venerdì 27 aprile 2018



METROLAND
Julian Barnes 
Estratto
Capitolo primo
Il ligustro reciso ha ancora lo stesso profumo di mela acerba di quando avevo sedici anni; il suo persistere, però, è un’eccezione rara. A quell’età, tutto sembrava molto piú aperto all’analogia e alla metafora di quanto non lo sia adesso. Si poteva scegliere fra piú significati, piú interpretazioni, le verità disponibili erano varie e molteplici. Il simbolismo piú insistente. Ogni cosa risultava piú densa di contenuto.
Prendiamo il cappotto di mia madre, per esempio. Se l’era cucito da sé, su un manichino che alloggiava nel sottoscala e rivelava tutto e niente del corpo femminile (mi sono spiegato?) Il cappotto era double-face, un lato del colore rosso delle cassette postali, l’altro ad ampi scacchi bianchi e neri; il bavero, della stessa stoffa della fodera, offriva ciò che il modello definiva «un elemento di contrasto al collo» e faceva pendant con le ampie tasche quadrate esterne. Si trattava, me ne rendo conto solo adesso, di un raffinato lavoro di cucito; all’epoca era per me un indizio di quanto mia madre fosse incline alla doppiezza.
Ne ebbi la prova quell’anno che la famiglia si recò in vacanza alle isole del Canale. Le tasche del cappotto si rivelarono della stessa identica dimensione di un pacchetto da cento sigarette, e al ritorno mia madre attraversò la dogana a piedi, trasportando quattrocento Senior Service di contrabbando. Per associazione, mi sentii in colpa e galvanizzato allo stesso tempo, ma percepii anche l’intima consapevolezza di non essermi sbagliato sul suo conto.
Eppure da quel semplice cappotto si poteva dedurre molto altro ancora. Il colore, cosí come la struttura, aveva dei segreti. Una sera, mentre mia madre e io tornavamo a casa dalla stazione, le osservai il cappotto indossato dal lato rosso e notai che era diventato marrone. Guardai le labbra di mia madre e anche quelle erano marroni. E se avesse sfilato le mani dai guanti bianchi (al momento bianco sporco), le unghie – me lo sentivo –, anche quelle sarebbero state marroni. Circostanza comune ai giorni nostri, ma nei primi mesi di illuminazione al sodio arancione, la cosa era meravigliosamente disturbante. Arancio piú rosso dà marrone scuro. Solo in periferia, pensavo, sarebbe potuto accadere.
A scuola, il mattino dopo, andai a chiamare Toni prima dell’appello e prendendolo da parte gliene parlai. Era a lui che confidavo tutte le mie avversioni e gran parte dei miei entusiasmi.
– Persino lo spettro mandano a puttane, – gli dissi, quasi snervato dall’ennesimo affronto.
– Che cazzo dici?
Era inequivocabile a chi mi riferissi. Quando dicevo «loro», avevo in mente una massa indistinta di legislatori, moralisti, luminari dell’alta società e genitori dei sobborghi piú periferici. Ma quando era Toni a parlarne, si riferiva a omologhi del centro londinese. Non avevamo dubbi: erano esattamente lo stesso tipo di persone.
– I colori. I lampioni. Mandano a puttane i colori quando fa buio. Diventa tutto marrone, o arancione. Ti fa sembrare una creatura lunare.
All’epoca eravamo molto sensibili ai colori. Tutto era cominciato un’estate, in vacanza, quando mi ero portato Baudelaire da leggere sulla spiaggia. Se lo osservi attraverso una cannuccia, diceva, piuttosto che per ampi settori, l’azzurro del cielo sembra molto piú intenso. Mandai una cartolina a Toni per comunicargli la scoperta. Fu allora che cominciammo a interessarci ai colori: erano – impossibile negarlo – degli assoluti, saturazioni di valore aggiunto per i miscredenti. Non volevamo che dei burocrati mandassero tutto a puttane. Lo avevano già fatto con
«… la lingua…»
«… l’etica…»
«… il concetto di priorità…»
ma questi, in fin dei conti, potevano ancora essere ignorati. Potevamo procedere per la nostra strada senza scomporci piú di tanto. Ma se avessero messo mano ai colori? Non avremmo nemmeno piú potuto contare sulla possibilità di essere noi stessi. Il sodio avrebbe negrizzato i tratti medio-europei di Toni, la sua carnagione scura, le labbra carnose. Nell’immediato, la mia faccia anonimamente britannica e il mio naso a patata (ancora in trepidante attesa di fare il grande balzo nell’età adulta) erano piú al sicuro; ma non v’era dubbio che «loro» avrebbero architettato un piano diabolico per sfigurare anche me.
Vedete bene che in quei giorni ci preoccupavamo di grandi cose. E perché no? Esiste forse un’età piú appropriata per farlo? Non ci avreste certo sorpresi ad agitarci per le nostre carriere future, poiché sapevamo che, una volta cresciuti, lo stato avrebbe pagato persone come noi solo per esistere, perché ce ne andassimo in giro come tanti uomini sandwich a reclamizzare la vita. Al contrario cose come la purezza della lingua, la perfettibilità dell’individuo, la funzione dell’arte, oltre a una manciata di altri beni immateriali degni della lettera maiuscola – Amore, Verità, Autenticità… –, be’, quella era tutt’altra storia.
Il nostro fulgido idealismo si esprimeva in una naturale tendenza al piú disinvolto cinismo. Solo una robusta missione purificatrice era in grado di spiegare l’intensità e l’ardore con cui Toni e io ce ne sbattevamo degli altri. I motti che ritenevamo appropriati alla nostra causa erano: écraser l’infâme ed épater la bourgeoisie. Ammiravamo il gilet rouge di Gautier, l’aragosta di Nerval; la nostra Guerra civile spagnola era la bataille d’Hernani. Cantavamo all’unisono:
Le Belge est très civilisé;
Il est voleur, il est rusé;
Il est parfois syphilisé;
Il est donc très civilisé.
La rima finale ci mandava in visibilio, e ogni occasione era buona per insinuare quell’omofono fumoso nelle nostre altisonanti lezioni di conversazione francese. Prima di tutto occorreva che un’intrepida mezza calzetta esordisse con una semplice frase di irritante disapprovazione; il babbeo si sarebbe incasinato in qualcosa del tipo
– Je ne suis pas, mmm, d’accord avec ce qui, ce que? – (un’occhiata corrucciata al professore), – Barbarowski a, mmm, juste dit…
al che, ridendo sotto i baffi, un nostro sodale sarebbe intervenuto prima che il professore potesse riprendersi dallo sconforto in cui era sprofondato di fronte a cotanta imbecillità, con un
– Carrément, M’sieur, je crois pas que Phillips soit assez syphilisé pour bien comprendre ce que Barbarowski vient de proposer…
– e ogni volta la lasciavano passare.
Come si sarà capito, ci dedicavamo perlopiú al francese. Ne ammiravamo la lingua perché aveva suoni occlusivi e precisi, e ne ammiravamo la letteratura principalmente per la sua aggressività. Gli scrittori francesi erano sempre impegnati a farsi la guerra – mentre difendevano e purificavano la lingua, la epuravano di espressioni gergali, scrivevano dizionari prescrittivi, si facevano arrestare, ricevevano condanne per oscenità, vivevano da fieri parnassiani, si affannavano per accaparrarsi un posto all’Académie, complottavano per qualche premio letterario, si facevano esiliare. Eravamo stregati dal personaggio del duro sofisticato. Henry de Montherlant e Camus erano imperdibili; la foto sul «Paris Match» di Henry de mentre si allunga per afferrare una palla, foto che avevo fissato con il nastro adesivo dentro il mio armadietto, era oggetto di tanta venerazione quanta quella autografata che aveva Geoff Glass di June Ritchie in Una maniera d’amare.
Apparentemente non c’era nessun duro sofisticato nel nostro corso di inglese. Di certo nessun imperdibile. Johnson era un duro, ma decisamente non abbastanza raffinato ai nostri occhi: del resto, fino a poco prima della sua morte, non aveva neppure attraversato il Canale. Gente come Yeats, invece, era l’esatto opposto: raffinato, sí, ma sempre a perder tempo con le fate e compagnia bella. Come avrebbero mai reagito costoro se tutti i rossi del mondo fossero diventati marroni? Il primo se ne sarebbe a malapena accorto; l’altro ne sarebbe uscito sconvolto.
Estratto di: Julian, Barnes. “Metroland (L'Arcipelago Einaudi)