RICORDI: GITA A PARIGI
Adriano Giudici
Il 21 aprile del 1968, cinquanta anni fa, partivo per Parigi per la gita scolastica di fine corso. Questa la cronaca di quella spedizione. E' un po' lungo, se avete pazienza ..."Andare a Parigi, a Londra, a Madrid o a Vienna? Beh, era questo il fondamentale problema che dovevano affrontare le classi quinta A, B e C: all’inizio del ‘68 c’era da organizzare la gita scolastica di fine corso. A, B, C, solo tre sezioni. I ragazzi erano pochi, ma soprattutto durante l’intero quinquennio c’era una selezione allucinante, una specie di decimazione che come minimo spazzava via una classe. Al Caio Plinio era da tempo immemorabile che i quintini andavano a Parigi, sempre con generale soddisfazione. Alcuni di noi, prevalentemente le ragazze, presi dalla smania del cambiamento tipica di quegli anni, volevano andare altrove. Comunque i “parigini”, diversamente dagli altri, erano compatti. Le folies bergères ci attendevano e noi non ce le saremmo fatte scappare. A Parigi si doveva andare e a Parigi si andò. Lire quarantacinquemila, escluse le escursioni e le distrazioni, era il costo complessivo. Una bella cifra, soprattutto per chi doveva far quadrare i conti con le mille lire settimanali. Con il Natale ‘67, in vista di quella meta, iniziò un periodo di cinghia tipo economia di guerra: sospesi film, sale da ballo, fumo, panino nell’intervallo delle 11, gazzosa con il limone durante le partite pomeridiane di scala quaranta all’Ariston bar. Ma anche questi immani sacrifici non bastavano. Mi organizzai allora intensificando il traffico di Marlboro, Muratti e Kent (la Svizzera era vicina e con circa dieci viaggi potevo accantonare sino a cinquecento lire giornaliere). Alla fine fui costretto a svendere la vecchia Maino. La consegna della bicicletta al rivenditore, che sono sicuro mi aveva preso per il primo dei tossicodipendenti, fu straziante come l’estrazione di un dente senza anestesia.
Alla fine, con qualche prestito qua e là, la somma fu accantonata: Parigi arrivo! Un piccolo bastone fra le ruote della nostra oliatissima e gioiosa macchina da guerra tentò di mettercelo il preside, il mitico professor Salvatore Grandi, detto lo zio. «Mi giunge voce - questo fu il suo esordio (forse istigato da don Titino) ai maschi di fronte a lui schierati nell’ufficio di presidenza - che alcuni di voi hanno travisato una sana e culturale iniziativa scolastica. E da essa trarre occasione per accedere a locali dove femmine senza vergogna si spogliano per gli sguardi lubrici di uomini senza dignità! Mai la Scuola potrà essere usbergo di tanta abiezione! Mai potrà assecondare le vostre abbiette passioni!» A questi tonitruenti anatemi doveva seguire l’impegno, sul nostro onore, di evitare frequentazioni meno che legittime. Con la mano destra alzata e la sinistra dietro la schiena (indice e mignolo tesi, anulare e medio piegati) ci impegnammo solennemente. La via era libera, si poteva finalmente partire. Accompagnati dall’insegnante di educazione fisica, il professor Osiride Urbinati, detto Sisi, e da una insegnante della “B”, partimmo dalla stazione di Milano in vagone cuccette. Dopo un viaggio notturno fatto senza chiudere occhio, anche le coperte non ci aiutavano, erano rigide come stoccafissi: chissà quante volte erano andate su e giù tra Palermo e Parigi, arrivammo alla Gare de Lion alle sei della mattina del24 aprile 1968. L’atmosfera della città era strana, pre maggio francese. La prima cosa che di buon ora mi colpì furono ovviamente le parigine: i filoni di pane sottobraccio a uomini e donne. E poi, nell’arco della giornata, i pittori agli angoli delle strade, i boulevard e la loro grandiosità, l’arco di Trionfo, la Gioconda, la tour Eiffel, insomma praticamente tutto. La giornata, passata a battere la città in lungo e in largo, era comunque solo un doveroso impiccio in attesa della notte. Il piano era preciso. Far arrivare agli insegnanti segnali per poter rientrare al più presto in albergo.«Professore, abbiamo avuto una giornata impegnativa, domani ce ne aspetta un’altra altrettanto intensa; rientriamo che siamo stanchi».Ma che bravi. Ma che giudiziosi e assennati. Bene, si rientra, e sogni d’oro. Eravamo 15 maschi e 12 femmine. Queste ultime erano ovviamente poco interessate ai nostri propositi notturni. Gli altri avevano dato ampia disponibilità al peccaminoso progetto. Ebbene, alla fine (...sono stanco; che mal di testa; ho i soldi contati; ho alzato la mano destra e mi sono impegnato; ebbene si, sono omosessuale...tutto pur di tirarsi indietro) ci ritrovammo in quattro: io; l’Alberto, pivot della squadra di pallacanestro dell’istituto; l’Ivano, noto play boy; e il Martinez, l’intellettuale della compagnia. E via come uccelli liberi a conquistare il mondo, ma soprattutto Montmartre.
Chiuso il “Moulin rouge” (sembrava l’avessero fatto apposta) non ci restava che andare su e giù per la via, cercando di intuire quale fosse il locale con le “proposte” più interessanti. L’Erotika ci conquistò. Seduti a un tavolino sotto il palchetto a trenta centimetri da noi (più o meno come con lo schermo del cinema tanti anni prima, con le stesse trepidazioni, ma diverse attese...), guardavamo atterriti i prezzi scritti sulla lista delle consumazioni. Partiti dallo champagne, ci fermammo alla Pepsi solo perché di più non si poteva scendere: la lista era finita. Ma questi erano dettagli. Quello che importava era Francesca, pubblicizzata sul cartellone all’ingresso come il pezzo forte del locale. E Francesca arrivò. Ci guardò e, rimasta vestita solo di un sorriso, ci stregò: volevamo sposarla. Al pari di tutte le più belle cose, anche questa giunse al termine e venne il momento del rientro. Come tutta l’avventura, fino ad allora, era stata baldanzosa e chiassosa, ora era come pervasa da una dolce malinconia: silenzio che caratterizzava sia il nostro gruppo come le altre comitive scolastiche che avevano approfittato del ponte di aprile per le gite di fine corso. Tra di loro Licia, biondina veronese. Dove sei ora? Hai ancora quei grandi e luminosi occhi da diciottenne curiosa della vita? Chissà che ora tu non mi legga. Spero di si, per poterti dare quell’abbraccio e quei baci che allora non osai. Alla fine, lasciate alle nostre spalle Parigi, Francesca e Licia, ritornammo nella nostra piccola città: ci aspettava l’esame di stato, la vita".