti consiglio di non metterei più di mille dollari. Il grosso dei soldi tienilo in contanti, e dove li puoi prendere.»

«Nel caso mi tocchi tornare indietro in fretta.»

«Esatto. E le carte di credito sono solo pezze d'appoggio per la tua identità. I conti che ho aperto per averle saranno cancellati appena torni indietro. Possono comunque tornarti utili, non si può mai dire.»

«La posta per George arriva al 19 di Bluebird Lane?»

«Nel 1958, Bluebird Lane è solo un indirizzo su un piano regolatore, compare. L'area dove vivi adesso non è ancora stata edificata. Se qualcuno ti fa una domanda, digli che sono questioni di affari. Ti crederanno subito. Nel '58 gli affari sono divinità, tutti li adorano ma nessuno ci capisce niente. La tua posta ritirala all'ufficio postale del Lisbon Center. Ecco qui.»

Mi lanciò un lussuoso portafogli. Mi lasciò sbigottito: «È pelle di struzzo!»

«Voglio che sembri ricco», disse Al. «Ho trovato un po' di immagini per la tua personalità. E ti ho preso anche altra roba assortita. Altre due penne, per esempio. Una ha una specie di tagliacarte-righello in fondo, fu una moda effimera. Poi una portamine Scripto. Poi un proteggitaschino. Nel '58 sono considerati necessari, non è roba da sfigati. Un orologio Bulova con bracciale cromato Speidel. Piacerà ai tizi più cool. Al resto puoi provvedere da solo.» Tossì forte e a lungo, facendo smorfie per il dolore. Quando smise, sul viso aveva grosse gocce di sudore.

«Al, quando hai messo insieme tutto questo?»

«Quando ho capito che non ce l'avrei fatta ad arrivare al '63, ho lasciato il Texas e sono tornato a casa. Mi eri già venuto in mente, anche se non ti vedevo da quattro anni. Divorziato, senza figli, intelligente e, soprattutto, giovane. Ah, quasi dimenticavo: questo è il seme da cui è cresciuto tutto il resto. Ho copiato il nome da una lapide del cimitero St. Cyril, poi ho inviato una richiesta alla segreteria dello Stato del Maine.»

Mi consegnò il mio certificato di nascita. Passai i polpastrelli sui timbri in rilievo. Al tocco, dava una delicata sensazione di ufficialità.

Quando alzai lo sguardo, vidi che Al aveva posato sul tavolo un altro foglio. C'era un titolo: «SPORT 1958-1963».

«Non perderlo. Non solo perché ti ci guadagnerai il pane, ma anche perché avresti un bel po' di domande difficili a cui rispondere se finisce nelle mani sbagliate. Soprattutto quando i risultati cominceranno a confermare i pronostici.»

Iniziai a rimettere tutto nella scatola, ma Al scosse il capo. «C'è una valigetta Lord Buxton per te nel mio armadio, tutta bella consumata agli angoli.»

«Non mi serve. Ho il mio zainetto. È nel baule della macchina.»

Parve divertito. «Dove stai andando tu, compare, nessuno va in giro con uno zainetto, a parte i boy scout, e anche loro li portano solo quando vanno a fare le escursioni. Hai molto da imparare, ma se procedi con calma e non corri rischi inutili, te la caverai.»

Capii che stavo per farlo davvero, e subito, quasi senza preparazione. Mi sentii come uno che visita il porto di Londra nel diciassettesimo secolo, e all'improvviso capisce che stanno per imbarcarlo a forza.

«Ma cosa devo fare?» La frase venne fuori come una specie di belato.

Alzò le sopracciglia, fitte e ormai bianche quasi come la sua rada chioma.

«Devi salvare la famiglia Dunning. Non è di questo che stavamo parlando?»

«Non intendevo quello. Cosa devo fare quando mi chiedono di cosa campo?

Cosa gli rispondo?»

«Gli dici che è morto un tuo zio molto ricco, e che stai riscuotendo l'eredità un po' alla volta, per farla durare abbastanza da scrivere un libro. Non c'è uno scrittore frustrato in ogni insegnante d'inglese? O mi sbaglio?»

No, non si sbagliava.

Mi guardò, sofferente, emaciato, ma non senza comprensione. Forse anche con compassione. Infine disse, con dolcezza: «È una cosa grossa, vero?»

«Lo è», risposi. «E, Al… Amico… Io sono solo uno qualunque…»

«Potresti dire lo stesso di Oswald. Solo una mezza cartuccia che ha teso un agguato. E, a giudicare dal tema di Harry Dunning, suo padre è solo un ubriacone con un martello.»

«Nemmeno più quello, ormai. È morto di infezione allo stomaco nel carcere di Shawshank. Secondo Harry, fu probabilmente colpa di squeeze andato a male. Lo squeeze…»

«So cos'è lo squeeze. L'ho visto preparare quand'ero di stanza nelle Filippine. Ne ho persino bevuto un po', per mia disgrazia. Ma nel '58 il tizio è ancora vivo. E anche Oswald.»

«Al… So che stai molto male, so che soffri, ma… Puoi accompagnarmi al locale? Io…» Per la prima e ultima volta, usai il suo modo di rivolgersi a me:

«Compare, non voglio cominciare questa cosa da solo. Ho paura».

«Non me lo perderei per niente al mondo.» Con la mano si agganciò l'ascella e si alzò, stringendo i denti, tirando le labbra fino a scoprire le gengive. «Mentre mi vesto, tu prendi la valigetta.»

8

Erano le sette e tre quarti quando Al aprì la porta del prefabbricato color argento, casa-dolce-casa del Famoso Fatburger. Dietro il bancone, le scintillanti finiture cromate avevano un'aria spettrale. Gli sgabelli sembravano sussurrare: Nessuno si siederà più su di noi. Le grandi, antiquate zuccheriere sembravano rispondere loro: E nessuno ci userà più per versare zucchero. La festa è finita.

«Ragazzi, fate posto a L.L. Bean», dissi.

«Eh, già», disse Al. «La fottuta, inarrestabile avanzata del progresso.»

Era senza fiato, ansimava, ma non si fermò per riposare. Mi accompagnò dietro il bancone e fino alla porta della dispensa. Lo seguii, passando da una mano all'altra la valigetta con dentro la mia nuova vita. Era di quelle vecchio modello, con le fibbie. Se l'avessi portata a scuola, la maggior parte dei ragazzi si sarebbe messa a ridere. Alcuni, al contrario (quelli che iniziavano a coltivarsi un'idea di stile), avrebbero esultato per il look rétro.

Al aprì la porta. Dalla dispensa giunse odore di verdure, spezie e caffè. Per la seconda volta allungò il braccio sopra la mia spalla e accese la luce. Guardai il pavimento di linoleum grigio come un uomo sul ciglio di una vasca che sospetta esser piena di squali, e quando mi posò una mano sulla spalla, sobbalzai.

«Scusa», disse, «ma devi prendere questo.» Aveva in mano una moneta da cinquanta centesimi. Mezzo pezzo. «L'Uomo con la Tessera Gialla, ricordi?»

«Ma certo.» In realtà mi ero del tutto scordato di lui. Il cuore mi batteva tanto forte da far pulsare gli occhi nelle orbite. Invece della lingua mi sembrava di avere in bocca una vecchia striscia di moquette, e quando Al mi diede la moneta, per poco non la feci cadere.

Mi esaminò per l'ultima volta. «Per ora i jeans vanno bene, ma prima di andare a nord dovresti fermarti al Mason's Menswear, all'inizio di Main Street, e prenderti un paio di calzoni. Lanetta o gabardine cachi per tutti i giorni. Per occasioni più formali va bene il banlon.»

«Banlon?»

«Tu chiedi, loro sanno cos'è. Ti serviranno anche delle camicie classiche. E un completo. Cravatte, e un fermacravatta. Comprati anche un cappello. Non un berretto da baseball, ma un bel cappello di paglia estivo.»

Dagli angoli dei suoi occhi spuntavano lacrime. Questo mi spaventò molto più di qualunque cosa avesse detto.

«Al? C'è qualcosa che non va?»

«Ho solo paura, proprio come te. Ma non c'è bisogno di fare la scena dell'addio. Se torni, sarai qui tra due minuti, a prescindere da quanto tempo trascorrerai nel '58. Se funziona, tra poco ci prendiamo un caffè insieme e mi racconti com'è andata.»

Se. Che parola enorme.

«Nel mentre, potresti dire una preghiera. C'è abbastanza tempo, no?»

«Certo. Pregherò che tutto fili liscio e finisca bene. Non farti distrarre dal contesto, ricordati che hai a che fare con un tizio pericoloso. Forse più pericoloso di Oswald.»

«Starò attento.»

«OK. Tieni la bocca chiusa finché non impari il modo di esprimerti e non capti bene l'umore del posto. Vacci piano. Non farti notare.»

Cercai di sorridere, ma non sono sicuro di esserci riuscito. La valigetta sembrava molto pesante, come se fosse piena di pietre anziché di soldi e falsi documenti d'identità. Pensai che stavo per svenire. Eppure, che Dio mi aiuti, una parte di me voleva andare. Non vedeva l'ora di andare. Volevo vedere gli USA dal volante di una Chevrolet. L'America voleva sentirmi gridare il suo nome.

Al mi porse la sua mano magra e tremolante. «Buona fortuna, Jake. Che dio ti benedica.»

«George, vorrai dire.»

«George, giusto. Adesso vai. Come dicono nel '58, per te è giunta l'ora di alzare i tacchi.»

Mi girai e lentamente entrai nella dispensa, muovendomi come un uomo che cerca l'imbocco delle scale a luci spente.

Al terzo passo, lo trovai.

PARTE SECONDA

Il padre del bidello

5

1

CAMMINAI lungo la facciata dell'essiccatoio, come la prima volta. Passai sotto la catena con il cartello VIETATO L'ACCESSO, come la prima volta. Girai l'angolo del grande edificio cubico verde, come la prima volta, e poi sbattei contro qualcosa. Non sono molto pesante, considerata la mia altezza, comunque ho un po' di carne intorno alle ossa (Non rischi che il vento ti porti via, soleva dirmi mio padre), eppure l'Uomo con la Tessera Gialla mi fece cadere. Fu come essere aggredito da un soprabito nero pieno di uccelli che battono le ali all'impazzata. Stava urlando qualcosa, ma ero troppo stupito (non esattamente spaventato, era successo troppo in fretta) per capire una singola parola.

Lo spinsi via e indietreggiò barcollando. Sbatté contro il muro dell'essiccatoio, il soprabito vorticante intorno alle sue gambe. Si sentì un tonfo quando la testa colpì la parete, e il sudicio cappello di feltro cadde a terra. Lui lo seguì, non proprio cadendo, ma afflosciandosi come una fisarmonica. Fui subito dispiaciuto di quel che avevo fatto, prima ancora che il cuore tornasse al suo battito normale, e fui ancora più dispiaciuto quando l'uomo raccolse il cappello e spazzò via la polvere con una mano lurida. Quel cappello non sarebbe mai tornato pulito, e, con ogni probabilità, nemmeno il suo proprietario.

«Tutto a posto?» gli domandai, ma quando mi chinai per toccargli una spalla, si allontanò in fretta, lungo il muro dell'edificio, spingendosi con le mani e strisciando sulle chiappe. Potrei dire che sembrava un ragno azzoppato, ma non è vero: sembrava quel che era, un barbone col cervello affogato nel vino. Un uomo che forse era vicino alla morte tanto quanto Al Templeton, perché nell'America degli anni Cinquanta, probabilmente non c'erano rifugi gestiti da associazioni di volontariato, né programmi di disintossicazione per quelli come lui. Il dipartimento Reduci lo avrebbe anche accolto, se per caso aveva indossato un'uniforme, ma chi mai ce l'avrebbe portato? Nessuno, quasi sicuramente, anche se qualcuno (presumibilmente un capetto della fabbrica), poteva chiamare gli sbirri per farlo arrestare. Lo avrebbero messo nella cella degli ubriachi per ventiquattro o quarantotto ore, e se mentre era dentro non moriva tra le convulsioni del delirium tremens, lo avrebbero rilasciato, e il ciclo sarebbe ripartito. Mi ritrovai a rimpiangere che la mia ex moglie non fosse lì: avrebbe potuto trovargli un gruppo di Alcolisti Anonimi. Solo che Christy non era ancora nata, mancavano ancora ventun anni.

Mi misi la valigetta tra le gambe e gli mostrai le mani, per dimostrare che erano vuote, ma lui si fece ancora più piccolo contro l'edificio. Gocce di saliva brillavano sul suo mento stopposo. Mi guardai intorno, per essere sicuro che non stessimo attirando l'attenzione, vidi che quella parte del cortile era tutta per noi, e ritentai. «Ti ho spinto solo perché mi hai preso alla sprovvista.»

«Tu chi cazzo sei?» mi chiese, con la voce che crepitava attraverso cinque diverse tonalità. Per fortuna avevo già sentito la domanda nel mio viaggio precedente, altrimenti non avrei mai capito cosa mi stava chiedendo, ma… Anche se lo strascicamento era lo stesso, stavolta la cadenza non era un po' diversa? Non ne ero sicuro, ma mi pareva di sì. È innocuo, ma non è come tutti gli altri, aveva detto Al. È come se sapesse qualcosa. Secondo Al, era perché gli era capitato di trovarsi vicino alla buca del coniglio alle 11:58 antimeridiane del 9 settembre 1958, e ne sentiva l'influenza, allo stesso modo in cui produci elettricità statica su uno schermo TV se ci azioni accanto un frullatore. Forse era per quello. O forse, maledizione, forse era solo un avvinazzato.

«Nessuno di importante», dissi nel mio tono più rassicurante. «Nessuno di cui ti debba fregare qualcosa. Mi chiamo George, e tu?»

«Figlio di troia!» ringhiò, e si allontanò ancora di più. «Tu non dovresti essere qui!»

«Non preoccuparti, vado via subito», dissi. Raccolsi la valigetta per dimostrare che dicevo sul serio, e lui si strinse nelle spalle (finché queste ultime non gli toccarono le orecchie) come se temesse che volessi lanciargliela contro. Era come un cane che è stato picchiato tante volte da non aspettarsi nessun altro trattamento. «Da me non hai niente da temere, capito?»

«Vattene, bastardo! Torna a casa tua e lasciami in pace!»

«Affare fatto.» Mi stavo ancora riprendendo dalla sorpresa, e l'adrenalina che avevo in circolo reagiva male con la compassione che provavo, per non dire dell'esasperazione. La stessa esasperazione di quando tornavo a casa e trovavo Christy di nuovo sbronza, sbronza marcia nonostante tutte le promesse di riprendersi e rigare diritta, e mollare la bottiglia una volta per tutte. La miscela di emozioni reagiva con il caldo di quella giornata estiva, e provavo una leggera nausea. Probabilmente non era lo stato migliore in cui cominciare una missione di soccorso.

Pensai alla Kennebec Fruit Company e a quant'era buona quella root beer.

Rividi lo sbuffo di condensa uscire dal freezer mentre Frank Anicetti senior tirava fuori la tazza grande. E poi, là dentro c'era un provvidenziale fresco. Senza perdere altro tempo, mi incamminai in quella direzione, con la mia nuova (ma attentamente invecchiata agli angoli) valigetta che mi picchiava contro la coscia.

«Ehi, tipo! Oh, Cometichiami!»

Mi girai. L'avvinazzato si stava rialzando, appoggiandosi al muro dell'essiccatoio. Aveva ripreso il cappello e se lo teneva contro l'inguine, tutto schiacciato. Mentre lo risistemava, mi disse: «Ho una tessera gialla del posto verde, dammi un dollaro, figlio di troia, perché oggi è il giorno del vale-doppio».

Di nuovo il normale corso delle cose. Era confortante. A ogni modo, feci attenzione a non andargli troppo vicino. Non volevo spaventarlo ancora o provocare un altro attacco. Mi fermai a due metri da lui e allungai la mano. La moneta che mi aveva dato Al brillava sul palmo. «Non posso darti un dollaro, ma eccoti mezzo pezzo.»

Esitò. Ora teneva il cappello nella mano sinistra. «Meglio per te se non vuoi un pompino.»

«Sarei tentato, ma penso di poter resistere.»

«Eh?» Alzò lo sguardo dalla moneta per lanciarmi un'occhiata, poi tornò a guardare il mezzo pezzo. Con la mano destra si asciugò la bavetta dal mento, e io notai un'altra differenza rispetto al primo incontro. Nulla di eclatante, ma sufficiente a farmi dubitare, contro la sicurezza mostrata da Al, che ogni volta fosse la prima volta, il resettaggio completo.

«Non m'importa se la prendi o no, ma deciditi», dissi. «Ho da fare.»

Afferrò la moneta, poi tornò ad appoggiarsi al muro. Aveva occhi grandi e umidi. Sul mento era riapparsa la bava. Al mondo non c'è nulla di comparabile al fascino di un etilista all'ultimo stadio. Non capisco come mai le ditte produttrici di liquori non li usino nelle loro pubblicità: «Bevi bourbon Jim Beam e vedrai scarafaggi più belli».

«Chi sei? Cosa ci fai qui?»

«Sono venuto per un lavoro. Senti, ti sei rivolto agli AA per quel problemino che hai con la bott…»

«Vaffanculo, Jimla

Non avevo idea di cosa fosse un «jimla», ma il «vaffanculo» arrivò forte e chiaro. Mi incamminai di nuovo verso il cancello, aspettandomi che mi gridasse altre domande. Non lo aveva fatto la prima volta, ma quest'incontro era stato molto diverso.

Perché non era l'Uomo con la Tessera Gialla, non stavolta. Quando si era asciugato il mento, avevo visto la tessera che stringeva nella mano. Non era più gialla.

Era sempre sporca, ma stavolta era arancione.

2

Attraversai senza indugi il parcheggio della fabbrica, ancora una volta picchiettando sul cofano della Plymouth Fury bianca e rossa, come gesto portafortuna. Di sicuro avrei avuto bisogno di tutta la fortuna disponibile. Passai oltre i binari del treno, e di nuovo sentii il ciuf-ciuf, ma stavolta sembrava più lontano, perché il nuovo incontro con l'Uomo con la Tessera Gialla (ormai l'Uomo con la Tessera Arancione) era durato un po' di più. L'aria puzzava di gas di scarico, come la volta precedente, e passò la stessa corriera. Poiché ero in leggero ritardo, non feci in tempo a leggere la scritta, ma la ricordavo: LEWISTON EXPRESS. Mi chiesi, oziosamente, quante volte Al avesse visto quella stessa corriera, con gli stessi passeggeri che guardavano fuori dai finestrini.

Mi affrettai ad attraversare la strada, cercando di allontanare da me il fumo azzurro di scappamento. Il ribelle rockabilly era nella sua postazione all'ingresso del negozio, e per un istante mi chiesi cosa avrebbe detto se gli avessi rubato la battuta. Ma se, con la stessa meschinità con cui spaventeremmo di proposito un barbone, rubassimo a un ragazzino la sua lingua segreta, non gli rimarrebbe nulla da dire. Quello lì non poteva nemmeno tornarsene a giocare con la Playstation. Così mi limitai a un cenno col mento.

Me lo restituì e disse: «Ciao ciao, paparino».

Entrai. La campanella suonò. Superai gli albi a fumetti e andai dritto al bancone, da Frank Anicetti senior. «In cosa posso esserle utile oggi, amico mio?» Per un momento rimasi attonito, perché non era la frase che aveva detto la volta precedente. Poi capii il perché: la volta precedente avevo preso il giornale dalla rastrelliera. Ora invece no. Forse ogni nuovo viaggio nel 1958 riazzerava il contachilometri (fatta eccezione per l'Uomo con la Tessera Gialla), ma appena cambiavi qualcosa, tutto tornava imprevedibile. L'idea era al contempo spaventosa e liberatoria.

«Mi farebbe piacere una root beer», dissi.

«E a me fa piacere servirla, ecco un bell'incontro di anime. Da cinque o da dieci cent?»

«Direi da dieci.»

«E io direi che dice bene.»

La tazza ghiacciata uscì dal congelatore. Col manico di un cucchiaio di legno tolse la schiuma in eccesso. Riempì la tazza fino all'orlo e la posò di fronte a me. Come la prima volta.

«Fanno dieci cent, più un penny per il governatore.»

Gli diedi uno dei dollari vintage di Al, e mentre Frank 1.0 prendeva il resto, mi lanciai un'occhiata alle spalle e vidi l'ex Uomo con la Tessera Gialla in piedi di fronte al negozio di liquori (il «posto verde»), ciondolante di qua e di là. Mi ricordò un fachiro indù che avevo visto in qualche vecchio film, intento a soffiare in un piffero per attirare un cobra fuori da un cesto di vimini. E sul marciapiede, puntualissimo, ecco Frank Anicetti il Giovane.

Mi girai, bevvi un sorso di root beer e sospirai: «Proprio quel che ci voleva».

«Già, niente di meglio di una bibita fredda in una giornata afosa. Non è di queste parti, vero?»

«No, vengo dal Wisconsin.» Gli porsi la mano. «George Amberson.»

La strinse, mentre la campanella sopra la porta tornava a suonare. «Frank Anicetti. E questo è mio figlio, Frank junior. Saluta il signor Amberson dal Wisconsin, Frankie.»

«Buongiorno, signore.» Mi sorrise e mi fece un cenno del mento, poi si rivolse a suo padre. «Titus ha cominciato a lavorare al furgone. Dice che sarà pronto prima delle cinque.»

«Bene.» Mi aspettavo che Anicetti 1.0 si accendesse una sigaretta, e non restai deluso. Inalò, poi mi guardò e mi chiese: «Viaggio d'affari o di piacere?»

Non potei rispondere subito, ma non perché non sapessi che dire. A sorprendermi era il modo in cui quella scena continuava ad allontanarsi dal copione, per poi tornarci. In ogni caso, Anicetti non sembrò accorgersi di niente.

«Be', ha comunque scelto il momento giusto per venire qui. Quasi tutti i vacanzieri se ne sono già andati, e appena succede, noi ci rilassiamo. Ci vuole una cucchiaiata di vaniglia, nella root beer? Di solito sono cinque centesimi extra, ma il martedì costa solo mezzo decino.»

«Quella battuta era già vecchia dieci anni fa, papà», disse Frank junior, divertito.

«Grazie, mi piace così, risposi. «Viaggio d'affari. Devo chiudere l'acquisto di un immobile a… Sabattus? Mi sembra si chiami così. Conosce quella città?»

«Oh, solo da quando sono nato», rispose Frank. Buttò fuori fumo dalle narici, poi mi diede un'occhiata sagace. «Bel viaggetto, solo per comprare un immobile.»

Io gli rivolsi un sorriso del tipo Se sapesse quel che so io… Dovevo essere riuscito nell'intento, perché Anicetti mi strizzò l'occhio. La campanella all'ingresso suonò di nuovo, ed entrarono le signore della frutta. L'orologio del caffè Cheer-Up segnava le 12:28. A quanto pareva, la parte di copione in cui io e Frank junior parlavamo di Shirley Jackson era stata tagliata dalla nuova stesura. Finii la bibita in tre lunghe sorsate, e mentre lo facevo, un crampo mi strinse le viscere. Nei romanzi è raro che uno debba andare di corpo, ma nella vita reale, spesso lo stress psicologico provoca una reazione fisica.

«Senta, per caso c'è un bagno qui?»

«No, mi dispiace», rispose Frank senior. «Continuo a dirmi che devo farne costruire uno, ma d'estate siamo troppo occupati e d'inverno non sembrano mai esserci abbastanza soldi per una ristrutturazione.»

«Può girare l'angolo e andare da Titus», disse Frank junior! Stava mettendo del gelato in un cilindro di metallo, pronto a prepararsi un frappè. La volta precedente non lo aveva fatto, e con un certo disagio pensai al cosiddetto effetto farfalla. Pensai che la farfalla stava spiegando le ali proprio sotto i miei occhi. Stavamo cambiando il mondo. Solo in piccoli, infinitesimali modi, ma sì, lo stavamo cambiando.

«Signore?»

«Chiedo scusa, ho avuto un episodio senile.»

Parve perplesso, poi si mise a ridere. «Questa non l'avevo mai sentita, ma non è male.» E siccome non era male, forse l'avrebbe usata anche lui, la prossima volta che si fosse perso nei suoi pensieri, e una frase che non si era immessa nel brillante flusso dello slang comune americano prima degli anni Settanta o addirittura Ottanta, avrebbe fatto il suo debutto prima del previsto. Anzi, non si poteva nemmeno dire così, perché in quel flusso temporale, sarebbe arrivata al momento giusto.

«L'officina di Titus è dietro l'angolo, sulla destra», disse il padre. «Se è, ehm, urgente, può anche usare il nostro bagno privato, al piano di sopra.»

«No, non si preoccupi», risposi, e anche se avevo già guardato l'orologio alla parete, ostentatamente controllai il mio Bulova con il bel cinturino Speidel. Per fortuna non potevano vedere il quadrante, perché mi ero scordato di regolarlo e faceva ancora l'ora del 2011. «Devo proprio andare. I miei impegni mi attendono. A meno che non sia molto fortunato, mi terranno bloccato per più di un giorno. Può consigliarmi un buon motel nei dintorni?»

«Intende dire una locanda per automobilisti?» chiese Frank Anicetti. Spense il mozzicone in uno dei posacenere Winston allineati sul bancone.

«Esatto.» Stavolta il mio sorriso era più da stupido che da furbo… e le mie viscere tornarono a farsi sentire. Se non mi occupavo subito di quel problema, di lì a poco sarebbe diventato un'emergenza. In Wisconsin li chiamiamo motel.»

«Be', direi il Tamarack, circa sette chilometri più su lungo la 196, direzione Lewiston. Vicino al drive-in.»

«Grazie del consiglio.» Mi alzai dallo sgabello.

«Non c'è di che. E se vuole tagliarsi i capelli prima dei suoi incontri di lavoro, può andare al negozio di Baumer. È molto bravo.»

«Grazie, un altro buon consiglio.»

«I consigli sono gratuiti, la root beer costa valuta americana. Si goda la permanenza in Maine, signor Amberson. E, Frankie? Quando hai finito quel frappè, torni a scuola.»

«Certo, papà.» Stavolta fu il figlio a farmi l'occhiolino.

«Frank?» chiamò una delle signore con una vocina yu-huuu. «Queste arance sono fresche?»

«Fresche come il tuo sorriso, Leola», replicò lui, e le signore risposero cinguettando. Non è prosa di quart'ordine: vi assicuro che cinguettarono.

Passai loro accanto, le salutai («Signore…»), la campanella suonò e io tornai fuori, nel mondo che era esistito prima della mia nascita. Stavolta, anziché attraversare subito la strada diretto alla buca del coniglio, in quel mondo mi ci addentrai. Dall'altra parte della via, il barbone dal lungo soprabito nero gesticolava al commesso col camice. La tessera che sventolava era arancione anziché gialla, ma il resto era fedele al copione.

Lo accolsi come un buon segno.

3

L'officina e stazione di servizio Titus Chevron era oltre il supermercato Red & White, dove Al aveva comprato le stesse scorte di carne per il suo ristorante, una volta dopo l'altra, all'infinito. Il cartello in vetrina diceva che l'aragosta costava quarantatré cent al chilo. Di fronte al supermercato, in uno spiazzo di terreno che nel 2011 sarebbe stato vuoto, c'era un vecchio fienile marrone col portone spalancato, e dentro ogni sorta di mobili usati: in particolare, sembrava esserci grande disponibilità di culle, sedie a dondolo e poltrone superimbottite del genere «Papà-si-sta-rilassando». L'insegna sopra la porta diceva: THE JOLLY WHITE ELEPHANT, L'allegro elefante bianco. Sul marciapiede, piazzato in modo da attirare gli sguardi dei passanti in Lewiston Road, un cartello verticale dichiarava arditamente: SE NON L'ABBIAMO, VUOL DIRE CHE NON TI SERVE. Un tizio che immaginai fosse il proprietario sedeva su una delle sedie a dondolo, fumando una pipa. Mi stava guardando. Indossava una canottiera e larghi calzoni marrone. Portava un pizzetto, cosa che mi parve audace su quel particolare isolotto nel fiume del tempo. I suoi capelli, anche se pettinati all'indietro e tenuti al loro posto con una sorta di brillantina, cadevano a riccioli sul collo e mi fecero pensare a uno di quei vecchi filmati di rock'n'roll: Jerry Lee Lewis che salta sul pianoforte mentre canta Great Balls of Fire. Probabilmente il proprietario del Jolly White Elephant era considerato il beatnik locale.

Lo salutai col pollice alzato. Col mento mi rivolse il più lieve dei cenni di saluto, e continuò a fumare la sua pipa.

Alla stazione di servizio (dove la normale costava 19,9 cent e la «Super» un penny di più), un uomo in tuta blu e con un duro taglio di capelli da marine stava lavorando su un furgone (quello degli Anicetti, supponevo) alzato sul ponte.

«Signor Titus?»

Mi diede un'occhiata da sopra la spalla: «Sì?»

«Il signor Anicetti mi ha detto che potrei usare il suo bagno.»

«La chiave è appesa all'ingresso dell'officina», mi rispose con un fortissimo accento del Maine.

«Grazie.»

La chiave era appesa a una pala di legno con scritto: UOMINI. Sull'altra pala c'era scritto RAGAZZE. La mia ex moglie ci sarebbe rimasta di merda, pensai, non senza compiacimento.

Il bagno era pulito ma puzzava di fumo. Di fianco al water c'era un posacenere a forma di urna. A giudicare dalla quantità di mozziconi che lo costellavano, conclusi che a un bel po' di visitatori di quella stanzetta piaceva fumare mentre cagavano.

Quando uscii, notai una ventina o poco più di auto usate in un parcheggio vicino all'officina. Sopra di esse dondolava una fila di bandierine colorate agitate dalla brezza leggera. Macchine che nel 2011 sarebbero state d'epoca e vendute a migliaia e migliaia di dollari, lì avevano prezzi tipo settecentocinquanta. Una Cadillac che sembrava quasi nuova te la portavi via con ottocento. L'insegna sopra l'ufficetto delle vendite (dentro c'era una ragazza carina con la coda di cavallo e un chewing-gum tra i denti, assorta nella lettura di Photoplay) diceva: TUTTE QUESTE AUTO FUNZIONANO BENE E LE ACQUISTATE CON IL BUONO GARANZIA DI TITUS: CI PRENDIAMO CURA DI QUELLO CHE VENDIAMO! Riappesi la chiave, ringraziai Titus (che bofonchiò qualcosa senza distogliere lo sguardo dal furgone), e tornai verso Main Street, pensando che sarebbe stata una buona idea tagliarmi i capelli prima di visitare la banca. Mi ricordai del beatnik col pizzetto, e d'istinto attraversai la strada, diretto alla rivendita di mobili usati.

«Buongiorno», dissi.

«Be', è quasi ora di dire 'buonasera', ma come preferisce lei.»

Tirò una boccata dalla pipa, e quel venticello di tarda estate mi portò alle narici l'aroma di Cherry Blend, insieme con un ricordo di mio nonno, che lo fumava quand'ero bambino. A volte me lo soffiava nell'orecchio per calmare il dolore da otite, terapia che probabilmente non aveva il placet dell'ordine dei medici.

«Lei vende valigie?»

«Sì, ne ho qualcuna. Non più di duecento, direi. Vada fino in fondo al magazzino e guardi sulla destra.»

«Se ne compro una, posso lasciarla qui per un paio d'ore, mentre faccio un po' di spese?»

«Resto aperto fino alle cinque», disse, e alzò lo sguardo verso il sole. «Dopo quell'ora, dovrà arrangiarsi.»

4

Per due dollari vintage di Al comprai una valigia di pelle, la lasciai dietro il bancone del beatnik, poi mi recai in Main Street con la ventiquattrore che sbatteva contro la gamba, gettai un'occhiata al «posto verde» e vidi il commesso seduto accanto al registratore di cassa, intento a leggere un giornale. Nessuna traccia del mio amico col soprabito nero.

Sarebbe stato difficile perdersi nella zona commerciale: consisteva in un solo isolato. Tre o quattro negozi oltre la Kennebec Fruit Company, trovai la bottega di Baumer, il barbiere. Nella vetrina spiraleggiava la tipica colonna bianca e rossa. Accanto a questa, un manifesto elettorale di Edmund Muskie. Me lo ricordavo come un uomo vecchio, provato e con le spalle curve, ma quella versione sembrava quasi troppo giovane per potersi candidare, figurarsi per ricoprire una carica. Sul manifesto era scritto: MANDA ED MUSKIE AL SENATO DEGLI STATI UNITI, VOTA DEMOCRATICO! Qualcuno aveva aggiunto una striscia di carta bianca sul fondo. C'era scritto in stampatello: DICEVANO CHE IN MAINE NON ERA POSSIBILE, E INVECE CI SIAMO RIUSCITI! PROSSIMA TAPPA: HUMPHREY NEL 1960!

Dentro, due signori attempati sedevano contro la parete, mentre un signore altrettanto anziano si faceva tagliare i capelli. Entrambi gli uomini in attesa fumavano come locomotive, e fumava anche il barbiere (immaginai fosse Baumer), che tagliava capelli tenendo un occhio strizzato per proteggerlo dal fumo. Tutti e quattro mi squadrarono in un modo che mi era familiare: il non-del-tutto- diffidente sguardo di valutazione che Christy una volta aveva chiamato «l'occhiata yankee». Era bello constatare che certe cose non erano cambiate.

«Non sono di queste parti, ma sono amico», esordii. «Ho sempre votato democratico.» Alzai la mano in un gesto Dio-mi-è-testimone.

Baumer borbottò qualcosa, divertito. Cenere cadde dalla sua sigaretta.

Svagatamente, se la spazzò via dal camiciotto. Per terra, tra i capelli tagliati, c'erano svariati mozziconi. «Quel signore lì si chiama Harold, ed è un repubblicano. Stia attento che non la morda.»

«Non c'ha più le zanne per mordere nessuno», commentò uno degli altri, e tutti si misero a ridere.

«Da dove viene, signore?» chiese Harold il Repubblicano.

«Dal Wisconsin.» Presi una copia di Men's Adventure per bloccare sul nascere la conversazione. In copertina, un tizio asiatico dall'aspetto subumano teneva una frusta nella mano guantata, rivolto verso una bionda legata a un palo. L'articolo che l'immagine illustrava si intitolava: «Nel Pacifico, schiave sessuali dei giapponesi». Lodare della bottega era una dolce, portentosa miscela di talco, brillantina e fumo di sigarette. Quando Baumer mi fece cenno di sedermi sulla poltrona, ero immerso nell'articolo sulle schiave sessuali. Non era eccitante come l'immagine in copertina.

«È in viaggio, signor Wisconsin?» mi chiese mentre mi copriva con un telo bianco di rayon e mi cingeva il collo con un collarino di carta.

«Sì, un viaggio bello lungo», dissi, ed era la verità.

«Be', adesso è nel Paese di Dio. Quanto corti li vuole?»

«Mmh, abbastanza corti da non farmi sembrare…» stavo per usare la parola «hippie», ma Baumer non avrebbe capito. «…un beatnik», conclusi.

«Eh, lo vedo che le sono un po' sfuggiti di mano.» E intanto iniziò a tagliare.

«Un po' più lunghi di così, e finiva per sembrare quel finocchio del Jolly White

Elephant.»

«Non sia mai.»

«Infatti, non è un bello spettacolo, quello là.»

Quando ebbe finito di tagliare, Baumer mi mise il talco sulla nuca rasata, mi chiese se volevo Vitalis, Brylcreem o Wildroot, e mi fece pagare quaranta cent.

Un vero affare.

5

Il mio versamento di mille dollari alla Hometown Trust non fece alzare sopracciglia. Probabilmente la tosatura di fresco fu d'aiuto, ma soprattutto, quella era una società basata sui contanti, in cui le carte di credito erano ancora una novità… e forse guardata con sospetto dai parsimoniosi yankee. Un'impiegata austera e di bell'aspetto, capelli raccolti in stretti boccoli e un cammeo al collo, contò i miei soldi, annotò la cifra in un libro mastro, poi chiamò il vicedirettore, che ricontò la valuta, controllò il libro mastro, poi compilò una ricevuta dov'era segnato sia il mio versamento sia il totale nel mio nuovo conto corrente.

«Se posso permettermi, signor Amberson, quella è una cifra molto alta da tenere su un conto corrente. Non vuole aprire un deposito a risparmio? Al momento offriamo un interesse del 3%, capitalizzato ogni trimestre.» Spalancò gli occhi per farmi capire che era un affare fantastico. Sembrava quel direttore d'orchestra cubano, Xavier Cugat.

«Grazie, ma devo fare molte transazioni.» Abbassai la voce. «Devo chiudere un affare immobiliare, o almeno spero.»

«Buona fortuna», disse, adottando lo stesso tono confidenziale. «Lorraine le fornirà un po' di assegni. Cinquanta bastano, per cominciare?»

«Cinquanta vanno benissimo.»

«Più avanti, possiamo dargliene con stampato il suo nome e indirizzo.» Alzò le sopracciglia, trasformando la frase in una domanda.

«Probabilmente sarò a Derry. Mi metterò in contatto io.»

«Bene. Io rispondo al Drexel otto quattro-sette-sette-sette.»

Non avevo idea di cosa stesse dicendo, finché non mi diede un biglietto da visita. Sopra c'era scritto: JEFFREY DUSEN, VICEDIRETTORE, e poi: DREXEL 8- 4777. Già, nel '58 c'erano ancora i numeri di telefono con le lettere iniziali.

Lorraine mi consegnò gli assegni e un libretto in finta pelle d'alligatore. La ringraziai e misi tutto nella mia valigetta. Sull'uscio, mi girai e diedi un'ultima occhiata. Due impiegati stavano usando calcolatrici meccaniche, ma per il resto tutte le transazioni erano del genere penna & olio di gomito. Pensai che in quell'ambiente, fatta eccezione per pochi dettagli, Charles Dickens si sarebbe sentito a casa. Pensai anche che vivere nel passato era un po' come stare sott'acqua respirando da un tubo.

6

Al Mason's Menswear comprai gli indumenti che Al mi aveva consigliato, e il commesso mi disse che sì, sarebbe stato lieto di accettare un assegno, purché fosse emesso da una banca del posto. Grazie a Lorraine, fui in grado di accontentarlo.

Tornai al Jolly White Elephant, dove il beatnik rimase a guardarmi mentre trasferivo il contenuto di tre sporte da shopping dentro la mia nuova valigia.

Quando la chiusi, finalmente espresse il suo parere: «Strano modo di fare shopping, amico».

«Mi sa di sì», risposi. «Ma è uno strano mondo, no?»

Sorrise. «È una bella scommessa. Pelle, Jackson!» E mi mostrò la mano tesa, a palmo in su.

Per un istante fu come cercare di capire il significato della parola Drexel seguita da alcuni numeri. Poi mi ricordai del film Dragstrip Girl, e capii che il beatnik mi stava offrendo la versione anni Cinquanta di un saluto nocche-a- nocche. Feci passare il mio palmo sul suo, sentendo il calore e il sudore, pensando ancora una volta: Questo è reale. Sta succedendo.

«Pelle, amico», dissi.

7

Riattraversai la strada e tornai alla Titus Chevron, con la mia nuova valigia in una mano e la ventiquattrore nell'altra. Nel mondo del 2011 da cui provenivo, era solo metà mattinata, eppure mi sentivo stanchissimo. Probabilmente stavo soffrendo una specie di jet-lag da Ai confìni della realtà. Tra la stazione di servizio e l'adiacente parcheggio c'era una cabina del telefono. Ci entrai e lessi la scritta a mano, in stampatello, sopra l'antiquato apparecchio: RICORDA CHE ORA LE TELEFONATE COSTANO UN DECINO, GRAZIE A «MAMMA» BELL.

Sfogliai le Pagine Gialle e trovai la ditta Lisbon Taxi. Nella sua pubblicità c'era il disegno di un taxi con occhi al posto dei fari e un sorriso a tutti denti sulla griglia del radiatore. L'annuncio prometteva «Servizio solerte e cortese». Suonava bene. Misi la mano in tasca per prendere una monetina, e invece trovai una cosa che avrei dovuto lasciare nel 2011: il mio telefonino Nokia. Era un vecchio modello nel mondo da cui venivo (da un po' di tempo pensavo di cambiarlo con un iPhone), ma qui non aveva alcun senso. Se qualcuno lo avesse visto, mi avrebbe fatto cento domande a cui non potevo rispondere. Lo misi nella valigetta. Per il momento, lì non mi avrebbe dato problemi, almeno credevo, ma prima o poi avrei dovuto liberarmene. Tenerlo equivaleva ad andare in giro con una bomba inesplosa.

Trovai un decino, lo infilai nella fessura, e subito rispuntò nello scivolo del resto. Lo ripescai, e un'occhiata fu sufficiente per capire il problema: come il Nokia, quel decino veniva dal futuro, una moneta in lega di rame e nichel, niente più che un penny con qualche pretesa. Tirai fuori tutte le mie monete, le esaminai a una a una, e pescai un decino del '53 che probabilmente mi avevano dato come resto alla Kennebec Fruit Company, quando avevo preso la root beer. Stavo per inserirlo, quando un pensiero mi raggelò: e se anziché scendere nello scivolo, il mio decino del 2002 fosse rimasto incastrato nel telefono? Cosa sarebbe successo quando il tecnico AT &T addetto ai telefoni pubblici di Lisbon Falls l'avesse trovato?

Avrebbe pensato che era uno scherzo, ecco tutto. Solo una beffa un po' elaborata.

In realtà ne dubitavo: la monetina era troppo perfetta. Il tizio l'avrebbe mostrata in giro, magari sarebbe uscito un articolo sul giornale. Per il momento avevo avuto fortuna, ma la prossima volta sarebbe potuta andare peggio. Dovevo stare più attento. Pensai di nuovo al mio cellulare, con crescente disagio. Poi infilai nella fessura il decino del '53 e fui ricompensato dal segnale. Composi il numero lentamente e con attenzione, cercando di ricordare se avessi mai usato un telefono col disco numerico. Mi sembrava di no. Ogni volta che lo lasciavo andare, il disco tornava indietro con uno strano rumore meccanico.

«Lisbon Taxi», disse una voce femminile. «Dove i chilometri sono sorrisi. Come possiamo aiutarla?»

8

Mentre aspettavo la vettura, passai in rassegna le auto in vendita nel parcheggio di Titus. In particolare, mi colpì una Ford decappottabile rossa del '54. Era una Sunliner, diceva la scritta sotto il faro cromato sul lato del passeggero. Aveva pneumatici bianchi e neri e un tettuccio di vera tela. I tipi cool di Dragstrip Girll'avrebbero definita «una convertibile».

«Quella non è per niente male, signore», disse Bill Titus alle mie spalle. «Va come una casa in fiamme, posso testimoniarglielo personalmente.»

Mi girai. Si stava pulendo le mani con uno straccio rosso che sembrava ancora più sporco.

«C'è un po' di ruggine lungo i pannelli», dissi.

«Già, sa, è il clima.» Fece spallucce. «Ma il motore è in ottimo stato, quella è la cosa importante. E gli pneumatici sono quasi nuovi.»

«Motore V8?»

«Y-block», disse, e io annuii come se avessi inteso alla perfezione. «L'ho comprata da Arlene Hadley, a Durham, quando è morto suo marito. Se c'era una cosa che Bill Hadley sapeva bene, era come prendersi cura di un'auto… Ma lei non può conoscerli, perché non è di qui, vero?»

«No. Vengo dal Wisconsin. George Amberson», e gli tesi la mano.

Scosse il capo, sorridendo un poco. «Piacere di conoscerla, signor Amberson, ma non voglio sporcarla di grasso. Faccia come se gliel'avessi stretta. Lei è un acquirente o un semplice curioso?»

«Ancora non lo so», ma non ero sincero. Pensavo che la Sunliner fosse la macchina più fica che avessi mai visto. Aprii la bocca per chiedere quanti chilometri facesse con un litro, ma mi resi conto subito che era una domanda senza senso, in un mondo in cui potevi fare il pieno con due dollari. Gli chiesi invece se avesse il cambio manuale.

«Oh, certo. E quando ingrana, è meglio stare attenti agli sbirri. Va col fuoco alle chiappe. Vuole farci un giro?»

«Non posso. Ho appena chiamato un taxi.»

«Non è un buon modo di viaggiare», disse Titus. «Se comprasse questa, tornerebbe in Wisconsin con stile e non penserebbe più al treno.»

«Quanto chiede? Su questa non c'è il prezzo.»

«No, l'ho presa dentro solo l'altro ieri. Non ho ancora avuto il tempo di metterlo.» Prese il pacchetto di sigarette. «La vendo a trecentocinquanta, e sa che le dico? Sono trattabili.»

Strinsi i denti per impedire alla mascella di cadere, e gli dissi che ci avrei pensato sopra. Se il mio pensiero fosse andato nella giusta direzione, sarei tornato il giorno dopo.

«Farà meglio a sbrigarsi, signor Amberson, questa non rimarrà qui a lungo.»

Di nuovo mi sentii sollevato. Avevo monetine che non funzionavano nei telefoni pubblici, nelle banche si scriveva a mano, e i telefoni facevano strani rumori quando componevi il numero, ma alcune cose rimanevano le stesse.

9

Il tassista era un uomo grasso, sul suo cappello malconcio c'era scritto: SERVIZIO CON REGOLARE LICENZA. Fumava Lucky Strikeuna dopo l'altra e teneva la radio sintonizzata sulla WJAB. Ascoltammo Sugartime delle McGuire Sisters, Bird Dog degli Everly Brothers e Purple People Eater, cantata da uno strano essere chiamato Sheb Wooley. Di quella avrei anche potuto fare a meno. Ogni due canzoni, un trio di donnine stonate cantava: «Quattordici-quaranta, WJABiii… il big jab!» Venni a sapere che al Romanow erano iniziati i saldi di fine estate, e che da Woolworth era arrivata la nuova fornitura di hula-hop, un dollaro e trentacinque l'uno, un affarone.

«Con quei dannati aggeggi, le ragazze imparano solo a dimenare i fianchi», disse il tassista, e gettò un po' di cenere dal finestrino. Fu l'unico tentativo di chiacchierare che fece tra la Titus Chevron e il Tamarack.

Abbassai il vetro per far uscire un po' di fumo e vidi un mondo diverso scorrere davanti ai miei occhi. Ancora non esisteva l'edificato suburbano tra Lisbon Falls e Lewiston. A parte alcune stazioni di servizio, l'Hi-Hat Drive-In e il cinema all'aperto (sull'insegna era reclamizzato un doppio programma, con La donna che visse due volte e La lunga estate calda, entrambi in Cinemascope e Technicolor), eravamo nell'aperta campagna del Maine. Si vedevano più mucche che persone.

La locanda per automobilisti era abbastanza discosta dalla strada, e ombreggiata non da larici come diceva il nome, ma da imponenti, sontuosi olmi. Non fu come vedere un branco di dinosauri, ma quasi. Li guardai stupito mentre Mr. Regolare Licenza si accendeva un'altra sigaretta. «Le serve una mano coi bagagli, signore?»

«No, grazie, ce la faccio.» La cifra sul tassametro non era sontuosa come gli olmi, ma la guardai con altrettanta meraviglia. Diedi al tizio due dollari e chiesi indietro cinquanta cent. Parve soddisfatto. Con quella mancia, dopotutto, poteva comprarsi un pacchetto di Lucky Strike.

10

Presi una stanza (contanti sul bancone, niente documenti d'identità) e feci un lungo pisolino. L'aria condizionata consisteva in un ventilatore sulla finestra. Mi risvegliai rinfrescato (bene), ma poi mi risultò impossibile riaddormentarmi la sera (non bene). Dopo il tramonto, sulla strada il traffico era quasi inesistente, e la quiete era tale da sconcertarmi. Il televisore era uno Zenith da tavolo che doveva pesare cinquanta chili. In cima c'era un'antenna a dipolo, di quelle dette «a baffo». Appoggiato all'antenna c'era un cartello: REGOLATE L'ANTENNA A MANO, NON USATE PROLUNGHE DI CARTA STAGNOLA. LA DIREZIONE RINGRAZIA.

C'erano tre canali. La ricezione della NBC era troppo disturbata, per quanto muovessi i «baffi». Quanto alla CBS, era impossibile regolare il quadro, che continuava a scorrere verso l'alto. L'ABC arrivava forte e chiara, e stava trasmettendo un telefilm della serie Le leggendarie imprese di Wyatt Earp, con Hugh O'Brian. Wyatt sparò a qualche fuorilegge, poi arrivò uno spot delle sigarette Viceroy. Steve McQueen spiegò che le Viceroy avevano un filtro da uomo che pensa e un gusto da uomo che fuma. Mentre se ne accendeva una, mi alzai dal letto e spensi la TV.

A quel punto, si sentì solo il frinire dei grilli.

Mi misi in mutande, mi sdraiai e cercai di dormire. La mia mente tornava sempre ai miei genitori. In quel momento, papà aveva sei anni e abitava a Eau Claire. Mia madre ne aveva solo cinque, e viveva in una fattoria dell'Iowa che sarebbe andata in fiamme di lì a poco. A quel punto la sua famiglia si sarebbe trasferita in Wisconsin, più vicina all'incrocio di vite che alla fine avrebbe prodotto… me.

Sono pazzo, pensai. Sono pazzo e sto avendo un'allucinazione terribilmente credibile, nel letto di qualche ospedale psichiatrico. Forse un dottore scriverà di me su qualche rivista scientifica. Dopo L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, ecco L'uomo che credeva di essere nel 1958.

Ma con una mano carezzai il ruvido tessuto del copriletto, e seppi cos'era, seppi che esisteva. Pensai a Lee Harvey Oswald, anche se Oswald apparteneva ancora al futuro e non era lui a turbare il mio sonno, in quella stanza da museo.

Sedetti sull'orlo del letto, aprii la valigetta e presi il telefonino, un gadget che aveva viaggiato nel tempo ed era assolutamente inutile in quel contesto. Eppure non potei fare a meno di aprirlo e accenderlo. RETE ASSENTE, comunicò il display. Certo, cos'altro mi ero aspettato? Cinque tacche? Torna a casa, Jake, disse una voce lamentosa, prima di combinare qualcosa di irrimediabile. Che stupida, superstiziosa idea. Se avessi fatto qualche danno, sarebbe stato rimediabile, perché ogni ritorno nel passato riazzerava tutto. Il viaggio nel tempo era fornito con la garanzia.

Quel pensiero mi fu di conforto, ma avere un telefono cellulare in un mondo in cui la TV a colori era la più grande innovazione nell'elettronica di consumo, quello no, non era di alcun conforto. Se l'avessero trovato, non mi avrebbero impiccato come uno stregone, ma forse gli sbirri del luogo mi avrebbero arrestato e tenuto in una cella fino all'arrivo dei ragazzi di J. Edgar Hoover, partiti da Washington apposta per interrogarmi.

Lo posai sul letto, poi tolsi dalle tasche tutte le monete e le divisi in due pile.

Quelle del '58 o più vecchie tornarono in tasca. Quelle del futuro finirono in una delle buste che avevo trovato nel cassetto dello scrittoio, accanto a una bibbia della Gideons International e al menu del servizio a domicilio dell'Hi-Hat. Mi vestii, presi la chiave e uscii dalla stanza.

Fuori, i grilli si sentivano ancora più forte. Uno spicchio di luna brillava in cielo. Al di là del suo chiarore, le stelle non erano mai state tanto splendenti e vicine. Sulla 196 passò un camion, poi la strada tornò silenziosa. Ero in campagna, e la campagna dormiva. Lontano, un autotreno perforò la notte con un fischio.

C'erano solo due auto parcheggiate di fronte a due appartamenti dalle luci spente. Sentendomi un malfattore, camminai fino al prato al di là del piazzale. L'erba alta frusciava contro i miei jeans, che l'indomani avrei sostituito con gli altri calzoni.

A delimitare il terreno del Tamarack c'era un recinto di filo metallico. Dall'altra parte c'era un piccolo stagno, di quelli che la gente di campagna chiama «vasche». Lì accanto, cinque o sei vacche dormivano nella notte tiepida. Una di loro alzò la testa e mi guardò, mentre passavo sotto il recinto e mi avvicinavo. Perse subito interesse e riabbassò la testa. Non la alzò nemmeno quando il mio Nokia cadde in acqua con uno splash! Chiusi la busta con dentro le monetine e la spedii dove già stava il telefonino. Poi tornai per la via da cui ero venuto, e mi fermai dietro il motel per accertarmi che il cortile fosse ancora vuoto. Lo era.

Rientrai nella mia stanza, mi spogliai, e mi addormentai quasi all'istante.

6

1

LA mattina dopo, venne a prelevarmi lo stesso tassista tabagista, e quando mi scaricò alla Titus Chevron, la decappottabile era ancora lì. Me l'ero aspettato, ma fu comunque un sollievo. Avevo indosso una giacca sportiva grigia, una giacca qualunque che avevo comprato al Mason's Menswear. Il mio nuovo portafogli di struzzo era al sicuro nella sua tasca interna, con dentro cinquecento dollari di Al. Titus mi raggiunse mentre ammiravo la Ford. Si stava pulendo le mani con quello che sembrava lo stesso straccio del giorno prima.

«Ci ho dormito sopra, e ho deciso che la voglio.»

«Molto bene», rispose, poi assunse un'espressione di rammarico. «Ma ci ho dormito sopra anch'io, signor Amberson, e credo di averle mentito quando le ho detto che c'era un margine di trattativa. Sa cosa mi ha detto mia moglie stamattina, mentre facevamo colazione? Mi ha detto: 'Bill, saresti davvero uno stupido se vendessi quella Sunliner a meno di trecentocinquanta'. A dire il vero, ha detto che sono stato stupido già a fissare un prezzo cosi basso.»

Annuii, come se non mi fossi aspettato altro. «OK», feci. Parve stupito.

«Ecco cosa posso fare, signor Titus. Posso firmarle un assegno di trecentocinquanta. È valido, è della Hometown Trust, può chiamarli e verificare. Oppure posso darle trecento dollari in contanti, direttamente dal mio portafogli. Meno scartoffie, se preferiamo così. Che ne dice?»

Sorrise, mostrando denti di sorprendente bianchezza. «Dico che sanno come fare un affare, in Wisconsin. Trecentoventi, e metto l'etichetta della revisione e la targa provvisoria valida due settimane, e può già portarla via.»

«Trecentodieci.»

«Nah, non mi metta in imbarazzo.» Ma non era imbarazzato, se la stava godendo. «Aggiunga un pezzo da cinque, e affare fatto.»

«Signorsì», esclamai. Stavolta mi strinse la mano, infischiandosene del grasso. Poi indicò l'ufficio vendite. Quel giorno la ragazza con la coda di cavallo leggeva Confidential. «Deve dare i soldi alla fanciulla, che per inciso è mia figlia. Lei registrerà l'acquisto. Quando ha finito, torni qui e io metterò l'etichetta. E le faccio anche un pieno.»

Quaranta minuti dopo, al volante di una Ford decappottabile del '54 che adesso mi apparteneva, mi dirigevo a nord, verso Derry. Avevo imparato a guidare su un'auto col cambio manuale, quindi non avevo problemi, ma era la prima volta che la leva era sul cruscotto. All'inizio fu strano, però una volta che presi confidenza (e mi sarei dovuto abituare anche a schiacciare l'interruttore dei fari con il piede sinistro), mi piacque. E Bill Titus aveva ragione: la Sunliner aveva il fuoco al culo. Ad Augusta mi fermai solo il tempo di abbassare il tettuccio. A Waterville, consumai una cena a base di polpettone che mi costò novantacinque cent, torta di mele inclusa. Al confronto, il Fatburger di Al costava un occhio della testa. Cantai insieme con gli Skyliners, i Del Vikings e gli Elegants. Il sole era caldo, il vento scompigliava i miei nuovi capelli corti, e l'autostrada (soprannominata «l km al minuto», appresi dai cartelloni) era praticamente tutta per me. Era come se i dubbi della sera precedente fossero affondati nello stagno insieme con il cellulare e i soldi futuribili. Mi sentivo bene.

Finché non vidi Derry.

2

C'era qualcosa di sbagliato in quella città, e credo di essermene accorto dal primo momento.

Presi la Route 7 quando l'autostrada da l km al minuto si restrinse a due corsie dal fondo rappezzato. Trenta chilometri a nord di Newport, superai un dosso e vidi Derry ergersi sulla riva sinistra del Kenduskeag, sotto una nube di smog che saliva da Dio solo sa quante fabbriche tessili e cartiere, tutte funzionanti a pieno ritmo. Un'arteria verde attraversava il centro della città. Da lontano sembrava una cicatrice. Ai lati di quella striscia incolta, la città sembrava consistere soltanto in fuligginosi grigi e neri sotto un cielo a cui le ciminiere davano un colore giallo piscio.

Passai oltre svariate bancarelle di prodotti agricoli, tenute da tizi seduti o in piedi (al mio passaggio restavano a bocca aperta), che più che contadini del Maine mi sembravano bifolchi usciti dritti da Un tranquillo week-end di paura, figli di una comunità dedita all'incesto. Quando passai di fronte all'ultima, PRODOTTI AGRICOLI BOWERS, un bastardone sbucò da dietro un muro di ceste di pomodori e prese a inseguirmi, sbavando e cercando di mordere gli pneumatici della Sunliner. Sembrava un meticcio di bulldog. Prima che lo seminassi, vidi una smilza donna in tuta raggiungerlo e cominciare a picchiarlo con un pezzo di legno.

Quella era la città in cui era cresciuto Harry Dunning, e la odiai fin dal primo istante. Non c'era nessun motivo concreto: semplicemente, la odiai. L'area dei negozi, situata nella conca di tre colline ripide, dava una sensazione di schiacciamento e claustrofobia. La mia Ford rosso ciliegia era la cosa più brillante in quella strada, una vistosa (e importuna, a giudicare dagli sguardi che attirava) macchia di colore in mezzo a quelle Plymouth nere, Chevrolet marrone, e ai tetri furgoni delle consegne. Nel centro della città correva un canale, colmo di acqua nera fin quasi all'orlo dei suoi argini di cemento coperti di muschio.

Trovai un parcheggio in Canal Street. Un nichelino nel parchimetro bastò a comprare un'ora di shopping. A Lisbon Falls mi ero scordato di acquistare un cappello, e dopo due o tre negozi ne avevo visto uno chiamato Derry Dress & Everyday, «La più affascinante boutique di moda maschile del Maine centrale». Dubitavo che ci fosse molta concorrenza in quel settore.

Avevo parcheggiato di fronte al drugstore e mi fermai a leggere il cartello in vetrina. In qualche modo, esemplificava le mie sensazioni su Derry (l'aspra diffidenza, il senso di violenza a stento trattenuta) meglio di qualunque altra cosa, anche se sarei rimasto lì per quasi due mesi e (con la possibile eccezione di poche persone che mi sarebbe capitato di incontrare) avrei disprezzato tutto quanto la riguardava. Il cartello diceva:

 

IL FURTO NON È UNA «BRAVATA» O UNA «GASATA» O UNA «COSA TOSTA»!

IL FURTO È UN REATO E SARÀ DENUNCIATO. NORBERT KEENE, PROPRIETARIO & GESTORE

 

E l'uomo magro e occhialuto in camice bianco che da dentro fissava proprio me doveva essere il signor Keene. La sua espressione non diceva: Entra forestiero, dai un'occhiata e compra qualcosa, magari un frappè. Quegli occhi duri e quella bocca piegata in una smorfia dicevano: Vattene, per quelli come te qui non c'è niente. Una piccola parte di me pensava che me lo stessi immaginando, ma la parte più grossa sapeva che non era così. Come esperimento, alzai la mano in un cenno di saluto.

L'uomo in camice bianco rimase immobile.

Mi resi conto che il canale che avevo visto doveva passare sotto quella parte della città, anzi, proprio sotto i miei piedi. Sentii acqua invisibile ruggire sotto il marciapiede. Era una sensazione vagamente sgradevole, come se quel piccolo pezzo di mondo fosse diventato cedevole.

Nella vetrina del Derry Dress & Everyday, un manichino indossava uno smoking. In un'orbita aveva un monocolo, e in una mano di gesso teneva una bandierina. Sopra c'era scritto: LE TIGRI DI DERRY MASSACRERANNO GLI ARIETI DI BANGOR. Anche se mi piaceva il tifo scolastico, mi sembrò una dichiarazione sopra le righe. «Batteranno» gli Arieti era OK, ma… massacrarli?

È inteso in senso figurato, mi dissi, ed entrai.

Mi venne incontro un commesso con un metro a nastro intorno al collo. I suoi vestiti erano molto più belli dei miei, ma la luce fioca dall'alto tingeva la sua pelle di giallo. Provai l'assurdo impulso di chiedergli: Ha intenzione di vendermi un cappello di paglia estivo, o devo andarmene direttamente affanculo? Ma lui sorrise, mi chiese se poteva aiutarmi, e tutto parve tornare normale. Aveva l'articolo che cercavo, e io me ne impossessai per tre dollari e settanta centesimi.

«È un peccato che l'estate sia quasi finita, potrà portarlo per poco tempo»,disse.

Mi misi il cappello e me lo sistemai, guardandomi nello specchio dietro il bancone. «Forse avremo una lunga estate indiana.»

Dolcemente e quasi scusandosi, mi inclinò il cappello nell'altro verso. Era questione di tre-quattro centimetri, eppure smisi di sembrare un saltafossi in gita nella grande città e iniziai a sembrare… Be'… il più affascinante viaggiatore nel tempo del Maine centrale. Lo ringraziai.

«Di niente, signor?…»

«Amberson», dissi, e gli porsi la mano. La sua stretta fu breve, sbilenca e impolverata di una sorta di talco. Mi trattenni dallo strofinarmi la mano sulla giacca dopo che l'ebbe mollata.

«È a Derry per affari?»

«Sì. Lei è del luogo?»

«Vivo qui da molto tempo», rispose, e sospirò come se avesse descritto il proprio fardello. Basandomi sulle mie prime impressioni, giudicai che si trattasse proprio di questo. «Di cosa si occupa, signor Amberson, se posso chiedere?»

«Sono nel settore immobiliare. Ma mentre sono qui, vorrei cercare un mio ex commilitone. Si chiama Dunning. Non ricordo il nome di battesimo, noi lo chiamavamo tutti Skip.» Il soprannome me l'ero inventato, ma era vero che non conoscevo il nome del padre di Harry Dunning. Nel suo tema, aveva menzionato i fratelli e la sorella, ma l'uomo col martello lo aveva sempre chiamato «mio padre».

«Mi spiace di non poterla aiutare, signore.» Ora sembrava lontano. L'affare era concluso, e anche se nel negozio non c'erano altri clienti, voleva che mi togliessi di torno.

«Be', f rse può aiutarmi in un'altra cosa. Qual è il miglior albergo in città?»

«La Derry Town House. Torni su Kenduskeag Avenue, giri a destra, e risalga Up-Mile Hill fino a Main Street. Usi come riferimento i lampioni, dove cominciano c'è l'albergo.»

«Up-Mile Hill?»

«Sì, noi la chiamiamo così. Se non c'è altro, io devo tornare nel retro, ho diverse modifiche da eseguire.»

«Nient'altro. È stato molto gentile.»

Quando uscii, il cielo aveva cominciato a oscurarsi. Una cosa che ricordo distintamente del periodo trascorso a Derry nel settembre e ottobre del '58, è come la sera sembrava arrivare troppo presto.

Due vetrine più in là c'era Machen's, un negozio di articoli Sportivi dov'era in CORSO la VENDITA D'AUTUNNO DI ARMI DA FUOCO, come recitava il cartello. Dentro, vidi due uomini guardare fucili da caccia mentre un anziano commesso con un cravattino di cuoio (e un collo sottile perfettamente intonato) osservava con approvazione. Lungo la riva opposta del canale sembrava esserci una sfilza di bar, ritrovi di operai, il genere di posto dove puoi farti una birra con uno spruzzo di whisky per mezzo dollaro e la musica nel juke-box è tutta country & western. C'erano l'Angolo di felicità, il Pozzo dei Desideri (che gli habitué chiamavano «il Secchio di sangue», venni a sapere più tardi), il Due Fratelli, lo Scalino d'oro e il Dollaro d'Argento.

Sull'uscio di quest'ultimo, quattro tizi con l'aspetto da operai si godevano l'aria della sera e guardavano la mia decappottabile. Erano equipaggiati con boccali di birra e sigarette. I loro volti erano in ombra, sotto le visiere di cappellini di tweed o di cotone. Ai piedi calzavano scarponi da lavoro dal colore indefinibile, di quelli che i miei studenti del 2011 chiamavano «scalciamerda». Tre su quattro portavano bretelle. Mi rivolsero sguardi inespressivi. Per un momento pensai al cane che aveva inseguito la mia auto, sbavante, digrignante, poi attraversai la via.

«Signori», dissi, «cosa servono alla spina qui dentro?»

Sulle prime non risposero. Proprio quando pensavo che nessuno lo avrebbe fatto, quello senza bretelle disse: «Bud e Mick, cos'altro? Sei un forestiero?»

«Vengo dal Wisconsin», dissi.

«Capirai», borbottò uno di loro.

«È un po' tardi per il turismo», aggiunse un altro.

«Sono qui per lavoro, ma già che ci sono, sto anche cercando un mio vecchio compagno d'armi.» Nessuna risposta, a meno che gettare un mozzicone sul marciapiede e poi spegnerlo con un grumo di catarro delle dimensioni di una cozza non possa ritenersi una risposta. Ciononostante, proseguii: «Si chiama Skip Dunning. Qualcuno di voi conosce un certo Dunning?»

«Spera, sorridi e bacia un maiale», disse quello senza bretelle.

«Prego?»

Roteò gli occhi e piegò in basso gli angoli delle labbra, l'espressione spazientita di chi sta parlando con un cretino e non nutre speranze che quest'ultimo diventi più sveglio. «Derry è piena di Dunning, dai un'occhiata all'elenco del telefono.» Si girò per rientrare, la sua ghenga gli andò dietro. Senza Bretelle tenne aperta la porta, poi si rivolse di nuovo a me: «Che motore ha quella Ford? Un V8?»

«Y-Block», replicai con l'aria di chi sa il fatto suo.

«E funziona bene?»

«Non male.»

«Allora forse è meglio che ti metti al volante e vai su per la collina. Lassù ci sono dei bei locali. Questi bar sono per gli operai», mi consigliò Senza Bretelle, con la freddezza che avrei imparato ad attendermi dalla gente di Derry, ma a cui non mi sarei mai abituato. «Qui attireresti troppe occhiate. E forse anche di peggio, quando finisce il turno del pomeriggio alla Striar e alla Boutillier.»

«Grazie, molto gentile da parte sua.»

«Sì, e non ti immagini quanto», commentò con la stessa freddezza, poi entrò nel bar.

Tornai alla mia decappottabile. Su quella strada grigia, con il tanfo delle fabbriche nell'aria e il pomeriggio che s'insanguinava lasciando il posto alla sera, il centro di Derry sembrava appena più seducente di una troia morta sul banco di una chiesa. Salii a bordo, misi in folle, avviai il motore e sentii il forte impulso di ripartire, tornare a Lisbon Falls, risalire dalla buca del coniglio e dire ad Al Templeton di trovarsi un altro candidato. Solo che non poteva. Aveva esaurito le forze e gli restava poco tempo. Io ero, come si dice in New England, l'ultimo colpo in canna del cacciatore.

Risalii Main Street, vidi gli antiquati lampioni (si stavano accendendo proprio in quel momento) ed entrai nel vialetto della Derry Town House. Cinque minuti dopo, ero nella mia stanza. La mia permanenza a Derry era iniziata.

3

Quando ebbi disfatto i bagagli (un po' dei contanti rimasti finì nel mio portafogli, il resto nella fodera della valigia), ero ormai affamato, ma prima di scendere per la cena, controllai l'elenco del telefono. Quello che vidi mi causò un tuffo al cuore. Il signor Senza Bretelle non era stato molto educato, ma su una cosa aveva ragione: in quella città, i Dunning te li tiravano dietro. E non solo in quella città, ma anche nei tre o quattro paesini che la circondavano, anch'essi inclusi nell'elenco. C'era quasi un'intera pagina di Dunning. Non c'era da sorprendersi, perché nelle piccole città certi cognomi sembrano spuntare come soffioni in mezzo a un prato quando arriva giugno. Negli ultimi cinque anni di insegnamento alla LHS dovevo aver avuto una ventina di Starbird e di Lemke. Alcuni erano fratelli, molti erano cugini di primo, secondo o terzo grado. Si sposavano tra loro e ne generavano altri.

Prima di viaggiare nel tempo avrei dovuto chiamare Harry Dunning e chiedergli il nome di suo padre. Sarebbe stato così semplice. Lo avrei certamente fatto, se non fossi stato tanto sbalordito da ciò che Al mi aveva mostrato, e da ciò che mi stava chiedendo di fare. Tuttavia, pensai, quanto difficile può mai essere? Non dovrebbe servire Sherlock Holmes per trovare una famiglia con bambini di nome Troy, Arthur (detto Tugga), Ellen e Harry.

Rincuorato da quel pensiero, scesi al ristorante dell'albergo e ordinai una tipica cena costiera del Maine. Mi portarono vongole e un'aragosta grande più o meno come uno skateboard. Lasciai perdere il dessert e al suo posto presi una birra al bancone. Nei romanzi di detective che avevo letto, i baristi erano sempre ottime fonti di informazione. Certo, se quello che lavorava alla Town House era come gli altri abitanti di Derry che avevo incrociato, non sarei andato molto lontano.

Per fortuna non lo era. L'uomo che interruppe l'asciugatura dei bicchieri per servirmi era giovane e robusto, con una faccia tonda e cordiale e i capelli a spazzola. «Che posso darle, amico?»

La parola «amico» aveva un bel suono, e restituii il sorriso con entusiasmo.

«Una Miller Lite?»

Rimase perplesso. «Mai sentita nominare, però ho la High Life.»

Ma certo che non l'aveva mai sentita nominare: non l'avevano ancora inventata. «Mi va benissimo. Per un istante mi sono scordato di essere sulla East Coast.»

«Da dove viene?» Con un cavatappi aprì la bottiglia, e posò sul bancone un bicchiere freddo.

«Dal Wisconsin, ma mi fermo qui per un po'.» Anche se eravamo soli, abbassai la voce, adottando il mio tono confidenziale. «Affari immobiliari. Devo dare un'occhiata in giro.»

Annuì con rispetto e mi versò la birra prima che potessi farlo io. «Buona fortuna. Dio sa se ci sono case in vendita da queste parti, e quasi tutte a prezzi stracciati. Sto per andarmene anch'io, a fine mese. Vado in un posto meno spigoloso.»

«Infatti Derry non sembra molto accogliente», dissi, «ma pensavo fosse una cosa tipica degli yankee. In Wisconsin siamo un po' più aperti, e per dargliene prova, le offro una birra.»

«Non bevo mai alcolici mentre lavoro, ma accetto volentieri una Coca.»

«La prenda pure.»

«Grazie mille. È bello incontrare un vero signore, in una serata smorta come questa.» Lo guardai prepararsi la Coca-Cola: versò sciroppo in un bicchiere, aggiunse acqua gassata e mescolò. Ne bevve un sorso e si leccò le labbra. «Mi piace così, bella dolce.»

A giudicare dalla panza che stava mettendo su, non stentavo a crederlo.

«Comunque, quelle storie sugli yankee che sono maldisposti son tutte cazzate», disse. «Io sono cresciuto a Fork Kent, ed è la cittadina più accogliente che si possa visitare. Quando i turisti ci arrivano col treno, manca poco che gli diamo il bacio di benvenuto. È là che ho fatto il corso da barista, poi sono venuto a cercare fortuna più a sud. Questo sembrava un buon posto per cominciare, e mi pagano abbastanza bene, ma…» Si guardò intorno, non vide nessuno, ma abbassò ulteriormente la voce. «Vuole che le dica la verità? Questa città puzza.»

«Capisco cosa intende. Tutte quelle fabbriche…»

«Oh, è ben più di quello. Si guardi intorno. Cosa vede?»

Feci come aveva detto. In un angolo c'era un tizio che sembrava un commesso viaggiatore, intento a bere un Whiskey Sour, ma a parte lui nessun altro.

«Non vedo granché.»

«Ed è così per tutta la settimana. La paga è buona perché non ci sono mance. I bar in centro sono sempre pieni, e noi abbiamo qualche cliente nei fine settimana, ma per il restò, la situazione è quella che vede. Chi ha la grana beve a casa sua, mi sa.» Abbassò ancora la voce. Tra poco si sarebbe messo a sussurrare.

«Abbiamo avuto una brutta estate qui, amico mio. La gente del posto non ne parla, nemmeno i giornali ci battono sopra, ma sono successe storiacce. Omicidi. Almeno sei. Ragazzini. Di recente ne hanno trovato uno nei Barren. Si chiamava Patrick Hockstetter. Era in avanzato stato di decomposizione.»

«I Barren?»

«È quella striscia paludosa proprio in mezzo alla città. Probabilmente l'ha vista quand'è atterrato.»

Ero arrivato in macchina, ma sapevo a cosa si riferiva.

Il barista spalancò gli occhi. «È quella l'area edificabile che le interessa?»

«Non posso dire niente», risposi. «Se si sparge la voce, mi toccherà cercarmi un altro lavoro.»

«Capisco, capisco.» Bevve metà della sua Coca, poi soffocò un rutto col dorso della mano. «Ma ci spero. Quella schifezza va coperta di cemento. È solo acqua fetente e zanzare. Sarebbe un buon servizio reso alla città. Addolcirebbe un po' la vita.»

«Hanno trovato altri ragazzini, nei Barren?» chiesi. Un serial killer di bambini avrebbe spiegato la cupezza che avevo percepito appena entrato in città.

«Non che io sappia, ma la gente dice che gli scomparsi sono finiti là, perché ci sono tutte le grandi stazioni di pompaggio delle fogne. Ho sentito gente dire che sotto Derry ci sono talmente tanti tubi di fogna (quasi tutti impiantati ai tempi della Grande Depressione) che nessuno sa dove siano tutti. E lei sa come sono i ragazzi.»

«Avventurosi.»

Annuì con enfasi. «Risposta esatta! Alcuni dicono che è stato qualche vagabondo, che poi ha lasciato la città. Secondo altri era uno del posto che si travestiva da clown per non essere riconosciuto. La prima vittima (è successo l'anno scorso, prima che io arrivassi) l'hanno trovata all'incrocio tra Witcham Street e la Jackson con un braccio strappato. Un ragazzino di nome Denbrough, George Denbrough. Povero piccolino.» Mi rivolse uno sguardo eloquente. «E l'hanno trovato accanto a una di quelle aperture di scarico. Quelle che portano ai Barren.»

«Cristo.»

«Già.»

«Vedo che parla della vicenda al passato.»

Stavo per spiegargli cosa intendevo, ma il tizio era sveglio.

«Sembra che abbia smesso, tocchiamo legno.» Con le nocche colpì il bancone. «Forse, chiunque fosse l'assassino, ha fatto i bagagli e se n'è andato. O forse il figlio di puttana si è ucciso, a volte succede. Sarebbe bello. Ma non è stato un maniaco omicida vestito da clown ad ammazzare il piccolo Corcoran. Il pagliaccio che ha commesso quell'omicidio era il padre del ragazzino, se riesce a crederci.»

Era una storia tanto simile a quella per cui ero venuto a Derry, che pensai più al fato che a una coincidenza. Aguzzai le orecchie, e intanto bevvi un altro po' di birra. «Veramente?»

«Può scommetterei. Dorsey Corcoran, così si chiamava il bambino. Aveva solo quattro anni, e sa cos'ha fatto quel bastardo di suo padre? Lo ha picchiato a morte con un martello.»

Un martello. Lo ha fatto con un martello. Mantenni la mia espressione di cortese interesse (o almeno sperai di esserci riuscito), ma sentii la pelle d'oca risalirmi le braccia. «È terribile.»

«E non è la cosa peg…» s'interruppe e guardò oltre le mie spalle. «Ne vuole un altro, signore?» disse rivolto al commesso viaggiatore.

«No, grazie», rispose quello, e diede al barista un biglietto da un dollaro.

«Vado a letto, e domattina levo le tende. Spero che a Waterville e ad Augusta si ricordino come si ordina la ferramenta, perché di sicuro non se lo ricordano qui. Tieni il resto, figliolo, comprati una DeSoto.» E uscì a testa bassa.

«Ha visto? Quello è un perfetto esempio di cosa succede in quest'oasi.» Il barista seguì con lo sguardo il cliente che se ne andava. «Un drink, subito a letto, e domani… Ciao ciao maramao, a dopo, bel topo. Se continua così, questo posto diventerà una città fantasma.» Raddrizzò la schiena e cercò di farsi le spalle quadrate, compito impossibile, dato che erano tonde come il resto del suo corpo.

«Ma chi se ne frega? Il primo d'ottobre, io me la filo. Piglio la strada, e ciao ciao a tutti quanti.»

«Il padre di quel bambino, Dorsey … Ha ucciso anche qualcuno degli altri?»

«No, aveva un alibi. Penso che fosse il patrigno, non il padre, ora che ci penso. Dicky Macklin. L'addetto alla reception, Johnny Keeson (lo ha sicuramente visto quando ha preso la stanza), mi ha detto che a volte il bastardo veniva qui a farsi un drink, finché non lo hanno cacciato perché importunava una cameriera e si è incattivito quando lei gli ha detto di farsi una doccia fredda. Dopodiché, penso sia andato a bere allo Spoke, o al Secchio di sangue. In quei posti fanno entrare chiunque.»

Si chinò verso di me, tanto vicino che sentii l'Aqua Velva sulle sue guance.

«Vuoi sapere la cosa peggiore?»

Non volevo, ma pensai che dovevo farlo. Annuii.

«C'era anche un fratello più grande in quella famiglia di merda. Eddie. È scomparso a giugno. Puff!, e non c'era più. Sparito, nuovo indirizzo non pervenuto, non so se mi spiego. C'è chi pensa che sia scappato di casa, per sfuggire a Macklin, ma chiunque abbia un po' di sale in zucca sa che in quel caso lo avrebbero avvistato a Portland, o a Castle Rock, o a Portsmouth. Un ragazzino di dieci anni non può stare nascosto tanto a lungo. Creda a quel che le dico, Eddie Corcoran si è buscato le martellate proprio come il suo fratellino. Macklin non confesserà.» Sorrise, un sorriso improvviso e brillante che fece sembrare quasi bello il suo viso rotondo. «L'ho convinta a non comprare terreni a Derry, signore?»

«Non dipende da me», dissi. Ormai andavo col pilota automatico. Non avevo già sentito di una serie di omicidi di bambini in quella parte del Maine? Forse avevo visto un programma in TV, con appena un quarto di cervello ad ascoltare e il resto ad attendere i rumori della mia disgraziata moglie che tornava a casa barcollando, dopo l'ennesima «uscita con le amiche». L'unica cosa che ricordavo è che a Derry, a metà degli anni Ottanta, un'alluvione avrebbe distrutto mezza città.

«No?»

«Macché, io sono solo il mediatore.»

«Be', buona fortuna. Qualche mese fa, avrebbe trovato una situazione peggiore. A luglio, la gente era tesa come la cintura di castità di Doris Day. Ma ancora ce ne vuole prima che torni una città normale. Io sono un tizio socievole, e mi piace la gente socievole. Per questo me ne vado.»

«Buona fortuna anche a lei», dissi, e posai due dollari sul bancone.

«Uh, signore, così è troppo!»

«Pago sempre un sovrappiù per la buona conversazione.» In realtà, il sovrappiù era per la faccia simpatica. La conversazione era stata inquietante.

«Ehi, grazie!» Era raggiante. Mi porse la mano: «Non mi sono nemmeno presentato. Fred Toomey».

«Piacere di conoscerla. Io sono George Amberson.» Aveva una buona stretta, e niente talco.

«Vuole un consiglio?»

«Certo.»

«Mentre è in città, cerchi di non parlare coi bambini. Dopo un'estate come questa, un forestiero che si rivolge a un bambino può attirare l'attenzione della polizia, se lo vede qualcuno. O addirittura provocare un pestaggio. Non è certo una cosa improbabile.»

«Anche senza il costume da clown, eh?»

«Be', è quello lo scopo di un travestimento, no?» Non sorrideva più. Adesso era pallido e incupito. In parole povere, somigliava a tutti gli altri abitanti di Derry. «Quando ti metti un costume da pagliaccio e un naso di gomma, nessuno sa come sei fatto dentro.»

4

Nessuno sa come sei fatto dentro.

Pensavo a quella frase mentre l'antiquato ascensore cigolava diretto al secondo piano. Era vero. E se erano vere anche le altre cose che mi aveva detto Fred Toomey, chi si sarebbe stupito se un altro padre avesse usato un martello per regolare i conti con la sua famiglia? Nessuno. Probabilmente, la gente avrebbe pensato che, ancora una volta, Derry mostrava com'era fatta. E forse avrebbe avuto ragione.

Mentre entravo nella camera, mi colse un'idea veramente orribile: e se, nelle prossime sette settimane, la mia presenza avesse alterato le cose nel modo sbagliato, e il padre di Harry avesse ucciso anche lui, anziché lasciarlo soltanto zoppo e col cervello un po' annebbiato?

Non succederà, mi dissi. Non lascerò che succeda. Come ha detto Hillary Clinton nel 2008: «Sono qui per vincere».

Solo che, ovviamente, aveva perso. Quello fu l'ultimo pensiero da sveglio nella mia prima sera a Derry.

5

L'indomani, feci colazione al Riverview Restaurant dell'albergo, dove non c'era nessuno, a parte me e il commesso viaggiatore della sera prima. Era immerso nella lettura del giornale locale. Quando lo lasciò sul tavolo, lo raccolsi io. Non mi interessava la prima pagina, dedicata al tintinnio di sciabole nelle Filippine (ma mi chiesi se Lee Oswald fosse da quelle parti). Mi interessavano le notizie locali. Nel 2011 leggevo il Lewiston Sun Joumal, e l'ultima pagina di quella sezione era intitolata «Storie di scuola». Genitori orgogliosi potevano leggerei i nomi dei loro figli, se avevano vinto un premio, erano andati in gita scolastica, o avevano partecipato alla campagna di pulizia dei parchi. Se anche il Derry Daily News aveva una pagina del genere, non era impossibile trovarci i nomi dei piccoli Dunning.

Ma nell'ultima pagina c'erano soltanto necrologi.

Provai con le pagine sportive, e lessi dell'imminente, importante partita di football: le Tigri di Derry contro gli Arieti di Bangor. Troy Dunning aveva quindici anni, secondo il tema del bidello. Un quindicenne poteva far parte di una squadra, anche se probabilmente non da titolare.

Non trovai il suo nome, e anche se lessi ogni parola di un articolo più breve sulla squadra di football dei piccoli (i Tigrotti), non trovai nemmeno quello di Arthur «Tugga» Dunning.

Pagai la colazione e risalii in camera col giornale sotto braccio, pensando che ero proprio un detective mediocre. Contai i Dunning sull'elenco telefonico (erano novantasei), poi mi resi conto di una cosa: ero troppo influenzato, forse anche viziato, da una società in cui Internet era pervasiva. Avevo imparato ad affidarmi alla rete, e davo troppe cose per scontate. Quanto ci avrei messo a trovare la giusta famiglia Dunning nel 2011? Forse sarebbe bastato digitare «Tugga Dunning» e «Derry» nel mio motore di ricerca preferito. Premi INVIO e lascia che Google, il Grande Fratello del ventunesimo secolo, si occupi del resto.

Nella Derry del 1958, i computer più avanzati erano macchinari grossi come piccoli caseggiati, e il giornale locale non era di alcuna utilità. Cosa mi rimaneva? Mi ricordai del docente di sociologia che avevo al college (un vecchio, sarcastico bastardo), che era solito dire: Quando tutto il resto fallisce, lascia perdere e vai in biblioteca.

Così ci andai. E con grandi speranze.

6

Nel tardo pomeriggio, con le speranze andate in pezzi (almeno per il momento), m'incamminai lento su per Up-Mile Hill, fermandomi un momento all'incrocio tra Jackson Street e la Witcham, per guardare l'apertura di scarico dove un ragazzino di nome George Denbrough aveva perso un braccio e la vita (almeno a sentire Fred Toomey). Quando arrivai in cima alla collina, il cuore mi batteva forte e ansimavo. Non perché non fossi in forma, ma per via delle fabbriche.

Ero sconfortato e un po' impaurito. Certo, avevo ancora tempo in abbondanza per rintracciare la giusta famiglia Dunning, e confidavo di riuscire a farlo, a costo di chiamare tutti i Dunning dell'elenco, anche a rischio di allertare e innescare la bomba a orologeria nella testa del padre di Harry. Ma cominciavo ad avvertire quel che Al aveva avvertito: qualcosa lavorava contro di me.

Percorsi Kansas Street, talmente immerso nei miei pensieri che all'inizio non mi accorsi che non c'erano più case sulla destra. Ora il terreno scendeva ripido verso quell'intrico verde e fradicio che Toomey aveva chiamato «i Barren». Solo un traballante steccato bianco separava la strada dal pendio. Mi ci appoggiai con le mani, e fissai la vegetazione fuori controllo là in basso. Vidi sprazzi di acqua torbida e stagnante, canneti tanto alti da sembrare preistorici, e grandi intrichi di rovi. Gli alberi dovevano soffrire di rachitismo, là in mezzo, e lottare per un po' di sole. Doveva esserci edera velenosa, e immondizia, e probabilmente qualche accampamento di barboni. E dovevano esserci sentieri che conoscevano solo i ragazzi del luogo. Quelli più avventurosi.

Mi raddrizzai e guardai senza vedere, non ascoltando ma cogliendo una musichetta lontana, qualcosa con i fiati. Stavo pensando a quanto poco avessi combinato quella mattina. Puoi cambiare il passato, aveva detto Al, ma non è facile come sembra.

Cos'era quella musica? Qualcosa di allegro e ritmato. Mi fece pensare a Christy, ai primi tempi, quando eravamo invaghiti l'uno dell'altra. Tàdada-da-da da… Forse era Glenn Miller?

Ero andato in biblioteca sperando di poter vedere gli atti del censimento. L'ultimo si era svolto otto anni prima, nel 1950, e c'erano già tre dei quattro bambini Dunning: Troy, Arthur e Harold. Solo Ellen, che avrebbe avuto sette anni al momento degli omicidi, non era ancora nata. Doveva esserci un indirizzo. Sì, negli otto anni successivi la famiglia poteva essersi spostata, ma in quel caso, uno degli ex vicini avrebbe potuto dirmi dov'erano andati. Era una piccola città.

Solo che gli atti del censimento non c'erano.

La bibliotecaria, la signora Starrett, era simpatica. Mi aveva detto che anche secondo lei quegli atti dovevano stare in biblioteca, ma per qualche motivo il consiglio comunale aveva deciso di tenerli in municipio. Ce li avevano portati nel 1954.

«Questo non mi dà molta speranza», le avevo risposto, sorridendo. «Sa come dicono: non si può niente contro un comune.»

La signora Starrett non aveva ricambiato il sorriso. Era bendisposta, addirittura affascinante, ma aveva la stessa vigile diffidenza di chiunque altro avessi incontrato in quello strambo posto. Fred Toomey era l'eccezione che confermava la regola. «Sciocchezze, signor Amberson. Non è materiale riservato, la documentazione del censimento. Vada là e dica alla segretaria comunale che la manda la signora Starrett. Si chiama Marcia Guay, la aiuterà. Anche se è probabile che abbiano messo tutto nel seminterrato, che non è il posto giusto. C'è umidità, e non mi sorprenderebbe se ci fossero i topi. Se ha qualche problema, qualunque problema, torni qui da me.»

Così ero andato al municipio. Nell'atrio, un manifesto diceva: GENITORI, RICORDATE Al VOSTRI BAMBINI DI NON PARLARE CON SCONOSCIUTI E DI GIOCARE SOLO CON GLI AMICI. C'era la fila a tutti gli sportelli. Quasi tutti fumavano, naturalmente. Marcia Guay mi accolse con un sorriso imbarazzato. La signora Starrett, che l'aveva avvisata al telefono, era rimasta giustamente inorridita quando Marcia le aveva detto quel che stava per dire a me: i documenti del censimento 1950 non c'erano più. Non c'era più nulla di quanto era stato depositato nel seminterrato.

«Abbiamo avuto forti piogge l'anno scorso. Sono durate un'intera settimana. Il canale è straripato, e si è allagata tutta la Città Bassa, il vecchio nome del centro di Derry, signor Amberson. Per quasi un mese il nostro seminterrato sembrava il Canal Grande di Venezia. La signora Starrett ha ragione, quei documenti non andavano spostati, e sembra che nessuno sappia dire chi l'abbia deciso e perché. Mi dispiace molto.»

Era impossibile non provare quel che aveva provato Al cercando di salvare Carolyn Poulin: stavo in una prigione dalle pareti elastiche. Dovevo aprirmi un varco, ma come? Dovevo aggirarmi davanti alle scuole, sperando di avvistare un ragazzino che somigliasse al bidello sessantenne appena andato in pensione? Dovevo cercare una bambina di sette anni che faceva morir dal ridere i compagni di classe? Aspettare di sentire un bambino gridare: «Ehi, Tugga, come va?»

Certo, come no. Un forestiero che gironzola intorno alle scuole in una città dove, entrando in municipio, la prima cosa che vedevi era un cartello che metteva in guardia i genitori. Se c'era una mossa che mi avrebbe fatto entrare dritto nel quadrante del radar, era quella.

Di una cosa ero sicuro: dovevo lasciare la Derry Town House. Coi prezzi del '58, potevo permettermi di restarci per le prossime sette settimane, ma in quel modo avrei attirato curiosità. Decisi di guardare le inserzioni e trovare una camera in affitto. Mi girai per tornare nella Città Bassa, poi mi fermai.

Tàdada-da-da-da…

Era proprio Glenn Miller. In the Mood, un pezzo che avevo motivo di conoscere bene. Incuriosito, mi diressi verso la musica.

7

Alla fine dello steccato che separava Kansas Street dal declivio che portava ai Barren c'era una piccola area da picnic, con un barbecue di pietra, due tavolini e, tra questi, un arrugginito bidone della spazzatura. Su uno dei tavolini c'era un giradischi portatile, e sul piatto girava un grande disco a 78 giri.

Sull'erba, un ragazzino allampanato, gli occhiali riparati col nastro adesivo, ballava con una bellissima ragazzina dai capelli rossi. Alla LHS chiamavamo le matricole tweenager, ed è ciò che erano quei due, ma ballavano con grazia da adulti. E non si agitavano tipo jitterbug o rock'n'roll: ballavano lo swing. Ne fui affascinato, ma anche… cosa? Spaventato? Forse: avrei avuto paura per tutto il periodo trascorso a Derry, e anche in Texas. Ma c'era anche qualcos'altro, qualcosa di più grande. Una specie di sgomento, come se avessi afferrato l'orlo di una vasta comprensione. O avessi visto («in modo confuso, come in uno specchio», per dirla con san Paolo) i veri meccanismi dell'universo.

Perché, vedete, io avevo conosciuto Christy a un corso di swing a Lewiston, e quello era uno dei pezzi con cui avevamo imparato a ballare. Più tardi (nel nostro anno migliore, sei mesi prima del matrimonio e sei mesi dopo), avevamo partecipato a gare, una volta vincendo il quarto premio (che Christy chiamava «dei primi tra tutti gli altri») al Campionato di Swing del New England. La nostra canzone era Boogie Shoes di KC and the Sunshine Band, in una versione dance- mix un poco più lenta.

Questa non è una coincidenza, pensai, guardandoli. Il ragazzino portava blue jeans e una maglietta a girocollo. Lei aveva una camicetta bianca con le falde che cadevano su sbiaditi pantaloni a tre quarti rossi. Quegli incredibili capelli erano tirati indietro nella stessa impudente, bellissima coda di cavallo che si faceva Christy quando andavamo alle gare di ballo. Per non parlare dei calzini e della gonna a campana rétro.

Non può essere una coincidenza.

Stavano eseguendo una variante del lindy-hop che conoscevo come «hellzapoppin». Dovrebbe essere un ballo veloce (velocissimo, se hai la forza fisica e la grazia necessarie), ma lo stavano facendo lento, perché stavano ancora imparando i passi. Capivo ogni loro mossa. Le conoscevo tutte, anche se non le eseguivo da più di cinque anni. Si avvicinano, si tengono le mani. Lui si ferma un istante e scalcia col piede sinistro, lei fa lo stesso, entrambi ruotano il bacino così sembrano andare in due direzioni opposte. Si allontanano senza mollare le mani, poi lei fa una piroetta, prima a sinistra, a destra…

Sbagliarono i l giro d i ritorno e lei finì seduta sull'erba.

«Cristo, Richie, questa la sbagli sempre! Sei senza speranza!» Ma lo disse ridendo. Si lasciò cadere all'indietro e fissò il cielo.

«Me disbiagere dando, Miz Rosela!» esclamò il ragazzino con voce piagnucolante da negretto. La battuta sarebbe caduta a terra come un pallone di piombo nel politically correct del ventunesimo secolo. «Sono solo un bavero ragazzo di gambagna, ma voglio imbarare guesda danza a gosdo di uggidermi!»

«Sarò io a ucciderti», disse lei. «Rimetti il disco prima che io perda…» Poi mi videro.

Fu uno strano momento. A Derry c'era un velo, ormai lo conoscevo, tanto che quasi lo vedevo. La gente del posto stava da un lato, i forestieri (come Fred Toomey e me) stavano dall'altro. A volte un autoctono passava oltre il velo, come aveva fatto la signora Starrett, la bibliotecaria, quando aveva espresso la propria irritazione per lo spostamento dei documenti del censimento, ma se facevi troppe domande (e sicuramente se li coglievi alla sprovvista), di nuovo si ritraevano.

Io li avevo colti alla sprovvista, quei ragazzi, eppure non si ritrassero. Invece di chiudersi, i loro visi rimasero aperti, pieni di curiosità e interesse.

«Scusate, scusate», dissi. «Non volevo spaventarvi. Ho sentito la musica e ho visto che ballavate il lindy-hop.»

«Tentavamo di ballare il lindy-hop», fece il ragazzo. Aiutò la sua amica a rialzarsi. Fece un inchino. «Richie Tozier, al suo servizio. I miei amici dicono tutti 'Rici Rici, che non sa andare in bici', ma non sanno niente, quelli.»

«Molto piacere», risposi. «George Amberson.» E poi, mi venne fuori spontaneo: «I miei amici dicono tutti: 'Giorgi-Giorgi, che di lui non ti accorgi', ma neanche quelli sanno niente».

La ragazza si lasciò andare su una delle panche dei tavoli da picnic, ridacchiando. Il ragazzo mise le mani ai lati della bocca e annunciò: «Strano adulto dice battuta divertente! Wacka-wacka-wacka! Fannn-tastico! Ed McMahon, cos'abbiamo per questo portentoso ragazzo? Be', Johnny, oggi il premio di Who Do You Trust è una raccolta completa dell'Encyclopedia Britannica e un aspirapolvere Electrolux per tirar su ogni…»

«Beep-beep, Richie», disse la ragazza. Si stava asciugando gli occhi. L'intervento provocò uno sventurato ritorno alla voce da negretto: «Me disbiagere, Miz Rosela, non frusdarmi ber favore. Ho angora i segni dell'aldra vlda!»

«Tu chi sei, signorina?»

«Bevy-Bevy, è meglio che ti levi», rispose, e ricominciò aridere. «Mi dispiace, Richie è uno stupidone, ma io non ho scuse. Mi chiamo Beverly Marsh. Lei non è di queste parti, vero?»

Era una cosa che tutti notavano subito. «No, e nemmeno voi due sembrate di qui. Siete i primi abitanti di Derry non scorbutici che incontro.»

«Già, è una città scorbutica», commentò Richie, e alzò la puntina dal disco. Fino a quel momento aveva saltellato sull'ultimo solco, giro dopo giro.

«Capisco che la gente è particolarmente preoccupata per i bambini», dissi.

«Notate che sto tenendo le distanze. Voi sull'erba, io sul marciapiede.»

«Non erano così preoccupati nei giorni degli omicidi», bofonchiò Richie.

«Lei sa degli omicidi?»

Annuii. «Ho una stanza alla Town House. Un tizio che lavora lì mi ha raccontato.»

«Già, e adesso che sono finiti, tutti si preoccupano dei bambini.» Si sedette accanto a Bevy-Bevy, è meglio che ti levi. «Ma mentre li ammazzavano, nessuno diceva niente.»

«Richie! Beep-beep.»

Stavolta il ragazzino azzardò un'atroce imitazione di Humphrey Bogart.

«Be', è la verità, tesoro. E lo sai anche tu.»

«È tutto finito adesso», mi informò Bevvie, zelante come un addetto stampa della camera di commercio. «Loro ancora non lo sanno, tutto qui.»

«'Loro' vuoi dire gli abitanti di Derry o gli adulti in genere?» Lei si strinse nelle spalle, come per dire: che differenza c'è?

«Invece voi lo sapete.»

«In effetti, sì, lo sappiamo.» Richie mi guardò con aria di sfida, ma dietro quegli occhiali tenuti insieme con lo scotch, c'era ancora lo scintillio del suo humour stralunato. Mi feci l'idea che non svanisse mai del tutto.

Li raggiunsi sul prato. Nessuno dei due scappò urlando. Anzi, Beverly si spostò sulla panca (e diede di gomito a Richie perché facesse lo stesso) per farmi posto. Erano molto coraggiosi, oppure molto stupidi, ma stupidi non lo sembravano affatto.

Poi la ragazza disse una cosa che mi lasciò a bocca aperta: «Io la conosco?

Noi la conosciamo?»

Prima che potessi rispondere, parlò Richie: «No, non è quello. È che… Non lo so. Lei vuole qualcosa, signor Amberson, giusto?»

«A dire il vero, sì. Informazioni. Ma come facevate a saperlo? E come fate a sapere che non sono pericoloso?»

Si guardarono, e tra di loro passò qualcosa. Ne fui subito certo: avevano percepito in me un'alterità che andava oltre l'essere un forestiero… Solo che, a differenza dell'Uomo con la Tessera Gialla, non ne avevano paura. Al contrario, ne erano affascinati. Pensai che quei due ragazzini coraggiosi e interessanti avrebbero potuto raccontare un bel po' di cose, se avessero voluto. Sono sempre rimasto curioso di quel che avrebbero potuto dirmi.

«Non lo è e basta», affermò Richie, e quando guardò la ragazza, lei annuì.

«E voi siete certi che, ehm, i tempi brutti… siano finiti.»

«Più o meno», replicò Beverly. «Qui a Derry, i tempi brutti non finiscono mai del tutto, signor Amberson. È un brutto posto, in molti sensi. Ma le cose miglioreranno.»

«Immaginate che io vi dica – una pura ipotesi – che c'è un'altra cosa brutta all'orizzonte. Una cosa simile a quella capitata a quel bambino di nome Dorsey Corcoran.»

Entrambi fecero una smorfia, come se avessi pizzicato un punto dove i nervi erano a fior di pelle. Beverly si girò verso Richie e gli disse una cosa all'orecchio. Non sono certo di aver capito, fu solo un rapido sussurro, ma poteva essere: Non è stato il clown. Poi guardò me.

«Quale cosa brutta? Quando il patrigno di Dorsey…»

«Non importa. Non dovete per forza saperlo.» Era ora di compiere il balzo. Loro erano quelli giusti. Non sapevo perché, ma era così. «Conoscete dei ragazzini che si chiamano Dunning?» Li contai sulla punta delle dita: «Troy, Arthur, Harry ed Ellen. Solo che Arthur è soprannominato…»

«Tugga», concluse Beverly. «Certo che lo conosciamo, fa la nostra stessa scuola. Stiamo provando il lindy-hop per il talent-show della scuola, subito prima del Giorno del Ringraziamento…»

«Miz, Rosela voleva gomingiare a brovare moooldo bresdo», aggiunse Richie.

Beverly Marsh lo ignorò. «Anche Tugga si è iscritto per lo show. Canterà in playback Splish Splash.» Roteò gli occhi. Le veniva molto bene.

«Dove abita? Lo sapete?»

Certo che lo sapevano, ma nessuno dei due disse nulla. E se non avessi fornito una qualche spiegazione, non lo avrebbero fatto. Glielo leggevo negli occhi.

«Allora, poniamo che io vi dica questo: se qualcuno non fa qualcosa, Tugga corre il rischio di non arrivare mai al talent-show. Stessa cosa per i suoi fratelli e sua sorella. Mi credereste, se ve lo dicessi?»

Di nuovo i ragazzini si scambiarono un'occhiata, conversando con gli occhi. Stavolta durò più a lungo, forse dieci secondi. Era il genere di sguardo in cui indulgono gli amanti; questi tweenager non potevano esserlo, ma erano amici, questo era certo. Amici veri, che avevano vissuto insieme qualcosa di importante.

«Tugga e i suoi vivono in Cossut Street», disse infine Richie. O almeno, il nome suonava così.

«Cossut?»

«Sì», disse Beverly. «K-O-S-S-U-T-H. Cossut.»

«Capito.» Ora l'unico interrogativo era quanto quei due ragazzini avrebbero parlato in giro di quella strana conversazione al limitare dei Barren.

Beverly mi stava fissando con occhi sinceri e preoccupati. «Ma, signor Amberson, io conosco il padre di Tugga. Lavora al Center Street Market. È un uomo simpatico. Sorride sempre e…»

«L'uomo simpatico non vive più a casa sua», la interruppe Richie. «Sua moglie lo ha cacciato.»

Lei lo guardò a occhi spalancati: «Chi te lo ha detto? Tug?»

«No. Ben Hanscom. Tug lo ha detto a lui.»

«È comunque un uomo simpatico», ribadì Beverly con una vocina. «Scherza sempre e non è mai scorbutico.»

«Anche i pagliacci scherzano un sacco», dissi. Entrambi sobbalzarono, come se di nuovo avessi toccato quel punto vulnerabile, dove i nervi erano a fior di pelle. «Questo non li rende brave persone.»

«Lo sappiamo», sospirò Beverly. Si stava fissando le mani. Poi rialzò lo sguardo. «Lei sa della Tartaruga?» Disse la parola come se si trattasse di un nome proprio.

Fui tentato di dir loro che conoscevo le Tartarughe Ninja, ma non lo feci. Mancavano ancora decenni all'arrivo di Leonardo, Donatello, Raffaello e Michelangelo. Mi limitai a scuotere il capo.

Lei guardò Richie, dubbiosa. Lui guardò me, poi di nuovo lei. «Ma è una brava persona, sono sicura che è una brava persona.» Beverly mi toccò il polso. Le sue dita erano fredde. «Il signor Dunning è una brava persona. E solo perché non vive più con la sua famiglia non vuol dire che è cattivo.»

Capivo benissimo. Mia moglie mi aveva lasciato, ma non perché non fossi una brava persona. «Lo so.» Mi alzai. «Resterò a Derry per un po' di tempo, e sarebbe meglio non attirare l'attenzione. Potete tenere per voi questa conversazione? So che è chiedervi molto, ma…»

Per l'ennesima volta si guardarono e scoppiarono a ridere.

Quando riuscì a parlare, Beverly disse: «Sappiamo tenere un segreto».

Annuii. «Ne sono certo. Scommetto che ne avete tenuti svariati, quest'estate.»

A quella frase non risposero.

Col pollice indicai i Barren: «Ci avete mai giocato, laggiù?»

«Una volta», rispose Richie. «Ora non più.» Si alzò e con le mani si spazzò il retro dei blue jeans. «È stato un piacere parlare con lei, signor Amberson. Mi raccomando, non accetti caramelle da sconosciuti.» Esitò. «Stia attento, qui a Derry. Ora va un po' meglio, ma non credo che sarà mai del tutto a posto, mi capisce?»

«Sì, grazie. Grazie a tutti e due. Forse, un giorno, anche la famiglia Dunning avrà motivo di ringraziarvi, ma se le cose andranno come spero…»

«…non sapranno mai nulla», terminò Beverly al posto mio.

«Esattamente.» Poi ricordai una cosa che mi aveva detto Fred Toomey:

«Risposta esatta con Eversharp. Mi raccomando, state in campana».

«Lo faremo», disse Beverly, poi ricominciò a ridacchiare. «Giorgi-Giorgi, meglio se te ne accorgi.»

Salutai toccando la tesa del mio nuovo cappello di paglia, e feci per allontanarmi, ma mi venne un'idea e mi girai: «Quel giradischi va anche a trentatré giri?»

«Come per suonare un long-playing?» chiese Richie. «No. A casa, il nostro hi-fi lo fa, ma quello di Bevvie è un giocattolino che va a pile.»

«Attento a quel che dici del mio giradischi, Tozier», ribatté Beverly. «Ho risparmiato per comprarlo.» Poi, rivolta a me: «Va a settantotto e a quarantacinque giri, solo che ho perso la rotellina di plastica che va nel buco dei quarantacinque, così adesso suona solo i settantotto».

«Vanno bene anche i quarantacinque», risposi. «Fate ripartire il disco, ma suonatelo più lento.» Rallentare la musica per imparare i passi era una cosa che io e Christy avevamo imparato al corso.

«Sei tutto pazzo, paparino», disse Richie. Spostò la levetta accanto al piatto e fece ripartire il disco. Stavolta sembrava che Glenn Miller e i suoi orchestrali avessero preso un tranquillante.

«OK.» Porsi le mani a Beverly. «Stai a guardare, Richie.»

Lei me le prese con piena fiducia, guardandomi con grandi, divertiti occhi azzurri. Mi chiesi dove fosse e chi fosse nel 2011. Mi chiesi se fosse ancora viva. Supponendo di sì, chissà se ricordava che una volta, in un bel pomeriggio di settembre, un tizio strano che faceva strane domande aveva ballato con lei una versione strascicata di In the Mood?

Dissi: «Voi ragazzi la ballavate lenta anche prima, e adesso sarete ancora più lenti, ma potete sempre tenere il ritmo. C'è tempo in abbondanza per fare ogni passo».

Tempo. Tempo in abbondanza. Far ripartire il disco, ma suonarlo più lento.

La trassi a me, poi la lasciai tornare indietro. Entrambi ci piegammo come fossimo sott'acqua, e scaldammo a sinistra mentre la Glenn Miller Orchestra suonava Taa-da-da… da…da…da…Alla stessa velocità, come un giocattolo a molla che ha quasi finito la spinta, lei piroettò verso sinistra sotto le mie mani sollevate.

«Stop!» dissi, e lei rimase immobile dandomi le spalle, sempre tenendomi le mani. «Ora strizza la mia mano destra per ricordarmi la prossima mossa.»

Lei strizzò, poi roteò dolcemente all'indietro.

«Fico!» esclamò. «Adesso dovrei andare sotto, lei mi riporta su, e mi fa fare la giravolta. Per questo proviamo sull'erba, così se mi sbaglio non mi rompo il collo.»

«Quella parte la lascio a voi», dissi. «Sono troppo vecchio per far fare la giravolta, al massimo giro gli hamburger sulla griglia.»

Richie mise nuovamente le mani ai lati della bocca. «Wacka-wacka-wacka!

Strano adulto per la seconda volta dice…»

«Beep-beep, Richie», lo zittii, facendolo ridere. «Adesso provaci tu. E inventatevi segnali per tutte le altre mosse che vadano oltre i passi-base che fanno nella rivendita di bibite. Così, anche nel caso non vinceste la gara, farete bella figura.»

Richie prese le mani di Beverly e fece il tentativo. Vicini, lontani, fianco a fianco, girare a sinistra, girare a destra. Perfetto. Lei scivolò a piedi in avanti tra le gambe di Richie, agile come un pesce, poi lui la tirò fuori. Lei finì con una giravolta che la riportò in verticale. Richie le riprese le mani e ripeterono la sequenza. La seconda volta fu anche meglio.

«Andiamo fuori tempo nel sopra-e-sotto», si lamentò Richie.

«Non succederà quando il disco andrà alla velocità normale, fidatevi.»

«Mi piace», disse Beverly. «È come mettere la danza sotto vetro.» Fece un accenno di piroetta sulla punta delle sue scarpe da ginnastica. «Mi sembra di essere Loretta Young quando all'inizio del suo show entra in scena con un abito a ruota.»

«Mi chiamano Arthur Murray e vengo dal Missouray!» proclamò Richie, citando il più famoso maestro di ballo dell'epoca. Sembrava compiaciuto.

«Adesso acceleriamo il ritmo», ripresi. «Ricordatevi i vostri segnali, e tenete il tempo. Il tempo è la chiave di tutto.»

Glenn Miller suonò la sua vecchia, dolce canzone, e i ragazzi ballarono. Sull'erba, le loro ombre ballavano sotto di loro. Fuori… dentro… giù… calcio… giro a sinistra… giro a destra… sotto… di nuovo fuori… giravolta! Non furono perfetti, e avrebbero sbagliato i passi diverse volte prima di impararli (se mai lo avessero fatto), ma non erano male.

Oh, al diavolo. Erano bellissimi. Per la prima volta da quand'ero salito su quel dosso della Route 7 e avevo visto Derry stagliarsi sulla riva sinistra del Kenduskeag, ero felice. Era una bella sensazione per andare avanti, così mi allontanai, dandomi il vecchio consiglio: Non voltarti, non guardarti mai indietro. Quante volte la gente, dopo un'esperienza singolarmente bella (o singolarmente brutta) si dice quelle parole? Spesso, mi sa. E di solito il consiglio non viene ascoltato. Gli umani sono programmati per guardarsi indietro. Per questo il nostro collo ruota su un perno.

Percorsi mezzo isolato, poi mi girai, pensando che mi stessero guardando, e invece no. Ballavano ancora. Ed era una bella cosa.

8

In Kansas Street, un paio di isolati più giù, c'era un distributore Cities Service, ed entrai nell'ufficio per chiedere dove fosse «Cossut» Street. Sentivo il rombo di un compressore e una stridente musichetta provenire dallo spiazzo del garage, ma l'ufficio era vuoto. La cosa fu provvidenziale, perché accanto al registratore di cassa vidi qualcosa di utile: un portariviste pieno di mappe. Nella tasca in alto c'era una sola mappa della città che sembrava vecchia e negletta. In copertina c'era la foto di una statua di Paul Bunyan eccezionalmente brutta. Era di plastica. Paul aveva l'ascia sulle spalle e sorrideva rivolto al sole estivo. Solo Derry, pensai, poteva avere come icona la statua di plastica di un mitico tagliaboschi.

Subito oltre le pompe di benzina c'era un distributore di giornali. Presi una copia del Daily News per appoggiarci sopra la mappa, e gettai un nichelino in cima alla pila di giornali, dove ce n'erano già altri. Non so se nel 1958 siano più onesti, ma sono parecchio più fiduciosi.

Kossuth era nella stessa parte di città di Kansas Street, una gradevole passeggiata di un quarto d'ora partendo dalla stazione di servizio. Camminai sotto filari di olmi che dovevano ancora essere toccati dalla malattia che li avrebbe uccisi quasi tutti vent'anni dopo, alberi verdissimi, come se fosse giugno. Ragazzini mi incrociavano in bici o giocavano a palla nei vialetti delle case. Capannelli di adulti si raccoglievano agli incroci, dove c'erano le fermate del bus, indicate da strisce bianche sui pali del telefono. Derry portava avanti le sue faccende e io portavo avanti le mie. Non ero che un tizio con una banale giacca sportiva, un cappello di paglia inclinato un po' all'indietro e un giornale piegato in una mano. Uno che magari cercava un mercatino di seconda mano, nel cortile di qualcuno. Oppure cercava una casa a un prezzo vantaggioso. Di sicuro, non sembrava fuori posto.

O almeno lo speravo.

Kossuth Street era una via affiancata da siepi e case vecchio stile, tipiche case di legno del New England, coi tetti molto inclinati. Sui prati ruotavano gli annaffiatori. Due ragazzi passarono di corsa, lanciandosi l'un l'altro una palla da football. Una donna coi capelli avvolti in un fazzoletto (e l'inevitabile sigaretta penzolante dal labbro) lavava l'auto di famiglia e ogni tanto spruzzava il cane, che arretrava abbaiando. Kossuth Street sembrava una scena in esterni di una vecchia, sgranata sit-com.

Due bambine facevano girare una corda mentre una terza la saltava, su e giù senza sforzo mentre scandiva: «Charlie Chaplin andò in Franza / per imparar come si danza / Saluto al capitano, inchino alla regina / il mio vecchio sta in ma-ri- na». La corda schiaffeggiava l'asfalto, ciaf, ciaf, ciaf. Sentii degli occhi su di me. La donna col fazzoletto si era fermata, tubo di gomma in una mano e spugna insaponata nell'altra. Mi stava guardando mentre mi avvicinavo alle bambine. Le salutai toccandomi il cappello, e la vidi riprendere il lavaggio.

Hai corso un bel rischio parlando con quei ragazzi in Kansas Street, pensai. Solo che non ci credevo. Avvicinarmi troppo a qu este bambine saltellanti, quello sì sarebbe stato rischioso. Ma Richie e Bev erano quelli giusti. Lo avevo capito dal primo istante che li avevo visti, e anche loro lo avevano capito. Ci eravamo guardati occhi negli occhi.

Noi la conosciamo? aveva chiesto la ragazza. Bevy-Bevy, è meglio che ti levi.

La Kossuth era una via chiusa, in fondo c'era un grande edificio chiamato West Side Recreation Hall. Era deserto, sul prato pieno di erbacce un cartello diceva: PROPRIETÀ COMUNALE VENDESI. Certamente avrebbe suscitato l'interesse di qualunque procacciatore immobiliare. Sulla destra, due case più in là, una bambina dai capelli rossi e il viso pieno di lentiggini andava avanti e indietro su un vialetto asfaltato, in sella a una bicicletta con le ruotine. Cantava Splish Splash, ogni volta cambiando qualcosa: «Bing-bang, ho visto la gang, ding-dang, ho visto la gang, ring-rang,ho visto la gang».

Mi mossi verso l'ingresso dell'edificio, come fosse la cosa che più desideravo vedere, ma con la coda dell'occhio continuai a guardare la piccola Pel di Carota.

Ondeggiava di qua e di là sulla bici, cercando di capire fin dove poteva spingersi prima di cadere. A giudicare dagli stinchi spellati, non era la prima volta che faceva quel gioco. Sulla cassetta della posta di casa sua non c'erano nomi, soltanto il numero 379.

Mi avvicinai al cartello e copiai le informazioni sul mio giornale, poi mi girai e tornai indietro. Quando passai di fronte al 379 di Kossuth Street (restando dall'altra parte della strada, e fingendo di leggere il giornale), una donna si affacciò sull'uscio. Con lei c'era un ragazzino. Stava mangiando qualcosa avvolto in un tovagliolo, e con l'altra mano teneva il fucile ad aria compressa con cui, di lì a non molto, avrebbe tentato di respingere l'assalto di suo padre.

«Ellen!» chiamò la donna. «Scendi da quel trabiccolo prima di cadere! Entra a prendere un biscotto.»

Ellen Dunning scese dalla bici, la appoggiò sull'asfalto e corse in casa, cantando a pieni polmoni: «Sing-sang, ho visto la gang!» I suoi capelli, di una tonalità di rosso più infelice di quella di Beverly Marsh, rimbalzavano come molle di letto in rivolta.

Il ragazzino, che da adulto avrebbe scritto lo straziante tema che mi avrebbe fatto piangere, la seguì. Sarebbe stato l'unico superstite della famiglia.

A meno che io non cambiassi le cose. E ora che li avevo visti, persone vere che vivevano vite reali, non sembrava esserci altra scelta.

7

1

COME posso raccontarvi delle sette settimane trascorse a Derry? Come spiegare fino a che punto giunsi a temere e odiare quella città?

Non era perché nascondesse dei segreti (e li nascondeva), e perché vi fossero stati terribili crimini, alcuni ancora irrisolti (e c'erano stati). È tutto finito adesso, aveva detto una ragazzina di nome Beverly, e il ragazzino di nome Richie era d'accordo, e anch'io arrivai a crederci… Ma credevo anche che l'ombra non avrebbe mai lasciato del tutto quella città col suo strano centro infossato tra le colline.

Fu un senso di imminente fallimento a farmela odiare. E quella sensazione di essere in una prigione dai muri elastici. Se avessi voluto andarmene, mi avrebbe lasciato andare (e volentieri), ma se fossi rimasto, si sarebbe stretta ancor più intorno a me. Mi avrebbe serrato fino a impedirmi di respirare. E, questa era la parte peggiore, andarmene era ormai fuori questione, ora che avevo visto Harry prima che restasse zoppo, prima del sorriso fiducioso ma sempre un po' offuscato. Lo avevo visto prima che diventasse hop, hop Harry Saltarospo!

E avevo visto sua sorella. Adesso era più di un nome in un tema scritto col cuore in mano, una bambina senza volto che amava raccogliere fiori e metterli nei vasi. A volte non riuscivo a prendere sonno, pensavo a lei che voleva uscire la sera di Halloween vestita da Principessa Summerfall Winterspring. A meno che io non intervenissi, non ci sarebbe mai riuscita. Ad attenderla c'era una bara, dopo una lunga e vana lotta per restare viva. E c'era una bara ad attendere sua madre, di cui non conoscevo ancora il nome. E una per Troy. E una per Arthur, detto «Tugga».

Se l'avessi lasciato succedere, come avrei potuto proseguire la mia vita? E così restai, e non fu una scelta facile. E ogni volta che pensavo di doverlo fare anche a Dallas, la mia mente minacciava di paralizzarsi. Almeno, mi dicevo, Dallas non sarà come Derry. Perché nessun altro posto poteva essere come Derry.

Come farò a raccontarvi, dunque?

Da insegnante, ho sempre insistito sulla semplicità. Che si tratti di narrativa o saggistica, conta solo una domanda, e una risposta: «Cosa accadde?» chiede il lettore. «Questo… E questo… e anche questo», risponde lo scrittore. Farla semplice è il modo più sicuro.

Ci proverò, ma dovrete tenere presente che a Derry la realtà è solo una sottile pellicola di ghiaccio sulla superficie di un lago scuro e profondo.

Allora: cosa accadde?

Accadde questo… E qu esto… E anche questo.

2

Quel venerdì, seconda giornata interamente trascorsa a Derry, mi recai al Center Street Market. Attesi le cinque del pomeriggio, perché pensavo che fosse l'ora di massima affluenza: dopotutto, il venerdì è giorno di paga, e per molte persone (o, per meglio dire, molte mogli; una delle regole del 1958 è: «Gli uomini non fanno la spesa»), era il giorno delle compere. Se ci fosse stata folla, sarei potuto passare inosservato. Per facilitarmi il compito, andai al W.T. Grant e arricchii il mio guardaroba con alcune paia di calzoni di cotone e camicie da lavoro azzurre. Mi ricordai di Senza Bretelle e dei suoi amici del Dollaro d'Argento, e comprai anche un paio di scarponi da lavoro Wolverine. Mentre andavo al supermercato, diedi calci al marciapiede finché le punte non furono tutte graffiate.

Il posto era pieno come speravo, con code a tutti e tre i registratori di cassa e le corsie piene di donne che spingevano carrelli. I pochi uomini che vidi avevano solo cestelli, così ne presi uno anch'io. Ci misi dentro un sacchetto di mele (a un prezzo stracciato) e uno di arance (costavano quasi quanto le arance del 2011). Sotto i miei piedi, il pavimento di legno lucido cigolava.

Cosa faceva esattamente Dunning al Center Street Market? Bevvie non l'aveva detto. Non era il direttore: un'occhiata nell'ufficio a vetrata rivelò un signore dai capelli bianchi che poteva essere il nonno di Ellen Dunning, non certo il padre. E il cartellino sulla scrivania diceva MR. CURRIE.

Mentre camminavo in fondo alla grande sala, oltre il reparto latticini (mi divertì un cartello con la scritta HAI MAI PROVATO LO «YOGURT»? FALLO, TI PIACERÀ), sentii qualcuno ridere. Risate femminili dell'inequivocabile categoria «Oh-che-bricconcello». Imboccai l'ultima corsia e vidi un gruppo di donne, vestite più o meno come le signore nella Kennebec Fruit Company, accalcate intorno al bancone della carne. MACELLERIA, diceva un cartello di legno scritto a mano, appeso in alto con catenelle cromate. TAGLI – SPECIALITÀ DELLA CASA. E sotto: FRANK DUNNING, CAPOMACELLAIO.

Talvolta, la vita rigurgita coincidenze che nessun autore di narrativa oserebbe copiare.

Era Frank Dunning a far ridere le signore. La somiglianza col bidello che aveva frequentato il mio corso serale d'inglese era tale da lasciare attoniti. Era la copia giovane di Harry, coi capelli tutti neri anziché grigi. Al posto del sorriso dolce e un po' perplesso c'era un sorrisone disinvolto e scaltro. Non c'era da stupirsi che quelle donne fossero tutte eccitate. Persino Bevvie pensava che fosse uno spasso, e in fondo, perché no? Aveva solo dodici o tredici anni, ma era femmina, e Frank Dunning era un seduttore. Ed era conscio di esserlo. Dovevano esserci delle ragioni per cui il fior fiore delle donne di Derry preferiva spendere lo stipendio dei mariti al supermercato del centro anziché al più economico A&P, e una di queste ce l'avevo davanti agli occhi. Dunning era di bell'aspetto, indossava un camice di un bianco splendente (un po' macchiato di sangue sulle maniche, ma in fondo. era un macellaio), e portava un grazioso copricapo bianco, a metà tra cappello da cuoco e basco da artista. Lo teneva inclinato, quasi a coprire un sopracciglio. Per Dio, una vera dichiarazione di stile.

Nel complesso Frank Dunning, con le sue guance rosee perfettamente lisce e i capelli neri di un corto impeccabile, era il dono di Dio alla Piccola Donna. Mentre mi avvicinavo, finì di legare un pacchetto di carne con un nastro preso da un rotolo fissato alla bilancia, e con un pennarello nero ci scrisse sopra il prezzo, in bella grafia. Lo diede a una signora sui cinquant'anni, che indossava un vestito semplice, da casa, con grandi rose di nylon cucite sopra, ed esibiva rossori da scolaretta.

«Ecco qui, signora Levesque, mezzo chilo di mortadella all'aglio affettata sottile.» Si chinò in avanti sul bancone, con aria disinvolta, tanto vicino da far sentire alla signora Levesque (e alle altre affascinate massaie) l'aroma della sua acqua di colonia. Era Aqua Velva, come quella di Fred Toomey? Pensavo di no. Un seduttore come Frank Dunning doveva usare qualcosa di un po' più costoso. «Lo sa qual è il problema con la mortadella all'aglio?»

«No», disse la signora Levesque, trascinando un po' la parola, che diventò un «Nooo-ooo». Le altre donne cinguettarono curiose.

Lo sguardo di Dunning si posò per un istante su di me, e non vide niente che potesse interessarlo. Quando tornò a guardare la signora Levesque, i suoi occhi riacquistarono il loro tipico scintillio.

«Un'ora dopo averla mangiata, si diventa bramosi.»

Non fui certo che tutte le signore avessero colto l'allusione, ma tutte emisero gridolini di apprezzamento. Dunning congedò la compiaciuta signora Levesque, e mentre mi allontanavo, sentii che aveva rivolto le sue attenzioni alla signora Bowie. La quale, ne ero certo, sarebbe stata altrettanto lieta di riceverle.

È un uomo simpatico. Scherza sempre.

Ma l'uomo simpatico aveva occhi gelidi. Mentre interagiva con il suo harem di casalinghe ammirate, erano blu, ma quando li aveva puntati su di me, anche se solo per un instante, avrei potuto giurare che si erano fatti grigi, il colore di uno specchio d'acqua sotto un cielo che minaccia neve.

3

Il supermercato chiudeva alle sei, e quando uscii con i miei pochi acquisti, erano appena le cinque e venti. Dietro l'angolo, in Witcham Street, c'era una tavola calda U-Needa-Lunch. Ordinai un hamburger, una Coca alla spina e una fetta di torta al cioccolato. La torta era ottima: vero cioccolato, vera crema. Mi riempì la bocca come la root beer di Frank Anicetti. Bighellonai più che potevo, poi mi incamminai lungo il Canale, e vidi alcune panchine. Da lì si vedeva il Center Street Market. Ero sazio, ma mangiai comunque una delle mie arance, gettando i pezzi di buccia oltre l'argine di cemento, e guardando l'acqua portarli via.

Alle sei in punto, le luci del supermercato si spensero. Un quarto d'ora dopo, le ultime signore erano uscite, e con le borse piene si erano dirette su per Up-Mile Hill o piazzate in attesa accanto a uno di quei pali con la striscia bianca. Un bus con la scritta CIRCOLARE l arrivò e le raccolse tutte. Alle sette meno un quarto, iniziarono a uscire i dipendenti del supermercato. Gli ultimi due furono il direttore (il signor Currie) e Dunning. Si strinsero la mano e si separarono. Currie imboccò il vicolo tra il supermercato e l'adiacente negozio di scarpe, probabilmente per prendere la sua auto, e Dunning si diresse alla fermata del bus.

Ormai erano rimaste solo altre due persone, e io non volevo unirmi a loro. Grazie al sistema di vie a senso unico della Città Bassa, non fui costretto a farlo. Raggiunsi un altro palo con la striscia bianca di fronte al cinema Strand (dove il doppio spettacolo era La legge del mitra e Reform School Girl, e il cartellone prometteva «azione mozzafiato»), e aspettai insieme con alcuni operai, che parlavano di possibili finali del campionato. Avrei potuto raccontar loro un bel po' di cose, ma tenni la bocca chiusa.

Un autobus accostò alla fermata del supermercato. Dunning salì a bordo. Il mezzo discese la collina e si fermò davanti al cinema. Lasciai che gli operai salissero prima di me, per vedere quanti soldi avrebbero inserito nella macchinetta. Mi sentivo come un alieno in un film di fantascienza, uno che cerca di spacciarsi per terrestre. Era una cosa stupida (volevo solo prendere l'autobus, mica far esplodere la Casa Bianca con un raggio della morte), ma non potevo fare a meno di sentirmi così.

Uno dei tizi mostrò un abbonamento giallo canarino che mi fece pensare al barbone dell'essiccatoio. Gli altri misero quindici cent nella fessura, che ticchettò e tintinnò. Feci la stessa cosa, anche se mi ci volle più tempo perché il decino era incollato al mio palmo sudato. Mi pareva che tutti mi stessero fissando, ma quando alzai gli occhi la gente leggeva il giornale o guardava fuori dal finestrino. L'interno del bus era saturo di fumo grigioazzurro.

Frank Dunning era a metà carrozza, sulla destra. Ora indossava calzoni grigi di sartoria, una camicia bianca e una cravatta blu scuro. Impeccabile. Si stava accendendo una sigaretta e non fece caso a me quando gli passai accanto e andai a sedermi in fondo alla vettura. Il bus procedette brontolando per le vie della Città Bassa, poi da Witcham Street si inerpicò su Up-Mile Hill. Quando fummo nella zona residenziale ovest, i passeggeri iniziarono a scendere. Erano tutti uomini. Presumibilmente, le donne erano già a casa, intente a metter via la spesa o ad apparecchiare. Il veicolo era ormai quasi vuoto, e Frank Dunning era ancora al suo posto. Mi chiesi se saremmo rimasti gli unici due passeggeri.

Non avevo ragione di preoccuparmi. Quando il bus si fermò all'incrocio di Witcham Street e Charity Avenue (più tardi appresi che a Derry c'erano anche Faith Avenue e Hope Avenue: Fede, Speranza e Carità), Dunning gettò la sigaretta sul pavimento, la schiacciò col piede e si alzò dal sedile. Camminò tra le due file senza mai afferrare i sostegni, dondolando un poco per assecondare i movimenti del bus. Certi uomini conservano fino alla tarda età la grazia fisica della loro adolescenza, e Dunning sembrava uno di quelli. Sarebbe stato un ottimo ballerino di swing.

Diede una pacca sulla spalla al conducente e iniziò a raccontargli una storiella. Era breve, e gran parte fu coperta dallo stridio dei freni, ma colsi la frase «tre negri bloccati in ascensore», e conclusi che non l'avrebbe mai raccontata al suo harem di massaie. Il conducente scoppiò a ridere, poi tirò la grossa leva di metallo che apriva le porte anteriori. «Ci si vede lunedì, Frank», lo salutò.

«Se il fiume non straripa», rispose Dunning, poi balzò giù e atterrò sulla striscia d'erba del marciapiede. Vidi muscoli guizzare sotto la camicia. Quante chance potevano avere contro di lui una donna e quattro bambini? Non molte, fu il mio primo pensiero, ma era sbagliato. La risposta giusta era: nessuna.

Quando l'autobus ripartì, vidi Dunning salire i gradini del primo edificio di Charity Avenue. Sotto l'ampio portico c'erano otto o nove persone, uomini e donne, seduti su sedie a dondolo. Alcuni salutarono il macellaio, che iniziò a stringere mani come fosse un politicante. La casa era un edificio a tre piani, stile vittoriano del New England, con un cartello appeso alla balaustra del portico. Ebbi appena il tempo di leggerlo:

 

EDNA PRICE – CAMERE IN AFFITTO SETTIMANA O MESE

ANCHE CON CUCINOTTO NON SI ACCETTANO ANIMALI

 

Sotto c'era un cartello più piccolo, arancione: COMPLETO.

Scesi dall'autobus dopo due fermate. Ringraziai il conducente, che rispose bofonchiando qualcosa. Era quel che si intendeva per cortesia a Derry, Maine, a meno che uno non conoscesse qualche storiella su negri bloccati in ascensore, o sui marinai polacchi.

Lentamente, mi incamminai di nuovo verso il centro, deviando per due isolati per stare alla larga dalla pensione di Edna, i cui affittuari sedevano sul portico dopo cena come in uno di quei racconti di Bradbury sulla bucolica Greentown, Illinois. E in fondo, Frank Dunning non somigliava a quella brava gente? Somigliava loro eccome. Ma anche la Greentown di Bradbury celava degli orrori.

L'uomo simpatico non vive più a casa sua, aveva detto Richie, ed era vero.

L'uomo simpatico viveva in una pensione dove tutti lo ritenevano uno spasso.

Secondo i miei calcoli, la pensione di Edna era meno di cinque isolati a ovest del 379 di Kossuth Street, e forse anche più vicina. Forse Frank Dunning sedeva nella sua stanza in affitto dopo che tutti gli altri erano andati a letto, rivolto a est come un musulmano si rivolge alla Mecca? E se sì, lo faceva con quel suo sorriso ehi-che-bello-vederti? Probabilmente no. E i suoi occhi erano azzurri o diventavano grigi, di quel grigio freddo e pensoso? Come aveva giustificato alla gente del portico il suo abbandono del focolare? Si era inventato una storia, una di quelle in cui la moglie è un po' svitata oppure cattivissima? Probabilmente sì. E quella gente ci aveva creduto? La risposta era facile: non importa che anno sia (il 1958, il 1985 o il 2011): in America, dove l'apparenza è sempre scambiata per sostanza, la gente crede sempre a uomini come Frank Dunning.

4

Il martedì successivo, affittai un appartamento pubblicizzato sul Daily News come «semiarredato» e «Situato in un quartiere rispettabile», e mercoledì 17 settembre, il signor George Amberson vi si insediò. Addio, Derry Town House. Eccomi qui, Harris Avenue. Vivevo nel '58 da più di una settimana, e cominciavo ad adattarmi, anche se non mi sarei mai sentito al mio posto quanto un nativo.

Il semiarredamento consisteva in un letto (che aveva un materasso macchiato e senza federa), un divano, un tavolo da cucina con una gamba che aveva bisogno di una zeppa per non traballare, e un'unica sedia col sedile di plastica gialla che faceva uno strano rumore (smook!) quando, con riluttanza, lasciava andare il fondo dei calzoni di chi ci si era seduto. C'erano un fornello e un frigorifero dal rumore assordante. Nella dispensa della cucina, scoprii l'impianto di aria condizionata: un ventilatore General Electric, con una spina malandata che sembrava letale.

A sessantacinque dollari al mese, mi sembrava che quell'appartamento (su cui passavano gli aerei che atterravano al Derry Airport) fosse un po' troppo costoso, ma lo avevo preso perché la signora Joplin, la proprietaria, non aveva dato importanza alla mancanza di referenze del signor Amberson. Era stato d'aiuto il fatto che potessi anticipare tre mesi d'affitto in contanti. A ogni modo, aveva insistito per copiare le informazioni sulla mia patente di guida. Se le era parso strano che un agente immobiliare del Wisconsin avesse una patente del Maine, non lo aveva dato a vedere.

Ero contento che Al mi avesse dato molti soldi. I contanti tranquillizzano sempre gli estranei.

E nel '58, con quei soldi andavi molto lontano. Con soli trecento dollari, fui in grado di arredare completamente l'appartamento, e novanta servirono per comprare un televisore RCA di seconda mano. Quella sera guardai lo Steve Allen Show in uno splendido bianco e nero, poi spensi e rimasi seduto al tavolo di cucina, ascoltando il rombo di un aereo che toccava terra. Dalla tasca dei calzoni presi un bloc-notes (decenni dopo, un prezioso Blue Horse) acquistato al drugstore della Città Bassa (quello dove il furto non era una «bravata», né una «gasata», né una «cosa tosta»). Lo aprii alla prima pagina e feci scattare la mia altrettanto nuova penna a sfera Parker. Rimasi così per circa quindici minuti, tempo sufficiente per sentir atterrare un altro aeroplano. Volava così basso che quasi mi aspettavo di sentire le ruote grattare il tetto.

La pagina rimase vuota, la mia mente era ferma. Tutte le volte che mi sforzavo di avviarla, l'unico pensiero coerente era: Il passato non vuole essere cambiato.

Non era di grande aiuto.

Alla fine mi alzai (la sedia di plastica abbandonò malvolentieri l'amorosa presa sulle mie brache), presi il ventilatore dallo scaffale della dispensa e lo appoggiai sul ripiano della cucina. Non ero sicuro che fosse funzionante; per fortuna lo era, e il ronzio del motore ebbe un inatteso effetto calmante. Inoltre, copriva il fastidioso rumore del frigorifero.

Quando tornai a sedermi, avevo le idee più chiare, e stavolta riuscii a scrivere qualche parola.

 

OPZIONI

 

1. Avvisare la polizia.

2. Telefonata anonima al macellaio (tipo: «ti tengo sott'occhio, figlio di p., se fai qualcosa dirò tutto»).

3. Incastrare il macellaio in qualche modo.

4. Rendere il macellaio incapace di agire.

 

Mi fermai. Il frigorifero si azzittì. Non stavano atterrando aeroplani, e su Harris Avenue non c'era traffico. Per il momento, c'eravamo solo io, il ventilatore e la mia lista incompleta. Infine, scrissi l'ultimo punto:

 

5. Uccidere il macellaio.

 

Dopodiché, strappai il foglio, lo appallottolai, presi la scatola di fiammiferi che stava sul fornello, e ne accesi uno. Il ventilatore lo spense subito, e di nuovo pensai a quant'era difficile cambiare certe cose. Spensi il ventilatore, accesi un altro fiammifero e lo accostai alla pallottola di carta. Mentre bruciava, lo gettai nel lavandino, aspettai che le fiamme lo consumassero tutto, poi con il getto sciacquai via la cenere.

Infine George Amberson andò a letto.

Ma passò molto tempo prima che riuscisse a dormire.

5

Quando l'ultimo aereo sfiorò il tetto a mezzanotte e trenta, ero ancora sveglio e pensavo alla mia lista. Avvisare la polizia era fuori questione. Poteva funzionare con Oswald, che aveva dichiarato il suo eterno amore per Fidel Castro a Dallas e New Orleans, ma Dunning era tutt'altra faccenda. Dunning era un apprezzato e rispettato membro della comunità. Io, invece, chi ero? Il nuovo arrivato in una città che non amava i forestieri. Quel pomeriggio, dopo essere uscito dal drugstore, avevo rivisto Senza Bretelle e la sua compagnia fuori dal Dollaro d'Argento. Ero vestito più o meno come loro, ma mi avevano rivolto lo stesso sguardo tu-chi-cazzo-sei.

Del resto, anche se fossi stato a Derry da otto anni anziché otto giorni, cosa avrei potuto dire alla polizia? Che avevo avuto una visione di Frank Dunning nell'atto di sterminare la sua fa miglia la sera di Halloween? Di sicuro, non l'avrebbero presa bene.

Mi piaceva un po' di più l'idea di una telefonata anonima al macellaio, ma era un'opzione spaventosa. Una volta che avessi chiamato Dunning (al lavoro o alla pensione, dove certamente c'era un telefono comune nell'atrio), avrei cambiato gli eventi. Avrei potuto impedirgli di uccidere la sua famiglia, ma c'erano altrettante probabilità che sortissi l'effetto opposto, spingendolo oltre il confine della sanità mentale su cui camminava in equilibrio precario, col suo sorriso da George Clooney. Anziché impedire gli omicidi, avrei potuto farli accadere prima. Al momento, sapevo dove e quando. Se lo avvisavo, la cosa si faceva imprevedibile.

Incastrarlo in qualche modo? Poteva funzionare in un romanzo di spionaggio, ma io non ero un agente della CIA, ero un dannato insegnante di inglese.

Rendere il macellaio incapace di agire era l'opzione numero quattro. OK, ma come? Investendolo con l'auto, magari mentre andava da Charity Avenue a Kossuth Street con un martello in mano e la volontà di uccidere? A meno che non avessi una fortuna sfacciata, mi avrebbero preso e messo in galera. E poi, la gente ferita di solito guarisce. Avrebbe potuto riprovarci. Sdraiato al buio, l'ipotesi mi parve plausibile. Perché il passato non vuole essere cambiato. Il passato è inflessibile.

L'unico modo sicuro era seguirlo, attendere che fosse solo, e poi ucciderlo. Falla semplice, stupido!

Ma anche in quel caso c'erano problemi. Per prima cosa, non sapevo se ne sarei stato in grado. Ero sicuro di poterlo fare a botta calda (per autodifesa, o per difendere qualcun altro), ma a sangue freddo? Anche sapendo che la mia potenziale vittima avrebbe ucciso sua moglie e i suoi figli se non l'avessi fermata…

E che sarebbe accaduto se lo avessi fatto e mi avessero beccato prima della mia fuga nel futuro, dove ero Jake Epping invece che George Amberson? Mi avrebbero processato, condannato e spedito alla prigione di Shawshank. Ed è lì che mi sarei trovato il giorno dell'uccisione di Kennedy a Dallas.

E non era nemmeno l'aspetto peggiore della faccenda. Mi alzai, attraversai la cucina ed entrai nel bagno, grande come una cabina telefonica, poi sedetti sulla tazza, la fronte appoggiata alle mani. Avevo dato per scontato che nel tema Harry avesse detto la verità. Lo aveva dato per scontato anche Al. E probabilmente era così, perché Harry pencolava nella zona grigia della normalità, ed è poco probabile che quelli come lui cerchino di spacciare per realtà fantasticherie su intere famiglie sterminate. Eppure…

«Il 95% non è il 100%», aveva detto Al, e stava parlando di Oswald in persona. Oswald era l'unico possibile colpevole una volta messe da parte le teorie del complotto. Eppure, Al aveva ancora qualche dubbio.

Non avevo mai verificato la storia di Harry. Sarebbe stato facile, nel mondo di computer del 2011, ma non lo avevo fatto. E anche se fosse stata completamente vera, potevano esserci dettagli cruciali che aveva riportato male o ignorato del tutto. Cose che potevano farmi sbagliare. Che sarebbe successo se, anziché correre in soccorso come Sir Galahad, fossi solo riuscito a farmi uccidere insieme con loro? Questo avrebbe cambiato il futuro in molti, interessanti modi, ma non avrei mai scoperto in quali.

Mi venne in mente una nuova idea, che mi parve follemente allettante. Potevo piazzarmi di fronte al 379 di Kossuth Street la sera di Hallowen, dall'altra parte della strada, e semplicemente stare a guardare. Si, assicurarmi che stesse davvero per accadere, e al contempo prendere nota di tutti i dettagli che l'unico testimone superstite – un bambino traumatizzato – poteva non aver mai saputo. Dopodiché, potevo guidare fino a Lisbon Falls, risalire per la buca del coniglio, e tornare subito alle 11:58 del 9 settembre. Avrei ricomprato la Sunliner, di nuovo mi sarei insediato a Derry, ma stavolta con molte più informazioni. Sì, avevo già speso un bel po' dei soldi di Al, ma ce n'erano ancora abbastanza.

L'idea uscì dal cancello ma inciampò ancor prima della prima curva. Lo scopo di quel viaggio era scoprire che effetto avrebbe avuto sul futuro impedire l'uccisione della famiglia del bidello, e se avessi lasciato Frank Dunning libero di compiere il suo crimine, non lo avrei saputo. Inoltre, dovevo già rifare tutto da capo, perché avrei riazzerato tutto con l'eventuale nuovo viaggio per fermare Oswald. Una volta sola era duro. Due volte sarebbe stato peggio. Tre volte era impensabile.

E c'era un'altra cosa. La famiglia di Harry Dunning era già morta una volta. Ero disposto a lasciarli morire una seconda? Anche se ogni volta c'era un riazzeramento e loro non lo avrebbero mai saputo? E chi poteva dire se, in un qualche strato della mente, non ne fossero consapevoli?

Il dolore. Il sangue. La piccola Pel di Carota a terra, sotto la sedia a dondolo rovesciata. Harry che cerca di respingere il pazzo con un fucile ad aria compressa.

Lasciami stare, papà, o ti sparo.

Barcollai fino alla cucina. Mi fermai a guardare la sedia di plastica gialla. «Ti odio, sedia», dissi, e tornai a letto.

Stavolta mi addormentai quasi subito. Quando mi svegliai, il sole delle nove del mattino irrompeva dalla mia finestra ancora priva di tendine, gli uccellini cantavano pieni di autostima, e sapevo cosa avrei fatto. Falla semplice, stupido.

6

A mezzogiorno mi misi la cravatta, sistemai il cappello di paglia alla giusta inclinazione sbarazzina, e mi recai al Machen's, il negozio di articoli sportivi, dov'erano ancora in corso i saldi sulle armi da fuoco. Dissi al commesso che ero interessato ad acquistare una pistola, perché ero nel ramo immobiliare e spesso dovevo portare con me grosse somme in contanti. Me ne mostrò svariate, compreso un revolver Colt calibro 38 Police Special. Il prezzo, nove dollari e novantanove, mi parve assurdamente basso, finché non ricordai che, secondo gli appunti di Al, il fucile italiano con cui Oswald aveva cambiato il corso della storia era stato comprato per corrispondenza a meno di venti dollari.

«Questo è un ottimo strumento di difesa», disse il commesso, facendo ruotare il tamburo: clickclickclickclickclick. «Accuratissimo fino a quindici metri, garantito, e chiunque sia abbastanza stupido da aggredirla per rubarle i contanti, sarà molto più vicino di così.»

«Venduto.»

Mi aspettavo un esame dei miei pochi documenti d'identità, ma per l'ennesima volta mi ero scordato quanto fosse disinvolta e ingenua l'America in cui mi trovavo. L'affare fu concluso nel seguente modo: diedi i soldi al commesso e me ne andai con la pistola. Niente moduli da compilare, nessun periodo d'attesa per la registrazione. Non mi chiese nemmeno il mio indirizzo.

Oswald aveva avvolto il suo fucile in una coperta e lo aveva nascosto nel garage della casa in cui viveva sua moglie insieme con una certa Ruth Paine. Quando uscii dal Machen's con la mia arma nella valigetta, pensai di sapere come si fosse sentito: come un uomo con un maestoso segreto. Un uomo che possedeva la propria personale tromba d'aria.

Un tizio che a quell'ora sarebbe dovuto essere al lavoro in qualche fabbrica stava sull'uscio del Dollaro d'Argento, fumando una sigaretta e leggendo il giornale. O almeno, sembrava che stesse leggendo il giornale. Non posso giurare che non mi stesse tenendo d'occhio, ma non posso nemmeno giurare il contrario.

Era Senza Bretelle.

7

Quella sera, ancora una volta mi piazzai vicino al cinema Strand. Stavolta il cartellone prometteva IL CONTRABBANDIERE (MITCHUM) & I VICHINGHI (DOUGLAS)! Altra AZIONE MOZZAFIATO attendeva gli spettatori di Derry.

Ancora una volta Dunning attraversò la strada diretto alla fermata dell'autobus e salì a bordo. Stavolta non lo seguii. Non ce n'era bisogno, sapevo dove stava andando. Tornai al mio nuovo appartamento, ogni tanto guardandomi intorno, in cerca di Senza Bretelle. Non c'era traccia di lui, e mi dissi che la sua presenza quando avevo comprato la pistola non era che una coincidenza. E nemmeno grossa. Dopotutto, il Dollaro d'Argento era il locale che frequentava. Poiché le fabbriche di Derry lavoravano sei giorni alla settimana, gli operai avevano un giorno libero a rotazione. Forse a lui era toccato il giovedì. Forse la prossima settimana sarebbe andato al bar di venerdì. O di martedì.

La sera dopo, mi ripiazzai davanti al cinema, fingendo di studiare il manifesto de Il contrabbandiere («Robert Mitchum corre sull'autostrada più rovente della Terra!»), più che altro perché non avevo dove andare. A Halloween mancavano ancora sei settimane, e a quanto pareva ero entrato nella fase ammazzatempo del mio piano. Quella volta, però, anziché andare alla fermata dell'autobus, Frank Dunning raggiunse la confluenza di Center, Kansas e Witcham Street, e si fermò come se fosse indeciso. Era elegante come sempre, con calzoni scuri, camicia bianca, cravatta blu e giacca a quadri grigio chiaro. Teneva il cappello inclinato all'indietro. Per un momento pensai che volesse andare al cinema e dare un'occhiata all'autostrada più rovente della Terra, nel qual caso mi sarei allontanato da Canal Street senza dare nell'occhio. Invece girò a destra e prese la Witcham. Lo sentii fischiettare. Era molto intonato.

Non c'era ragione di seguirlo: non avrebbe commesso alcun delitto la sera del 19 settembre. Ma ero curioso, e non avevo di meglio da fare. Entrò in un bar- ristorante chiamato The Lamplighter, non al livello di quello della Town House, ma non certo squallido come quelli lungo il Canale. In ogni piccola città c'è almeno un locale «di frontiera», dove tute blu e colletti bianchi si incontrano alla pari, e The Lamplightersembrava rientrare nella categoria. Di solito il menu include qualche specialità locale che lascia perplessi i forestieri. Questa in particolare sembrava consistere in «frattaglie fritte di aragosta».

Passai di fronte alla vetrata, ciondolando più che camminando, e vidi Dunning attraversare la sala salutando tutti. Strinse mani, diede buffetti, a un tizio rubò il cappello e lo lanciò a un altro, il quale lo prese al volo nell'ilarità generale. Un uomo simpatico. Scherzava sempre. Ridi e il mondo intero riderà con te.

Lo vidi sedersi a un tavolo vicino alla macchina dei birilli e quasi me ne andai, ma avevo sete. Una birra sembrava una buona idea, e tra il bar del Lamplighter e il tavolo dove Dunning sedeva con gli amici (tutti maschi) c'era un'intera sala piena di gente. Non mi avrebbe visto, e io avrei potuto tenerlo d'occhio guardando lo specchio. Non che mi aspettassi di vedere chissà che.

Inoltre, se dovevo restare lì per altre sei settimane, era ormai tempo di fare vita sociale. Così mi girai ed entrai in quel posto pieno di voci allegre, risate lievemente ebbre e Dean Martin che cantava That's Amore. Le cameriere giravano con boccali di birra e vassoi pieni, presumibilmente, di frattaglie fritte di aragosta. E, naturalmente, ovunque si alzavano colonne di fumo azzurro.

Nel 1958, il fumo è ovunque.

8

«Ti ho visto dare occhiate a quel tavolo in fondo», disse una voce accanto a me. Ero al Lamplighter già da un po', avevo già ordinato la seconda birra e un piatto piccolo di frattaglie di aragosta. Avevo pensato che, se non le avessi assaggiate, mi sarei per sempre chiesto come fossero.

Mi girai e vidi un ometto coi capelli neri leccati all'indietro, faccia tonda e vividi occhi neri. Sembrava uno scoiattolo allegro. Mi sorrise e mi porse una mano da bambino. Sul suo avambraccio, una sirena a seno nudo agitava la coda da pesce e faceva l'occhiolino. «Charles Frati. Ma può chiamarmi Chaz. Mi chiamano tutti così.»

Gliela strinsi. «George Amberson. Ma puoi chiamarmi George. Mi chiamano tutti così.»

Rise, e risi anch'io. È considerato sconveniente ridere delle proprie battute (soprattutto quando sono poca cosa), ma certe persone sono tanto accattivanti che è un peccato lasciarle ridere da sole. Chaz Frati era una di queste. La cameriera gli diede una birra, lui la alzò e disse: «Alla tua salute, George.»

«Proprio a quella», risposi, e feci cozzare il mio boccale contro il suo.

«C'è qualcuno che conosci, laggiù?» chiese, guardando nello specchio la grande tavolata.

«No, nessuno.» Mi asciugai le labbra piene di schiuma. «È solo che sembrano divertirsi più di tutti.»

Chaz sorrise. «È il tavolo di Tony Tracker. Tanto varrebbe inciderei sopra il suo nome. Tony e suo fratello Phil possiedono un'azienda di trasporti. Hanno anche più acri di terra a Derry (e nelle città qui intorno) di quante aspirine venda una farmacia. Phil non viene qui spesso, è quasi sempre per strada, ma Tony non si perde quasi mai un venerdì o un sabato sera. E ha parecchi amici. Se la spassano sempre, ma nessuno è più anima della festa di Frank Dunning. È lui che racconta le barzellette. A tutti piace il vecchio Tony, ma quello che amano è Frankie.»

«Sembra che tu li conosca tutti.»

«Sì, e da anni. Conosco quasi tutti, a Derry, ma non conosco te.»

«È perché sono appena arrivato. Lavoro nel ramo immobiliare.»

«Immobili per aziende, immagino.»

«Immagini bene.» La cameriera posò di fronte a me il piatto di frattaglie e si allontanò. La pietanza sembrava un gatto schiacciato sull'autostrada, ma aveva un odore fantastico, e il sapore era anche meglio. Probabilmente c'era un milione di grammi di colesterolo in ogni boccone, ma nel '58 nessuno si preoccupa di questo, ed è una cosa riposante. «Mi dai una mano con questo?»

«No, grazie, è tutto tuo. Sei di Boston? Di New York?»

Feci spallucce, e si mise a ridere.

«Stai sulle tue, eh? Ti capisco, amico. Bocca aperta mette all'erta. Ma penso di sapere a cosa stai puntando.»

Mi fermai con la forchetta a metà strada tra piatto e bocca. Faceva caldo, nel locale, ma all'improvviso ebbi i brividi. «Ah, sì?»

Mi venne più vicino. I suoi capelli odoravano di brillantina, e il fiato di mentina per rinfrescare l'alito. «Se ti dico 'possibile sede di centro commerciale', faccio bingo?»

Sentii un'ondata di sollievo. L'idea di essere a Derry in cerca di un lotto per un centro commerciale non mi era ancora venuta in mente, ed era buona. Strizzai un occhio a Chaz Frati: «Non posso dire niente».

«Certo che no. Gli affari sono affari. Lasciamo cadere l'argomento. Ma dovessi mai decidere di rivelare qualcosa di bello a uno degli zoticoni locali, ti ascolterei più che volentieri. E giusto per mostrarti che ho il cuore dalla parte giusta, ti darò un piccolo consiglio. Se non hai già visto le vecchie Ferriere Kitchener, dovresti farlo. È un posto perfetto. E… i centri commerciali? Cosa sai dei centri commerciali, figliolo?»

«Che sono la tendenza del futuro.»

Mi puntò contro un indice a mo' di pistola, e strizzò l'occhio. Risi ancora, non potei farne a meno. In parte, era semplice sollievo nel constatare che non tutti gli adulti di Derry si erano scordati come essere amichevoli con un forestiero.

«Palla nella buca n.1.»

«E di chi è la terra dove ci sono le ferriere, Chaz? Dei fratelli Tracker, immagino.»

«Ho detto che possiedono quasi tutta la terra nei dintorni, non tutta quanta.» Guardò la sirena sul suo avanbraccio. «Milly, posso dire a George chi è il proprietario di quel lotto a destinazione industriale a soli tre chilometri dal centro di questa metropoli?»

Milly agitò la sua coda di pesce e fece fremere le mammelle. Per ottenere quell'effetto, Chaz Frati non aveva stretto il pugno: i muscoli del suo avambraccio sembravano muoversi per conto proprio. Era un bel trucco. Mi chiesi se estraesse anche conigli dai cilindri.

«Va bene, mia cara.» Alzò di nuovo lo sguardo su di me. «Allo stato dei fatti, si tratta del sottoscritto. Io compro il meglio e ai Tracker lascio il resto. Gli affari sono affari. Posso darti il mio biglietto da visita, George?»

«Certamente.»

Lo fece. Sopra c'era scritto semplicemente: Charles «Chaz» Frati – Acquisti e vendite. Lo misi nel taschino della camicia.

«Se tu conosci tutta quella gente e loro conoscono te, perché non sei là con loro invece che al bancone in compagnia dell'ultimo arrivato?» gli chiesi.

Parve stupito, e poi di nuovo divertito. «Sei nato in un vagone e ti hanno buttato giù dal treno, amico?»

«Sono solo nuovo delle vostre usanze. Non farmene una colpa.»

«Non sia mai. Loro fanno affari con me perché possiedo metà delle locande per automobilisti di questa città, entrambe le sale cinematografiche, il drive-in, una delle banche e tutti i banchi dei pegni del Maine orientale e centrale. Ma non mangiano e non bevono con me, né mi invitano a casa loro o al loro country club, perché sono un membro della tribù.»

«Non ti seguo.»

«Sono ebreo, amico.»

Vide la mia espressione e sorrise. «Non te n'eri accorto. Nemmeno quando non ho voluto mangiare l'aragosta, te ne sei accorto. Sono commosso.»

«Sto solo cercando di capire che differenza faccia», dissi.

Rise come se fosse la miglior battuta che aveva sentito quell'anno. «Allora non sei nato in un vagone: sei nato sotto un cavolo.»

Nello specchio, Frank Dunning chiacchierava. Tony Tracker e i suoi amici ascoltavano con grandi sorrisi stampati in faccia. Quando le risate scoppiarono, mi chiesi se avesse raccontato quella dei tre negri bloccati in ascensore, o forse qualcosa di ancora più divertente e satirico: tre ebrei su un campo da golf, magari.

Chaz vide che li guardavo. «Frank sa come animare un party. Sai dove lavora? Ah, no, mi ero scordato che sei nuovo di qui. Al Center Street Market. È il capomacellaio. Possiede anche metà della baracca, anche se non lo strombazza in giro. Sai perché? Lui è il 50% dei motivi per cui quel posto rimane in piedi e fa profitti. Attira le signore come il polline le api.»

«Ah, sì?»

«Sì, e piace anche agli uomini. Non è una cosa che succede sempre. Ai maschi non vanno molto giù i seduttori.»

Mi venne in mente l'ostinata passione di mia moglie per Johnny Depp.

«Ma non è più come ai vecchi tempi, quando beveva con loro fino alla chiusura, poi giocava a poker con loro al deposito merci finché non veniva giorno. Ultimamente si fa solo una birra, al massimo due, e se ne va. Stai a vedere.»

Era uno schema di comportamento che conoscevo bene. Ricordavo gli sporadici sforzi di Christy per limitare il suo consumo di alcol anziché smettere del tutto. Funzionava per un po', ma presto o tardi cedeva.

«Ha un problema col bere?» chiesi.

«Questo non lo so, ma di sicuro ha un problema coi nervi.» Tornò a rivolgersi alla sirena: «Milly, ti sei mai accorta di quanti tipi spiritosi hanno un non so che di meschino?»

Milly agitò la coda. Chaz mi guardò con aria solenne. «Hai visto? Le donne se ne accorgono sempre.» Si mise in bocca un pezzo di aragosta e si guardò intorno, come in una scenetta comica. Era un uomo molto divertente, e non mi era nemmeno venuto in mente che fosse altro da quel che diceva di essere. Ma, come lo stesso Chaz aveva notato, ero un po' ingenuo. Certamente troppo ingenuo per Derry. «Non dirlo al rabbino Snoresalot.»

«Il tuo segreto è al sicuro con me.»

Da come gli uomini al tavolo di Tracker si sporgevano verso Frank, aveva iniziato una nuova storiella. Era il tipo d'uomo che gesticola molto. Era facile immaginare una di quelle mani impugnare un martello.

«Aveva già quel problema alle superiori», disse Chaz. «Stai parlando con uno che è al corrente, perché facevo la stessa scuola. Ma la mia mamma non ha tirato su degli idioti, e in genere gli stavo alla larga. Collezionava sospensioni. Sempre pronto a menare le mani. Doveva andare all'Università del Maine, ma mise incinta la sua ragazza, e si ritrovò sposato. Dopo un anno o due, lei si prese il bimbo e tagliò la corda. E probabilmente fu una buona idea, visto com'era lui all'epoca. Frankie era il genere d'uomo… Be', combattere contro i crucchi o i giapponesi gli avrebbe fatto bene, si sarebbe sfogato. Ma lo riformarono. Non ho mai saputo il perché. Piedi piatti? Soffio al cuore? Pressione alta? Non c'è modo di saperlo. Ma forse a te non interessano questi vecchi pettegolezzi…»

«Invece sì», dissi. «Sono interessanti.» E lo erano davvero. Ero entrato al Lamplighter per bagnare il becco e per puro caso avevo trovato una miniera d'oro.

«Prendi un altro pezzo di aragosta.»

«Dovrai costringermi!» ribatté, e se ne infilò uno in bocca. Mentre masticava, indicò lo specchio. «E perché non dovrei? Guarda quei tizi là dietro: uno su due è cattolico, ma sono lì a ingurgitare hamburger, bistecche e salsicce. Di venerdì! Che ne è stato della religione, amico?»

«Mi hai beccato», dissi. «Sono un metodista non osservante. Scommetto che Dunning non ci è mai più andato al college, giusto?»

«No, all'epoca in cui la sua prima moglie se l'è svignata di notte, stava prendendo una laurea in macelleria, ed era pure bravo. Si è ficcato in qualche altro guaio e, sì, a quanto ho sentito il bere c'entrava. La gente chiacchiera molto, sai, e un uomo che possiede un banco dei pegni sente tutto. A quel punto il signor Vollander, l'uomo che all'epoca possedeva metà del supermercato, fece un discorsetto a quattr'occhi con il vecchio Frankie.» Chaz scosse il capo e prese un altro pezzo di aragosta. «Se Benny Vollander avesse saputo che un giorno, prima ancora che finisse la guerra di Corea, Frankie Dunning sarebbe stato coproprietario di quel posto, probabilmente gli sarebbe venuta un'emorragia cerebrale. È una buona cosa che non vediamo il futuro, eh?»

«Già. Complicherebbe un bel po' le cose.»

Chaz si era infervorato nel raccontare la storia e, quando chiesi alla cameriera altre due birre, non disse di no.

«Benny Vollander disse a Frankie che era il miglior apprendista macellaio che avesse mai avuto, ma se si ficcava in altri guai con gli sbirri (per capirci: se continuava a fare a cazzotti alla prima scoreggia storta), sarebbe stato costretto a licenziarlo. A buon intenditor poche parole, e Frankie si diede una regolata. Divorziò dalla prima moglie, quando lei se n'era andata da un paio d'anni, per abbandono del tetto coniugale, e non molto tempo dopo si risposò. Ormai la guerra andava a tutto vapore e avrebbe potuto spassarsela con molte donne. Insomma, aveva fascino, e quasi tutti i concorrenti erano oltreoceano, e invece si accasò con Doris McKinney. Era una donna deliziosa.»

«E lo è ancora, immagino.»

«Assolutamente, amico. Bella come un dipinto. Hanno tre o quattro figli. Una bella famigliola.» Chaz si chinò verso di me. «Ma ogni tanto Frankie perde ancora le staffe, e deve averle perse la primavera scorsa, perché lei si è presentata in chiesa con la faccia piena di lividi, e una settimana dopo lui era fuori di casa. Sta da un'affittacamere, la più vicina possibile al vecchio focolare. Spera che lei se lo riprenda, immagino. E prima o poi lo farà. Lui ha quel modo intrigante di… Oops, guarda là, che ti avevo detto? È praticamente già in strada.»

Dunning si stava alzando. Gli altri uomini gli stavano chiedendo di restare, ma lui scuoteva il capo e indicava l'orologio. Bevve l'ultima sorsata di birra, poi si piegò e baciò la testa calva di un tizio. Ci fu un boato di risate d'approvazione, e Dunning fece il surf su quell'onda fino all'uscita.

Mentre passava, diede una pacca sulla spalla di Chaz: «Tieni pulito quel naso, Chazzy. È troppo lungo per sporcarsi.»

Poi sparì. Chaz mi guardò. Aveva in faccia il suo sorriso da scoiattolo, ma gli occhi erano seri. «Non è un bel tipo?»

«Certo», dissi.

9

Sono una di quelle persone che non sa davvero cosa pensa finché non lo scrive, così trascorsi gran parte del week-end prendendo appunti su quel che avevo visto a Derry, su quel che avevo fatto, e su quel che avevo in programma di fare. Si allargarono e divennero una spiegazione di com'ero arrivato lì, e nella giornata di sabato mi resi conto che avevo iniziato un'opera troppo grande per un bloc-notes e una penna a sfera. Giunse lunedì, e uscii per comprare una macchina per scrivere portatile. La mia intenzione era andare al negozio di cancelleria; ma vidi il biglietto da visita di Chaz sul tavolo della cucina, così mi rivolsi a lui. Era su East Side Drive, un banco dei pegni poco più piccolo di un grande magazzino. Com'era tradizione, sopra l'ingresso c'erano tre palle d'oro, ma c'era anche un'altra cosa: una sirena di gesso che agitava la coda e faceva l'occhiolino. Questa, siccome era in un posto pubblico, portava un reggiseno. Frati non c'era, ma trovai una bellissima Smith-Corona. Costava solo dodici dollari. Dissi al commesso di riferire al signor Frati che George, l'agente immobiliare, era stato lì.

«Ne sarò lieto, signore. Vuole lasciare il suo biglietto da visita?»

Merda. Avrei dovuto fame stampare un po'… E quindi toccava comunque passare al negozio di cancelleria. «Sono rimasti nell'altra giacca», dissi, «ma credo che si ricorderà di me. Abbiamo bevuto insieme al Lamplighter

Quel pomeriggio iniziai a estendere i miei appunti.

10

Mi abituai alle manovre d'atterraggio proprio sopra la mia testa. Feci l'abbonamento al giornale locale, e pagai per la consegna a domicilio del latte. Bottiglie in vetro spesso lasciate direttamente sull'uscio. Come la root beer che mi aveva servito Anicetti durante il primo viaggio nel '58, quel latte aveva un sapore denso e forte. E la panna era ancora meglio. Non sapevo se esistessero già i surrogati di panna, né volevo scoprirlo. Non quando potevo avere panna vera.

I giorni passarono. Lessi e rilessi gli appunti di Al Templeton su Oswald finché non ne imparai interi brani a memoria. Andai in biblioteca e lessi degli omicidi e delle sparizioni che avevano afflitto Derry nel '57 e nel '58. Cercai articoli su Frank Dunning e i suoi famosi scoppi di collera, ma non ne trovai. Se mai lo avevano arrestato, la notizia non era finita nella sezione dedicata alla polizia, che certi giorni era bella larga e di lunedì occupava un'intera pagina, dedicata agli exploit del week-end, cose che succedevano dopo la chiusura dei bar. Trovai un solo articolo sul padre del bidello, era del '55 e riguardava un'iniziativa di beneficenza. Quell'autunno, il Center Street Market aveva devoluto il dieci per cento dei suoi guadagni alla Croce Rossa, dopo che gli uragani Connie e Diane avevano colpito la East Coast uccidendo duecento persone e causando disastrose alluvioni nel New England. C'era una foto del padre di Harry che consegnava un assegno gigante al presidente regionale della Croce Rossa. Dunning esibiva il suo sorriso da stella del cinema.

Non tornai a fare la spesa al Center Street Market, ma per due week-end (l'ultimo di settembre e il primo di ottobre) seguii il macellaio più amato di Derry quando, il sabato, lasciava il banco a metà giornata. Per quel compito, noleggiai due diverse Chevrolet all'ufficio Hertz dell'aeroporto, due che non dessero nell'occhio. La Sunliner mi sembrava troppo vistosa per un pedinamento.

Il primo sabato pomeriggio, Dunning andò al mercato delle pulci di Brewer. Ci andò con una Pontiac Bonneville che teneva in un garage a pagamento del centro e usava raramente nei giorni infrasettimanali. La domenica, fece un salto a casa sua in Kossuth Street, prese i bambini e li portò al doppio spettacolo Disney del cinema Aladdin. Persino da lontano il figlio più grande, Troy, sembrava annoiato a morte sia all'entrata sia all'uscita dal cinema.

Dunning non entrò in casa né all'andata né al ritorno. Chiamò i ragazzi suonando il clacson, e al ritorno li lasciò sul marciapiede di fronte, rimanendo a guardarli finché non furono rientrati tutti. Nemmeno a quel punto se ne andò: restò seduto al volante della Bonneville, col motore al minimo, fumando una sigaretta. Forse sperava che la deliziosa Doris uscisse a parlare con lui. Quando fu certo che non l'avrebbe fatto, fece manovra sul vialetto di un vicino e ripartì di corsa, sgommando tanto forte da lasciarsi dietro mulinelli di fumo scuro.

Io mi ero abbassato sul sedile dell'auto a noleggio, ma non ce n'era bisogno: non guardò mai nella mia direzione, e quando fu a una buona distanza su Witcham Street, ripresi a seguirlo. Riportò l'auto al garage, andò al Lamplighter per un'unica birra (il locale era quasi deserto), poi si trascinò a capo chino fino alla pensione di Edna Price, in Charity Avenue.

Il sabato successivo, 4 ottobre, passò a prendere i ragazzi e li portò alla partita di football all'Università del Maine, a Orono, quarantacinque chilometri di distanza. Parcheggiai in Stillwater Avenue e aspettai la fine della partita. Sulla via del ritorno, si fermarono a cenare al Ninety-Fiver. Sostai in fondo al parcheggio e attesi che uscissero, pensando che la vita dell'investigatore privato doveva essere parecchio noiosa, al contrario di quel che mostravano nei film.

Quando Dunning riportò a casa i ragazzi, su Kossuth Street calava la sera. Era palese che a Troy piaceva più il football di Cenerentola: scese dalla Pontiac di suo padre sorridendo e agitando una bandierina degli Orsi. Anche Tugga e Harry avevano bandierine, e sembravano galvanizzati. Ellen invece no. Si era addormentata. Dunning la portò in braccio fino alla porta di casa. Stavolta la signora Dunning fece una breve apparizione, giusto il tempo di prendere la bimba nelle proprie braccia.

Dunning disse qualcosa a Doris. La sua risposta non sembrò fargli piacere.

Ero troppo lontano per vedere la sua espressione, ma mentre parlava le puntava contro un dito. Lei ascoltò, scosse la testa, si girò ed entrò in casa. Lui restò sull'uscio per qualche istante, poi si tolse il cappello e se lo sbatté contro una coscia.

Tutto interessante, e istruttivo sul loro rapporto di coppia, ma per altri versi poco utile. Non era quello che stavo cercando.

Lo trovai il giorno dopo. Quella domenica avevo deciso di fare solo due giri di ricognizione. Pensavo che, persino con un'auto a noleggio marrone scuro che quasi si mimetizzava nel paesaggio urbano, non fosse il caso di tirar troppo la corda. La prima volta non vidi nulla e mi immaginai che avesse deciso di restare a casa, e in fondo perché no? Il tempo era grigio e piovigginoso. Forse stava guardando una partita in TV insieme con gli altri ospiti, tutti intenti a fumare come ciminiere nel salone di Edna Price.

Ma mi sbagliavo. Proprio mentre giravo sulla Witcham durante il secondo giro, lo vidi camminare verso il centro, stavolta vestito in blue jeans, giacca a vento e un largo cappello impermeabile. Gli passai accanto e parcheggiai in Main Street, a circa un isolato dal garage dove teneva la macchina. Venti minuti dopo, lo stavo seguendo mentre usciva dalla città, diretto a ovest. C'era poco traffico, e io mi mantenevo a distanza.

Scoprii che la sua meta era il Longview Cemetery, tre chilometri oltre il drive-in di Derry. Si fermò alla bancarella della fioraia, e mentre passavo lo vidi comprare due ceste di fiori da un'anziana signora che durante l'acquisto tenne alto sopra entrambi un grande ombrello nero. Nel mio specchietto lo vidi posare i fiori sul sedile del passeggero, risalire in auto ed entrare nel viale d'ingresso del camposanto.

Feci inversione e raggiunsi il Longview. Era un rischio, ma dovevo correrlo, perché sembrava una buona opportunità. Il parcheggio era vuoto, a parte due pick-up carichi di attrezzi da giardinaggio coperti da un telone, e un escavatore tanto ammaccato da sembrare un residuato bellico. Non c'era traccia della Pontiac di Dunning. Attraversai in auto l'intero piazzale, verso la spianata di ghiaia che portava nel cimitero propriamente detto, il quale era enorme e copriva almeno dodici acri di collina.

Nel cimitero, dallo spiazzo centrale ne partivano altri più piccoli. Dalle zone più in basso saliva la nebbia, e il piovigginìo stava diventando pioggia vera e propria. A dirla tutta, non era il giorno migliore per visitare i cari estinti, e oltre a Dunning non c'era nessun altro. La sua auto era parcheggiata a metà di una collinetta, in uno dei prati laterali. La vidi subito. Stava posando i cesti di fiori davanti a due lapidi affiancate. Dovevano essere i suoi genitori, ma non m'importava granché. Feci dietrofront con la mia auto a noleggio, e lo lasciai da solo.

Quando tornai al mio appartamento in Harris Avenue, la prima pioggia di quell'autunno martellava la città. In centro, probabilmente il Canale era in piena, e quella particolare pulsazione che saliva dall'asfalto della Città Bassa doveva essere più che mai percepibile. L'estate indiana sembrava finita. Non m'importava nemmeno di quello. Aprii il mio bloc-notes, lo sfogliai quasi fino alla fine prima di trovare una pagina vuota, e scrissi: «5 ottobre, 3:45 del pomeriggio, Dunning al Longview Cem., posa fiori sulle tombe dei genitori (?). Pioggia».

Avevo quello che mi serviva.

8

1

NELLE settimane che precedettero Halloween, il signor George Amberson ispezionò quasi ogni lotto di terreno a uso commerciale di Derry e delle. città vicine.

Non ero tanto stupido da credere che mi avrebbero accettato come uno di loro, ma volevo che la gente del luogo si abituasse a vedere la mia decappottabile rossa, che diventasse parte della scenografia. Ecco quell'agente immobiliare, ormai è qui da quasi un mese. Se è uno che sa quel che fa, potrebbero saltarci fuori dei soldi per qualcuno.

Quando mi chiedevano cosa stessi cercando, facevo l'occhiolino e sorridevo.

Quando mi chiedevano quanto sarei rimasto in città, rispondevo che era difficile a dirsi. Imparai la topografia di Derry, e cominciai a orientarmi nella geografia verbale del 1958. Imparai, per esempio, che «la guerra» significava la seconda guerra mondiale, mentre «il conflitto» era la guerra di Corea. Ed erano finite entrambe, già archiviate. Ora la gente si preoccupava (ma non troppo) della Russia e del cosiddetto «divario missilistico». Si preoccupava anche della delinquenza giovanile (non troppo nemmeno di quella). C'era una recessione, ma la gente aveva visto di peggio. Quando trattavi un acquisto con qualcuno, era assolutamente normale dargli scherzosamente dell'ebreo o accusarlo di fare come gli zingari. Tra i dolciumi da un centesimo c'era la «testa di negretto». Nel Sud era tutto segregato. A Mosca, Nikita Krusciov muggiva minacce. A Washington, Eisenhower salmodiava rassicurazioni.

Dopo aver parlato con Chaz Frati, mi ero appuntato di controllare il sito delle Ferriere Kitchener. Era a nord della città, in una grande area vuota e piena di erbacce. Sì, sarebbe stato perfetto per un centro commerciale, non appena l'estensione dell'autostrada l'avesse raggiunto, ma nel giorno in cui lo visitai (scendendo dall'auto e proseguendo a piedi tra i detriti), ricordava le rovine di un'antica civiltà. Guardate alle mie opere, o potenti, e disperate. Cataste di mattoni e rottami arrugginiti di macchinari spuntavano dall'erba alta. Al centro era distesa una lunga ciminiera, annerita sui bordi dalla fuliggine, il largo foro colmo di tenebra. Se mi fossi chinato sarei riuscito a entrarci, e non sono un uomo basso.

Vidi parecchio di Derry in quelle settimane prima di Halloween, e percepii parecchio. I residenti erano cortesi ma, con una sola eccezione, mai davvero amichevoli. Quell'eccezione era Chaz Frati. Col senno di poi, penso che le sue rivelazioni non richieste avrebbero dovuto insospettirmi, ma avevo molte altre cose per la testa, e Frati non sembrava così importante. Avevo pensato: A volte incontri una persona simpatica, tutto qui, e non me n'ero più curato. Di certo non avrei mai immaginato che agisse per conto di un tizio di nome Bill Turcotte.

Bill Turcotte, alias Senza Bretelle.

2

Bevy-Bevy, è meglio che ti levi si era detta certa che a Derry i brutti tempi non finissero mai del tutto, e più mi addentravo in quella realtà, più cose percepivo, più mi convincevo che fosse una bambina saggia. Perché Derry non era come gli altri posti. Derry era sbagliata. Al principio provai a dirmi che dipendeva da me, non dalla città: ero un uomo fuori posto, un nomade del tempo, e qualunque luogo mi sarebbe parso un po' strano e sbilenco, come certe città che somigliano a brutti sogni negli strani romanzi di Paul Bowles. All'inizio era convincente, ma col trascorrere dei giorni e grazie alla continua esplorazione del mio nuovo ambiente, lo fu sempre meno. Iniziai persino a dubitare di quel che aveva detto Beverly Marsh, e cioè che il peggio era passato. Immaginai (nelle notti in cui non riuscivo a dormire, e capitava spesso) che non ne fosse convinta nemmeno lei. Non avevo intravisto un granello di dubbio nei suoi occhi? Lo sguardo di qualcuno che non crede a quel che dice ma vuole – e forse deve – crederci?

Qualcosa di sbagliato.

Qualcosa di malvagio.

Certe case abbandonate che parevano fissarti, come persone gravemente malate di mente. Una stalla vuota poco fuori città, la porta del granaio che girava lenta su cardini rugginosi, aperta e chiusa, a mostrare l'oscurità per poi nasconderla, e poi mostrarla di nuovo. Uno steccato rotto in Kossuth Street, ad appena un isolato dalla casa in cui vivevano la signora Dunning e i suoi bambini. Quello steccato mi dava l'idea che qualcosa (o qualcuno) ci fosse stato gettato contro, per poi finire giù nei Barren. Un parco giochi deserto, con la giostrina che ruotava piano piano anche se non c'erano bimbi a spingerla, e nemmeno il vento. Ruotava, facendo stridere gli ingranaggi nascosti. Un giorno vidi un Cristo in legno, rozzamente intagliato, galleggiare nel Canale prima di finire nel tunnel sotto Canal Street. Era lungo poco meno di un metro. I denti spuntavano da labbra tirate in un sogghigno. Una corona di spine, disinvoltamente inclinata, ne circondava la fronte. Lacrime di sangue erano state dipinte sotto gli strani occhi bianchi. Sembrava un feticcio voodoo. Sul cosiddetto Ponte dei Baci del Bassey Park, tra le dichiarazioni di amore eterno e appartenenza scolastica, qualcuno aveva inciso la frase: PRESTO UCCIDERÒ MIA MADRE, e sotto qualcuno aveva aggiunto: NON SARÀ MAI TOPO PRESTO, È INFESTATA. Un pomeriggio, mentre passeggiavo al confine est dei Barren, sentii dei terribili guaiti. Alzai lo sguardo e vidi la sagoma di un uomo magro, in piedi sul ponte della ferrovia, non molto distante da me. Teneva in mano un bastone, lo alzava e lo calava su qualcosa. I guaiti terminarono e io pensai: Era un cane, e lo ha ammazzato. Lo ha portato fin lì al guinzaglio e lo ha bastonato a morte. Non potevo esserne sicuro, ovviamente… eppure lo ero. Ne ero sicuro allora, e lo sono anche adesso.

Qualcosa di sbagliato. Qualcosa di malvagio.

Queste cose c'entrano o no con la storia che sto raccontando? La storia del padre del bidello… e di Lee Harvey Oswald (l'uomo dal sorrisetto io-ho-un-segreto e dagli occhi grigi che non incontravano mai i tuoi)? Non lo so, ma posso dirvi una cosa: dentro quella ciminiera crollata, sul terreno delle vecchie ferriere, c'era qualcosa. Non so che cosa né voglio saperlo, ma all'imbocco di quell'affare vidi un mucchietto di ossi rosicchiati e un piccolo collare con un campanellino. Un collare che certamente era appartenuto all'adorato micio di un bambino. E nel tubo… In fondo a quel gigantesco tubo, qualcosa si muoveva.

Entra e vieni a vedere, sembrava dirmi sottovoce. Lascia perdere tutto il resto, vieni a vedere. Vieni a trovarmi. Qui dentro il tempo non conta. Qui dentro, il tempo vola via. È questo che vuoi, lo sai anche tu. Sai bene di essere curioso. Chissà, forse è una nuova buca del coniglioUn altro portale.

Forse lo era, ma non credo. Penso che là dentro ci fosse… Derry. Tutto quel che c'era di sbagliato, tutto quel che c'era di sbilenco, si nascondeva in fondo a quel tubo, in una sorta di ibernazione. Aspettava. La gente si sarebbe convinta che il peggio era passato, e avrebbe abbassato la guardia. Presto, si sarebbe addirittura scordata di quel che era accaduto.

Me ne andai di corsa, e non rimisi mai più piede in quella parte della città.

3

Un giorno della seconda settimana d'ottobre, quando ormai le querce e gli olmi di Kossuth Street erano un tumulto di rosso e oro, visitai ancora una volta la dismessa West Side Recreation Hall. Nessun agente immobiliare che si rispetti mancherebbe di ispezionare una location del genere, così chiesi a diversi abitanti della via come fosse dentro (la porta era serrata con un lucchetto, naturalmente) e da quanto tempo fosse chiusa.

Una delle persone a cui mi rivolsi era Doris Dunning. Bella come un dipinto, aveva detto Chaz Frati. Di solito era un cliché privo di significato (chi ha detto che tutti i dipinti siano belli?), ma in quel caso era veritiero. Gli anni le avevano cesellato piccole rughe ai lati degli occhi e altre più profonde agli angoli della bocca, ma aveva una pelle incantevole e un fantastico petto (nel 1958, all'apice del successo di Jayne Mansfield, un seno robusto è considerato attraente, non imbarazzante). Parlammo sotto il portico di casa sua. Invitarmi a entrare, con la casa vuota e i bambini a scuola, sarebbe stato sconveniente, e senza dubbio i vicini ne avrebbero spettegolato, soprattutto col marito «fuori di casa». In una mano aveva uno straccio per spolverare, e nell'altra una sigaretta. Un sifone di lucido per mobili spuntava dal tascone del grembiule. Come quasi tutti gli abitanti di Derry, fu gentile ma tenne le distanze.

Sì, mi disse, quando la West Side Rec era ancora aperta e in funzione, era davvero un bel posto per i bambini. Era bello avere uno spazio così vicino a casa, dove i piccoli potevano andare dopo la scuola, e scorrazzare in lungo e in largo. Dalla finestra della cucina, Doris vedeva l'area dei giochi e il campetto da basket, ed era davvero triste che fossero deserti. Disse che secondo lei il centro era stato chiuso in un giro di tagli di bilancio, ma il modo in cui evitava il mio sguardo e teneva la bocca piegata in giù mi diceva ben altro: era stato chiuso in un altro «giro», quello di uccisioni e sparizioni di bambini. I problemi di bilancio dovevano essere secondari.

La ringraziai e le diedi uno dei biglietti da visita che avevo appena fatto stampare. Lei lo prese, mi rivolse un sorriso distratto, poi chiuse la porta. La chiuse dolcemente, senza sbatterla, ma sentii un rumore metallico e capii che aveva messo la catenella.

Pensavo che la West Side Rec avrebbe fatto al caso mio la sera di Halloween, benché non fosse proprio di mio gradimento. Entrare non sarebbe stato un problema, e da una di quelle finestre avrei avuto una perfetta visuale della via. Anche se Dunning fosse arrivato in macchina invece che a piedi, conoscevo già la sua auto. Sarebbe accaduto dopo il tramonto, stando al tema di Harry, ma la via era illuminata.

Ovviamente, la visibilità era un'arma a doppio taglio. A meno che non fosse stato completamente preso dal suo scopo, Dunning mi avrebbe scorto correre verso di lui. Avevo la pistola, ma era precisa solo entro i quindici metri, e mi sarei dovuto avvicinare più di così, prima di arrischiarmi a sparare un colpo, perché la sera di Halloween Kossuth Street sarebbe stata affollata di fantasmini e folletti. Eppure non potevo aspettare che irrompesse in casa prima di intervenire, perché (sempre secondo il tema) il marito che Doris Dunning aveva cacciato di casa si era subito messo all'opera. Quando Harry era uscito dal bagno, erano già tutti morti tranne Ellen. Se avessi aspettato, avrei visto quel che aveva visto Harry: il cervello di sua madre spiattellato sul sofà.

Non avevo fatto un viaggio di mezzo secolo per salvare una persona sola. E poi, anche se mi avesse visto arrivare?… Ero io quello con la pistola, lui aveva solo un martello (probabilmente preso dalla cassetta degli attrezzi della pensione). Se mi fosse venuto incontro, meglio ancora: sarei stato come un clown da rodeo, intento a distrarre il toro. Avrei gridato e fatto capriole fino al momento di averlo a distanza di tiro, poi gliene avrei ficcate un paio nel petto.

Ammesso che fossi in grado di tirare il grilletto.

E ammesso che la pistola funzionasse. Avevo fatto qualche sparo di prova in una cava di ghiaia fuori città, e sembrava tutto a posto… Ma il passato è inflessibile.

Non vuole essere cambiato.

4

Dopo attente considerazioni, pensai che poteva esserci un'opzione migliore per il mio appostamento di Halloween. Mi sarebbe occorsa un po' di fortuna, ma forse nemmeno troppa. Dio sa se ci sono case in vendita da queste parti, aveva detto Fred Toomey, il barista, la prima sera che avevo trascorso a Derry. Le mie ricognizioni lo avevano confermato. Dopo gli omicidi (e dopo l'alluvione del '57, non scordiamoci di quella), sembrava che mezza città fosse in vendita. A quell'ora, in un posto meno chiuso agli estranei, a un agente immobiliare (come io mi presentavo) avrebbero dato le chiavi della città e un week-end in compagnia di Miss Derry.

Una via che non avevo ancora controllato era Wyemore Lane. Era una parallela di Kossuth Street, appena un isolato più a sud. Questo significava che i cortili posteriori delle due vie confinavano tra loro. Dare un'occhiata non costava niente.

Anche se al civico 206 (cioè la casa subito dietro quella dei Dunning) abitava qualcuno, al numero accanto, il 202, le mie preghiere trovarono risposta. I muri grigi erano pitturati di fresco e le rifiniture erano nuove, ma tutte le imposte erano chiuse. Sul prato appena rastrellato c'era un cartello giallo e verde, uguale a quelli che avevo visto in tutta la città: VENDESI, con l'indicazione di un operatore immobiliare di Derry, da contattare se interessati. In quel caso, si trattava di un certo Keith Haney. Non avevo alcuna intenzione di chiamarlo, ma parcheggiai la Sunliner nel vialetto appena asfaltato (qualcuno stava facendo tutto il possibile per vendere quella casa) ed entrai nel cortile posteriore, a testa alta, la schiena diritta, baldanzoso come il Diavolo in persona. Avevo imparato molte cose studiando il mio nuovo ambiente, e una dì queste era: se ti comporti come se vivessi in un dato posto, la gente dà per scontato che sia così.

L'erba era rasata alla perfezione, le foglie erano state rimosse col rastrello per far brillare il verde vellutato. Un falciaerba era posato sotto la sporgenza del garage, un pezzo di tela cerata avvolto intorno alle lame. Accanto alla botola della cantina c'era una casetta del cane con un cartello: IL TUO CUCCIOLO VIVRÀ QUI. Keith Haney aveva curato ogni dettaglio. Dentro la casetta c'era un mucchio di sacchi non ancora usati, tenuti al loro posto da una paletta da giardiniere e da un paio di cesoie. Nel 2011, quegli attrezzi sarebbero stati chiusi a chiave. Nel 1958 bastava che fossero al riparo dalla pioggia. Ero sicuro che la casa, quella sì, fosse chiusa a chiave, ma non era un problema. Non ero interessato a entrare.

In fondo al cortile, una siepe alta poco meno di me; anche se era rigogliosa, ci si poteva passare in mezzo con facilità, al trascurabile prezzo di qualche graffio. Meglio ancora: quando giunsi all'angolo in fondo a destra, proprio dietro il garage, in diagonale vidi il cortile di casa Dunning. C'erano due biciclette da bambino. Una era una Schwinn da maschio, in piedi sul suo cavalletto. L'altra, appoggiata su un fianco come un pony moribondo, era quella di Ellen Dunning. Le ruotine non lasciavano spazio a equivoci.

C'era anche una catasta di giocattoli. Uno di questi era il fucile ad aria compressa di Harry Dunning.

5

Se per caso avete recitato in una compagnia amatoriale, o diretto recite scolastiche come avevo fatto io diverse volte, avrete un'idea di come furono per me i giorni che precedettero Halloween. All'inizio, le prove si svolgono in un'atmosfera rilassata. Si improvvisa, si scherza, ci si prende per i fondelli, e ci sono flirt incrociati mentre si stabiliscono le polarità tra i sessi. Se in una di quelle prime prove qualcuno dice male una battuta o non sente un suggerimento, è solo un'occasione per farsi due risate. Se un attore o un'attrice arriva con un quarto d'ora di ritardo, può attendersi un blando predicozzo, ma probabilmente nulla di più.

A un certo punto, però, la sera della prima comincia a sembrare qualcosa che accadrà davvero, non una vaga fantasia. Si smette di improvvisare. Non ci si prende più per i fondelli, e anche se si fanno ancora battute, le risate che suscitano hanno qualcosa di nervoso, un'energia prima del tutto assente. Le battute sbagliate e i suggerimenti ignorati iniziano a sembrare esasperanti anziché divertenti. Un attore che arriva in ritardo quando le scene sono già montate e mancano pochi giorni alla prima, quasi certamente sarà bersaglio dell'ira del regista.

Giunge infine la sera della prima. Gli attori indossano i costumi e si truccano. Alcuni sono terrorizzati, altri non si sentono pronti. Presto dovranno affrontare una sala piena di gente venuta a vederli dar prova di sé. Ciò che sembrava impossibilmente lontano quando provavano su un nudo palco, adesso sta per accadere. E, prima che il sipario si alzi, ci sarà un Amleto o un Willie Loman o una Blanche DuBois che corre alla toilette più vicina, per vomitare. È una cosa immancabile.

E fidatevi, quando vi parlo di vomito. Lo so per esperienza.

6

Nelle ore piccole della vigilia di Halloween mi ritrovai non a Derry, ma sull'oceano. Su un oceano in tempesta, aggrappato al parapetto di una nave (probabilmente uno yacht) in procinto di affondare. La pioggia, spinta da un vento ululante, mi sferzava il volto. Alte onde, dal fondo nero e dalla cima verde, densa e schiumosa, correvano verso di me. Lo yacht si impennò, fu scosso violentemente e tornò giù, in un selvaggio movimento a spirale.

Mi svegliai col cuore che batteva forte, le mani ancora strette al parapetto che la mia mente aveva immaginato. Ma non si trattava solo della mente, perché mi sentivo ancora andare su e giù. Il mio stomaco sembrava essersi sganciato dai muscoli che lo tenevano al suo posto.

In momenti del genere, il corpo è quasi sempre più saggio della mente. Alzai le coperte e mi precipitai in bagno. Attraversando la cucina, urtai con un piede e rovesciai l'odiosa sedia gialla. Più tardi le dita del piede si sarebbero gonfiate, ma al momento non sentii quasi nulla. Cercai di chiudere la gola, ma ci riuscii solo in parte. Sentii uno strano rumore salire dal fondo e arrivarmi in bocca, ulk-ulk-urp-ulk, sì, faceva più o meno così. Il mio stomaco era lo yacht, che prima si innalzava e poi si tuffava giù con tanto di avvitamento. Caddi sulle ginocchia di fronte al water e vomitai la cena, poi il pranzo, infine la colazione del giorno prima.

Prosciutto e uova, oddio… Al pensiero di tutto quel grasso luccicante, vomitai di nuovo. Ci fu una pausa, dopodiché sembrò scaturire dal corpo tutto quel che avevo mangiato nel corso della settimana.

Proprio quando iniziavo a sperare che fosse finita, sentii nelle budella una terribile torsione. Mi alzai in piedi, abbassai con violenza la ciambella del water e riuscii a sedermi appena in tempo, prima che partisse la scarica acquosa.

Ma non era tutto, non ancora. Mentre l'intestino prendeva di nuovo la rincorsa, qualcosa tornò a sollevarsi nello stomaco. Non restava che una cosa da fare, e la feci: mi chinai in avanti e vomitai nel lavandino.

Andò avanti cosi fino alla tarda mattinata del giorno di Halloween. A quel punto, da entrambe le finestre d'espulsione non usciva che acqua sporca. Ogni volta che rimettevo, ogni volta che il mio intestino dava un nuovo strappo, pensavo la stessa cosa: Il passato non vuole essere cambiato. Il passato è inflessibile.

Ma intendevo essere al mio posto quando Frank Dunning fosse arrivato. Seppure vomitante e scacazzante acqua grigia, ci sarei stato. Anche a costo di morire, ci sarei stato.

7

Quel pomeriggio, quando entrai nel drugstore di Center Street, al bancone c'era il proprietario, il signor Norbert Keene. Sopra la sua testa, il ventilatore da soffitto sollevava in una danza ondeggiante quel che restava dei suoi capelli. Ragnatele al vento d'estate. Mi bastò vedere quello perché il mio povero stomaco mandasse un nuovo segnale d'allerta. Keene era magro (quasi macilento) nel suo camice bianco, e quando mi vide entrare le labbra pallide si piegarono in un sorriso.«Sembra piuttosto malconcio, amico mio.»

«Kaopectate», dissi, con una voce rasposa che non sembrava la mia. «Ce l'ha?» Mi domandai se fosse già stato inventato.

«Mi sa che si è preso l'influenza intestinale.» La luce dal soffitto fece brillare le lenti dei suoi occhiali privi di montatura, il riflesso si spostò quando mosse la testa. Burro che scivola in una teglia, pensai, e lo stomaco diede un'altra fitta. «È in giro per la città in questi giorni. Temo che si passerà ventiquattr'ore molto spiacevoli. Forse è un'infezione batterica. Può darsi sia andato in una toilette pubblica senza lavarsi le mani, tanta gente non ci pensa ma…»

«Ha il Kaopectate o no?»

«Ma certo. Seconda corsia.»

«Ha anche mutande igieniche?»

Il sorriso a labbra strette si allargò. Le mutande per incontinenti fanno ridere, certo. A meno che non sia tu quello che ne ha bisogno. «Quinta corsia. Ma se rimane a casa, non ne avrà bisogno. E a giudicare dal pallore, signore, e da come sta sudando… È la cosa più saggia da fare.»

«Grazie», dissi, e immaginai di dargli un cazzotto in bocca e fargli ingoiare la dentiera. Ciucciati un po' di Polident, amico.

Procedetti tra le corsie lentamente, non volevo scuotere le viscere più del necessario. Presi il Kaopectate (confezione economica grande? aggiudicata), poi le mutande igieniche (taglia grande per adulti? aggiudicata). Queste ultime erano nel settore EVACUAZIONE – INCONTINENZA, tra i Sacchetti da catetere e certe spirali di tubo di gomma giallo del cui scopo non volevo sapere nulla. C'erano anche pannoloni per adulti, ma fino a quelli non volevo arrivare. Se necessario, avrei imbottito le mutande di strofinacci. La cosa mi parve buffa, e nonostante la mia sofferenza, dovetti sforzarmi di non ridere. Nella condizione in cui mi trovavo, ridere avrebbe potuto causare un disastro.

Come rendendosi conto del mio disagio, l'emaciato farmacista registrò i miei acquisti al rallentatore. Lo pagai, porgendogli un biglietto da cinque dollari con una mano che tremava visibilmente.

«Desidera altro?»

«Sì, sapere una cosa: io sto male, e lei lo vede che sto male, si può sapere cos'ha da sogghignare?»

Il signor Keene fece un passo indietro, e il sorriso gli svanì dalle labbra: «Le assicuro che non stavo sogghignando. Naturalmente spero che lei si senta meglio».

Sentii un crampo alle viscere. Barcollai un poco, afferrai il sacchetto di carta con i miei acquisti e con l'altra mano mi appoggiai al bancone: «Ha una toilette?»

Il sorriso riapparve. «Purtroppo non è a uso dei clienti. Perché non prova in uno dei… degli esercizi dall'altra parte della strada?»

«Sei un vero bastardo, eh? Il perfetto, stramaledetto abitante di Derry.» S'irrigidì, poi, voltatosi, s'inoltrò nelle basse regioni dove teneva pillole, polveri e sciroppi.

Con lentezza, passai oltre la fontanella dell'acqua e uscii dal negozio. Mi sembrava di essere fatto di vetro. La giornata era fredda, non più di otto-nove gradi, ma sotto il sole sentivo la pelle calda e appiccicosa. Le mie viscere batterono un altro colpo. Rimasi immobile per un istante, la testa bassa, un piede sul marciapiede e uno sulla strada. La fitta passò. Attraversai la strada senza far caso al traffico, e qualcuno suonò il clacson. Evitai di fargli il ditaculo, ma solo perché avevo ben altro a cui pensare. Non potevo permettermi di fare a botte, stavo già combattendo.

Il crampo tornò a farsi sentire, una stilettata nel basso ventre. Mi misi a correre. Il Dollaro d'Argento era il bar più vicino, e così fu quella la porta che aprii di slancio, gettando il mio infelice corpo nella semioscurità odorante di birra. Dal juke-box, Conway Twitty cantava che era tutta illusione, che non era vero niente. Magari avesse avuto ragione!

Il locale era vuoto, fatta eccezione per un avventore seduto a un tavolo, che mi fissò sbigottito, e per il barista chino sul bancone, intento a fare il cruciverba del Daily News. Alzò gli occhi per guardarmi.

«Il bagno», dissi. «Presto.»

Indicò il retro, e io scattai in direzione delle due porte con le scritte UOMINI e DONNE. Spalancai la prima con una manata, tipo giocatore di football che si fa spazio per correre in touchdown. Dentro c'era puzza di merda, sigarette e cloro. L'unico cubicolo non aveva porta, il che forse era meglio. Mi slacciai i pantaloni in un gesto da Superman che corre a sventare una rapina, mi girai e mi sedetti.

Per un pelo.

Dopo l'ultima scarica, presi dal sacchetto l'enorme boccetta di Kaopectate e ne mandai giù tre sorsate. Il mio stomaco diede uno scossone, lottai perché restasse al suo posto. Quando fui certo che la prima dose sarebbe rimasta giù, ne bevvi ancora, ruttai, e lentamente riavvitai il tappo. Sulla parete alla mia destra, qualcuno aveva disegnato un pene e un paio di testicoli. I testicoli erano tagliati e sanguinanti. Sotto quell'affascinante immagine, l'artista aveva scritto: Henry Castonguay, chiavati ancora mia moglie ed ecco cosa ti succede.

Chiusi gli occhi, e quando lo feci vidi l'avventore sbalordito che mi aveva guardato andare al cesso a passo di carica. Ma era davvero un avventore? Sul suo tavolo non c'era niente, stava seduto là e basta. A occhi chiusi, vidi chiaramente la sua faccia. La conoscevo già.

Quando uscii dal bagno, sul juke-box Ferlin Husky aveva rimpiazzato Conway Twitty, e Senza Bretelle non c'era più. Andai dal barista e dissi: «Quando sono entrato, c'era un tizio seduto a quel tavolo. Chi è?»

Alzò gli occhi dal cruciverba: «Io non ho visto nessuno».

Presi il portafogli, tirai fuori cinque dollari con la faccia del bravo Abramo, posandoli sul bancone, accanto a un sottobicchiere della birra Narragansett. «Il nome.»

Intrattenne una silenziosa conversazione con se stesso, diede un'occhiata al vaso delle mance (accanto a quello delle uova in salamoia), vide che c'era solo un triste nichelino, e lesto incamerò i cinque dollari. «Era Bill Turcotte.»

Per me, quel nome non voleva dire nulla. Forse nemmeno il tavolo vuoto voleva dire nulla, eppure… Posai sul bancone il fratello gemello di Lincoln. «È entrato qui per tenermi d'occhio?» Se la risposta fosse stata sì, significava che mi stava seguendo. E forse non soltanto quel giorno, ma per quale motivo?

Stavolta il barista respinse la banconota. «Io so solo che viene qui per farsi una birra, e anche più di una.»

«E allora perché se n'è andato senza ordinare?»

«Forse ha guardato nel portafogli e ci ha visto solo la tessera della biblioteca. Non ho mica la sfera di cristallo. Be', adesso che hai fatto puzzare di merda il mio bagno, o ordini qualcosa tu, oppure te ne vai.»

«Puzzava già abbastanza quando sono entrato, amico mio.»

Non un granché, come battuta di commiato, ma era il meglio che potessi fare in quelle condizioni. Uscii, mi fermai sul marciapiede e mi guardai intorno, in cerca di Turcotte. Di lui non c'era traccia, ma Norbert Keene mi guardava dalla vetrata del suo negozio, le mani dietro la schiena. Non sorrideva più.

8

Alle cinque e venti del pomeriggio parcheggiai la mia Sunliner nello spiazzo adiacente la chiesa battista di Witcham Street. Era in buona compagnia: secondo quel che diceva il cartellone, proprio in quella chiesa, alle cinque, era iniziato un meeting degli Alcolisti Anonimi. Nel baule della Ford c'erano tutti i beni che avevo accumulato nelle mie sette settimane da residente di Derry, la Piccola, Peculiare Città. Le poche cose indispensabili erano nella valigetta Lord Buxton che mi aveva dato Al: i suoi appunti, i miei appunti, il frammentario manoscritto a cui avevo lavorato, e i soldi che mi restavano. Grazie a Dio li avevo conservati quasi tutti in contanti.

Accanto a me, sul sedile del passeggero, c'era un sacchetto con dentro la boccetta di Kaopectate (ormai piena solo per un quarto) e le mutande igieniche. Con gratitudine, pensai che non ne avrei avuto bisogno: stomaco e intestino sembravano essersi calmati, e le mie mani non tremavano più. Dentro il cruscotto c'erano cinque o sei barrette dolci alle arachidi, proprio sopra il revolver. Anche quella roba la misi nel sacchetto. Più tardi, giunto alla mia postazione tra il garage e la siepe del 202 di Wyemore Lane, avrei caricato l'arma e me la sarei messa in cintura. Come un pistolero da quattro soldi in uno dei western di serie B che proiettavano allo Strand.

Nel cruscotto c'era un altro oggetto: un numero di TV Guide con Fred Astaire e Barrie Chase in copertina. Per l'undicesima o dodicesima volta da quando avevo comprato la rivista in un'edicola di Main Street, la aprii alla programmazione del venerdì.

 

8PM, Channel 2, Le nuove avventure di Ellery Queen, con George Nader e Les Tremayne.

«Così ricca, così amabile, così morta.» Un truffaldino consulente finanziario (Whit Bissell) perseguita una ricca ereditiera (Eva Gabor) mentre Ellery e suo padre indagano.

La misi nel sacchetto insieme con le altre cose (più che altro come portafortuna) poi scesi dall'auto, la chiusi e mi incamminai verso Wyemore Lane. Superai mamme e papà che accompagnavano nel giro dolcetto-o-scherzetto bambini troppo piccoli per uscire da soli. Zucche intagliate sorridevano dai tetti delle verande, e un paio di fantocci con cappelli di paglia mi fissarono con occhi vuoti.

Discesi Wyemore Lane camminando al centro del marciapiede, come se avessi ogni diritto di essere lì. Incrociai un papà che teneva per mano una bimba. Quest'ultima indossava grandi orecchini da zingara, si era messa lo sgargiante rossetto della mamma e grandi orecchie di plastica, nere e rotonde, su una parrucca riccioluta. Salutai il padre toccandomi il cappello e mi chinai per parlare con la figlia, che portava da sola il suo sacchetto di carta.

«Tu chi sei, tesoro?»

«Sono Annette Funicella», rispose. «È la più bella moschettiela di Topolino.»

«E tu sei bella come lei», le dissi. «E adesso cosa viene?»

Sembrò confusa, così il padre le sussurrò qualcosa all'orecchio. Lei fece un grande sorriso: «Dolcetto o schelzetto

«Proprio così. Ma niente scherzetti stasera.» A parte quello che speravo di giocare all'uomo col martello.

Presi una barretta dolce (dovetti scostare il revolver per raggiungerla), e gliela mostrai. Lei aprì il sacchetto e io la feci cadere dentro. Ero solo un tizio che passeggiava, un perfetto sconosciuto in una città in cui c'erano stati da poco orribili crimini, ma vidi la stessa fanciullesca fiducia sui volti di padre e figlia. I giorni delle barrette arricchite con LSD erano ancora di là da venire, come anche quelli del non consumare se il sigillo è rotto.

Il papà le parlò ancora all'orecchio.

«Glazie, signole!» disse Annette Funicella.

«Non c'è di che.» Poi strizzai l'occhio al padre: «Buona serata a tutti e due».

«Sicuramente domani avrà mal di pancia», disse lui, ma sorrideva. «Vieni, zucchina.»

«Io sono Annette!» protestò la bimba.

«Oh, scusami tanto. Vieni, Annette.» Mi sorrise, si toccò il cappello e ripartirono in cerca di dolcetti.

Io proseguii verso il 202, non troppo in fretta. Avrei fischiettato, se le mie labbra non fossero state così secche. Giunto al vialetto d'ingresso mi arrischiai a guardarmi intorno, ma nessuno faceva minimamente caso a me. Perfetto. Imboccai il vialetto e, quando fui sul retro, emisi un sospiro di sollievo tanto profondo che sembrava venir su dai talloni. Mi piazzai all'angolo destro del cortile, ben nascosto tra il garage e la siepe. O almeno così pensavo.

Gettai uno sguardo nel cortile dei Dunning. Le biciclette erano sparite. I giocattoli c'erano quasi tutti: un arco da bambini con tre o quattro frecce dotate di ventosa, una mazza da baseball con l'impugnatura avvolta di nastro adesivo ruvido, un hula-hop verde… Ma niente fucile ad aria compressa. Harry lo aveva portato in casa. Voleva portarlo con sé quando sarebbe andato a dolcetti vestito da Buffalo Bob.

Chissà se Tugga gli aveva già rotto le scatole in proposito. Chissà se la mamma gli aveva già detto: Portala se vuoi, non è un'arma vera. In ogni caso, lo avrebbe detto di lì a poco. Le loro battute erano già scritte. Sentii una fitta allo stomaco, stavolta non per via della gastroenterite, ma perché mi aveva raggiunto, in tutto il suo splendore, la piena consapevolezza, quella che ti senti nelle viscere: stava per succedere davvero. Anzi, stava già succedendo. Lo show era cominciato.

Guardai l'orologio. Mi sembrava di aver lasciato l'auto nel parcheggio della chiesa almeno un'ora prima, ma erano solo le sei meno un quarto. Probabilmente a casa dei Dunning si stavano mettendo a tavola, ma io di ragazzini me ne intendevo, i più piccoli sarebbero stati troppo eccitati per mangiare, e di sicuro Ellen indossava già il suo costume da Principessa Summerfall Winterspring. Anzi, forse se l'era infilato non appena era tornata da scuola, e aveva già fatto impazzire sua madre con pressanti richieste di aiutarla a dipingersi il faccino coi colori di guerra.

Mi sedetti con la schiena contro il garage, rovistai nel sacchetto e tirai fuori una barretta. La sollevai e pensai al povero, vecchio J. Alfred Prufrock. Non ero poi tanto diverso dal protagonista della poesia di Eliot, anche se quella che non osavo mangiare era una barretta, non una pesca. D'altro canto, avrei avuto molto da fare nelle prossime ventiquattr'ore, e il mio stomaco era un vuoto gorgogliante.

Vaffanculo, pensai, e attaccai la barretta. Era fantastica: dolce e salata, densa… Due bocconi e la mangiai quasi tutta. Stavo per mettermi in bocca quel che ne restava (chiedendomi, in nome di Dio, perché mai non avessi portato con me un sandwich e una Coca), quando con la coda dell'occhio sinistro colsi un movimento. Tentai di girarmi e, allo stesso tempo, di prendere il revolver dal sacchetto, ma era troppo tardi. Qualcosa di duro e freddo punse la mia tempia sinistra.

«Togli la mano da quel sacchetto.»

Riconobbi subito la voce. Spera, sorridi e bacia un maiale, mi aveva detto il suo proprietario quando avevo chiesto a lui e ai suoi amici se conoscessero un tale di nome Dunning. Aveva detto che Derry era piena di Dunning, e ne avevo avuto conferma poco dopo, ma fin dall'inizio si era fatto un'idea precisa di quale stessi cercando, giusto? Ed eccone la prova.

La punta della lama andò un po' più a fondo, e sentii un rivolo di sangue colare sulla guancia. Sulla mia pelle gelida era tiepido, anzi, caldo.

«Via quella mano, amico. Subito. Penso di sapere cosa c'è lì dentro, e se la tua mano non ne esce vuota, il tuo dolcetto di Halloween sarà una quarantina di centimetri di acciaio giapponese. Quest'affare è bello affilato, sbucherà dall'altra parte della tua testa.»

Tolsi la mano dal sacchetto (vuota) e mi girai per guardare Senza Bretelle. I capelli gli cadevano in ciocche unte sulla fronte e sulle orecchie. Gli occhi neri sembravano galleggiare sul volto pallido e ispido. Provai un disappunto tanto forte da essere quasi disperazione. Quasi. A costo di morire, pensai di nuovo. A costo di morire.

«Lì dentro ci sono solo barrette», dissi, in tono quieto. «Se ne vuole una, signor Turcotte, basta chiedere.»

Con la mano che non impugnava l'arma, afferrò il sacchetto prima che potessi rimetterci la mia. L'arma si rivelò essere una baionetta, non so se giapponese o no, ma dal modo in cui scintillava all'ultima luce del tramonto, mi fidai sul fatto che fosse bella affilata.

Rovistò e tirò fuori il mio revolver Police Special. «E così c'erano solo barrette, eh? Che mi dici di questa, signor Amberson?»

«Ne ho bisogno.»

«Sì, e chi sta all'inferno ha bisogno di acqua fresca, ma non gliela danno.»

«Abbassa la voce», gli dissi.

Si mise il mio revolver alla cintura, esattamente dove avevo pensato di metterla io una volta superata la siepe e giunto nel cortile dei Dunning. Dopodiché, mi agitò la baionetta di fronte agli occhi. Ci volle molta forza di volontà per restare fermo. «Non dirmi cosa devo f…» Barcollò, con la mano libera si premette lo stomaco, poi il petto, poi la gola coperta di peli, come se qualcosa gli fosse andato di traverso. Quando deglutì, sentii una specie di clic.

«Turcotte? Ti senti bene?»

«Come fai a sapere il mio nome?» Poi, senza attendere risposta: «Te l'ha detto Pete, vero? Il barista del Dollaro d'Argento. È stato lui».

«Sì. E adesso ho io una domanda per te. Da quanto tempo mi segui? E perché?»

Sorrise, ma non era un sorriso spiritoso. Notai che gli mancavano due denti.

«Sono due domande»

«Rispondi.»

«Ti comporti come…» Fece una smorfia di dolore, di nuovo deglutì, infine si appoggiò al muro del garage. «… Come se avessi tu il coltello dalla parte del manico.»

Valutai il pallore e il malessere di Turcotte. Il signor Keene era un bastardo con una vena di sadismo, ma a fare le diagnosi era abbastanza bravo. Dopotutto, chi meglio del farmacista locale sa che malattie ci sono in giro? Ero abbastanza sicuro di non aver bisogno di altro Kaopectate, ma ne avrebbe avuto bisogno Turcotte. Per non dire delle mutande igieniche, una volta che il virus si fosse messo davvero all'opera…

Potrebbe essere un bene, ma anche un male, pensai. Ma era una stronzata. Non c'era nulla di buono, in quella situazione.

Non pensarci. Continua a farlo parlare. E quando gli viene da vomitare (se succede prima che ti sgozzi o ti spari col tuo stesso revolver), saltagli addosso.

«Rispondimi. Ho il diritto di saperlo, dato che non ti ho fatto niente.»

«È a lui che vuoi fare qual cosa, mi sa. Tutte quelle storie su terreni e immobili che hai sparso per la città… Nient'altro che cazzate. Sei venuto qui per lui.» Con un cenno del capo indicò la casa oltre la siepe. «L'ho capito nel momento stesso che ti è uscito di bocca il suo nome.»

«Come hai fatto? Questa città è piena di Dunning, lo hai detto tu stesso.»

«Sì, ma a me importa soltanto di uno.» Alzò la mano con cui teneva la baionetta, e con la manica si asciugò il sudore. Forse avrei potuto aggredirlo già a quel punto, ma temevo che il rumore di una zuffa attirasse l'attenzione. E se il revolver avesse sparato, probabilmente sarei stato io a buscarmi il proiettile.

Inoltre, ero curioso.

«Deve proprio averti fatto del bene, a un certo punto della sua vita, se sei diventato il suo angelo custode», dissi.

Ridacchiò, senza verve. «Questa è bella, amico. In un certo senso, è così. Mi sa che sono una specie di angelo custode. Almeno per il momento.»

«Che intendi dire?»

«Intendo dire che è mio, Amberson. Quel pezzo di merda ha ucciso la mia sorellina, e se qualcuno gli sparerà, o gli ficcherà in corpo una lama…» Agitò la baionetta di fronte al proprio volto diafano e tetro. «…quello sarò io.»

9

Restai a fissarlo a bocca aperta. Da qualche parte, lontano, si sentì uno scoppiettio. Qualche teppistello giocava coi petardi la sera di Halloween. Su e giù per Witcham Street i bambini gridavano, ma lì c'eravamo solo noi due. Alle riunioni degli Alcolisti Anonimi Christy e il suo gruppo si definivano «gli Amici di Bill» (Bill Wilson, uno dei fondatori). Noi eravamo «i Nemici di Frank». Saremmo stati un team perfetto, ma «Senza Bretelle» Turcotte non sembrava amare il gioco di squadra.

«Tu…» Mi bloccai e scossi il capo. «Spiegami la faccenda.»

«Se sei intelligente la metà di quel che credi, dovresti arrivarci da solo. Oppure Chaz non ti ha detto abbastanza?»

Sulle prime, le cose non quadrarono. Poi iniziarono ad avere un senso. L'ometto con la sirena tatuata sull'avambraccio e l'allegra espressione da scoiattolo. Non era sembrato allegro, quando Frank Dunning gli aveva dato una pacca sulla spalla e gli aveva detto di stare attento al naso, troppo lungo per sporcarsi. Prima di quella frase, mentre Frank raccontava barzellette al tavolo dei fratelli Tracker, Chaz Frati mi aveva parlato del suo caratteraccio… Cosa di cui ero già al corrente, grazie al tema del bidello. Mise incinta la sua ragazza… Dopo un anno o due, lei si prese il bimbo e tagliò la corda.

Stai captando un segnale, comandante Cody? Si direbbe di sì, mi disse la testa.

«La prima moglie di Frank Dunning era tua sorella.»

«Molto bene! Il concorrente indovina la parola segreta e vince cento dollari.»

«Frati ha detto che lei ha preso il bimbo ed è scappata, perché non ne poteva più delle sfuriate di Dunning ogni volta che si sbronzava.»

«Già, lui ti ha detto questo, ed è quel che credono quasi tutti, qui a Derry. Ci crede pure Chaz, per quel che ne so. Ma io non ci credo. Clara e io siamo sempre stati molto uniti. Quand'eravamo piccoli, io avevo lei e lei aveva me. Mi sa che non puoi capirla, una cosa come questa. Sembri freddo come un pesce. A ogni modo, le cose stavano così.»

Pensai all'unico anno bello trascorso con Christy: i sei mesi prima del matrimonio, e i sei mesi successivi. «Non sono poi tanto freddo. So di che stai parlando.»

Senza pensarci, si portò di nuovo la mano allo stomaco. Da lì passò al petto, dal petto alla gola, e poi di nuovo al petto. Era più pallido che mai. Chissà cosa aveva mangiato a pranzo. Ma non c'era bisogno di chiederselo: di lì a poco l'avrei visto coi miei occhi.

«Ah, sì? Allora ti suonerà strano che Clara non mi abbia mai scritto, dopo che lei e Mikey si erano trasferiti altrove. Nemmeno una cartolina. A me suona più che strano. Perché lei lo avrebbe fatto. Sapeva quanto bene le volevo, e quanto ne volevo al bambino. Lei aveva vent'anni e Mikey sedici mesi quando quel barzellettaro incantafighe ha detto che erano scomparsi. Era l'estate del '38. Adesso avrebbe quarant'anni, e mio nipote ventuno. Avrebbe l'età per votare, cazzo! E secondo te non avrebbe scritto manco una riga a suo fratello, quello che, quand'eravamo ragazzi, ha impedito a Nosey Royce di ficcarle dentro il suo uccello raggrinzito? E non mi avrebbe chiesto qualche soldo, una volta che s'era stabilita a Boston o New Haven o chissà dove? Amico, io avrei…»

Fece una smorfia, emise un urk-ulp che mi suonò fa miliare, e di nuovo dovette appoggiarsi al muro del garage.

«Devi sederti», gli dissi. «Stai male.»

«Io non sto mai male. L'ultimo raffreddore l'ho avuto alle elementari.»

Se era vero, la gastroenterite l'avrebbe steso in una guerra-lampo, tipo i tedeschi con la Polonia.

«È influenza intestinale, Turcotte. Non ci ho dormito tutta la notte. Il signor Keene ha detto che il virus sta girando in città.»

«Che vuoi che ne sappia, quel vecchio frocio. Sto bene.» Si scostò le ciocche dal viso per mostrarmi che era in forma. La sua faccia era di un bianco slavato. La mano in cui teneva la baionetta tremava come la mia qualche ora prima. «Vuoi sentirla o no questa storia?»

«Certo che sì.» Di sottecchi, guardai l'orologio. Erano le sei e dieci. Il tempo, che fino ad allora si era trascinato lento, adesso stava accelerando. Chissà dov'era Frank Dunning in quel momento. Ancora al supermercato? No, quel giorno doveva avere staccato prima, magari dicendo che doveva accompagnare i figli a caccia di dolcetti. Solo che il piano era un altro. A quell'ora doveva essere in qualche bar. Non al Lamplighter, però: là ci andava a farsi una birra, al massimo due. Quelle poteva reggerle, ma (se mia moglie era un paragone calzante, e secondo me lo era) se ne andava sempre a labbra asciutte, ancora con la voglia di bere.

No, quando davvero sentiva il bisogno di farci il bagno, nella birra, probabilmente andava in uno dei locali più alla buona: tipo il Secchio o il Dollaro. O addirittura in una delle bettole che davano sull'inquinato fiume Kenduskeag: Wally's, oppure il malfamato Paramount Lounge, dove su quasi tutti gli sgabelli sedevano vetuste battone dalla faccia di cera. Anche là faceva sganasciare tutti con le sue barzellette? Oppure la gente se ne stava alla larga, mentre lui versava alcol sui carboni della rabbia che gli ardeva in fondo al cervello? Forse sì, a meno che non volessero farsi cavare qualche dente lì per lì.

«Quando mia sorella e mio nipote scomparvero, vivevano con Dunning in una casetta in affitto poco oltre i confini di Cashman. Beveva forte, e quello là, ogni volta che beve forte, si mette a fare esercizio coi pugni. Una volta ho visto Clara con dei lividi, e un'altra volta Mikey era tutto blu sul braccino, dal polso al gomito. Allora le chiedo: 'Sorellina, ti sta pestando? Sta picchiando il bambino? Perché se lo sta facendo, sarò io a pestare lui'. Lei mi risponde di no, ma senza guardarmi in faccia, e mi fa: 'Stai alla larga da lui, Billy. È forte. Sei forte anche tu, lo so, ma sei magro. Un vento forte ti soffierebbe via. Frank ti farebbe male'. Meno di sei mesi dopo, Clara è scomparsa. O 'se n'è andata', come direbbe lui. Da quelle parti c'è molto bosco. Diavolo, è tutto bosco quando arrivi a Cashman. Bosco e paludi. Lo sai anche tu cos'è successo davvero, no?»

Sì, lo sapevo. Altri non ci avrebbero creduto, perché Dunning era uno stimato cittadino che sembrava avere sconfitto l'alcol ormai da molto tempo. Inoltre, aveva fascino. Ma io ero in possesso di informazioni riservate.

«Immagino che quella volta sia andato fuori di testa», dissi. «È tornato a casa sbronzo, lei ha detto la cosa sbagliata, magari una frase del tutto ininfluente…»

«Ininfluché?»

Attraverso la siepe, gettai un'occhiata nel cortile dei Dunning. Per un istante, Doris passò nel riquadro della finestra. La cena era servita. Ci sarebbe stato anche il dessert? Gelatina di frutta con crema alla vaniglia? Torta di pane? Ma no, chi mai ha bisogno di dolci la sera di Halloween? «Intendo dire che lui ha ucciso tua sorella e tuo nipote. Non è quel che pensi anche tu?»

«Sì…» Parve colto alla sprovvista e sospettoso. Forse gli individui ossessivi reagiscono così quando sentono argomentare (o addirittura confermare) cose che li hanno tenuti svegli per lunghe notti. Mi stanno giocando qualche scherzetto, pensano. E invece no. Nessuno scherzetto. E di sicuro, nessun dolcetto.

«Quanti anni aveva Dunning, all'epoca? Ventidue? Tutta la vita davanti, avrà pensato: Be', ho fatto una cosa orribile, ma posso ripulire tutto. Siamo in mezzo ai boschi, i vicini sono a un chilometro di distanza… È così, Turcotte?»

«Un chilometro come minimo», rispose con riluttanza. Con la mano libera si tastava la gola. La baionetta era abbassata. Afferrarla con la mia destra sarebbe stato facile, e riprendermi il revolver con l'altra mano non sarebbe stato impossibile, ma non volevo. A Bill Turcotte avrebbe pensato il virus. Vedete, credevo davvero che fosse così semplice. È facile scordarsi che il passato è inflessibile.

«Quindi ha portato i corpi nel bosco, li ha sepolti e ha detto che erano scappati. La polizia non avrà indagato più di tanto…»

Turcotte si girò di lato e sputò per terra. «Quello viene da una buona famiglia di Derry. Noi veniamo dalla Saint John Valley su un vecchio pick-up arrugginito. Io avevo dieci anni e Clara otto, allora. Nous on parle da bifolchi. Come credi che sia andata?»

Derry era Derry, ecco come credevo fosse andata.

Capivo l'amore di Turcotte per la sorella e il nipote, e solidarizzavo con lui, ma stava parlando di un crimine vecchio. A me importava quello che sarebbe stato commesso due ore dopo.

«Sei stato tu a mandarmi Frati, vero?» Ormai la cosa era ovvia, eppure mi sentivo deluso. Mi era sembrato solo un tizio socievole, uno a cui piaceva spettegolare tra una birra e un piattino di frattaglie d'aragosta. Sbagliato. «È amico tuo?»

Turcotte sorrise, ma sembrò più un ghigno di dolore. «Io amico di un ricco ebreo, proprietario di banchi di pegni? Questa sì che è buffa. Ehi, vuoi sentire una storiella?»

Diedi un'altra occhiata all'orologio e vidi che avevo ancora un po' di tempo. Mentre Turcotte parlava, il virus doveva essere al lavoro nel suo stomaco. Non appena si fosse chinato per vomitare, gli sarei saltato addosso.

«Perché no?»

«Io, Dunning e Chaz Frati siamo coetanei. Abbiamo tutti e tre quarantadue anni. Ci credi?»

«Perché non dovrei?» Ma Turcotte, che aveva fatto una vita dura (e adesso stava male, per quanto non volesse ammetterlo), mostrava almeno dieci anni di più.

«Quand'eravamo all'ultimo anno di superiori, alla vecchia Consolidated High, io ero assistente allenatore della squadra di football. Mi chiamavano Tiger Bill, non è un nome carino? Avevo provato a entrare in squadra quand'ero matricola, e ritentato al secondo anno, ma mi avevano sempre scartato. Troppo magro per la mischia, troppo lento per il resto. Però il football mi piaceva, e siccome i miei erano spiantati e non avevo mai i dieci centesimi per comprare il biglietto, feci in modo di diventare assistente allenatore. Suona bene, a sentirlo, ma lo sai cosa vuo dire?»

Certo che lo sapevo. Nella mia vita da Jake Epping non ero il Signor Agente Immobiliare, bensì il Signor Insegnante delle Superiori, e certe cose erano sempre uguali. «Portavi l'acqua ai giocatori.»

«Già. Portavo l'acqua. E tenevo il secchio se qualcuno vomitava dopo aver corso intorno al campo sotto il sole o essersi preso una testata nelle palle. Ero anche quello che se ne andava per ultimo perché doveva raccogliere la roba rimasta in campo e tirar su le braghette sporche di merda dal pavimento dello spogliatoio.»

Un'altra smorfia. Immaginai il suo stomaco andare su e giù, come uno yacht su un mare in tempesta. Eccolo che sale… poi giù a capofitto.

«Insomma, un giorno di settembre del '34, o forse era ottobre, finisce l'allenamento e rimango lì solo soletto. Mentre giro col carrellino e tiro su le imbottiture, le fasce elastiche e tutta la roba che quelli lasciano sull'erba, chi ti vedo se non Chaz Frati che attraversa il campo a gambe levate, facendo cadere tutti i libri? Lo inseguiva un gruppo di ragazzi… Cristo, cos'era quello?»

Si guardò intorno, gli occhi spalancati sulla faccia bianca. Anche in quel momento, forse avrei potuto prendere la pistola, e sicuramente sarei riuscito ad afferrare la baionetta, ma non lo feci. Si portò la mano al petto. Non allo stomaco: al petto. Questo avrebbe dovuto farmi capire qualcosa, ma avevo troppe altre cose per la testa, non ultima la storia che stava raccontando. È la maledizione dei lettori: ci facciamo sedurre da una buona storia, anche nei momenti meno opportuni.

«Rilassati, Turcotte. Sono solo petardi. È Halloween, ricordi?»

«Non mi sento molto bene. Forse hai ragione, su quel virus…»

Non potevo permettermi che pensasse alla malattia. Se si fosse creduto in procinto di cedere, avrebbe potuto fare un gesto inconsulto. «Lascia perdere il virus, mi stavi raccontando di Frati.»

Sorrise. Su quel volto pallido, sudato e ispido, l'espressione risultò inquietante. «Il vecchio Chazzy corre come un mediano che tenta l'ultima azione mentre la partita sta finendo in pareggio, ma quelli riescono a raggiungerlo. Venti metri oltre la linea di fondo c'è un fossato, e quelli lo spingono giù. Ti stupirebbe sapere che uno di loro era Frankie Dunning?»

Scossi il capo.

«Lo bloccano là dentro, gli tirano giù le braghe, poi cominciano a spintonarlo di qua e di là, e a prenderlo a pugni. Io gli urlo di piantarla, il vecchio Frankie si gira verso di me e fa: 'Vieni e prova a fermarci, faccia di cazzo. Ti diamo il doppio di quello che si è preso lui'. Allora corro nello spogliatoio e dico ai giocatori che degli stronzi stanno picchiando un ragazzino, sperando che qualcuno esca e li blocchi. A quelli non frega niente di raddrizzare torti o roba del genere, ma a menare le mani son sempre disposti. Infatti corrono fuori, alcuni di loro hanno addosso solo le mutande. E vuoi sentire una cosa buffa, Amberson?»

«Certo.» Di nuovo guardai l'orologio. Ormai mancava un quarto alle sette. In casa Dunning, probabilmente Doris stava lavando i piatti, e forse ascoltava il notiziario della NBC.

«Sei in ritardo?» mi chiese Turcotte. «Cos'hai, un treno da prendere?»

«Mi stavi per dire una cosa buffa.»

«Ah, certo. Mentre correvano, cantavano l'inno della scuola. Che te ne pare?»

Mi immaginai otto-dieci ragazzi muscolosi correre sull'erba seminudi, con la voglia matta di fare un surplus di allenamento, intenti a cantare: «Forza Tigri, teniamo alta la bandiera…» Sì, qualcosa di buffo c'era.

Turcotte mi vide sorridere, e sorrise a sua volta. Un sorriso affaticato ma vero. «I giocatori hanno conciato per le feste due di quei tizi, ma non Frankie Dunning. Quando ha visto che gli altri erano di più, il cacasotto ha preso la via dei boschi. Chazzy era a terra, e si teneva il braccio. Gliel'avevano rotto, ma poteva andargli peggio. Poteva finire in ospedale. Uno dei giocatori lo vede e lo tocca con la punta della scarpa, come fosse una merda di vacca scansata per un pelo, e dice:

'Siamo corsi fino qui per salvare la cotenna a un ragazzotto ebreo?' E gli altri si mettono a ridere, perché era una specie di battuta, capisci? Cotenna, ebreo…» Mi fissò tra ciocche di capelli unti di Brylcreem.

«Sì, l'avevo capita.»

«E un altro fa: 'Be', chi se ne fotte! Ho spaccato un po' di culi e tanto basta!'

Poi se ne tornano allo spogliatoio, e io aiuto Chaz a uscire dal fosso. L'ho anche accompagnato a casa, perché avevo paura che svenisse o roba del genere. Temevo che Frankie e i suoi amici si rifacessero vivi, e lo temeva anche lui, ma l'ho accompagnato, chi cazzo sa il perché… Avresti dovuto vedere casa sua: una fottuta reggia! Dev'essere un business redditizio, quello del banco dei pegni! Quando siamo arrivati mi ha ringraziato, ed era sincero. Quasi si metteva a piangere. Io gli faccio: 'Figurati, è che non mi piace vedere sei contro uno'. Ed era vero. Ma lo sai quel che dicono degli ebrei: non dimenticano mai un debito o un favore.»

«E allora gli hai chiesto di scoprire cosa stessi facendo qui a Derry.»

«Oh, di quello mi ero già fatto un'idea, amico. Volevo solo esserne sicuro. Chaz mi ha detto di lasciar perdere, perché sembravi un tipo a posto. Ma quando si tratta di Frankie Dunning, io non lascio perdere niente. Nessuno scherza con Frankie Dunning. È mio

Ennesima smorfia, e tornò a massaggiarsi il petto. A quel punto capii.

«Turcotte, hai male allo stomaco o cosa?»

«Al petto. Lo sento tutto schiacciato.»

Non era una buona notizia, e il pensiero che mi attraversò la mente fu:

Adesso è anche lui nella calza di nylon.

«Siediti, prima di cadere.» Mi mossi verso di lui. Prese la pistola. La pelle tra i miei capezzoli (dove il proiettile sarebbe entrato) cominciò a prudermi terribilmente. Avrei potuto disarmarlo, pensai, ne ho avuto l'occasione. E invece no, dovevo sentire la sua storiella, sapere come andava a finire.

«Siediti, fratello. 'Rilasciati', come dice Bugs Bunny.»

«Ma se è un attacco di cuore…»

«Non è un fottuto attacco di cuore. Siediti.»

Obbedii e lo guardai appoggiarsi al garage. Le sue labbra avevano una sfumatura blu, non certo il colore della buona salute.

«Cosa vuoi da Dunning?» mi chiese. «È questo che voglio sapere. Anzi, che devo sapere, prima di decidere cosa fare di te.»

Pensai bene alla risposta da dare, come se la mia vita dipendesse da quella. E forse era proprio così. Non credevo che Turcotte potesse uccidere a sangue freddo, qualunque cosa pensasse lui al riguardo. In caso contrario, Frank Dunning sarebbe stato da tempo sottoterra, accanto ai suoi vecchi. Ma Turcotte aveva la mia pistola, e si sentiva male. Avrebbe potuto premere il grilletto per sbaglio. Qualunque forza interessata a mantenere le cose come stavano avrebbe potuto dargli una mano.

Se gli avessi risposto nel modo giusto, lasciando da parte tutte le stranezze, forse mi avrebbe creduto, per via di quel che già credeva. Di quel che, nel profondo del suo cuore, già sapeva.

«Sta per rifarlo.»

Fu lì lì per chiedermi che intendessi dire, ma poi capì. Sgranò gli occhi.

«Vuoi dire… lei?» Guardò in direzione della siepe. Solo in quel momento ebbi conferma che sapeva cosa ci fosse dall'altra parte.

«Lei, e non solo.»

«Anche uno dei bambini?»

«Non uno: tutti. In questo preciso istante si sta sbronzando da qualche parte.

Si carica la molla per uno dei suoi attacchi di collera. Sai meglio di me cosa vuoi dire. Solo che stavolta non ci sarà un 'dopo', non cercherà di nascondere le tracce. Non gliene frega più niente. Questo finale è scritto da tempo, dall'ultima sfuriata, da quando finalmente Doris si è stancata di prendere botte. Lo ha cacciato di casa, lo sapevi?»

«Lo sanno tutti. Adesso sta in una pensione in Charity Street.»

«Ha cercato di riconquistarla, ma con lei il suo fascino non funziona più. Doris vuole divorziare, lui ha capito che non può convincerla a parole e così le darà il divorzio, ma a martellate. E farà la stessa cosa coi bambini.»

Mi rivolse uno sguardo truce, baionetta in una mano e pistola nell'altra. Un vento forte ti soffierebbe via, gli aveva detto sua sorella anni prima, ma quella sera sarebbe bastato un refolo.

«Tu come fai a saperlo?»

«Non ho tempo di spiegarti, ma lo so, e sono qui per fermarlo. Quindi, ridammi la pistola e lasciami fare. Per tua sorella. Per tuo nipote. E anche perché, in fondo, sei una brava persona.» Erano cazzate, ma se proprio devi spararle, diceva mio padre, tanto vale spararle grosse. «Altrimenti perché avresti impedito a Dunning e ai suoi amichetti di pestare a morte Chaz Frati?»

Vidi che stava pensando, quasi sentii rumore di rotelle e ingranaggi. Poi negli occhi gli apparve una luce. Forse era solo l'ultimo scampolo di tramonto, ma a me ricordò le candele che in quel momento, in tutta Derry, bruciavano dentro zucche intagliate. Sorrise. Quel che disse dopo sarebbe potuto uscire solo dalla bocca di un uomo malato di mente, o che aveva vissuto a Derry troppo a lungo, o entrambe le cose.

«Dunque li ammazzerà. Bene, lasciamolo fare.»

«Cosa

Mi puntò contro la calibro 38. «Stai fermo lì, Amberson. Datti pace.»

Con riluttanza, restai al mio posto. Ormai erano le sette passate, e lui sembrava fatto d'ombra. «Turcotte… Bill… Tu stai male, e forse non capisci bene la situazione. In quella casa ci sono una donna e quattro ragazzini. La bambina ha solo sette anni, Cristo santo!»

«Mio nipote era molto più piccolo di lei», disse Turcotte, col tono di chi afferma una verità che spiega tutto. E giustifica tutto. «Io sto troppo male per affrontarlo, e tu non hai il fegato, per capirlo mi basta guardarti.»

Su quello si sbaglia, pensai. Avrebbe forse potuto dirlo di Jake Epping, l'insegnante di Lisbon Falls, ma quel tizio era cambiato. «Perché non mi lasci provare? Che danno ne avresti?»

«Perché anche se tu lo ammazzassi, non basterebbe. "L'ho appena capito. Mi è arrivato il pensiero come…» Fece schioccare le dita. «Come dal nulla.»

«È una cosa senza senso.»

«Ti sembra così perché non hai trascorso vent'anni a veder gente come Tony e Phil Tracker portare quel merdoso in palmo di mano. Vent'anni a vedere le donne che battono le ciglia davanti a lui manco fosse Frank Sinatra. Se ne andava in giro in Pontiac mentre io mi facevo il culo in sei fabbriche diverse per il minimo sindacale, e ormai non riesco quasi ad alzarmi dal letto la mattina, per colpa di tutte le fibre di tessuto che mi sono respirato.» Mano sul petto. Massaggio. Nel buio di quel cortile, al 202 di Wyemore Lane, il suo volto era solo una macchia bianca. «Ammazzarlo è troppo poco. Quell'incantafighe si merita una quarantina d'anni a Shawshank, dove se gli cade la saponetta mentre fa la doccia, avrà paura a chinarsi per raccoglierla. E dove l'unico liquore che avrà sarà uno squeeze andato a male.» Abbassò la voce. «E vuoi sapere un'altra cosa?»

«Cosa?» Mi sentivo raggelato.

«Quando tornerà lucido, loro gli mancheranno. Sarà straziato da quel che ha fatto. Rimpiangerà di non poter tornare indietro.» Ormai parlava quasi sottovoce, anzi, somigliava di più a un rantolo, rauco e liquido al tempo stesso. Dev'essere così la voce con cui i pazzi incurabili parlano a se stessi al manicomio, a notte fonda, quando i medici sono tornati a casa. «Forse la moglie non gli mancherà tanto, ma i bambini sicuramente sì.» Rise, poi fece una smorfia, come se la risata gli avesse fatto male. «Probabilmente mi hai raccontato un sacco di balle, ma sai una cosa? Spero di no. Aspettiamo e vediamo.»

«Turcotte, quei bambini non hanno colpe.»

«Non ne avevano nemmeno Clara e il piccolo Mikey.» Le sue spalle fatte d'ombra si alzarono e riabbassarono. «Che si fottano.»

«Non dirai davvero sul s…»

«Chiudi il becco. Aspetteremo.»

10

L'orologio che mi aveva dato Al aveva lancette fosforescenti. Con orrore e rassegnazione assistetti alla discesa della lancetta lunga sul fondo del quadrante, e all'inizio della sua risalita. Venticinque minuti all'inizio di Ellery Queen. Poi venti. Poi quindici. Tentai di parlare a Turcotte, ma mi ordinò di tacere. Continuò a massaggiarsi il petto, interrompendosi solo per il tempo necessario a prendere le sigarette dal taschino.

«Oh, quella è proprio una buona idea», dissi. «Ti farà senz'altro bene al cuore.»

«Tappati la bocca.»

Piantò a terra la baionetta e si accese la sigaretta con uno Zippo piuttosto malandato. Alla momentanea luce della fiamma, vidi gocce di sudore sulle sue guance, anche se la serata era fredda. Gli occhi sembravano affondati nelle orbite, e il viso ricordava un teschio. Aspirò il fumo, poi lo tossì fuori. Il suo esile corpo tremò, ma la pistola restò ferma dov'era: puntata contro il mio petto. In alto, le stelle brillavano. Mancavano dieci minuti alle otto. Da quant'era cominciato il telefilm quando Dunning aveva fatto irruzione? Nel suo tema, Harry non lo aveva specificato, ma probabilmente non da molto. Il giorno dopo non c'era scuola, ma Doris Dunning non avrebbe comunque lasciato uscire Ellen dopo le dieci, anche se in compagnia di Tugga e Harry.

Cinque minuti alle otto.

All'improvviso mi venne un'idea. Aveva la luminosità di una verità innegabile, e la espressi finché ancora risplendeva.

«Sei un senzapalle.»

«Cosa?» Turcotte si raddrizzò, come se avesse preso una pedata in culo.

«Hai sentito bene.» Gli feci il verso: «'Nessuno cazzeggia con Frankie Dunning a parte me. È mio.' Sono vent'anni che te lo ripeti, vero? E non hai ancora fatto un cazzo».

«Ti ho detto di stare zitto!»

«Anzi, ventidue. E non hai fatto un cazzo neanche mentre picchiava Chaz, eh? Sei scappato come una ragazzina, e hai chiamato i giocatori di football.»

«Erano in sei!»

«Certo, ma da allora Dunning si è trovato da solo parecchie volte, e tu non hai fatto niente, non hai neanche gettato una buccia di banana sul marciapiede sperando che scivolasse. Sei un codardo senza coglioni, Turcotte. Te ne stai nascosto come un coniglio nella tana.»

«Stai zitto!»

«Ti racconti quelle cazzate, dici a te stesso che il carcere sarebbe la peggiore punizione, così non devi fare i conti con…»

«Taci!»

«…il fatto che sei un vigliacco, uno che da più di vent'anni permette all'assassino di sua sorella di girare indisturbato.»

«Te lo dico per l'ultima volta!» Alzò il cane del revolver.

Mi diedi una pacca in mezzo al torace: «Avanti, fallo. Tutti sentiranno lo sparo, gli sbirri arriveranno, Dunning vedrà lo scompiglio e tornerà indietro, così sarai tu quello che finisce a Shawshank. Scommetto che anche là hanno una fabbrichetta, potrai lavorarci per dieci cent all'ora al posto del dollaro e mezzo che prendi adesso. Ma ti piacerà, vedrai, ti piacerà perché almeno non avrai il tempo di chiederti come mai per tutti questi anni sei rimasto a guardare. Se tua sorella fosse viva, ti sputerebbe in f…»

Allungò il braccio, con l'intenzione di premere la canna del revolver contro il mio petto, ma incespicò nella sua dannata baionetta. Scostai la pistola colpendola col dorso della mano, e in quel momento sparò. Il proiettile doveva aver colpito il terreno a meno di tre centimetri dalla mia gamba, perché sentii dei sassolini colpirmi i pantaloni. Afferrai l'arma e la puntai contro Turcotte. Ero pronto a sparargli al minimo tentativo di riprendersi la baionetta.

Si limitò ad accasciarsi contro il muro del garage. Si teneva entrambe le mani sul lato sinistro del petto, e ansimava come se stesse soffocando.

Da qualche parte, non lontano da lì (su Kossuth Street, non su Wyemore Lane), un uomo gridò: «Va bene divertirsi, ragazzi, ma al prossimo petardo io chiamo la polizia, regolatevi!»

Buttai fuori l'aria che avevo nei polmoni. Turcotte fece lo stesso, ma a bruschi sussulti. I rantoli continuarono mentre scivolava giù lungo il muro, fino a ritrovarsi disteso nella ghiaia. Presi la baionetta, feci per infilarmela in cintura, ma pensai che mi sarei solo squarciato una gamba al momento di attraversare la siepe: il passato stava lavorando duro, nel tentativo di fermarmi. Gettai la lama nel cortile buio, e sentii un rumore quando sbatté contro qualcosa, forse la casetta del cane.

«Ambulanza…» gemette Turcotte. I suoi occhi brillavano, forse erano bagnati di lacrime. «Per favore, Amberson. Fa male.»

Un'ambulanza. Buona idea. Ed ecco un dettaglio esilarante: vivevo nella Derry del '58 da quasi due mesi, ma ogni tanto mi infilavo la mano nella tasca destra dei calzoni, dove nell'altra vita tenevo il cellulare, almeno quando non portavo la giacca. Anche quella volta, le mie dita non trovarono nulla a parte qualche monetina e le chiavi della Sunliner.

«Mi spiace, Turcotte. Sei nato nell'epoca sbagliata per il pronto intervento.»

«Cosa?»

Secondo il mio Bulova, Ellery Queen era già in onda, per la gioia dell'America che l'aveva atteso con trepidazione. «Stringi i denti», dissi, e mi gettai nella siepe, la mano libera davanti al viso a proteggermi dai rami.

11

Inciampai nel recinto della sabbia dei bambini, caddi a terra e mi ritrovai faccia a faccia con una bambola dagli occhi vuoti, che indossava soltanto un diadema. Il revolver mi cadde di mano. Mi inginocchiai e tastai il terreno, temendo di non trovarlo più. Era l'ultimo espediente del passato inflessibile. Robetta da nulla, a paragone dell'epidemia di gastroenterite e dell'intervento di Bill Turcotte, ma efficace. Poi, proprio nel momento in cui vidi la pistola, sul limite del riquadro di luce proiettato dalla finestra, sentii un'auto discendere la strada. Si avvicinava rapidamente, nessun guidatore assennato avrebbe osato guidare così in una via piena di bambini in maschera e con le mani occupate da sacchetti. Seppi chi era prima ancora che si fermasse, facendo stridere i freni.

Lo spettacolo iniziava. Dentro casa, Doris Dunning sedeva sul divano con Troy, mentre Ellen gironzolava nel suo costume da principessa indiana, impaziente di uscire in strada. Troy le aveva appena detto che l'avrebbe aiutata a mangiare i suoi dolcetti. Ellen stava rispondendo: «Mettiti un costume e trovateli da solo». Tutti avrebbero riso, persino Harry, che stava in bagno per la pipì dell'ultimo minuto. Perché Ellen era una vera Lucille Ball, e faceva ridere tutti.

Abbrancai la pistola. Scivolò tra le mie dita sudate e ricadde nell'erba. Lo stinco che avevo sbattuto contro l'orlo del recinto urlava silenzioso. Dall'altra parte della casa, una portiera sbatté e passi rapidi salirono i gradini. Ricordo di aver pensato: Metti il catenaccio alla porta, mammina, non è solo il tuo incazzoso marito: è Derry stessa a salire i tuoi gradini.

Presi la pistola, riuscii ad alzarmi, inciampai nei miei stessi piedi e quasi caddi di nuovo, poi ritrovai l'equilibrio e corsi verso la porta sul retro. Sulla mia strada c'era la botola della cantina. Ci girai attorno, convinto che se ci fossi passato sopra avrebbe ceduto. L'aria stessa si era fatta densa, sciropposa, come se cercasse di rallentarmi.

A costo di morire, pensai. A costo di morire, e lasciar vivere Oswald, causando la morte di milioni di persone. Anche a quel prezzo. Perché adesso è adesso, e si tratta di loro.

Di sicuro la porta sul retro era chiusa a chiave. Ne ero così certo che quasi caddi all'indietro quando la maniglia si abbassò e la porta girò sui cardini. Entrai in una cucina che ancora profumava di arrosto. Il lavello era colmo di piatti. Sul ripiano c'era una salsiera, accanto a un vassoio di spaghetti freddi. Dal televisore giungeva una tesa colonna sonora di archi, quella che Christy chiamava «musica da omicidio». Molto appropriata. Sul ripiano c'era anche la maschera da Frankenstein che Tugga voleva indossare quella sera. Di fianco, il sacchetto di carta conn la scritta a pastello nero: DOLCETTI DI TUGGA – NON TOCCARE.

Nel suo tema, Harry aveva riportato la frase di sua madre: Esci di qui con quella cosa, tu non devi stare qui. Quello che le sentii dire mentre correvo sul linoleum, diretto verso il passaggio ad arco tra cucina e soggiorno, fu: «Frank? Cosa ci fai qui?» Poi alzò la voce: «Cos'è quello? Perché hai… Vattene subito!»

Dopodiché si mise a urlare.

12

Mentre passavo sotto l'arco, un bambino disse: «Tu chi sei? Perché la mia mamma sta urlando? C'è mio papà?»

Mi girai e vidi Harry Dunning, decenne, in piedi sull'uscio del piccolo bagno. Era vestito da Buffalo Bob e in una mano teneva il fucile ad aria compressa. Con l'altra si stava tirando su la cerniera. Poi Doris Dunning urlò di nuovo. Urlavano anche gli altri bambini. Ci fu un rumore – pesante, disgustoso – e l'urlo fu interrotto.

«No, papà, le fai maaaaaleee!» gridò Ellen.

Corsi in soggiorno e mi fermai a bocca aperta. Basandomi sul tema di Harry, avevo sempre pensato di dover fermare un tizio che agitava un martello di quelli che trovi nelle cassette degli attrezzi, ma non era quella la sua arma. La sua arma era una mazza da fabbro con una testa da dieci chili, e la maneggiava come fosse un giocattolo. Aveva le maniche rimboccate, e vidi i muscoli che si era fatto in vent'anni trascorsi a tagliare carne e spostare quarti di bue. Doris era a terra. Dunning le aveva già rotto il braccio (l'osso spuntava da uno strappo nella manica) e, a giudicare dalla pastura, slogato la spalla. Il viso di lei era pallido, l'espressione vacua. Stava strisciando sul tappeto di fronte alla Tv, coi capelli che le ricadevano sulla faccia. Dunning stava per calare di nuovo la mazza. Stavolta le avrebbe spappolato la testa, facendole schizzare il cervello sui cuscini del sofà.

Ellen si agitava come un piccolo derviscio, cercando di spingerlo indietro, verso la porta: «Basta, papà, basta!»

Lui la afferrò e sollevò per i capelli, poi la lanciò via, mentre le piume le volavano via dal copricapo. Colpì la sedia a dondolo e la rovesciò.

«Dunning!» gridai. «Fermati subito!»

Si girò a guardarmi con occhi rossi e umidi. Era ubriaco. Stava piangendo. Muco gli scendeva dalle narici, bava gli colava dal mento. La sua faccia era uno spasmo di collera, dolore e sorpresa.

«E tu chi cazzo sei?» mi chiese, poi mi attaccò senza attendere una risposta. Tirai il grilletto del revolver, pensando: Stavolta non funzionerà. È una pistola di Derry e non funzionerà.

E invece sparò. Il proiettile gli entrò in una spalla. Una rosa rossa fiorì sulla camicia bianca. Il colpo lo sbilanciò per un momento, ma poi riprese a camminare e sollevò la mazza. Il fiore rosso si allargò, ma lui non sembrava sentire il dolore.

Tirai di nuovo il grilletto, ma qu alcuno mi urtò e sbagliai il colpo. Era Harry. «Fermati, papà! Fermati o ti sparo!»

Arthur «Tugga» Dunning stava strisciando nella mia direzione, verso la cucina. Proprio mentre Harry sparava col suo fucile (craac!), Dunning colpì la testa di Tugga. Sul viso del ragazzo calò un sipario di sangue. Frammenti di cranio e ciocche di capelli volarono per la stanza. Schizzi di sangue imbrattarono il lampadario. Ellen e la signora Dunning urlavano, urlavano, urlavano.

Ritrovai l'equilibrio e sparai un terzo colpo. Il proiettile squarciò la guancia destra di Dunning fino all'orecchio, eppure non lo fermò. Non è umano, fu il mio pensiero in quel momento, ed è il mio pensiero anche oggi. Nei suoi occhi piangenti e nella bocca digrignante (sembrava masticare l'aria anziché respirarla) vedevo solo un agitato vuoto.

«Chi cazzo sei?» ripeté. «Questa è violazione di domicilio!»

Roteò la mazza in orizzontale, puntando dritto alla mia faccia. Piegai le ginocchia e mi abbassai, e anche se l'enorme maglio parve mancarmi del tutto (non sentii alcun dolore, non in quel momento), un'onda di calore mi invase la fronte. La pistola mi cadde di mano, colpì la parete e rimbalzò in un angolo. Qualcosa di caldo scendeva su un lato del mio volto. Ero conscio del fatto che la mazza mi avesse toccato quel tanto che bastava a farmi uno squarcio in testa di dieci centimetri? Capivo che per pochi millimetri non ero svenuto o morto? Non lo so. Tutto quel che ho appena descritto accadde in meno di un minuto, forse in soli trenta secondi. La vita è un lancio di monetina, e quando la monetina è in aria, ruota velocemente.

«Scappa!» gridai a Troy. «Prendi tua sorella e scappa! Cerca aiuto! Urla con tutta la vo…»

Dunning calò di nuovo la mazza. Balzai indietro e il colpo affondò nella parete, liberando una nube di polvere d'intonaco che andò a unirsi al fumo degli spari. La TV era ancora accesa, si sentivano ancora i violini. La musica da omicidio.

Mentre Dunning tirava per estrarre il maglio dal muro, qualcosa volò accanto a me. Era il fucile Daisy ad aria compressa. Harry lo aveva lanciato. La canna colpì Frank Dunning nella guancia squarciata. Gridò per il dolore.

«Piccolo bastardo! Adesso ti ammazzo!»

Troy stava portando Ellen fuori di casa. Questo è buono, pensai. Ho cambiato almeno questo…

Ma in quel preciso istante, qualcuno riempì il vano della porta ed entrò barcollando, facendo cadere Troy Dunning e la bambina. Feci appena in tempo a vedere la scena, perché Frank aveva recuperato la sua arma e tornava all'attacco. Indietreggiai, e con una mano spinsi Harry in cucina.

«Esci da dietro, figliolo, io lo trattengo finché non…»

Frank Dunning urlò e si bloccò. All'improvviso, dal suo petto spuntò qualcosa. Fu come un gioco di prestigio. L'oggetto era talmente coperto di sangue che mi occorse un secondo per capire cos'era: la punta di una baionetta.

«Questo è per mia sorella, pezzo di merda», rantolò Bill Turcotte. «Questo è per Clara.»

13

Dunning andò giù, i piedi nel soggiorno e la testa in cucina. Ma non andò giù del tutto: la punta della baionetta si piantò nel pavimento e lo sostenne. Un piede scalciò, una volta sola, poi rimase immobile. Sembrava morto mentre faceva le flessioni.

Tutti urlavano. L'aria puzzava di polvere da sparo, intonaco e sangue. Doris barcollava verso il figlio morto con i capelli che le pendevano sul viso. Non avrei voluto che lo vedesse (la testa di Tugga era aperta in due fino alla mascella) ma non c'era modo di fermarla.

«La prossima volta farò meglio, signora Dunning», dissi con la voce rotta.

«Glielo prometto.»

Avevo sangue su tutta la faccia, dovetti strofinarlo via dall'occhio sinistro, per poter vedere da quel lato. Poiché non ero svenuto, non credevo che la ferita fosse grave, e sapevo che i tagli al cuoio capelluto sanguinano parecchio. Ma ero ridotto uno schifo, e se volevo che ci fosse una prossima volta, dovevo andarmene in fretta e senza farmi notare.

Prima di andare, però, dovevo parlare a Turcotte. Si era accasciato contro la parete; vicino ai piedi di Dunning, premendosi il petto e boccheggiando. La faccia era pallida come quella di un cadavere, a parte le labbra, viola come quelle di un bimbo che si è fatto una scorpacciata di mirtilli. Gli tesi la mano. La strinse come in preda al panico, ma negli occhi aveva un barlume di divertimento.

«Allora, Amberson, chi è il senzapalle?»

«Non tu», risposi. «Sei un eroe.»

«Già», ansimò. «La medaglietta puoi gettarla nella bara.»

Doris abbracciava il figlio morto. Dietro di lei, Troy camminava in tondo, stringendosi al petto la testa di Ellen. Non guardò verso di noi, non sembrava conscio della nostra presenza. La bambina gemeva.

«Andrà tutto bene», dissi, come se ne sapessi qualcosa. «Adesso ascoltami, perché è importante: dimentica il mio nome.»

«Quale nome? Non me l'hai mai detto.»

«Giusto. E… Hai presente l a mia macchina?»

«È una Ford.» Stava perdendo la voce, ma i suoi occhi fissavano ancora i miei. «Bella. Decappottabile rossa. Del '54 o '55.»

«Bene, tu non l'hai mai vista. Questa è la cosa più importante, Turcotte.

Stasera devo andare a sud, e mi toccherà prendere l'autostrada perché non conosco altre vie. Se riesco ad arrivare nel Maine centrale, sarò libero e tranquillo. Capisci cosa ti sto dicendo?»

«Mai visto la tua macchina», disse, poi fece una smorfia. «Cazzo, che male.»

Misi le dita sulla sua gola ispida. Il battito del cuore era rapido e irregolare.

Da lontano, arrivò il suono di sirene. «Hai fatto la cosa giusta.»

Roteò gli occhi. «Sì, all'ultimo momento. Chissà cosa avevo per la testa, dovevo essere impazzito. Senti, amico, se ti beccano, non dire a nessuno che io… Sai, che io…»

«Non lo farei mai. Ti sei occupato di lui, Turcotte. Era un cane pazzo, e lo hai abbattuto. Tua sorella sarebbe fiera di te.»

Sorrise, e chiuse gli occhi.

14

Entrai in bagno, presi un asciugamano, lo inzuppai nel lavandino e mi lavai la faccia insanguinata. Gettai l'asciugamano nella vasca, ne presi altri due e tornai in cucina.

Il ragazzino che mi aveva portato lì era in piedi sul linoleum sbiadito, vicino al fornello, e mi guardava. Anche se, probabilmente, aveva smesso di succhiarsi il pollice sei anni prima, adesso lo teneva in bocca. Aveva occhi sgranati e tristi, inondati di lacrime. Goccioline di sangue gli macchiavano guance e fronte, come fossero lentiggini. Quel ragazzo aveva appena vissuto un'esperienza traumatica, ma non sarebbe mai diventato Harry Saltarospo, né avrebbe mai scritto un tema che mi avrebbe fatto piangere.

«Lei chi è, signore?» mi chiese.

«Nessuno.» Gli passai accanto, diretto alla porta. Ma meritava più di questo. Le sirene erano più vicine. Mi girai e gli dissi: «Il tuo angelo custode».

Poi uscii nel cortile sul retro, in quella sera di Halloween del 1958.

15

Risalii Wyemore Lane fino alla Witcham, vidi luci blu intermittenti muoversi in direzione Kossuth, e continuai a camminare. Mi addentrai nel quartiere residenziale per altri due isolati, poi girai a destra, in Gerard Avenue. La gente era uscita sui marciapiedi e guardava in direzione delle sirene.

«Signore, sa cos'è successo?» mi chiese un tizio. Teneva per mano una Biancaneve in scarpe da tennis.

«Ho sentito dei ragazzi che tiravano petardi», risposi. «Forse hanno appiccato un incendio.»

Continuai a camminare e mi premurai di nascondergli il lato sinistro del viso, perché eravamo nei pressi di un lampione e la ferita alla testa sanguinava ancora.

Altri quattro isolati, e tornai sulla Witcham. A quella distanza da Kossuth Street, la via era buia e tranquilla. Le auto della polizia dovevano essere tutte sulla scena del crimine. Bene. Avevo quasi raggiunto l'incrocio tra la Grove e Witcham Street quando le ginocchia iniziarono a cedere. Mi guardai intorno, non vidi bambini a caccia di dolcetti, e sedetti sul ciglio della strada. Non potevo permettermi una pausa, ma ero costretto a prendermela. Avevo vomitato tutto il contenuto del mio stomaco, per tutto il giorno non avevo mangiato nulla a parte una cazzo di barretta (non ricordavo nemmeno se ero riuscito a finirla prima che arrivasse Turcotte), ed ero appena uscito da uno scontro durante il quale ero rimasto ferito (e dovevo ancora capire se in modo grave). Dovevo fermarmi e lasciare che il mio corpo si riprendesse, o sarei svenuto sul marciapiede.

Misi la testa tra le ginocchia e trassi una serie di respiri lenti e profondi, come mi avevano insegnato al corso della Croce Rossa che avevo frequentato da studente, per ottenere il certificato da bagnino. Continuavo a vedere la testa di Tugga Dunning esplosa per l'impatto con la mazza, e all'inizio la spossatezza peggiorò. Poi pensai a Harry, sporco del sangue di suo fratello ma per il resto incolume. E a Ellen, che non era in un coma da cui non sarebbe mai riemersa. E a Troy. E a Doris. Forse il braccio rotto le avrebbe fatto male per il resto della vita, ma almeno avrebbe avuto una vita.

«Ce l'ho fatta, Al», sospirai.

Ma cosa avevo fatto nel 2011? Cosa avevo fatto al 2011? Quelle domande dovevano ancora trovare risposta. Se, per via dell'effetto farfalla, fosse accaduto qualcosa di terribile, sarei potuto tornare indietro e cancellarlo. A meno che, in qualche modo, nel cambiare il corso delle vite dei Dunning non avessi cambiato anche quella di Al Templeton. E se il ristorante non si fosse più trovato al suo posto? Se, per esempio, Al fosse rimasto a Auburn? O, addirittura, non avesse mai aperto un ristorante? Non sembrava probabile. Eppure eccomi lì, seduto su un marciapiede del '58, col sangue che infradiciava il mio taglio di capelli del '58, e quant'era «probabile» una cosa del genere?

Mi rialzai, barcollando, e mi rimisi in cammino. Sulla mia destra, lungo Witcham Street, potevo vedere i lampi blu delle auto della polizia. Una folla si era assiepata all'incrocio con la Kossuth, ma mi davano le spalle. La chiesa dove avevo lasciato l'auto era proprio dall'altra parte della strada. Ormai nel parcheggio c'era solo la mia Sunliner, ma sembrava a posto. Nessun burlone di Halloween mi aveva sgonfiato le ruote. Poi vidi un rettangolo giallo infilato sotto un tergicristallo. Mi venne subito in mente l'Uomo con la Tessera Gialla, e sentii una stretta alle viscere. Presi il foglietto, e sospirai di sollievo quando lessi: Domenica mattina alle 9 unisciti ai tuoi amici e vicini per la funzione. I nuovi arrivati sono sempre benvenuti! E ricorda: la vita è la domanda, Gesù è la risposta.

«Credevo che la risposta fossero le droghe pesanti. Ora come ora, non mi dispiacerebbe averne un po'», borbottai mentre aprivo la portiera. Pensai al sacchetto di carta rimasto dietro il garage della casa in Wyemore Lane. Presto gli sbirri che ispezionavano l'area lo avrebbero trovato. Dentro avrebbero trovato alcune barrette, una bottiglietta di Kaopectate quasi vuota… e una scorta di mutande anticaghetta.

 

Mi chiesi che ne avrebbero pensato.

Ma non me lo chiesi a lungo.

16

Quando raggiunsi l'autostrada, ormai la testa mi doleva ferocemente, ma anche se fosse stata l'epoca dei negozi aperti ventiquattro ore su ventiquattro, forse non avrei osato farci un salto: il lato sinistro della mia camicia era rigido per il sangue rappreso. Per fortuna mi ero ricordato di fare il pieno.

Una volta sola provai a esplorare con le dita la ferita al capo, e fui ricompensato da una fitta che mi convinse a non ritentare.

Mi fermai all'area di servizio poco fuori Augusta. Erano le dieci passate e il posto era deserto. Accesi la luce nell'abitacolo e mi guardai le pupille nel retrovisore. Sembravano delle solite dimensioni, il che mi sollevò. Accanto al bagno degli uomini c'era un distributore di snack, e con dieci centesimi comprai una merendina al cioccolato farcita di crema. La trangugiai mentre guidavo, e il mal di testa diminuì sensibilmente.

Era passata mezzanotte quando giunsi a Lisbon Falls. Main Street era avvolta nell'oscurità, ma la Worumbo e la US Gypsum andavano a pieno regime. Vibranti e sbuffanti, gettavano nell'aria il loro tanfo e nel fiume i loro residui tossici. I grappoli di luci le facevano sembrare astronavi. Parcheggiai la Sunliner di fronte alla Kennebec Fruit Company, dove sarebbe rimasta finché qualcuno non ci avesse guardato dentro, notando le macchie di sangue sul sedile, sul volante e sull'interno della portiera. A quel punto avrebbe chiamato la polizia. Gli sbirri avrebbero cercato impronte nell'abitacolo, e forse avrebbero trovato le stesse già rilevate su un revolver Police Special calibro 38, rinvenuto a Derry sulla scena di un delitto. Forse il nome George Amberson sarebbe saltato fuori, prima a Derry e poi a Lisbon Falls. Ma se la buca del coniglio fosse stata dove l'avevo lasciata, George non si sarebbe lasciato dietro alcuna traccia, e le impronte appartenevano a un uomo che non sarebbe nato prima di altri diciotto anni.

Aprii il bagagliaio, presi la valigetta e decisi di lasciare tutto il resto. Per quel che ne sapevo, quella roba poteva finire rivenduta al Jolly White Elephant, il negozio di roba usata vicino alla Titus Chevron. Attraversai la strada, diretto verso la zaffata da drago della fabbrica, uno shat-HOOSH, shat-HOOSH che sarebbe andato avanti giorno e notte, per anni, fino al bel giorno in cui il liberismo dell'era Reagan avrebbe reso obsoleti i costosi tessuti americani.

L'essiccatoio era illuminato dal bagliore fluorescente che usciva dalle finestre della tintoria. Vidi la catena che separava l'edificio dal resto del cortile. Era troppo buio per leggere il cartello, e dall'ultima volta che l'avevo visto erano passati quasi due mesi, ma ricordavo cosa c'era scritto: VIETATO L'ACCESSO FINO A RIPARAZIONE DEL TUBO FOGNARIO. Nessuna traccia dell'Uomo con la Tessera Gialla (o Arancione).

Fari di auto inondarono il cortile, illuminandomi come una formica su un piatto. Apparve la mia ombra, lunga e affusolata. Rimasi immobile mentre si avvicinava un grosso furgone. Mi aspettavo che il conducente si fermasse, si sporgesse dal finestrino e mi chiedesse che cazzo ci facevo lì. Rallentò, ma non si fermò. Il tizio mi fece un cenno con una mano, io risposi allo stesso modo e il furgone proseguì verso la zona di carico. Sul cassone, decine di bidoni vuoti tintinnavano l'uno contro l'altro. Raggiunsi la catena, gettai una rapida occhiata intorno e ci passai sotto.

Camminai lungo il muro dell'essiccatoio, col cuore che batteva forte e la ferita che pulsava all'unisono. Stavolta non c'era nessun pezzetto di cemento a indicare il punto. Piano, mi dissi, piano. Il gradino è proprio… qui.

Ma non c'era. Sotto il mio piede che andava a tentoni c'era solo il piazzale.

Andai un poco oltre, ma continuai a non sentire nulla. Faceva abbastanza freddo da vedere il proprio fiato, ma un sudore leggero e appiccicoso mi ricopriva braccia e collo. Avanzai ancora, ma ero certo di essere andato troppo lontano. La buca del coniglio era svanita, oppure non c'era mai stata, il che significava che tutta la mia vita da Jake Epping (tutta quanta, dall'orticello con cui avevo vinto un premio alle elementari al romanzo lasciato incompiuto quand'ero al college, fino al matrimonio con una donna in fondo buona ma che aveva affogato nell'alcol l'amore che provavo per lei) era stata l'allucinazione di un folle. Ero sempre stato George Amberson.

Andai ancora un poco avanti, poi mi fermai, ansimante. Da qualche parte (forse nella tintoria, forse in uno dei reparti tessitura) qualcuno urlò: «Ti inculo di sbieco!» Sobbalzai, e sobbalzai ancora quando alla frase seguì una salva di risate.

Non c'è.

Svanita.

Forse mai esistita.

Provavo delusione? Terrore? Panico? A dire il vero, niente di tutto questo.

Piuttosto, una strisciante sensazione di sollievo. Quel che pensai fu: Potrei viverci, qui. Semplicemente. Felicemente, addirittura.

Ed era vero? Sì. Sì.

C'era puzza vicino alle fabbriche e nei luoghi pubblici dove tutti fumavano come matti, ma in molti posti l'aria aveva un profumo incredibilmente dolce. Incredibilmente nuovo. Il cibo aveva un buon sapore. Il latte ti arrivava direttamente sull'uscio. Dopo un periodo di lontananza dal mio computer, avevo acquisito abbastanza distacco da rendermi conto di quant'ero diventato dipendente dal fottuto arnese: passavo ore a leggere stupidi allegati alle mail e visitare questo o quel sito web, per lo stesso motivo che porta gli alpinisti a scalare l'Everest: «Perché c'è». Il mio cellulare non squillava mai perché non ce l'avevo più, il cellulare, e quella sì era stata una liberazione. Fuori dalle grandi città, la maggior parte dei caseggiati aveva ancora il telefono in comune, e in quanti, la sera, chiudevano a chiave la porta di casa? Pochissimi. Sì, avevano paura della bomba atomica, ma io ero tranquillo, pienamente consapevole che la gente del '58 sarebbe invecchiata e morta senza mai sentire che era esplosa una bomba A, se non nei test. Nessuno si preoccupava per il riscaldamento globale o aveva paura di terroristi suicidi che dirottavano aerei per scagliarli contro grattacieli.

E se la mia vita del 2011 non era stata un'allucinazione (e nel mio cuore lo sapevo), potevo ancora fermare Oswald. Semplicemente, non avrei mai saputo dell'esito ultimo, ma pensavo di poterne fare a meno.

OK. La prima cosa da fare era tornare alla Sunliner e andarmene da Lisbon Falls. Sarei arrivato fino a Lewiston, avrei trovato la stazione dei bus e comprato un biglietto per New York. Da lì avrei preso un treno per Dallas. O un aereo, cazzo, perché no? Avevo ancora un bel po' di contanti, e nessun impiegato di compagnia aerea mi avrebbe chiesto un documento d'identità. Dovevo solo sganciare i soldi per un biglietto, e la Trans World Airlines mi avrebbe dato il benvenuto a bordo.

Il sollievo per quella decisione fu tale che le mie gambe cedettero di nuovo.

La spossatezza non era al livello di quella di Derry, quando mi ero dovuto sedere, ma mi costrinse ad appoggiarmi al muro. Il mio gomito lo colpì e sentii un rumore, una specie di bang! ma ovattato. Una voce mi parlò dal nulla. Roca, quasi un ruggito. Una voce dal futuro.

«Jake? Sei tu?» La frase fu seguita da una raffica di secchi, tonanti colpi di tosse.

Stavo quasi per non rispondere. Avrei potutonon rispondere. Poi pensai a quanti anni di vita Al aveva investito in quel progetto. Io ero la sua ultima speranza.

Mi girai verso quei colpi di tosse e, a voce bassa, dissi: «Al? Parla. Conta». Oppure continua a tossire, avrei potuto aggiungere, ma mi sembrò una battuta crudele.

Iniziò a contare. Avanzai verso il suono di quei numeri, tastando a terra col piede. Dopo dieci passi (ben oltre il punto in cui mi ero arreso), la punta della scarpa fendette l'aria e, nello stesso tempo, trovò un ostacolo. Diedi un'ultima occhiata intorno. Presi l'ultima boccata di aria fetida e tossica, dopodiché chiusi gli occhi e iniziai a salire gradini che non vedevo. Sul quarto, l'aria fredda della sera lasciò il posto al tepore e all'odore di caffè e spezie. O almeno, questo valeva per la metà superiore del mio corpo. Dalla cintola in giù, sentivo ancora il freddo notturno.

Rimasi fermo, forse per tre secondi, metà nel presente e metà nel passato. Dopodiché, riaprii gli occhi, vidi la faccia angosciata, tirata e scavata di Al, e tornai nel 2011.

PARTE TERZA

Vivere nel passato

9

1

PENSAVO che non mi sarei più stupito di nulla, ma quando vidi quel che c'era accanto ad Al, mi cadde la mascella: una sigaretta accesa sul bordo di un posacenere. Mi avvicinai e la spensi: «Vuoi tossire fuori gli ultimi pezzi funzionanti di polmone?»

Non rispose. Forse non mi aveva nemmeno sentito. Mi stava fissando a occhi spalancati: «Cristo, Jake, chi è stato a farti lo scalpo?»

«Nessuno. Usciamo da qui prima che il fumo passivo mi ammazzi.» Dicevo per dire. Nelle settimane trascorse a Derry, mi ero abituato al puzzo delle sigarette. Presto avrei iniziato a fumare anch'io, se non fossi stato attento.

«Però lo scalpo te l'hanno fatto», disse. «È che tu non ti vedi. Hai un brandello di cuoio capelluto appeso a un orecchio e… quanto sangue hai perso? Un litro? Chi è stato?»

«A: meno di un litro. B: Frank Dunning. Se ho risposto alle tue domande, adesso ne ho io una per te. Hai detto che avresti pregato. Perché invece ti sei messo a fumare?»

«Perché ero nervoso. Tanto ormai non importa più. I buoi sono scappati dalla stalla.»

A quella constatazione, non seppi che rispondere.

2

Al si portò lentamente dall'altra parte del bancone, aprì un armadietto e ne trasse una scatola di plastica con sopra una croce rossa. Sedetti su uno degli sgabelli e guardai l'orologio. Aveva aperto la porta del ristorante alle otto meno un quarto. Quand'ero sceso nella buca del coniglio per riemergere nel Paese delle meraviglie, anno 1958, probabilmente erano le otto meno cinque. Al diceva che ogni viaggio durava esattamente due minuti, e l'orologio pareva dargli ragione: ero rimasto nel passato cinquantadue giorni, ma lì erano solo le 7:59 del mattino.

Al stava prendendo garza, cerotto e una bottiglia di acqua ossigenata.

«Abbassati, fammi vedere», disse. «Appoggia il mento sul ripiano.»

«L'acqua ossigenata puoi asciarla perdere, è successo quattro ore fa, si è asciugato, vedi?»

«Meglio essere sicuri», ribatté, poi mi incendiò il cocuzzolo del cranio.

«Aaaah!»

«Fa male, eh? Il taglio è ancora aperto. Vuoi che a curarti un'infezione in testa ci pensi qualche segaossa del '58, prima di partire per la Grande D? Dammi retta, compare, non ti conviene. Stai fermo… Tocca tagliare un po' di capelli, sennò il cerotto non si attacca. Grazie a Dio li hai tenuti corti.»

Zac - zac - zac. Poi al bruciore aggiunse la pressione (al danno la beffa, come suol dirsi): pigiò la garza contro il taglio e coprì tutto col cerotto.

«La garza puoi toglierla domani o dopodomani, ma è meglio se giri col cappello. Per un po' di tempo avrai un aspetto un po' spelacchiato, ma se i capelli non ricrescono, puoi sempre farti un riportino. Vuoi un'aspirina?»

«Sì. E una tazza di caffè. Puoi farne un po'?» dissi, pur sapendo che sarebbe stato un rimedio a breve termine. Quel che mi serviva era dormire.

«Sì, certo.» Accese la macchina del caffè, poi tornò a rovistare nella cassetta del pronto soccorso. «Sembri dimagrito.»

Senti chi parla, pensai. «Sono stato male. Mi sono preso una…» ma a quel punto mi interruppi.

«Jake, c'è qualcosa che non va?»

Stavo guardando le foto alla parete. Quand'ero sceso nella buca del coniglio, ce n'era una dove io e Harry Dunning mostravamo il suo diploma parificato.

Era svanita.

3

«Jake? Compare, che succede?»

Presi l'aspirina dal bancone, me la infilai in bocca e la inghiottii senza nemmeno un sorso d'acqua. Poi mi alzai e, con lentezza, mi avvicinai alla «parete delle celebrità». Ancora una volta, mi parve di essere fatto di vetro. Nel punto in cui, per due anni, era rimasta la foto mia e di Harry, adesso ce n'era una di Al che stringeva la mano a Mike Michaud, deputato del Secondo Distretto del Maine. Probabilmente Michaud stava facendo campagna per la rielezione, perché sul grembiule da CUOCO Al portava due spille. Una diceva: MICHAUD PER IL CONGRESSO, l'altra LISBON AMA MIKE. L'onorevole indossava una T-shirt arancione con il logo del Moxie, e mostrava all'obiettivo un succoso Fatburger.

Tolsi la foto dal chiodino: «Da quanto tempo sta appesa qui?»

Al la guardò, perplesso: «Mai vista prima. Dio sa se ho appoggiato Michaud nelle ultime due campagne elettorali (cazzo, io do il voto a qualunque democratico, se non l'hanno beccato a scoparsi le assistenti), e l'ho pure conosciuto di persona, nel 2008, ma è stato a Castle Rock, dopo un comizio. Qui nel ristorante non ci è mai venuto.»

«E invece sì, a quanto pare. Non è il tuo bancone, questo?»

Prese la foto tra le mani, ormai tanto magre da sembrare poco più che artigli, e la tenne di fronte al viso: «Sì, è il mio bancone.»

«Allora c'è davvero un effetto farfalla. Questa foto ne è la prova.»

La osservò con attenzione, sorridendo un poco. Per la meraviglia, pensai. O forse per lo spavento. Poi me la restituì e andò dietro il bancone a versare il caffè.

«Al? TI ricordi ancora di Harry, vero? Harry Dunning?»

«Certo che mi ricordo. Non è per lui che sei andato a Derry e ti sei quasi fatto staccare la testa?»

«Sì. Per lui, e per il resto della sua famiglia.»

«E a salvarli ci sei riuscito?»

«Tutti tranne uno. Suo padre ha ucciso Tugga prima che riuscissimo a fermarlo.»

«'Riuscissimo'? Tu e chi altri?»

«Ti racconterò tutto, ma prima devo andare a casa, ho bisogno di dormire.»

«Compare, non è che ci rimanga molto tempo.»

«Lo so bene», ribattei, e avrei potuto aggiungere: mi basta guardarti. «Ma sto morendo di sonno. Per me è l'una e mezzo di notte, e ho avuto…» La mia bocca si spalancò in uno sbadiglio. «Ho avuto una serataccia.»

«Va bene.» Portò il caffè. Una tazza intera per me, nero, e mezza tazza per lui, con abbondante aggiunta di panna. «Dimmi quel che puoi, mentre bevi questo.»

«Prima spiegami come fai a ricordare Harry se non ha mai fatto il bidello alla LHS e in tutta la sua vita non è mai venuto a mangiare un Fatburger. E poi, spiegami come fai a nonricordare che Michaud è stato qui, se quella foto dice il contrario.»

«Non puoi dare per scontato che Harry Dunning non viva comunque in città», disse Al. «Anzi, non puoi dare per scontato nemmeno che non faccia il bidello alla tua scuola.»

«Sarebbe un bel cazzo di coincidenza. Ho cambiato il passato di brutto, Al.

Con l'aiuto di un certo Bill Turcotte. Harry non è andato a stare dagli zii ad Haven, perché sua madre non è morta. Non sono morti nemmeno suo fratello Troy e sua sorella Ellen. E Dunning non ha mai ferito Harry col suo martello. Se, dopo tutti questi cambiamenti, Harry vivesse ancora a Lisbon Falls, sarei l'uomo più sbalordito del mondo.»

«C'è un modo per controllare», replicò lui. «In ufficio ho un computer. Vieni con me.» Mi fece strada, tossendo e ogni tanto reggendosi a questo o quel mobile. Portai con me la tazza di caffè. Al lasciò la sua sul tavolo.

«Ufficio» era una parola grossa per descrivere il bugigattolo poco più grande di un armadio a muro che si apriva su una parete della cucina. A stento riuscivamo a starei in due. Le pareti erano tappezzate di promemoria, licenze e direttive sanitarie statali e federali. Se la gente che spargeva battute e dicerie sul Famoso Catburger avesse visto tutte quelle scartoffie (compreso un certificato che attestava il massimo livello d'igiene, rilasciato dopo l'ultimo controllo dalla Commissione Ristorazione del Maine), forse avrebbe dovuto cambiare idea.

Il MacBook di Al stava su un banco come quello che avevo io alle elementari. Al si accasciò su una seggiolina proporzionata al banco, con un gemito di dolore e sollievo. «La scuola ha un sito web, giusto?»

«Certo che ce l'ha.»

Mentre aspettavamo che il laptop si avviasse, mi chiesi quante email si fossero accumulate in cinquantadue giorni d'assenza… Poi mi ricordai che erano passati solo due minuti. Che stupido. «Mi sa che sto perdendo la testa, Al.»

«So come ci si sente. Resisti, compare, tu… Aspetta, ci siamo. Diamo un'occhiata. Corsi… Programmi estivi… Insegnanti… Amministrazione… Personale.»

«Clicca l'ultimo.»

Accarezzò il touchpad, borbottò, annuì, cliccò, poi fissò lo schermo come un veggente che consulta la sua sfera di cristallo.

«E allora? Non tenermi in sospeso.»

Girò il computer per farmi vedere. Il titolo diceva: «I bidelli della LHS: i migliori del Maine!» La foto mostrava due uomini e una donna in piedi al centro della palestra. Sorridevano. Portavano tutti felpe dei Lisbon Greyhounds. Nessuno di loro era Harry Dunning.

4

«Ti ricordi di lui come bidello e studente delle serali perché sei sceso nella buca del coniglio», disse Al. Eravamo tornati al nostro tavolo. «E io lo ricordo perché pure io sono sceso nella buca, o perché stavo qui vicino.» Ci pensò sopra:

«Probabilmente è così. È una specie di radiazione. Anche l'Uomo con la Tessera Gialla la sente, dall'altra parte. Lo sai, lo hai visto anche tu».

«Adesso è l'Uomo con la Tessera Arancione.»

«Di che stai parlando?»

Di nuovo sbadigliai. «Se provassi a raccontartelo in questo momento, farei solo un gran casino. Ti accompagno a casa, poi ci vado anch'io. Mangerò qualcosa, perché ho una fame da lupi e poi…»

«Ti faccio io delle uova strapazzate.» Fece per alzarsi, ma si risedette di botto e cominciò a tossire. Ogni volta che inspirava emetteva un sibilo stridente e tremava in tutto il corpo. Qualcosa nella sua gola faceva rumore, come una carta da gioco fissata tra i raggi di una ruota di bicicletta.

Gli misi una mano sul braccio. «No, adesso tu vai a casa, prendi un po' delle tue medicine e ti riposi. Se ci riesci, dormi. Io lo farò di sicuro. Otto ore. Metterò la sveglia.»

Smise di tossire, ma sentivo ancora la carta da gioco sbatacchiata in fondo alla gola. «Sonno. Quello buono. Me lo ricordo. Ti invidio, compare.»

«Sarò di nuovo a casa tua stasera. Alle sette. No, facciamo alle otto, così riesco anche a controllare un po' di cose su Internet. Voglio essere sicuro che Salt Lake City non sia sprofondata sottoterra o qualcosa del genere, come conseguenza della nostra impresa.»

«E se tutto risulta a posto?»

«Tornerò indietro domani, e mi preparerò a fare quel che va fatto.»

«No», ribatté, «a disfare quel che va disfatto.» Mi strinse la mano. Le dita erano sottili, ma nella presa conservava un po' di forza. «Si tratta di questo. Trovare Oswald, impedirgli di fare la stronzata, e cancellargli dal muso quel ghigno gongolante.»

5

Quando avviai la macchina, per prima cosa cercai con la mano la leva del cambio e coi piedi la frizione, come sulla Ford. Quando le dita non strinsero che aria e il piede pestò solo il tappetino, mi misi a ridere. Non potei farne a meno.

«Che c'è?» Chiese Al dal sedile del passeggero.

Mi mancava la mia elegante Sunliner, ma a che valeva preoccuparmi? Presto l'avrei ricomprata. Rispetto alla volta precedente avrei avuto meno soldi (il deposito di duemila dollari alla Hometown Trust sarebbe scomparso nel riazzeramento), ma potevo trattare sul prezzo in modo più aggressivo.

Sentivo di poterlo fare. Sentivo di essere cambiato.

«Jake? Cos'è che ti fa ridere?»

«Niente, niente…»

Lungo Main Street cercai cambiamenti, ma c'erano gli stessi edifici, compresa la Kennebec Fruit Company che (come al solito) sembrava a due bollette non pagate dalla bancarotta. La statua di Capo Worumbo era ancora al suo posto nel parco cittadino, e la scritta nella vetrina del negozio di mobili Cabell's assicurava al mondo che NESSUNO HA PREZZI PIÙ BASSI DEI NOSTRI.

«Al, ti ricordi la catena? Quella che devi passarci sotto per arrivare alla buca?»

«Certo.»

«E il cartello che c'è appeso, lo ricordi?»

«Sì, quello che parla del tubo fognario.» Sedeva come un soldato che teme che la strada sia minata. Ogni volta che prendevamo una piccola buca o un dislivello, faceva una smorfia di dolore.

«Quando sei tornato da Dallas, dopo aver capito che eri troppo malato per farcela… Per caso il cartello era ancora là?»

«Sì», rispose, dopo averci pensato un momento. «Era ancora là. Strano, no? Chi è che ci mette quattro anni per aggiustare un tubo rotto?»

«Nessuno. Non in uno stabilimento dove i furgoni vanno e vengono tutto il giorno e tutta la notte. E allora perché non attira l'attenzione?» Scosse il capo. «Non ne ho idea.»

«Deve essere lì per impedire che qualcuno cada per sbaglio nella buca. Ma chi ce l'ha messo?»

«Non lo so. Non so nemmeno se è come dici tu.»

Girai nella via di casa sua, sperando di vederlo entrare sano e salvo e poi di riuscire a percorrere i chilometri restanti senza addormentarmi al volante. Ma avevo in mente un'altra cosa, e dovevo dirgliela. Se non altro, perché non si facesse troppe aspettative.

«Il passato è inflessibile, Al. Non vuole essere cambiato.»

«Lo so. Sono stato io a dirlo a te.»

«Sì, certo. Ma io sono arrivato a una conclusione: la resistenza a una singola azione è direttamente proporzionale all'alterazione del futuro che l'azione produrrebbe.»

Mi guardò. Le occhiaie erano più scure che mai, e gli occhi stessi risplendevano di dolore. «Puoi tradurre?»

«Cambiare il futuro della famiglia Dunning è stato più difficile che cambiare il futuro di Carolyn Poulin. In parte perché c'erano più persone coinvolte, ma soprattutto perché Carolyn sarebbe vissuta comunque. Invece, Doris Dunning e i suoi figli sarebbero morti… e uno di loro è morto lo stesso, anche se intendo rimediare.»

Lo spettro di un sorriso gli apparve sulle labbra: «Buon per te. La prossima volta, cerca di chinarti di più. Ti risparmierai una cicatrice imbarazzante, dove forse i capelli non ricresceranno».

Avevo un'idea anche su quello, ma non era il caso di parlarne. Entrai con l'auto nel suo vialetto. «Quel che sto dicendo è che potrei non riuscire a fermare Oswald. Almeno, non la prima volta.» Poi, con un risolino: «In fondo, ho sbagliato anche l'esame di guida, la prima volta».

«Pure io, ma non mi hanno fatto aspettare cinque anni per ripeterlo.»

Non aveva torto.

«Quanti anni hai, Jake? Trenta? Trentadue?»

«Trentacinque.» E di due mesi più vicino ai trentasei di quanto fossi stato un'ora prima, ma in fondo, tra amici, che volete che siano un paio di mesi?

«Se sbagliassi e ti toccasse ricominciare, al prossimo giro di giostra ne avresti quarantacinque. In dieci anni possono capitare un sacco di cose, specialmente se il passato gioca contro.»

«Lo so», dissi. «Guarda cos'è successo a te.»

«Mi è venuto un cancro ai polmoni perché fumavo, tutto qui.» E tossì, come per provare quel che aveva detto, ma nei suoi occhi vidi il dubbio, oltre al dolore.

«Probabilmente è così. Spero, che sia così. Ma è un'altra delle cose che non sappiamo e…»

La porta di casa di Al si spalancò. Una donna giovane e corpulenta corse verso di noi. Portava un camice verde e zoccoli bianchi. Vide Al curvo sul sedile del passeggero della Toyota, e aprì la portiera. «Signor Templeton, dov'era andato a ficcarsi? Sono venuta con le medicine, e quando ho visto che non c'era ho pensato…»

Al riuscì a sorridere. «So cos'ha pensato, ma sto bene. Non in forma smagliante, ma sto bene.»

La donna guardò me. «E a lei come viene in mente di portarlo in giro? Non vede quant'è debole?»

Certo che lo vedevo, ma non potevo dirle cosa avevamo fatto, così tenni la bocca chiusa e mi rassegnai a subire la ramanzina da vero uomo.

«Dovevamo parlare di una questione importante», intervenne Al. «Va bene? Ci siamo capiti?»

«Anche in questo caso non…»

Lui si alzò dal sedile. «Aiutami a entrare in casa, Doris. Jake deve andare.» Doris.

Come Doris Dunning.

Al non notò la coincidenza (di sicuro non si trattava d'altro, è un nome abbastanza comune), ma ugualmente sentii un rintocco nella mia testa.

6

Riuscii a tornare a casa, e stavolta fu il freno a mano della Sunliner quello che cercai invano. Mentre spegnevo il motore, pensai che, al confronto dell'auto con cui andavo in giro a Derry, la mia Toyota era solo una rabberciata, micragnosa, sgradevole e merdosa scatola di plastica e fibra di vetro. Entrai, feci per dare da mangiare al gatto, e vidi che il cibo nella sua ciotola era ancora fresco e umido. Certo: nel 2011 era lì da appena un'ora e mezzo.

«Mangia, Elmore. La Cina è piena di gatti affamati che morirebbero per una porzione di Friskies.»

Elmore mi diede l'occhiataccia che meritavo e se ne andò, passando dal suo sportellino. Misi nel microonde un paio di cene surgelate, pensando, come il mostro di Frankenstein che impara a parlare: Microonde buono, macchine moderne cattivo. Mangiai tutto, gettai le confezioni nella pattumiera e andai in camera da letto. Mi tolsi la camicia bianca del '58 (ringraziando Dio che Doris fosse troppo arrabbiata per notare le macchie di sangue), sedetti sul bordo del letto, mi tolsi le pratiche scarpe del '58, poi mi lasciai cadere all'indietro. Sono sicuro di essermi addormentato quand'ero ancora a mezz'aria.

7

Mi ero scordato di mettere la sveglia e avrei dormito fino a molto dopo le cinque, se Elmore non mi fosse saltato sul petto alle quattro e un quarto e non avesse iniziato a fiutarmi la faccia. Aveva finito la roba nella ciotola e faceva richiesta di un bis. Diedi altro cibo al felino, mi lavai la faccia con acqua fredda, poi mangiai una tazza di corn-flakes, pensando che sarebbero trascorsi giorni prima che i miei pasti tornassero al loro ordine abituale.

A pancia piena, entrai nel mio studio e accesi il computer. La prima cyber- fermata fu la biblioteca comunale. Al aveva ragione: avevano un database con tutte le annate del Lisbon Weekly Enterprise. Prima di poterle consultare dovevo diventare un Amico della biblioteca, cosa che mi costò dieci dollari, ma date le circostanze, mi sembrava un prezzo basso da pagare.

Il numero dell'Enterprise che cercavo recava la data del 7 novembre. A pagina 2, tra un articolo su un incidente stradale mortale e un altro su un sospetto incendio doloso, ce n'era uno intitolato «Polizia cerca uomo misterioso». L'uomo misterioso ero io. O meglio, il mio alter ego dell'epoca di Eisenhower. La decappottabile era stata trovata, le chiazze di sangue debitamente viste. Bill Titus aveva identificato la Ford: era quella che aveva venduto a un certo George Ambers on. Il tono dell'articolo mi commosse: semplice preoccupazione per quel che poteva essere successo a un tizio scomparso e forse ferito. Jeffery Dusen, della Hometown Trust Bank, mi descriveva come «Un signore educato e istruito». Eddie Baumer, il barbiere, diceva più o meno la stessa cosa. Non una tenue ombra di sospetto cadeva sul nome Amberson. Le cose sarebbero state diverse se mi avessero collegato a un certo caso sensazionale accaduto a Derry, ma nessuno l'aveva fatto, nemmeno nel numero della settimana dopo, dove ero ormai un semplice trafiletto nel bollettino della polizia: «Proseguono le ricerche del misterioso uomo del Wisconsin». Nel numero successivo, l'Enterpriseera già in fibrillazione per l'inizio delle feste, e George Amberson era scomparso del tutto dal giornale.

Ma io sono stato lì, pensai. Al aveva inciso il proprio nome su un albero. Il mio era inciso sulle pagine di un vecchio giornale. Me l'ero aspettato, ma avere la prova sotto gli occhi faceva comunque tremare i polsi.

Passai al sito del Derry Daily News. Accedere all'archivio mi costò molto di più (trentaquattro dollari e cinquanta), ma nel giro di pochi minuti mi rirovai di fronte il numero del l0 novembre 1958.

Uno si aspetterebbe che un crimine efferato conquisti il titolo più grande sulla prima pagina del giornale locale, ma a Derry (la Peculiare Cittadina) trattavano con discrezione le loro atrocità. Quel giorno, l'articolo principale riguardava il vertice di Ginevra in cui Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti dovevano discutere di un'eventuale messa al bando dei test nucleari. Seguiva un servizio su un prodigio degli scacchi, un quindicenne di nome Bobby Fischer.

Proprio in fondo, sulla sinistra (ovvero, sostengono gli esperti di media, nell'ultimo posto dove guardano i lettori, ammesso che ci guardino), c'era un pezzo intitolato «Raptus omicida causa 2 vittime». Secondo l'articolo, Frank Dunning, «esponente di spicco del commercio locale e attivo in molte campagne di beneficenza», era arrivato a casa della moglie da cui si stava separando «in stato d'ebbrezza», poco dopo le otto di venerdì sera. Dopo un'accesa discussione con la donna (che di certo io non avevo sentito… ed ero lì), Dunning l'aveva colpita con un martello, rompendole un braccio, poi aveva ucciso il loro figlio dodicenne, Arthur, che aveva cercato di difendere sua madre.

La storia proseguiva a pagina 12. Quando ci arrivai, mi accolse una foto del mio vecchio amico-nemico Bill Turcotte. Secondo l'articolo, «il signor Turcotte stava passando quando ha sentito urla provenire dalla casa dei Dunning». Era corso sull'uscio, aveva visto cosa stava succedendo in casa e aveva intimato a Dunning di «mettere giù quel martello». L'aggressore si era rifiutato. Alla cintura di Dunning, Turcotte aveva notato una fondina con un coltello da caccia, ed era riuscito a impadronirsene. Dunning gli era saltato addosso e c'era stata una colluttazione, durante la quale era stato accoltellato a morte. Pochi istanti dopo, all'eroico signor Turcotte era venuto un attacco di cuore.

Rimasi a contemplare quella vecchia foto (Turcotte, con un piede sul paraurti di una berlina fine anni Quaranta, sigaretta all'angolo della bocca) e a tamburellarmi le cosce con le dita. Dunning era stato colpito alla schiena con una baionetta, non con un coltello da caccia. Non ce l'aveva nemmeno, un coltello. La mazza da fabbro (che non era descritta come tale) era stata la sua unica arma. Possibile che la polizia avesse ignorato dettagli tanto evidenti? No, a meno che non fossero ciechi come Ray Charles. Eppure, nella Derry che ormai conoscevo, quella ricostruzione aveva senso.

Forse stavo sorridendo. L'articolo era talmente folle da risultare ammirevole. Tutto quel che non quadrava era fatto tornare a forza. L'ex marito ubriaco e pazzo, la famiglia terrorizzata e l'eroico passante (che ovviamente era lì per caso)… di che altro c'era bisogno? E nessuna menzione di un certo Uomo Misterioso presente sulla scena del crimine. Tutto molto derry-esco.

Diedi un'occhiata in frigo, trovai del budino al cioccolato e lo trangugiai in piedi, guardando il mio cortile. Presi in braccio Elmore e lo accarezzai finché non si dimenò per essere messo giù. Tornai al computer, pigiai un tasto per far sparire il salvaschermo, e guardai ancora la foto di Turcotte. L'eroe intervenuto a salvare una famiglia. L'eroe che, compiuta l'impresa, aveva avuto un infarto.

Infine, presi il telefono e chiamai il servizio abbonati.

8

Sull'elenco di Derry, al cognome Dunning, non c'era nessuna Doris, e nemmeno un Troy o un Harold. Come ultimo tentativo chiesi di Ellen, senza aspettarmi niente. Anche se fosse stata ancora in città, probabilmente portava il cognome del marito. Ma a volte i tiri dalla lunga distanza sono i più fortunati (Lee Harvey Oswald ne era il perfetto, malvagio esempio). Quando la voce elettronica mi comunicò il numero, mi colse tanto di sorpresa che non avevo nemmeno la penna. Per non dover ricominciare la trafila, spinsi il tasto l e chiamai il numero richiesto. Con più tempo per pensarci, forse non lo avrei fatto. A volte non vogliamo sapere, giusto? A volte sapere ci spaventa. Arriviamo fino a un certo punto, poi torniamo indietro. Invece, stoicamente, tenni la cornetta all'orecchio mentre a Derry un telefono trillava una, due, tre volte. Al quinto squillo sarebbe probabilmente scattata la segreteria, e io non volevo lasciare un messaggio. Non avevo idea di cosa dire.

Ma a metà del quarto, una donna disse: «Pronto?»

«Pronto, parlo con Ellen Dunning?»

«Be', dipende. Chi la desidera?» Suonava al tempo stesso guardinga e divertita. La voce era da fumatrice, e un po' insinuante. Se non avessi saputo quanti anni aveva, mi sarei immaginato una donna tra i trenta e i quaranta, anziché una quasi sessantenne. Era la voce, pensai, di una che la usava per lavoro. Una cantante? Un'attrice? Forse una comica, perché no? Ma a Derry, nessuna di quelle professioni sembrava probabile.

«Mi chiamo George Amberson. Ho conosciuto suo fratello Harry tanti anni fa. Sono tornato nel Maine, e ho pensato di provare a rimettermi in contatto.»

«Harry?» Sembrava sbigottita. «Oh, mio Dio! È successo nell'esercito?»

Nell'esercito? Pensai in fretta e decisi di no. Troppe potenziali trappole su quel sentiero.

«No, no, lì a Derry. Da ragazzini.» Mi venne l'ispirazione: «Giocavamo al centro ricreativo. Stesse squadre. Stavamo insieme un sacco».

«Be', mi dispiace darle la notizia, signor Amberson, ma Harry è morto.»

Per un momento restai senza parole, ma è una cosa che al telefono non ha senso, vero? Così tirai fuori: «Oh, cielo, mi dispiace davvero».

«È successo molto tempo fa. In Vietnam, durante l'Offensiva del Tet.»

Mi sedetti, in preda alla nausea. L'avevo salvato da una zoppìa e da un lieve ritardo… solo per togliergli una quarantina di anni di vita? Gran bel risultato. L'operazione è stata un successo, ma il paziente è morto.

Nel frattempo, però, lo spettacolo doveva continuare.

«E di Troy che mi dice? E di lei? A quei tempi era ancora una bambina, andava in bicicletta con le ruotine. E cantava. Cantava sempre.» Riuscii a emettere una risatina. «Dio, ci faceva impazzire tutti quanti.»

«Ormai canto solo alle serate karaoke del Bennigan's Pub, ma di parlare non mi sono mai stancata. Sono una conduttrice radiofonica alla WKIT di Bangor. Una deejay, insomma.»

«Ah. E Troy?»

«Troy vive la vida loca a Palm Springs. In famiglia, lui è quello ricco. Ha messo insieme un bel gruzzolo nel business dei computer. È partito da zero negli anni Settanta, e adesso va a pranzo con Steve Jobs.» Rise. Una risata bellissima. Avrei scommesso che gente da tutto il Maine orientale si sintonizzava solo per sentirla. Ma quando riprese a parlare, il suo tono era cambiato, e dalla voce era scomparso lo humour. Dal sole all'ombra, proprio così. «Signor Amberson, lei chi è veramente?»

«Che intende dire?»

«Faccio programmi in diretta tutti i week-end. Di sabato il mercatino dell'usato, roba tipo: 'Ciao Ellen, ho un motocoltivatore quasi nuovo, ma sono a corto di liquidi e accetto la migliore offerta sopra i cinquanta dollari'. Di domenica, invece, parlo di politica. La gente chiama per attaccare Rush Limbaugh o dire che Glenn Beck dovrebbe candidarsi alla presidenza. Conosco le voci della gente. Se lei fosse stato un amico d'infanzia di Harry, oggi avrebbe più di sessant'anni, ma non ce li ha. Direi che non può averne più di trentacinque.»

Cristo! Colpito e affondato. «La gente mi dice che a sentirmi sembro più giovane, e scommetto che lo dice anche a lei.»

«Bel tentativo», rispose asciutta, e all'improvviso sembrò più anziana. «Ho lavorato sodo per anni, per mettere quel po' di sole nella mia voce. E lei?»

Non mi venne in mente alcuna risposta, così rimasi zitto.

«Inoltre, nessuno si mette in cerca di qualcuno con cui giocava alle elementari. Non cinquant'anni dopo. Non succede e basta.»

Farei meglio a riattaccare, pensai. Ho avuto quel che cercavo, e anche di più. Adesso metto giù. Ma il ricevitore era come incollato al mio orecchio. Forse non sarei riuscito a chiudere nemmeno se avessi visto le tende del soggiorno prendere fuoco.

Quando parlò di nuovo, la sua voce tradì un'esitazione. «Tu sei… lui?»

«Non so di cosa…»

«C'era qualcun altro quella sera. Harry lo ha visto, e l'ho visto anch'io. Eri tu?»

«Che sera?» ma venne fuori qualcosa come: 'e fera, perché le labbra mi si erano intorpidite. Era come se qualcuno mi avesse infilato una maschera. Una maschera di ghiaccio.

«Harry parlava del suo angelo custode. Io penso che sia tu. E allora dove stavi?»

Adesso era lei a non farsi capire, perché si era messa a piangere.

«Signora… Ellen… Non capisco…»

«L'ho accompagnato all'aeroporto, quando sono arrivati gli ordini e la licenza era finita. Andava in Vietnam, e gli ho detto di stare attento. Lui mi ha risposto: ' Non preoccuparti, sorellina, ho un angelo custode che mi protegge, non ti ricordi?' E allora dove stavi quel sei febbraio del '68, signor Angelo? Dove stavi quando mio fratello è morto a Khe Sanh? Dov'eri quel giorno, figlio di puttana?»

Disse qualcos'altro, ma non capii. Ormai piangeva troppo forte, e io non volevo più ascoltare. Riattaccai.

Andai in bagno. Entrai nella vasca, tirai la tenda, misi la testa tra le ginocchia. Il mio sguardo era puntato sul tappetino di gomma a fiori gialli. Urlai. Una volta. Due volte. Tre volte. Ed ecco la parte peggiore: non solo avrei voluto che Al non mi avesse mai mostrato la buca, la stramaledetta buca del coniglio; avrei voluto vederlo morto.

9

Quando imboccai il vialetto di casa sua e vidi che le luci erano spente, mi colse una brutta sensazione. Sensazione che peggiorò nello scoprire la porta aperta.

«Al?» Niente.

Trovai l'interruttore e accesi la luce. Il soggiorno aveva il freddo lindore delle stanze pulite con regolarità ma poco vissute. Le pareti erano piene di foto incorniciate, quasi tutta gente che non conoscevo (parenti di Al, pensai), ma riconobbi la coppia del quadro appeso sopra il divano: John e Jacqueline Kennedy. Erano su una spiaggia, probabilmente a Hyannisport, e si stavano abbracciando. Nell'aria c'era pro fumo di Glade, ma non copriva l'odore di malattia che arrivava dal centro della casa. Da qualche parte, a volume molto basso, i Temptations cantavano My Girl: la luce del sole in una giornata nuvolosa, e roba di questo genere.

«Al? Sei lì?»

E dove altro poteva essere? Allo Studio 9 di Portland, intento a ballare la disco e abbordare universitarie? No, sapevo già cos'era successo. Avevo espresso un desiderio, e a volte i desideri vengono esauditi.

Cercai gli interruttori della cucina, li trovai e inondai la stanza con tanta luce fluorescente da poterci operare uno di appendicite. Sul tavolo c'era un portamedicine di plastica, di quelli che tengono una scorta settimanale di pillole. In genere sono abbastanza piccoli da stare in una tasca o una borsetta, ma quello era grande quasi quanto un tomo di enciclopedia. Lì accanto c'era un post-it con la scritta: Se si scorda le pillole delle 8, LA AMMAZZO CON LE MIE MANI!!! Doris.

My Girl terminò, e attaccò Just My Imagination. Seguii la musica e mi inoltrai nel tanfo di una camera di ammalato. Al era a letto. Sembrava in uno stato di relativa quiete. Una singola lacrima era scesa dall'angolo esterno di ciascun occhio chiuso. Le scie erano ancora ab bastanza umide da brillare nella luce. Il lettore multi-cd era sul comodino alla sua sinistra. C'era anche un biglietto, tenuto al suo posto da una bottiglietta di pillole. Non era granché, come fermacarte, dato che era vuota. Guardai l'etichetta: OxyContin, 20 mg. Raccolsi il biglietto:

 

Mi spiace, compare, ma non ne potevo più. Troppo dolore. Hai la chiave del ristorante e sai cosa fare. Non ingannare te stesso pensando di poter tentare una seconda volta. Troppe cose possono succedere. Fallo bene la prima volta. Forse sei incazzato con me, perché ti ho trascinato in questa storia. Al tuo posto, io sarei incazzato. Ma non rinunciare. Per favore, non farlo. La scatola di latta è sotto il letto. Dentro ci sono altri 500 dollari, più o meno, messi da parte nel passato.

Dipende da te, compare. Domattina, due ore dopo che Doris mi avrà trovato, è probabile che il proprietario metta il lucchetto al ristorante, quindi devi muoverti stasera. Salvalo, OK? Salva Kennedy, e tutto cambierà.

Per favore.

Al

 

Bastardo, pensai. Sapevi che potevo avere un ripensamento, e questo è il tuo modo di venirmi incontro, giusto?

Certo che avevo avuto un ripensamento. Ma pensare non è già scegliere. Se si era fatto l'idea che avrei rinunciato, be', aveva torto. Fermare Oswald? Certo. Ma, giunti a quel punto, Oswald era un obiettivo secondario, parte di un futuro nebbioso (strano modo di esprimersi, riferendosi al 1963, eppure appropriato). La mia priorità era la famiglia Dunning.

Arthur, detto Tugga. Potevo ancora salvarlo. E anche Harry.

Kennedy avrebbe potuto cambiare idea, avevadetto Al. Stava parlando del Vietnam.

E anche se Kennedy non avesse cambiato idea e ritirato le truppe, Harry si sarebbe forse trovato nello stesso posto nello stesso momento il 6 febbraio del '68? Non mi sembrava possibile.

«Ok,» dissi. «OK.» Mi chinai su Al e lo baciai su una guancia. Sentii la lieve salinità delle lacrime. «Dormi bene, compare.»

10

Tornato a casa, feci l'inventario di quel che c'era nella valigetta Lord Buxton e nello stiloso portafogli di struzzo. Avevo gli esaurienti appunti di Al sui movimenti di Oswald dopo il congedo dai marines, 1'11 settembre del '59. I miei documenti d'identità c'erano ancora. A contanti, ero messo meglio di quel che avevo temuto: sommando i soldi che avevo già con quelli extra che Al mi aveva lasciato, viaggiavo ancora sopra i cinquemila.

Nel congelatore c'erano degli hamburger. Ne cucinai un po' e li misi in un piatto per Elmore. Lo accarezzai mentre mangiava. «Se non torno, vai dai Ritter, nella casa accanto», gli dissi. «Si prenderanno cura di te.»

Elmore non prestò attenzione a quel che dicevo, ovviamente, ma sapevo che avrebbe fatto proprio così: i gatti conoscono l'arte della sopravvivenza. Presi la valigetta, andai alla porta e resistetti al breve ma forte impulso di correre in camera da letto e nascondermi sotto le coperte. Se fossi riuscito nel mio intento, al ritorno avrei ritrovato il mio gatto e la mia casa? E ammesso che la casa ci fosse ancora, sarebbe ancora stata mia? Non c'era modo di rispondere. Volete sapere una cosa buffa? Nemmeno la gente in grado di tornare nel passato sa cosa le riservi il futuro.

«Ehi, Oswald», 'mormorai. «Vengo a prenderti, pezzo di merda.»

Chiusi la porta, e uscii di casa.

11

Senza Al il ristorante era strano, perché sembrava che lui fosse ancora lì. Il suo fantasma, intendo dire. I volti sulla «parete delle celebrità» sembravano fissarmi indignati, chiedendosi che ci facessi lì, dicendomi che quello non era il posto per me, esortandomi a girare sui tacchi prima di spezzare la molla dell'universo. C'era qualcosa di particolarmente disturbante nella foto di Al e Mike Michaud, appesa dove prima c'era quella con me e Harry.

Entrai nella dispensa e mi incamminai a piccoli passi verso la parete. Fingi di cercare a luci spente l'ultimo gradino di una scala, aveva detto Al, ed è quel che feci.

Chiudi gli occhi, compare. È più facile.

Eseguii. Due passi, e sentii quel tonfo nelle orecchie. Il caldo mi accarezzò la pelle, la luce del sole baciò le mie palpebre chiuse. Sentii lo shat-HOOSH, shat- HOOSH dei telai meccanici. Era il 9 settembre 1958, due minuti prima di mezzogiorno. Tugga Dunning era ancora vivo, e il braccio di sua madre non era ancora rotto. A poca distanza da lì, nel posteggio della Titus Chevron, una bella decappottabile, una Ford Sunliner rossa, aspettava solo me.

Prima, però, dovevo pensare all'Uomo con la Tessera Gialla. Stavolta avrebbe avuto il dollaro che chiedeva, perché mi ero scordato di portare un mezzo pezzo. Passai sotto la catena e mi fermai il tempo necessario per mettermi in tasca una banconota.

Fu lì che rimase, perché quando girai l'angolo dell'essiccatoio, trovai l'Uomo con la Tessera Gialla steso sul cemento a occhi spalancati. Una pozza di sangue si allargava intorno alla testa. La gola era squarciata da un orecchio all'altro. In una mano aveva ancora il pezzo di bottiglia con cui aveva fatto il lavoro. Nell'altra teneva la tessera, quella che in teoria aveva a che fare con il «giorno del vale- doppio» al posto verde. La tessera, che era stata gialla e poi arancione, adesso era completamente nera.

10

1

PER la terza volta attraversai il parcheggio, non proprio correndo ma quasi. Toccai di nuovo il cofano della Plymouth Fury bianca e rossa. Un gesto scaramantico. Nelle settimane, mesi e anni a venire, avrei avuto bisogno di tutta la buona fortuna possibile.

Stavolta non entrai alla Kennebec Fruit Company, e non avevo alcuna intenzione di fare acquisti, né di vestiti né di auto. Ci avrei pensato il giorno dopo, o quello successivo, ma quello non era il momento giusto per essere un forestiero a Lisbon Falls. Presto qualcuno avrebbe trovato un cadavere nel cortile della fabbrica, e un estraneo sarebbe stato interrogato. I documenti di George Amberson non avrebbero retto a quella prova, soprattutto quando sulla sua patente c'era l'indirizzo di una casa che ancora non esisteva.

Raggiunsi la fermata dell'autobus proprio mentre giungeva, sbuffando, il Lewiston Express. Salii a bordo e allungai al conducente il dollaro che avevo preparato per l'Uomo con la Tessera Gialla. Dal portamonetine cromato che teneva in cintura, l'uomo estrasse una manciata d'argento. Infilai quindici cent nella macchinetta e andai a sedermi in fondo alla vettura, dietro due marinai brufolosi (probabilmente di stanza all'aeroporto militare di Brunswick). Parlavano di certe ragazze che speravano di vedere in uno strip club chiamato Holly. Vigorosi pugni sulle spalle e risate con risucchio facevano da punteggiatura alla loro conversazione.

Guardai la Route 196 passarmi accanto, quasi senza vederla. Continuavo a pensare all'uomo morto e alla sua tessera diventata nera. Volevo allontanarmi dall'inquietante cadavere il più rapidamente possibile, ma mi ero fermato un istante, per toccare la tessera. Non era cartone, come avevo sempre pensato. Non era nemmeno plastica. Forse celluloide… Solo che, al tatto, non pareva nemmeno quella. Sembrava pelle morta, come quella che tagli via da un callo. Sopra non c'era scritto niente. Almeno, nulla che io potessi vedere.

Al pensava che l'Uomo con la Tessera Gialla fosse un avvinazzato uscito di testa per colpa della disgraziata combinazione di alcol e prossimità alla buca. Non avevo messo in dubbio la sua ipotesi, finché non avevo visto la tessera divenire arancione. Adesso non solo la mettevo in dubbio: non ci credevo proprio. A ogni modo, chi era?

Un morto, ecco chi è. Nient'altro. Quindi lascialo perdere. Hai un sacco di cose da fare.

Quando passammo oltre il drive-in, tirai la cordicella per prenotare la fermata. Il conducente accostò al primo palo dipinto di bianco.

«Buona giornata», dissi all'uomo al volante mentre tirava la leva per aprire le porte.

«Non c'è niente di buono in questa giornata, a parte la birra che mi farò quando stacco», rispose, e si accese pure lui una sigaretta.

Pochi secondi dopo, eccomi sul ciglio ghiaioso della strada, con la valigetta in mano, mentre il bus ripartiva diretto verso Lewiston lasciandosi dietro una scia di fumo nero. Sul retro c'era un'insegna pubblicitaria: una casalinga teneva in una mano una luccicante stoviglia e nell'altra la Magica Paglietta SOS. Gli occhi blu, il sorriso a trentadue denti e le labbra cariche di rossetto davano l'idea di una donna sull'orlo di una catastrofica crisi di nervi.

Il cielo era sereno. Grilli cantavano nell'erba alta. Da qualche parte, una vacca muggì. Una brezza leggera soffiò via il tanfo di gasolio del bus. L'aria aveva un profumo dolce, e fresco, e nuovo. Mi incamminai verso il Tamarack, una passeggiata di trecento metri. Durante quel breve tratto, due diversi automobilisti rallentarono e mi chiesero se volevo un passaggio. Li ringraziai e dissi che era tutto a posto. E lo era veramente. Quando arrivai a destinazione, fischiettavo.

Settembre 1958, Stati Uniti d'America.

Uomo con la Tessera Gialla o no, era bello essere tornati.

2

Trascorsi il resto della giornata nella mia stanza, rileggendo per l'ennesima volta gli appunti di Al su Lee Harvey Oswald, stavolta concentrandomi sulle due pagine finali, intitolate «Conclusioni su come procedere». Cercare di guardare la TV, che in pratica aveva un canale solo, era un atto di teatro dell'assurdo, così quando giunse il tramonto andai al drive-in e pagai un biglietto speciale per clienti a piedi. Trenta centesimi. Di fronte al bar c'erano alcune sedie pieghevoli. Comprai un sacchetto di popcorn e una saporita bibita alla cannella chiamata Pepsol, e guardai La lunga estate calda in compagnia di altri appiedati, quasi tutti anziani che si conoscevano bene e chiacchieravano amabilmente. Stava per iniziare La donna che visse due volte, ma l'aria si era fatta gelida, e io non avevo una giacca. Tornai alla locanda e dormii profondamente.

Il mattino dopo, presi di nuovo la corriera e tornai a Lisbon Falls (niente taxi: dovevo controllare le spese, almeno per il momento). La prima tappa fu il Jolly White Elephant. Era presto, l'aria era ancora fresca e il beatnik era dentro, seduto su un consunto divano. Stava leggendo un numero di Argosy.

«Salve, amico.»

«Salve a lei. Vende valigie, vero?»

«Sì, ne tengo qualcuna. Non più di duecento o trecento, direi. Vada fino in fondo al magazzino e…»

«E guardo sulla destra», conclusi.

«Giusto. È già stato qui?»

«Tutti siamo già stati qui», replicai. «'Sto posto è grande come un campo di football.»

Rise. «Ganzo, fratello. Vada e si prenda la migliore.»

Presi la stessa valigia di pelle, poi attraversai la strada, e di nuovo comprai la Sunliner. Stavolta tenni duro, e la spuntai per trecento dollari. Quando ci fummo messi d'accordo, Bill Titus mi mandò da sua figlia.

«Lei non sembra di queste parti», disse.

«Vengo dal Wisconsin, ma sono nel Maine già da un po' di tempo, per affari.»

«Mi sa che lei non era a Lisbon Falls ieri, vero?» Quando risposi che non c'ero, fece una bolla col chewing-gum e proseguì: «Si è perso un bel po' di eccitazione. Hanno trovato morto un vecchio alcolizzato, vicino all'essiccatoio della fabbrica». Abbassò la voce. «Suicidio. Si è tagliato la gola con un pezzo di vetro. Se l'immagina?».

«È terribile», risposi, mentre infilavo nel portafogli la ricevuta della Sunliner. Soppesai nella mano le chiavi della macchina. «Era uno del posto?»

«Macché. Non aveva documenti. Probabilmente è arrivato nella contea su un vagone merci, così dice mio padre. Forse per la raccolta delle mele a Castle Rock. Il signor Cady, il commesso del negozio di liquori, ha detto a papà che il tizio è arrivato ieri mattina e ha tentato di comprare del vino, ma era ubriaco e puzzolente, e lo ha cacciato via. Poi dev'essere tornato alla fabbrica, a bere quel che gli era rimasto, e quando ha finito, ha rotto la bottiglia e si è tagliato la gola.» Poi ripeté: «Se l'immagina?»

Lasciai perdere il taglio di capelli (non ne avevo bisogno, a Derry li avevo tenuti corti), e saltai anche il passaggio alla banca, ma comprai di nuovo i vestiti al Mason's Menswear.

«Deve piacerle molto, quella tonalità di blu», commentò il commesso, e alzò la camicia in cima al mucchio. «Stesso colore di quella che ha addosso.»

Era quella che avevo addosso, ma non lo dissi. Avrei solo confuso lui e me.

3

Quel pomeriggio presi l'autostrada «l km al minuto». Giunto a Derry, non dovetti comprare un copricapo, perché mi ero ricordato di includere un bel cappello di paglia tra gli articoli acquistati al Mason's. Mi registrai alla Derry Town House, cenai nel ristorante, poi andai al bar e ordinai una birra a Fred Toomey. Stavolta non feci alcuno sforzo di coinvolgerlo in una conversazione.

Il giorno dopo affittai il mio vecchio appartamento in Harris Avenue, e anziché tenermi sveglio, il rumore degli aerei che atterravano mi fece da ninna nanna. L'indomani, mi recai al Machen's, il negozio di articoli sportivi, e dissi al commesso che mi interessava comprare una pistola perché ero nel business immobiliare e bla bla bla. Il commesso prese il mio revolver Police Special e mi disse che era ottimo per la difesa personale. Lo comprai e lo misi in valigetta. Pensai di passeggiare fino all'area da picnic di Kansas Street, per vedere Richie e Bevvie provare il loro ballo, ma mi resi conto che li avrei mancati. Rimpiansi di non aver consultato, durante il mio breve ritorno nel 2011, i numeri di fine novembre del Daily News. Avrei potuto sapere se avevano vinto il talent show.

Presi l'abitudine di farmi una birra al Lamplighter nel tardo pomeriggio, prima che il posto iniziasse a riempirsi. A volte ordinavo le frattaglie di aragosta.

Non vidi mai Frank Dunning, né cercai di farlo. Avevo un altro motivo per frequentare il locale. Se tutto fosse andato bene, presto sarei partito per il Texas, e prima di andare volevo mettere insieme un po' di soldi. Divenni amico di Jeff, il barista. Fu lui, una sera di fine settembre, a sollevare un certo argomento. Quello che avevo in programma di sollevare io stesso.

«Per chi tifi nelle World Series, George?»

«Per gli Yankees, ovviamente.»

«Proprio tu? Uno del Wisconsin?»

«Qui il campanilismo non c'entra niente. Quest'anno gli Yankees sono i predestinati.»

«Non succederà mai. I loro lanciatori sono vecchi. La difesa lascia a desiderare. Mantle ha le gambe pesanti. La dinastia dei 'cannonieri del Bronx' è finita. I Braves possono batterli in ogni partita.»

Risi. «Quello che dici ha senso, Jeffery, vedo che sei un esperto, ma ammettilo: detesti gli Yankees, come chiunque altro nel New England, e questo ti condiziona.»

«Vuoi mettere un po' di soldi dove hai già messo la bocca?»

«Certo. Qua la zampa. Ho fatto il voto di non spillare mai più di cinque dollari a un povero salariato. Affare fatto?»

«Affare fatto.» E ci stringemmo la mano.

«OK», dissi. «Ora che abbiamo sbrigato la faccenda, e già che parliamo di baseball e scommesse – i due grandi passatempi americani –, mi chiedevo se potessi indicarmi dov'è che si fa sul serio, qui in città. Per dirla in modo poetico, voglio piazzarne una grossa. Dammi un'altra birra, e prendine una anche tu.»

Pronunciai le ultime frasi con un forte accento del Maine, e Jeff rise mentre riempiva due boccali di Narragansett (avevo imparato a chiamarla «Nasty Gansett», schifosa Gansett: quando vai a Roma è meglio, per quanto possibile, parlare da romano).

Brindammo, e Jeff mi chiese cosa intendessi per «fare sul serio». Finsi di pensarci sopra, poi risposi.

«Cinquecento dollari?» esclamò. «Sugli Yankees? Quando i Braves hanno Spahn e Burdette? Per non dire di Aaron e 'Steady' Eddie Matthews? Tu sei pazzo.»

«Forse sì, forse no. Lo capiremo quando arriva ottobre, che dici? C'è o no qualcuno, qui a Derry, che accetta scommesse come questa?»

Sapevo già quel che avrebbe detto? No, non sono mica un indovino. La risposta mi stupì? Di nuovo: no. Perché il passato non è solo inflessibile: è anche in armonia con se stesso e col futuro. Ne avrei avuto prova diverse volte.

«Chaz Frati. Probabilmente lo hai visto qui. È proprietario di svariati banchi di pegni. Non lo definirei proprio un allibratore, ma si dà molto da fare durante le World Seri es, e anche durante i campionati scolastici di football e pallacanestro.»

«E tu pensi che prenderà la mia scommessa?»

«Ma certo. Ti darà la quotazione e tutto quanto. Però…» si guardò intorno, vide che il bar era ancora tutto per noi, ma parlò lo stesso sottovoce: «Non prenderlo in giro, George. Conosce certe persone. Gente che non scherza».

«Ho capito», risposi. «Grazie del consiglio. Anzi, guarda, contraccambio: quando gli Yankees vinceranno il campionato, puoi tenerti i tuoi cinque dollari.»

4

Il giorno dopo entrai al banco dei pegni di Chaz Frati (Pegni & prestiti in equità), dove mi trovai di fronte un'enorme signora dalla faccia di pietra. Doveva pesare un quintale e mezzo. Indossava un abito viola, una collana di perline colorate, e ai piedi gonfi portava mocassini. Le dissi che mi interessava discutere col signor Frati di un affare relativo allo sport, in cui era in ballo una grossa somma.

«In parole povere, una scommessa?» domandò.

«È per caso una poliziotta?»

«Certo», disse, mentre prendeva di tasca un cigarillo e lo accendeva con uno Zippo. «Sono J. Edgar Hoover, figliolo.»

«Va bene, signor Hoover, mi ha beccato. Sto parlando di una scommessa.»

«World Series o football locale?»

«Non sono del luogo, non saprei distinguere una tigre di Derry da un babbuino di Bangor. No, riguarda il baseball.»

La donna infilò la testa dietro una tenda alle sue spalle, offrendo alla mia vista quello che era certamente uno dei più grandi posteriori del Maine centrale, e gridò: «Ehi, Chazzie, vieni qui. C'è uno che vuol parlare con te».

Frati uscì dal retro bottega e baciò il donnone sulla guancia. «Grazie, amore.» Aveva le maniche rimboccate, e si vedeva la sirena sull'avambraccio.

«Posso esserle d'aiuto?»

«Spero di sì. Mi chiamo George Amberson.» Gli porsi la mano. «Vengo dal Wisconsin, e anche se il mio cuore sta coi ragazzi di laggiù, nelle World Series il mio portafogli sta con gli Yankees.»

Si girò verso lo scaffale alle sue spalle, ma la signora gli stava già porgendo quel che serviva: un consunto libro mastro con la scritta PRESTITI PERSONALI. Lo aprì e sfogliò, bagnandosi il dito con la saliva, fino a raggiungere una pagina bianca.

«Di quanta parte del suo portafogli stiamo parlando, amico?»

«Se puntassi cinquecento sugli Yankees vincenti, a quanto me li darebbe?» La donna grassa rise e sbuffò fuori il fumo.

«Vincenti? Alla pari, amico. Alla pari.»

«E al meglio delle sette partite, stessa somma?»

Ci pensò sopra, poi si girò verso la donna. Lei scosse il capo, sembrava ancora divertita. «Stessa storia. Se non mi credi, manda un telegramma a New York, controlla tu stesso.»

Sospirai e tamburellai con le dita su una vetrinetta piena di anelli e orologi.

«Va bene, che mi dice di questa? Cinquecento dollari sugli Yankees che rimontano da uno svantaggio di tre a uno.»

Frati rise. «Ha senso dell'umorismo, amico. Un momento, mi consulto con il capo.»

Lui e la donna grassa (accanto a lei, Frati sembrava uno gnomo di Tolkien) si consultarono sottovoce, poi lui tornò al bancone. «Se intende quel che penso io, la quotazione è quattro a uno. Ma se gli Yankees non rimontano dopo tre sconfitte, lei perde tutto il gruzzolo. Voglio solo che i patti siano chiari.»

«Sono chiarissimi», risposi. «E, non per offendere lei o la sua amica…»

«Siamo sposati», disse la grassona, «quindi non siamo amici.» E rise ancora.

«Non per offendere lei o sua moglie, ma quattro a uno è troppo poco. Otto a uno, questo sarebbe fare sul serio, per lei e per me.»

«Cinque a uno, e qui mi fermo», ribatté Frati. «Questa per me è un'attività secondaria, se vuol fare come a Las Vegas, vada a Las Vegas.»

«Sette a uno», rilanciai. «Andiamo, signor Frati, mi venga incontro.»

Lui e la grassona ripresero a confabulare, poi tornò da me e mi offrì una quotazione di sei a uno. Accettai. Era ancora bassa per una scommessa tanto folle, ma non volevo fargli troppo male. È vero che mi aveva ingannato per conto di Bill Turcotte, ma aveva i suoi motivi.

Inoltre, era successo in un'altra vita.

5

A quei tempi, il baseball si giocava come si dovrebbe giocare sempre: in pomeriggi assolati, e in giornate d'inizio autunno quando ancora sembra tarda estate. La gente si radunava di fronte al negozio di elettrodomestici Benton's, nella Città Bassa, per guardare la partita su tre televisori Zenith da ventun pollici, posati su piedestalli nella vetrina. Sopra di essi c'era un cartello con la scritta: PERCHÉ GUARDARE LA PARTITA IN STRADA QUANDO PUOI FARLO A CASA TUA? CREDITO AGEVOLATO!

Oh, sì. Credito agevolato. Ecco una cosa che mi ricordava l'America in cui ero cresciuto.

Il primo giorno d'ottobre, i Milwaukee Braves batterono gli Yankees l a 0, trascinati dai lanci di Warren Spahn. Il giorno dopo, i Braves seppellirono gli Yankees 13-5. Il 4 ottobre, quando si tornò a giocare a New York, Don Larsen eliminò quattro battitori dei Braves, con un po' di aiuto da parte di Ryne Duren, che non aveva la minima idea di dove sarebbe andata la palla dopo essersi staccata dalla sua mano, e di conseguenza fece cagare sotto gli avversari che si trovò di fronte. Insomma, il perfetto lanciatore di rilievo.

Ascoltai la prima parte della partita alla radio, nel mio appartamento, e guardai gli ultimi due inning con la folla di fronte al Benton's. Alla fine, andai al drugstore di Keene e comprai il Kaopectate (probabilmente la stessa bottiglietta della spedizione precedente). Ancora una volta Keene avanzò l'ipotesi che mi fossi preso il virus. Quando gli dissi che stavo bene, il vecchio stronzo parve deluso, ma io stavo bene davvero. Non credevo che il passato mi avrebbe lanciato palle curve come quelle di Ryne Duren, però pensavo fosse meglio premunirsi.

Uscendo dal negozio, il mio sguardo fu attratto da un espositore con il cartello PORTA A CASA UN PEZZETTO DI MAINE! C'erano cartoline, aragoste di plastica gonfiabili, sacchetti profumati di aghi di pino, miniature della statua di Paul Bunyan e piccoli cuscini ornamentali con la cisterna (una torre-serbatoio che conteneva l'acqua potabile della città). Ne comprai uno.

«È per mio nipote a Oklahoma City», dissi al signor Keene.

Gli Yankees avevano già vinto la terza partita delle Series quando raggiunsi la stazione di servizio Texaco, sulla Harris Avenue Extension. Di fronte alle pompe di benzina c'era il cartello MECCANICO IN SERVIZIO 7 GG. SU 7 – AFFIDA L'AUTO ALL'UOMO CON LA STELLA.

Mentre il benzinaio riempiva il serbatoio e lavava il parabrezza della Sunliner, io entrai nell'officina, mi presentai a un meccanico di nome Randy Baker e feci una piccola trattativa con lui. Baker era perplesso, ma accettò la mia proposta. Venti dollari cambiarono proprietario. Mi diede il numero dell'officina e quello di casa sua. Ripartii con il pieno, il parabrezza pulito e la mente soddisfatta. Relativamente soddisfatta. Era impossibile prepararsi a ogni evenienza.

A causa dei preparativi per il giorno seguente, feci un salto al Lamplighter più tardi del solito, ma non correvo il rischio di imbattermi in Frank Dunning: era a Orono coi figli, a vedere la partita di football, e al ritorno si sarebbero fermati al

Ninety-Fiver, per un piatto di vongole fritte e un milkshake.

Chaz Frati era al bar. Stava bevendo whisky di segale con acqua a parte.

«Spera che domani vincano i Braves, o hai perso cinquecento dollari, amico», esordì.

Avrebbero vinto eccome, ma avevo altre cose per la testa. Sarei rimasto a Derry fino al momento di riscuotere i tremila dollari, ma i miei veri affari intendevo concluderli il giorno dopo. Se le cose fossero andate come speravo, avrei chiuso con Derry prima che i Braves segnassero il punto (l'unico) necessario a vincere il sesto inning.

«Be'», dissi, mentre ordinavo una birra e frattaglie d'aragosta, «non resta che stare a vedere.»

«Esatto, amico. È il bello delle scommesse. Ti spiace se ti chiedo una cosa?»

«No. Basta che non ti offendi se non rispondo.»

«È questo che mi piace di te, amico: sei spiritoso. Dev'essere una cosa del

Wisconsin. Ecco la mia curiosità: che ci fai nella nostra bella cittadina?»

«Business immobiliare. Mi sembrava di avertelo detto.»

Si chinò verso di me. Fiutai brillantina sui capelli impomatati e mentina nel suo alito. «Se ti dico 'possibile sede di centro commerciale', faccio bingo?»

Poi continuò a parlare, ma quel che disse lo sapete già.

6

Ho detto che stavo alla larga dal Lamplighterquando pensavo che potesse esserci Frank Dunning, perché di lui sapevo già tutto quel che mi serviva. È la verità, ma non tutta la verità. Devo chiarire. Se non lo faccio, non capirete mai perché in Texas mi sia comportato nel modo che vedrete.

Immaginate di entrare in una stanza e vedere un complicato castello di carte. La vostra missione è buttarlo giù. Se si trattasse solo di questo sarebbe facile, no? Un pestone col piede sul pavimento o un vigoroso soffio (come quando spegnete le candeline del compleanno) basterebbero a fare il lavoro. Ma non si tratta solo di questo: voi dovete abbattere il castello di carte in un momento preciso. Fino ad allora, deve restare in piedi.

Sapevo dove si sarebbe trovato Dunning nel pomeriggio di domenica 5 ottobre 1958, e non volevo rischiare di deviarne i1 percorso, anche con un'inezia. Persino incrociare il suo sguardo al Lamplighter avrebbe potuto cambiare le cose. Potete sbuffare, dire che sono stato fin troppo prudente. Potete dire che una simile quisquilia non avrebbe deviato alcunché. Ma il passato è fragile come un'ala di farfalla. O un castello di carte.

Ero tornato a Derry per abbattere il castello di Frank Dunning, ma fino al momento giusto dovevo proteggerlo.

7

Augurai a Chaz Frati la buonanotte e tornai al mio appartamento. La bottiglietta di Kaopectate era nell'armadietto del bagno, e il mio nuovo cuscino con la cisterna ricamata a filo d'oro era sul tavolo della cucina. Presi un coltello dal cassetto delle posate e con cura tagliai il cuscino in diagonale, poi ci misi dentro il revolver, ficcandolo bene nell'imbottitura.

Non ero sicuro di riuscire a dormire, ma lo feci, e come un ghiro. «Fai del tuo meglio e confida in Dio» era una delle tante massime che Christy portava a casa dai raduni degli AA. Non so se esista un Dio (la giuria di Jake Epping deve ancora pronunciarsi sul caso), ma quando andai a letto quella sera ero abbastanza sicuro di aver fatto del mio meglio. Non mi restava che dormire un po' e sperare che il mio meglio bastasse.

8

Niente gastroenterite. Stavolta mi svegliai all'alba col più debilitante mal di testa della mia vita. Un'emicrania, supponevo. Non lo sapevo per certo, perché non ne avevo mai avuta una. Guardare in direzione di una luce anche fioca produceva una terribile fitta che andava dalla nuca alle cavità frontali. I miei occhi lacrimavano stolidamente.

Anche conciato in quel modo mi alzai, inforcai un paio di occhiali da sole comprati in una sosta del viaggio da Lisbon Falls a Derry, e presi cinque aspirine. Mi aiutarono quel tanto che bastava per riuscire a vestirmi e indossare il soprabito. Ne avrei avuto bisogno: la mattinata era fredda e grigia, e minacciava di piovere. Per un certo verso, era una fortuna. Non so come sarei sopravvissuto alla luce del sole.

Avevo bisogno di radermi, ma lasciai perdere. Pensai che starmene in piedi sotto una luce forte (per giunta raddoppiata dal riflesso nello specchio) avrebbe, semplicemente, causato la disintegrazione del mio cervello. Non riuscivo a immaginare come avrei affrontato la giornata, quindi evitai di pensarci. Un passo alla volta, mi dissi, e lentamente scesi le scale. Con una mano mi reggevo alla balaustra, nell'altra tenevo il cuscino. Dovevo avere l'aria di un bambino troppo cresciuto che stringe il proprio orsacchiotto. Un passo alla vo…

La balaustra cedette.

Oscillai in avanti, con la testa che scoppiava, le braccia che si agitavano nell'aria. Lasciai cadere il cuscino (la pistola che c'era dentro fece un rumore metallico), e cercai di afferrarmi a qualcosa. Un istante prima che l'oscillazione diventasse un capitombolo da rompersi l'osso del collo, le mie dita si aggrapparono a uno degli antiquati reggilampada avvitati al muro. Si staccò, ma il filo elettrico resse quel che bastava a farmi ritrovare l'equilibrio.

Sedetti sui gradini con la testa pulsante tra le ginocchia. Il dolore andava a tempo con il martellante battito del cuore. Gli occhi lacrimanti sembravano troppo grandi per le loro orbite. Potrei dirvi che avrei voluto strisciare fino al mio appartamento e rinunciare all'impresa, ma non sarebbe la verità. La verità è che avrei voluto morire, proprio lì, sulle scale, e farla finita. Esiste gente che ha simili mal di testa non una volta ogni tanto, bensì regolarmente? Se esiste, che Dio l'aiuti.

Solo una cosa poteva rimettermi in piedi, e mi sforzai perché il mio cervello dolorante non si limitasse a pensarla, ma la vedesse: la faccia di Tugga Dunning improvvisamente cancellata mentre strisciava verso di me. Il suo cuoio capelluto e le cervella che volavano nell'aria.

«OK», dissi. «Sì, OK.»

Raccolsi il cuscino e scesi le scale barcollando. Uscii in una giornata nuvolosa che per me era luminosa come un pomeriggio sahariano. Cercai le chiavi. Non erano in tasca. Al loro posto, un buco nella stoffa. La sera prima non c'era, ne ero quasi sicuro. Mi girai a piccoli, cauti passi. Le chiavi erano sotto il portico, con alcune monetine. Mi chinai, stringendo i denti mentre, nella scatola cranica, un peso piombato slittava in avanti. Le raccolsi e arrivai alla Sunliner. Quando girai l'accensione, la mia Ford, che fino a quel momento era stata affidabile, rifiutò di avviarsi. Si sentì solo un clic provenire dal motorino d'avviamento, e basta.

Mi ero preparato a quell'eventualità, ma. non a trascinare la mia testa piena di veleno di nuovo su per le scale. Mai nella mia vita ho desiderato più ardentemente il mio Nokia. Con quello, avrei potuto chiamare dall'auto, e attendere a occhi chiusi che arrivasse Randy Baker.

In qualche modo, riuscii a risalire le scale, oltre la balaustra rotta e la lampadina penzolante contro l'intonaco sgretolato, simile alla testa di un morto su un collo spezzato. All'officina non rispose nessuno (era presto, ed era domenica), quindi feci il numero di casa di Baker.

Probabilmente sarà morto, pensai. Avrà avuto un infarto nel cuore della notte. Ucciso dal passato inflessibile, con la segreta complicità di Jake Epping.

Il mio meccanico non era morto. Rispose al secondo squillo, la voce impastata di sonno, e quando gli dissi che la mia auto non partiva, fece la più logica delle domande: «Come faceva a saperlo già ieri?»

«Sono bravo a indovinare le cose», dissi. «Venga il prima possibile, OK? Ho altri venti dollari per lei, se riesce a rimetterla in moto.»

9

Baker sostituì il cavo della batteria che si era misteriosamente staccato nella notte (forse nello stesso momento in cui il buco appariva nella tasca dei miei calzoni), ma la Sunliner non partiva. Controllò le candele e scoprì che due erano molto corrose. Aveva i ricambi nella sua grande cassetta degli attrezzi, e quando furono al loro posto, il mio cocchio tornò a ruggire.

«Forse non sono affari miei, ma l'unico posto dove dovrebbe andare adesso è a letto. O dal dottore. È pallido come un fantasma.»

«È solo un'emicrania. Passerà. Guardiamo nel cofano, voglio controllare la ruota di scorta.»

La controllammo. Era sgonfia.

Lo seguii fino alla stazione Texaco sotto una pioggia leggera. Le macchine che incrociavamo avevano le luci accese, e persino con gli occhiali da sole, ogni paio di fari sembrava scavarmi buchi nel cervello. Baker aprì l'officina e cercò di gonfiare il mio pneumatico. Niente da fare. Usciva aria da sei o sette crepe, sottili come pori nella pelle umana.

«Uh!» esclamò. «Mai visto niente del genere. Dev'essere un copertone difettoso.»

«Ne metta nel cofano uno nuovo», dissi.

Mentre lo faceva, mi spostai sul retro della stazione di servizio. Non sopportavo il suono del compressore. Mi appoggiai al muro di calcestruzzo e alzai la testa, lasciando che la foschia fredda mi bagnasse la pelle rovente. Un passo alla volta, tornai a dirmi. Un passo alla volta.

Quando cercai di pagare Randy Baker per il nuovo pneumatico, scosse la testa. «Mi ha già dato metà della mia paga settimanale, sarei un bastardo se accettassi di più. Sono solo preoccupato che finisca fuori strada, o qualcosa del genere. È davvero tanto importante?»

«Un mio parente sta male.»

«Sta male pure lei, amico…

Potevo forse negarlo?

10

Presi la Route 7 e uscii dalla città, rallentando a ogni incrocio per guardare in entrambe le direzioni, anche quando avevo la precedenza. Si rivelò un'idea saggia, perché all'incrocio con Old Derry Road un camion col rimorchio pieno di ghiaia ignorò un semaforo rosso. Se non mi fossi fermato pur avendo il verde, la mia Ford sarebbe stata demolita. E io, al suo interno, sarei stato ridotto a carne macinata. Pigiai sul clacson a dispetto del mal di testa, ma il camionista mi ignorò. Sembrava uno zombie al volante.

Non ce la farò mai, pensai. Ma se non ero in grado di fermare Frank

Dunning, come potevo sperare di fermare Oswald? Perché darsi la pena di andare fino in Texas?

Tuttavia, non fu quel pensiero a farmi andare avanti, bensì l'immagine di Tugga. Per non dire degli altri. Li avevo già salvati una volta. Se non li avessi salvati di nuovo, come avrei potuto vivere sapendo di aver preso parte alla loro uccisione, semplicemente riazzerando tutto?

Raggiunsi il drive-in e presi il vialetto ghiaioso che portava al botteghino, che ora aveva le imposte chiuse. Lungo il vialetto c'era un filare di abeti. Parcheggiai dietro di essi e cercai di scendere dall'auto. Non ci riuscii. La portiera non si apriva. La urtai con la spalla un paio di volte, inutilmente, poi vidi che la sicura era abbassata, anche se mancava ancora molto all'epoca delle auto che si chiudevano da sole, e di certo ad abbassarla non ero stato io. Tirai la levetta, ma non usciva. Provai a girarla: niente. Abbassai il finestrino, mi sporsi fuori, riuscii a girare la chiave nella toppa, e finalmente la sicura scattò. Scesi, poi mi voltai per prendere il cuscino.

La resistenza a una singola azione è direttamente proporzionale all'alterazione del futuro che l'azione produrrebbe. Questo avevo detto ad Al, con la mia miglior voce da insegnante, ed era vero. Ma allora non avevo idea di quanto potesse costarmi personalmente. Ora ce l'avevo.

Lentamente, tornai a piedi sulla Route 7, il bavero della giacca rialzato perché la pioggia non mi bagnasse il collo, e il cappello calato fino alle orecchie. Quando passava un'auto (cosa che accadeva di rado), mi nascondevo tra gli alberi al lato della strada. Se non ricordo male, un paio di volte mi presi la testa tra le mani, per essere certo che non si stesse gonfiando. Era così che mi sentivo.

Alla fine gli alberi si diradarono, fino a lasciare il posto a un muro di pietra. Oltre il muro c'erano colline coperte da prati perfettamente rasati e punteggiate di lapidi e monumenti. Ero arrivato al Longview Cemetery. Risalii un pendio ed ecco, dall'altra parte della strada, il chiosco di fiori. Era chiuso e con le luci spente.

Normalmente il week-end è il momento di massima affluenza in un cimitero, ma con un tempo del genere gli affari dovevano essere magri, e forse la signora che gestiva il negozio stava schiacciando un pisolino. Più tardi, comunque, avrebbe aperto. Lo avevo visto coi miei occhi.

Scavalcai il muro, aspettandomi che crollasse proprio in quel momento, ma non lo fece, e quando fui davvero dentro… Accadde una cosa meravigliosa. Il mal di testa cominciò a scemare. Sedetti su una tomba sotto un gigantesco olmo, chiusi gli occhi e controllai il livello del dolore. Quello che era stato un pulsante 10 (o forse 11, come negli amplificatori degli Spinal Tap), adesso era sceso a 8.

«Forse ho strappato la calza, Al», dissi. «Forse sono dall'altra parte.»

Ciononostante, mi mossi con cautela, pronto a eventuali nuovi trucchi (cadute di alberi, tombaroli in azione, magari un meteorite in fiamme). Non successe niente. Quando giunsi alle lapidi gemelle coi nomi ALTHEA PIERCE DUNNING e JAMES ALLEN DUNNING, il dolore era ormai sceso a 5.

Mi guardai intorno e vidi un mausoleo di granito rosa. Il cognome inciso sull'ingresso mi era familiare: TRACKER. Lo raggiunsi e provai ad aprire il cancello di ferro. Nel 2011 sarebbe stato chiuso a chiave, ma quello era il 1958 e si aprì subito, benché con un cigolio di cardini arrugginiti da film dell'orrore. Proprio al centro della cripta c'era una panca di pietra, per il raccoglimento e la preghiera. Su entrambi i lati, i loculi di generazioni di Tracker. Si risaliva fino al

1831. Stando alla targhetta di rame del loculo più antico, lì dentro c'erano le ossa di monsieur Jean Paul Traiche.

Chiusi gli occhi.

Mi sdraiai sulla panca e sonnecchiai.

Dormii.

Quando mi svegliai era quasi mezzogiorno. Mi appostai all'ingresso della cripta dei Tracker in attesa di Dunning, proprio come Oswald, di lì a cinque anni, avrebbe atteso il passaggio del corteo di Kennedy affacciato a una finestra, al quinto piano di un deposito di libri.

Il mal di testa era svanito.

11

La Pontiac di Dunning apparve più o meno mentre Red Schoendienst segnava il punto decisivo per i Milwaukee Braves. Parcheggiò nella via laterale più vicina, scese dall'auto, si alzò il bavero, poi si chinò a prendere le ceste di fiori.

Scese la collinetta fino alla tomba dei suoi genitori, tenendo una cesta in ciascuna mano.

Ora che il momento era arrivato, mi sentivo bene. Ero passato oltre qualunque barriera avesse cercato di respingermi. Il cuscino decorativo era sotto il mio soprabito. Dentro c'era la mia mano. L'erba umida rese i miei passi silenziosi. Non c'era sole che gettasse a terra la mia ombra. Non seppe che ero dietro di lui finché non dissi il suo nome. A quel punto si girò.

«Quando vengo a trovare i miei, non gradisco avere compagnia. Chi diavolo sei? E cos'è quello?» Stava guardando il cuscino, che avevo tolto da sotto il soprabito. Lo calzavo come un guanto.

Decisi di rispondere solo alla prima domanda. «Mi chiamo Jake Epping. Sono venuto a chiederti una cosa.»

«Allora fallo e poi lasciami in pace.» La pioggia gocciolava giù dalla tesa del suo cappello, e anche del mio.

«Qual è la cosa più importante nella vita, Dunning?»

«Eh?»

«Nella vita di un uomo, intendo dire.»

«Chi sei, un pazzo? E che ci fai con quel cuscino?»

«Su, fa mmi contento. Rispondi alla domanda»

Fece spallucce. «La sua famiglia, presumo.»

«È quel che penso anch'io», replicai, e tirai il grilletto due volte. La prima detonazione fu un tonfo ovattato, come il colpo di un battipanni su un tappeto. La seconda fu un po' più rumorosa. Pensai che il cuscino avrebbe preso fuoco (lo avevo visto succedere nel Padrino – Parte II), ma si bruciacchiò solo un poco. Dunning cadde a terra, schiacciando la cesta di fiori che aveva posato sulla tomba del padre. Mi inginocchiai accanto a lui (le ginocchia affondarono nel suolo fradicio), appoggiai il cuscino alla sua tempia e sparai di nuovo. Meglio essere sicuri.

12

Trascinai il corpo nella tomba di famiglia dei Tracker e gli misi sulla faccia il cuscinetto bruciato. Quando me ne andai, due auto attraversavano lente il cimitero, e alcune persone stavano, con gli ombrelli aperti, davanti alle tombe dei loro cari, ma nessuno fece caso a me. Senza fretta, raggiunsi il muro di cinta, fermandomi ogni tanto a guardare una lapide o un monumento. Quando fui di nuovo protetto dagli alberi, tornai di corsa alla mia Ford. Se sentivo avvicinarsi un'auto, mi nascondevo nella boscaglia. Durante una di queste ritirate, seppellii la pistola in una buca profonda una trentina di centimetri, che riempii di terra e foglie. La Sunliner mi attendeva indisturbata dove l'avevo lasciata, e partì subito. Tornai al mio appartamento e ascoltai la fine della partita di baseball. Forse piansi un poco. Lacrime di sollievo, non di rimorso. Qualunque cosa mi fosse successa da lì in avanti, la famiglia Dunning era salva.

Quella notte dormii come un bimbo.

13

Il Daily News del lunedì parlava molto delle World Series, c'era anche una bella foto di Schoendienst che correva in base dopo un errore di Tony Kubek. Secondo l'articolo di Red Barber, i cannonieri del Bronx erano finiti. «Potete infilarci una forchetta», scriveva. «Gli Yankees sono morti, viva gli Yankees.»

La settimana si apriva senza notizie di Frank Dunning, ma il giorno dopo era in prima pagina. Una foto lo mostrava sorridente, con la tipica aria da io-sì-che-piaccio-alle-donne e il solito sguardo diabolico da George Clooney.

COMMERCIANTE UCCISO NEL CIMITERO DI DERRY

Dunning era tra i più attivi nella beneficenza

 

Secondo il capo della Polizia di Derry, il dipartimento stava seguendo diverse piste e un arresto era imminente. Raggiunta al telefono da un cronista, Doris Dunning si era detta «sconvolta e distrutta». Nessun accenno al fatto che lei e il defunto vivessero separati. Svariati amici e colleghi del supermercato esprimevano lo stesso shock. Tutti sembravano d'accordo: Frank Dunning era un tipo fantastico, e nessuno riusciva a immaginare chi potesse volerlo morto.

Tony Tracker era particolarmente indignato (forse perché il corpo era stato trovato nella sua tomba di famiglia): «Per il colpevole, dovrebbero reintrodurre la pena di morte», aveva dichiarato.

Mercoledì 8 ottobre, gli Yankees batterono i Braves 2-l al County Stadium.

Giovedì, pareggiarono 2-2 nell'ottavo inning, segnando quattro punti e vincendo le World Series. Venerdì, tornai al banco dei pegni, pensando di essere accolto dai coniugi Brontolini. La grassona andò ben oltre le mie aspettative: quando mi vide fece una smorfia e gridò: «Chazzie! È arrivato Fortunello!» Poi passò attraverso la tenda e si infilò nel retrobottega, uscendo per sempre dalla mia vita.

Frati aveva lo stesso sorrisetto da scoiattolo che gli avevo visto la prima volta, al Lamplighter, durante la mia prima spedizione nel colorito passato di Derry. In una mano teneva una busta rigonfia con la scritta G. AMBERSON.

«Eccoti qui, amico», disse. «Grande e grosso e bello il doppio. Questo è il tuo malloppo. Puoi contarlo, se vuoi.»

«No, mi fido», risposi, e misi la busta in tasca. «Sei allegro, per un tizio che ha appena dovuto scucire tremila cucuzze.»

«Non lo nego, hai interferito nei miei introiti autunnali. Hai seriamente interferito, anche se qualche dollaro l'ho tirato su lo stesso. Qualche dollaro non manca mai. Ma io accetto le scommesse per, come dire? spirito civico. La gente scommette e scommetterà sempre, e se vince io la pago subito. E poi, mi piace. È una specie di hobby. E sai cos'è che mi piace di più?»

«No.»

«Quando arriva (anzi, piomba giù) uno come te, che rischia e ce la fa. Questo mi ridà fiducia nella natura casuale dell'universo.»

Mi domandai cos'avrebbe pensato di tale «casualità» se avesse visto il foglio di Al Templeton con tutti i risultati.

«Tua moglie non sembra essere così… cattolica.»

Frati ridacchiò e i suoi piccoli occhi neri scintillarono. Che vincesse, perdesse o pareggiasse, l'ometto con la sirena sul braccio era uno che si godeva la vita. In questo era degno d'ammirazione. «Oh, Marjorie! Quando qualche disgraziato viene a impegnarsi l'anello di fidanzamento di sua moglie e ci ammanisce una storia lacrimevole, lei si scioglie tutta. Ma quando si parla di scommesse, diventa un'altra donna. La prende molto sul personale.»

«La ami molto, vero, Frati?»

«Come la luna e le stelle, amico. Come la luna e le stelle.»

Quand'ero arrivato, Marjorie stava leggendo il giornale, che era ancora sul bancone, appoggiato alla vetrinetta dei gioielli. Il titolo diceva: «Ieri i funerali di Frank Dunning. Continua la caccia all'assassino misterioso».

«Che ne pensi di quella storia?» chiesi a Frati.

«Non ne penso niente, ma ti dirò una cosa.» Si chinò verso di me, e il sorriso scomparve. «Non era il santo che descrive la stampa locale. Potrei raccontartene di cose, amico.»

«Fallo. Ho tutto il giorno.»

Il sorriso ricomparve. «Nah. A Derry, certe cose le teniamo per noi.»

«Me n'ero accorto», replicai.

14

Avrei voluto tornare in Kossuth Street. Sapevo che forse gli sbirri tenevano d'occhio la casa dei Dunning, nel caso qualcuno mostrasse un insolito interesse per la famiglia, ma la tentazione era comunque forte. Non era Harry che avrei voluto vedere, ma la sua sorellina. C'erano cose che desideravo dirle.

Che la sera di Halloween sarebbe dovuta uscire col suo costume, anche se era triste per la morte del suo papà.

Che sarebbe stata la più bella, la più favolosa principessa indiana di sempre, e sarebbe tornata a casa con una montagna di dolcetti.

Che di fronte a sé aveva ancora almeno cinquantatré lunghi e intensi anni, e probabilmente molti di più.

Ma soprattutto, che un giorno suo fratello Harry avrebbe indossato un'uniforme e sarebbe partito soldato, e lei avrebbe dovuto fare del proprio meglio per convincerlo a rinunciare.

Solo che i bambini dimenticano. Non c'è insegnante che non lo sappia. E pensano che vivranno per sempre.

15

Era tempo di lasciare Derry, ma avevo un ultimo compito da svolgere prima di partire. Attesi il lunedì successivo. Quel pomeriggio, il 13 ottobre, gettai la valigia nel bagagliaio della Sunliner, poi mi sedetti al volante per il tempo sufficiente a buttar giù un biglietto. Lo misi in una busta, la chiusi e scrissi il nome del destinatario.

Andai nella Città Bassa, parcheggiai e raggiunsi a piedi il Dollaro d'Argento.

Non c'era nessuno, a parte Pete, il barista, come mi ero aspettato. Stava lavando dei bicchieri e guardava Love of Life sul televisore. Si girò verso di me malvolentieri, tenendo un occhio su John e Marsha, o come diavolo si chiamavano.

«Cosa desidera?»

«Niente, però può farmi un favore, e io la ricompenserò con il suono frusciante di cinque dollari americani.»

Non parve impressionato. «Ma non mi dica. E cosa dovrei fare?»

Posai la busta sul bancone. «Dia questo al destinatario, non appena si presenterà qui.»

Guardò il nome sulla busta. «Cosa vuole da Billy Turcotte? E perché non gliela dà lei, questa?»

«Ti ho assegnato un compito facile, Pete. Li vuoi o no quei cinque dollari?»

«Certo. Basta che non gli crei dei problemi. Billy è una brava persona.»

«Non gli creerà nessun problema. Anzi, potrebbe anche fargli bene.»

Misi il biglietto da cinque sopra la busta. Pete lo fece sparire e tornò alla sua soap opera. Io uscii. Probabilmente Turcotte ricevette la busta. Se poi fece o no qualcosa dopo aver letto il biglietto, è un'altra questione, una delle tante per le quali non avrò mai risposta. Ecco cosa avevo scritto:

 

Caro Bill, c'è qualcosa che non va nel tuo cuore. Devi andare subito da un dottore, o sarà troppo tardi. Tu penserai che è uno scherzo, ma non è così. Penserai che non posso sapere una cosa del genere, ma la so. La so, come so che tu sai che Frank Dunning ha ucciso tua sorella Clara e tuo nipote Mikey.

TI PREGO DI CREDERMI E DI ANDARE DAL DOTTORE!

Un amico

16

Salii sulla mia Sunliner, e mentre uscivo dal parcheggio in retro marcia, vidi la faccia lunga e diffidente del signor Keene che mi spiava dal drugstore. Abbassai il finestrino, misi fuori il braccio e gli mostrai il dito medio. Poi risalii Up-Mile Hill e lasciai Derry per sempre.

11

1

MENTRE guidavo verso sud sull'autostrada «l km al minuto», cercavo di convincere me stesso che non c'era bisogno di occuparsi di Carolyn Poulin. Mi dicevo che quello era l'esperimento di Al Templeton, non il mio, e il suo esperimento, proprio come la sua vita, era finito. Mi ripetevo che il caso di quella ragazza era molto diverso da quello di Doris, Troy, Tugga ed Ellen. Sì, Carolyn sarebbe rimasta paralizzata dalla vita in giù, e sì, quella era una cosa terribile. Ma restare paralizzati per colpa di un proiettile non è come essere pestati a morte con una mazza da fabbro. In piedi o sulla sedia a rotelle, Carolyn Poulin avrebbe vissuto una vita piena e soddisfacente. Mi dicevo che sarebbe stato da pazzi mettere a repentaglio la mia vera missione sfidando ancor a una volta il passato inflessibile a prendermi e masticarmi.

Nulla di tutto questo riuscì a convincermi.

Intendevo far tappa a Boston per la notte, ma continuava a tornarmi in mente l'immagine di Dunning sulla tomba del padre, la cesta di fiori schiacciata sotto di lui. Aveva meritato di morire (diavolo, doveva morire), ma il 5 ottobre non aveva ancora fatto niente alla sua famiglia. Non alla seconda, in ogni caso. Potevo continuare a ripetermi (e lo feci, eccome!) che aveva già fatto abbastanza alla prima, che il 13 ottobre del '58 era già due volte un assassino, e una delle sue vittime era poco più di un neonato, ma su quello avevo solo la parola di Bill Turcotte.

Forse, in fin dei conti, volevo compensare un atto che (per quanto necessario) mi faceva sentire male con uno che mi facesse sentire bene. E così, anziché puntare su Boston, dall'autostrada uscii a Auburn e mi diressi verso ovest, nella regione dei laghi del Maine. Poco prima che calasse la sera, mi presentai nella zona dei capanni, proprio come Al. A un ridicolo prezzo da bassa stagione, affittai il più spazioso degli alloggi.

Le cinque settimane che seguirono furono forse le più belle della mia vita. Non vedevo nessuno, a parte la coppia che gestiva il negozio locale, dove compravo poche, semplici vettovaglie due volte alla settimana, e il signor Winchell, il proprietario dei capanni. Faceva un salto da me ogni domenica, per controllare che andasse tutto bene e mi stessi divertendo. Ogni volta che me lo chiedeva rispondevo di sì, e non era una bugia. Mi aveva dato la chiave del magazzino dove teneva l'attrezzatura, e quando l'acqua era calma, ogni mattina e ogni sera uscivo in canoa. Ricordo, in una di quelle sere, la luna piena che sorgeva silenziosa sugli alberi, e il modo in cui tracciava sulla superficie del lago una pista di luce argentata, e il riflesso della canoa sotto di me, come l'immagine di un gemello annegato. Da qualche parte cantò una strolaga. Le rispose un amico, o la sua compagna. Ben presto, altre si unirono alla conversazione. Posai il remo nella barca e rimasi là seduto, a trecento metri dalla riva, guardando la luna e ascoltando le strolaghe chiacchierare. Ricordo di aver pensato: Se esiste un paradiso e non è così, allora non voglio andarci.

I colori dell'autunno iniziarono ad accendersi: prima un timido giallo, poi arancione, poi un furibondo, fiammante rosso, man mano che la stagione bruciava gli ultimi residui di un'altra estate del Maine. Al mercato c'erano scatoloni pieni di libri tascabili senza copertina; ne lessi a decine: polizieschi di Ed McBain, John D. MacDonald, Chester Himes e Richard S. Prather; pruriginosi melodrammi come I peccati di Peyton Place e Un sasso per Danny Fisher; western a carrettate, e anche un romanzo di fantascienza intitolato Alla ricerca di Lincoln, in cui dei viaggiatori nel tempo cercavano di registrare un discorso «perduto» del presidente.

Quando non leggevo e non andavo in canoa, passeggiavo nei boschi. Lunghi pomeriggi d'autunno, sovente offuscati e caldi. Il pulviscolo danzava nei raggi di luce che passavano tra i rami. Di notte, una quiete tanto vasta che sembrava quasi riecheggiare. Ben poche auto passavano sulla Route 114, e dopo le dieci di sera non ne passava nessuna. A quell'ora, la parte di mondo in cui ero venuto a riposare apparteneva solo alle strolaghe e al vento che muoveva gli abeti. A poco a poco, l'immagine di Frank Dunning accasciato sulla tomba di suo padre iniziò a sbiadire, e non mi capitava quasi più di ricordare all'improvviso il cuscino bruciacchiato, e il modo in cui lo avevo posato su quegli occhi spalancati, nella tomba di famiglia dei Tracker.

Alla fine di ottobre, mentre le ultime foglie cadevano dagli alberi e di notte la temperatura si avvicinava allo zero, iniziai ad andare a Durham in macchina, per esplorare il territorio intorno a Bowie Hill, dove di lì a due settimane un certo fucile avrebbe sparato. La chiesa che Al aveva menzionato era un buon punto di riferimento. Poco oltre, un albero morto pendeva sulla strada, probabilmente lo stesso albero caduto che Al stava cercando di spostare quand'era arrivato Andrew Cullum, col giubbotto arancione da caccia. Decisi di cercare la casa di quest'ultimo, per tracciare il suo probabile percorso da lì alla collina.

Il mio piano non era nemmeno un piano: mi sarei limitato a seguire il sentiero aperto da Al. Sarei arrivato a Durham la mattina presto, avrei fermato l'auto vicino all'albero caduto, avrei finto di trafficarci e poi, all'arrivo di Cullum, di avere un attacco di cuore. Ma, dopo che ebbi individuato la casa di quest'ultimo, mi capitò di fermarmi a bere qualcosa un chilometro più in là, al Brownie's Store, e di vedere, in una vetrinetta, un cartello che mi diede un'idea. Un'idea folle, ma intrigante.

Sul manifesto campeggiava: CONTEA DI ANDROSCOGGIN – RISULTATI DEL TORNEO DI CRIBBAGE. Sotto c'era una lista di circa cinquanta nomi. Il vincitore del torneo era di West Minot e aveva segnato diecimila «pioli», di qualunque cosa si trattasse. Il secondo ne aveva segnati novemilacinquecento. Al terzo posto, con 8.722 pioli (il nome era cerchiato in rosso, per questo aveva attratto la mia attenzione), c'era Andy Cullum.

Le coincidenze esistono, ma sono giunto a credere che in realtà siano rare. C'è qualcosa all'opera, OK? Da qualche parte nell'universo, o al di là di esso, un grande marchingegno ticchetta e fa girare i suoi mirabolanti ingranaggi. Ogni tanto, dal mazzo salta fuori una carta imprevista, ma quasi tutte le cose sono quel che devono essere.

Il giorno dopo, mi recai a casa di Cullum verso le cinque del pomeriggio. Parcheggiai accanto alla sua Ford station wagon e bussai alla porta.

Mi aprì una donna dal viso gradevole, con addosso un grembiule spiegazzato e in braccio una neonata. Mi bastò guardarla per sapere che stavo facendo la cosa giusta. Perché non sarebbe stata Carolyn Poulin l'unica vittima di quel 15 novembre.

«Sì?»

«Mi chiamo George Amberson, signora», la salutai toccandomi il cappello.

«Potrei parlare con suo marito?»

Certo che potevo. Si era già piazzato dietro di lei e le aveva messo un braccio intorno alle spalle. Era un uomo giovane, non ancora trentenne, in viso un'espressione simpatica e interrogativa. La sua bimba gli toccò la faccia, e quando lui baciò i ditini, lei rise. Cullum mi porse la mano, e io la strinsi.

«Cosa posso fare per lei, signor Amberson?»

Gli mostrai una tavoletta da cribbage. «Ho notato, giù al Brownie's, che lei è un giocatore provetto. E così vengo a farle una proposta.»

La signora Cullum parve allarmata. «Mio marito e io siamo metodisti, signor Amberson. I tornei sono solo un divertimento. Lui ha vinto un premio, e a me fa piacere lucidarlo così farà bella figura sulla mensola, ma se vuole giocare per soldi, si è rivolto alla famiglia sbagliata.» Sorrise. Capii che per lei era uno sforzo, ma era comunque un bel sorriso. Mi piaceva. Mi piacevano tutti e due.

«Mia moglie ha ragione.» Il tono di Cullum era rammaricato ma fermo.

«Quando lavoravo nei boschi giocavo un penny a punto, ma era prima di conoscere Marnie.»

«Sarei un pazzo se la sfidassi per soldi», dissi, «perché io non so proprio giocare. Ma voglio imparare.»

«In questo caso, si accomodi», rispose. «Sarò lieto di insegnarle. Non ci vorranno più di quindici minuti, e manca ancora un'ora prima di cena. Cavolo, se sa fare le addizioni e contare fino a trentuno, è già pronto per il cribbage.»

«Sono sicuro che non si tratta solo di aggiungere e contare, altrimenti lei non si sarebbe piazzato terzo al torneo di contea. E io», continuai, «voglio fare un po' di più che imparare le regole. Voglio comprare un giorno del suo tempo. Il 15 novembre, per essere precisi. Dalle dieci del mattino alle quattro del pomeriggio, diciamo.»

A quel punto sua moglie iniziò a sembrare spaventata. Teneva la bimba stretta al suo petto.

«Per quelle sei ore del suo tempo, pagherò duecento dollari.»

Cullum fece una smorfia: «A che gioco sta giocando, signore?»

«Spero che sia cribbage.» Ma non bastava. Lo leggevo in faccia a entrambi.

«Sentite, non ci proverò nemmeno a dirvi che non c'è altro, ma se vi spiegassi come stanno le cose, pensereste che sono pazzo.»

«Io lo penso già», replicò Marnie Cullum. «Andy, mandalo via.»

Mi rivolsi a lei: «Non c'è niente di male, niente di illegale, non è una truffa, e non è pericoloso. Lo giuro». Ma cominciavo a pensare che non avrebbe funzionato, giuramento o non giuramento. Era stata una pessima idea. Il pomeriggio del 15, incontrandomi nei pressi della chiesa, Cullum sarebbe stato due volte sospettoso.

Ma tenni duro. Era una cosa che avevo imparato a Derry.

«Non è altro che cribbage», insistetti. «Lei mi insegna, giochiamo per qualche ora, io le do duecento dollari e ci salutiamo da amici. Che ne dice?»

«Di dov'è, signor Amberson?»

«Sono originario del Wisconsin, ma di recente mi sono stabilito a Derry. Sono nel ramo immobiliare. In questi giorni sono in vacanza sul lago Sebago, poi tornerò a sud. Vuole dei nomi? Delle referenze?» Sorrisi. «Gente che le assicuri che non sono pazzo?»

«Di sabato Andy va nei boschi, durante la stagione della caccia», disse la signora Cullum. «È l'unica occasione che ha di farlo, perché lavora tutta la settimana e quando torna a casa è tanto buio che non avrebbe senso caricare il fucile.»

Sembrava ancora diffidare di me, ma sul suo viso vidi qualcos'altro, qualcosa che mi diede fiducia. Quando sei giovane e hai una figlia, e tuo marito fa un lavoro manuale (come rivelato dalle mani screpolate e callose), duecento dollari significano un sacco di cibo. O, nel 1958, due rate e mezzo della casa.

«Posso anche saltare un pomeriggio», disse Cullum. «Tanto ormai non è rimasto quasi niente. L'unico posto dove puoi ancora trovare un dannato cervo è Bowie Hill.»

«Stai attento a come parli in presenza della bambina, signor Cullum», l'ammonì lei. Il tono era severo, ma mentre baciava la guancia della figlia sorrideva.

«Signor Amberson, devo parlare con mia moglie. Le dispiace restare sul portico per un paio di minuti?»

«Farò di meglio», risposi. «Andrò al Brownie'se mi farò una bibita fresca. Ne volete?»

Rifiutarono cortesemente, dopodiché Marnie Cullum mi chiuse la porta in faccia. Tornai al bar, dove presi una spremuta d'arancia per me e una stringa di liquirizia per la bimba, ammesso che fosse abbastanza grande da poterla mangiare. Pensai che i Cullum avrebbero rifiutato la mia offerta. Gentilmente, ma con risolutezza. Ero uno sconosciuto con un'idea bizzarra. Avevo sperato che cambiare il passato potesse essere più facile, una volta tanto, perché Al lo aveva già cambiato due volte, ma a quanto pareva, non era così.

E invece rimasi sorpreso. Cullum disse di sì, e sua moglie accettò la liquirizia per la bimba, che la prese con un gioioso risolino, la ciucciò un poco, poi se la passò sui capelli a mo' di pettine. Mi chiesero persino di restare a cena, ma declinai l'invito. Offrii a Andy Cullum un acconto di cinquanta dollari, e stavolta fu lui a declinare… finché sua moglie non insistette che doveva prenderlo.

Tornai al lago in stato di giubilo, ma la mattina del 15 novembre, mentre andavo a Durham (i campi erano coperti di una brina tanto spessa che i cacciatori, già presenti in massa e vestiti d'arancione, lasciavano impronte sull'erba), il mio umore era cambiato. Avranno chiamato la polizia di Stato o lo sceriffo, pensai. E mentre mi interrogheranno nella stazione più vicina, cercando di scoprire che tipo di matto io sia, lui andrà a caccia nei boschi di Bowie Hill.

Nel vialetto non c'erano auto della polizia, solo la station wagon di Andy Cullum. Presi la mia tavoletta da cribbage nuova e bussai alla porta. Il padrone di casa aprì e disse: «Pronto per la lezione, signor Amberson?»

Sorrisi: «Prontissimo».

Mi portò nel portico sul retro. Credo che sua moglie non mi volesse in casa con lei e la bambina. Le regole erano semplici: i pioli erano punti, e il gioco consisteva in due giri di tavoletta. Ascoltai tutte le spiegazioni, soprattutto su quello che Andy chiamava il «mistico 19», la cosiddetta mano impossibile. Poi giocammo. All'inizio tenni il conto, ma smisi quando Cullum andò in vantaggio di quattrocento punti. Ogni tanto, lontano, qualche cacciatore sparava, e lui guardava verso i boschi oltre il suo piccolo cortile.

«Sabato prossimo», lo rassicurai in una di quelle circostanze. «Sabato, ci andrai anche tu, stanne certo.»

«E probabilmente pioverà», ribatté, poi rise. «Non dovrei lamentarmi. Mi sto divertendo e sto guadagnando dei soldi. E tu stai migliorando, George.»

Verso mezzogiorno, Marnie ci preparò il pranzo (grandi sandwich al tonno e scodelle di zuppa di pomodoro fatta in casa). Mangiammo in cucina, e quando finimmo, lei propose che continuassimo a giocare dentro. Aveva deciso che non ero pericoloso. La cosa mi rese felice. Erano gente simpatica, i Cullum. Una bella coppia con una bella bimba. Avrei pensato a loro molte volte, sentendo Lee e Marina Oswald urlare in qualche squallido appartamento, o vedendoli (almeno in un'occasione) litigare per la strada. Il passato è in armonia con se stesso, cerca sempre di trovare un equilibrio, e quasi sempre ci riesce. I Cullum erano a un'estremità dell'altalena, gli Oswald all'altra.

E Jake Epping, alias George Amberson? Lui era il perno.

Verso la fine della nostra maratona di cribbage, vinsi la mia prima partita. Pochi minuti dopo le quattro riportai una vittoria schiacciante, e risi di gioia. La piccola Jenna rise con me, poi si sporse dal seggiolone e mi diede una cameratesca tirata di capelli.

«Ci siamo!» gridai, ridendo. I tre Cullum ridevano con me. «Io mi fermo qui!» Presi il portafogli e posai tre biglietti da cinquanta sull'incerata a scacchi rossi e bianchi del tavolo di cucina. «La giornata è valsa ogni centesimo!»

Andy li spinse verso di me. «Rimetti li dov'erano, George. Mi sono divertito troppo per prendere i tuoi soldi.»

Annuii, come se fossi d'accordo, poi spinsi i soldi verso Marnie, che li prese subito. «Grazie, signor Amberson.» Diede al marito un'occhiata di rimprovero, poi guardò me: «Ci faranno molto comodo».

«Bene.» Mi alzai, mi stiracchiai, sentii scrocchiare la spina dorsale. Da qualche parte, a nove o dieci chilometri di distanza, Carolyn Poulin e suo padre stavano risalendo su un furgone con la scritta POULIN – CARPENTERIA & COSTRUZIONI. Forse avevano preso un cervo, forse no. In ogni caso, ero sicuro che avessero passato un bel pomeriggio nei boschi, parlando di cose tra padri e figlie, e buon per loro.

«Rimanga a cena, signor Amberson», disse Marnie. «Abbiamo fagioli e hot-dog.»

Così rimasi, e dopo guardammo il notiziario sul piccolo televisore. C'era stato un incidente di caccia nel New Hampshire, ma nessuno nel Maine. Mi lasciai convincere a fare il bis di torta di mele, anche se ero pieno da scoppiare, poi mi alzai e li ringraziai di cuore della loro ospitalità.

Andy Cullum mi porse la mano: «La prossima volta giochiamo gratis, OK?»

«Ci puoi scommettere.» Non ci sarebbe stata nessuna prossima volta, e credo lo sapesse.

Lo sapeva anche sua moglie. Uscì di casa e mi raggiunse subito prima che entrassi in auto. Aveva avvolto la bimba in una coperta e le aveva messo in testa un cappellino, ma lei era in maniche di camicia. Rabbrividiva, e vedevo il suo fiato.

«Signora Cullum, rientri prima di prendersi un…»

«Da cosa lo ha salvato?»

«Prego?»

«So che è venuto per questo. Ho pregato, mentre lei e Andy eravate nel portico, e Dio mi ha mandato una risposta, ma non mi ha detto tutto. Da cosa lo ha salvato?»

Le mi si le mani sulle spalle tremanti e la guardai negli occhi. «Marnie… Se

Dio avesse voluto farti sapere quella parte, te l'avrebbe detta.»

Di scatto, mi abbracciò. Stupito, ricambiai. La piccola Jenna, rimasta in mezzo, ci guardò strabuzzando gli occhi.

«Qualunque cosa fosse, grazie», mi sussurrò Marnie all'orecchio. Il suo respiro caldo mi diede la pelle d'oca.

«Entra, cara, prima di congelarti», le dissi.

La porta si aprì e vedemmo Andy. Aveva in mano una lattina di birra.

«Marnie? Marn?»

Lei si staccò da me. Aveva gli occhi grandi e neri. «Dio ci ha mandato un angelo custode. Non ne parlerò con nessuno, ma terrò il ricordo nel mio cuore.» Poi, di corsa, risalì i gradini, dove suo marito la aspettava.

Angelo custode. Era la seconda volta che sentivo l'espressione, e ci pensai sopra sia quella notte, disteso a letto in attesa di prendere sonno, sia il giorno dopo, domenica, mentre andavo in canoa su acque calme, sott o un cielo azzurro gelido, già invernale.

Angelo custode.

Lunedì 17 novembre vidi i primi turbini di neve, e li presi come un segno.

Feci i bagagli, andai al villaggio e trovai il signor Winchell che beveva caffè e mangiava ciambelle al Lakeside Restaurant (nel '58, la gente mangiava un sacco di ciambelle). Gli restituii le chiavi e gli dissi che avevo passato un periodo bellissimo e riposante. Il suo viso si illuminò.

«Molto bene, signor Amberson. È così che dovrebbe essere. Lei ha pagato fino alla fin e del mese, mi dia un indirizzo dove spedirle il rimborso delle ultime due settimane, e io metterò un assegno in una busta.»

«Non so dove andrò, il capoccia della sede centrale non lo ha ancora deciso», risposi. «Ma le scriverò.» I viaggiatori nel tempo dicono un sacco di bugie.

Mi porse la mano. «È stato un piacere.» Gliela strinsi. «Oh, il piacere è stato mio.»

Salii in macchina e partii verso sud. Quella sera presi una stanza alla Parker

House di Boston, e diedi un'occhiata alla famosa Combat Zone. Dopo le settimane di quiete sul lago Sebago, le luci al neon mi ferivano gli occhi e la folla ondeggiante (composta principalmente di maschi giovani, molti dei quali in uniforme) mi faceva sentire agorafobico e nostalgico delle pacifiche serate nel Maine centrale, quando i pochi negozi chiudevano alle sei e il traffico si fermava alle dieci.

La notte successiva, dormii all'Hotel Harrington di Washington D.C. Tre giorni dopo, ero sulla costa occidentale della Florida.

12

1

IMBOCCAI l'autostrada in direzione sud. Pranzai in posti dove si mangiava «la cucina casalinga», posti dove il pranzo a menu fisso (con antipasto a base di frutta e torta con il gelato per dessert) costava ottanta centesimi. Non vidi nessun fast- food, a meno di non contare un Howard Johnson's, coi suoi «28 Sapori» e il caratteristico logo di Simple Simon. Vidi un a squadra di boy scout fare un falò di foglie secche, con la super visione del loro capo. Vidi donne in impermeabile e stivali di gomma portare in casa il bucato, in un grigio pomeriggio che minacciava pioggia. Vidi lunghi treni passeggeri con nomi come Southern Flyer e Star of Tampa correre verso quella parte d'America dove l'inverno è proibito. Vidi vecchi fumare la pipa seduti su panchine nei parchi. Vidi un milione di chiese, e un cimitero dove una congregazione di almeno cento fedeli stava in cerchio intorno a una fossa scoperta, cantando inni. Vidi uomini intenti a costruire fienili. Vidi persone che aiutavano altre persone. Due di loro, a bordo di un pick-up, si fermarono a darmi una mano quando saltò il tappo del radiatore e dovetti fermarmi sul ciglio della strada. Accadde in Virginia, verso le quattro del pomeriggio, e uno mi chiese se mi servisse un posto per la notte. Riesco a immaginare una scena del genere anche nel 2011, ma solo facendo un bello sforzo.

C'è un' altra cosa. Nel North Carolina, mi fermai a fare il pieno in una stazione Humble Oil. Girai l'angolo per usare la toilette e vidi due porte, ma le scritte erano tre. Su una porta era stampigliato UOMINI. SIGNORE, diceva quella accanto. La terza scritta era su una freccia legata a un palo, e indicava il pendio pieno di cespugli dietro la stazione. C'era scritto a mano: NEGRI. Incuriosito, discesi il sentiero, muovendomi con cautela in un paio di punti dove spiccavano, inconfondibili, certe foglie lucide, verdi tendenti al marrone. Edera velenosa.

Sperai che i genitori costretti ad accompagnare i loro figli in qualunque tipo di cesso li attendesse laggiù sapessero riconoscere quei cespugli, perché alla fine degli anni Cinquanta quasi tutti i bambini andavano a gambe scoperte.

Niente cesso. Di nessun tipo. Alla fine del sentiero trovai un ruscelletto sul quale avevano gettato un'asse di legno, appoggiata su due blocchi di cemento. Un uomo che doveva urinare poteva farlo dalla riva. Una donna anche, se si reggeva a un ramo (sperando che non ci fosse anche lì l'edera velenosa, o la quercia velenosa). Ma per cagare, dovevi appollaiarti sull'asse. Magari sotto la pioggia.

Se per caso vi ho dato l'idea che il 1958 sia tutto Cortesia & Simpatia, ricordatevi di quel sentiero, OK? Quello con l'edera velenosa e l'asse sul ruscello.

2

Mi sistemai a circa centoventi chilometri a sud di Tampa, in una cittadina chiamata Sunset Point. Per ottanta dollari al mese, affittai un capanno sulla spiaggia più bella (e più deserta) che avessi mai visto. Sulla stessa striscia di sabbia c'erano quattro bungalow simili al mio, e altrettanto spartani. Non vidi nessuna delle pretenziose ville in perfetto stile pugno nell'occhio che in futuro sarebbero spuntate come funghi in quella parte dello Stato. A Nokomis, quindici chilometri più a sud, c'era un supermercato, e a Venice una sonnacchiosa area shopping. La Route 41, o Tamiami Trail, era poco più di una strada di campagna. Dovevi andare lento, soprattutto verso il tramonto, perché era l'ora preferita dagli alligatori e armadilli che attraversavano la strada. Tra Sarasota e Venice c'erano bancarelle di frutta, mercatini, un paio di bar e una sala da ballo chiamata Blackie's. Superata Venice, fratello, eri da solo, almeno finché non arrivavi a Fort Myers.

Mi lasciai alle spalle il lavoro di agente immobiliare. Nella primavera del '59, venti di recessione soffiavano sull'America. Sulla Costa del Golfo tutti vendevano e nessuno comprava, così George Amberson diventò quel che Al aveva previsto: un aspirante scrittore al quale uno zio benestante aveva lasciato abbastanza per sbarcare il lunario, almeno per un po'.

In effetti mi misi sotto, e non su un progetto, ma addirittura su due. La mattina, quand'ero più fresco, scrivevo il resoconto che ora state leggendo (sempre che sia arrivato tra le mani di qualcuno). A sera, lavoravo su un romanzo il cui titolo di lavoro era Il posto degli omicidi. Il posto in questione era Derry, ovviamente, anche se nel libro si chiamava Dawson. Avevo iniziato a scriverlo solo per salvare le apparenze, per avere qualcosa da mostrare se avessi fatto amicizia con qualcuno e mi avesse chiesto cosa stessi facendo (il «manoscritto del mattino» lo tenevo sotto il letto, in una cassetta d'acciaio chiusa a chiave). Iniziai a pensare che non fosse male, e a sperare di vederlo stampato, un giorno.

Un'ora sul memoriale al mattino e un'ora sul romanzo la sera mi lasciavano ancora molto tempo libero. Provai a pescare; di pesci ce n'erano tanti, ma non mi piaceva e lasciai perdere. Passeggiare era piacevole all'alba e al tramonto, ma non nelle ore calde del giorno. Divenni un affezionato cliente dell'unica libreria di Sarasota, e trascorsi molte ore liete nelle piccole biblioteche di Nokomis e Osprey.

Lessi e rilessi gli appunti di Al su Oswald. Finalmente, mi resi conto che era un comportamento ossessivo, e chiusi il quaderno nella cassetta di metallo. Ho definito quegli appunti «esaurienti», perché al principio mi sembravano tali. Tuttavia, man mano che il tempo (il nastro trasportatore sul quale tutti viaggiamo) mi avvicinava al punto di convergenza tra la mia vita e quella del futuro assassino, iniziarono a sembrarmi inadeguati. Lacunosi.

A volte maledicevo Al per avermi spinto in quella missione volente o nolente, ma nei momenti di maggiore lucidità, capivo che un po' di tempo in più non avrebbe fatto alcuna differenza. Anzi, avrebbe potuto peggiorare la situazione, ed è probabile che lui lo sapesse. Anche se non si fosse suicidato, era comunque questione di una settimana, al massimo due. Quanti libri erano stati scritti sulla catena di eventi che portò a quel giorno a Dallas? Un centinaio? Trecento? Forse il numero è più vicino a mille. Alcuni erano d'accordo con Al sul fatto che Oswald avesse agito da solo, altri dicevano che aveva preso parte a un elaborato complotto, altri ancora si dicevano certi che non avesse sparato lui e fosse vero quel che aveva detto di sé dopo l'arresto: «Sono un capro espiatorio». Togliendosi la vita, Al mi aveva liberato del più frequente difetto dello studioso: la confusione tra tergiversare e approfondire.

3

Ogni tanto facevo un salto a Tampa, dove con discrezione mi informai sul giro delle scommesse. Mi mandarono da un allibratore di nome Eduardo Gutierrez. Quando fu sicuro che non ero uno sbirro, accettò volentieri le mie puntate. Prima, al fine di passare per babbeo, scommisi che i Minneapolis Lakers avrebbero battuto i Celtics nel campionato del '59. Non vinsero una sola partita. Poi puntai quattrocento dollari sui Montreal Canadiens vincitori della Stanley Cup contro i Maple Leafs, e vinsi, ma erano dati alla pari. Robetta, avrebbe detto il mio amico Chaz Frati.

Il colpo grosso lo feci nella primavera del 1960, quando scommisi che Venetian Way avrebbe battuto Bally Ache, il favorito nel Kentucky Derby. Gutierrez disse che me l'avrebbe dato quattro a uno per mille dollari, cinque a uno per duemila. Scelsi la cifra più alta, dopo aver emesso tutta la gamma dei rumori indicanti esitazione, e mi ritrovai di diecimila verdoni più ricco. Lui fece buon viso, come Frati, ma nei suoi occhi c'era un riflesso metallico che non mi piaceva, e mi promisi di riperdere almeno un migliaio di dollari entro metà estate, quando sarei ripartito.

Gutierrez era un cubano che pesava sessanta chili bagnato, ma era anche un transfuga della mafia di New Orleans, in quei giorni capeggiata da un brutto tipo, Carlos Marcello. Lo avevo sentito dire nella sala da biliardo accanto al negozio di barbiere dove Gutierrez prendeva le scommesse (e trascinava un'infinita partita a poker sotto la foto di una discinta Diana Dors). L'uomo con cui stavo giocando si guardò intorno per essere sicuro che avessimo quell'angolo tutto per noi, dopodiché mormorò: «Lo sai quel che si dice della mafia, George: una volta entrati, non si esce più».

Mi sarebbe piaciuto parlare con Gutierrez dei suoi anni a New Orleans, ma non era il caso di ficcare il naso, soprattutto dopo la mia vincita al Kentucky Derby. Se avessi osato farlo, e se avessi trovato un modo plausibile di sollevare l'argomento, gli avrei chiesto se avesse mai conosciuto un altro celebre membro dell'organizzazione di Marcello, un ex pugile di nome Charles «Dutz»» Murret. Penso che la risposta sarebbe stata «sì», perché il passato è in armonia con se stesso. La moglie di Murret era la sorella di Marguerite Oswald. Dutz era lo zio acquisito di Lee Harvey Oswald.

4

Un giorno di primavera del 1959 (in Florida la primavera c'è: i residenti dicono che a volte dura anche una settimana), aprii la cassetta della posta e trovai un avviso della biblioteca pubblica di Nokomis. Avevo messo tra le richieste I disincantati, il nuovo romanzo di Budd Schulberg, e ne era appena arrivata una copia. Saltai a bordo della Sunliner (non c'era macchina più appropriata per quella che proprio allora cominciava a essere chiamata la Sun Coast) e corsi a prendere il libro.

Uscendo dalla biblioteca, nell'atrio notai un nuovo manifesto. Sarebbe stato impossibile non vederlo: era di un azzurro squillante, con il disegno di un ornino tremante di freddo accanto a un enorme termometro. La colonnina segnava -20.

HAI MESSO IN FREEZER IL SOGNO DI UNA LAUREA? chiedeva una scritta. FORSE ANCHE TU PUOI RICEVERNE UNA! CONTATTACI PER AVERE INFORMAZIONI! – UNITED COLLEGE OF OKLAHOMA.

United College of Oklahoma. Il nome puzzava più di un pesce marcio, ma mi fece venire un'idea. Soprattutto perché mi annoiavo. Oswald era ancora nei marines, non sarebbe stato congedato prima di settembre, e a quel punto sarebbe andato in Russia. Per prima cosa, avrebbe cercato di rinunciare alla cittadinanza americana. Non ci sarebbe riuscito, ma dopo un eclatante (e probabilmente finto) tentativo di suicidio in un hotel di Mosca, i russi gli avrebbero permesso di restare nel loro Paese. Per un «periodo di prova», si potrebbe dire. Ci sarebbe rimasto trenta mesi o giù di lì, lavorando in una fabbrica di radio a Minsk. A una festa avrebbe incontrato una ragazza di nome Marina Prusakova. «Abito rosso, scarpette bianche», aveva scritto Al nei suoi appunti. «Carina. Vestita per il ballo.»

Buon per lui, ma io che avrei fatto nel frattempo? Il sedicente United College of Oklahoma mi offriva un'opportunità. Scrissi per ricevere i dettagli dell'offerta, e mi risposero a breve giro. Il catalogo vantava una pletora di lauree. Mi affascinò scoprire che, al prezzo di trecento dollari (in contanti o vaglia postale), avrei potuto riceverne una in letteratura inglese. Dovevo solo superare un esame che consisteva in cinquanta domande a risposta multipla.

Mandai il vaglia, con le labbra della mente diedi il bacio d'addio ai trecento dollari e inoltrai la richiesta. Due settimane dopo, mi arrivò una sottile busta beige con l'intestazione UCO. Dentro c'erano due fogli ciclostilati, dai caratteri sbavati. Le domande erano fantastiche. Ecco due delle mie preferite:

 

22. Qual era il cognome di «Moby»?

A. Tom

B. Dick

C. Harry

D. John

 

37. Chi ha scritto La casa dei sette capretti?

A. Charles Dickens

B. Henry James

C. Ann Bradstreet

D. Nathaniel Hawthorn [sic]

E. Nessuno di questi

 

Quando finii di godermi le domande, iniziai a rispondere (ogni tanto sbottando in un «Naaah, mi prendete per il culo!») e rispedii i fogli a Enid, Oklahoma. Ricevetti una cartolina con le congratulazioni per aver superato l'esame e, dopo il pagamento di altri cinquanta dollari di «Spese amministrative», mi informarono che presto avrei ricevuto il diploma di laurea. Quest'ultimo aveva un aspetto molto migliore dei fogli ciclostilati, ed esibiva addirittura un sigillo dorato. Quando lo presentai a un membro della Commissione Istruzione della contea di Sarasota, lo accettò senza battere ciglio e mi mise nella lista dei supplenti.

Fu così che tornai a insegnare, per uno o due giorni alla settimana, nell'anno scolastico 1959-60. Era bello esserci di nuovo. Gli studenti mi piacevano: i maschi avevano il taglio militare, le femmine code di cavallo e gonne a sbuffo lunghe fino alle caviglie. Tuttavia, ero tristemente consapevole che in qualunque classe andassi a fare lezione, avevo di fronte solo volti in ogni sfumatura di bianco.

Quei giorni da supplente mi riconciliarono con un aspetto basilare della mia personalità: scrivere era divertente, e avevo anche scoperto di essere bravo, ma quel che amavo davvero era insegnare. Mi faceva sentire realizzato in un modo che non posso, anzi, non voglio spiegare. Le spiegazioni sono poesia di bassa lega.

Il mio miglior giorno da supplente fu alla West Sarasota High, dopo una lezione di letteratura americana in cui avevo riassunto ai ragazzi la trama de Il giovane Holden. Libro che, ovviamente, non era permesso nella biblioteca scolastica, e se uno studente lo avesse introdotto in quel santuario del sapere, glielo avrebbero confiscato. Esortai i ragazzi a parlare della principale lagnanza di Holden Caulfield, e cioè che la scuola, la società adulta e, in generale, la vita americana fossero tutte false. All'inizio la classe nicchiava, ma quando suonò la campanella si davano sulla voce tutti insieme, e sei o sette rischiarono di arrivare tardi alla lezione successiva pur di esprimere un ultimo parere su cosa andava male nella società che li attorniava e nelle vite che i genitori avevano programmato per loro. I loro occhi scintillavano, le guance erano rosse di eccitazione. Senza dubbio, nelle librerie della zona, sarebbero aumentati gli acquisti di un certo tascabile con la copertina rossa. L'ultimo a uscire fu un ragazzo muscoloso che indossava una felpa da football. Mi ricordava Moose Mason, il personaggio di Archie.

«Magari fosse qui sempre, signor Amberson», disse col suo morbido accento del Sud. «Mi piace un sacco.»

Non solo gli piacevo: gli piacevo un sacco. Non c'è esperienza comparabile al sentirsi dire una cosa del genere da un diciassettenne che sembra essersi risvegliato per la prima volta in tutta la sua carriera scolastica.

Qualche tempo dopo, il preside mi convocò nel suo ufficio, e dopo un po' di convenevoli e una bibita, mi chiese: «Figliolo, sei un sovversivo?» Gli assicurai di no. Gli dissi che avevo votato per Ike. Sembrò accontentarsi della risposta, ma mi suggerì di attenermi, da lì in avanti, alla «lista di letture comunemente accettata». Cambiano i tagli di capelli, cambia la lunghezza delle gonne, cambia il modo di parlare… Ma l'amministrazione di una scuola superiore? Quella non cambia mai.

5

Durante una lezione all'università (era successo all'Università del Maine, un vero college che mi aveva rilasciato una vera laurea), avevo sentito un docente di psicologia dire che gli umani possiedono davvero un sesto senso. Lo chiamava «il pensare d'intuito» e sosteneva che fosse meglio sviluppato nei mistici e nei fuorilegge. Io non ero un mistico, ma ero sia un esule dal mio tempo, sia un omicida (potevo anche ritenere giustificata l'uccisione di Frank Dunning, ma di certo la polizia non la vedeva allo stesso modo). Se quelle due cose non facevano di me un fuorilegge, nient'altro avrebbe potuto farlo.

«Il consiglio che vi do per situazioni di potenziale pericolo», disse il prof quel giorno del 1995, «è: date ascolto al vostro intuito.»

Nel luglio del 1960 decisi di farlo. Eduardo Gutierrez mi metteva sempre più a disagio. Era un ometto, ma c'erano quei presunti legami con la mafia… e quella lucina negli occhi quando mi aveva pagato la vincita al Kentucky Derby, somma che ora mi sembrava stupidamente esagerata. Perché avevo puntato una cifra del genere, quand'ero ben lungi dal trovarmi in bolletta? Non era stata avidità: penso fosse più simile alla voglia che prende un buon battitore quando vede una palla curva scendere verso di lui. In certi casi, non puoi fare a meno di tentare l'home run, e dare la mazzata. Io l'avevo fatto, come diceva spesso Leo «The Lip» Durocher in quelle colorite trasmissioni alla radio, ma adesso me ne rammaricavo.

Persi di proposito le ultime due scommesse, e feci del mio meglio per sembrare stupido, uno scommettitore come tanti, uno che ogni tanto aveva un colpo di fortuna e in breve tempo riperdeva tutto, ma l'intuito mi diceva che non stava funzionando. E non gradì quando Gutierrez prese a salutarmi con un:

«Guarda guarda! Ecco il mio yanqui da Yankeeland!» Non uno yanqui qualsiasi: il suo.

E se avesse ordinato a uno dei suoi compagni di poker di seguirmi da Sunset Point a Tampa? Era possibile che lo mandasse, in compagnia di altri sgherri (o di un paio di forzuti ansiosi di ripagare un debito a quello strozzino), a recuperare quel che restava dei suoi diecimila? Per la mia mente razionale era solo un banale plot da telefilm poliziesco, ma il mio intuito la pensava diversamente. L'intuito diceva che l'ometto stempiato era perfettamente in grado di ordinare un'irruzione in casa mia, di inviare una squadraccia con l'ordine di rompermi il culo se avessi cercato di oppormi. Non volevo essere pestato né derubato. Soprattutto, non volevo rischiare che il manoscritto e gli appunti finissero nelle mani di un allibratore mafioso. Non mi piaceva l'idea di scappare con la coda tra le gambe, ma diavolo, sarei comunque dovuto partire per il Texas, presto o tardi, e allora perché non presto? Inoltre, la discrezione è la miglior componente del coraggio. Me l'aveva insegnato mia madre, quand'ero piccolo.

E così, dopo una nottata di luglio quasi insonne, durante la quale i segnali acustici del mio intuito erano stati più forti del solito, misi insieme i miei beni terreni (la cassetta con il memoriale e i contanti la nascosi sotto la ruota di scorta), lasciai al padrone di casa un biglietto e un assegno con l'ultima mensilità, e mi diressi verso nord sulla US 19. Trascorsi la prima notte di viaggio in un decrepito motel a DeFuniak Springs. Le pareti erano bucherellate, e finché non spensi l'unico lume della stanza (una nuda lampadina appesa a un filo elettrico parecchio malconcio), fui accerchiato da zanzare grosse come aerei da caccia.

Eppure dormii come un bimbo. Niente incubi, e gli impulsi del mio sonar erano cessati. Molto bene.

Trascorsi il primo giorno d'agosto a Gulfport, Louisiana, anche se il primo posto in cui mi fermai, all'estrema periferia della città, si rifiutò di accettarmi. L'addetto alla ricezione del Red Top Inn mi spiegò che la locanda era solo «per negri», e mi diede indicazioni per la Southern Hospitality, che definì «la migliore di Guffpot». Forse sì, ma nel complesso, credo che avrei preferito il Red Top. Il suono di slide guitar che usciva dal bar-ristorante lì accanto era fantastico.

6

New Orleans non era esattamente lungo la strada per Dallas, ma con il sonar ormai calmo, ero entrato in uno stato mentale da turista… benché i luoghi che volevo visitare non fossero il Quartiere Francese, l'attracco dei battelli a vapore in Bienville Street o il Vieux Carré.

Comprai una mappa e capii come arrivare all'unica destinazione che mi interessava. Parcheggiai, proseguii a piedi e, dopo cinque minuti, mi trovai di fronte al 4905 di Magazine Street, dove Lee e Marina Oswald avrebbero vissuto con la figlia June durante l'ultima primavera e l'ultima estate nella vita di John Kennedy. Quasi una catapecchia, circondata da una cancellata di ferro alta sì e no un metro, con il cortile pieno di erbacce. I muri del pianterreno, un tempo bianchi, erano scrostati e tendenti al giallo piscio. Il piano superiore non l'avevano nemmeno dipinto, le assi di legno erano grigiastre. A chiudere una finestra rotta c'era un pezzo di cartone con la scritta: AFFITTASI, CHIAMARE MU3-4192. Una ringhiera arrugginita cingeva il portico sotto cui, nel settembre del '63, Lee Oswald si sarebbe seduto in mutande e, sussurrando «Bang! Bang!», avrebbe finto di sparare ai passanti con quello che presto sarebbe divenuto il più famoso fucile della storia americana.

Stavo pensando a questo quando qualcuno mi batté col dito sulla spalla, e quasi mi scappò da urlare. Probabilmente sobbalzai, perché il giovane di colore che mi aveva accostato fece un rispettoso passo indietro, alzando entrambe le mani.

«Mi scusi, signore, non intendevo spaventarla.»

«È tutto a posto», dissi. «Colpa mia.»

Quell'asserzione parve metterlo a disagio, ma aveva in mente un affare e non perse tempo… anche se dovette accostarsi di nuovo, perché la proposta implicava un tono di voce più basso del normale. Voleva sapere se mi interessava comprare dei «cicchini». Pensavo di aver capito che intendesse, ma non ne fui sicuro finché non aggiunse: «Erba di alta qualità, signore».

Risposi che non mi interessava, ma gli chiesi di indicarmi un buon albergo nella Parigi del Sud, aggiungendo che l'informazione valeva mezzo pezzo. Quando riaprì bocca, parlò in modo molto più spiccio: «Ci sono diversi pareri, ma io direi l'Hotel Monteleone». E mi diede chiare indicazioni.

Lo ringraziai e gli diedi la moneta. Scomparve in una delle sue numerose tasche.

«Signore, perché stava fissando quel posto?» Con un cenno del mento, indicò la sgangherata casa a due piani. «Sta pensando di comprarlo?»

Per un istante tornai il vecchio George Amberson: «Lei deve vivere da queste parti. Pensa che potrebbe essere un buon affare?»

«Alcune case di questa via potrebbero esserlo, ma questa no. A me sembra infestata dagli spettri.»

«Non ancora, ma lo sarà», replicai, e mi diressi verso l'auto, lasciandolo a fissarmi confuso.

7

Prelevai la cassetta dal cofano della Sunliner e la posai sul sedile del passeggero. Intendevo portarla di persona nella mia stanza al Monteleone, ed è quel che feci, ma mentre il portiere prendeva il resto delle mie cose, vidi sul tappetino posteriore un oggetto che mi fece arrossire di senso di colpa. Un senso di colpa sproporzionato rispetto all'entità del misfatto, ma ciò che impariamo da bambini rimane per sempre, e un'altra cosa che mia madre mi aveva insegnato era: i libri della biblioteca vanno sempre restituiti.

«Portiere, vorrebbe darmi quel libro, per favore?» gli chiesi.

«Ma certo, ecco qui!»

Era Foeminae di Irving Wallace, che avevo preso in prestito dalla biblioteca pubblica di Nokomis una settimana prima di decidere che era tempo di svignarmela. SOLO 7 GIORNI – RISPETTA CHI VIENE DOPO DI TE, mi rimproverava l'adesivo sulla sovracoperta trasparente.

Quando entrai in camera, guardai l'orologio e vidi che erano solo le sei di sera. Durante l'estate la biblioteca non apriva prima di mezzogiorno, ma chiudeva alle otto. Le telefonate interurbane sono una delle poche cose che costavano di più nel 1958 che nel 2011, ma provavo quell'infantile senso di colpa, così chiamai il centralino dell'albergo e diedi il numero della biblioteca, leggendolo dalla taschetta di cartoncino incollata al risvolto. Il messaggio in piccoli caratteri che veniva dopo («Si prega di telefonare in caso di ritardo superiore a tre giorni») mi fece sentire più meschino che mai.

L'operatrice contattò un'altra operatrice. In sottofondo, un parlottare di voci flebili. Mi resi conto che, nel tempo da cui provenivo, quasi tutti quei lontani parlanti erano morti. Poi il telefono squillò all'altro capo.

«Pronto, biblioteca pubblica di Nokomis.» Era la voce di Hattie Wilkerson, ma sembrava che la dolce, anziana signora parlasse dal fondo di un fusto di metallo.

«Pronto, signora Wilkerson…»

«Pronto? Pronto? Mi sente? Maledette interurbane!»

«Hattie?» urlai. «Sono George Amberson!»

«George Amberson? Santo cielo! Da dove stai chiamando, George?»

Stavo per dirle la verità, ma il sonar del mio intuito emise un forte segnale e dissi: «Da Baton Rouge!»

«In Louisiana?»

«Sì! Ho uno dei vostri libri! Me ne sono accorto solo adesso! Lo spe…»

«Non c'è bisogno di urlare, George, ora ti sento bene. Devono aver infilato meglio lo spinotto. Sono così contenta di sentirti. È stata la Provvidenza a mandarti via. Ci siamo tanto preoccupati, anche se il capo dei pompieri ha detto che la casa era vuota…»

«Di che sta parlando, Hattie? Della mia casa sulla spiaggia?»

Già, di cos'altro, sennò?

«Sì! Qualcuno ha lanciato una bottiglia incendiaria attraverso la finestra. È andato tutto in cenere in pochi minuti. Il capo Durand pensa che siano stati ragazzini ubriachi. Ormai è pieno di mele marce. È perché hanno paura della bomba atomica, dice mio marito.»

Ah.

«George? Sei ancora lì?»

«Sì», risposi.

«Qual è il libro che non hai restituito?»

«Cosa?»

«Il libro. Non ho voglia di controllare nel registro.»

«Oh. Foeminae.»

«Bene, spediscilo appena puoi, va bene? C'è un bel po' di gente che aspetta di prenderlo in prestito. Wallace sta avendo molto successo.»

«Certo», dissi. «Provvederò.»

«E mi spiace molto per casa tua. Hai perso le tue cose?»

«Tutte quelle importanti le ho con me.»

«Sia ringraziato Dio. Tornerai presto a…»

Si sentì uno scatto tanto forte da spaccare i timpani, poi il suono della linea libera. Riattaccai la cornetta. Sarei tornato presto? Non sentii il bisogno di richiamare e rispondere alla domanda. Ma avrei tenuto la guardia alta contro il passato, perché il passato riconosce gli agenti del cambiamento, e ha denti aguzzi.

Spedire Foeminae alla biblioteca di Nokomis fu la prima cosa che feci il mattino dopo.

La seconda fu partire per Dallas.

8

Tre giorni dopo, sedevo su una panchina nella Dealey Plaza e guardavo l'edificio cubico di mattoni noto come Texas School Book Depository. Era tardo pomeriggio, e faceva un caldo infernale. Mi ero allentato la cravatta (se nel 1960 non ne indossi una, anche nelle giornate afose, attirerai sguardi indiscreti) e avevo slacciato il primo bottone della mia camicia bianca, ma non era servito a molto, come non serviva a molto la scarsa ombra dell'olmo che sovrastava la panchina.

Quando mi ero registrato all'Hotel Adolphus di Commerce Street, mi era stata offerta una scelta: con aria condizionata o senza? Avevo pagato cinque dollari extra per una stanza in cui la ventola alla finestra abbassava la temperatura a soli 26 gradi, e se avevo ancora un po' di sale in zucca, era là che sarei dovuto tornare, prima di prendermi un'insolazione. Al calar della sera, forse avrebbe fatto più fresco. Almeno un poco.

Ma il grande cubo di mattoni attraeva il mio sguardo, e le finestre (soprattutto quelle all'angolo destro del quinto piano) sembravano scrutarmi. C'era qualcosa di sbagliato in quell' edificio, la sensazione era quasi tangibile. Voi (se mai ci sarà un «VOI») potete anche riderne, dire che era solo la conseguenza del fatto che sapevo già cosa sarebbe accaduto, ma questo non spiega perché me ne stessi su quella panchina a dispetto del caldo soffocante. No, a tenermi inchiodato lì era la sensazione di déjà vu. Quell'edificio non mi era nuovo.

Mi ricordava i ruderi delle Ferriere Kitchener di Derry.

Il deposito di libri non era in rovina, ma trasmetteva lo stesso senso di consapevole minaccia. Ricordavo di essermi avvicinato a quella gigantesca, annerita ciminiera, distesa tra le erbacce come un serpente preistorico appisolato al sole. Ricordavo di aver guardato nel foro oscuro, così largo che avrei potuto entrarci in piedi. E ricordavo di aver percepito una presenza. Là in fondo c'era qualcosa di vivo. Qualcosa che voleva attirarmi dentro. Voleva che gli facessi visita. Una lunga, lunghissima visita.

Entra, diceva ora la finestra al quinto piano. Vieni a dare un'occhiata, il personale estivo è già andato a casa, ma se giri l'angolo, segui i binari e arrivi alla zona di carico e scarico, troverai una porta aperta, ne sono sicura. Dopotutto, che c'è qui dentro da proteggere? Sono solo libri di scuola, e nemmeno gli studenti a cui sono destinati li vogliono davvero. Dovresti saperlo meglio di me, Jake. Perciò, entra. Sali al quinto piano. Nella tua epoca qui c'è un museo, la gente viene da tutto il mondo, e alcuni piangono per l'uomo che è stato ucciso, per tutto quello che avrebbe potuto fare… Ma questo è il 1960, Kennedy è ancora un senatore, e Jake Epping non esiste. Solo George Amberson esiste, un uomo dai capelli corti, con la camicia sudata e la cravatta allentata. Un uomo del suo tempo, per così dire. E allora sali. Hai paura dei fantasmi? Come puoi, se il crimine non è ancora stato commesso?

Ma lassù i fantasmi c'erano. Forse non nella casa di Magazine Street, a New Orleans, ma lassù c'erano. Solo che non avrei mai dovuto affrontarli, perché non avrei mai messo piede in quel deposito, come a Derry non ero entrato nella ciminiera crollata. Oswald avrebbe ottenuto il suo impiego da magazziniere solo un mese prima dell'omicidio, e attendere tanto a lungo prima di agire sarebbe stato rischioso. No, la mia intenzione era seguire il piano che Al aveva tracciato nell'ultima parte del suo quaderno, quella intitolata «Conclusioni su come procedere».

Per quanto sicuro che il colpevole fosse uno solo, Al aveva tenuto in considerazione la piccola ma statisticamente rilevante possibilità di sbagliarsi. Nei suoi appunti l'aveva chiamata la «finestra di incertezza».

Una finestra, come quella al quinto piano.

Al intendeva chiudere quella finestra una volte per tutte il 10 aprile 1963, più di sei mesi prima del viaggio di Kennedy a Dallas, e a me sembrava un'idea sensata. Forse in quello stesso aprile, probabilmente la sera del 10 (perché aspettare oltre?) avrei ucciso il marito di Marina e padre di June, come avevo ucciso Frank Dunning. E senza rimorsi. Se vedi un ragno che avanza sul pavimento diretto alla culla della tua bimba, puoi anche avere qualche scrupolo, pensare che in fondo basta intrappolarlo in una bottiglia e liberarlo in cortile, dove potrà continuare a fare la sua piccola vita. Ma se sei certo che quel ragno è velenoso? Magari una vedova nera? In quel caso, di remore non ne hai. Non se sei sano di mente.

Ci metti il piede sopra e lo schiacci.

9

Avevo un piano per gli anni tra l'agosto del '60 e l'aprile del '63: avrei tenuto d'occhio Oswald al suo ritorno dalla Russia, ma senza interferire. Non potevo permettermi di farlo, per via dell'effetto farfalla. Se esiste una metafora più stupida di «Catena degli eventi», io non la conosco. Le catene (a parte quelle di carta colorata che impariamo a fare all'asilo) sono resistenti. Le usiamo per tirar fuori il blocco motore da un camion o per legare mani e piedi a detenuti pericolosi. Quella non era più la realtà come io la percepivo: gli eventi sono fragili, vi dico, sono castelli di carte, e se mi fossi avvicinato a Oswald (per non dire se avessi cercato di dissuaderlo dal commettere un crimine che non aveva ancora in mente), avrei perso il mio unico vantaggio. La farfalla avrebbe spiegato le ali, e la vita di Oswald sarebbe cambiata.

All'inizio sarebbero stati piccoli cambiamenti, forse, ma come dice la canzone di Springsteen, da piccole cose, baby, un giorno ne nascono di grandi. Le cose sarebbero potute cambiare in meglio, salvando la vita all'uomo che adesso era al suo primo mandato da senatore del Massachusetts. Tuttavia, io non ne ero convinto, perché il passato è inflessibile. Nel 1962, stando agli appunti di Al, Kennedy sarebbe andato a Houston, alla Rice University, a fare un discorso sulla conquista della luna. «Auditorium aperto a tutti, niente podio antiproiettile», aveva scritto Al. Houston era a meno di quattrocentocinquanta chilometri da Dallas. E se Oswald avesse deciso di uccidere il presidente in quella circostanza?

E se fosse stato proprio quel che aveva detto di essere, un capro espiatorio?

Se l'avessi spaventato e tenuto lontano da Dallas, lui fosse tornato a New Orleans… e Kennedy fosse morto lo stesso, vittima di qualche folle complotto della mafia o della CIA? Avrei trovato il coraggio di tornare nella buca del coniglio e ricominciare tutto da capo? Salvare di nuovo la famiglia Dunning, salvare di nuovo Carolyn Poulin?… Avevo già dedicato a quella missione quasi due anni di vita. Avrei avuto la forza di volontà per investirne altri cinque, con l'esito più incerto che mai?

Meglio non doverlo scoprire.

Meglio andare sul sicuro.

All'inizio avevo deciso che il modo migliore di sorvegliare Oswald senza interferire nella sua vita sarebbe stato insediarmi a Dallas mentre lui era nella città gemella di Fort Worth, e scambiarmi di posto con lui quando si fosse spostato a Dallas con la famiglia. L'idea aveva il pregio della semplicità, ma non poteva funzionare. Me ne resi conto nelle settimane che seguirono la mia prima ricognizione al Texas School Book Depository, quando avevo sentito con forza che (come l'abisso di cui parlava Nietzsche) l'edificio guardava dentro di me.

Trascorsi l'agosto e settembre di quella campagna presidenziale girando in auto per la città, in cerca di un appartamento. Anche dopo tutto quel tempo mi mancava il mio navigatore, poiché dovevo spesso fermarmi a chiedere indicazioni. Niente sembrava andare bene. All'inizio pensai fosse colpa degli appartamenti, ma poi, quando iniziai a farmi un'idea più approfondita del posto, capii che il problema ero io.

La verità era che Dallas, semplicemente, non mi piaceva, e otto settimane di esplorazione bastarono a farmi capire che gli aspetti sgradevoli erano tanti. Il Times Herald (che la gente del luogo era solita chiamare «Slimes Herald», il messaggero della melma) era un tedioso bastione della peggior propaganda localistica. A volte il Morning News propinava liriche descrizioni di Dallas e Houston intente in una «corsa verso il cielo», ma i grattacieli di cui parlava l'editoriale erano un'isola di banalità architettonica attorniata da cerchi concentrici di quello che iniziai a chiamare il Grande Culto Americano del Piattume. I giornali ignoravano i quartieri degradati dove le linee di divisione tra razze iniziavano a sfumare almeno un poco. Ancor più verso l'esterno, c'era un'interminabile sequela di case di proprietà, quasi tutte di reduci della seconda guerra mondiale e della Corea. Le loro mogli passavano le giornate a spalmare il Pronto sui mobili e facendo il bucato nelle nuove macchine per lavare e asciugare; le famiglie avevano 2,5 figli; gli adolescenti tagliavano l'erba, consegnavano lo Slimes Herald in bicicletta, lavavano l'auto di famiglia e ascoltavano (di nascosto) Chuck Berry su radioline a transistor. Dicendo magari ai loro ansiosi genitori che era bianco.

Oltre le case dei sobborghi coi loro annaffiatoi rotanti c'erano vaste aree disabitate. Qui e là irrigatori automatici bagnavano ancora qualche campo di cotone, ma King Cotton era quasi morto, ormai spodestato da sterminate distese di granturco e soia. I veri raccolti della contea di Dallas erano l'elettronica, il tessile e i petrodollari. Nelle vicinanze non c'erano molte torri di trivellazione, ma quando il vento soffiava da ovest, dal Bacino Permiano, le due città gemelle puzzavano di petrolio e gas naturale.

In centro, il quartiere del business era pieno di elegantoni che andavano su e giù indossando il «completo-Dallas-con-tutti-gli-accessori»: giacca sportiva a quadri, cravatta stretta con fermaglio (quei fermagli erano enormi, la versione anni Sessanta dei gioielli da rapper; di solito avevano al centro un diamante o almeno un plausibile, brillante surrogato), calzoni bianchi con l'elastico in vita e vistosi stivali con intricate cuciture. Lavoravano in banche e finanziarie. Vendevano futures sulla soia e licenze minerarie o lotti a ovest della città, terra dove non cresceva niente a parte stramonio e cespugli rotolanti. Si davano pacche sulle spalle con mani piene di anelli e si chiamavano l'un l'altro «figliolo». Sulle loro cinture, dove il businessman del 2011 tiene il cellulare, molti portavano pistole in fondine cucite a mano.

C'erano cartelloni che chiedevano l'impeachment del giudice-capo della corte suprema Earl Warren, e altri che mostravano un sogghignante Nikita Krusciov (NYET, COMPAGNO KRUSCIOV! SAREMO NOI A SEPPELLIRE TE!). Su West Commerce Street ce n'era uno che diceva: IL PARTITO COMUNISTA AMERICANO È A FAVORE DELL'INTEGRAZIONE. PENSACI BENE! Quell'affissione era stata pagata da una certa Tea Party Society. Per due volte vidi vetrine imbrattate da svastiche, vetrine di negozianti i cui cognomi suonavano ebrei.

Dallas non mi piaceva. Nossignore, nossignora, proprio per niente. Non mi era piaciuta fin dal primo momento, da quando avevo preso una stanza all'Adolphus e avevo visto il cuoco artigliare il braccio a un cameriere mentre gli sbraitava contro. L'uomo aveva in faccia una smorfia di dolore.

Nondimeno, era lì che dovevo sbrigare le mie faccende, ed era lì che sarei rimasto. O almeno, questo è quel che pensavo allora.

10

Il 22 novembre, alla fine, trovai un posto che sembrava vivibile. Era in Blackwell Street, nella parte nord di Dallas. Un garage trasformato in appartamento soppalcato. Piuttosto carino. Il suo più grande pregio: aveva l'aria condizionata. Il suo più grande difetto: il proprietario, Ray Mack Johnson, era uno schifoso razzista. Mi disse esplicitamente che, se avessi preso il posto in affitto, avrei fatto meglio a stare alla larga da Greenville Avenue, perché c'erano un sacco di locali dove si mescolavano le razze, ed era piena di negri con quei coltelli a serramanico che chiamò switchers.

«Io non ho niente contro i negri», mi disse. «Nossignore. È stato Dio a condannarli a stare come stanno, non io. Lo sa anche lei, no?»

«Mi sa che quella parte della Bibbia mi è sfuggita.»

Mi diede un'occhiata insospettita: «Cos'è lei, un metodista?»

«Sì», risposi. Mi parve più prudente dire così anziché rivelare che, confessionalmente parlando, non ero un bel nulla.

«Oh, ma lei deve credere alla maniera di noi battisti, figliolo. La nostra

Chiesa accoglie i nuovi arrivati a braccia aperte. Se prenderà questo posto, forse una di queste domeniche può venire alla funzione con me e mia moglie.»

«Forse», gli concessi, appuntandomi di andare in coma o morire, se fosse mai arrivato un tal giorno.

Nel frattempo, Johnson era tornato alla sua esegesi biblica.

«Vede, un bel giorno, sull'arca, Noè si era sbronzato e stava sul letto nudo come un verme. Due dei suoi figli evitarono di guardarlo: si girarono dall'altra parte e gli misero addosso una coperta, o forse era un lenzuolo. Ma Cam, che era il negro della famiglia, guardò suo padre mentre era nudo, e Dio maledisse lui e tutta la sua razza e li condannò a essere taglialegna e portatori d'acqua. È così che va, ed è quella la ragione. Genesi, capitolo 9. Può controllare coi suoi occhi, signor Amberson.»

«Uh-huh», mugolai, mentre mi ripetevo che da qualche parte dovevo pure stabilirmi, non potevo restare all'Adolphus a tempo indeterminato. Mi dissi: Posso convivere con un po' di razzismo, non mi scioglierò per questo. Mi dissi: È lo spirito dei tempi, probabilmente è così quasi ovunque. Ma non riuscii a convincermi. «Ci penserò sopra e nel giro di un paio di giorni le farò sapere, signor

Johnson.»

«Non aspetti troppo, figliolo, un posto così lo vogliono in tanti. Buona giornata.»

11

La buona giornata era torrida, e cercare casa faceva venire sete. Liberatomi dell'erudita compagnia di Ray Mack Johnson, sentii il bisogno di una birra, e decisi di prenderne una in Greenville Avenue. Se Johnson scoraggiava dal frequentarla, forse valeva la pena darci un'occhiata.

Su due cose era stato accurato: la via era integrata (più o meno), e aveva un'aria scabrosa. Ma era anche vivace. Parcheggiai e mi misi a passeggiare, assaporando l'atmosfera da luna park. Passai di fronte a una ventina di bar, alcuni cinema di seconda visione i cui stendardi sulle enormi insegne, ondeggianti nell'aria calda e odorante di petrolio, promettevano aria condizionata pagata dalle sigarette Kool, e un locale di striptease il cui imbonitore strillava: «Ragazze, ragazze, ragazze! Il miglior burlesque del mondo! Il miglior burlesque che abbiate mai visto! Queste ragazze si depilano, non so se mi spiego!» Vidi anche tre o quattro negozi di prestiti veloci in contanti. Davanti a uno di questi (FAITH FINANCIAL – DOVE «FIDUCIA» È LA PAROLA D'ORDINE), con disinvoltura, qualcuno aveva piazzato una lavagna con la scritta QUOTAZIONI DEL GIORNO e la precisazione SOLO A SCOPO RICREATIVO. La circondavano uomini con cappelli di paglia e bretelle (un look che solo gli scommettitori incalliti osano esibire), intenti a commentare i numeri scritti sopra. Alcuni avevano in mano il tabellino delle corse, altri la sezione sportiva del Morning News.

Solo a scopo ricreativo. Come no. Per un istante, pensai al mio capanno sulla spiaggia che andava a fuoco nel cuore della notte, alle fiamme che si alzavano spinte dal vento del Golfo, nel nero pieno di stelle. «Ricrearsi» aveva certe controindicazioni, soprattutto se si parlava di scommesse.

Musica e odore di birra uscivano dai locali. Sentii Jerry Lee Lewis cantare da un juke-box Whole Lotta Shakin' Goin' On e Ferlin Husky intonare garrulo Wings of a Dove da quello del locale accanto. Fui abbordato da quattro puttane e da un venditore ambulante (vendeva coprimozzi, rasoi dal manico tempestato di brillanti e bandiere dello Stato con il motto NON DISTURBARE IL TEXAS; chissà come suona in latino).

Il senso di déjà vu era forte e perturbante, la sensazione che anche lì le cose fossero sbagliate. Il che era folle: non ero mai stato prima in Greenville Avenue. Eppure era innegabile, lo sentivo nel cuore anziché in testa. All'improvviso decisi che la birra non la volevo. Né volevo nemmeno affittare l'ex garage del signor Johnson, e pazienza per l'aria condizionata.

Ero appena passato davanti a un bar chiamato Desert Rose, dove il juke-box sparava Muddy Waters a tutto volume. Mentre mi giravo per tornare dove avevo posteggiato l'auto, un uomo uscì di corsa da1 locale. Inciampò e cadde lungo disteso sul marciapiede. Dall'interno giunse un boato di risate. Una donna gridò:

«E non tornare indietro, mostriciattolo senza cazzo!» Cosa che produsse risate ancora più forti.

Il cliente sbattuto fuori aveva il naso sanguinante e fuori asse, oltre a un graffio sulla guancia sinistra, che andava dalla tempia alla mandibola. Gli occhi erano sgranati e attoniti. La camicia era uscita dai pantaloni e le falde arrivavano quasi al ginocchio. Si aggrappò a un lampione e riuscì ad alzarsi. Una volta in piedi, si guardò intorno senza vedere niente.

Feci un passo o due nella sua direzione, ma prima che potessi raggiungerlo, una delle battone che aveva cercato di adescarmi arrivò ondeggiando sui tacchi a spillo. Non era una donna, non ancora. Non poteva avere più di sedici anni. Aveva grandi occhi scuri e pelle liscia color caffè. Sorrideva, ma non era un sorriso sarcastico, e quando l'uomo insanguinato barcollò, lei lo prese per un braccio.

«Piano, tesoro», gli disse. «Devi calmarti se non vuoi…»

L'uomo sollevò le falde della camicia. L'impugnatura di madreperla di una pistola (molto più piccola di quella che avevo comprato al Machen's, davvero poco più di un giocattolo) premeva contro il pallore dell'adipe, infilata nei calzoni in gabardine. La cerniera era mezza aperta e si vedevano boxer con macchine da corsa rosse. Quel dettaglio mi è rimasto in testa. L'uomo estrasse la pistola, premette la canna contro l'addome della passeggiatrice e tirò il grilletto. Si sentì un piccolo, stupido pop!, come un petardo che scoppiava in un barattolo, tutto lì. La ragazza gridò e cadde a sedere sul marciapiede, le mani sul ventre.

«Mi hai sparato!» Sembrava più offesa che ferita, ma tra le sue dita cominciava a scorrere il sangue. «Mi hai sparato, tu, inutile finocchio! Perché lo hai fatto?»

L'uomo la ignorò, e spalancò la porta del Desert Rose. Io ero ancora lì dove mi trovavo, in parte perché ero bloccato dallo shock, ma soprattutto perché tutto era accaduto in pochi secondi. Forse durò di più dell'attentato di Oswald al presidente degli Stati Uniti, ma non molto.

«È questo che vuoi, Linda?» gridò. «Se è questo che vuoi, lo avrai!»

Si puntò la pistola contro l'orecchio e tirò il grilletto.

12

Piegai il mio fazzoletto e lo premetti dolcemente sul foro nell'abito rosso della prostituta. Non so quanto fosse grave la ferita, ma la ragazza era abbastanza in forze da prodursi in una sfilza di frasi colorite che probabilmente non aveva imparato da sua madre (ma in fondo, chi può dirlo?). E quando dal capannello che si stava formando un uomo le venne troppo vicino, lei sbottò: «Smettila di guardarmi sotto la gonna, bastardo ficcanaso. Per quello devi pagare!»

«Questo povero figlio di puttana è morto stecchito», fece notare qualcuno.

Era carponi accanto all'uomo che avevano cacciato dal locale. Una donna iniziò a strillare.

Sirene in avvicinamento, e strillavano pure quelle. Avvistai un'altra delle signorine che mi avevano fatto avance, una rossa in pantaloni Capri. La chiamai con un cenno. Lei si indicò il petto nel classico gesto chi, io?, e io annuii: sì, tu.

«Tieni questo fazzoletto sulla ferita», le dissi. «Cerca di fermare il sangue. Io devo andare.»

Mi rivolse un sorrisetto furbo. «Vuoi risparmiarti l'arrivo degli sbirri?»

«Esatto. Non conosco nessuna di queste persone. Ero solo di passaggio.»

La rossa si inginocchiò sul marciapiede accanto alla ragazza ferita e imprecante, e prese il fazzoletto fradicio. «Tesoro, qui siamo tutti di passaggio.»

13

Quella notte non riuscii a dormire. Ogni volta che stavo per prendere sonno, rivedevo la faccia sudata e compiaciuta di Ray Mack Johnson mentre dava la colpa di duemila anni di schiavitù, morte e sfruttamento a un ragazzino che aveva occhieggiato la leva del cambio di suo padre. Mi risvegliavo di colpo, tornavo a sdraiarmi, ero lì lì per addormentarmi… e rivedevo l'ometto con la cerniera aperta puntarsi la pistola all'orecchio. È questo che vuoi, Linda? Ultima manifestazione di petulanza prima del grande sonno. E tornavo sveglio. La volta dopo, toccava a uomini in una berlina nera che lanciavano una bottiglia incendiaria in casa mia a Sunset Point: Eduardo Gutierrez cercava di sbarazzarsi del suo yanqui da Yankeeland. Perché? Perché non gli piaceva perdere, tutto qui. Per lui, era già un motivo sufficiente.

Finalmente rinunciai al sonno e sedetti alla finestra, dove il condizionatore dell'albergo ronzava con sprezzo del pericolo. Nel Maine la nottata sarebbe stata rigida, roba da iniziare ad addobbare gli abeti, ma a Dallas alle due e mezzo del mattino c'erano ancora ventiquattro gradi, e l'aria era umida.

«Dallas, Derry», dissi mentre guardavo in basso. Commerce Street era un fossato silenzioso. Il cubo di mattoni del deposito di libri non era visibile, ma era vicino, tanto da poterci arrivare a piedi.

«Derry, Dallas.»

Ciascuno dei due nomi era composto da due sillabe che si spezzavano sulla doppia consonante come un bastone su un ginocchio piegato. Non potevo restare lì. Altri trenta mesi nella Grande D mi avrebbero fatto impazzire. Quanto tempo sarebbe passato prima che iniziassi a vedere scritte come PRESTO UCCIDERÒ MIA MADRE, o un feticcio voodoo col volto di Gesù galleggiare nel Trinity River? Forse Fort Worth era meglio, ma era ancora troppo vicina.

Devo proprio stabilirmi nell'una o nell'altra?

Il pensiero si formò poco dopo le cinque del mattino, e aveva la forza di una rivelazione. Avevo una bella macchina (una macchina di cui mi ero innamorato, per dirvela tutta) e nel Texas centrale non mancavano le strade a scorrimento veloce. Molte erano state costruite da poco. Verso la fine del secolo sarebbero diventate un dedalo di cavalcavia e corsie extra, ma nel 1960 erano quasi inquietantemente deserte, in attesa di un traffico di là da venire. C'erano limiti di velocità, ma nessuno li faceva rispettare. In Texas, persino i poliziotti credevano nel vangelo di premi-la-fetta-a-tavoletta-e-fai-urlare-il-motore.

Potevo uscire dalla cappa soffocante che sentivo gravare su Dallas. Potevo trovare un posto più piccolo e meno avvilente, un posto che non sembrasse tanto pieno di odio e violenza. Alla luce del giorno potevo dirmi che quelle cose le stavo solo immaginando, ma non nell'abisso dell'alba. Senza dubbio a Dallas c'erano anche brave persone, migliaia e migliaia, la grande maggioranza, ma c'era sempre quella corda tesa, e a volte si spezzava, com'era successo di fronte al Desert Rose.

Qui a Derry, i tempi brutti non finiscono mai del tutto. Era stata Bevvie a dirlo, e io pensavo che fosse così anche a Dallas, benché mancassero ancora tre anni alla sua giornata peggiore.

«Farò il pendolare», annunciai. «George vuole un bel posto tranquillo, dove poter lavorare al suo libro. Ma poiché il libro parla di una città (di una città posseduta), per continuare le sue ricerche farà il pendolare.»

Non c'era da sorprendersi che ci avessi messo quasi due mesi a farmi venire l'idea: spesso, nella vita, le risposte più semplici sono le più facili da ignorare.

Tornai a letto e mi addormentai quasi subito.

14

Il giorno dopo uscii da Dallas e presi la Highway 77 in direzione sud. In un'ora e mezzo arrivai alla contea di Denholm. Girai a ovest sulla Route 109, più che altro perché mi piaceva il cartellone all'incrocio: mostrava un giovane, eroico giocatore di football che indossava un casco dorato, una canottiera nera e gambali dorati. DENHOLM LIONS, diceva la scritta. TRE VOLTE CAMPIONI REGIONALI! NEL 1960 SAREMO CAMPIONI STATALI! NOI ABBIAMO IL JIM POWER!

Certo, pensai, di qualunque cosa si tratti. Lo sapevo bene, ogni scuola superiore ha i suoi segnali e la sua lingua segreta. È ciò che fa sentire i ragazzi

«dentro» anziché fuori.

Dieci chilometri più avanti, arrivai nella cittadina di Jodie. POPOLAZIONE: 1.280, diceva il cartello. BENVENUTO, FORESTIERO! A metà della larga, alberata strada principale vidi un ristorantino con un cartello in vetrina che diceva: I MIGLIORI MILKSHAKE, LE MIGLIORI PATATINE E I MIGLIORI HAMBURGER DEL TEXAS! Si chiamava Al's.

Chiaramente.

Parcheggiai a pettine di fronte al ristorante, entrai e ordinai il Pronghorn Special, che si rivelò essere un doppio cheeseburger con salsa barbecue e contorno di patatine, più un Rodeo Thickshake (alla vaniglia, al cioccolato o alla fragola). Un Pronghorn non era buono come un Fatburger, ma non era male, e le patatine erano come piacciono a me: croccanti, salate e leggermente troppo cotte.

«Al» era Al Stevens, un uomo magro di mezza età, e non somigliava per niente ad Al Templeton. Aveva un'acconciatura rockabilly, baffi grigi da bandito messicano, un pesante accento texano e un cappello di carta che portava inclinato poco sopra un occhio. Quando gli chiesi se a Jodie c'erano case da affittare, rise e disse: «Scelga quella che vuole. Ma per quanto riguarda il lavoro, questa non è proprio una mecca del commercio. Ci sono quasi solo ranch e, scusi se glielo dico, lei non mi sembra proprio il tipo del mandriano».

«Infatti non lo sono», risposi. «Sono il tipo che scrive libri.»

«Urca! È possibile che abbia letto qualcosa di suo?»

«No, no. Ci sto ancora provando. Sono a metà della stesura di un romanzo, e un paio di editori hanno mostrato interesse. Sto cercando un posto tranquillo per finire il lavoro.»

«Be', se non è tranquilla Jodie…» Alzò gli occhi. «Se si parla di tranquillità, potremmo registrare il brevetto. Diventa rumorosa solo il venerdì sera.»

«Football?»

«Sissignore, ci va l'intera città. Quando arriva l'intervallo, ruggiscono tutti come leoni, poi lanciano l'Urlo di Jim. Li senti a tre chilometri, è abbastanza buffo.»

«Chi è Jim?»

«Jim LaDue, il quarterback. I Denholm Lions hanno avuto delle buone formazioni, ma non c'è mai stato un quarterback come LaDue. Ed è appena al terzo anno. La gente comincia a parlare di vincere il campionato statale. A me sembra un filo ottimistico, con le squadre che hanno a Dallas, ma un po' di speranza non ha mai fatto male a nessuno, mi sembra.»

«Football a parte, com'è la scuola?»

«È molto buona. Alcuni avevano dei dubbi su questa storia dell'accorpamento, e li avevo anch'io, ma alla fine è stata una buona idea Quest'anno hanno avuto più di settecento iscritti. Alcuni vengono in corriera, fanno un viaggio di un'ora e più, ma non sembra un problema. Probabilmente si risparmiano di fare lavori a casa. Il suo libro parla di studenti? Una roba tipo Il seme della violenza? Perché qui di gang non ne abbiamo. Qui i ragazzi ci tengono ancora a comportarsi bene.»

«Niente del genere. È solo che, pur avendo dei soldi da parte, non mi dispiacerebbe arrotondare facendo qualche supplenza. Non più di questo, perché non posso insegnare a tempo pieno e riuscire pure a scrivere.»

«Certo che no», convenne in tono di rispetto.

«La mia laurea è dell'Oklahoma, ma…» Feci spallucce, a segnalare che l'Oklahoma non era al livello del Texas, ma si poteva sempre sperare.

«Be', dovrebbe parlare con Deke Simmons, il preside. Viene a cena qui quasi ogni sera. Sua moglie è morta un paio d'anni fa.»

«Mi dispiace.»

«È dispiaciuto a tutti. È un brav'uomo. Lo sono quasi tutti, qui. Signor?…

«Amberson. George Amberson.»

«Be', George, qui siamo abbastanza sonnolenti, a parte il venerdì sera, ma potrebbe andare peggio. Chissà, magari impara a ruggire sugli spalti come un leone.»

«Perché no?» dissi.

«Torni qui verso le sei. È intorno a quell'ora che arriva Deke.» Mise le braccia sul bancone e si allungò verso di me. «Vuole un consiglio?»

«Certo.»

«Probabilmente verrà con la sua fidanzata. Miss Corcoran, la bibliotecaria della scuola. Stanno insieme dal Natale scorso o giù di lì. Ho sentito dire che in realtà è Mimi Corcoran a dirigere la Denholm Consolidated, perché dirige lui. Se le fa una buona impressione, direi che è a cavallo.»

«Lo terrò a mente.»

15

A Dallas, settimane di ricerca di un appartamento avevano dato un solo esito plausibile, che poi era risultato proprietà di un tizio dal quale non volevo affittarlo. A Jodie mi ci vollero solo tre ore per trovare un posto che sembrava andare bene. Non un appartamento, ma una bella casetta di legno a cinque vani. Era in vendita, mi disse l'agente immobiliare, ma la coppia che la possedeva sarebbe stata disposta ad affittarla, se si fosse presentata la persona giusta. Cortile posteriore ombreggiato da un olmo, garage per la Sunliner… e aria condizionata. L'affitto era ragionevole, visti quei benefici accessori.

L'agente si chiamava Freddy Quinlan. Era incuriosito da me (penso che la targa del Maine sulla mia auto gli sembrasse molto esotica), ma non era un ficcanaso. La cosa migliore era che mi sentivo finalmente sfuggito alla cappa d'oscurità che mi aveva sovrastato a Dallas, a Derry e a Sunset Point, dove l'ultima casa che avevo affittato era ormai un mucchio di cenere.

«Allora?» fece Quinlan. «Che ne pensa?»

«La voglio, ma non posso dirle sì o no questo pomeriggio. Prima devo vedere un tale. Immagino che lei domani terrà chiuso, vero?»

«No, di sabato tengo aperto fino a mezzogiorno, poi vado a casa e guardo la Partita della Settimana alla Tv. Quest'anno pare proprio che avremo una grande sfida finale.»

«Pare di sì», dissi.

Quinlan mi porse la mano. «È stato un piacere conoscerla, signor Amberson. Scommetto che Jodie le piacerà. Qui siamo brava gente. Spero che le cose le girino bene.»

Gli strinsi la mano. «È quel che spero anch'io.»

Come aveva detto il ristoratore, un po' di speranza non ha mai fatto male a nessuno.

16

Quella sera tornai al ristorante di Al e mi presentai al preside della Denholm

Consolidated e alla sua fidanzata bibliotecaria. Mi invitarono al loro tavolo.

Deke Simmons era alto, molto stempiato e sopra i sessanta. Mimi Corcoran portava gli occhiali ed era abbronzata. Da dietro le lenti bifocali, i suoi occhi azzurri e acuminati mi scrutavano in cerca di indizi. Camminava aiutandosi con un bastone, maneggiandolo con la disinvolta (quasi sprezzante) destrezza dovuta al lungo uso. Entrambi avevano con sé, dettaglio che trovai divertente, gagliardetti dei Lions, e portavano spille dorate con la scritta: ABBIAMO IL JIM POWER! Ma certo. Era venerdì sera.

Simmons mi chiese se Jodie mi piacesse («Molto»), da quanto tempo stessi a Dallas («Da agosto») e se mi piacesse il football studentesco («Eccome!»). L'unica domanda minimamente approfondita la fece quando mi chiese se sapessi farmi

«prendere sul serio» dai ragazzi. Perché, disse, molti supplenti hanno quel problema.

«Questi giovani insegnanti mandano sempre i ragazzi da noi presidi, come se non avessimo di meglio da fare», concluse, poi diede un morso al suo Pronghorn Burger.

«La salsa, Deke», disse Mimi, e lui obbediente si pulì l'angolo della bocca con un tovagliolino di carta.

Nel frattempo, la bibliotecaria continuava a ispezionarmi: giacca sportiva, cravatta, taglio di capelli… Alle scarpe aveva già dato una lunga occhiata mentre mi avvicinavo al loro séparé. «Lei ha referenze, signor Amberson?»

«Sì, signora, ho fatto un bel po' di supplenze nella contea di Sarasota.»

«E nel Maine?»

«Poca roba, ma sono stato insegnante di ruolo nel Wisconsin per tre anni, prima di dimettermi e dedicarmi a tempo pieno alla scrittura del mio libro. Quanto 'pieno' dipenderà, chiaramente, dai fondi a mia disposizione.» Le referenze della St. Vincent's High School di Madison le avevo davvero, ed erano ottime: le avevo scritte io stesso. Ovviamente, se qualcuno le avesse verificate sarei stato nei guai. Deke Simmons non lo avrebbe fatto, ma l'occhiuta Mimi dalla gonna alla texana? Forse lei sì.

«E di che parla il suo romanzo?»

Anche quella risposta avrebbe potuto mettermi nei pasticci, ma decisi di essere sincero. O almeno, il più sincero possibile, date le peculiari circostanze. «Di una serie di omicidi, e delle loro conseguenze sulla piccola comunità del luogo in cui avvengono.»

«Oh, mio Dio!» esclamò Deke.

Lei gli toccò il polso e disse: «Sssssht. Continui, signor Amberson».

«All'inizio si svolgeva in una città immaginaria del Maine. L'avevo chiamata

Dawson, ma poi ho deciso che sarebbe stato più realistico ambientarlo in una città autentica. Una città più grande. Ho pensato a Tampa, ma non andava bene, perché…»

Con un gesto della mano, la donna scacciò l'ipotesi. «Troppi colori pastello. Troppi turisti. Lei cercava una situazione un po' più chiusa verso l'esterno, giusto?»

Una donna sagace. Conosceva il mio libro meglio di me.

«Esatto. E così ho deciso di provare con Dallas. Penso che sia il posto adatto, ma…»

«Ma non le piacerebbe viverci.»

«Proprio così.»

«La capisco.» Toccò con la forchetta il suo pesce fritto. Deke la guardava con espressione lievemente compiaciuta. Qualunque cosa volesse quell'uomo mentre percorreva al piccolo galoppo gli ultimi giri di ippodromo, Mimi Corcoran doveva averla. Non era poi così strano: tutti amano qualcuno prima o poi, come ha saggiamente fatto notare Dean Martin… Anche se nel 1960 quella canzone doveva ancora nascere.

«E quando non scrive, cosa le piace leggere, signor Amberson?» chiese Mimi.

«Oh, leggo un po' di tutto.»

«Ha letto Il giovane Holden

Oh-oh, pensai.

«Sì, signora.»

Sembrava impaziente di sentire la mia opinione. «Oh, mi chiami pure Mimi. Persino i ragazzi mi chiamano Mimi, anche se insisto che ci mettano davanti

'Miss', giusto per mantenere un po' di forma. Cosa ne pensa del cri de coeur di Salinger?»

Mentire o dire la verità? Non c'era nemmeno da chiederselo: quella donna avrebbe riconosciuto una bugia con la stessa chiarezza con cui io avevo letto lo slogan IMPEACHMENT PER EARL WARREN!

«Penso che dica molto su quanto sono stati mediocri gli anni Cinquanta, e su quanto potranno essere belli i Sessanta, se gli Holden Caulfield di tutta l'America non perdono la loro indignazione. E il loro coraggio.»

«Uhm. Uhm.» Infilzava il pesce, ma non ne mangiava nemmeno un boccone. Non c'era da sorprendersi che fosse così magra. Uno avrebbe potuto attaccarle un filo alla schiena e farla volare come un aquilone. «Lei crede che quel libro dovrebbe stare nella nostra biblioteca?»

Sospirai, pensando a quanto mi sarebbe piaciuto vivere e insegnare part- time nella cittadina di Jodie, Texas. «Per dirla tutta, signora… Mimi… Io penso di sì. Anche se credo che andrebbe prestato solo ad alcuni studenti, a discrezione della bibliotecaria.»

«Della bibliotecaria? Non dei genitori?»

«No, signora. Lungo quella china, non si sa dove si va a finire.»

Mimi Corcoran fece un gran sorriso e si girò verso il suo fidanzato. «Deke, quest'uomo non è un supplente, dovrebbe essere di ruolo.»

«Mimi…»

«Lo so, non ci sono posti liberi nel dipartimento di inglese. Ma se rimane da queste parti, forse può avere la cattedra quando quell'idiota di Phil Bateman va in pensione.»

«Mimi, non dovresti dire certe cose…»

«Già», rispose, e mi fece l'occhiolino. «Però sono vere. Spedisca a Deke le referenze, signor Amberson. Meglio ancora: le porti di persona, in settimana. L'anno scolastico è iniziato, non ha senso perdere tempo.»

«Mi chiami pure George», dissi.

«Ma certo.» Scostò il suo piatto. «Deke, questo pesce è terribile. Perché veniamo a mangiare qui?»

«Perché a me piacciono gli hamburger di Al e a te piace la sua torta di fragole.»

«Ah, già. La torta di fragole. Falla portare. Signor Amberson, lei può restare per la partita?»

«Non stasera», risposi. «Devo tornare a Dallas. Forse la settimana prossima, se sarete ancora dell'idea.»

«Se lei piace a Mimi, piace anche a me», mi informò Deke Simmons. «Non posso garantirle un'ora alla settimana, ma a volte saranno due o addirittura tre, e alla fine la media sarà quella.»

«Grazie.»

«Temo che il salario di un supplente non sia…»

«Lo so bene, signore. Mi basta trovare un modo di arrotondare.»

«Quel libro, Il giovane Holden… Non sarà mai nella biblioteca della scuola.»

Deke lo disse gettando un'occhiata di sbieco alla sua compagna, che evidentemente disapprovava. «Il consiglio scolastico non lo permetterebbe, e

Mimi lo sa.» Diede un altro morso al suo Pronghorn.

«I tempi cambiano», commentò Mimi Corcoran, poi indicò il porta tovaglioli e un angolo della bocca del suo uomo. «Deke: salsa».

 

17

 

La settimana dopo feci un errore. Un errore da stupidi. Dopo quel che mi era capitato, piazzare un'altra grossa scommessa avrebbe dovuto essere l'ultimo dei miei pensieri. Dovevo tenere la guardia alta, e invece…

I rischi li conoscevo, ma ero preoccupato per i soldi. Ero arrivato in Texas con meno di sedicimila dollari. C'era quel che restava dei risparmi di Al, ma in larga parte erano i risultati di due grosse scommesse, una piazzata a Derry e l'altra a Tampa. Stare all'Adolphus per sette settimane o giù di lì mi era costato mille dollari. Trasferirmi in un'altra città poteva facilmente costarne altri quattrocento o cinquecento. A parte il cibo, l'affitto e le bollette, mi sarebbero serviti vestiti nuovi (e migliori), se in classe volevo avere un aspetto rispettabile. Prima di poter regolare i conti con Lee Harvey Oswald, sarei rimasto a Jodie per due anni e mezzo. Di certo, quattordicimila dollari non sarebbero bastati. E lo stipendio da supplente? Quindici dollari e cinquanta centesimi al giorno, evviva!

OK, forse con quattordicimila sarei riuscito a cavarmela, più trenta alla settimana come supplente, a volte anche cinquanta. Ma dovevo restare in salute ed evitare incidenti, e su quello non potevo risparmiare, perché il passato è astuto, oltre a essere inflessibile. Il passato resiste e contrattacca. E sì, forse c'era anche un po' di avidità. Ma non aveva a che fare con la brama di soldi. Piuttosto, con l'inebriante consapevolezza di poter battere l'invincibile banco ogni volta che volevo.

E mi viene in mente: se Al avesse studiato il mercato azionario con lo stesso impegno dedicato al football, al baseball e alle corse di cavalli…

Ma non lo aveva fatto.

E adesso che ci penso: se Freddy Quinlan non avesse detto, en passant, che le World Series sarebbero state roba grossa…

Ma lo aveva fatto.

E così tornai in Greenville Avenue.

Mi dissi e ridissi che tutti quei tizi coi cappelli di paglia davanti al Faith Financial («Dove 'fiducia' è la nostra parola d'ordine») avrebbero scommesso sulle World Series, e alcuni di loro avrebbero puntato bei soldi. Io sarei stato uno fra i tanti, e una scommessa di media entità da parte di un certo Amberson (il quale, se qualcuno avesse fatto domande, avrebbe detto di vivere proprio lì a Dallas, in un garage convertito in appartamento in Blackwell Street) non avrebbe attirato l'attenzione. Diavolo, mi dicevo, i tizi della Faith Financial non riconoscerebbero el señorEduardo Gutierrez in un confronto all'americana con Adamo, Noè e suo figlio Cam.

Raccontai a me stesso un sacco di cose, e tutte portavano alle stesse due considerazioni: non c'era alcun pericolo, ed era assolutamente ragionevole volere più soldi anche se potevo tirare avanti con quelli che avevo già. Stupido. La stupidità è una delle due cose che riconosciamo meglio col senno di poi. L'altra sono le occasioni perdute.

18

Il 28 settembre, una settimana prima dell'inizio delle Series, entrai nel banco di prestiti e, dopo aver tergiversato un poco, puntai seicento dollari sui Pittsburgh Pirates vincenti in sette partite contro gli Yankees. Accettai la quotazione due a uno (scandalosa, se consideriamo che gli Yankees erano di gran lunga i favoriti).

Bill Mazeroski batté il suo improbabile home-run al nono inning e siglò la vittoria dei Pirates. Il giorno dopo tornai a Dallas, in Greenville Avenue. Credo che se il Faith Financial fosse stato deserto, avrei subito girato i tacchi e sarei tornato a Jodie… O forse è solo quel che mi racconto oggi, non so.

Quel che so è che c'era una fila di scommettitori in attesa di riscuotere, e anch'io mi misi in coda. Quel gruppo era il sogno di Martin Luther King realizzato: 50% neri, 50% bianchi, l000% felici. Alcuni uscivano con poca roba (qualche biglietto da cinque o da dieci, forse quaranta dollari in tutto), ma ne vidi diversi contare biglietti da cento. Un rapinatore che avesse scelto quel giorno per colpire l'agenzia avrebbe tirato su un bel gruzzolo.

Il commesso era un tipo tarchiato con una visiera verde. Mi fece la caratteristica prima domanda («Sei uno sbirro? Se lo sei, devi identificarti»), e quando diedi la risposta negativa, mi chiese nome e cognome e volle vedere la mia patente. Era nuova di pacca, l'avevo ricevuta per raccomandata la settimana prima. Finalmente un documento texano da aggiungere alla mia collezione. Mi premurai di coprire col pollice l'indirizzo di Jodie.

Mi pagò milleduecento dollari. Li misi in tasca e tornai in fretta alla Sunliner. Quando fui di nuovo sulla Highway 77, con Dallas alle spalle e Jodie che si avvicinava a ogni giro di ruota, finalmente mi rilassai.

Che idiota.

 

19

 

Ora faremo un altro balzo in avanti nel tempo (anche le narrazioni hanno le loro buche del coniglio, se ci pensate), ma prima devo raccontarvi un'ultima cosa del 1960.

Fort Worth, 16 novembre. Kennedy era presidente da meno di una settimana. Incrocio tra Ballinger Avenue e la Settima Strada. La giornata era fredda e nuvolosa. Le auto sbuffavano fumo bianco. Il meteorologo della stazione radio («Tutte le hit, tutto il giorno!») aveva annunciato pioggia che forse, verso mezzanotte, sarebbe diventata grandine, quindi bisognava andar cauti in autostrada, cari i miei rockers & rollers, per non dire di voi boppers & strollers.

Io ero avvolto in un giaccone di cuoio e avevo in testa un cappello di feltro con i paraorecchie abbassati. Sedevo su una panchina di fronte all'associazione degli allevatori di bestiame texani, e guardavo giù lungo la strada. Ero lì da quasi un'ora, e non pensavo che la visita del giovanotto a sua madre sarebbe durata ancora a lungo. Stando agli appunti di Al, tutti e tre i figli se ne erano andati di casa alla prima occasione. La mia speranza era che lei uscisse dal condominio insieme con lui. Era appena tornata in città dopo alcuni mesi a Waco, dove aveva lavorato in un orfanotrofio.

La mia pazienza fu ricompensata. La porta della palazzina si aprì e uscì un uomo magro, che somigliava a Lee Harvey Oswald in modo inquietante. Tenne la porta aperta per far passare una signora con soprabito a tre quarti scozzese e grosse scarpe bianche da infermiera. Lei gli arrivava solo alle spalle, ma era robusta. I capelli grigi erano raccolti in uno chignon, il viso era precocemente rugoso. Portava al collo un fazzoletto scarlatto. Un rossetto intonato evidenziava una bocca piccola, da donna insoddisfatta e coriacea, convinta che il mondo sia contro di lei e in possesso di molte prove al riguardo, raccolte nel corso degli anni. Il fratello maggiore di Lee Harvey Oswald si incamminò veloce sul marciapiede. Lei gli corse dietro e lo afferrò per la giacca. Lui si girò, lei gli agitò un dito davanti alla faccia. Non c'era modo di sentire che rimprovero gli stesse facendo: ero a distanza di sicurezza. L'uomo si diresse verso l'incrocio tra la Settima Strada e Summit Avenue, come mi ero aspettato. Era venuto in autobus, e quella era la fermata più vicina.

Per un momento, la donna restò ferma dov'era, come indecisa sul da farsi.

Forza, mamma, pensai. Non lo lascerai andare via così, no? È solo a mezzo isolato di distanza. Lee è dovuto andare fino in Russia, per allontanarsi da quel tuo dito.

Lo seguì, e mentre si avvicinavano all'incrocio, alzò la voce e stavolta la sentii bene: «Fermati, Robert, non avere tanta fretta, non ho ancora finito con te».

Lui si voltò, ma continuò a camminare. Lei lo raggiunse alla fermata e lo tirò per la manica finché non la guardò. Il dito ricominciò a oscillare, destra, sinistra, destra, sinistra. Colsi frasi isolate: «Avevi promesso» e «Ti ho dato tutto» e (mi sembra) «Chi sei tu per giudicarmi». Non vedevo la faccia di Robert Oswald perché era girato dall'altra parte, ma le sue spalle curve dicevano abbastanza. Dubitavo fosse la prima volta che sua madre lo seguiva per la strada, brontolando tutto il tempo, incurante dei passanti. La donna si mise una mano aperta sul petto, nell'eterno gesto della mamma: Guardami, figlio ingrato.

Oswald tirò fuori il portafogli e le diede una banconota. Lei la mise in borsetta senza nemmeno guardarla e si incamminò per tornare al condominio, ma le venne in mente un'altra cosa e si girò. Stavolta la udii chiaramente. Levata in un grido, per superare i quindici-venti metri che ora li separavano, quella voce stridula grattava come unghie su una lavagna.

«E chiamami se sai qualcosa di Lee, va bene? Ho ancora il telefono duplex, è tutto quello che posso permettermi finché non trovo un lavoro migliore, e la signora del piano di sotto lo tiene sempre occupato. Oh, ma le ho parlato fuori dai denti: 'Signora Sykes', le ho detto…»

Un uomo le passò accanto. Con ostentazione, si mise un dito nell'orecchio, sorridendo. Se Mammina lo vide, non ci fece caso. Di sicuro non fece caso all'espressione imbarazzata di suo figlio.

«…'Signora Sykes', le ho detto, 'lei non è l'unica che ha bisogno del telefono, quindi le sarei grata se tenesse corte le sue chiamate. E se non lo fa da sola, potrei anche far venire un rappresentante della compagnia telefonica, per costringerla.' Questo le ho detto. Quindi telefona, Rob, lo sai che voglio sapere come sta Lee.»

A quel punto arrivò l'autobus. Mentre si fermava, l'uomo alzò la voce per farsi sentire al di sopra dello stridore dei freni: «È un dannato comunista, mamma, e a casa non ci torna. Abituati all'idea».

«Tu chiamami!» strillò lei. L'espressione sul suo viso era cupa e risoluta.

Rimase in piedi a gambe divaricate, come un pugile pronto a incassare un colpo.

Qualunque colpo. Tutti i colpi. Gli occhi brillavano dietro occhiali a farfalla dalla montatura nera. Il fazzoletto era annodato sotto il mento. Ora la pioggia iniziava a cadere, ma a lei non importava. Prese fiato e quasi sbraitò: «Devo sapere come sta il mio ragazzo, hai capito?»

Robert Oswald salì in fretta sul bus, senza rispondere. Il veicolo partì sbuffando una nuvola di fumo azzurro, e in quel momento un sorriso illuminò il volto della donna, anzi, fece una cosa di cui non credevo capace un sorriso: la rese al tempo stesso più giovane e più brutta.

Un uomo, forse un operaio, le passò accanto. Non la urtò, anzi, non la sfiorò nemmeno, ma lei gli disse bruscamente: «Guarda dove vai! Non è tuo il marciapiede!»

Marguerite Oswald si diresse verso casa. Quando mi diede le spalle, stava ancora sorridendo.

Quel pomeriggio tornai a Jodie scosso e pensieroso. Non avrei visto Oswald prima di un altro anno e mezzo, ed ero ancora determinato a fermarlo, ma mi stava già più simpatico di Frank Dunning.

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ERA la sera del 18 maggio