Luciano De Fiore
Quali echi hanno oggi queste tradizioni nella considerazione attuale del desiderio? Se davvero la nostra è connotabile proprio nei termini di una società del desiderio, lo è a mio avviso nel senso che è costruita in modo che il desiderare stesso sia truffato. Dal momento che infatti questo vive di rappresentazioni e non di cose, la società nata dal capitalismo ha scelto di saturare appunto le rappresentazioni con merci e rappresentazioni di merci. Ciò ha fatto sì che il marxiano e poi pasoliniano sogno di una cosa [1] che in senso stretto una “cosa” non era, si sia trasformato nel sogno di tante cose, spesso tangibili e altre meno, ma tutte desiderabili nel senso del secolo: «Una donna sta davanti ad una vetrina, guarda scarpe di lucertola scamosciate, passa un uomo, guarda la donna e così ciascuno si prende un pezzettino della terra dei desideri», ha scritto Ernst Bloch.
Il discorso è insidioso; si rischia un certo patetismo, inducendo a credere che l’uomo motu proprio desidererebbe il bene o il giusto, mentre una cupola cultural politica sarebbe in grado di sviarlo, piegando il suo desiderare ad una logica mercantile. La questione è molto più complessa ed aiuta in ogni caso tener distinti fin dall’inizio con nettezza il desiderio dall’impulso generico e dal bisogno, una sorta di parente povero del desiderio. E quindi dalla dinamica dei bisogni e, soprattutto, dalla dinamica della loro soddisfazione, catena che ha a che fare strettamente con l’organizzazione politica ed economica della società.
Come dice Roland Barthes, il discorso dell’Assenza – cioè la classica radice comune di desiderio e bisogno nella steresis, nella mancanza – è un testo con due ideogrammi: vi sono le braccia levate del Desiderio, e vi sono le braccia tese del Bisogno[2]. Due ideogrammi, da tener ben distinti. Per avvicinare questa materia impervia, è utile continuare a riflettere su quegli Anni Settanta del Novecento che, abbiamo già visto, sono stati una fabbrica della riflessione sul desiderio e, probabilmente, anche l’incubatrice di alcuni suoi sviamenti.
La filosofia ha coniato moltissime definizioni del desiderio. Nei testi di Dumoulié e di Volli – tra i più interessanti per una ricognizione generale del concetto – troverete le tracce di molti dei filosofi che se ne sono occupati. Vi propongo qui l’albescente fenomenologia del desiderio così come viene delineata da Ernst Bloch in una delle prime sezioni della sua opera più importante, Il principio speranza (1959).
Bloch a Berlino nel 1954
Bloch ha da sempre ragionato sulla dimensione del futuro, all’interno della quale il desiderio occupa ovviamente un ruolo rilevante. Secondo lui, la realtà data non appaga mai pienamente il soggetto e sotto questo profilo non è ‘vera’: la verità cui tende il soggetto, immaginando e bramando quel che gli manca, non è data, ma è utopia, dimensione che trascende il presente in direzione appunto del futuro].
Vediamo ora più da vicino cosa Bloch sostiene intorno al nostro tema. Innanzitutto, il concetto viene introdotto in apertura della parte dedicata alla “Coscienza anticipante”, una delle categorie fondamentali del pensiero blochiano in quest’opera monumentale che avanza come in una sorta di contrappunto ad Essere e tempo di Heidegger. Il filosofo amico di Brecht, Benjamin e Adorno non riteneva infatti che l’angoscia dell’essere-per-la-morte esaurisse l’orizzonte di attesa del soggetto. Secondo Bloch, non può esserci vallata senza montagna: al pathos insomma dell’angoscia non può non essere accoppiato un affetto di attesa positivo, altrettanto originario. Un’apertura al futuro, appunto la nostra disposizione coscienziale anticipante – fondamentale quanto l’Angst perturbante.
Il desiderare rinvia allora a qualcosa che sta davanti a noi e che non percepiamo ancora chiaramente. Ad esso sono correlati degli affetti d’attesa positivi, segnati da un vuoto iniziale, dal sentimento indefinito che qualcosa manca. Tuttavia, la mancanza originaria non getta soltanto nel pozzo nero della disperazione, anzi: da essa albeggia la speranza, «il concetto antitetico non soltanto dell’angoscia, ma anche della memoria, senza pregiudizio del suo carattere di affetto. […]. E la sua relazione con l’angoscia, per non dire poi con il nulla della disperazione, è condotta con una forza talmente determinata da potersi dire: la speranza annega l’angoscia»[3]. Ma facciamo un passo indietro, per poter saltare meglio. L’analitica del desiderio muove dallo stimolo. Questo è un fatto-che, nel linguaggio blochiano: «Dal fatto-che dello stimolo non si libera nessun vivente, per quanto stanco possa esserne diventato. Questa sete si fa sempre sentire e non dice il suo nome»[4]. Questo stimolo, assolutamente indefinito ma che ci aizza oltre-di-noi, si esprime dapprima come un semplice anelito. Quando però lo avvertiamo, sentiamo, allora si ha la brama, «l’unica situazione sincera in tutti gli uomini». Essa è ciò che ci orienta verso l’esterno. Se non resta mania generica, fissata in se stessa, essa ricerca. La sua impulsività viene orientata verso qualcosa d’individuato e denominato. Così diretto, la brama diviene bisogno. E qui Bloch aggiunge un’annotazione interessante e – vedremo – fuorviante, dicendo che questo concetto è indubbiamente spesso spento e reificato in senso reazionario. Quel che lo connota, però, è che il bisogno «cerca sempre di riempire attraverso un qualcosa di esterno ciò che vi è di vuoto e di insufficiente, cioè ciò che manca, nell’anelito e nella brama». Il correlato oggettivo del bisogno, insomma, sono le cose: sono esse chiamate a colmare il vuoto lasciato dalla mancanza, sono il pieno in grado di soddisfare quel buco percepito dal soggetto come mancanza d’essere. Qui c’è un salto. Se infatti l’animale si riferisce allo scopo non uscendo da questo schema (stimolo, percezione della mancanza, individuazione del bisogno e sua soddisfazione attraverso le cose), l’animale-uomo invece «oltre a ciò, se lo raffigura. Perciò l’uomo può non soltanto bramare bensì desiderare. Questo è più vasto e mette più colori che non il bramare. Infatti il desiderare è teso verso una rappresentazione in cui la brama lascia che la sua mèta venga raffigurata».
La rappresentazione fa parte della dimensione coscienziale: il soggetto sa di appetire, sa di sentire, dà un nome alla propria brama, ripercorrendo il sentiero spinoziano dell’Etica: «[L’appetito] non è altro che la stessa essenza dell’uomo, dalla cui natura segue necessariamente ciò che serva alla sua conservazione; perciò l’uomo è determinato a fare tali cose. Inoltre tra l’appetito e la cupidità non vi è altra differenza se non che la cupidità si riferisce per lo più agli uomini, in quanto sono consapevoli [nostro corsivo] dei loro appetiti, e perciò può essere così definita: la cupidità è l’appetito con la coscienza di sé»[Spinoza, Etica, III, aff. def. I]. Bloch riprende quindi il legame, rivoluzionario ai tempi di Spinoza, tra cupiditas ed essenza dell’uomo. Se prima la cupidità era in diretta relazione con il peccato mortale, dopo Spinoza è possibile pensarla in positivo nella costituzione antropologica stessa dell’individuo.
Inoltre, il desiderio – secondo Bloch – ha a che fare con le rappresentazioni più che con le cose. E questo è il primo carattere fondamentale del desiderio, che già aveva colto Sigmund Freud, come vedremo, e prima di lui Hegel e Nietzsche. L’aspetto decisivo per Bloch è che si può affermare che il desiderare, se anche non nasce dalle rappresentazioni (come invece suggerisce Freud, come vedremo), però sorge soltanto insieme ad esse: «lì dove c’è la rappresentazione di un meglio, e in definitiva di un perfetto, lì ha luogo il desiderare, eventualmente un desiderare impaziente ed esigente. La mera rappresentazione diventa così una immagine di desiderio, essa reca per timbro: “così dovrebbe essere”». Logico allora, in questa impostazione teleologica, che al desiderio si debba accostare il volere, dal momento che – come per Heidegger – «nel desiderare non c’è ancora niente del lavoro e dell’attività, [mentre] tutto il volere è un voler fare».
Cosa significa? Lo stesso Bloch porta un esempio. Si può desiderare che domani sia bel tempo, ma non possiamo fare assolutamente nulla perché ciò sia. Non solo: i desideri possono essere del tutto irragionevoli: posso desiderare che sia ancora in vita mia madre, e se è sensato desiderarlo, sarebbe insensato volerlo.
Un’ultima annotazione sulla relazione tra desiderio e volontà. Secondo Bloch, «in ultima analisi non si può voler nient’altro che ciò che è desiderato: il desiderio interessato è “sul tipo dell’impulso”, “tono dell’impulso”, che scatena il volere, che anzi gli canta quello che occorre volere. E se dunque ci sono desideri senza volontà, cioè un desiderare immobile, non attivo, che si esaurisce nell’immaginazione oppure un desiderare impossibile, non c’è però un volere che non sia preceduto da un desiderare»[5]. Forse proprio a causa della sua natura (è lì dove manca, ma lì dove manca è richiamato l’eccesso, l’oltre, il di più), è così arduo dare definizioni del desiderio. Ma i sentieri non sono interrotti, e possiamo spingerci oltre.
[1] L’immagine viene usata da Marx in una lettera a Ruge del settembre 1843: «Il nostro motto dev’essere dunque: riforma della coscienza non per mezzo di dogmi, ma mediante l’analisi della coscienza non chiara a sé stessa, o si presenti sotto forma religiosa o politica. Apparirà allora che il mondo ha da lungo tempo il sogno di una cosa…». [2] Roland Barthes (1977), Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino 1979, pag. 36. [3] Ernst Bloch (1959), Il principio speranza, Garzanti editore, Milano 1994, vol. I, pag. 133. [4] Ivi, pag. 55. Da questa e dalle pagine seguenti vengono anche le successive citazioni.