venerdì 12 febbraio 2021

L'ILIADE, POEMA DELLA FORZA Estratto da: "La Grecia e le intuizioni precristiane" Simone Weil



L'ILIADE, POEMA DELLA FORZA 
Estratto da: "La Grecia  e le intuizioni precristiane"
Simone Weil
Rusconi editore

L'Iliade, poema della forza è stato scritto nel  1939-1941: doveva essere pubblicato sulla «Nouvelle revue franqaise», ma l'invasione tedesca lo impedì. Venne stampato a Marsiglia, nei « Cahiers  du Sud» (dicembre 1940-gennaio 1941), sotto lo  pseudonimo di Émile Novis, anagramma di Simone Weil. I «Cahiers du Sud» l'hanno ripubblica￾to dopo la guerra (n. 284, 1947) con il nome vero dell'autrice. 
L'ILIADE, POEMA DELLA FORZA
Il vero eroe, il vero argomento, il centro dell'Iliade, è la forza. La forza adoperata dagli uomini, la forza che piega gli uomini, la forza dinanzi alla quale si ritrae la carne degli uomini. L'anima umana vi appare continuamente modificata dai suoi rapporti con la forza: travolta, accecata dalla forza di cui crede disporre, si curva sotto l'imperio della forza che subisce. Chi aveva sognato che la forza, grazie al progresso, appartenesse ormai al passato, ha voluto vedere in questo poema un documento; chi sa discernere la forza, oggi come un tempo, al centro di ogni storia umana, vi trova il più bello, il più puro degli specchi.
La forza è ciò che rende chiunque le sia sot￾tomesso una cosa. Quando sia esercitata fino in fondo, essa fa dell'uomo una cosa, nel senso più letterale della parola, poiché lo trasforma in un cadavere. C'era qualcuno, e un attimo dopo non c'è nessuno. È un quadro che l'Iliade non si stanca di presentarci.
« ...i cavalli scotevano i vuoti carri sulle vie della guerra,
in lutto dei loro aurighi senza macchia. 
Essi per terra giacevano, agli avvoltoi più cari assai che alle spose ».
L'eroe è una cosa trascinata dietro un carro nella polvere:
 «..tutto intorno, i capelli
neri erano sparsi e la testa intera nella polvere
giaceva, or ora incantevole; ora Zeus ai nemici
aveva concesso avvilirla sulla sua terra natale ».
L'amarezza di uno spettacolo simile l'assaporiamo pura, senza che nessuna finzione confortante venga ad alterarla: nessuna immortalità consolatri￾ce, nessuna scialba aureola di gloria o di patria.
« La sua anima fuor delle membra volò, 
se ne andò alla casa di Ade, piangendo il suo destino, lasciando giovinezza e vigore».
Più crudele ancora, a causa del contrasto doloroso, è l'evocazione improvvisa, subito cancellata, di un altro mondo: il mondo lontano, precario e toccante della pace, della famiglia, quel mondo
dove l'uomo è, per coloro che lo circondano, ciò che conta di più:
« Ella gridava alle sue ancelle dai bei capelli perla di porre al fuoco un tripode, ché vi fosse dimora
per Ettore un bagno caldo al ritorno dalla battaglia.
O ingenua! Non sapeva che ben lungi dai bagni caldi
l'ha piegato il braccio d'Achille, causa Atena dagli
occhi glauchi ».
Certo, era ben lungi dai bagni caldi, lo sventurato. E non era il solo. Quasi tutta l'Iliade si
svolge lontano dai bagni caldi. Quasi tutta la vita umana si è sempre svolta lontano dai bagni caldi.
La forza che uccide è una forma sommaria, grossolana della forza. Quanto più varia nei suoi procedimenti, quanto più sorprendente nei suoi effetti l'altra forza, quella che non uccide, cioè quella che non uccide ancora! Ucciderà sicuramente, o ucciderà forse, ovvero è soltanto sospesa sulla creatura che da un momento all'altro può uccidere; in ogni modo, muta l'uomo in pietra. Dal potere di  tramutare un uomo in cosa facendolo morire, procede un altro potere, e molto più prodigioso: quel￾lo di mutare in cosa un uomo che resta vivo. È  vivo, ha un'anima; e nondimeno è una cosa. Strana cosa una cosa che ha un'anima; strano stato per l'anima. Chi sa quale sforzo le occorre ad ogni istante per conformarsi a ciò, per torcersi e ripiegarsi su sé medesima? L'anima non è fatta per  abitare una cosa; quando vi sia costretta, non vi è  più nulla in essa che non patisca violenza. 
Un uomo inerme e nudo sul quale si punti  un'arma diventa cadavere prima di esser toccato. 
Per un istante ancora pensa, agisce, spera: 
« Egli pensava, immobile. L'altro, perduto, s'accosta, 
ansioso di toccargli i ginocchi. Voleva, nel suo cuore, 
scampare alla morte malvagia, al destino nero... 
E con un braccio gli stringe, supplice, i ginocchi, 
con l'altro trattiene la lancia acuta, senza lasciarla... ». 
Ma ben presto intuisce che l'arma non devierà da  lui e, mentre ancora respira, non è più che materia;  anche se è ancora un essere pensante, non può pensare più nulla: 
« Così parlò quel figlio di Priamo,
così fulgido, in supplici detti. 
E udì una parola inflessibile... 
Disse; all'altro mancarono i ginocchi ed il cuore; 
lascia l'asta e cade seduto, le mani tese, le due mani. 
Achille sguaina la spada acuta, colpisce alla clavicola, rasente il collo, e intera immerge la lama a due tagli. Lui, faccia a terra, giace disteso e il sangue nero sgorga umettando la terra ». 
Quando, al di fuori di ogni battaglia, uno straniero debole e senz'armi supplica un guerriero, non è necessariamente condannato a morire; ma un attimo d'impazienza da parte del guerriero basterebbe a togliergli la vita. Basta questo perché la sua carne perda la principale proprietà della 
carne viva. Un pezzo di carne viva rivela la vita soprattutto nel sussulto: una zampa di rana, sotto la scarica elettrica, sussulta; l'apparizione vicina o il contatto di una cosa orribile o terrificante fa 
sussultare qualsiasi fascio di carne, di nervi e di  muscoli. Solo un tale uomo supplicante non trasale, non freme; non ne ha più la possibilità; le sue 
labbra toccheranno l'oggetto che per lui è il più  carico d'orrore: 
« Non fu veduto entrare il grande Priamo. Si arrestò, 
serrò i ginocchi di Achille, baciò le sue mani 
tremende, omicide, che gli avevano massacrato  tanti figlioli... ». 
Lo spettacolo di un uomo ridotto a questo 
grado di sventura agghiaccia pressappoco come la vista di un cadavere: 
« Come quando la dura sventura colpisce un uomo 
che al suo paese 
ha ucciso, ed egli alfine arriva alla dimora 
di qualche ricco e un brivido afferra chi lo vede, 
così Achille fremette vedendo il divino Priamo. 
E anche gli altri fremettero, guardandosi l'un l'altro ». 
Ma non è che un momento; subito dopo la presenza dello sventurato è dimenticata: 
« Disse. L'altro, pensando a suo padre, 
bramò di piangerlo. 
Afferrandolo al braccio, spinse un poco il vegliardo. 
Entrambi rammentavano: l'uno Ettore, uccisore d'uomini, 
e si scioglieva in lagrime ai piedi di Achille, faccia a terra; 
ma Achille piangeva suo padre, e a momenti anche Patroclo; 
e i loro singhiozzi riempivano la dimora ».  
Non è certo per insensibilità che Achille, con un gesto, ha spinto a terra il vegliardo avvinto alle sue ginocchia; le parole di Priamo, facendogli ricordare il suo vecchio padre, l'hanno commosso fino alle lagrime. Semplicemente, egli si sente libero di muoversi e di spostarsi, come se invece di 
un supplicante fosse un oggetto a toccargli le ginocchia. Gl i esseri umani che vengono a trovarsi intorno a noi hanno, grazie alla loro sola presenza, un potere (che appartiene soltanto a loro) di arrestare, reprimere, modificare ciascuno dei movimenti che il nostro corpo abbozza; un passante devia il nostro cammino per una strada in un modo di￾verso da quello di un cartello; quando siamo soli non ci alziamo, non camminiamo, non stiamo in 
una stanza nello stesso modo in cui lo si fa quando c'è un visitatore. Ma questo influsso indefinibile della presenza umana non è esercitato da quegli uomini che un moto di impazienza può privare della vita prima ancora che un pensiero abbia avuto il tempo di condannarli a morte. Dinanzi a questi uomini gli altri si muovono come se essi non esistessero; ed essi a loro volta, nel pericolo di essere ridotti al nulla in un attimo, imitano il nulla. Spinti, cadono; caduti, restano a terra fin quando il caso non faccia passare nello spirito di qual￾cuno il pensiero di rialzarli. Non credano, però, 
dopo essere stati rialzati e onorati di parole cordiali, di prendere sul serio questa resurrezione, di osare esprimere un desiderio: una voce irritata li ridurrebbe subito al silenzio: 
« Disse, e il vegliardo tremò e obbedì ». 
I supplici almeno, una volta esauditi, ridiventano uomini come gli altri. 
Ma vi sono altri esseri più sventurati ancora che, senza morire, sono divenuti cose per tutta la loro vita. Nelle loro giornate non vi è alcuno spazio, alcun vuoto, alcun 
campo libero per qualcosa che proceda da loro. 
Non si tratta di uomini che vivano più duramente di altri, posti socialmente più in basso di altri; si tratta di un'altra specie umana, un compromesso tra l'uomo e il cadavere. Che un essere umano possa essere una cosa è, da un punto di vista logico, una contraddizione; ma quando l'impossibile è divenuto realtà la contraddizione diventa strazio nell'anima. Questa cosa aspira ogni momento ad essere un uomo, una donna, e in nessun momento vi riesce. È una morte che si allunga, si stira per tutto il corso di una vita; una vita che la morte ha raggelato molto prima di averla soppressa. 
La vergine, figlia di un sacerdote, subirà questa sorte: 
« Non la restituirò. L'avrà prima sorpresa vecchiezza 
nella mia casa d'Argo, lontana dalla sua patria, 
a correre innanzi al telaio, a muovere verso il mio letto ». 
La subirà la giovane donna, la giovane madre, sposa del principe: 
« E forse un giorno in Argo tesserai per un'altra la 
porterai l'acqua della Mèsside o d'Iperea, tela, 
ben tuo malgrado, sotto l'imperio di dura necessità ». 
La subirà il fanciullo, l'erede dello scettro regale: 
« Esse di certo se ne andranno in fondo alle concave 
io fra di loro; tu, mio bambino, o con me navi, 
mi seguirai, a fare avvilenti cose, penando sotto gli occhi di un padrone senza dolcezza... ». 
Agli occhi della madre una tal sorte è altrettanto paurosa per suo figlio quanto la morte stessa; lo sposo si augura di perire prima di sapervi ridotta sua moglie; il padre invoca tutti i flagelli del cielo sull'armata che vi sottomette sua figlia. 
Ma in coloro sui quali si abbatte, un destino a tal  punto brutale cancella le maledizioni, le rivolte, i 
paragoni, le meditazioni sull'avvenire e sul pas￾sato, quasi il ricordo. Non è da schiavo essere fedele alla propria città, ai propri morti. 
Quando soffre o muore uno di quelli che gli hanno fatto perdere tutto, che hanno devastato la sua città, massacrato i suoi sotto i suoi occhi, allora lo schiavo piange. Perché no? Soltanto allora il 
pianto gli è concesso. Gli è addirittura imposto. 
Ma in schiavitù le lagrime non sono forse pronte a scorrere, non appena possano farlo impunemente? 
« Ella disse piangendo; e le donne a gémere, 
col pretesto di Patroclo, ciascuna i propri affanni ». 
In nessuna occasione lo schiavo ha il permesso di esprimere qualcosa, se non ciò che può piacere al padrone. Ecco perché, se in una vita così tetra un sentimento può germogliare e animarla un poco, non potrà essere se non l'amore per il padrone; ogni altro cammino è sbarrato al dono d'amare, così come a un cavallo attaccato al carro le 
stanghe, le redini, il morso sbarrano tutte le vie tranne una. E se per miracolo si mostra la speranza di ridiventare un giorno qualcuno per un atto di grazia, allora la riconoscenza e l'amore verso uomini, il cui passato più che recente dovrebbe ispirare orrore, giungeranno a un grado incredibile. 
« Il mio sposo, al quale mi diedero mio padre e mia madre onorata
l'ho visto, innanzi alla mia città, trafìtto dal bronzo acuto. 
I miei tre fratelli, che a me partorì una sola madre, 
così cari! incontrarono il loro giorno fatale. 
Ma tu non mi lasciasti - quando il mio sposo dal rapido Achille 
fu ucciso, e distrutta la città del divino Minete -
versare lagrime; e m'hai promesso che Achille, il divino, 
mi farebbe sposa legittima, mi condurrebbe nelle sue navi 
a Ftia, per celebrare le nozze tra i Mirmìdoni. 
Così senza tregua ti piango, o tu sempre dolce ». 
Non si può perdere più di quanto perda lo schiavo; egli perde ogni vita interiore. Ne ritrova un poco soltanto quando si manifesti la possibi￾lità di mutar destino. Tale è l'imperio della forza: un imperio che arriva lontano quanto quello della natura. Anche la natura, quando entrano in gioco i bisogni vitali, cancella ogni vita interiore, persino il dolore di una madre: 
« Poiché anche Niobe dai bei capelli pensò a mangiare, 
lei, a cui dodici figli nella sua casa perirono, 
sei figlie e sei figlioli nel fiore dei loro anni. 
Essi, Apollo li uccise con il suo arco d'argento, nella sua collera 
contro Niobe; esse, Artemide, amante delle frecce. 
Poich'ella si era eguagliata a Latona di belle guance 
dicendo: "Ella ha due figli; io assai di più ne partorii" . 
E i due, seppur due soli, li fecero tutti morire. 
Per nove giorni giacquero nella morte; nessuno venne  a sotterrarli. 
Le genti erano impietrite per volere di Zeus. 
E il decimo furon sepolti dagli dèi dell'Olimpo. 
Ma ella pensò a mangiare, quando fu stanca di lagrime».
 ai fu espressa con tanta amarezza la miseria 
dell'uomo, che lo rende incapace persino di senti￾re la sua miseria. 
La forza usata dagli altri è imperiosa sull'ani￾ma come la fame estrema, quando consiste in un 
potere perpetuo di vita e di morte, ed è un impe￾rio altrettanto freddo, altrettanto duro come se 
fosse esercitato dalla materia inerte. L'uomo che si rivela il più debole è solo nella città quanto, se non più di quello sperduto in mezzo a un deserto. 
« Due tini si trovano sulla soglia di Zeus, 
coi doni che egli concede: cattivi nell'uno, buoni nell'altro... 
Colui cui fa doni funesti, egli lo espone agli oltraggi; 
l'orrendo bisogno lo incalza per tutta la terra divina; 
egli erra, e non lo rispettano gli uomini né gli dèi ». 
Tanto spietatamente la forza stritola, tanto spietatamente essa inebria chiunque la possieda o creda di possederla. Nessuno la possiede veramen￾te. Nell'Iliade gli uomini non sono divisi in vinti, schiavi, supplici da un lato, vincitori e capi dall'altro; non vi si trova un solo uomo che a un certo momento non sia costretto a piegare sotto la forza. 
Né i soldati, benché siano liberi e armati, evitano di subirne i comandi e gli oltraggi: 
« Ed ogni popolano ch'egli vedesse gridare, 
lo colpiva con il suo scettro, lo rampognava così: 
"Sta' quieto, miserabile, ascolta parlare gli altri, 
tuoi superiori. Tu non hai né coraggio né forza, 
non conti nella battaglia, non conti nell'assemblea" ». 
Tersite paga care certe parole, d'altronde perfettamente ragionevoli e che somigliano a quelle pronunziate da Achille: 
« Lo colpì; ed egli si incurvò, le sue lagrime scorsero rapide, un tumore sanguigno gli si formò sul dorso 
sotto lo scettro d'oro. Sedette ed ebbe paura. 
In dolore e stupore si asciugava le lagrime. 
Gli altri, sebbene in pena, n'ebbero gioia e risero ». 
M a Achille stesso, l'eroe orgoglioso, invitto, ci 
è mostrato all'inizio del poema piangente di umi￾liazione e di dolore impotente, dopo che gli hanno 
rapita sotto gli occhi la donna che voleva fare sua 
sposa, senza ch'egli abbia osato opporsi. 
« ...Ma Achille 
piangendo sedette in disparte, lontano dai suoi, 
all'orlo delle onde canute, lo sguardo sul mare vi-
[noso ». 
Agamennone ha umiliato Achille di proposito, 
per mostrare che è lui il padrone: 
« ...Saprai così 
che posso più di te; e ogni altro dovrà esitare 
a trattarmi da pari, a misurarsi con me ». 
M a qualche giorno dopo il capo supremo pian￾ge a sua volta, è costretto a umiliarsi, a supplica￾re, e ha il dolore di farlo invano. 
Neppure l'onta della paura è risparmiata ai 
combattenti. Gl i eroi tremano come gli altri. Ba￾sta una sfida di Ettore per costernare tutti i Greci 
senza eccezione, tranne Achille e i suoi, che sono 
assenti. 
« Disse, e tutti si tacquero, serbarono il silenzio, 
vergognosi di rifiutare, paurosi di accettare ». 
Ma appena s'avanza Aiace, la paura muta campo: 
« Un brivido di terrore sciolse le membra ai Troiani; 
a Ettore, anche a lui, balzò il cuore nel petto; 
ma non gli era più dato tremare né cercare rifugio... 
Due giorni più tardi è Aiace a provare il terrore:
« Zeus padre, dall'alto, infuse la paura ad Aiace.
Egli s'arresta perduto, si lascia dietro lo scudo di
[sette pelli,
trema, guarda sgomento la folla, come una bestia... ».
Persino ad Achille capita una volta di tremare
e gemere di paura, davanti a un fiume, è vero,
non davanti a un uomo. Tranne lui, tutti gli altri
ci vengono mostrati per qualche istante vinti. A
determinare la vittoria non contribuisce il valore
quanto il destino cieco, figurato nella bilancia
d'oro di Zeus:
« In quell'attimo, Zeus padre spiegò la bilancia d'oro,
vi pose due fati della morte che falcia ogni cosa,
uno per i Troiani domatori di cavalli, uno pei Greci
[bardati di bronzo.
La prese nel mezzo, e fu il giorno fatale dei Greci a
[calare ».
A forza d'esser cieco, il destino stabilisce una
sorta di giustizia, cieca anch'essa, che punisce gli
uomini armati con la pena del taglione; l'Iliade l'ha
formulata molto tempo prima del Vangelo e qua￾si negli stessi termini:
« Ares è equanime e uccide quelli che uccidono ».
Che tutti siano destinati, nascendo, a patire
violenza, è una verità a cui l'imperio delle circo￾stanze chiude gli spiriti degli uomini. I l forte non
è mai assolutamente forte, né il debole assoluta￾mente debole, ma l'uno e l'altro lo ignorano. Essi
non si credono della medesima specie. Né il de￾bole si considera il simile del forte, né da lui è con￾siderato suo simile. Colui che possiede la forza
avanza in un ambiente privo di resistenza senza
che nulla, nella materia umana intorno a lui, sia
di natura tale da suscitare, tra l'impeto e l'atto, quel lieve intervallo ove si inserisce il pensiero. E
dove non ha dimora il pensiero, non ne ha la giu￾stizia né la prudenza. Perciò quegli uomini armati
agiscono duramente e follemente. La loro spada
affonda in un nemico inerme ai loro ginocchi;
trionfano di un moribondo descrivendogli le offe￾se che subirà il suo corpo; Achille sgozza dodici
adolescenti troiani sopra il rogo di Patroclo con
la stessa naturalezza con cui noi tagliamo fiori per
una tomba. Usando del loro potere, essi non du￾bitano mai che le conseguenze dei loro atti li fa￾ranno a loro volta piegare. Quando con una sola
parola si può far tacere, tremare, obbedire un ve￾gliardo, si riflette forse che le maledizioni di un
sacerdote hanno importanza agli occhi degli àugu￾ri? Ci si astiene forse dal togliere la donna amata
ad Achille, quando si sappia che l'uno e l'altra non
potranno far altro che obbedire? Quando Achille
gode a veder fuggire i miseri Greci, può forse im￾maginare che quella fuga, che durerà o finirà a suo
piacere, farà perdere la vita al suo amico e a lui
stesso? Ecco in qual modo coloro a cui la forza
è prestata dal destino periscono per troppa sicu￾rezza.
Non possono non perire. Essi infatti non con￾siderano la propria forza come una quantità limi￾tata, i loro rapporti con gli altri come un equilibrio
tra forze impari. Dato che gli altri uomini non im￾pongono ai loro movimenti quella battuta di arre￾sto da cui solo può nascere il rispetto verso il pros￾simo, essi concludono che il destino ha dato a loro
ogni diritto e nessuno ai loro inferiori. Da quel
momento essi vanno al di là della forza di cui
dispongono. È inevitabile, perché ignorano che
quella forza ha dei limiti. Sono allora abbandonati al caso senza rimedio e le cose non gli obbedisco￾no più. Talvolta il caso li serve, talvolta li dan￾neggia; eccoli esposti nudi alla sventura, senza
quella corazza di potenza che proteggeva la loro
anima, senza più nulla ormai che li separi dalle
lagrime.
Tale castigo, di un rigore geometrico, che pu￾nisce automaticamente l'abuso della forza, fu il primo oggetto della meditazione dei Greci. Esso
costituisce l'anima dell'epopea; sotto il nome di
Nemesi è la molla delle tragedie di Eschilo; i Pi￾tagorici, Socrate, Platone ne fecero il loro punto
di partenza per pensare l'uomo e l'universo. La
nozione ne è divenuta familiare ovunque sia pe￾netrato l'ellenismo. Forse, proprio questa nozione
greca sussiste, sotto il nome di kharma, in paesi
d'Oriente impregnati di buddismo; ma l'Occidente
l'ha perduta e non ha neppur più, in nessuna delle
sue lingue, parola che la esprima; le idee di limite,
di misura, di equilibrio, che dovrebbero determi￾nare la condotta della vita, non hanno più che un
impiego servile nella tecnica. Noi siamo geometri
solo di fronte alla materia; i Greci furono prima
di tutto geometri nell'apprendimento della virtù.
Il corso della guerra nell'Iliade non è altro che
questo gioco pendolare. I l vincitore del momento
si sente invincibile, anche se ha conosciuto la di￾sfatta qualche ora prima; dimentica di usare la
vittoria come una cosa destinata a passare. A l ter￾mine della prima giornata di combattimento nar￾rata dall'Iliade, i Greci vittoriosi potrebbero otte￾nere benissimo l'oggetto dei loro sforzi, Elena e
le sue ricchezze; almeno ove si supponga, come
Omero, che l'esercito greco avesse ragione di cre￾dere Elena in Troia. I sacerdoti egizi, che dovevano saperlo, assicurarono più tardi a Erodoto che
lei si trovava in Egitto. In ogni modo, quella sera,
i Greci non ne vogliono più sapere:
« "Non si accettino ora né le ricchezze di Paride
né Elena; ciascuno, anche il più ignaro, vede
che Troia è all'orlo della sua perdita".
Disse: e tutti acclamarono tra gli Achei ».
Ciò che essi vogliono è nientemeno che tutto.
Tutti i tesori di Troia come bottino, tutti i palazzi,
i templi e le case ridotti in cenere, tutte le donne
e tutti i bambini come schiavi, tutti gli uomini
come cadaveri. Hanno scordato un particolare: che
non tutto è in loro potere, poiché non sono in
Troia. Forse vi saranno domani; forse non vi sa￾ranno.
Ettore, lo stesso giorno, si abbandona allo
stesso oblio.
« Poiché so bene questo, nelle mie viscere e nel mio
giorno verrà che la santa Ilione perisca, [cuore:
e Priamo e la nazione di Priamo, di buona lancia.
Ma più che al dolore che si prepara ai Troiani,
più che ad Ecuba stessa ed a Priamo, il re,
e ai miei fratelli che numerosi e audaci
cadranno nella polvere sotto i colpi nemici,
penso a te, quando un Greco dalla corazza di bronzo
ti trascinerà in lagrime, togliendoti la libertà...
M a ch'io sia morto e m'abbia ricoperto la terra
prima ch'io senta i tuoi gridi, ti veda trascinata! ».
Che cosa non offrirebbe in quel momento per
stornare gli orrori che crede inevitabili? M a tutto
ciò che può offrire è vano. Due giorni dopo i Gre￾ci fuggono miseramente e Agamennone in persona
vorrebbe riprendere il mare. Ettore, che cedendo
ben poco potrebbe ottenere facilmente la partenza
del nemico, non vuole più neppure farlo partire a
mani vuote:
« Ardano ovunque fuochi e s'innalzi al cielo il
[bagliore,
affinché nella notte i Greci dai lunghi capelli
non si gettino in fuga sul largo dorso dei mari...
Che più d'uno si porti a casa un colpo da smaltire,
sicché tutto il mondo tema di portare la guerra
luttuosa ai Troiani domatori di cavalli ».
I l suo desiderio è esaudito; i Greci restano, e
l'indomani, a mezzogiorno, fanno di lui e dei suoi
un oggetto pietoso:
« Essi per la pianura fuggivano, come vacche
cacciate da un leone venuto a mezzo la notte...
Così li inseguiva Agamennone, il possente Atride,
senza tregua uccidendo l'ultimo; ed essi fuggivano ».
Nel corso del pomeriggio Ettore riprende il so￾pravvento, si ritira di nuovo, rimette i Greci in
fuga, poi è respinto da Patroclo e dalle sue truppe
fresche. Patroclo, spingendo il proprio vantaggio
al di là delle proprie forze, finisce per trovarsi
esposto, senza armatura e ferito, alla spada di Et￾tore, e la sera Ettore, vittorioso, accoglie con ram￾pogne il prudente avviso di Polidamante:
« "Ora che ho ricevuto, dal figlio di Cromo l'astuto,
la gloria presso le navi, ridotto i Greci alla riva,
non proporre, imbecille! al popolo tali consigli.
Non ti ascolterà alcun Troiano; io glielo impedirò".
Così parlò Ettore, e i Troiani acclamarono... ».
L'indomani Ettore è perduto. Achille l'ha fat￾to retrocedere per tutta la pianura e sta per ucci￾derlo. È stato sempre il più forte dei due in com￾battimento; e ora lo è molto di più dopo setti￾mane di riposo, inferocito dalla vendetta e dalla
vittoria contro un nemico stremato! Ecco Ettore
solo davanti alle mura di Troia, completamente
solo, ad attendere la morte e a tentare di risolvere
la sua anima ad affrontarla.

« Ahimè, se scivolassi dietro la porta e il bastione, 
Polidamante primo mi coprirebbe d'onta... 
Ora che per la mia follia ho perduto i miei, 
temo i Troiani e temo le Troiane dai veli fluenti 
e sentir dire da meno prodi di me: 
"Ettore, troppo certo della sua forza, ha perduto il 
[paese". 
Pure, se io posassi il mio scudo convesso, 
il mio buon elmo e, appoggiando la mia lancia al 
[bastione, 
andassi verso l'illustre Achille, ad incontrarlo? 
Ma perché dunque il mio cuore mi dà tali consigli? 
Non mi accosterò a lui; non avrebbe pietà 
né rispetto; mi ucciderebbe, se fossi così nudo, 
come una donna... ». 
Ettore non sfugge a nessuno dei dolor i e delle 
vergogne che sono retaggio degli sventurati. Solo, 
spogliato di ogni prestigio di forza, i l coraggio che 
l'ha sorretto fuor delle mura non lo preserva dalla 
fuga: 
« Ettore, nel vederlo, fu preso da un tremito. Non risolversi a rimanere...seppe 
...Non per una pecora od una pelle di bove si sforzano essi, compenso usato alla corsa; per una vita essi corrono, quella di Ettore, domatore di cavalli ». 
Ferito a morte, egli accresce con vane suppliche il trionfo del vincitore: 
« T'imploro per la tua vita, pei tuoi ginocchi, per i tuoi genitori... ». 
Ma gli uditori dell'Iliade sapevano che la morte di Ettore avrebbe dato breve gioia ad Achille,  e la morte di Achille breve gioia ai Troiani, e la  caduta di Troia breve gioia agli Achei. 

Così la violenza stritola quelli che tocca. Essa
finisce coll'apparire esteriore a colui che la esercita
come a colui che la soffre; nasce allora l'idea di un
destino sotto il quale carnefici e vittime sono del
pari innocenti, vincitori e vinti sono fratelli nella
stessa miseria. I l vinto è causa di sventura per il
vincitore come il vincitore per il vinto.
« Un figlio solo gli nacque, a breve vita; e, di più,
invecchia privo delle mie cure, ché ben lungi dalla
[mia patria,
io resto davanti a Troia, a nuocere a te e ai tuoi
[figli ».
U n uso moderato della forza, che solo consen￾tirebbe di sfuggire all'ingranaggio, richiederebbe
una virtù più che umana, non meno rara che una
costante dignità nella debolezza. D'altronde, nep￾pure la moderazione è sempre senza pericolo; giac￾ché il prestigio, che per più di tre quarti costituisce
la forza, è fatto, prima di tutto, della superba in￾differenza del forte per i deboli, indifferenza con￾tagiosa al punto da comunicarsi a coloro che ne
sono l'oggetto. M a di solito non è un pensiero po￾litico a consigliare l'eccesso. È proprio la tentazio￾ne dell'eccesso a essere irresistibile.
Nell'Iliade si pronunziano qualche volta parole
ragionevoli; quelle di Tersite lo sono al massimo
grado, quelle di Achille, irritato, del pari:
« Nulla mi vale la vita, neppure i tesori che dicono
contenere Uione, la città così prospera...
Poiché puoi conquistare i bovi, i grassi montoni...
Una vita, perduta, non la riprendi ».
Ma le parole ragionevoli cadono nel vuoto. Se
le pronuncia un inferiore, viene punito e tace; se
è un capo, non vi conforma i suoi atti. E, al biso￾gno, c'è sempre un Dio a consigliare la demenza.
Alla fine, l'idea stessa che si possa voler sfuggire
all'occupazione data in retaggio dalla sorte, quella
di uccidere e di morire, dispare dallo spirito:
« ...noi, a cui Zeus
dalla gioventù alla vecchiezza assegnò di penare
in dolorose guerre, fino a perire dal primo all'ultimo ».
Già quei combattenti, come più tardi quelli di
Craonne, si sentivano « tutti condannati ».
Sono caduti in questa situazione grazie alla più
semplice delle trappole. Alla partenza il loro cuore
è leggero, come sempre quando si ha con sé una
forza e contro di sé il vuoto. Le armi stanno nelle
loro mani; il nemico è assente. Se l'animo non è
già abbattuto dalla reputazione del nemico, si è
sempre assai più forti di un assente. U n assente
non impone il giogo della necessità.
Nessuna necessità si mostra ancora allo spirito
di coloro che se ne vanno così, ed ecco perché se
ne vanno come a un gioco, come a una vacanza
dalla stretta del quotidiano.
« Dove sono le vostre millanterie, le prodezze,
quelle che a Lemno vanitosi declamavate,
ingozzandovi delle carni dei bovi di corna diritte,
bevendo nelle coppe traboccanti di vino?
A cento, a duecento di quei Troiani ciascuno
terrebbe testa in battaglia; ed ecco che uno è già
[troppo! ».
Persino quando sia conosciuta e provata, la
guerra non cessa immediatamente di apparire un
gioco. La necessità propria alla guerra è terribile,
molto diversa da quella legata alle opere della pa￾ce; l'anima non vi si sottomette se non quando
non può più sfuggirvi; e finché vi sfugge, trascorre giorni vuoti di necessità, giorni di gioco, di so￾gno, arbitrari e irreali. I l pericolo allora è una
astrazione, le vite che si distruggono sono simili a
balocchi spezzati da un bambino e non meno indif￾ferenti, l'eroismo è un atteggiamento teatrale e
contaminato di millanteria. Se inoltre, per un mo￾mento, un afflusso di vita viene a moltiplicare la
potenza di azione, ci si crede irresistibili in virtù
di un aiuto divino che garantisce contro la scon￾fitta e la morte. Allora la guerra diventa facile ed è
bassamente amata.
M a nella maggior parte delle persone tale stato
non dura. Viene un giorno nel quale la paura, la
sconfitta, la morte dei compagni amati fa piegare
l'anima del soldato sotto la necessità. La guerra
cessa allora di essere un gioco o un sogno; il guer￾riero comprende alfine ch'essa esiste realmente. È
una realtà dura, infinitamente troppo dura per po￾ter essere sopportata, poiché racchiude la morte.
I l pensiero della morte non lo si regge se non per
lampi, non appena si sente che la morte è effetti￾vamente possibile. Certo, ogni uomo è destinato a morire e un soldato può invecchiare tra le battaglie; ma per coloro la cui anima è sottomessa al giogo della guerra, il rapporto fra la morte e l'avvenire non è lo stesso che per gli altri uomini. Per gli altri la morte è un limite imposto in anticipo
all'avvenire; per essi è l'avvenire stesso, l'avvenire
assegnato loro da una professione. Che uomini abbiano per avvenire la morte è contro natura. Non appena la pratica della morte ha reso sensibile la possibilità di morte che ogni minuto racchiude, il pensiero diviene incapace di passare da un giorno al suo domani senza traversare l'immagine della
morte. Lo spirito è teso, allora, come può soffrire
29