domenica 14 febbraio 2021

DUE STORIE SPORCHE Alan Bennett


DUE STORIE SPORCHE
Alan Bennet
 Adelphi


Anche se pubblicato da Adelphi, in Italia Alan Benett è autore quasi sconosciuto. Raro trovare qualcuno che abbia letto un suo romanzo. Bennett ha, per me,  una staordinaria capacità di mettere sotto lente di ingrandimento la "normalità" per farci scoprire - con un grandissimo, impareggiabile, effetto umoristico - come da vite modeste, di piccolo-borghesi di provincia, mediocri in tutto, emergano aspetti sorprendenti, generati dai conflitti nascosti dell’animo umano.
"«Graham, se vi sposate in chiesa il canonico vuole che fingiate di credere in Dio. Lo sappiamo tutti che è solo una cosa decorativa. Hai presente le hostess che prima del decollo fanno il discorso sulla sicurezza? Ecco: Dio sta nell’alto dei cieli e il salvagente sotto la poltrona».
«Non capisco cosa c’entra se siamo andati a letto o no».
«All’età del canonico Mollison» spiegò Mr Forbes con calma «uno dei pochi vantaggi del mestiere è potersi impicciare della vita sessuale dei giovani. In qualsiasi altro contesto ti arrestano; se sei prete, passa per assistenza spirituale».




DUE STORIE SPORCHE 

MRS DONALDSON RINGIOVANISCE 

«Tu devi essere mia moglie,» disse l’uomo in sala d’attesa «ma non credo di avere il piacere. 
Facciamo le presentazioni?». 
Era un tipo di mezza età, un po’ scalcagnato e senza pantaloni. Mrs Donaldson pensò che sotto quella vestaglietta corta poteva anche essere nudo. 
«Donaldson». 
«Ah, ecco. Io mi chiamo Terry. Sono appena tornato». 
Mentre Mrs Donaldson gli stringeva brevemente la mano, la vestaglietta si aprì rivelando un paio di mutande arancioni con un telefonino infilato nell’elastico. 
«Problemi di transito intestinale» riprese Terry, giulivo. 
«No» ribatté Mrs Donaldson. «Non direi proprio». 
«Miei, cara: non tuoi. Tu sei solo mia moglie». 
«Mi avevano detto che era la prostata». 
«Ma figurati». Terry si tirò su per bene le mutande. «Neanche per sogno». 
«Un discorso di frequenza, di risvegli notturni». 
«No, assolutamente. La faccio prima di venire a letto e poi la mattina, appena alzato. Comunque son cose che sai». Terry rise sotto i baffi. «Se sei mia moglie...». 
Mrs Donaldson prese una cartelletta. 
«Vedrai che è l’altro settore» continuò lui. «Feci dure, difficili da espellere, a volte sanguinolente. 
Quella roba lì. Siccome sono molto timido mi son fatto accompagnare da te, così mi rassicuri».    «In effetti io facevo l’infermiera» convenne Mrs Donaldson «e conosco bene la terminologia: 
colon, sigma, sfintere...». 
«Momento» la interruppe Terry. «Tu hai fatto l’infermiera sul serio?». 
«No. Sono una casalinga vedova». 
«Scusa un secondo. Vado a controllare». Terry se ne andò legandosi la vestaglia. 
Al suo ritorno vide che lei aveva cambiato sedia e le si risistemò accanto, ma in silenzio. 
«Allora?» fece Mrs Donaldson. 
Terry si indicò l’inguine. «Hai ragione, sono problemi urinari, però c’è di mezzo anche l’intestino perché per misurare la prostata faranno un giretto dal didietro. E poi bisognerà vedere quanto vorrà dirgli lui». 
La porta si aprì. Si udirono delle risate. Una ragazza col nome sulla targhetta uscì in lacrime.    «Tesoro, ma ho cercato di fartelo capire» disse una vecchietta che la seguiva abbottonandosi la camicia. «La cistifellea era una pista falsa!». 
Al segnale acustico Terry e Mrs Donaldson si alzarono. 
«Prego, dopo di te» fece lui, conficcandole un dito sopra al fondoschiena. Mrs Donaldson si scostò e ribatté: «Scusa, ma non eri timido?». 
Quella mattina c’erano sei studenti: quattro maschi e due femmine. La saletta era arredata più o meno come un ambulatorio: la scrivania, il lettino, e più in là il professor Ballantyne, primario del reparto, stravaccato su una sedia con studiata indifferenza. Probabilmente aveva mutande più eleganti di quelle di Terry, pensò Mrs Donaldson. 
Ballantyne si alzò. «Mrs Donaldson! Mr Porter! Buongiorno. Non vi chiedo come state perché toccherà ai nostri medici in erba scoprirlo, anche se dovremo fare a meno della nostra Truscott, ferita in battaglia. Bene: venite, venite pure. Nessuno fa accomodare questi due gentili signori?». Si rimise a sedere anche lui. «Rowswell? Prego». 
Si fece avanti un ragazzo dall’aria preoccupata, con la faccia rossa, le orecchie strane e il camice troppo grande. Li fece accomodare con gesti impacciati e si sistemò dietro la scrivania, dove non era abituato a stare. 
Tentò di estrarre la mano dalla manica, guardò Terry e provò a sorridere. 
«Che cosa si sente?». 
Ballantyne fece un gran sospiro e si mise le mani nei capelli. 
«Complimenti, Rowswell. Pur non essendo laureato, lei è già in possesso di una dote che a me non è ancora stata concessa dopo vent’anni d’onorata professione. Sa distinguere chi dei due è l’ammalato». 
Gli studenti fecero la consueta risatina di cortesia. 
«Come fa a sapere qual è il paziente fra questi due individui a prima vista sani?». 
Rowswell arrossì ulteriormente. «Il signore è in vestaglia». 
Ballantyne squadrò Terry come se l’avesse visto solo in quel momento. «Già. Ma perché, Mr Porter?». 
Terry si strofinò le ginocchia nude. «Pensavo di farvi risparmiare tempo». 
«Mr Porter, noi non siamo qui per risparmiare tempo. Noi siamo qui...» e Ballantyne sorrise, amabile, a Mrs Donaldson «per salvare delle vite umane. In futuro eviti di prendere iniziative. Se la paziente fosse stata la signora, non credo proprio che si sarebbe presentata in...» rifletté un momento «négligé». 
Con un altro sorriso benevolo lasciò decantare l’idea. «Proceda, Rowswell». 


Mrs Donaldson frequentava la clinica universitaria da un mesetto e l’ospedale vero e proprio da molto più tempo. Suo marito era morto proprio lì dopo una lunga e dolorosa malattia, e lei era andata a trovarlo tutti i giorni senza mai recriminare. Superato un iniziale fastidio, ci aveva fatto il callo e si era perfino affezionata a quel tran tran: così la scomparsa di Cyril non le aveva portato via soltanto il consorte, ma anche un’occupazione. Dopo si era trovata un po’ in difficoltà, specialmente il pomeriggio. Non avendo più l’obbligo di uscire, aveva passato intere settimane dentro casa. Sua figlia Gwen, che era sposata, si era presa la soddisfazione di chiamarlo «lutto»; riteneva che sua madre non avesse mai trattato suo padre con la dovuta considerazione. 
Cyril era un uomo irreprensibile e Mrs Donaldson aveva sofferto davvero per la sua dipartita. Ma non era disposta a imporsi quell’austera solitudine che secondo sua figlia doveva accompagnare la vedovanza. 
La liberazione sarebbe giunta in maniera inattesa: per via di qualche problema con la pensione del marito le entrate di Mrs Donaldson si rivelarono più ridotte del previsto, e quindi ebbe bisogno di arrotondare. Fu cos? che pens? di ospitare degli studenti, visto che era sola in una casa con tre camere da letto. 
La figlia non poté obiettare alle ragioni economiche, ma trovò certi risvolti sociali disdicevoli. 
«Dei pigionanti? Chissà cosa direbbe papà. E comunque non ti ci vedo nella parte dell’affittacamere».    «Avere degli ospiti di tanto in tanto non fa di me un’affittacamere» ribatté Mrs Donaldson. «E comunque non sono pigionanti ma studenti». 
Gwen non replicò. Pensava che dopo qualche mese di vasca lurida, musica a notte fonda e sciacquoni non tirati sua madre avrebbe cambiato idea. 
«Al primo preservativo nel water vedrai come rinsavisce» disse a suo marito. 
Forse Mrs Donaldson aveva avuto fortuna: i due studenti mandati dall’ufficio dell’università erano persone esemplari, quasi sotto ogni punto di vista. Silenziosi, ordinati, lasciavano il bagno pulito, non dimenticavano mai lo sciacquone ed erano tanto discreti che lei praticamente non sapeva nemmeno se erano in casa. Laura faceva medicina e Andy, il suo ragazzo, architettura (studi che secondo Mrs Donaldson ben si attagliavano a due precisini). Era stato tramite loro che la clinica universitaria l’aveva assunta part-time come paziente simulata; Laura aveva visto l’annuncio in bacheca. 
Dicevano che non erano necessarie capacità particolari; bisognava solo memorizzare alcuni dati e saperli presentare con chiarezza. Non si parlava affatto di doti interpretative, altrimenti Mrs Donaldson non si sarebbe neppure proposta, e non bisognava nemmeno essere molto sicuri di sé: altro possibile deterrente, perché lei si era sempre considerata timida. 
Gwen aveva fatto leva proprio sul discorso della timidezza: sua madre era stata così ingenua da raccontarle che si era candidata. 
«Tanto per cominciare, tu detesti spogliarti». 
«È vero, ma dovrei farlo per una buona causa». 
«E poi scusa: l’ospedale non l’hai già frequentato abbastanza? Chissà cosa direbbe papà».   Spesso Mrs Donaldson aveva la sensazione che Gwen si fosse autoeletta rappresentante in terra di suo padre. 
Era un lavoro rispettabile e perfino lodevole, ma la figlia non era dell’idea. A lei pareva che sua madre scalpitasse per diventare una specie di modella dei poveri, con tutto l’alone di spudoratezza del mestiere, per non parlare della nudità. 
In realtà a Mrs Donaldson nessuno aveva mai chiesto di spogliarsi. Quella era una cosa che certi pazienti simulati facevano più volentieri di altri: Terry, per esempio, non ci pensava mai due volte prima di saltare dentro un camice da paziente, anche quando non ce n’era bisogno. Secondo lei quella sua prontezza era di per sé un sintomo, ma di cosa? Forse lo faceva per alleviare la tristezza, o anche la mezza età. Comunque era una tendenza che lei era felice di non avere. 
«Non si tratta nemmeno di recitare» disse alla sua amica Delia in mensa. «Bisogna cercare di non mostrare emozioni: tutto qui. È una specie di fuga da se stessi». 
Delia era un’altra paziente simulata. «Comunque è bello essere guardate» osservò. «Anche solo come casi clinici. Quando mai ti guardano, i giovani? Ormai alla nostra età siamo invisibili». 


In ospedale Laura e Mrs Donaldson si incrociavano solo ogni tanto, e pochi sapevano che si vedevano anche fuori. Quella mattina, però, nella classe di Mrs Donaldson c’era anche lei. Aveva preso il posto del povero Rowswell, che al momento dell?esplorazione rettale su Terry era caduto al primo ostacolo. 
«Piano, piano» aveva detto il professor Ballantyne. «Faccia finta che sia la sua ragazza».    Il consiglio era stato inutile perché Rowswell la ragazza non l’aveva mai avuta, ma Laura se la stava cavando decisamente meglio, tanto che Ballantyne poté concedersi una breve uscita per parlare al cellulare. 
Fu allora che, all’improvviso, Mrs Donaldson si accasciò sulla scrivania, priva di sensi.   Poiché tutti gli occhi erano puntati su Terry, trascorsero un paio di istanti prima che qualcuno se ne accorgesse. Gli studenti le si affollarono intorno: uno le sollevò una palpebra sulla pupilla assente; una ragazza (non Laura) iniziò a trafficare col suo vestito nel tentativo di localizzare il cuore.   «Chiamo qualcuno» fece Terry, che subito si era tirato su le mutande e aveva impugnato il cellulare. «Che numero devo fare?». 
Anche Rowswell si pronunciò. «E che cazzo! Uno ha le emorroidi, all’altra gli piglia un colpo...». 
«Ma sarà vero?» intervenne Minskip. «Non è che sta recitando?». 
«No» rispose Terry. «Se fingesse lo saprei, visto che faceva mia moglie». 
«Comunque all’ictus non ci siamo ancora arrivati» concluse Rowswell. 
Al suo ritorno il professor Ballantyne fugò ogni dubbio circa la gravità della situazione. Valutò il problema; chiamò senza indugio la rianimazione e, sempre pronto a cogliere l’attimo, approfittò dell’attesa per erudire i suoi allievi sulle procedure d’intervento nei casi di incidente cerebrale.    «Può essere colpa dello stress?» volle sapere Terry. «Perché prima è stata un po’ permalosa con me. Mi sembra una di quelle persone che si tengono tutto dentro?. 
Ballantyne lo lasciò perdere. «Allora? Dove cazzo sono finiti? Qui è fondamentale la rapidità. E siamo già in ospedale! Pensate se fossimo per strada». 
Laura si inginocchiò accanto alla donna svenuta. «Mrs Donaldson» la chiamò. «Mrs Donaldson». Poi, tra le lacrime: «Io la conosco, abito da lei». 
«Cos’altro potremmo fare noi?» riprese Ballantyne. «Riflettete un po’, branco di idioti. 
Riflettete!». 
La truppa si mise a riflettere, pur sapendo che, se ci fosse stato qualcos’altro da fare, il professore avrebbe provveduto. «Ha una figlia» disse Laura. «Forse dovremmo chiamarla». L’abito di Mrs Donaldson aveva lasciato scoperte le gambe, rivelando delle giarrettiere così arcaiche che solo la gravità del momento impedì a Ballantyne di farlo notare agli allievi. Anzi, il professore tirò giù l’abito con delicatezza, sollevando allo stesso tempo le gambe della paziente e dicendo al suo corpo esanime: «Ecco qua». 
Laura, ancora inginocchiata lì accanto, posò una mano sulla gola di Mrs Donaldson. «Il battito è buono». 
«Sì,» confermò il professore «solo che glielo sta prendendo col guanto appena uscito dal didietro di Mr Porter». 
La donna priva di sensi trasalì in maniera percettibile. 
«Rinviene!» annunciò Terry. 
«Perché non è mai svenuta» fece Ballantyne. «A posto, signora carissima. Si alzi pure». E aiutò Mrs Donaldson a sedersi. 
«È evidente che tu piaci a Ballantyne» osservò Delia più tardi in mensa. Quando Mrs Donaldson fece una smorfia aggiunse: «Be’, potrebbe andarti molto peggio». 
Dopo che Mrs Donaldson era «rinvenuta» c’era stato qualche brontolio. Gli studenti erano tutti più o meno mortificati, ma il più seccato era Terry. Lui si considerava praticamente un infermiere, e poi riteneva di dover essere reso partecipe del sotterfugio, visto che era un membro della famiglia.    Ma le cose non stavano così, e Mrs Donaldson lo sapeva, pur non volendo ammetterlo. Se non altro perché lei era una piacente vedova cinquantacinquenne con un bel paio di gambe, mentre Terry era uno spaventapasseri col naso bislungo, le mutande flosce e il tatuaggio di un pettirosso che gli volava via dall’ombelico. 
Eppure Terry un po’ di ragione ce l’aveva: i pazienti simulati erano una specie di famiglia, per quanto male assortita. Non essendo richieste qualifiche o particolari conoscenze, andava da sé che fossero reclutati fra gli scarti delle altre professioni. Un caso tipico era quello di Delia, un’ex attrice che si sentiva ancora sulla ribalta. Terry aveva fatto un po’ di tutto, anche la guardia giurata e il portantino in ospedale. Miss Beckinsale invece aveva un passato ignoto, ma essendo la più anziana guardava i colleghi dall’alto in basso, e rivendicava una cultura medica superiore perché aveva lavorato per un breve periodo in una farmacia. 
Mrs Donaldson rappresentava l’eccezione. Era (o si riteneva) una tipica esponente della piccola borghesia, approdata alla vedovanza dopo un matrimonio normale: felice all’inizio, poi decente, e alla fine noiosissimo. Ma in quella variopinta compagnia si sentiva un pesce fuor d’acqua e perciò le toccava recitare un doppio ruolo. Il primo per mostrarsi più aperta e «disinvolta», meno bacchettona: 
«Vedi, anche le parolacce mi hanno sempre dato fastidio» confessò a Delia. «Quando le dicono mi sento a disagio». 
«Sta’ tranquilla» la rassicurò Delia. «Vedrai che dopo un paio di mesi qua dentro inizierai a dire “merda” come tutti gli altri». Veramente voleva dire «cazzo», ma pensò che Mrs Donaldson non fosse ancora pronta a tanto. 
L’altro ruolo era, come per tutti i suoi colleghi, quello del caso sottoposto agli studenti: una madre addolorata, una figlia depressa, una paziente bellicosa e via dicendo. Ma nel complesso questa interpretazione le riusciva più facile della prima. Il lavoro richiedeva un certo studio, perché il paziente simulato deve familiarizzare col suo personaggio e quindi conoscerne non solo la malattia e i sintomi, ma anche la storia privata e clinica. Così la sera doveva spesso prepararsi per il giorno dopo. Il professor Ballantyne si accorse presto che lei era la più diligente del gruppo, e le affidò alcuni casi complessi e malattie rare. Mrs Donaldson diventò un elemento prezioso. 
Ma nonostante tutto si sentiva in colpa per non essere riuscita ad avvisare Laura, prima di svenire. Il fatto è che Ballantyne le aveva spiegato il suo piano solo poco prima della lezione, e l’aveva anche presentato come una sorta di scherzo più che un’esercitazione vera e propria. Non le era piaciuta l’aura di complicità con cui il professore aveva ammantato l’iniziativa («Che rimanga il nostro piccolo segreto, mi raccomando»). Lei preferiva sapere in anticipo che malattia aveva, in modo da conoscere a menadito tutti i sintomi. Per esempio, nel caso di quell’incidente cerebrale c’era in programma soltanto lo svenimento, ma quali potevano essere le avvisaglie? Una cefalea, magari; e avrebbe voluto sapere se doveva segnalarla prima, oppure fingerla e basta. Ballantyne non le aveva dato retta, ma dopo la sceneggiata era arrivato a complimentarsi con un mezzo abbraccio. Alla fine le era sembrato che la trovata del professore non servisse a istruire i ragazzi, bens? a scendere su un piano pi? intimo con lei... cosa che fino ad allora non era ancora riuscito a fare. 
«Non ci vuol molto a capirlo» aveva osservato Delia. «Tu hai perso tuo marito, lui sua moglie. Il figlio pare sia nel Botswana; la figlia ha sposato un ottico. Si sentirà solo come un cane». 


Quando Mrs Donaldson tornò a casa trovò Laura in cucina. 
«Lo sa che mi sono sentita in imbarazzo per lei? Quel tizio fa veramente schifo».   «Terry? Be’, in effetti...». 
«No... cioè sì, Terry è orrendo, ma mi riferivo a Ballantyne. “Si alzi pure, signora carissima”...». Laura fece una smorfia. «Come fa a sopportarlo? Non la mette a disagio?». 
«Ho dovuto solo svenire, e poi è un uomo come tutti gli altri. Anzi, dovrei essergli grata perché ci vivo, con quel lavoro». 
L’osservazione di Mrs Donaldson non era casuale. 
Infatti Laura e il suo ragazzo, inquilini ideali, le davano un grattacapo non trascurabile: erano sempre indietro con l’affitto. Ecco perché Mrs Donaldson aveva pensato di far presente che non navigava nell’oro, per quanto proprietaria di una casa e di un’utilitaria, e che il loro contributo economico non era un di più, ma una necessità. 
Quanto a sua figlia, se avesse saputo dei continui ritardi non l’avrebbe più lasciata in pace. Visto il terreno minato, Mrs Donaldson aveva deciso di non parlargliene, dichiarandosi sempre e immancabilmente soddisfattissima dei due «pigionanti». 
Dal canto loro «i ragazzi» – così invece li considerava lei – sapevano benissimo di non essere in regola. Volevano evitare di essere segnalati all?universit? e, peggio ancora, buttati fuori di casa. Laura pens? di parlarne con Mrs Donaldson proprio quando Mrs Donaldson aveva pensato di parlarne con lei.    Per rompere il ghiaccio Laura le prese la mano. 
«Senta, a proposito dell’affitto...». 
«Sì?» fece Mrs Donaldson. 
Andy entrò in cucina. «Mano nella mano? Che succede?». 
«Volevo dire a Mrs Donaldson che ce la faremo... a pagare». 
Andy si impossessò dell’altra mano. «Certo. Troveremo il sistema». 
Mrs Donaldson pensò che non c’erano sistemi da trovare ma debiti da saldare, e che l’argomento finiva lì. Ma Laura le fece un tè e Andy si offrì di cambiarle il sacchetto dell’aspirapolvere, quindi lo scoglio fu momentaneamente superato. 
Nella lezione successiva Mrs Donaldson doveva inscenare un’ulcera duodenale. Non aveva nemmeno bisogno di studiare, visto che suo marito ne aveva sempre sofferto. Era preparatissima; conosceva alla perfezione tutti i sintomi, la localizzazione del dolore, le cause della malattia. A lezione l’ulcera sarebbe dipesa dallo stress del suo lavoro: segretaria di un noto imprenditore. Da che cosa fosse dipesa quella di suo marito, invece, non lo sapeva. Forse proprio da lei? A volte se lo chiedeva. Cyril però non le aveva mai detto niente del genere. 
Gli studenti erano i novellini del terzo anno: per arrivare a una diagnosi si accanirono sul suo diaframma con tanta furia e incompetenza che, quando trovarono il punto critico, il suo grido di dolore non ebbe niente di simulato. Quanto al professor Ballantyne, in circostanze normali difendeva a spada tratta i pazienti dallo zelo degli allievi, se non altro per sfoggiare il suo sarcasmo. ?Il paziente ha difficolt? a deglutire, Horrocks? Non ne dubito, visto che gli ha appena infilato un pugno in gola?. Ma quel giorno l?atmosfera era completamente diversa, perch? era comparso sulla scena un nuovo strumento dell?armamentario medico: la videocamera con cui filmare la visita. 
Ballantyne volle a tutti i costi impugnarla di persona. «È uno strumento terapeutico» spiegò. 
«Nelle mie mani è come il bisturi nelle mani di un chirurgo: bisogna sapere dove mirare». Mrs Donaldson, che pure era il soggetto preferito di Ballantyne, la giudicava un giocattolo, più che un ferro del mestiere. Anche suo marito era caduto vittima di certi effimeri gadget tecnologici, e li aveva custoditi con pari gelosia. Per esempio non le aveva mai lasciato toccare il tagliaerba, e men che meno il lettore CD, per non parlare del coltello elettrico: tutti aggeggi che la morte di Cyril aveva invece offerto al suo utilizzo indiscriminato. Una delle molte gioie della vedovanza era non dover più recitare la parte della mogliettina incapace. 
Ma Mrs Donaldson accolse con scetticismo l’idea stessa di filmare. A suo modo di vedere le riprese spingevano i pazienti simulati a esibirsi in modo teatrale, dando il peggio di sé.    Delia concordò. «Come fai a essere naturale con quell’affare puntato in faccia?». 
Terry, per esempio, quel pomeriggio era un malato terminale di cancro. Tutte le volte che si sentiva inquadrato abbassava lo sguardo e contemplava il vuoto davanti a sé, come arrovellandosi sul proprio tragico futuro e su ciò che poteva attenderlo dopo la morte. 
Invece Miss Beckinsale, che amava recitare a tinte forti, non si lasciò impressionare. Come fece notare a Mrs Donaldson, lei era abituata alle luci della ribalta. Una sua rappresentazione della demenza senile aveva riscosso tanto successo che le avevano chiesto di riproporla davanti a una ?cinepresa vera? a Glasgow, per poi proiettare il filmino a un congresso sull?Isola di Man. 
Alla fine lo scetticismo di Mrs Donaldson si rivelò giustificato. Il giovedì seguente, quando fu colpita dal morbo di Crohn, il nuovo strumento aveva già perso le sue attrattive e non veniva più trattato come l’arma numero uno nella guerra contro la malattia. A onor del vero, non è che Ballantyne si fosse già stancato della novità; anzi, teneva in grande considerazione il suo piccolo cast di attori. Erano pur sempre dei pionieri, a modo loro. Eppure il materiale non era convincente; l’aveva deluso. Era troppo lungo, piatto, informe. Se dal vivo le visite gli erano parse realistiche e naturali, in video le aveva trovate artificiose. 
Per certi aspetti poteva dipendere dai finti pazienti, ancora inesperti davanti all’obiettivo. Tutto sommato, però, sarebbe bastato un buon montaggio. Nessuno si prese la briga di farlo notare a Ballantyne, che finì per abbandonare l’esperimento e, non potendo spiegare agli allievi il perché, confermò senza volerlo l’infausto presentimento iniziale di Mrs Donaldson. 
Lei almeno aveva fatto bella figura nel filmino, pensava il professore. Certo, sapeva di guardarla con occhio più magnanimo rispetto agli altri simulatori; a dire la verità, un po’ la temeva anche. Se Mrs Donaldson se ne fosse accorta, sarebbe stata meno severa con lui. Invece lei e Delia videro solo che il giocattolo della settimana prima trascorreva gran parte della lezione bloccato sul treppiede, da cui sorvegliava gli avvenimenti col suo occhio da ciclope. 
«E poi dicono che non hanno fondi» commentò Delia. 
A casa il problema dell’affitto non era stato ancora risolto; ormai i ragazzi erano indietro di quattro settimane. Con Cyril non l’avrebbero passata liscia, pensò Mrs Donaldson, ma del resto lui non avrebbe mai voluto degli inquilini. Quel suo risentimento la faceva sentire una vecchia rompiscatole, una guastafeste; decise comunque di risollevare l’argomento. 
Non vedendoli da parecchi giorni credeva che volessero evitarla, ma una sera, di ritorno dall’ospedale, li trovò tutti e due in cucina come se la stessero aspettando. 
Andy le preparò il tè. (Erano quelle le loro buone qualità, rifletté, pur sapendo che Gwen le avrebbe dato dell’ingenua). 
«Allora, oggi cos’aveva?» disse Laura. 
«Un’altra ulcera duodenale delle solite, ma Uno a Caso ha ipotizzato che potesse essere un’ernia iatale. C’era del bruciore di stomaco, comunque». 
«Stress?» continuò Laura. 
«Probabile» rispose Mrs Donaldson. «Anche se le ultime ricerche dicono che potrebbe avere un’origine batterica». 
«Giusto. Dovrei saperlo. Senta... volevamo parlarle dei soldi». 
«Le dobbiamo quattro settimane d’affitto» intervenne Andy. 
«Davvero?» fece Mrs Donaldson. «Sicuro?». Finse di contare. «Ah, sì. Sono proprio quattro».   «Per ora gliene possiamo pagare una sola» riprese Andy, e mise sul tavolo una busta. «Siccome di più non ce la facciamo proprio, ci chiedevamo se per il resto potevamo metterci d’accordo. Se potevamo fare qualcosa...» ed esaminò l’interno della sua tazza «di sostitutivo». 
«Lei fa moltissime cose per noi» continuò Laura. «Magari possiamo fare qualcosa in cambio». 
«Una cosa... sostitutiva» insistette Andy. 
I pensieri di Mrs Donaldson corsero alle pulizie domestiche, al giardino e alle varie migliorie: tutti lavori che sapeva sbrigare benissimo da sé e che sicuramente non valevano tre settimane d’affitto.    «Ieri sera a letto abbiamo discusso un po’,» spiegò Laura «e mi è venuta un’idea, pensando alle sue dimostrazioni in ospedale. Ci siamo chiesti se le piacerebbe che...». 
«Che le facessimo una dimostrazione» disse Andy. «Sostitutiva». 
Mrs Donaldson non capì al volo. 
«Una dimostrazione di che cosa?». 
Andy prese la sua agenda. 


«Questa era la nostra camera da letto quando c’era ancora mio marito» aveva detto Mrs Donaldson. 
«Molto carina» aveva commentato Laura. 
Era passata qualche sera da allora. Mrs Donaldson aveva appena tirato le tende con la stessa cura che ci avrebbe messo sua madre tanti anni prima, quando c’era l’oscuramento. Certo, ora il motivo era diverso. 
Per lei passare dall’idea del lavoretto occasionale all’alternativa «per soli adulti» non era stato facile. Da una parte, non era ansiosa di arrivare al dunque; dall’altra, non voleva scoraggiare quei due ragazzi così premurosi. 
«Ha mai visto due che fanno l’amore?» si informò Laura. 
Mrs Donaldson finse di pensarci su. «Be’, veramente... non mi sembra». 
«Meno male. Temevamo che non fosse una grande novità». 
«Oh, anzi. Lo è eccome» la rassicurò Mrs Donaldson. Intanto però si chiese se, potendo scegliere, non avrebbe magari preferito una scatola di cioccolatini. «Non mi è mai successo nulla del genere».   «Nemmeno a noi. Ovvio, l’abbiamo già fatto mentre c’era altra gente nei paraggi, tipo alle feste, ma mai così, programmandolo in anticipo. Mai... come dire...». 
«Ufficialmente?» suggerì Mrs Donaldson. 
«Ufficialmente, sì». 
«Ma non sarà niente di ufficiale» intervenne Andy, che si presentò in camicia e mutande, con una bottiglia d’acqua. «Sarà una cosa molto rilassata. Però non si aspetti roba strana. Sarà bello, sano, niente di... esotico. Non è il nostro genere. Vero, Laura? O almeno, non ancora». 
«Io» replicò Laura «direi che per le stranezze abbiamo tutta la vita davanti. Lei cosa ne pensa, Mrs Donaldson?». 
«Certo, certo» concordò Mrs Donaldson. «Ogni cosa a suo tempo». 
«Ora... candele» fece Andy, e se ne andò. 
«Dove vuole sedersi?» chiese Laura. 
«Oh, è uguale». Fin lì Mrs Donaldson si era ripetuta che sarebbe pur arrivato il momento di farsi coraggio e dire basta. «Posso mettermi qui, se siete d’accordo». 
Si sedette su una sedia ai piedi del letto. 
«Se va bene a lei, non c’è problema» disse Laura. Tutt’a un tratto era rimasta senza maglietta né reggiseno. Mrs Donaldson prese a frugare nella borsetta alla ricerca di un fazzoletto. 
«Però, vede,» riprese Laura «lo svantaggio è che da lì vedrà solo il sedere di Andy e poco altro. A mio avviso sarebbe meglio qui». Posò la mano sullo sgabello foderato di chintz davanti al tavolino da trucco: quello su cui Mrs Donaldson si sedeva tutte le sere per mettersi la crema da notte, quando c?era ancora suo marito. 
«Da quella posizione può vedere sia me sia lui mentre... interagiamo». 
Dopodiché Laura si chiuse in bagno e la piantò lì seduta accanto al letto. Allora Mrs Donaldson percepì fin quasi a udirlo quel batticuore lento e profondo che ormai era soltanto un lontanissimo ricordo di gioventù. È la vita, pensò. 
Andy tornò con tre candele, che accese e sistemò in giro per la stanza. Una, osservò lei, l’aveva messa dentro un vaso che faceva parte dei regali di nozze, ma evitò di commentare. Andy spense la luce.   «Così va meglio». 
Si tolse la camicia ma non le mutande e si distese sul letto con le mani intrecciate dietro la testa.   «Siete veramente gentili» osservò Mrs Donaldson, chiedendosi se prima avrebbero almeno scostato il copriletto. 
«Tranquilla» disse Andy. «L’avremmo fatto lo stesso, non ci stiamo sforzando». Poi si guardò la pancia piatta e snella, fino agli slip striminziti. «Niente di che al momento, mi sa. Non è un problema, anche se ultimamente mi succede spesso. Devo aspettare che il leone veda la gazzella». 
Rientrò Laura, sempre senza reggiseno ma adesso anche senza mutandine. Nuda, cioè. Mrs Donaldson si soffiò il naso. Laura si distese sul letto dal lato più vicino a lei. 
Andy sollevò il bacino e si sfilò gli slip. «Che meraviglia» disse. «Ecco. Visto cosa intendevo?». 
Mrs Donaldson fece un sorriso per accogliere degnamente il nuovo protagonista sulla scena.    La mano sinistra di Laura era delicatamente appoggiata sulla coscia destra di Andy. ?Di solito giochiamo un po?, per iniziare? annunci? lui. 
«Ah, sì» disse Mrs Donaldson con aria competente. «I preliminari». 
Istintivamente distolse lo sguardo, e anziché contemplare il giovane nudo che baciava la sua ragazza altrettanto nuda e la accarezzava tra le gambe, si ritrovò a fissare la moquette, domandandosi se era ora di farla pulire. 
«Le ricorda qualcosa?» disse Laura. Adesso tra le sue gambe c’era la faccia di Andy. 
«S-sì» rispose Mrs Donaldson, anche se in effetti le era tornato in mente un vaso che aveva visto una volta al British Museum. Tanto ormai Laura non stava più ascoltando. Il suo corpo si sollevava staccandosi dalla testa insistente di Andy. E poi, altre cose che Andy stava facendo non c’erano nemmeno al British Museum: Mrs Donaldson si ritrovò a sporgersi di lato per cercare di capirci qualcosa.   Andy aveva la faccia quasi completamente nascosta fra le gambe di Laura, ma con l’occhio libero notò l’interesse di Mrs Donaldson e da buon cavaliere le volle offrire una visuale più completa. Perciò spostò la testa appoggiandola alla coscia della sua ragazza, che grazie all’inattesa démarche e alla diversa angolazione eruppe in una serie di gemiti acuti e ritmici, associati a violenti sussulti. Andy, senza interrompersi, fece a Mrs Donaldson il gesto del pollice alzato, dopodiché si sollevò sulle braccia e si imbarcò nel rapporto sessuale vero e proprio, provocando con la sua irruzione a sorpresa gemiti ancor più animaleschi. 
Mrs Donaldson aveva una relativa familiarità con l’amplesso standard; il problema era che in quel frangente veniva consumato con ben più vigore e fantasia di quanto lei avesse mai sperimentato. La procedura di base non cambiava, almeno quella era materia nota; ci? nonostante, non le sembrava che Cyril l?avesse mai fatto con tutta quella soddisfazione, con quel trasporto, nemmeno nei primissimi tempi. Per di pi?, mentre Andy si lasciava andare a vocalizzi di incoraggiamento ed espressioni di piacere, per suo marito fare l?amore (sempre che la definizione fosse calzante) voleva dire espressione seriosa e labbra serrate. 
E invece è quello che si fa normalmente, pensò Mrs Donaldson. Ma normalmente la gente non faceva come lei. La gente non si sedeva su uno sgabello di fianco a un letto a guardare due amanti; si sentiva un po’ come un arbitro di tennis impegnato a dirigere un match particolarmente ravvicinato.   Per lei fu una rivelazione, ma ci furono anche alcuni momenti più prosaici. A un certo punto, con Laura supina, Andy sopra di lei, entrambi impegnati nell’ululare quasi all’unisono, il cellulare di Laura si mise a suonare. 
Le grida cessarono, ma senza perdere il ritmo Laura allungò una mano e rispose: «Scusa, ora non posso». I gemiti ricominciarono. 
Con sorpresa di Mrs Donaldson, lo stimolo dell’estasi le venne presto a noia. Ammirò invece la flessibilità della schiena del ragazzo, che si tuffava su e giù come un delfino fra le onde della passione. E l’agilità di entrambi. Adesso, per esempio, Laura gli aveva messo le gambe sulle spalle, senza soluzione di continuità. 
E mentre assisteva allo spettacolo pensò che poteva essere la loro madre (di lui o di lei, non importava): una madre chiamata a testimoniare la maturità della sua prole; una madre indulgente e disposta al perdono (ma cosa c’era poi da perdonare?). Certo che assistere a quell’amplesso così creativo difficilmente poteva rientrare nei doveri ufficiali di un genitore. 
E il discorso dei soldi, poi. Era stato tutto così spontaneo che Mrs Donaldson si domandò se era lei la prima, o se altri creditori erano già stati pagati con la stessa, bollente moneta. 
Carponi di traverso sul letto, Laura si ritrovò con la faccia a poca distanza dalla sua. Si scambiarono un sorriso. «Eh, gli uomini» disse la ragazza con aria d’intesa, mentre Andy spingeva e ansimava dietro di lei. Mrs Donaldson sorrise ancora, comprensiva. E non capì se Andy si fosse accorto di quello scambio e si fosse arrabbiato, perché diventò subito più rude: agguantò Laura per i capelli e la spostò di peso verso la testiera del letto, poi vi si aggrappò col risultato di farla cozzare ritmicamente contro la parete. Allo stesso tempo si mise a gridare forte, e Laura pure, in un crescendo di urla stridule, ascendenti, cariche di aspettativa. 
L’amplesso dei Donaldson era quasi interamente muto, e certo non vandalico. Un grugnito di Cyril significava che lui comunque era arrivato in fondo ed era soddisfatto così. Nelle poche notti (perché avveniva sempre la notte) in cui a Mrs Donaldson era sfuggito un grido, Mr Donaldson aveva dovuto interrompersi perché gli faceva perdere la concentrazione, diceva. La verità era che si vergognava di sua moglie. 
Oggi probabilmente qualcuno avrebbe consigliato loro di «parlarne», ma considerando i freni che a volte bloccano una coppia, nel loro caso una simile apertura era impensabile. 
Fra quei due ragazzi invece non c’era un briciolo d’imbarazzo. Continuavano a gemere e urlare, sempre in dirittura d’arrivo, bisognosi di una spinta conclusiva per tagliare il traguardo. Fu Mrs Donaldson a dargliela, anche se non lo fece apposta: preoccupata per le sorti di un abat-jour, altro dono di nozze, tenne ferma la testiera con una mano, concedendo così a Andy l?appoggio stabile che gli serviva per il suo reboante epilogo. Laura impieg? pi? di lui a calmarsi; gemeva ancora quando Andy si distric? e le si distese vicino. Rimasero cos?, fianco a fianco, ansimanti e stremati. 
A scambio concluso, i Donaldson si ritiravano ciascuno sul proprio lato del letto e crollavano tra le braccia di Morfeo. Niente dibattiti. Neanche un commentino. Il discorso era chiuso fino alla volta successiva. 
Per quei due ragazzi fu il contrario. Se l’orgasmo è una piccola morte, loro condussero un’accuratissima autopsia allo scopo di definire i rispettivi quozienti di gratificazione e piacere. 
Andy cinse col braccio Laura. «Adesso ci vorrebbe proprio una bella tazza di tè». 
Lieta di poter partecipare per quel minimo, Mrs Donaldson scese in cucina e, siccome per lei quella era una sorta di occasione speciale, mise una bella tovaglietta sul vassoio, usò il servizio buono anziché le tazzone e inaugurò un nuovo pacchetto di biscotti. Da un certo punto di vista fu tutta fatica sprecata, perché, quando si ripresentò in camera, ormai i due stavano facendo il bis, anche se stavolta senza preliminari né sottigliezze, col ragazzo che martellava convinto e la ragazza supina a occhi chiusi.    Mrs Donaldson bevve il tè e mangiò un biscotto ricoperto di cioccolato. Prima del secondo ed esplosivo finale ne mangiò tre in tutto. Il tè dei ragazzi diventò freddo. 
«Spero di non avervi sciupato il divertimento» disse infine a Andy, che si infilava i jeans. 
«No, assolutamente» ribatté lui, e le diede un buffetto sul didietro. «Anzi». 
Nei giorni successivi Mrs Donaldson meditò a non finire sull’episodio e stabilì che, nella sua vita, guardare Andy e Laura mentre facevano l?amore era stato l?atto pi? simile a una grande impresa. Certo, non si era trattato di un?iniziativa autonoma. Lei aveva solo acconsentito e forse, pens?, acconsentire non era poi cos? fenomenale. Il matrimonio, per esempio, quello s? che veniva ritenuto una grande impresa; ma anche l? era stata questione di acconsentire, tanto che ormai non lo giudicava una cosa pi? straordinaria che aprire l?ombrello sotto la pioggia. 
A certe persone le grandi imprese riescono più naturali, rifletté. Anzi, per qualcuno sono facili come bere un bicchier d’acqua. Doveva osare di più. 
Non avendo mai avuto segreti importanti e soprattutto così intimi, si stupì del fortissimo bisogno di rivelare quello, o se non altro di rivelare che aveva un segreto da rivelare. Moriva dalla voglia di spifferare a Delia tutti gli sviluppi della situazione, ma allo stesso tempo sapeva bene di non doverne fare parola. Quanto ai ragazzi, era abbastanza sensata da capire che non avrebbero mai detto nulla in giro: la presenza di un’osservatrice così matura e rispettabile non era abbastanza eccitante per potersene vantare. Comunque il suo segreto la mise di buonumore; la protesse dalle piccole seccature del lavoro in ospedale, dalle attenzioni indebite di Ballantyne, dalle prepotenze di sua figlia. E anche se le aveva dato un bello scossone, quella serata finì per rappresentare una sorta di rifugio, un porto sicuro e nascosto, un luogo tutto suo. 
«Com’è che ti vedo così felice?» osservò Delia in mensa. «Non mi dire che i tuoi inquilini ti hanno pagato l’affitto». 
«Eh sì: l’hanno pagato» fece Mrs Donaldson. «Ora siamo in pari». 
«E quindi ti sei presa questo bel vestito». 
«Questo? No... ce l’ho da secoli. Volevo solo fargli fare un giro». 
«E i capelli? E vogliamo parlare del rossetto? Jane, secondo me hai svoltato». 
«Ma no, no. Non hai capito. È per il lavoro. Sono un travestito». 
Dietro la scrivania c’era Parfitt, uno spilungone biondiccio. Mrs Donaldson bussò alla porta. 
«Avanti». 
«Sarebbe il caso di alzarsi in piedi» intervenne Ballantyne dal fondo della saletta. «Come dei veri gentiluomini. E i medici lo sono. O almeno lo erano, un tempo». 
Parfitt fece accomodare Mrs Donaldson, che si abbatté sulla sedia a gambe divaricate e braccia conserte. Si soffiò il naso dentro un fazzolettone sudicio, poi disse di chiamarsi Dewhirst.   «E di nome?» continuò Parfitt, penna alla mano. 
«Geoffrey». 
«Geoffrey?». 
«Sì. Geoffrey con la G». 
Sgomento, Parfitt cercò lo sguardo dei compagni nella speranza che qualcuno lo aiutasse. 
Nessuno lo aiutò. 
«Stiamo aspettando» disse Ballantyne. «Il paziente non ha la giornata intera a disposizione».    Parfitt consultò il modulo. «E si è sempre chiamata Geoffrey?». 
«Sì, perché?». 
«Non è un nome da donna». 
«Io non sono una donna». 
A Parfitt sembrò di aver trovato un appiglio. «Ah. Lei sembra in tutto e per tutto una donna». 
«Grazie». 
«Non l’avrei mai detto». Adesso era cortese e professionale.   «È un problema?». 
«Per me no. È solo che...». Parfitt si premette i palmi delle mani. «Sono cose che devo chiedere, all’inizio del nostro rapporto». 
Qualcuno fischiò ma Ballantyne intimò il silenzio con un’occhiataccia. 
«Posso farle una domanda?». 
«Prego. Il dottore è lei». 
«Lei ha modificato il suo aspetto fisico. Ha fatto tutta questa fatica. Come mai non si è cambiata anche il nome?». 
«E perché? Non sono mica una donna. Sono un uomo». 
«Ma allora interventi non ne ha mai fatti?». 
«Be’, sì». 
«Quali?». 
«L’appendicite». 
«Intendevo per il suo problema». 
«Non è un problema». 
«Naturalmente. Quindi lei non è qui per questo?». 
«No. Sono qui per il ginocchio». 
«Ah... il ginocchio!» gongolò Parfitt, che sulle ginocchia sapeva tutto. Mai nessun ginocchio fu accolto con altrettanto giubilo. 
«È il destro o il sinistro? Vediamo un momento». 
«Lasci perdere» disse Ballantyne. «Non è quello il punto». 
Viste le circostanze, il professore fu clemente: «L’abbiamo presa larga, ma siamo finalmente arrivati al nocciolo della questione». 
«Avrei dovuto capirlo» disse Parfitt in tono lamentoso. «È che proprio non sembra un uomo!».   «Be’, in realtà non sappiamo con certezza se sia un uomo o una donna. Ci tocca stare alle sue dichiarazioni». 
Parfitt non aveva ancora capito. «Quindi avrei dovuto controllare?». 
«No» rispose Ballantyne, in vena di mitezza. Venne avanti e si sedette in prima fila.«Avrebbe dovuto controllare il ginocchio. Mettetevelo in testa: oggi l’identità sessuale è aleatoria. Il paziente è un travestito, un transessuale magari in fase transitoria? A voi non interessa. Il suo abbigliamento e il suo aspetto non hanno nessuna importanza clinica. Magari» e qui sorrise a Mrs Donaldson «ha un cattivo odore. Magari il suo corpo puzza. Nemmeno questo vi deve importare. Se preferite i corpi che non puzzano scegliete la chirurgia, dove la gente la lavano prima». 
Si sedette sul bordo della scrivania, fra Parfitt e la sedicente Geoffrey Dewhirst, che si chiedeva se Ballantyne non stesse facendo quel numero anche per lei. 
«Stampatevelo in testa: voi siete medici. Non poliziotti. Non preti. Le persone le dovete prendere 
così come arrivano. E anche se conoscete la malattia meglio del paziente, il paziente è il proprietario della malattia e questo, se non altro, gli dà una sua competenza. Voi possedete il sapere, ma ciò non vi autorizza a sentirvi superiori. La conoscenza fa di voi dei servitori, non dei padroni». 
Ballantyne rimase lì a dondolare le gambe, con un leggero imbarazzo. Quel sermone, pronunciato alla fine della giornata da un maestro sempre spassionato, per non dire cinico, fu per gli allievi una sorpresa e una fonte di ispirazione. Sentirsi definire medici rappresentò un bel passo avanti, un invito ad apprezzarsi più di quanto il professore in genere consentisse loro. Ad alcuni rammentò che quello non era un lavoro come gli altri, bensì una vocazione. 
Parfitt non era tra quelli. 
«Ma il ginocchio... glielo devo guardare?». 
Ballantyne sospirò. «A mio parere è meglio di no, a meno che non voglia sdraiarcisi sopra e prendere una bella sculacciata dal signore, o signora. Grazie, Mrs Donaldson. Un?altra performance da Oscar?. 
«A te ti danno tutti i personaggi più sfiziosi» disse Delia. «Questo avrei potuto farlo benissimo anch’io, e invece mi becco sempre la depressione endogena. Sfido io!». 


Ora che i suoi pensieri non erano mai lontani dalla sessione in camera da letto, Mrs Donaldson si chiese se la sua nuova audacia (per quanto audacia nell’acconsentire) le fosse stata ispirata dal suo lavoro, che le insegnava a fingere di essere un’altra. Altrimenti forse non avrebbe accettato quella che in fin dei conti era una proposta indecente. In effetti la tentazione di lasciar perdere l’aveva avuta, perché «non era quel tipo di persona». Ma allora, che tipo di persona era? Ormai non ne aveva più idea.    Ripensandoci si rese conto che, pur con tutti i loro limiti, le simulazioni erano state una sorta di prova, un allenamento, un’iniziazione alla spontaneità. Però la sua spontaneità era artificiale, quindi non era spontanea per niente. Infatti, questo lo ammetteva, lei recitava sia a casa sia al lavoro. Imparava a fingere. E pensare che prima, quando c’era ancora suo marito, il suo massimo grado di finzione era la cortesia. Finora per lei fingere non era mai stato, come si dice adesso, «proattivo». 
Dopo essersi mostrati senza riserve in intimità, ovviamente i ragazzi iniziarono a essere più rilassati anche in giro per casa, Andy in particolare. Spesso era a torso nudo e qualche volta senza i jeans, mentre Laura si copriva un po’ di più. Ma le inibizioni erano crollate, e a Mrs Donaldson non dispiaceva: le dava un senso di famiglia, anche se era un tipo di famiglia che lei non aveva mai avuto. Un giorno per? Gwen le fece un?improvvisata e si imbatt? in Andy, che si stava facendo un panino in cucina e siccome aveva appena lasciato Laura a letto indossava un paio di slip e nulla pi?. 
«Non sapevo dove guardare» disse Gwen a sua madre. «E lui, invece, avanti come se niente fosse. S’è fatto il suo panino con la marmellata, mi ha detto: “Ciao” e se n’è andato di sopra. Fa così anche la ragazza? Va in giro mezza nuda? Lui aveva un paio di slippini microscopici. Credevo che fossero passati di moda. Justin per esempio non li mette più, è tornato ai boxer». 
A Mrs Donaldson venne in mente che Justin era bruttocchio come la consuocera, e preferì non indugiare su quel pensiero. 
«Be’, in fondo sono a casa loro» disse invece a titolo di giustificazione. 
«Errore, errore» fece Gwen. «È casa tua e loro sono due pigionanti. Tutta colpa dell’ospedale. Da quando fai quel lavoro sei diventata veramente... lassista». 
«Lassista?». 
«Chissà cosa direbbe papà. Eri così timida, una volta». 
«Va bene, ma almeno non tengono la musica alta. Quello sì sarebbe un buon motivo per lamentarsi». 
«Invece sarebbe il caso di chiarire che in camera loro possono fare quello che vogliono, mentre in giro per casa devono stare vestiti». 
«Cioè un regolamento? Ma ci vivono, qui». 
«Anche tu». 
«E poi mi fanno compagnia». 
«Che compagnia ti fanno? Hanno diciott’anni!». In realtà ne avevano venti, ma Mrs Donaldson ritenne superfluo specificarlo. 
Al di là di quel rilassamento dei costumi, il resto andava più o meno come al solito. Era una libertà a senso unico, in realt?, perch? Laura poteva girare per casa mezza nuda, mentre Mrs Donaldson no. Capiva d?intuito che per quanto la riguardava le apparenze andavano rigorosamente mantenute; doveva comportarsi come una donna della sua et?. 
Da quando collaborava con la clinica universitaria i giovani non la intimorivano più. A parte i suoi inquilini, non la incuriosivano più come prima. Alcuni erano interessanti, sì, ma quando brancolavano sul suo corpo alla ricerca di una diagnosi erano troppo fragili per sembrare chissà cosa.    Nei momenti di minore vulnerabilità (per esempio quando non c’era Ballantyne) erano piuttosto simpatici e la trattavano, decise, non come la loro nonna ma come una persona «sveglia» (definizione sua) o come «la meglio» (definizione loro). Sempre con una certa sfumatura di superiorità, però. Lei era come la modella con cui la identificava Gwen: una figura materiale e immateriale, un supporto dove appendere i sintomi delle malattie. 


Il professor Ballantyne presentò il caso a Maloney. 
«Questa è Mrs Dickinson. È già stata qualche volta dal suo medico di famiglia per una dermatite ricorrente. Nelle scorse visite non si è riusciti a individuarne le cause; sono state prescritte le normali terapie, ma la dermatite continua a ripresentarsi. Il suo medico inizia a chiedersi se c’è un motivo psicologico, se la dermatite può essere il sintomo di un malessere più profondo. Tocca a lei scoprirlo».    Maloney assentì, la saggezza fatta persona. 
«Buona caccia». 
Il professor Ballantyne strinse con premura il braccio teoricamente pruriginoso ed essudato di Mrs Dickinson, poi rivolse a entrambi un ampio sorriso e se la svign? in un?altra saletta. 
«Dio, come odio ’ste menate mentali» esordì Maloney mettendo un piede sulla scrivania. «Non ci si capisce mai un accidente. Vuoi mettere un bel tumore». 
«Prego?» disse Mrs Dickinson. 
«E dai, su. ’Sta roba psicosomatica. Allora: le è venuta la dermatite. Magari sbaglia sapone; sbaglia detersivo; sbaglia alimentazione. C’è sempre una causa fisica. Solo che adesso c’è la mania della malattia psicosomatica». 
Maloney aspirava alla chirurgia; tutto il resto era una perdita di tempo. Se la dermatite avesse potuto essere tagliata via sul tavolo operatorio, l’avrebbe trovata interessante. 
«Allora: che storia è? Com’è che a ’sta qui le è venuta la dermatite?». 
«Come mi è venuta?» lo corresse la pseudopaziente, inflessibile. 
Maloney sospirò. ’Sta qui era una di quelle sfiancanti che ci tenevano alla messinscena.    «Non è un effetto collaterale della menopausa?». 
«Non sono in menopausa» disse Mrs Dickinson. 
«Ah. Quindi si dà ancora da fare in giro? Magari è quello». 
«Non mi do “da fare in giro”. Sono felicemente sposata». 
«Buon per lei. Evviva. Fuma?». 
«Non fumo. E comunque le sigarette non fanno venire la dermatite». 
«Lo so, lo so. Ma pensavo che potevamo andare un momento fuori a fumare». 
«Mi brucia» disse Mrs Dickinson. «Ho un prurito terribile, la schiena tutta scorticata». 
«Sì, sì» fece Maloney. «Senta: se lei mi dice la soluzione che ha l? scritta sulle istruzioni, ce la 
caviamo in fretta. Sar? anche un problema mentale, ma cosa cambia? Tanto si sa che dermatologia non la vuol fare nessuno?. 
«Ho un’idea migliore» ribatté Mrs Dickinson. «Ricominciamo da capo. Potrebbe chiedermi quando si è presentata la dermatite per la prima volta». 
«’Sta stronza m’ha fatto fare tutta la trafila» disse Maloney più tardi al pub. «Ma cosa gliene fregava? Non era lei la meglio?». 


Il giorno dell’affitto si avvicinava e Mrs Donaldson si era preparata al grande incontro. Se i ragazzi le avessero proposto di ripetere la performance si sarebbe mostrata riluttante, perché le servivano i soldi, e alla fine avrebbe acconsentito negli stessi termini dell’altra volta. Quando però giunse il fatidico venerdì la questione emerse solo prima di andare a dormire. Per puro caso lei si trovava in cucina, dove Andy stava preparando a Laura qualcosa di caldo. 
«Ah, prima di dimenticarmi» esordì Andy, e tirò fuori un po’ di banconote da venti. «Dovrebbero bastare». 
Mrs Donaldson non sapeva quanto denaro fosse di preciso e non voleva contarlo davanti a lui, quindi si limitò a riporlo nella borsetta con un sorriso. 
«Stiamo facendo progressi» aggiunse Andy. 
Lei attese qualche minuto, poi andò di sopra, si sedette sul letto e le parve di sentirli ridere.    Si preparò per la notte. Infilò la vestaglia, prese una sedia e, non per la prima volta, la spostò vicino al tavolino da trucco. Poi vi si sedette, con una coperta sulle spalle e un piumino sulle gambe, e premette l’orecchio contro la parete. 
Dall’altra parte della città, anche Ballantyne era sveglio. Rivedeva in continuazione il filmino che aveva girato mesi prima. Tutte le volte che appariva Mrs Donaldson fermava l’immagine e rimpiangeva di non avere la tecnologia o le conoscenze necessarie per zoomare. A volte lei guardava direttamente l’obiettivo, e allora gli sembrava che stesse guardando lui. Era pur sempre una soddisfazione. Ma per il resto la guardava e basta. 


La nuova avventura aveva dato a Mrs Donaldson una carica d’energia. Anche se non era stata chiamata alla ribalta, l’aver osservato quella scena (e quindi avervi in qualche modo partecipato) finì per significare che anche lei era attraente e sensuale come quei due ragazzi. Cominciò quindi a considerarsi più giovane. E più bella. E, pur sapendo quant’era assurdo, si sentì ancora parte del gioco. 
Ma non durò molto. 
Lei non era una donna vanitosa. Non si era mai ritenuta una Venere, ma allo stesso tempo riconosceva che forse era meglio adesso che in gioventù. Non era snella, semmai piuttosto robusta, ma aveva una bella pelle e capelli folti e ricci, che teneva sempre in ordine. Nessuno stupore (e infatti non si stupiva) se piaceva agli uomini della sua età. Forse anche alle donne; ma non poteva saperlo e non si sentiva portata a indagare. 
Ma aveva cinquantacinque anni: un’età in cui conviene abbassare le luci prima di spogliarsi e evitare i bagni delle camere d’albergo. 
Sì, la proposta dei ragazzi era nata da un bisogno economico, ma la sua presenza non li aveva infastiditi, e questo per lei era molto importante. Se avesse dovuto dare il suo contributo – una fantasia ardita che in quei giorni le si presentava sempre pi? spesso ? avrebbe considerato il lume di candela provvidenziale. Ma in fin dei conti l?episodio l?aveva rassicurata sul fatto che a cinquantacinque anni suonati non era proprio repellente. 
Con tutti i giovani che vedeva, mantenere viva quell’illusione divenne via via più difficile. Una volta, a lezione, disse di aver avuto palpitazioni e capogiri saltuari, perciò un allievo del terzo anno dovette sentirle il cuore. Slacciarsi la camicetta (non più di un paio di bottoni) le era sempre stato indifferente, a meno che non le fosse richiesto di comportarsi in altra maniera. Ma in quel caso l’allievo era un bel ragazzo, che gliela sbottonò con mano esperta. Mrs Donaldson lo guardò mentre auscultava. Anche lui guardò, e lei si accorse del suo fugacissimo ma evidente ribrezzo nel toccarle la pelle appassita del seno. 
L’allievo, che era un tipo intelligente, riuscì a trasformare subito l’espressione in un preoccupato corruccio. Ma non fu abbastanza svelto da ingannare Mrs Donaldson, che in quel momento smise di essere una paziente e tornò se stessa. E se normalmente avrebbe tratto un remoto e inconsapevole piacere dal contatto con quel ragazzo, adesso, guardando la pelle di pesca del suo orecchio lì a pochi centimetri dal suo viso, si sentì sporca e svilita. 
«Bene» disse Ballantyne. «Ora vediamo un po’: dov’è che Adams ha sbagliato?». 
Adams mise su un’aria derelitta e Mrs Donaldson si sentì avvampare. Ballantyne doveva aver captato quel momento di repulsione, e ora i suoi difetti fisici sarebbero divenuti materia di studio. 
«Allora? Cos’ha sbagliato nel visitare la paziente?». 
Gli studenti avanzarono varie ipotesi, ma furono tutte bocciate. 
Ballantyne sospirò. «Vede, Adams, io non ho dubbi che lei sappia slacciare i bottoni alle signore da grande esperto, ma la paziente dovrebbe farlo da s?. Sempre che non sia invalida, e Mrs Donaldson non lo ? nemmeno un po?. Caro ragazzo, non deve lanciarsi sulla preda in questo modo?. 
Il ragazzo annuì sconsolato. 
«Per il resto, tutto bene. Anche da una visita di routine come questa la signora è uscita con la sua dignità intatta. Grazie, Mrs Donaldson». 
«Adams è uno stronzetto presuntuoso» disse Delia in mensa. «Comunque ci tocca guardare in faccia la realtà: pian piano ci si incartapecorisce. Le mie vene varicose, per esempio, non è che facciano furore». 
«Credevo di esserci abituata» disse Mrs Donaldson. 
«Non ci si abitua mai». 
Un tempo, cioè prima del suo segreto, una situazione come quella l’avrebbe demoralizzata. Adesso invece la fece diventare una «peperina», come avrebbe detto Ballantyne, e riaccese la sua animosità verso i giovani. 


Prentice si accomodò alla scrivania. Mrs Donaldson bussò alla porta. 
«Avanti». 
Mrs Donaldson entrò, rimase in attesa e Prentice si alzò in piedi. «Mi chiamo Backhouse. Sto cercando mio marito. È caduto stamattina, l’hanno ricoverato per precauzione». 
Prentice fece un passo indietro e guardò il blocco degli appunti. 
«Io ho già capito che il marito è morto» annunciò Ballantyne. «O quasi. Chi sa dirmi da che cosa l’ho dedotto?». 
Spuntò una mano. «Quando è entrata, lui non l’ha guardata in faccia». 
«Esatto». 
«Ma quindi,» intervenne un altro allievo «avrebbe dovuto guardarla per forza? Non guardarla vuol dire prepararla a una brutta notizia?». 
«Dipende da come l’avrà interpretato Mrs Backhouse. Vediamo» rispose Ballantyne. 
«L’infermiera mi ha detto che mio marito non è qui». Mrs Backhouse osservò il ragazzo. 
«Dov’è?». 
«Un momento. La cerchiamo subito» disse Prentice. 
«L’infermiera non c’è» fece Ballantyne. «È al cinema con tutte le colleghe». 
«Prego, si accomodi» ricominciò Prentice. 
«Credevo che non ci sarebbe mai arrivato» commentò Ballantyne. 
«Mrs Blackhouse...». 
«Backhouse» lo corresse Mrs Donaldson. «Non Blackhouse». 
«Mrs Backhouse. Quando suo marito è caduto...». 
«La guardi in faccia» disse Ballantyne. «Non si nasconda negli appunti». 
«Quando suo marito è caduto... Lei sa come funziona il cervello?». 
«Mrs Backhouse non sa come funziona il cervello. Vuole sapere di suo marito, invece». 
«In realtà un pochino ne so» rispose Mrs Backhouse. «Ho fatto la volontaria sulle ambulanze».    «Come non detto» fece Ballantyne. 
«Ha avuto un ictus?». 
«Non esattamente,» chiarì Prentice «anche se c’è stata un’emorragia». 
«Lo so. L’ho visto, il sangue. È per quello che ho chiamato l’ambulanza».   «L’abbiamo portato in rianimazione ma è entrato in coma...». 
«È morto?». 
Prentice guardò Ballantyne: «Ecco, qui ci vorrebbe proprio l’infermiera». 
«Non è ancora tornata. Ora son tutte a far merenda. Lei è solo».    «Posso offrirle un tè?». 
«Lasci perdere il tè. Non le ha ancora detto che il maritino è scomparso». 
«Mi dispiace, signora, ma è morto. Le va un tè?». 
Ballantyne gemette. «Tè non ne abbiamo. È mancata la corrente. La mensa è chiusa. Non scappi! 
Il tè, l’infermiera, gli appunti... perché fugge da questa donna? Deve occuparsi di lei». 
«Se ha bisogno di chiamare qualcuno può usare il mio cellulare» disse Prentice. 
«La signora ha già il suo» obiettò Ballantyne. 
«Siete sposati da molto?» ricominciò Prentice. 
«Una piccola precisazione: visto che lui è morto, si dovrebbe dire "eravate sposati da molto”». 
Gli altri ridacchiarono. 
Prentice prese la mano di Mrs Backhouse e uno studente sghignazzò. «Non capisco il senso di queste risate» disse Ballantyne. «E perché voi due caproni vi date di gomito?». Uno studente in ultima fila scosse la testa e si sforzò di tornare serio. 
«Prentice, vada avanti». 
«Pensavo di tenerle la mano e basta. Lasciare che dica qualcosa lei, no? Solo che...».   «Solo che...?». 
«Se fosse un uomo non potrei tenergli la mano». 
«Allora meglio una pacca sulla spalla? Certo, voi siete la generazione dei toccaccioni, ma niente smancerie, per favore. Dovete solo capire la situazione. Siete esseri umani o no? La maggior parte di voi, almeno. Quando si deve consolare una persona non c’è il manuale da seguire». 
Fu così che Prentice rimase lì per un po’ a tenere la mano di Mrs Backhouse.    «Era un bastardo» disse infine lei. 
«Mi scusi?» fece Prentice. 
«Mio marito. Un maiale». 
Giubilo in sala. 
«Lei è sconvolta» disse Prentice. 
«Oh, no. Sono vedova, ma non sconvolta». 
«Ci vorrà del tempo». 
«Ma no, l’ho già digerita. Fine di venticinque anni di matrimonio. È morto». 
Visto che il suo conforto non era più necessario, Prentice le lasciò la mano. 
«Non posso aiutarla, Prentice» disse Ballantyne. «Se la deve vedere lei». 
«Ha figli?» si informò Prentice. 
«Una figlia. Dovrò dirglielo». 
«Non voglio immaginare come rimarrà». 
«Eh, già: niente più soldini, niente più pranzetti con papà. Le si spezzerà il cuore».   «Sono certo che sarete forti». 
Prentice si alzò per concludere l’incontro, che aveva preso una piega piuttosto ripugnante, e strinse la mano a Mrs Backhouse con atteggiamento partecipe (non richiesto). «Se rimane qui un momento, le faranno compilare dei moduli» disse. Poi, prima di andarsene, aggiunse: «Volevo chiederle... È solo una formalità, ma cosa stava facendo suo marito quand’è caduto?».    Mrs Backhouse lo osservò. «Ma niente...». 
«È scivolato?». 
«Non lo so. Ero di sopra. Ho sentito un rumore, sono scesa e l’ho visto lì per terra». 
«I soccorritori hanno detto che secondo loro era caduto da uno sgabello». 
«Voleva arrivare in cima allo scaffale. Ci nascondeva una delle sue bottiglie». 
«Bene» concluse Prentice con improvvisa padronanza. «Sarà disposta l’autopsia. La polizia chiarirà come si sono svolti i fatti». 
«La polizia?» ripeté Mrs Backhouse. «Perché? Se il novanta per cento degli incidenti mortali avviene dentro casa...». 
«Infatti». 
Mrs Backhouse si rimise a sedere. «Io ero di sopra. Non c’entro niente».    Prentice non replicò. 
«Posso avere quel tè?» disse Mrs Backhouse. 
La performance si concluse. Partì un timido, insolito applauso. Applaudì a piene mani perfino Ballantyne. «Molto bene, Prentice, e molto avvincente, Mrs Donaldson. Non so se questa lezione ci abbia insegnato a dare una brutta notizia o a rincuorare chi ha appena perso una persona cara, ma almeno ci ha ricordato che non sempre la morte suscita dolore. La consolazione deve essere offerta, ma non è necessariamente ben accolta; anzi, qualche volta può essere considerata invadente. I parenti conoscono il defunto mentre il medico no: non è detto che spetti al medico fare le condoglianze. Ovviamente son sempre frasi di circostanza, e chi soffre veramente può trovarle fuori luogo: un’ipocrisia, se non c’è dolore vero. Ognuno è fatto a modo suo. Io credo» e guardò l’orologio «che la vera lezione di oggi sia questa». 
Gli studenti uscirono. Alcuni sorrisero a Mrs Donaldson. 
«I ragazzi la trovano simpatica. Lei è una che piace» le disse Ballantyne. Avrebbe voluto aggiungere: «Anche a me», ma evitò. «Sempre piena di sorprese, poi. Ormai è quasi un suo marchio di fabbrica. Io cerco di insegnare a fingere compassione e lei insegna dell?altro?. 
«Per esempio?». 
«A essere onesti? No... che parolona. A essere franchi, forse. Una cosa che non c’entra coi sentimenti, comunque». 
E si allontanò, scrollando tristemente il capo. 
La verità era che Mrs Donaldson non aveva riflettuto tanto mentre recitava. Non era dell’umore adatto per giocare alla vedova affranta né per ispirarsi, anche vagamente, alla morte di Cyril. In quell’occasione Gwen aveva fatto grande mostra di dolore mentre il suo era stato un po’ superficiale e perfino sbrigativo; forse il retroscena della glaciale reazione di Mrs Backhouse poteva essere cercato proprio lì. Lei però non aveva mai odiato suo marito; lo trovava solo noioso. Una bottiglia in cima allo scaffale, per esempio, avrebbe potuto renderlo più interessante. 
E poi Delia le aveva detto che aveva l’aria stanca (ovvio, dato che invece di dormire origliava alla parete della camera da letto). Prendendosi gioco delle goffe manifestazioni di solidarietà di Prentice, aveva dimostrato che Delia si sbagliava. Senza contare che gli studenti non se l’aspettavano, anzi, doveva essere per questo che si erano messi a ridere. La vera sorpresa però era stata la bravura di Ballantyne: aveva distillato una sorta di lezione morale da una quisquilia. Certo non era un Adone, ma poteva essere un buon insegnante, e a Mrs Donaldson rincrebbe non poterglielo dire senza complicazioni («Vogliamo pranzare insieme?»). 


E venne il giorno dell’affitto. Andy lo pagò con tanta fretta e puntualità da far credere di voler evitare anche solo l’idea di un bis. Delusa da un lato, dall’altro Mrs Donaldson accolse con piacere il denaro, e si rallegr? anche del proprio recuperato equilibrio. Vero: ogni notte faceva ancora la guardia accanto alla parete, ma allo stesso tempo sapeva che la sua partecipazione alle attivit? che ne trapelavano non era prevista. 
La settimana dopo Andy aveva gli esami. Una sera si mise in cucina a ripassare; Laura stirava e Mrs Donaldson approfittò di queste innocenti occupazioni per prepararsi alla parte del giorno dopo, prima del solito appostamento notturno. Era una situazione frustrante, ma non le dispiaceva avere una routine da seguire. 
Si svegliò di soprassalto, ritrovandosi infreddolita e quasi scivolata dalla sedia. Mezzanotte era passata da un pezzo. Solo quando si mise a letto capì che doveva essersi svegliata per il trambusto: sentì gridare sulle scale e a un tratto la sua porta si spalancò. La ragazza irruppe in camera e subito cercò di chiudersi dentro a chiave, ma poi udì i passi pesanti del ragazzo e corse terrorizzata dall’altra parte del letto. Stringendosi addosso una camicia di Andy, si accovacciò cercando di nascondersi. 
Mrs Donaldson si alzò, sgomenta. «Calmati» le disse. «Cos’è successo?». 
«Niente» singhiozzò Laura. «Mi sono messa la sua camicia». 
Andy piombò in camera con addosso solo i jeans e disse: «Vieni fuori, troia». 
«Questa è la mia stanza» obiettò debolmente Mrs Donaldson. «Possiamo parlare un momento?».   «Non parliamo proprio di un cazzo. Stia lì dov’è. Voglio che questa la veda. Tu vieni qui e girati. 
Forza». 
Andy salì sul letto dando un calcio al ginocchio debole di Mrs Donaldson; la ragazza si mise carponi piagnucolando. 
«Non c’è bisogno di fare così» disse Mrs Donaldson. 
«Cazzo se c’è bisogno. O no?» ribatté Andy, e tirò uno sculaccione alla ragazza, che si mise a gridare forte. 
«E fa’ silenzio». 
Laura gridò più forte ancora; Andy allungò una mano e le tappò la bocca. 
Mrs Donaldson pensò di cercare aiuto. Il suo primo impulso fu quello di correre in strada e bussare alla porta dei vicini, telefonare alla polizia. Trovare qualcuno, fermare qualcuno, il primo che passava, e dire: «Presto, stanno stuprando una ragazza!». 
Si avvicinò alla porta. 
«Dove va? Stia a guardare». 
La ragazza si mise a piangere e Mrs Donaldson si nascose il viso tra le mani. Quando trovò il coraggio di guardare di nuovo, vide che il ragazzo le era entrato dentro. Nel bel mezzo di tutto ciò, squillò il telefono di casa. Ecco la salvezza, pensò Mrs Donaldson, ma Andy, senza fermarsi, si allungò e strappò il filo. L’atto vandalico fece raddoppiare gli strilli di Laura, e Mrs Donaldson si chiese se lo stupro fosse solo l’inizio. 
Per fortuna la scena durò poco e terminò con le grida di Andy e le alte urla di dolore di Laura. 
Poi lui si distese supino sul letto, con la ragazza che piangeva lì accanto. 
Mrs Donaldson, tremante, si domandò quale fosse la cosa giusta da dire dopo essere stata testimone dell’aggressione. 
«Be’,» chiosò Andy intrecciando le mani dietro la testa «mi sa che con questa andiamo parecchio a credito». 
«Mi hai fatto male» disse Laura. 
«Tu hai fatto male a me: adoravo quella camicia». Andy si rivolse a Mrs Donaldson: ?Non le ho dato una pedata, vero??. 
«No» mentì Mrs Donaldson, che desiderava tanto una tazza di tè e si sarebbe anche offerta di scendere in cucina, se non avesse temuto che intanto quei due facessero pace e ricominciassero, come l’altra volta. 
«Potevate dirmelo, però». 
«Cosa?». 
«Che stavate facendo finta». 
«Io non stavo facendo finta» disse Andy. «E tu?». 
«Nemmeno io» disse Laura. «Avevo paura. Mi hai fatto male». 
«Avevo intuito che l’aveva fatta grossa. Se lo meritava. Ha macchiato la mia camicia più bella».   «La posso lavare io» disse Mrs Donaldson. 
«Oh, fantastico» fece Andy. «Fantastico, no?». Abbracciò Laura e le premette il naso sul collo. 
Mrs Donaldson rimase immobile. 
Il giorno seguente una vicina passò a dirle che quella notte aveva sentito delle urla e le chiese se stava bene. 
«Volevamo venire a bussare, ma era l’una». 
«Erano i miei studenti» spiegò Mrs Donaldson. «Niente di grave. Almeno non tengono la musica alta, sa. Adesso usano quelle cose nelle orecchie». 
«Ma lei? Tutto a posto?». 
«Sì, sì, grazie». 
«Sentirà la mancanza di suo marito ...». 
Mrs Donaldson fece un sorriso stoico. 
La faccenda giunse anche all’orecchio di Gwen, che aveva incontrato un’altra vicina di casa al supermercato. Sua madre si chiese se avessero svegliato l’intero quartiere. 
«Mrs Truman ha detto che ti ha telefonato, ma non hai risposto». 
«Il telefono era staccato». 
«Ma che cosa stavano facendo a notte fonda?». 
«Cos’è che si fa a notte fonda?». 
«Sesso?». 
«Fuochino. Quando ho bussato alla porta si sono dati una calmata. Sono giovani». 
«Lo ripeti in continuazione. Non è che il ragazzo è un violento?». 
«Ma cosa dici, su. E comunque,» tagliò corto Mrs Donaldson «tra non molto se ne andranno».    Era la verità, gliel’avevano detto quella mattina. A Andy avevano assicurato un posto alla facoltà di architettura di Edimburgo, mentre Laura sarebbe andata un anno nel Malawi.    «Voglio sperare che tu non ne prenda altri». 
«Altri?». 
«Di pigionanti». 
«Non so» disse Mrs Donaldson. «Non ho ancora deciso». 


«I miei due studenti mi mancheranno» confessò Mrs Donaldson a Delia, pur non potendole spiegare il perché. «I giovani sono stimolanti». 
«Prendine altri» replicò Delia. «Chissà». 
Stavano aspettando che iniziasse la lezione: due sorelle con la madre in coma. 
«Chissà cosa?». 
«Chissà che non siano simpatici anche i prossimi». 
«Ci sto pensando. Per adesso sono contenta di avere la casa per me. È una novità». 
Era contenta (ma non lo disse) anche di dormire tutta la notte e di avere accesso illimitato al bagno. E scontenta della mancanza di suspense, e di essere tornata nei ranghi. 
Entrò Partridge. 
«Bene» disse Delia. «Via con le danze». 
Partridge le aveva convocate per chiedere l’autorizzazione a staccare le macchine che tenevano in vita la madre, in coma irreversibile dopo essere stata investita da un’auto. 
«La castrazione, ci vorrebbe» esordì Delia, che si chiamava Jackie. 
«Per chi?». 
«Per i pirati della strada». 
«Non servirebbe a niente» ribatté Mrs Donaldson, nella parte di Cora.   «Servirebbe a me». 
«Lo sai che mamma attraversava sempre senza guardare». 
«Cora, nessuno lo mette in dubbio. Solo che quel tizio non si è fermato. Sarebbe da castrare, per me». 
«Non siamo qui per parlare di castrazione,» sentenziò Partridge impassibile «ma per decidere se staccare la spina di mamma o no». 
«Di mamma?» fece Jackie. «Come si permette di chiamarla così? Non è mica sua madre. Lei la deve chiamare Mrs Henderson. E poi, scusi, come fa a dire che non si sveglierà più? Quanti anni ha lei? Quattordici? Non ha nemmeno la cravatta. Se vuole condannare a morte una persona, almeno si vesta come si deve». 
Partridge sembrava abbacchiato. 
«Comunque,» riprese Jackie «non legge sui giornali di tutta la gente che dopo anni di coma si risveglia?». 
«A volte bisogna prendere una decisione» disse Partridge.    «Ma perché non possiamo lasciarla com’è? Poi si vedrà». 
«Non c’è niente da vedere. È un caso di morte cerebrale». 
«Ma lei è viva, e finché c’è vita c’è...». 
«Io la lascerei andare» intervenne Cora. 
«Tu» specificò Jackie. 
Le sorelle rimasero in silenzio. 
«Ecco» disse Partridge, rivolto al fondo della saletta. «È qui che ci vorrebbe un’infermiera». 
«Siete tutti fissati con l’infermiera» ribatté Ballantyne. «Ma perché?». 
«Sensibilità femminile?» disse Culley. 
«E se fosse un infermiere maschio?». 
«Sarebbe comunque una spalla su cui piangere». 
«Siete stati in corsia di recente? Nessuno lo dice, ma la realtà è che quanto a compassione e umanità le infermiere di oggi sono un di-sa-stro. Tecnicamente il loro mestiere lo sanno fare perché hanno studiato, ma se si tratta di fare una carezza, di confortare un ammalato grave o un familiare che soffre – tutte cose che dovrebbero aver imparato dalla vita – non valgono una cicca». 
«Va bene, ma gli insegnano anche la solidarietà, no?» disse Partridge. 
«Sì, certo. La imparano a scuola, ma non dalla vita. Non dall’esperienza. Se voi siete troppo giovani per fare i medici, loro lo sono per fare le infermiere. Le più brave sarebbero quelle di mezza età, ma si dà il caso che a quel punto lavorino dietro una scrivania e non siano più a contatto diretto coi malati. Quindi piantatela di chiedere un’infermiera quando in realtà vi serve qualcuno che si accolli i sentimenti al posto vostro. Se bisogna consolare qualcuno e aiutarlo, siete voi i medici. Tocca a voi». 
«Senta, io lavoro da un commercialista» riprese Cora. «Faccio bene a credere che di base è un problema di soldi?». 
«Ecco...» fece Partridge, felice di incontrare finalmente un minimo di perspicacia. 
«Badi, Partridge,» intervenne Ballantyne «che se dir? di s? rischier? di ritrovarcisi lei, attaccato alle macchine?. 
«Che ragione ha vostra madre per rimanere in vita?» chiese Partridge in tono lamentoso.   «Noi. O me, per lo meno» rispose Jackie. 
Partridge sospirò. Il problema delle spine da staccare non lo riguardava: lui voleva fare l’anatomopatologo. Avrebbe visto solo gente già morta. 
«Guardiamo il lato positivo» disse Cora. «Se le spegnessimo le macchine, ridurremmo le sue emissioni di anidride carbonica».   Delia scoppiò in un pianto dirotto. 
Altro sospiro di Partridge. «Okay. Vedremo». Strinse la mano alle sorelle. «Diamole un altro paio di settimane». 
«Inclassificabile» concluse Ballantyne. «Lasci perdere le infermiere e si ripassi un po’ di umanità, Partridge, perché per lei è un universo sconosciuto. Voi signore, invece, siete sprecate qui al St Mark. Dovreste andare in televisione». 


Senza più inquilini né affitto, Mrs Donaldson fu costretta a chiedere di fare più lezioni. Un giorno all’ora di pranzo fermò Ballantyne. 
«Lo fa per me o per un frigorifero nuovo?» le chiese lui. «Guardi, le possibilità ci sono. Niente di stuzzicante, ma sarà un piacere vederla più spesso. Mi faccia pensare a cosa abbiamo in programma domani. Un sanguinamento rettale non le interessa, vero? A parte quello ci son solo dei calcoli biliari, ma non sono all’altezza della nostra Meryl Streep». 
Le diede una cartelletta. «E se li condisse con una crisi di rabbia?». 
«Già fatto di recente» disse Mrs Donaldson. 
«Giusto. È stato memorabile. Se vomitasse il pranzo, invece? No, no. Semplifichiamo: calcoli biliari e basta, via?. 
«Potrei essere sorda». 
«O lituana». 
«Diabetica. Il diabete lo conosco proprio bene». 
«Bravissima». 


Dopo averci riflettuto, Mrs Donaldson aveva deciso di non affittare più la stanza, e pazienza se doveva arrotondare. Basta con le notti passate con l’orecchio alla parete; basta con l’angosciosa eccitazione della scadenza che si avvicinava. La sua breve fuga dalla rispettabilità era stata un unicum, anche perché erano scarsissime le possibilità di incontrare altri inquilini con la mentalità così aperta e il portafogli così vuoto. No: quello era un capitolo chiuso. Con tutta la nostalgia che poteva averne, era stato troppo stressante. 
Ma una curiosità le era rimasta; una bramosia, addirittura, e siccome era legata all’idea di libertà e di una nuova vita, non era troppo ansiosa di sopprimerla. Aveva sentito che su Internet si vedeva di tutto. Lei non lo sapeva usare, Internet, però magari poteva fare un corso. Insegnavano un sacco di cose, in giro. Forse non proprio quello che le interessava vedere, ma... fatto salvo il limite della decenza, decise di tentare. Delia sapeva di sicuro a chi rivolgersi. 


Dopo una giornata priva di emozioni (ipotiroidismo, ernia iatale ed emorroidi interne), si sedette in cucina per un goccetto in santa pace. Suonò il campanello. 
Pensando che poteva essere Gwen, nascose subito il bicchiere nella credenza e poi andò ad aprire, non senza aver diligentemente infilato la catenella di sicurezza. 
«Mrs Donaldson?». 
«Sì?». 
Era una giovane coppia. 
«Oh. Credevo che fosse mia figlia». 
«No. Siamo venuti per la stanza». 
Lui aveva un cappotto leggero, jeans, camicia e – strano a dirsi – la cravatta, per quanto strettina. Era un look che le sembrava di aver visto in TV, anzi sicuramente il cappello non le tornava nuovo: un ammennicolo nero con la tesa piccola, di una taglia in meno del dovuto. Ce l’aveva sempre un cantante che un giorno sì e uno no veniva arrestato per possesso di droghe. 
Il ragazzo sulla porta aveva un viso delicato e il cappello non assolveva al compito che secondo Mrs Donaldson doveva avere: lo faceva sembrare ancora più giovane, anziché più maturo, e per niente navigato. La ragazza era più ordinaria: cardigan ampio, sciarpone lungo e, unica concessione al glamour, una borsetta di vernice rosa. 
«Per la stanza?» disse Mrs Donaldson. «Non ci sono stanze, qui». 
Decidere di non prendere più inquilini non era stato facile, ma adesso che le si erano presentate queste due anime in pena pensò di averla scampata bella. Provò quasi allegria. No... no. Non sarebbero andati per niente bene. 
«C’è il suo indirizzo sull’elenco dell’università» disse il ragazzo. «Comunque, piacere: io mi chiamo Ollie. Lei Geraldine. Io studio all’accademia di belle arti e Geraldine lavora in un bar». 
«Un bar biologico» lo corresse la ragazza passandogli la lista degli alloggi. 
«Eccolo qui». Ollie le indicò l’indirizzo (unghie ben pulite). 
«Avevo detto di cancellarmi» ribatté Mrs Donaldson. 
«Be’, invece è rimasta. Che peccato, però. Siamo venuti apposta dal centro. Ha avuto brutte esperienze in passato?». 
«Scusa?» disse Mrs Donaldson. 
«Brutte esperienze per cui ha deciso di togliersi dalla lista». 
«No, no. Solo che... pensavo di fare una pausa, ecco». 
«Che ne dice di un periodo di prova?» riprese Ollie. Geraldine accennò un sorriso stentato. 
«Magari cambia idea, se le piacciamo. Siamo referenziati: conosciamo Andy». 
La ragazza annuì e si nascose dentro lo sciarpone. 
«Andy?» ripeté Mrs Donaldson. 
«Sì, ha abitato qui con Laura. Una volta siamo venuti a trovarli, ma lei era fuori». 
La conversazione si era svolta attraverso la fessura della porta socchiusa, ma adesso che era stata rassicurata sulle referenze, Mrs Donaldson tolse la catenella. 
«E come stanno Andy e Laura? Li vedete?». 
«Andy è a Edimburgo, Laura in Africa, non so più dove di preciso». 
«Nel Malawi. Mi ha mandato una cartolina. Ma entrate, entrate pure». 
Si sedettero tutti e tre al tavolo di cucina. Ollie aveva ancora il cappello. «Saremmo puntualissimi coi pagamenti» disse. «Geraldine ha un lavoro». 
«Non è per questo». 
«Be’, loro però non lo erano, vero?». 
«Non erano cosa?». 
Mrs Donaldson non si rese conto dell’abisso in cui stava per cadere. 
«Puntuali con l’affitto». 
«Ma no, niente di terribile. No, non è per questo». 
«Siamo noi, allora?». Il ragazzo la scrutò e sorrise. Dimostrava quattordici anni. 
«No, no. Voi non c’entrate nulla». 
«Comunque ci hanno detto che lei è molto comprensiva». Il ragazzo sorrise ancora. «Per l’affitto, dico». 
La ragazza si arrotolava la sciarpa sulle mani. 
«Noi non avremmo problemi, no, amore?». 
«No» rispose lei mordicchiando la sciarpa. «Problemi no. Nessun problema». 
«Scusatemi. Devo andare un momento di sopra» disse Mrs Donaldson. 
Corse su in bagno, chiuse la porta e di punto in bianco vomitò. Poi andò a sedersi sul letto, il loro letto, e nascose la faccia in un cuscino. 
Non le era mai nemmeno passato per la testa, ma adesso era lampante: se lo sapevano quei due, lo sapevano tutti. Le vennero le vertigini al pensiero di dove poteva essere arrivata la voce. Probabilmente a medicina non si parlava d’altro. Del resto non c’era posto migliore, visto che anche lei era un caso clinico. Si sentì una persona ignobile, indegna di rispetto. Una barzelletta: «la nostra affittacamere». 
Si asciugò il viso e scese in cucina. 
I ragazzi erano ancora seduti al tavolo, in silenzio. 
«Va bene, ci penso» mentì. «Subito non posso decidere». 
Quando si alzarono il ragazzo le toccò il braccio. «Non le daremmo problemi. Niente musica alta, niente di niente». Poi le lasciò un foglietto. «Qui c’è il mio numero di cellulare». 
Lei gli rivolse un sorriso rassicurante, come se ci fosse speranza. 
Rimasero un momento sulla soglia. Il ragazzo si tolse quel ridicolo cappello e lo tenne premuto contro il petto, in un gesto tanto démodé che a Mrs Donaldson scappò da ridere. Un patetico vagabondo spinto alla porta di casa sua dal bisogno di un tetto.    «Mi piace il tuo cappello» gli disse. 
Il ragazzo se lo rimise. Dietro la sua testa, un aereo solcò lento il cielo; in lontananza una donna cantava. 
Mrs Donaldson rientrò e guardò il foglietto lasciato sul tavolo. Accanto al numero c’era disegnata una faccina con tanto di sorriso e cappellino. Al piano di sopra si distese su quello che un tempo era stato il suo letto. A sinistra: il suo lato, da sempre. 


Giunti apparentemente alla fine di quello che è diventato un aneddoto ammonitore, potremmo anche abbandonare la nostra Mrs Donaldson. I lettori in cerca di una morale dovrebbero magari fermarsi qui e concentrare la loro attenzione su quel letto di periferia dove la protagonista rimpiange la sua figura di donna esemplare, mentre ormai l’unica parola che le viene in mente è «tenutaria»: una lasciva tardona adibita al piacere altrui. 
Si sente preda dello scherno e del disprezzo, e senza scusanti: la sua normale casetta, se non è proprio un postribolo, è certamente sede di commerci, scambi e trattative erotiche. 
Sì: dovrebbe essere lasciata lì a struggersi per tutto ciò che ha incautamente gettato al vento.    E la cosa non farebbe una grinza, se Mrs Donaldson non tornasse di continuo sui soliti, ostinati ricordi. Percorre e ripercorre le due scene che l’hanno vista protagonista, tanto che sbiadiscono, perdono sapore e carattere. Individua i momenti in cui avrebbe potuto dare il suo contributo, se non fosse stata cos? timorosa. Non importa se il suo intervento, per lei capitale, si sarebbe limitato a toccare il fondoschiena sussultante del ragazzo. A lui non avrebbe dato fastidio, ragiona fra s? e s?. Forse non se ne sarebbe nemmeno accorto. Ma una cosa tira l?altra. Magari, in alternativa avrebbe potuto prendere la mano di Laura e lasciarsi condurre nel gioco. 
E poi rivede tutti gli antefatti: la proposta in cucina, i preparativi al piano di sopra, le candele accese, la naturalezza con cui i due si sono spogliati: una sequenza che diventa parte di lei e assume quasi i contorni di un rito. Adesso che loro se ne sono andati, ogni sera si fa cullare nel sonno da questi ricordi. 
Perfino questa sera maledetta, in cui si sente così costernata e fragile al pensiero della sua vergogna. 
Ma riflette anche sul lavoro: un classico analgesico che nel suo caso non può spegnere il dolore. Le tornano in mente episodi che sul momento l’hanno lasciata interdetta: le risate in classe, gli ululati quando Prentice le ha preso la mano, gli studenti che le hanno fatto dei sorrisetti senza un vero perché. Se avesse udito il commento di Maloney – «Non era lei la meglio?» – avrebbe capito tutto.    Adesso sì. Adesso ha capito tutto. 


Il giorno dopo si sentiva meno mortificata; avvertì perfino una blanda eccitazione. La necessità di tirare avanti senza scomporsi stuzzicò l’attrice che era in lei. Sì, aveva creduto di rimanere senza la sua indispensabile corazza, ma quella mattina, mentre appendeva il cappotto nell’armadietto, ripensò a un suo personaggio: una donna rimasta sfigurata dopo un incidente. ?Io faccio come se quelli strani fossero gli altri? aveva detto. 
E così si preparò alla guerra, salvo poi scoprire che non serviva: di fatto non era cambiato nulla. Forse era diventata la barzelletta della clinica, ma nessuno lo dava a vedere. Forse Andy e Laura erano stati più discreti del previsto: sicuramente l’avevano detto al tizio col cappello e a quella mummia della sua ragazza, ma loro non studiavano medicina. Forse la catastrofe era soltanto nella sua testa.    Controllò il programma. Quel giorno doveva lavorare con Miss Beckinsale, da sempre regina indiscussa delle malattie senili: merito di una sua vecchia rappresentazione di un morbo di Alzheimer, tanto confusa e sconnessa che il professor Ballantyne era rimasto impressionato dal suo realismo. Negli anni Miss Beckinsale si era data da fare per annettere territori confinanti come l’afasia, l’amnesia, l’ictus e altre disfunzioni cerebrali. «La mente e i suoi gravami» adorava ripetere. 
Ma Miss Beckinsale ormai aveva una certa età ed era diventata troppo gigiona per essere clinicamente utile. Così ogni tanto Ballantyne dirottava qualche caso su Mrs Donaldson: un Alzheimer precoce, un paio di aneurismi e (scelta azzeccatissima e grande prova d’attrice) una sindrome di Tourette. Quest’ultima era stata offerta a Miss Beckinsale, ma lei aveva rifiutato perché avrebbe dovuto snocciolare certe oscenità che asseriva di non aver mai nemmeno sentito. Come non aveva mai sentito il nome di quella malattia. Quando gliel’avevano spiegata, era rimasta scettica e l’aveva attribuita a una mancanza di autocontrollo. 
A Miss Beckinsale non sfuggiva che il suo regno si stava sgretolando. 
«Aspettati ritorsioni» aveva detto Delia a Mrs Donaldson. ?Hai invaso il suo territorio?. Ma all?inizio la decana del gruppo non ne aveva fatto un dramma; anzi, aveva preso sottobraccio Mrs Donaldson e le aveva sussurrato: ?Benvenuta nella mente?. 
Anche Ballantyne aveva previsto qualche piccolo screzio, ma vedendo che si era sbagliato aveva provato a far lavorare le due signore in coppia. La storia era quella di una figlia che voleva mettere in casa di riposo la madre, affetta da una leggera forma di demenza. 
Era pomeriggio. 
«Tu sei la badante?» disse Miss Beckinsale. 
Mrs Donaldson sospirò. «No, Violet. Sono Jane». Gli studenti non erano ancora tornati dalla pausa pranzo e perciò non era disposta a dar corda alle sceneggiate della collega. 
«Violet, non abbiamo ancora iniziato». 
Miss Beckinsale chiuse gli occhi. «Io non inizio. Io sono! E tu sei la badante». 
«No. Sono tua figlia: Lois». 
«Tu? Figurati. Tanto per cominciare sei troppo vecchia, e poi se fossi mia figlia non avresti mai addosso quel cesso di golfino». 
Era una strategia tipica. Quando non poteva attaccare su altri fronti, Miss Beckinsale lanciava perfide frecciate ai colleghi dall’alto della sua presunta demenza. Del resto, sparare senza ritegno faceva parte dei sintomi. 
A uno a uno arrivarono i ragazzi. Miss Beckinsale chiuse di nuovo gli occhi, in apparente meditazione. 
Quel pomeriggio il prescelto era Metcalf, un tipo flemmatico secondo il quale la geriatria era la branca del futuro. Si avvicinò alle due signore, strinse la mano alla figlia e tentò di fare lo stesso con la madre. Miss Beckinsale, ancora impegnata a entrare nel personaggio, sembr? non accorgersi di lui e della sua mano tesa. 
Metcalf si sedette alla scrivania e prese un appunto. «Dunque, Miss Murgatroyd...».    «Mrs» lo interruppe Mrs Donaldson. 
«Mi scusi. Quindi c’è un Mr Murgatroyd?». 
«C’era, ma è morto». 
«L’ha ammazzato lei» disse la madre. «L’ha buttato giù dalla finestra». 
«Un cancro alla prostata» spiegò la figlia. 
«Io non so neanche chi sia, questa qui» riprese la madre. 
«Intanto come si chiama lei, di nome?» fece Metcalf. 
«Lois». 
«Macché. Si chiama...» e Miss Beckinsale si scervellò alla ricerca di un nome in grado di arrecare la massima offesa. «Si chiama Tracy, mia figlia». 
«Mi chiamo Lois» ribadì Mrs Donaldson. 
Metcalf si scrisse un altro appuntino. «Le devo fare un paio di domande per capire di che livello di assistenza ha bisogno sua madre. È incontinente?». 
«Solo quando vuole». 
«Si sporca, anche?». 
«Se le fa comodo, sì». 
«Cosa dice questa qui?» sbottò la madre. «Chieda a me, non a lei». 
«Le devo fare tutto io» spiegò Lois. 
«Questa è una frase interessante» giunse la voce di Ballantyne dal fondo della saletta. «Quando si dice “le devo fare tutto io” in realtà si intende una cosa sola, no?». 
«E poi se la fa con un fracco di uomini» continuò la madre. 
Ballantyne ignorò quest’ultimo intervento. «Pensate: mentre una figlia può dire a proposito dell’anziana madre ?le devo fare tutto io?, all?opposto una madre non lo direbbe mai di sua figlia in fasce. Perch? accettiamo di buon grado i limiti dell?infanzia ma non quelli della vecchiaia? Culley, lei che dice??. 
Culley rifletté. «Be’, innanzitutto la merda del vecchio puzza di più». 
Ci fu uno scoppio di risa cui Ballantyne non si unì. «Vero. Anche questa è un’idea. Ma andiamo avanti». 
Indomito, Metcalf pose tutte le domande di rito sulla memoria, la motilità e i risvegli notturni, ma senza cavare un ragno dal buco. Quelle due erano un bel problema. La madre voleva rimanere a casa sua; la figlia non ne poteva più e tentava di sistemarla da un’altra parte. Se si fossero volute un minimo di bene, avrebbe potuto essere una vicenda straziante. Invece non si sopportavano. 
«Siete mai andate d’accordo, lei e sua madre?». 
«Certo che andiamo d’accordo» rispose la madre. «Perché dice di no?». 
«Ha appena chiamato sua figlia "vacca"». 
«È mia figlia e la chiamo come voglio». 
«E il nostro primo ministro come si chiama?» chiese Metcalf di punto in bianco.   «Sì, quello là... Lo so, ma non glielo dico». 
«Quanto fa sette meno cinque?».    «Cosa me ne importa?». 
Metcalf tornò alla figlia. «Vede, Mrs Murgatroyd, è assodato che i pazienti anziani stanno meglio in un ambiente familiare, e in fondo sua madre è a casa sua». 
«Mia, no» chiarì la madre. «Sembra casa mia. Anche la strada sembra la strada di casa mia, ma oggi quelli del cinema sanno fare i miracoli. Anzi, la vuole sapere una cosa? Secondo me mi hanno già messa in casa di riposo, solo che non me lo dicono». 
Metcalf scrisse ancora. Lois sorrise, comprensiva. 
«Invece lo sa cos’è? È che questa qui vuol prendersi un bel pigionante». 
Gli studenti si raddrizzarono sulle loro sedie. 
Dato che nelle linee guida della lezione non c’era traccia di pigionanti, Mrs Donaldson la interpretò come un’altra frecciata. 
«Adesso che non c’è più suo marito questa qui vuole un pigionante. Capita l’antifona?». 
«Io non voglio nessun pigionante» disse Lois. «Non c’è posto». 
«Oh be’, dipende da come dormi» replicò Miss Beckinsale. Qualcuno si mise a ridere. Mrs Donaldson diede un’occhiata alla classe e vide dei sorrisi. 
«Così si metteranno a fare quelle cose» riprese la madre. 
«Quali cose?» volle sapere Metcalf. 
«Quelle che fanno loro» disse Miss Beckinsale. «Tra giovani e vecchi». Un gridolino d’incitamento. Era una cosa che normalmente Miss Beckinsale non avrebbe mai detto.    «Stai parlando» disse Lois «di quello che hai fatto anche tu per avere una figlia?». 
«Non dire porcherie. Guarda che io insegnavo catechismo e quelle cose lì non le ho mai fatte con nessuno. Tu invece sì. Altroché». E batté sul tavolo. 
Miss Beckinsale era uscita dal solito binario; nei suoi sproloqui evitava di menzionare il sesso.   Siccome le era piaciuto picchiare sul tavolo, picchiò ancora. 
Mrs Donaldson aveva sempre una bottiglietta d’acqua nella borsa; protetta dal trambusto, si chinò e ne versò un po’ sotto il tavolo. 
«E suo marito?» chiese Metcalf alla madre. «Con lui andava d’accordo?».    «Lo chieda a questa qui». 
L’acqua si allungò sul pavimento. 
Mrs Donaldson rivolse un dolce sorriso a Metcalf. «Guardi un po’. Mamma deve aver avuto un piccolo incidente». 
«Figurarsi» disse Miss Beckinsale, anche se non era chiaro se ora faceva se stessa o «mamma». 
«Non se ne accorge nemmeno» spiegò Lois. «Vede che ha bisogno di assistenza?». 
«Chiamo un’infermiera per asciugare» fece Metcalf. «È giusto?». 
«Sì» rispose Ballantyne, sfinito. «È giusto chiamare l’infermiera per asciugare». 
Alla fine della lezione gli studenti se ne andarono e Miss Beckinsale rimase lì per «uscire dal personaggio», cercando di dare il massimo risalto alla cosa. Intanto Ballantyne prese in disparte Mrs Donaldson. 
«Brava. Bravissima. Ma non so se ha funzionato. Secondo lei Violet è stata credibile? A me è parsa un po’ troppo sveglia. E poi, scusi, si è fatta la pipì addosso?». 
«Non se n’è resa conto» rispose Mrs Donaldson. 
«Oh, mamma mia. Poveretta. Sta invecchiando e... be’, il mio non è certo un giudizio clinico, ma ultimamente è spesso via con la testa. Comunque non ho potuto fare a meno di notare» e le posò una mano leggera sull’incavo delle reni, cosa che a sua volta Mrs Donaldson non poté fare a meno di notare «che lei, Mrs Donaldson, è straordinaria nelle sue interpretazioni, però sceglie sempre di giocare sulle corde della freddezza: la figlia insensibile, la vedova che non perdona... Sembra quasi che lo faccia apposta, perché lei nella vita non è affatto così. I suoi personaggi invece sono molto duri». 
«Le emozioni non so se le so fare» disse Mrs Donaldson. 
«Nella vita,» insistette Ballantyne, più temerario del solito ?o solo qui in ospedale? Lei soffre ancora, vero??. 
«Perché?». 
«Per suo marito».   «Oh. Può darsi». 
«Magari...» e la mano di Ballantyne indugiava sulla sua schiena «magari una volta potrei portarla fuori a cena. Magari la distrarrebbe un po’». 
«Accidenti, quanto gli ci è voluto» commentò Delia. «Gli hai detto di sì, spero». 


Mrs Donaldson gli aveva detto di sì, e anche con un certo sollievo, perché quell’invito dimostrava che, se la sua bravata con Andy e Laura era di pubblico dominio, almeno non era arrivata all’orecchio del professore. 
In realtà era vero il contrario. Ballantyne aveva chiesto a una studentessa se aveva mai visto un morto e si era sentito rispondere: «Sì: il mio criceto». Quindi aveva portato lei e altri due pivelli nel campo della mortalità giù nella camera mortuaria per dare un’occhiata a qualche salma recente. Alla fine si era sentito in obbligo di invitarli a bere qualcosa, in parte per tirarli un po’ su e in parte perché di lì a poco sarebbe arrivata la commissione di controllo, quindi doveva pensare al loro giudizio sulla sua capacità di interagire con gli studenti. 
La conversazione era stata un po’ forzata («E mi dica, Rosemary, cosa ci trova di bello nell’intestino?»), ma Nigel aveva salvato la situazione. Lui era il solito futuro chirurgo amante delle battute salaci, e restando nel suo campo d’elezione, la prostata, aveva raccontato barzellette sul sesso nell’antichità. Era stato nel corso di questo numero da caserma che Lockwood, l’altro allievo, aveva riferito al professore le chiacchiere su Mrs Donaldson. Lockwood, che fin l? non aveva aperto bocca, aveva a sua volta pensato al giudizio della commissione, e dato il suo contributo nella speranza che Ballantyne non criticasse le sue capacit? di relazione. 
Era saltato fuori che gli altri due allievi sapevano già tutto. Rosemary aveva detto che non ci credeva e Nigel che gliel’aveva raccontato Laura in persona. Ballantyne aveva osservato che comunque non erano cose che li riguardavano e si era detto sorpreso che non avessero niente di meglio di cui parlare. Poi c’era stata una pausa di silenzio. 
«Ditemi un po’,» aveva concluso Ballantyne «cosa pensate dei nuovi poliambulatori?».    Non si era sbottonato coi suoi studenti («Mrs Donaldson è sempre stata un esempio di professionalità ») e aveva messo a tacere anche la curiosità di saperne di più ma, anziché scandalizzarsi, si era sentito incoraggiato. Sapeva di averle manifestato il suo interesse in modo maldestro e controproducente. Da bravo imbranato non aveva insistito più di tanto, e poi Mrs Donaldson l’aveva messo in soggezione, con quella sua padronanza e quella sua aria di superiorità. Sì: l’aveva un po’ spaventato. Adesso però non gli faceva più paura. In fondo, era una comune mortale anche lei. Si era aperto uno spiraglio. Sarebbero andati a cena insieme. 
Rassicurata su Ballantyne, Mrs Donaldson ebbe comunque la certezza che Miss Beckinsale sapeva; anzi, pareva che lo sapessero proprio tutti e perciò tanto valeva chiedere a Delia senza tergiversare oltre. Saltò fuori che Delia era all’oscuro di tutto. 
«Non è giusto» disse Delia. «A letto coi ragazzi, a cena col grande capo. Io ho dieci anni meno di te e vorrei sapere dov’è che sbaglio». 
«Non ci sono andata a letto» obiettò Mrs Donaldson. 
«E allora cos’hai fatto?». 
Risero a crepapelle tutte e due durante il racconto, e Mrs Donaldson capì che le era mancato proprio questo: poterne parlare. Effettivamente fece un po’ di taglia e cuci, evitando di menzionare le nottate trascorse alla parete; ma vuotare il sacco non tolse fascino alla sua avventura. Fu semmai il contrario, tanto che quella sera, quando tornò a casa, andò subito a controllare nel secchio dell’immondizia e lì, tra bustine del tè rinsecchite, avanzi di riso e bucce di pomodoro, ritrovò con sollievo il foglietto, tutto spiegazzato, col numero di Ollie. 


Dopo un po’ i nuovi inquilini si trasferirono da lei, con due settimane d’affitto versate in anticipo e nessun altro accordo in caso di mancato pagamento. 
Erano ancora meno invadenti di Andy e Laura. Raro incontrarli in cucina, per esempio, e Ollie sembrava vivere soprattutto di pizze del takeaway. 
Neanche a dirlo, Gwen non sprizzò entusiasmo. «Ma lei ce l’ha, la lingua? È già due volte che passo e che scappa subito di sopra. E lui? Lui è un chiacchierone, ma dimmi tu che senso ha quel cappello. Sembrano due suonatori ambulanti». 
«Sono ragazzi tranquilli» le disse sua madre. «Non mi accorgo nemmeno di loro, quando sono in casa». 
«A differenza degli altri due. Cos’è che studia, lui?».   «Moda, mi sembra». 
«Futuro stilista? Be’, allora ringrazia che non è gay». 
«Non ci sarebbe nulla di male» ribatté Mrs Donaldson in tono di disapprovazione. ?Io per esempio in clinica sono stata una lesbica?. 
Gwen alzò gli occhi al cielo. «Ma perché?». 
Per divertimento, avrebbe voluto rispondere Mrs Donaldson. Così, per ridere. O forse per penitenza, dopo avere inflitto al mondo un pezzo di legno come te. 
Eppure, anche se l’opinione di sua figlia non le interessava, intuiva che la propria acrimonia era dovuta anche al fatto che Gwen aveva ragione. Cosa credeva di fare in clinica? Dove pensava di arrivare ospitando quei due innocentini? 
Era indecoroso. E per quanto si sforzasse di apparire a suo agio, quella non era affatto lei. Ma era proprio questo il motivo per cui si comportava così: non era più lei. 
L’arrivo dei nuovi inquilini le fece riesumare il piumino e riprendere gli appostamenti notturni, che però le diedero poche soddisfazioni. Dalla camera accanto non giungeva quasi nulla. Quando filtrava un suono, era talmente impercettibile che una volta passò cinque minuti in attentissimo ascolto di un ritmo incalzante, per poi rendersi conto che era il battito del suo cuore. Ogni tanto udiva un lamento soffocato che doveva provenire da Geraldine, ma era difficile stabilire se fosse estasi o patimento; poteva anche trattarsi di puro tedio. 
Mrs Donaldson iniziò così a domandarsi se l’allusione iniziale di Ollie non fosse affatto un’allusione. Forse l’aveva frainteso, oppure era stato un trucco per trovar casa, e poi abbandonare per sempre l’argomento dopo essersi sistemati. Chiarire il dubbio direttamente era fuori questione. Presto finì per convincersi che stava facendo un’altra volta la figura della stupida. 
Ci furono comunque dei contatti. Una sera Ollie la incontr? in cucina e le disse: ?Posso farle un ritratto, un giorno? Per? non so nemmeno come si chiama di nome?. 
«Jane» rispose Mrs Donaldson. «Se ti fa piacere... Quand’è che vuoi farlo?». 
«Anche adesso se le va... Jane». 
Quindi Mrs Donaldson si mise al tavolo di cucina e Ollie, seduto come un bimbo con la lingua tra le labbra, disegnò un bellissimo ritratto, più vari bozzetti. 
«C’è una tradizione di artisti che hanno ritratto la loro affittacamere, su carta e su tela. Lo sapeva?». 
«No» rispose Mrs Donaldson, cui ancora non andava giù la definizione di affittacamere.   «Mrs Mounter, per esempio» spiegò Ollie senza smettere di disegnare. «Era l’affittacamere di un pittore di nome Harold Gilman. E pensi, era una signora anziana». 
Geraldine entrò in cucina, girò sui tacchi e uscì. 
«Basta così» disse Ollie. «Volevo chiederle un’altra cosa...». 


«Come preferisce fare?». Era seduto ai piedi del letto, di fianco a Geraldine, e la teneva per mano. 
Geraldine sembrava scontenta. «La chiamo quando siamo pronti, va bene?». 
Quando Mrs Donaldson si voltò per andarsene, Ollie aggiunse: «Lei rimane vestita?».   «Oh, direi di sì. Forse è più facile, no?». 
«Lo pensavo anch’io». 
Evidentemente il problema era già stato discusso. 
«Geraldine temeva che lei venisse a letto con noi». 
«Io? Ma no. Fate pure come se io non ci fossi. Vi guardo e basta». 
La proposta tanto attesa era arrivata un’oretta prima. I ragazzi avevano passato buona parte della serata in camera e dalla voce di Geraldine le era parso che stessero litigando. Ma poi Ollie era sceso in cucina mentre lei si faceva le uova strapazzate. Mrs Donaldson gliene aveva date un po? e si era offerta di prepararne altre per Geraldine, solo che a Geraldine le uova non piacevano. 
Allora si era messa a lavare i piatti; Ollie li asciugava, e a un tratto aveva detto: «Cosa ne pensa di stasera? Lo so che l’affitto l’abbiamo pagato, ma potremmo considerarlo un anticipo. Andy e Laura facevano così, no?». 
Mrs Donaldson gli aveva risposto di sì, ma senza specificare che era accaduto solo una volta. 
Così, mentre Ollie preparava a Geraldine una tazza di camomilla, era tornata di sopra. 
Ollie la chiamò di nuovo quando lui e la sua ragazza furono al sicuro dentro il letto. Mrs Donaldson entrò e si sedette sul solito sgabello. 
Nessuno sembrava impaziente di cominciare. Lui era appoggiato alla testiera col lenzuolo teso sul ventre piatto, appena sotto l’ombelico; Geraldine invece si era messa tutta sotto e la scrutava timidamente da dietro il bordo del lenzuolo. 
«Come va al bar?» chiese Mrs Donaldson. «È proprio tutto biologico?». 
«Abbastanza bene» rispose Ollie. «È tutto biologico, eh, amore?». 
Geraldine annuì e disse: «Il pane no». 
«Il pane no» ripeté Ollie. «È integrale, ma non biologico. Senta, ma suo marito com’era?».    «Ex marito» bisbigliò Geraldine. 
«Perché? Non erano mica divorziati». 
«Perché è morto» sibilò Geraldine, come fosse una cosa scandalosa. 
«Lo so che è morto, ma mica si dice “ex”». Ollie sorrise a Mrs Donaldson e disse: «Scusi» col labiale. ?Forse? aggiunse ?alla signora non va di parlare di lui?. 
E infatti non le andava, specialmente in una circostanza come quella. Ma si limitò a sorridere anche lei, con nonchalance. 
«Quanto tempo siete stati sposati?». 
«Venticinque anni». Trenta, in realtà. 
«Bello». 
Ollie spostò un po’ il lenzuolo. La ragazza si coprì tutto il viso.   «Gerry è un po’ timida». 
«Non c’è problema» disse Mrs Donaldson. «Lo sono anch’io». 
«Hai sentito, Gerry? Anche Mrs Donaldson è timida». 
Ollie allungò una gamba e col piede strofinò il ginocchio di Mrs Donaldson. Che bel piede, pensò lei: sembrava più adulto della faccia. Le dita erano forti, sensate; il mignolo non sembrava messo lì per sbaglio come i suoi. Stava per accarezzarlo quando Geraldine all’improvviso si girò e abbracciò il ragazzo, spostando completamente il lenzuolo. 
«Ops!» esclamò Ollie. Subito si coprì con la mano e si mise a ridere. Poi tolse la mano e disse: «Chissà perché l’ho fatto. Tanto...». 
Mrs Donaldson sorrise e cercò di non mostrarsi troppo interessata, pur notando che era più eccitato di quanto avesse lasciato trasparire. 
«Tocca a te» disse Ollie alla sua ragazza, e la districò dal lenzuolo. Lei gli nascose il viso contro il petto. Ollie le accarezzò la schiena dicendo: «Tranquilla, tesoro. Tranquilla». 
«Siete sicuri che vi vada?» chiese Mrs Donaldson. 
Ollie annuì con fare rassicurante e iniziò a toccare Geraldine con più determinazione, baciandole le spalle e lasciando scivolare le mani sul suo fondoschiena. 
«È un problema se andiamo avanti così?». 
Mrs Donaldson scosse la testa, lui le fece il gesto del pollice alzato e si dedicò alla ragazza.    «A lei piace così» disse Ollie. 
«Non è vero». 
«Ieri ti piaceva». 
«Non è che devi farle la telecronaca». 
«Magari lei la vuole. Ecco, giusto per farle un po’ di telecronaca, adesso infilerò la mano tra le gambe della mia ragazza». 
Geraldine strillò, ma Mrs Donaldson constatò con sollievo che rideva. 
Se ogni tanto Laura le aveva rivolto un sorriso e le aveva perfino fatto l’occhiolino sopra la spalla di Andy, Geraldine invece era concentratissima e non sembrava in vena di ammiccamenti. Non la guardò mai, e se Ollie non avesse compensato, Mrs Donaldson avrebbe potuto sentirsi un po’ indesiderata. Ma Ollie si diede da fare al massimo per coinvolgerla, per esempio scostando delicatamente il ginocchio di Geraldine in modo che la spettatrice potesse vedere meglio. Quando poi Geraldine si mise carponi, Ollie strinse brevemente una mano di Mrs Donaldson e disse a nessuno in particolare: «Questo mi piace molto». 
Il finale arrivò dopo un bel po’ e fu meno spensierato, con Ollie a denti stretti e Geraldine scossa da singulti e dal lungo lamento disperato che ogni tanto era filtrato attraverso la parete. 
Alla fine Geraldine si rifugiò in bagno e Ollie rimase disteso sul letto. 
«Mi dispiace» disse. «Forse dovevamo prendere una pasticca; Gerry si sarebbe rilassata di più. Per lei com’è stato?». E le fece un largo sorriso. 
«Bello» rispose Mrs Donaldson, cortese. «Mi è piaciuto. Vi ringrazio molto». 
«Non so se valeva la cifra» continuò lui. «Avrei preferito più abbandono. Da soli sarebbe stato diverso». 
«È comprensibile». 
Ollie si coprì con il lenzuolo. 
«E se dovesse paragonarci con Andy e Laura?». 
«Secondo me» disse Mrs Donaldson «loro l’avevano già fatto. Davanti a qualcuno, intendo». 
«Veramente? Per noi è stata la prima volta. Se ne sarà accorta. Sembravamo impacciati?». 
«No, no. Anzi, la cosa più piacevole è stata proprio la genuinità». 
«E Andy? Faccia un paragone tra me e lui, come dotazione». 
«Oh, credo che siamo lì» disse Mrs Donaldson. Ma stava mentendo. Poi le scappò: «Dovrei vederli vicini». 
«Be’, adesso non esageriamo». 
A quel punto ci fu il provvidenziale ritorno di Geraldine dal bagno. Mrs Donaldson augurò la buonanotte ai ragazzi e se ne andò in camera sua, piuttosto soddisfatta della propria sfrontatezza.    A parte questo, però, le sembrava che non fosse stato un granché; non le aveva nemmeno dato il brivido sperato. Forse le sessioni avevano perso la loro aura di novità.    Si svegliò in piena notte. Le era sembrato di sentir piangere la ragazza. 


Poche (insignificanti) settimane dopo, una mattina Mrs Donaldson andò a lezione. Adesso lavorava praticamente a tempo pieno e ormai conosceva l’intero repertorio dei sintomi e delle situazioni. 
La preparazione a casa era meno impegnativa di una volta e le difficolt? rare, se non assenti.    Era cominciato un nuovo corso e non conosceva gli studenti: erano quelli del terzo anno. Non c’era nemmeno Ballantyne a dare una mano; le fasi iniziali dell’insegnamento lo interessavano meno. Vero: gli allievi erano così ignoranti che le opportunità di piazzare una battuta sarcastica erano pressoché infinite, e lui non se le faceva scappare. Ma dopo un’indigestione di battute si era fatto l’idea – giusta – che Mrs Donaldson non andava matta per quell’aspetto del suo carattere. Così, conscio di non sapersi contenere, qualche volta decideva di assentarsi del tutto, specialmente quando i pazienti simulati erano esperti. Quella mattina c’era Terry con un’ernia strozzata e di nuovo le mutande arancioni in bella mostra; Delia con dolori al torace che potevano essere un attacco di cuore e invece si sarebbero rivelati un’indigestione, e Mrs Donaldson, afflitta da una moltitudine di sintomi nebulosi con cui di solito presentava un caso di tumore. 
Ma Mrs Donaldson non si sentiva al suo meglio; appena prima di uscire di casa aveva rimesso. Poi aveva preso un paio di pasticche, ma adesso l’effetto iniziava a calare. Terry e Delia fecero in fretta e presto si ritrovò in camice da paziente, distesa su una barella, con due studenti a esaminarla. Non stava affatto bene. Si tastò la pancia e scoprì di avere forti dolori. 
A un tratto iniziò a tremare incontrollabilmente, e con tanta violenza che sembrava scossa da una macchina. 
«Brividi di febbre» annunciò la ragazza. 
«Ma come fa?» disse il ragazzo. «È incredibile. Guarda: suda, perfino». 
«Tranquillo. Pare che lei sia la più brava. Me l’ha detto uno dell?ultimo anno. Ascolti, signora? e la ragazza si pieg? sulla barella. ?Che cosa si sente??. 
«Mi sento male» rispose Mrs Donaldson battendo i denti. «Stamattina ho vomitato. Chiami aiuto. Chiami il professor Ballantyne». 
«Calma. Adesso la visitiamo». 
Il ragazzo iniziò a palparla a caso. «Cerchi di rimanere ferma, se riesce». 
Premette sull’addome. All’urlo improvviso di Mrs Donaldson fece un balzo indietro, come se si fosse beccato un morso. 
«Oh porca vacca, non c’è mica bisogno di esagerare». 
Mrs Donaldson aveva lasciato la cartelletta sulla sedia; la ragazza, per far prima, diede una sbirciata per capire che cosa rappresentava quello spettacolare ammasso di sintomi. 
Si illuminò. «Tranquillo. È tutta una cosa psicosomatica». Allora scandì forte e chiaro all’orecchio di Mrs Donaldson: «Lei non ha il cancro. Non è cancro». 
«Ho tanto freddo» sussurrò la paziente. «Mi può dare una coperta? Chiami aiuto». 
«Ci siamo qui noi» disse il ragazzo. «Certo che è veramente brava». 
Mrs Donaldson, che tremava come una foglia e aveva il ventre in fiamme, si ricordò che una volta aveva dovuto recitare qualcosa del genere. Con un filo di voce chiese alla ragazza di avvicinarsi. 
«Penso... Penso che sia appendicite acuta». 
«Davvero? Perfetto. Almeno non è cancro». 
«Aiutatemi». 
«S’è fatto tardi» disse il ragazzo. «Io fra cinque minuti devo essere in reparto. Va bene, signora, adesso basta. Abbiamo capito il messaggio. Oddio... ora finge di essere svenuta. Vabbè: che s’arrangi». 
I due studenti si diressero verso la porta, ma la ragazza torn? indietro un momento e bisbigli? 
all?orecchio di Mrs Donaldson: ?Non ? cancro. No, no?. 
Ballantyne, percorrendo l’ospedale a passo tranquillo, si imbatté in Delia, che era sconvolta: 
aveva pensato di passare a prendere l’amica per un caffè e l’aveva trovata lunga distesa sulla barella, sola e priva di sensi. 
«Sei stata vittima della tua fama» disse Ballantyne quando il giorno dopo andò a trovare Mrs Donaldson in corsia. «Però avevi perfettamente ragione: era appendicite. Avrebbero dovuto capirlo dai brividi, soprattutto con quel dolore da manuale. Non hanno scuse». 
Era già uscito a cena con lei in varie occasioni, ma senza mai sfiorarla con un dito. Adesso, visto che non stava bene, si prese la confidenza di accarezzarle una mano a scopo terapeutico.    «È tutta colpa mia. Avrei dovuto essere lì. E comunque non gli farà male, a quei due, aver rischiato di ammazzare qualcuno così, all’inizio della carriera. Stamattina ne ho approfittato per fare un discorsetto a tutti, e ho detto che...». 
Visto che Ballantyne aveva approfittato della sua posizione di medico, adesso Mrs Donaldson approfittò della propria di paziente e chiuse gli occhi, colpita da un’apparente spossatezza. 
«Sei affaticata» disse Ballantyne lasciandole la mano a malincuore. «Riposati e vedrai che presto ti faremo uscire di qui». Aveva fatto ricorso a una delle tipiche frasi da medico dei telefilm per cui prendeva tanto in giro i suoi allievi. 
Appena se ne fu andato, arrivò un visitatore più divertente: Ollie, che le portò un originalissimo mazzolino di fiori raccolto nel giardino di casa, composto da due steli di pisello odoroso, un dente di leone, un rametto di ligustro e una penna di piccione. Glielo sistem? nel bicchiere per lo spazzolino da denti e, seduto ai piedi del letto, si mise a disegnarlo. Poi le prese la mano, e lei si rallegr? che non fosse venuta anche quella noiosa di Geraldine. Come prevedibile, non sopportava gli ospedali. 
Ollie volle vedere la ferita e rimase deluso perché era nascosta dalla medicazione; altrimenti avrebbe potuto disegnare anche quella. «Non importa» disse. «Avremo tutto il tempo». Alla fine promise di tenere in ordine la casa e se ne andò. 
Venne a trovarla anche Gwen: le erano stati risparmiati i particolari sulla negligenza dei due studenti, ma lei cercò lo stesso di convincerla a trovare un diverso impiego altrove o, meglio ancora, a non lavorare del tutto. Questo tra fiumi di lacrime, perché – come tenne a chiarire – la visita per lei era particolarmente straziante, visto che dalla morte di papà non aveva più messo piede in ospedale. Quanto a sua madre, come Gwen disse più tardi all’indifferente marito, «era molto provata. Praticamente ha dormito tutto il tempo. Queste cose ti fanno capire che non sarà fra noi per sempre». 
Mrs Donaldson rimase un po’ a casa in convalescenza e all’inizio resistette alla tentazione di riprendere le veglie notturne. Dopo quella prima serata deludente una replica era improbabile e non serviva nemmeno, visto che Ollie aveva già pagato tutto l’affitto. 
Forse l’aver sfiorato la morte avrebbe dovuto indirizzare i suoi pensieri verso oggetti di maggior conto, e invece no; in realtà era Geraldine che la scoraggiava. Le seccava che fosse così smorta e ritrosa, se non altro perché le toglieva il gusto degli appostamenti alla parete. Le capitò di rimettersi a origliare, di tanto in tanto, ma con meno zelo. Una volta lasciò perdere nel bel mezzo di un amplesso che non dava segno di finire; tanto si sarebbe concluso col solito lamento lungo e angoscioso, quindi decise che era meglio andarsene a letto. E poi, riflett?, era appena stata operata. 
Pensò che l’eccitazione quasi insopportabile dei primi tempi si era trasformata in un’abitudine, proprio come quando c’era ancora suo marito e lei non guardava, ma agiva. La sensazione non le piacque; le parve un presagio della vecchiaia. La morale non c’entrava nulla. 
Quindi ogni occasione era buona per staccarsi dal turno murale. Quando Geraldine dovette andare a Halifax da sua sorella, con gioia ricominciò ad andare a letto presto, insieme a un buon libro. 


Una sera lei e il professor Ballantyne – adesso poteva chiamarlo Duncan – uscirono a cena. Lui le parlò della sua vita, del suo lavoro, e al momento del caffè le chiese di sposarlo. 
Mrs Donaldson se l’aspettava. Non sapendo se dire sì o no si era preparata una risposta: era riconoscente e lusingata, ma anche tanto sorpresa che voleva pensarci un po’ su. 
Imbaldanzito da quell’ambiguità e ripensando anche agli intrallazzi di lei coi suoi inquilini, Ballantyne fece un passo avanti: le posò una mano sull’interno della coscia e le suggerì che forse andare a letto insieme poteva aiutarla a decidere. 
Anche questa proposta non era inattesa. La prima linea di difesa fu il fresco intervento di appendicite e la necessità di trattare con cautela il suo addome recentemente offeso. A quel punto Ballantyne minimizzò tenendole una lunga conferenza sulle capacità di recupero del corpo e sottolineando che in ogni caso, al di là della penetrazione, c’erano altri atti intimi che non prevedevano una pressione sui muscoli in oggetto. 
Questo Mrs Donaldson non l’aveva previsto, quindi le toccò ricorrere all’inventiva ormai maturata durante le lezioni. Disse che si sarebbe convinta, se solo quello non fosse stato un giorno particolare, e cioè l’anniversario (finto) della morte del suo povero marito. Ah, se solo avessero potuto rimandare, per decenza verso Cyril! 
Duncan posò la mano sulla sua. «Questo è un motivo che mi induce a rispettarti ancora di più. Aspettiamo. Assolutamente». 
Era una bugia innocua, ma giunta a casa Mrs Donaldson se ne andò a letto presto e pensò che in un romanzo sarebbe stata smascherata: bastava che Duncan ne parlasse a Gwen, e il gioco era fatto.    Rifletté anche sul matrimonio. Era una rinuncia. Come quando aveva sposato Cyril, anche se all’epoca non aveva molto a cui rinunciare. Sposare il professor Ballantyne non faceva eccezione, ma stavolta c’erano più cose da perdere. 
Stava leggendo il suo libro. Era ora di spegnere la luce, quando sentì bussare piano alla porta. 
Era Ollie, in maglietta. 
«Mi chiedevo se magari voleva venire di là, in camera». 
«Ma Geraldine non c’è». 
«Sì, è dovuta andare a Halifax. Sua sorella non sta bene. Starà via per un paio di settimane». 
Ollie attese. 
«Che ne dice?». 
«Ma l’affitto l’avete pagato. Venerdì scorso». 
«Sì, sì. Non ha capito. Che ne dice?». 
Mrs Donaldson mise giù il libro e si tolse gli occhiali da presbite. 
«Non saprei». 
«Perché “non saprei”?». 
«Perché, vedi, sono quasi alla fine del capitolo. Ma se mi dai un paio di minuti, vengo». 
«Davvero?». 
Mrs Donaldson si rimise gli occhiali. «Sì» disse. «Nessun problema». 

MRS FORBES NON DEVE SAPERE 

Come molti uomini belli, Graham Forbes aveva scelto di sposare una donna meno bella di lui, e addirittura un po’ più vecchia. 
«Si sta buttando via: ecco cosa penso» dichiarò sua madre. Ovviamente Graham non le aveva chiesto un’opinione. «Che spreco. Che spre-co! Sono o non sono sua madre? Sono o non sono una bella donna? Mi sarei aspettata una nuora alla mia altezza. Siamo sempre stati attaccatissimi, io e lui». 
«Il mio ragazzone» lo chiamava. «Il mio cavaliere». 
«Ci dicevamo tutto. Almeno credevo». 
Non avendo nulla da ribattere, il padre di Graham tacque. 
«E mi tocca pure mettere l’annuncio di matrimonio sul giornale. Capirai: “Betty”. Che razza di nome è? Margaret, ancora ancora. O Joan. Anche se devo ammetterlo: il minimo che mi aspettavo era Caroline. Ma... “Betty”!». 
In realtà come nomi Betty e Graham sono ben assortiti: terra terra, defilati, non vincolano i proprietari a una determinata posizione sulle umane vicende ? a differenza di Tessa, per esempio, o di Rory. Ma questo era un aspetto del problema: Mrs Forbes non l?avrebbe mai ammesso, eppure rimpiangeva di aver chiamato suo figlio ?Graham?. Negli anni le sue ambizioni erano cresciute e si era accorta che ?Graham? non era nemmeno un po? il nome signorile che un tempo aveva creduto. Ora avrebbe dato qualsiasi cosa per cambiarlo, proprio come aveva cambiato la sala da pranzo in rovere moro che risaliva allo stesso periodo. Ma se per sbarazzarci degli oggetti che ripudiamo ci sono i mercatini dell?usato, non esistono bancarelle che rivendano i nostri beni pi? indesiderati, come i nomi, i parenti o l?aspetto che ci ritroviamo allo specchio. 
«E fin qui...» riprese Mrs Forbes. «Ma pensa al cognome: “Green”. Betty Green. È capacissima di essere ebrea. “Green” può essere un cognome ebraico». 
«Veramente è “Greene”» obiettò Mr Forbes. «Come lo scrittore. C’è la “e” muta in fondo».    La sensibilità del padre di Graham verso le lettere mute era comprensibile, dato che muto lo era un po’ anche lui. Non a caso, la gente spesso credeva che sua moglie fosse vedova. Aveva l’aria di una donna che sapeva cavarsela eroicamente da sola; la sussistenza di un marito lasciava interdetti.    «Mi pare che lui sia cattolico». 
«Lui chi?» disse Mrs Forbes. 
«Greene: lo scrittore. È una cosa che ogni tanto salta fuori nei suoi libri». 
«Ci manca solo che sposi una cattolica». 
Secondo la madre di Graham ebrei e cattolici erano fatti della stessa pasta: gli ebrei sguazzavano tra le feste comandate, i cattolici tra i figli. 
«Probabile che lo sia» osservò il padre. «La vedo bene nei panni della suora». 
L’idea sembrava piacergli; a sua moglie meno. 
«Purtroppo non ha seguito la vocazione. Comunque, Edward, guardiamo ai fatti. Lui è bellissimo, lei no. Il matrimonio è un sodalizio: i belli si sposano tra di loro, e tutti gli altri raccattano gli avanzi». 
«C’è anche l’amore...» replicò Mr Forbes senza convinzione. 
«Certo che c’è» sbuffò Mrs Forbes. «Come no. Lei è innamorata di lui, e chi non lo sarebbe? Graham, invece, non so cosa ci trovi». 
«Magari è ricca». 
«Col golfino bucato e lo stesso collant per tre giorni di fila? Non mi pare proprio». 
«I suoi non ci sono più». 
«Questo non le vieta di portare la roba in lavanderia. Certo che se avesse avuto dei genitori avremmo potuto farci un’idea più precisa su di lei». 
«Ma li ha avuti» precisò Mr Forbes, paziente. «Come tutti. Solo che sono morti». 
«Questo lo dice lei. Dopo averla vista per la prima volta l’avranno abbandonata in un bosco, come nelle favole. Non mi fido mica, io, degli orfani. Ti ricordi la storia che abbiamo visto a teatro...». 
«L’Edipo Re. Quella però era l’antica Grecia, non Alwoodley». 
«L’antica Grecia? Ma se erano in giacca e cravatta. Lui stava in una macchina sportiva».    «Sono scelte del regista». 
«Aveva anche il telefonino». 
Mr Forbes gettò la spugna e passò in modalità muta. 
Malgrado i sospetti della futura suocera, le origini di Betty non erano affatto misteriose: era un’orfana vera e propria perché aveva perso i genitori da giovane. In vista del matrimonio Betty cercava di non pensare troppo a loro: Graham forse gli sarebbe piaciuto; il padre di Graham, sicuramente; la madre no di certo. 
«Povera me, alle nozze!» incalzò Mrs Forbes. «E pensare che quel giorno lo aspetto fin da quand’è nato. Proprio lui, sempre così pignolo! Mezz’ora per scegliere una cravatta. Scarpe a non finire. 
Che spreco assoluto. Dio solo sa come saranno i loro figli». 
«Immagino che...» mormorò Mr Forbes, assorto. 
«Che?». 
«Che ci abbiano già dato dentro». 
«Scusa?». 
«Che se la sia già fatta». 
Calò un silenzio drammatico. Era una controversia annosa: il lessico di lei, il lessico di lui, e se a lui era concesso esternare su quell’argomento. 
«Vuoi dire che “hanno fatto l’amore”, vero? Preferisco non pensarci affatto». 
Mr Forbes iniziava a prenderci gusto. «Lei dev’essere un po’ una che la dà via». 
«“Una che la dà via”? Edward! Quando imparerai che non devi usare questo linguaggio?».   «Graham lo usa». 
«Graham è diverso. Lui è giovane, bello, con una gran macchina. Lui vive al massimo e parla di conseguenza. Lui può dire “tipo”, “tipa”, “tosto”, e tutte quelle cose che dicono i giovani. Tu no. L’altra sera dai Maynard ti ho sentito, sai? Te ne sei uscito con “tette”. Sei troppo vecchio per dire “tette”». 
«Ah sì? E quand’è che si supera l’età? Quanti anni bisogna avere per poterlo ancora dire?».    «Non è solo questione di anni, Edward. C’è chi lo può dire per una vita intera. Tu invece non sei mai stato abbastanza... fico». 
«Si dice così, adesso?». 
«“Fico”, “glamour”, “super”! Tutte qualità tipiche di Graham». 
Ironia voleva che Mr Forbes fosse assai meno schizzinoso della moglie in merito alla fidanzata del suo fichissimo figliolo, ma altrettanto scontento che si sposasse... anche se per ragioni diverse. Dopo le nozze, infatti, si sarebbe ritrovato in bal?a esclusiva di sua moglie: una sorte che lui paventava, e lei attendeva con interesse. ?Con Graham fuori di casa, almeno noi due potremo ritrovare il nostro rapporto. Magari mi spieghi come funziona questo Internet, visto che ti ci attacchi tutto il santo giorno. Insomma, la vita bisogna viverla?. 
Mr Forbes, che aveva appena fatto una nuova e sconveniente amicizia in quel di Samoa, capì che tutto il suo piccolo mondo furtivo sarebbe finito in una bolla di sapone. Chiuse scrupolosamente la porta e si sedette davanti al computer. Meglio spassarsela finché si poteva. Qui almeno era permesso parlare di «tette». 
E poi non sbagliava nel chiedersi se Betty fosse ricca: lo era. Graham lo sapeva, perché faceva il bancario. 
«Lui non fa il bancario» precisava sua madre. «Si occupa di investimenti». 
Graham aveva conosciuto Betty quando era andata a chiedergli consiglio dopo la morte di suo padre. 
«Quelle cose che voi chiamate “azioni”... lo sa che mio padre faceva la collezione? Ne aveva addirittura alcune del Giappone». 
«Sono titoli di borsa, Miss Greene,» aveva detto Graham «non francobolli. Comunque, mi permetta di essere il primo a farle i complimenti. Lei è ricca. Suo padre non c’è più, è vero, ma per il resto può ritenersi fortunata». 
«Non capisco» aveva replicato Betty, che aveva capito benissimo ma era incantata dalle mani di lui. 
«Vuole che le spieghi?». 
«Se non è un problema». 
Per farsi infinocchiare da tanta ingenuità, uno deve essere già parecchio ingenuo di suo. 
«È un ragazzo tanto semplice» diceva sua madre. «È tutta colpa mia». 
Non è necessario essere dei femministi sfegatati per criticare la scelta di Betty. Graham le piaceva perché era bello, ma non ne era innamoratissima, dal momento che anche lui si piaceva perché era bello. In fondo si poteva perdonarla: il suo patrimonio le dava accesso a un uomo che normalmente non avrebbe mai potuto conquistare. Per giunta Betty non amava il proprio cognome più di quanto lo amasse la futura suocera: era proprio ora di cambiarlo. 
Da lei accompagnato, il bellissimo Graham aveva dovuto sopportare qualche mortificazione. Lui aveva, l’abbiamo detto, una macchina sportiva, e se gli capitava di doverla lasciare in officina, il meccanico gli prestava una vecchia Ford Escort. Fermo al semaforo dentro quella carretta, sentiva su di sé come pugnali le occhiate di compatimento degli altri automobilisti. Quelle, a suo giudizio, erano le stesse occhiate che attirava quando usciva con Betty, la bruttina. Ecco perché il «periodo del fidanzamento» – così lo definiva sua madre – si svolgeva col favore delle tenebre e della lamiera: serviva a evitargli quel tipo di imbarazzo. Senza contare che lui stravedeva per la sua auto. 
Erano parcheggiati in un posticino panoramico. 
«Tua madre ce l’ha con me» disse Betty slacciandogli la cintura. 
Graham si sollevò dal sedile per farsi abbassare i pantaloni.«Le passerà. Secondo me quando saremo sposati sarà il caso di aprire un conto congiunto». 
«Cos’è?» fece la futura moglie; e anche se quello era in teoria il primo che vedeva, in realtà si riferiva al conto. 
«Un sistema per cui non ti toccherà correre da me tutte le volte che ti serviranno dei soldi». 
E viceversa, pensò Betty. «Bacio?». 
«Per incominciare. Dopo mettici un po’ di fantasia». 
Dato che Betty non aveva i genitori, Mrs Forbes dovette organizzare le nozze da sola. Fu un peso che si accollò malvolentieri, fin troppo cosciente della tragica ironia dell’evento. A suo modo di vedere il matrimonio in chiesa era irrinunciabile, se non altro per dimostrare che la sposa non era né incinta, né ebrea. Ma se il momento atteso da una vita doveva trasformarsi in una pubblica umiliazione, be’, lei non meritava quel castigo. 
«Già vedo le facce» gemette allo specchio del tavolino da trucco. I matrimoni sono eventi di primaria importanza e bisogna uscirne vittoriosi. Mrs Forbes non era particolarmente benvoluta, però aveva una nutrita cerchia di amiche della sua stessa risma. Molte avrebbero riso sotto i baffi davanti al suo smacco: altroché. Una lacrima le rigò la crema da notte. Mr Forbes, seduto a letto in pigiama e computer portatile, ebbe un sussulto di empatia, che fu subito rintuzzato. 
«Hai parlato con Graham?» gli chiese Mrs Forbes. 
«Ancora no». 
«“Ancora no”! Che razza di padre sei?». 
«Deve sposarsi in chiesa, giusto?». 
A nessuno era venuto in mente di chiedere a Betty se voleva un matrimonio religioso. A lei sarebbe piaciuto il rito civile e a Graham anche, ma fino a un certo punto: in considerazione di sua madre e, non da ultimo, dei regali di nozze, secondo lui bisognava fare uno sforzo. 
Mrs Forbes si trascinò a letto. «Almeno non si sposa in bianco! Con quella pelle così scura, la gente penserebbe che è indiana». 
«Comunque, se deve essere in chiesa,» disse Mr Forbes «spero che seguano il rito tradizionale».    «E cosa dovrebbero seguire? Il codice della strada?». 
«Forse ti è sfuggito che la messa è cambiata. Per esempio, adesso devi dare la mano ai tuoi vicini». 
«Se non ricordo male, di vicini non ce n’è quasi mai. A messa io ci ho sempre trovato quattro gatti». 
«E poi dovranno andarci almeno due volte, per le pubblicazioni. Spero...» e questa volta Mr Forbes selezionò i termini con cura «spero che conoscano i fatti della vita». 
«Graham ha ventitré anni». 
«Il canonico Mollison non si ferma davanti all’età». 
Il canonico Mollison era un uomo anziano. La sua grande passione di sempre era la locomotiva a vapore e la sua versione dei fatti della vita, che dispensava da molti anni, si imperniava su stantuffo, cilindro e valvola: utile, se uno voleva andare da Londra a Darlington, ma di nessuna preparazione alle fatiche del matrimonio moderno. 


Mr Forbes passava raramente del tempo con suo figlio. Non erano mai andati a bere qualcosa insieme e nemmeno alle partite di calcio, come in teoria devono fare padri e figli. Graham era un vero e proprio cocco di mamma e suo padre lo considerava, se non una spia al soldo della madre, sicuramente un suo inviato sul campo. Così in sua presenza tendeva alla cautela. 
Poiché il tight era d’obbligo, Mrs Forbes li spedì tutti e due a noleggiarlo. Fu un momento difficile, che divenne ancor più critico quando in negozio diedero per scontato che avrebbero condiviso volentieri un’unica saletta di prova. 
Mr Forbes, che era un uomo riservato, non vedeva suo figlio svestito da quando era bambino, e tanto meno l?inverso. I due tight erano appesi l?. Graham, ringalluzzito dalla presenza di numerosi specchi a figura intera, si spogli? in un baleno e rest? in mutande. Mr Forbes, al contrario, ebbe qualche esitazione, e solo quando suo malgrado si fu tolto i pantaloni, scopr? che quelli del tight erano scomparsi. 
In attesa che glieli trovassero, rimase seduto come un povero derelitto su una panca, dove si sent? avvizzito e grassoccio, e cerc? fino allo spasimo di nascondere le gambe dalle vene blu. Precauzione inutile, perch? Graham non gli faceva caso; era troppo assorbito dalla sua molteplice immagine riflessa e dai pantaloni che gli avevano dato, a suo parere troppo larghi per esaltare correttamente la sua figura. E proprio adesso che il futuro sposo si sistemava e risistemava i genitali davanti a uno specchio, a Mr Forbes tornarono in mente le direttive di sua moglie: 
«Tua madre dice che tu e Betty dovete andare a parlare col canonico» disse a Graham. 
«E perché?». Graham si infilò una mano nei pantaloni per vedere se gli donava di più a destra o a sinistra. 
Mr Forbes si guardò le gambe flaccide. Doveva chiedere a suo figlio se aveva già fatto l’amore con la fidanzata, ma dal momento che Graham era l’alter ego di sua madre andò in cerca delle parole più idonee. 
«Avete già consumato?». 
«Molto». 
«Tua madre dice di non farlo sapere al canonico». 
«Non sarà così maleducato da chiedercelo». 
Graham si sfilò i pantaloni scoprendo senza ritegno il basso ventre, e Mr Forbes guardò da un’altra parte. In realtà non avevano consumato nel vero senso del termine, però avevano fatto praticamente tutto il resto. Tanto Graham non l?avrebbe detto n? al canonico, n? a sua madre.   Arrivarono i pantaloni di Mr Forbes e gli donarono la forza d’animo che gli mancava: quella tipica di un buon genitore. 
«Graham, se vi sposate in chiesa il canonico vuole che fingiate di credere in Dio. Lo sappiamo tutti che è solo una cosa decorativa. Hai presente le hostess che prima del decollo fanno il discorso sulla sicurezza? Ecco: Dio sta nell’alto dei cieli e il salvagente sotto la poltrona». 
«Non capisco cosa c’entra se siamo andati a letto o no». 
«All’età del canonico Mollison» spiegò Mr Forbes con calma «uno dei pochi vantaggi del mestiere è potersi impicciare della vita sessuale dei giovani. In qualsiasi altro contesto ti arrestano; se sei prete, passa per assistenza spirituale». 
«Che brutto mestiere». 
Graham constatò di essere uno schianto. Solo allora si staccò a malincuore dalla propria immagine allo specchio e ispezionò brevemente il padre. Poteva andare. 
A tempo debito i due fidanzati andarono in chiesa, fecero le pubblicazioni e poi ebbero il famoso incontro col canonico. Betty scoppiò a ridere appena fuori. Si era trattenuta per tutto il tempo, mentre Graham si era solo annoiato. Poi lei gli fece notare il lato comico della faccenda e lui, che non si era mai imbattuto in una donna spiritosa, si rese conto per la prima volta che Betty poteva anche piacergli. 


La sera prima delle nozze Graham era a letto con un ragazzo di nome Gary, o almeno così gli sembrava che si chiamasse. Aveva un bel fisico: un corpo fresco, duro, di proporzioni eccelse. Nel contemplare la sua schiena silenziosa, Graham decret? che era fatto come gli eroi della mitologia classica. 
«Mi sembra che non ci siamo persi in chiacchiere» osservò. 
«Mmm?» fece il ragazzo, mezzo assopito. 
«Niente. Stavo pensando ad alta voce». Forse non si chiamava Gary, ma Trevor. Graham provò a dirlo piano: «Trevor». Nessuna reazione. Il dorso levigato si alzava e si abbassava. Effettivamente tante persone (cioè, tanti ragazzi) non si mostravano particolarmente grati se pronunciavi il loro nome. In questi frangenti i nomi passavano in secondo piano, insieme a tutto il resto. 
Gary-barra-Trevor portava al collo una catenina d’argento con un ciondolo lungo e sottile, che ora doveva trovarsi da qualche parte fra il suo torace e il cuscino. Probabile, rifletté Graham, o almeno possibile che su quella striscetta di metallo fosse inciso il nome del proprietario. A forza di carezze, iniziò a spostarsi quatto quatto in un’altra regione della vasta schiena, nel tentativo di agganciare la catenina e portare allo scoperto il ciondolo. Contava sul sonno del ragazzo, visto che la manovra non era facile da dissimulare, e nemmeno poteva entrare nel novero dei giochi erotici a lui noti, o essere così interpretata. Anche se per quel tizio la curiosità verso un suo accessorio doveva pur rappresentare un complimento. 
Graham gli staccò con delicatezza la catenina dal collo e la tirò piano per liberarla da un ricciolo. Perfino le sue orecchie erano perfette, o almeno l’orecchio visibile: semplice, lineare, il lobo ricoperto da una leggera lanugine bionda. Il ciondolo emerse, leggermente inumidito dal calore del corpo. Un lato era vuoto. Graham lo girò. 
«Shirley» disse il ragazzo. «La scopo tutti i venerdì». 
«E com’è?» chiese Graham. «Bello?». 
«Lei dice di sì». 
«Perché di venerdì?». 
«Perché suo marito va a giocare a squash». 
Ci fu un momento di silenzio, durante il quale Graham se li immaginò insieme.   «Ti piace» riprese il ragazzo. 
«Cosa?». 
«L’idea di me e Shirley». 
«Perché?». 
«Lo sento, che ti piace». 
«Veramente» puntualizzò Graham «stavo solo guardando la tua schiena». 
«Eh già. Faccio nuoto. Accarezzami il sedere». 
Graham glielo accarezzò, seppur preso dal vago desiderio di ricordare il nome del proprietario. In ogni caso, decise, non guastava mettere in chiaro che anche lui aveva altra carne al fuoco.   «Io invece mi sposo domani mattina». 
«Sicuro di esser pronto per l’altare?» domandò il presunto Trevor. 
«Come fai a sapere che ci sposiamo in chiesa? Potevamo anche andare in comune».   «Permettimi di augurarvi ogni felicità. No, non lì. Sotto, vicino alle cosce. È una delle zone erogene meno conosciute». 
Sentendolo dire «zone erogene» Graham stabilì che il ragazzo non poteva chiamarsi Trevor e iniziò a perdere interesse. 
«Anzi, magari lo scopritore sono proprio io. Se il mio sedere fosse un’orchidea, gli darebbero il mio nome». 
No. No, non poteva essere il rude camionista che trasportava pietrisco da Rochdale a Penzance, come aveva dichiarato. 
«Parli molto bene, per essere un camionista». 
«Perché nelle soste leggo. Quando vedi i camion parcheggiati, nove volte su dieci gli autisti stanno facendo proprio questo. Leggono. Ma lei com’è? Carina?». 
«No» ammise Graham. 
«Ha le tette grosse?». 
«Non tanto». 
«È incinta?». 
«No». 
«Ma allora perché la sposi?». 
«Sono altre le cose che contano» proclamò Graham. 
«Ah, puoi ben dirlo. Non fermarti; è la cosa che mi piace di più». 
Graham lo accontentò stancamente, ma cambiò discorso. 
«Che bello questo appartamento». 
«Sì». 
«Di classe, davvero». 
«Anche a me piace». 
«E che meraviglia la doccia». Prima avevano collaudato la stanza da bagno. «Ti costa molto?».   «Diciamo che ci arrivo». Il ragazzo appoggiò la testa sulle braccia. «Allora, da domani basta uomini?». 
«Non so» rispose Graham. «Dipenderà dall’ispirazione». O meglio, da quanto spazio di manovra avrebbe avuto grazie alla disparità estetica tra lui e Betty. Sarebbe passato un bel po’ di tempo prima che la gratitudine di sua moglie si esaurisse: era giusto così. 
«Immagino che questo sia il tuo addio al celibato, quindi». 
«Più o meno. Che camion guidi, tu?». 
«Un gran bel camion». 
«Non uno di quei bestioni enormi, ti prego. Lo sai quanto inquinano?». 
«Be’,» replicò il didietro senza nome «le merci bisogna pur trasportarle. Domani sera, per esempio, a quest?ora sar? a Penzance?. 
«Io no». 
«Non devi fermarti al sedere, però. Una cosa tira l’altra: è questo il gioco. Ma mi sembri distratto, Toby. Stai pensando alla tua anima gemella?». 
Graham non stava pensando alla sua anima gemella; i suoi pensieri erano al posto di sempre e si stava chiedendo perché mai toccasse a lui accarezzare. 
«In fin dei conti» disse il potenziale Trevor «preferisco il rapporto etero. Ti dà più energia. 
L’unica cosa che non tollero è sorbirmi tutte le chiacchiere, dopo. Voltati: contraccambio». 
Trevor, che in realtà si chiamava Kevin ma aveva detto Gary, accarezzò le cosce di Graham e si domandò se Toby credeva che tutto ciò fosse gratis. Il tema non era stato discusso fra le siepi dove si erano conosciuti, ma Kevin – alias Gary – aveva la sensazione che Toby – alias Graham – pensasse che lui lo facesse per gentilezza. Come chiarire il malinteso? Nel frattempo gli sfiorava la base delle natiche, lievissimamente, come lui stesso prediligeva, e bruciava di soddisfazione perché stava facendo a un altro quel che avrebbe voluto fosse fatto a lui. 
«Non mi piace così» disse Graham. «Mi fai il solletico». 
Il ragazzo abbandonò il sedere ipersensibile di Toby e si distese supino con le mani dietro la testa. Anche le sue ascelle avrebbero vinto il primo premio, pensò Graham, anche se era difficile immaginare in quale contesto. Forse in un villaggio-vacanze. O in un reality. 
«Ti piace il tuo nome?». 
«Gary?» fece Kevin. «Sì, molto. Anzi,» si sollevò su un gomito e si guardò da cima a fondo «mi piace tutto di me. I piedi, la pancia, la faccia... anche lui, chiaro. Nessuno comunque si ? mai lamentato. E gi? che siamo in argomento, forse ? ora che tu gli dedichi un po? di attenzione?. 
Ora che il corpo accanto al suo aveva un nome, Graham sentì riaccendersi la fiamma. «Giusto, Gary. Cosa vuoi che faccia?». 
«Quello che desideri, Toby» rispose Kevin. «Oh... e date le circostanze, il matrimonio e tutto, questa la offre la casa». 


Il giorno dopo, la cerimonia filò senza una sbavatura. Il canonico, che aveva già notato l’abisso estetico fra gli sposi, lo definì un matrimonio di autentico spirito cristiano. 
I banchi con gli invitati della sposa erano mezzi vuoti; non era bastato dirottarvi un po’ di gente da quelli stracolmi dello sposo. I genitori di Betty erano morti in età avanzata e molti dei suoi parenti, vegliardi anche loro, non se l’erano sentita di affrontare il viaggio verso il Nord. Era deprimente, ma, rifletté la madre di Graham, se il parentado della nuora si fosse presentato in massa avrebbe potuto confermarle i peggiori sospetti sulle sue origini etniche. 
Non c’erano damigelle. Le poche amiche di Betty non erano proprio adatte e questa fu un’altra bella fortuna, perché con le damigelle il rischio di far risaltare i difetti della sposa è sempre in agguato. In questo caso, poi, era matematico, pensò Mrs Forbes. 
Quanto ai testimoni, Graham aveva avuto l’imbarazzo della scelta; un manipolo di brillanti giovanotti diede all’evento il tocco festoso che altrimenti sarebbe venuto a mancare. Alcuni si lasciarono andare a curiosi atteggiamenti sentimentali: ci fu chi sul più bello si asciugò una lacrima, ma Mrs Forbes non se ne accorse, impegnata com’era a piangere per conto suo. I pi? sereni ? occhi perfettamente asciutti ? non furono Graham e la sposa, bens? la sposa e Mr Forbes, da lei scelto per accompagnarla all?altare. 
Loro erano raggianti. 
Al ricevimento molti amici di Graham stupirono Betty e la suocera rivelandosi ottimi ballerini. Graham invece calcò la pista con riluttanza, prima in un doveroso giro con sua madre e poi con Betty, per cedere infine il campo agli altri. Parecchi sembravano contentissimi anche di ballare da soli.   Ma a grande sorpresa l’indiscusso re delle danze fu Mr Forbes. Era sempre stato un ballerino provetto; anzi, quello era uno dei motivi per cui Mrs Forbes aveva scelto di sposare proprio lui. Ormai non aveva quasi più occasione di esibirsi, ma mentre conduceva magistralmente sua moglie in un valzer, non perdeva un colpo, nonostante il pieno di champagne. Erano una coppia strepitosa. 
Ma l’apparenza inganna: l’alcol l’aveva disinibito, regalandogli un’anomala combattività, tanto che gli era venuta l’idea di sfruttare la libertà della danza per sondare meglio i limiti consentiti del suo vocabolario. 
«Coglioni?» chiese a sua moglie sulle note di un quickstep. «Scroto?». 
Mrs Forbes, lo sguardo pietrificato, non dava segno di udire. Mantenne per tutto il tempo un sorriso tanto immobile quanto agghiacciante. Ora il suo partner volteggiava al ritmo del foxtrot e senza un’ombra di scrupolo la bombardava di volgarità. «Passera? Fica? Culo?». 
Si poteva pensare che sussurrasse parole d’amore; sarebbe stata una scena toccante. Quando la musica cessò, tutti scoppiarono in un grande applauso, che Mr Forbes accolse benignamente. Sua moglie, la mano nella mano del suo cavaliere, fece un?elegante riverenza. Non era mai stata cos? infelice in vita sua. 


Gli sposi avevano appena comperato un appartamento in cui erano impazienti di trasferirsi, perciò, anziché partire per un lungo viaggio di nozze, optarono per un weekend in un lussuoso agriturismo. 
Fino a quel momento i loro «giochini» erano stati sorprendentemente gradevoli e 
immancabilmente motorizzati, cioè ambientati sui sedili anteriori e posteriori di un’automobile: quella di Graham o quella più spaziosa di suo padre. Il fatto che Graham e Betty non fossero mai «andati fino in fondo», sempre secondo le parole di Graham, era dipeso in parte dal suo essere all’antica (almeno con le donne); del resto non aveva mai provato grande interesse per il sesso penetrativo, nemmeno nell’altra sfera. Aveva voluto rimandarlo il più a lungo possibile. 
A parte ciò, viste le sue inclinazioni sessuali, potrebbe sembrare strano che Graham non si fosse mai preoccupato del lato fisico del loro rapporto. Ma questo significherebbe dimenticare quanto era innamorato di se stesso. «Lo specchio aiuta» dicono. Uno specchio vero, cioè. Lui in effetti aveva uno specchio tutto suo, personalissimo, a figura intera, e lo portava con sé ovunque. Certo, gli altri non lo vedevano perché era virtuale, ma senza il suo accessorio Graham era una nullità. Lo specchio lo rendeva capace di qualsiasi cosa: avrebbe affrontato un plotone d’esecuzione, se solo avesse potuto vedersi. Non fu esattamente questo lo spirito con cui si preparò alla sua prima notte di nozze, ma in fondo non vedeva l’ora di potersi ammirare in azione. Quando però ispezionò la sontuosa suite, si accorse che la situazione era complicata. 
In molte delle camere d’albergo in cui Graham era stato, non sempre da solo, uno specchio collocato ad arte rifletteva il letto. Per eccitarsi gli bastava vedersi nudo sulle lenzuola, con o senza compagnia. Qui lo scenario era strepitoso: una piazza d’armi disseminata di autentico antiquariato, con un tavolino carico di «Country Life», «Tatler» e «The Field», una scatola laccata piena di cioccolatini alla menta e un’altra con una selezione di biscotti del principe di Galles. E come non citare il cesto di frutta e l’enorme vaso di peonie, gentile omaggio della direzione? Però mancava lo specchio. C’era anche un armadio imponente (acero occhio di pernice, Francia, Ottocento). Ma lo specchio no. 
E non c’erano nemmeno – Graham se ne accertò in pochi istanti mentre Betty era in bagno – i canali porno in TV. Quando era in giro per lavoro, lui alloggiava in alberghi collocabili un po’ più giù di quella specie di reggia. Ambienti meno eleganti, ma sempre dotati dei giusti film. Senza contare che le camere erano più piccole e le pareti più sottili, dunque ogni tanto capitava di sentire cosa succedeva dall’altra parte. Qui invece, con quelle tende a festoni, la tappezzeria damascata, il fratino e i biscotti di Sua Altezza Reale, tutto gridava al mondo la suprema indifferenza della casa nei confronti di interessi tanto dozzinali. Era la suite nuziale nonché un trionfo del lusso, nessun dubbio; ma regnava il buon gusto, e il sesso non era espressamente annoverato. 
L’ignara Betty risolse il problema per puro caso quando appese i suoi vestiti nell’armadio: si scoprì che sul lato interno dell’anta era montato uno specchio a figura intera. Quando lei andò in bagno, Graham fece qualche esperimento e concluse che l’anta spalancata gli avrebbe concesso una degna cronaca degli eventi. 
Betty lo trovò in attesa, pronto a interpretare il ruolo che aveva scelto: quello dello sposo compunto e solenne che alfine si impossessa del suo territorio. «Ecco...» annunciò Graham gettando via l’asciugamano «ecco quando un matrimonio inizia sul serio». 
E il matrimonio iniziò, con Betty docile e remissiva, e un’unione del tutto conforme alle aspettative. 
Purtroppo, mentre Graham contemplava i sobbalzi dei suoi glutei, l’anta si chiuse un po’ per via di quel gran dispiego di potenza amatoria, arrivando a proporgli nient’altro che un insignificante riflesso di ginocchia e caviglie. Gli toccò alzarsi due volte per porvi rimedio (senza dare spiegazioni a Betty), ma la terza decise di lasciar perdere e proseguire. Dal punto di vista della sposa fu un vantaggio, non solo perché adesso Graham aveva occhi solo per lei, ma anche perché, privato dell’immagine stimolante del suo fondoschiena, ci mise decisamente di più a concludere. 
Nella loro nudità postcoitale, Graham osservò se stesso e la moglie. Corpi belli ne aveva visti a palate nella sua giovane vita, ma pochi all’altezza del suo. Fra lui e i suoi partner le offerte sul piatto si equivalevano di rado, e in genere il contatto gli richiedeva un pizzico di condiscendenza. Fosse stato un uomo più simpatico, o meno presuntuoso, l’avremmo chiamata generosità. Ma non era il suo caso.    Di solito qui entra in gioco l’amore: che l’ineguaglianza fra i partner sia fisica, sociale o economica, amare vuol dire pareggiare la partita. Ma anche nell’unione più idilliaca ricorre l’elemento oblativo; e siccome Betty era per giunta del sesso sbagliato, secondo Graham andare a letto con lei era buon cuore allo stato puro. 
La cercò di nuovo; in fondo, non fu niente male. 
Per essere un matrimonio con poche frecce al suo arco, andò a gonfie vele. Betty era abile e fantasiosa in cucina. Mrs Forbes non era mai stata così brava, quindi fu una bella novità per Graham tornare a casa e trovare sempre pronta una cena deliziosa. In aggiunta, Betty non lo rimproverava quando trascorreva l’intera serata davanti al televisore; anzi, lei non aveva quasi mai da obiettare a niente. Il giovane marito si ritrovò ancor più viziato di prima. 
Anche al lavoro splendeva il sereno. Le nozze avevano rassicurato i superiori di Graham circa la sua serietà, il suo impegno e il suo orientamento sessuale (anche se questo aspetto non era mai stato apertamente menzionato). Betty lo accompagnò a un paio di cene fra colleghi: occasioni sconfortanti dove lei però si divertì e, lontano dalle orecchie del marito, fece colpo grazie alle sue domande intelligenti. Se poi le risposte la lasciavano scettica, badava a non lasciarlo trasparire. «La tua signora ha una bella testa» disse il project manager di Graham. «Non solo un bel faccino». Un bel faccino no, sicuramente non l’aveva, e quindi Graham non diede troppo peso all’osservazione. Piuttosto fece notare che ormai non aveva più tanto bisogno di lavorare, così i suoi capi vollero a tutti i costi offrirgli una posizione migliore. 
Non c’era motivo di lamentarsi nemmeno in altri settori. Passata la novità, il sesso coniugale può perdere smalto in fretta, ma in questo caso non andò affatto così. Graham si accorse che con sua moglie gli si aprivano molte più possibilità di quante ne avesse mai avute anche coi maschi più intraprendenti. 
Senza contare la sensazione di furto con scasso, mai sperimentata prima. 
Gli abiti, per esempio. Se in passato un ragazzo l’avesse mai incaricato di venire a patti con cerniere, bottoni, pantaloni, eccetera, la svestizione di Betty non sarebbe stata una sorpresa. Ma Graham non aveva mai dovuto assolvere a quel compito, perch? i suoi partner erano sempre stati ansiosi di spogliarsi da soli al pi? presto e godere finalmente delle sue grazie. Adesso arrivava a casa dalla banca e si dava da fare prima di cena, qualche volta senza nemmeno togliersi il cappotto. Era cos? eccitante dover trafficare col parziale d?shabill? di sua moglie: sembrava davvero un?effrazione. La sensazione lei gliela costruiva ad arte, ma Graham non era abbastanza sofisticato da accorgersene. E poi gli ostacoli erano anche naturali, dovuti alla sua scarsa familiarit? con la geografia della regione e la funzione dei suoi componenti. Graham si ritrov? a pensare che le donne andavano investigate. Ma quando, bocca a bocca, armeggiava pi? in basso, s?: era proprio bello come scassinare un caveau. Alla fine riusciva sempre a entrare, eppure la combinazione rimaneva un mistero, e l?intimit? coniugale era sempre un atto piacevolmente criminoso. 
Se non abbiamo parlato di anticoncezionali, il sacrificio è dovuto solo all’arte del racconto. Nelle sue sortite Graham era sempre stato attento a non dimenticarsi del preservativo, anche quando i partner più avventati lo deridevano per la sua prudenza. Ma non c’era da stupirsi: la precisione con cui, nonostante la frenesia dei preliminari, Graham sistemava le scarpe sotto il letto, coi calzini ben riposti all’interno, doveva per forza suggerire che il suo non era quel che si dice uno spirito libero. 
Ma anche da questo punto di vista il matrimonio aveva i suoi tranquilli vantaggi: Betty prendeva la pillola o altre precauzioni sulle quali Graham non indagava, quindi il talamo nuziale non era disturbato da noiose profilassi. Così, quello che per lui doveva essere un compito ingrato finì per rivelarsi un momento inebriante, autentico, libero, e il neomarito frequentava le lenzuola a briglia sciolta. La certezza che almeno l? non si prendevano malattie gli don? naturalezza e stile. Betty, che non si era aspettata niente di eccezionale, si ritrov? oggetto di assalti prolungati, vigorosi e molto godibili. Tutto quell?ardore la sbalord?; ma nessuno era pi? sbalordito di Graham. 
Quanto a Mr Forbes, dopo il suo inqualificabile comportamento al matrimonio non la passò liscia: dovette trascorrere diversi mesi in esilio più o meno permanente nel capanno del giardino. Durante le brevi assenze di sua moglie sgattaiolava al computer e mandava bollettini tanto rapidi quanto menzogneri alla sua amica samoana col gonnellino di paglia. Ma adesso aveva una nuova amica. 


Betty si dedicò per qualche mese a sistemare l’appartamento. Risoluta, declinò le offerte d’aiuto da parte della suocera, ma con Mr Forbes fu più disponibile, ed essendo già brava al computer si fece dare una mano in altre faccende. Lo mandò a comperarle quel che le serviva, senza contare che lui era anche versato nel bricolage, oltre che una persona divertente. Lo si vide sempre più spesso a casa della nuora, dove i due davano sfogo alla propria disapprovazione in merito ai rispettivi coniugi. 
Mr Forbes aveva lasciato il lavoro presto e la sua pensione era per lui una costante fonte di angoscia, perché fluttuava insieme al prezzo delle azioni dell’azienda. Betty, che spesso lo sentiva lamentarsi della Borsa, lo persuase a mostrarle il suo portafoglio titoli. Il suocero all’inizio volle solo compiacerla, finché scoprì che ci sapeva fare davvero («Dovevo occuparmene anche per mio padre»). In pochi mesi, e fra mille risate, lei gli rimise in sesto le entrate e alla fine gliele raddoppi?. L?unica condizione fu quella di non dire nulla a Graham o a sua madre, che in fondo era la stessa cosa. Per Graham ?moglie? equivaleva a ?povera sprovveduta? e Betty aveva il buon senso di non sbandierare la propria superiorit?. 
Quella non fu la prima volta in cui Mr Forbes si chiese perché mai una ragazza così in gamba avesse scelto di sposare suo figlio. Da tempo si era convinto che le donne servissero, tra l’altro, a introdurre un’ombra di inquietudine nella vita, altrimenti placida, del maschio. Sua moglie, per esempio, era spaventevolmente sana, ma non diceva quasi mai di star bene. Difficile mettere il dito sulla causa del malessere. Spesso riguardava quel dipartimento dove forse Mr Forbes avrebbe dovuto metterlo davvero, il dito: peccato che lo facesse di rado. Eppure era anche qualcosa di intangibile, qualcosa per cui l’uomo veniva accusato di ottusità mentale e cuore arido, se non lo teneva nella primissima fila dei suoi pensieri. Secondo lui il problema era che l’uomo non era incessantemente consapevole che ci fosse un problema, perfino con una persona come sua moglie, così accanita nel farglielo notare. Ecco qual era, il problema. Ma forse lui era stato molto sfortunato. Se quello era davvero un difetto di tutte le donne, Betty faceva eccezione, perché era allegra, spiritosa e «sempre contenta come una pasqua», come Mr Forbes specificò alla sua gentile consorte. 
«Per forza: ha sposato Graham». 
Inoltre Betty non gli imponeva quelle regole di linguaggio che con sua moglie impedivano un dialogo franco e aperto. Gli capitò di dire «palle», «culo» e qualche volta anche «merda». Intrepido, si avventurò su «cazzo», o meglio su un suo derivato: «cazzeggiare». Betty non ne fu minimamente infastidita. Oltretutto lui preferiva essere chiamato Ted, ma secondo sua moglie ?Ted Forbes? era un nome da campagnolo e quindi era meglio insistere su ?Edward?. Betty inquadr? la suocera senza bisogno di istruzioni: lo chiamava Edward in sua presenza, e Ted altrimenti. Con questi accorgimenti lo autorizzava a sfogarsi come secondo lui sua moglie non gli aveva mai permesso di fare. 
Graham, invece, si era sfogato prima di prendere moglie. Difficile capire se Betty se ne fosse fatta un’idea (sarebbe sbagliato parlare di «sospetto»), perché non lasciava trapelare nulla. Il ménage coniugale offriva però qualche spunto di riflessione. 
Una sera tardi, credendola nella vasca da bagno, Graham stava guardando su Channel 4 un programma intitolato Calciatori a torso nudo. All’improvviso comparve lei, in cerca del phon. 
«Non sapevo che ti piacesse il calcio». 
«Seguo un po’ il Newcastle» ribatté Graham nel preciso momento in cui Gary Lineker scambiava la maglia con un gran bel pezzo di ex iugoslavo. 
«Mi piace di più adesso» disse Betty. 
«Chi?». 
«Gary Lineker. Gli donano, i capelli grigi. Belle gambe, comunque». 
«Non saprei» si piccò di precisare Graham. 
«Carino, questo programma. Sono spezzoni dei momenti migliori?». Dopodiché Betty se ne andò ad asciugarsi i capelli. 


«Cosa ne penseresti di fare un bambino?». La domanda giunse da lei, a letto. 
«Non è un salto nel buio?». 
«E se aprissi un’attività?». 
«Di che tipo?». 
«Online». L’aveva già aperta, ma senza dirglielo. 
Graham rimase in silenzio. 
«Dovrò pur fare qualcosa nella vita». 
«L’hai già fatto: mi hai sposato. Spetta a me fare qualcosa nella vita. Perché non provi la fotografia?». 
Betty sospirò. 
«Possiamo andare di nuovo a letto?». 
«Betty, ci siamo già, a letto». 
«È che tu non vuoi che usi certi termini». 
«Fare l’amore. Di’ “fare l’amore”». 


Affermare che Betty non avesse nutrito qualche sospetto circa le esperienze sessuali di Graham prima del matrimonio implica che quella fosse ormai acqua passata. Ma non era proprio vero: ogni tanto le scappatelle c’erano ancora, più goderecce di un tempo perché rare, ma anche perché più trasgressive e quindi temerarie, agli occhi di Graham. 
In una di queste scorribande finì a letto con un ragazzo statuario che, pur impegnandosi con tutto se stesso, aveva anche l’aria di un divertito spettatore. 
«Allora, Toby...» fece il ragazzo, nudo. «Stai sopravvivendo alle fatiche della vita coniugale?».   Fu una domanda postcoitale e turbò vagamente Graham, che pure aveva fatto attenzione a togliersi prima la fede. 
«Ma sì» rispose, incerto. 
«“Ma sì”? Non mi dice niente di buono. Senti un po’,» continuò l’altro, spostando lo sguardo più giù sull’altrettanto nudo Graham «mi sembra che ti sia cresciuto. È un po’ più massiccio, mi spiego?». 
Finalmente Graham capì che si erano già conosciuti e a un tratto si ricordò il nome, «Gary».   «Era ora». Kevin gli strinse una coscia. «L’addio al celibato, giusto?».   «Sei il camionista». 
«No, Toby: qui la memoria ti inganna. Sono il carrozziere». 
«Hai le mani morbidissime, per essere un carrozziere». 
«Metto sempre la crema protettiva». 
Ora Graham si stava ricordando davvero tutto. 
«Hai fatto carriera» disse. 
«Trovi?». 
«Siamo in un comprensorio di lusso. Prima era solo un bell’appartamento». 
«Mi piace trattarmi bene» disse Kevin accarezzandosi la pancia. «Però, Toby, tu dai troppa importanza ai beni materiali». 
Carrozziere no, pensò Graham. Un arredatore, magari. 
«E Shirley come sta?» domandò. 
«Chi?» disse Kevin. 
«Shirley. La tua amica, quella che scopi di venerdì». 
«Mai sentita. Impossibile che io abbia avuto a che fare con una Shirley, né il venerdì né qualsiasi altro giorno della settimana. Non so nemmeno se mi si alzerebbe». 
Graham notò che Gary non portava più il ciondolo ma due piastrine militari. «Sono nuove, queste» osservò. 
«Sei tu che le vedi solo adesso. Mi piacciono, danno quel tocco di battagliero... Pensa se fossimo alle Falkland, o sotto una tenda nel Deserto Occidentale». 
Appoggiato al gomito sinistro, Gary gli disegnava pigramente col dito un cerchio attorno all’ombelico. Ma quella non era una fantasia che poteva stuzzicare Graham: una volta lui e Betty l’avevano fatto in tenda davanti al belvedere sul Nidderdale e, anche se il posto era incantevole, l’evento era stato mediocre. Il fetido tè che avevano preso a Pateley Bridge non l’aveva nobilitato. 
«Spero tu non tralasci i tuoi doveri coniugali. Ti applichi sempre due volte a notte?». 
Graham, che era soddisfatto delle sue prestazioni, sorrise compiaciuto. 
«Lei sa che giochi per la concorrenza?». 
«Sì» sarebbe stata la risposta più astuta. 
«No» rispose. «Non ne sa nulla». 
«Nel caso, se la prenderebbe?». 
Graham si fece furbo. «Certo che no. Non siamo mica nel Medioevo». 
«Giusto, Toby. Sono categorie superate. Diciamolo in giro!». 
«Per me è ora di andare» concluse Graham. Allungò la mano verso i suoi abiti, ben piegati sulla sedia accanto al letto. 
«Non ti va un extra?». 
Graham guardò l’orologio. «Mi sa che non posso». 
«Lei non ci farà caso. Spiegale che ti hanno trattenuto in banca». 
«Non ti ho mai detto che lavoro in banca». 
E infatti non glielo aveva detto, anche se, ripensandoci, non riusciva a ricordare dove gli aveva detto che lavorava. 
«Tu lavori in banca; io in carrozzeria. Così va il mondo. E sempre perché così va il mondo, stavolta dovrò farti pagare. Sono cento». 
«E che cazzo!». 
«Ma se non l’hai neanche voluto...». 
Graham gli lasciò il denaro. «Sei fortunato. Non vado mai in giro con molto contante». 
«Be’, per forza: lavori in banca e hai una bella macchina». 
Graham se ne andò sentendosi a disagio. Gli aveva detto che lavorava in banca? Gli aveva detto in quale? Stavolta il gusto pepato del rischio non gli piacque per niente. 
E poi era troppo caro. Il cancello si aprì. 
In camera, Kevin memorizzò sul cellulare la targa dell’auto nuova di Toby. 


Per il momento, alla famiglia Forbes la vita sorride. Il matrimonio fila ben oltre le speranze di Graham, anzi gli dà grandi soddisfazioni. Lui fa carriera, gioca a squash con clienti importanti, partecipa a transazioni immobiliari delle quali non sempre capisce granché, ma con poche domande apparentemente naïf Betty lo aiuta a raccapezzarsi senza che ciò comprometta il suo status di «mogliettina». 
L’attività online va a gonfie vele. Per il momento la questione del figlio è stata messa nel cassetto. 
Dei cassetti si occupa ancora Ted, ovvero Mr Forbes senior. 
Ma in questa felicità generale c’è una grande assente: la madre di Graham. Ovvio, adesso che il figlio è sposato lo vede molto meno. Ogni tanto lui va a cena a casa loro se Betty, poniamo, va a un concerto. Ha una grande passione per la musica, Betty, ma non la condivide col marito («Preferisco musica meno impegnativa») bensì col suocero, che qualche volta le fa da accompagnatore lasciando che madre e figlio ritrovino il rapporto di un tempo. Queste occasioni, che pure Mrs Forbes gradisce assai, le ricordano anche quanto è diventata vuota la sua vita. 
Una volta Mrs Forbes aveva riposto le sue speranze nel web, considerandolo un succedaneo: «Il mio hobby», diceva. Ma le speranze si erano progressivamente affievolite, causa la sua totale refrattarietà alla tecnologia. 
«È semplicissimo» le ripeteva il suo mentore, sempre Mr Forbes, evitando con cura di farle premere i tasti giusti. 
«È una cosa da uomini» aveva poi concluso generosamente. Niente di pi? vero, visto l?uso che ne fa lui. La bruna e sinuosa bellezza samoana (che in realt? ? di Clitheroe) ? ben protetta dalle dita curiose ma incolte di sua moglie. 
Una donna più tenera di lei potrebbe consolarsi pensando ai nipoti che arriveranno, ma pare che non ce ne siano all’orizzonte e, quando si guarda allo specchio e si liscia la gonna scozzese sui fianchi ancora snelli, Mrs Forbes non si sente abbastanza vecchia per queste cose. Invece, nei suoi interminabili pomeriggi, sogna; sogna, e qualche volta prova la scena in cui riceve la notizia della morte improvvisa di suo marito. Crolla su una sedia come una bambola di pezza, unico segno di turbamento il fazzoletto stretto in una mano. Accusa il colpo ma non lascia trasparire i suoi sentimenti, perché il lutto impone riservatezza. Si trova perfettamente all’altezza della situazione, capace di attingere a una presenza di spirito, a un coraggio che le sue amiche non avrebbero mai immaginato... e il suo defunto consorte nemmeno. Dopo il funerale (lei, figura solitaria dietro il feretro) prende il posto di comando: vende la casa, trasloca in un appartamento, colleziona foulard, va a teatro, e tutt’a un tratto la sua vita diviene luminosa, spaziosa, confortevole. 
Al piano di sopra, e nelle poche occasioni in cui non va a trovare sua nuora, Mr Forbes si distrae scrivendo appunti su una saga di stupri e torture ambientata nell’Italia rinascimentale; prevede di metterla online a beneficio di un’altra sua nuova amicizia disdicevole scovata a Paterson, nel New Jersey. 
La gente direbbe che questo è un matrimonio felice. E lo è, all’incirca. 
Mrs Forbes si versa un altro sherry. 
Graham stava attraversando Peterborough dopo il tour delle case ipotecate pronte a ritornare in possesso della banca. Suonò il cellulare. 
«Ciao, sono Gary. Dove sei?». 
«A Peterborough». 
«Beato te. Ti diverti?». 
«No» disse Graham, reciso. 
«Dài, su! Ho letto che c’è una cattedrale normanna». 
La cattedrale, non essendo un mutuo a rischio, non rientrava nell’itinerario di Graham. 
«La tua signora come sta?». 
«Non sento» rispose Graham. «Non c’è campo». E chiuse la comunicazione.    Prima di Newark, un’altra chiamata. 
«Dove sei?». 
«Ottanta chilometri a nord di dov’ero prima, e non mi sto divertendo».    «In che senso?». 
«Mi stai chiamando di continuo». 
«Di continuo? Due volte, stando ai miei calcoli. Non sei lusingato?».   «Dovrei? Ti pago, no?». 
«Come sei grezzo! Da te non me l’aspettavo. Guarda che le persone hanno un cuore, sai?».    «Comunque oggi non posso. Non ho soldi con me». 
«E se fosse omaggio?». 
Graham era attento alle spese e abitualmente sarebbe stato tentato da un’offerta come quella, ma perfino lui capì che accettando rischiava di trasformare una compravendita in una relazione. 
«No, aspetta. Li ho trovati in un’altra tasca. Dove ci vediamo?». 
Ormai era calata la sera quando si fermò accanto a Gary, che lo aspettava in un parcheggio deserto. Kevin diede un breve abbraccio a Toby, poi lo condusse verso l?ingresso laterale di un palazzo buio e vecchiotto, dove digit? un codice ed entr?. 
Camminarono lungo un corridoio spoglio, con due file di porte identiche. «Dove stiamo andando?» chiese Graham. 
Sembrava una specie di ostello. La stanza in cui Gary lo fece entrare era a dir poco spartana: un letto, un lavandino, un armadietto, e nessun segno che fosse abitata, tanto meno da Gary. Il caldo era asfissiante. 
«Sei caduto in disgrazia» osservò Graham. 
«Oh, no; questo è solo un posto di lavoro» ribatté Kevin, bonario. Intanto si tolse i pantaloni.    «E gli altri posti cos’erano? L’appartamento lussuoso? La casa a Roundhay?». 
«Posti di lavoro anche quelli».   «Ma cos’è che fai, tu?». 
«Te l’ho detto: il carrozziere». 
Graham sistemò con cura le scarpe sotto il letto, notando la polvere e i pelucchi sul pavimento. «Non chiudi a chiave?» si informò. 
«Non serve. Non c’è nessuno, qui». 
Forse qualche altro cliente avrebbe trovato eccitante la desolazione di quel luogo, ma Graham no. 
«Che posto è questo?» insistette. 
«Te lo ripeto: un mio posto di lavoro. Togliti la camicia». 
Graham rifletté che avrebbe dovuto darli lui, gli ordini, ma se la tolse lo stesso, e si tolse anche i pantaloni. Com’era da prevedersi, fu meno piacevole che in passato; quando si negò di nuovo gli toccò addirittura litigare. Non gli ci volle molto per decidere che, pur con tutta la dedizione di Gary, quella sarebbe stata l’ultima volta. 
Gary se ne stava appoggiato al gomito; Graham disteso sulla schiena. 
«A cosa pensi?» fece Kevin. 
Graham in realtà pensava a quanto preferiva il suo letto coniugale, così intimo e sicuro, ma decise 
che non era il caso di dirlo. Si chiese invece quanto dovesse fermarsi ancora prima di potersi congedare senza essere scortese. Certo, prima bisognava pagare. 
«Come si sta da sposati?». 
«Bene». 
«E in banca come va?». 
«Bene». 
Kevin ponderò. 
«Ma dimmi: tua madre lo sa che sei gay?». 
«Sa che ho una moglie, e basta». 
Graham recuperò la sua camicia e iniziò a vestirsi, eppure Kevin non sembrava impaziente di fare lo stesso. 
«Di solito a una mamma non sfugge niente». 
«Non conosci la mia». 
«Hai ragione. Ma pensa un po’ se lo scoprisse». 
«E come? Senti, quanto ti devo? Come l’altra volta?». 
«Tu... quanto vuoi bene a tua madre?». 
Graham si alzò, soldi alla mano. «Che razza di domanda è?». 
«Mia madre di me sa tutto». 
Graham ne aveva abbastanza. «Allora, va bene come l’altra volta?». Mise giù le banconote.   Kevin le osservò, sdegnoso. «Be’, mi sa che bisognerà alzare la cifra. Stiamo pur sempre parlando di tua madre». 
«Ah no!» disse Graham. «Proprio no». Agguantò i soldi e li rimise nel portafogli. «Lascia perdere o vado dritto alla polizia». 
«Ottima idea. Non devi nemmeno fare tanta strada: sono io, la polizia. Perciò adesso spogliati, e prima di metterci al lavoro forse possiamo ridiscutere la proposta che ti ho fatto prima». 
Graham non scherzava: un’ora più tardi, quando riuscì ad andarsene, pensò di correre a sporgere denuncia. Poi stabilì che era meglio dormirci sopra e idealmente parlarne con Betty: un proposito tanto sensato quanto inconcepibile. Dopo un paio di settimane decise di denunciare il colpevole, e si preparò all’inevitabile imbarazzo. 
Il commissariato era un posto inaspettatamente accogliente: vasi di gerani all’ingresso, porte scorrevoli automatiche e una reception sobria, con una stampa di Van Gogh su una parete e una di Lowry su un’altra. L’ambiente sembrava deputato alla soddisfazione della clientela più che alla tutela della legge. 
L’agente dietro il bancone aveva i capelli bianchi e l’aria mite. Stava parlando con una donna.   «Finisco con questa signora e tra un attimo sono da lei». Indicò a Graham le sedie. «Si accomodi pure. Lì c’è il caffè. Se arrivava un minuto fa c’erano anche i croissant». 
Si rivolse alla donna. «Com’era?». 
«Chi?». 
«Il galantuomo che l’ha aggredita. Ha notato se era nero?». 
Malgrado l’atmosfera rassicurante, Graham era ancora sulle spine. Andò in cerca del bagno.   Anche quello si rivelò un ambiente di classe, con musica in sottofondo che Betty (lui no) avrebbe identificato come The Lark Ascending. Qualcuno era stato così premuroso da mettere una ciotola di pot-pourri sul davanzale, altro tocco che Graham avrebbe certo approvato, se non fosse stato distratto da pensieri più foschi. 
Quando tornò, l’agente stava concludendo e una poliziotta era in attesa.    «Le prendo appuntamento con la psicologa?» domandò la poliziotta. 
«Dice?». 
«Sì, le farà bene parlarne» rispose l’agente Valerie, e accompagnò la donna lungo il corridoio. 
«Non sempre troviamo il colpevole, ma almeno possiamo aiutare la vittima. Eccoci qui: mi scusi per l’attesa. Cosa possiamo fare per lei?». 
Graham aveva deciso di andare subito al sodo. 
«Dunque, allora...». Si protese sul bancone, bisognoso di privacy. «È un po’ complicato. Io non sono proprio gay, anzi, sono felicemente sposato. Ma mi sono messo in un pasticcio, e ora c’è una persona che mi ricatta». 
«Oh, povero me!» replicò l’agente. «La ricatta, eh? Ma questo signore lo sa in che anno viviamo? Non siamo mica nel Medioevo. Comunque lei è fortunato perché il nostro agente di quartiere è in sede; racconti tutto a lui. Un minuto soltanto: glielo chiamo». Si allontanò lungo il corridoio. «Santo cielo, cosa mi tocca sentire!». 
Graham fu rincuorato dalla reazione solidale dell’agente e si tranquillizzò all’idea di poter raccontare il suo problema. Tornò a sedersi e sfogliò a tempo perso i giornali sparsi sul tavolino. Voltando pagina sul bollettino del quartiere, si imbatté nella foto di un giovane poliziotto, aria timida ma bello nella sua divisa. Veniva premiato per i servizi resi alla collettività. Era Gary. 
Dicevano che si chiamava Kevin. E Graham, che non era aggiornato sulle conquiste del movimento per i diritti omosessuali, rimase un po’ basito nell’apprendere che la motivazione del premio riguardava soprattutto la difesa delle persone gay. Kevin/Gary aveva fatto coming out, «un atto di grande coraggio personale per un membro delle forze dell’ordine», quindi era intervenuto nelle scuole, nelle chiese e presso varie organizzazioni locali. Inoltre veniva considerato personalmente responsabile di una significativa diminuzione nel quartiere dei crimini basati sul pregiudizio. 
Graham voleva continuare a leggere, ma udì qualcuno in corridoio. Non osando voltarsi a guardare, corse giù per i gradini. Aspettò un paio di secondi atroci. Poi le porte si aprirono, e fuggì a gambe levate. 


Qualche giorno dopo, Betty cincischiava al computer. «Ti sei mai chiesto» disse «se Graham potrebbe essere gay?». 
Mr Forbes si mise gli occhiali e rifletté. «Sì,» rispose «ma poi ti ha sposato e quindi ho dedotto che mi sbagliavo». 
Era pomeriggio, ed erano a letto. 
«Ma tu da che cosa l’avresti capito?». 
«Dedica un mucchio di tempo alle sue unghie. Ma è anche vero che oggi gli uomini si mettono la crema antirughe». 
«Eh sì» concordò Mr Forbes, che la crema non se la metteva. «Lui è sempre stato sofistico, fin da bambino. Già da piccolissimo insisteva per avere l’ombrello. Comunque non mi preoccuperei. Tu gli piaci, e questo è l’importante». 
«Sì,» disse Betty «ma è gay. Ormai lo so da un po’». (Aveva tenuto sotto controllo i siti che visitava). «Mi sembrava strano che non lo sapessi anche tu». 
«È un problema?» disse Mr Forbes. 
«Non in sé. Se la cava egregiamente». 
«Per Muriel invece sì che sarebbe un problema». 
«È migliorata al computer?». 
«Ti lascio immaginare». 
Betty si accigliò. Le sue dita guizzavano sui tasti. 
«Che succede?» domandò Mr Forbes. 
Betty scosse la testa; stava visualizzando il conto personale di Graham. «Non riesco a capire. Ha fatto dei bonifici assurdi». 
Adesso Graham vedeva regolarmente Gary (non riusciva ancora a chiamarlo in altro modo), ma 
non gli aveva detto che era andato al commissariato e nemmeno che sapeva della sua ottima reputazione nel quartiere. Col mestiere che faceva, il poliziotto era ricattabile quanto lui. Ma come ribaltare i ruoli? Oltre a uscire allo scoperto, parlandone con Betty e sua madre, al momento non c’erano altre possibilità.    Il piacere che Graham avrebbe potuto trarre da quegli incontri era azzerato. Si limitava a obbedire, mesto, senza mai dimenticare che veniva umiliato fisicamente e per di più pagava quel privilegio con il suo orgoglio, che ne usciva peggio di tutto il resto. 
Il suo persecutore era infastidito da quella comprensibile mancanza di entusiasmo: secondo lui, un minimo di passione era dovuto. Ma la passione non era più contemplata, e Graham non era un bravo attore. 
«Che guastafeste» pensava Kevin. Poi, intascando altre mille sterline pensò che come risarcimento poteva andare. 
Ma col tempo la noia prevalse. Dopo un po’ iniziarono a vedersi solo per la consegna del denaro, e nient’altro. Gli effetti di questi sgraditi incontri colpirono anche Betty, perché l’esuberanza di Graham si spense. Si metteva a letto e si addormentava, anche se spesso lei si svegliava nel cuore della notte e trovava sveglio anche lui. 
All’inizio Betty pensò che fosse normale: il matrimonio stava perdendo la sua scintilla, come sempre succedeva. Ma ci furono altri cambiamenti, più preoccupanti. Spogliandosi Graham aveva sempre messo i vestiti in ordine sulla sedia o a cavallo dello schienale, e le scarpe, coi calzini dentro, sotto il letto. Il nuovo Graham adesso mollava la camicia per terra e le scarpe ovunque capitasse. Betty all?inizio si chiese se gli fosse venuto un esaurimento, ma poi decise che non era abbastanza creativo per quel genere di cose. 
Eppure un problema doveva esserci; anche le sue unghie erano un disastro. 
Nonostante la castità, l’affetto non mancava. Anzi, da quando era in difficoltà, Graham era diventato molto più gentile ed espansivo del solito. Spesso cercava conforto e rassicurazione da sua moglie, anche se non specificava mai il motivo. «È lo stress» diceva, la risposta più vicina alla verità.    «Ma è per il lavoro?». 
«No, assolutamente». 
«Non sei malato, vero?». 
Graham scuoteva la testa in silenzio. 
«Sei così buona con me» mormorava prima di cadere in un sonno agitato. Ma una sera rimase sveglio e le parlò del futuro. Le disse che non intendeva passare tutta la vita in banca e volle sapere se lei aveva mai pensato all’Australia. 
Betty non ci aveva mai pensato; Alwoodley le andava benissimo. Si preparò al «dialogo», come aveva detto lui, quando Graham saltò giù dal letto e scrutò la strada da dietro le tende. 
«Cosa c’è?». 
«Niente. Mi era sembrato di vedere una macchina, fuori». 


«All’inizio» disse Betty «credevo che rubasse i soldi alla banca e basta, ma non capivo il perché, visto che il suo conto personale è sempre ben fornito». 
Erano di nuovo a letto. Lei aveva il portatile in grembo e Mr Forbes leggeva. 
Anche se non lo disse al suocero, non era scandalizzata dai furti in sé: le cifre sottratte erano, se non proprio banali, piuttosto contenute. Graham amava far soldi e si considerava un tipo spavaldo; eppure le sue mire erano sempre state modeste, le sue ambizioni limitate. Ma non se ne era mai reso conto. Per esempio, credeva che il patrimonio di Betty fosse quello che vedeva nella sua banca; in realtà lei ci aveva messo solo gli interessi accumulati nel tempo, mentre il capitale vero e proprio si trovava da un’altra parte. Alla luce di tutto questo, le somme di cui Graham si appropriava erano irrisorie. Ciò nonostante dovevano essere restituite, e subito, prima che i suoi responsabili facessero una verifica e si accorgessero degli ammanchi. 
In verità, Betty era ingiusta. Suo marito era modesto, sì; ma Kevin, che decideva quanto denaro chiedergli, non era da meno. Avevano tutti e due pretese alquanto mediocri. 
«Quindi i soldi dove finiscono?» domandò Mr Forbes. 
«Dammi cinque minuti». 
La via più semplice sarebbe stata interpellare il diretto interessato: «Qualcuno ti sta ricattando?». Ma c’erano molte controindicazioni. Innanzitutto, la maschera di Betty sarebbe andata in frantumi: la mogliettina semplice e adorante che di soldi, di conti in banca e del mondo in generale non capiva nulla. Era già abbastanza sconsigliabile rivelare di aver controllato i suoi movimenti di banca – e dunque di saper individuare bonifici sospetti o inspiegabili –, ma dal punto di vista di Betty la cosa più nefasta sarebbe stata la trasformazione del loro rapporto, inevitabile se Graham avesse capito che lei sapeva della sua omosessualità (per quanto occasionale). Anche se privo di stimoli intellettuali, a lei il loro sodalizio piaceva cos? com?era. Se invece tutti e due si fossero dati alla sincerit?, i cambiamenti sarebbero stati troppo radicali, e anche noiosi. Non era nemmeno il caso di pensarci: Graham che si arrabbiava... lei che doveva misurare bene le parole... no: mettere le carte in tavola non era la soluzione.   «L’ho trovato» annunciò. 


Mrs Forbes si stava predisponendo a un bicchierino di sherry prima del solito, quando suonò il campanello. Era un poliziotto. 
«Buongiorno, Mrs Forbes. Sono della Prevenzione Crimini del quartiere. C’è stata un’ondata di furti in zona; stiamo facendo un’indagine sulla sicurezza delle case». 
Le mostrò il tesserino. «Posso entrare?». 
«Prego, si accomodi». 
Ma il poliziotto non entrò. Rimase in attesa sulla porta. 
«Non si offenda, Mrs Forbes, ma lei ha già commesso due errori. Primo, ha aperto subito, senza mettere la catenella di sicurezza per controllare chi fosse. Secondo, non ha degnato di un’occhiata il mio tesserino. Lo guardi un po’». 
Glielo mostrò di nuovo, e lei lo osservò con più attenzione: era l’abbonamento a una piscina, e il poliziotto – sempre che lo fosse davvero – vi era raffigurato seminudo, in costume da bagno. 
«Bella foto,» disse Mrs Forbes «ma non è quella d’ordinanza». 
«Bravissima. Vede? Qualche volta per prevenire i reati tocca commetterli. Questo è il tesserino che avrei dovuto farle vedere» e gliene consegnò un altro con la sua foto ? vestito, stavolta. C?era scritto ?Prevenzione Crimini?. 
«Ora che le ho dato le mie credenziali posso entrare?». 
«Certamente» rispose Mrs Forbes. «Stavo proprio per prendere il tè». 


«Poteva essere chiunque» commentò suo marito più tardi. 
«Sì, me l’ha detto. Solo che un poliziotto io lo riconosco subito, sai? E tu, se sei così preoccupato per la mia incolumità, potresti stare di più a casa. Quanto ti ci vuole per montare una mensola?».   «Le mensole le ho finite. Adesso sto facendo gli antispiffero». 


«Com’era fatto?» volle sapere Graham. 
«Era un gran bel ragazzo. Mi ha fatto vedere una sua foto in costume da bagno». 
«Il poliziotto? E perché?». 
«Per vedere se ci cascavo. Dopo mi ha dato quella giusta, con lui vestito. Era quello della 
Prevenzione Crimini». 
«Continui a ripeterlo. Cosa gli hai detto?». 
«Non ho dovuto dirgli niente perché sapeva già tutto. È sull’Internet».    «Sull’Internet?». 
«Ma sì, sul computer, su quelle cose lì». 
«Tu non ti rendi conto che adesso che in banca sono salito di livello siamo tutti molto più a rischio. Ci sono banditi che per farsi aprire la cassaforte prendono in ostaggio i familiari dei bancari».    «Sì, ma a Alwoodley non succede. Io gli ho detto: “Non mi piace che la polizia sappia tutto di noi”, e lui ha risposto che era solo una misura di sicurezza. Per? un paio di cose le ha sbagliate. Per esempio credeva che ti chiamassi Toby. ?Toby?? gli ho detto io, e poi gli ho raccontato di quando avevi quel cagnetto. Proprio Toby, si chiamava. Eri piccolo, te lo ricordi? Quell?affarino puzzolente che poi abbiamo dovuto dare via. Quello ? stato l?unico Toby di mia conoscenza. Ci siamo messi a ridere?. 


«Che carina, tua madre» fece Kevin. «Ti adora». 
«Sì» replicò Graham. «È l’unico motivo per cui sono qui». 
Un altro squallido parcheggio. 
«Peccato, però, che ti sei sposato. È stato un colpo, per lei». 
«Lasciala stare». 
«Scusa?». 
«Cosa vuoi da mia madre? Sto pagando o no? E allora lasciala stare». 
«Devo fare il mio lavoro. La proprietà non è protetta come si deve. Non c’è nemmeno l’allarme». 


Dopo un po’ il poliziotto si ripresentò per quella che definì una «visita di richiamo» e portò alla padrona di casa tutta la letteratura più recente sulla tecnologia laser anti-intrusione. Lei gli servì uno sherry e si accomodò con lui in salotto per discutere su dove posizionare i sensori di un eventuale sistema d’allarme. Lui salì in piedi su una sedia per indicarle le zone migliori e Mrs Forbes ebbe l’opportunità di ammirare la stessa schiena poderosa che suo figlio aveva potuto accarezzare quella fatidica sera prima del suo matrimonio. Adesso riempiva la fragrante camicia bianca della divisa, ornata da controspalline. 
Dal taschino posteriore spuntava un cercapersone. 
«Sicuro che tutta questa consulenza è gratis?». 
«Assolutamente, perché dal nostro punto di vista si ripaga da sola. Più è sicura la proprietà, meno furti ci sono, Mrs Forbes». 
Mrs Forbes gli toccò il ginocchio. «La prego, mi chiami Muriel». 
Quando un’oretta più tardi Mr Forbes rincasò, trovò sua moglie e il poliziotto sul divano, dove lei gli stava mostrando gli album con le fotografie di Graham da piccolo. 
«Questo era Toby» disse Mrs Forbes indicando uno scottish terrier tutto arruffato in braccio al bambino. «Terribile, quel cane. Aveva la mania di rotolarsi nello sporco». 


«Quel tizio conosce Graham?» si informò Mr Forbes dopo che il poliziotto se ne fu andato.    «Ma no, come fa a conoscerlo?» ribatté sua moglie. «È un poliziotto!». 


Kevin si guardò intorno in un diverso parcheggio, stavolta multipiano, e lo tenne sotto sorveglianza per almeno un’ora prima di infilarsi rapido sul sedile di fianco a Betty. 
«Cosa posso fare per lei?». 
«Sono la moglie di Graham». 
«È per questo che piange? Comunque mi dispiace ma non conosco nessun Graham. Lei forse intende Toby». 
«Forse». Betty si soffiò il naso. 
«Se si chiama Graham, perché dice di chiamarsi Toby?». 
«Quanto vuole?» disse Betty. «Quanto vuole per finirla qui?». 
Dopo dieci minuti la conversazione si concluse felicemente per Kevin, che uscì dall’auto. 
Dal lato opposto del parcheggio Mr Forbes scattò un’altra foto e spense il registratore.    «È stato un piacere fare affari con lei» disse Kevin. Cosa che non avrebbe ripetuto la mattina dopo, trovando la sua copia del CD nella cassetta delle lettere. 
«Certo che facciamo una vita avventurosa» osservò Mr Forbes mentre tornavano a casa. «Non c’ero abituato». 


Le telefonate di Gary cessarono inspiegabilmente. Senza più notizie del suo tormentatore Graham ritrovò tutta la sua energia e, con le unghie di nuovo perfette, riprese la vita di un tempo. La mancanza di ripercussioni in banca lo lasciò perplesso; quando infine indagò meglio, vide che le irregolarità finanziarie erano sparite. Normalmente confidava a Betty i suoi problemi di lavoro, ma in questo caso non lo poteva fare e quindi continuò a stare sui carboni ardenti per un po’. Alla fine decise che, siccome Kevin era un poliziotto, lui o il suo dipartimento dovevano aver rimborsato le somme rubate, per evitare problemi. 


Mrs Forbes, l’inconsapevole beneficiaria di queste manovre, rimase all’oscuro degli illeciti del figlio e dell’intelligenza della nuora, che insieme al suocero si era data da fare per mantenerla nella sua ignoranza. Preoccupazione ammirevole, in teoria, se Betty, data la sua avversione per i fastidi, non avesse pensato anche al proprio tornaconto, alla comodità di tutti in quel tipo di scenario familiare.   E poi, per quanto possa essere più difficile da capire, anche l’affetto contava. Benché mostruosa, così tirannica e snob, la madre di Graham aveva alle spalle una lunga e onorata carriera di orco, e i suoi sentimenti (anche se spesso criptici) meritavano rispetto, nonostante tutto. Non era ancora un monumento dell’antichità, ma pur sempre una sorta di cimelio; bastava questo perché la sua visione della vita e la sua coriacea barbarie meritassero di essere preservate. 
Il fatto è che Mrs Forbes non avrebbe apprezzato granché. La destinataria di tante elaborate cautele avrebbe detto che non servivano a un bel niente. Perché se il figlio diletto era omosessuale, lei non aveva bisogno di esserne tenuta all’oscuro: l’aveva sempre saputo. Prima dell’arrivo di Betty aveva sempre pensato che Graham non fosse «il tipo che si sposa», ma non si era mai data la pena di comunicarlo a suo marito. A dirla tutta, una delle colpe di Betty era proprio quella di averla costretta a rivedere la sua opinione. 
Perciò, quando Kevin sparò l’ultima cartuccia (più per ripicca che per interesse personale) e un pomeriggio andò a rivelarle finalmente il gran segreto, per Mrs Forbes non fu uno shock ma un sollievo: un ritorno all’ordine naturale delle cose. Aveva sempre avuto ragione lei. 
Diede una bella prova d’attrice dilettante mettendo in scena la sua idea di madre affranta: occhi sbarrati e mascella serrata, si mise a guardare fuori dalla finestra, meditando sul tracollo di tutte le sue speranze. Una performance tanto convincente da spingere Kevin a posarle una mano sulla spalla, per consolazione. 
Povero Kevin. 
Mrs Forbes versò uno sherry per tutti e due. Difficile dar torto a suo figlio, davanti a quel ragazzo magnifico. Graham aveva un gusto eccezionale. Il matrimonio con quella racchia di Betty era stato un passo falso, ma temporaneo, per fortuna: perch? un uomo, in una donna, cerca la perfezione, e lei, sua madre, era certa di possederla. Dal momento che le altre ne erano prive, un giovanotto come suo figlio non andava biasimato se poi scartava tutte le donne in blocco e si rivolgeva altrove. 
«Lei può dargli torto?» domandò a Kevin, ormai incastrato. «Ci vuole una donna per capirlo».    Portata alla sua conclusione logica, questa teoria del libero mercato applicata all’orientamento sessuale era poco difendibile: voleva dire che le torme dei normali delusi dovevano per forza andare a ingrossare le file dei devianti. Comunque a Mrs Forbes tutto ciò non interessava; al momento i suoi pensieri vertevano su un tipo di trasgressione più immediata e provinciale. 


In conclusione, quanto sarebbe stato più bello – e più sano – se tutte queste persone, se tutti questi parenti fossero stati più sinceri fin dall’inizio. 
Data la situazione, c’è ogni probabilità che Betty si stufi di Graham, e il divorzio sarà lo sbocco più ovvio. Ma adesso hanno due gemelli, che adorano, senza contare che un divorzio li obbligherebbe a rivelare alcune verità scomode, e nessuno dei due lo vuole. 
Che Mr Forbes ogni tanto vada a letto con sua nuora e conduca una spumeggiante vita di fantasia su Internet, inoltre, farebbe vergognare sua moglie e suo figlio, se mai venisse alla luce. Ma perché dovrebbe, poi? L’unico indizio della sua relazione clandestina è il dolore spropositato di Betty quando lui muore d’infarto qualche anno dopo. Mrs Forbes, invece, può finalmente recitare dal vero la scena dell’improvvisa perdita di suo marito e ritrovare il rapporto esclusivo che un tempo aveva con suo figlio. Finch? un giorno, dopo uno sherry di troppo, decide di cercare complicit? e mostrargli di che cosa ? 
ancora capace confidandogli che ha avuto una relazione con Kevin. In realt? ? durata meno di quanto lei afferma: l?avventura ? stata troncata, dopo pochi mesi, dalla morte di Kevin durante un inseguimento in autostrada ? una morte che pu? sembrare dettata da questioni di economia narrativa, pi? che dalla guida spericolata. Ma la rivelazione non le riavvicina Graham, che ? turbato e imbarazzato; sua madre poteva avere la decenza di tenere per s? questa notiziola di cattivo gusto. E poi la storia gli ricorda fin troppo la sua, che ? ancora ? ama pensarlo ? un segreto noto soltanto a lui. 
Graham torna a casa e racconta a Betty della passioncella di sua madre per Kevin: «un poliziotto gay». Betty, che guarda caso non è sorpresa, promette di non dirlo ad anima viva, con particolare riferimento alle anime vive dei suoi figli. Non deve nemmeno dire loro quello che Graham non le ha ancora rivelato, e cioè che papà non è come gli altri uomini e che probabilmente insisterà nel non esserlo. 
Certo, se glielo avesse rivelato non l’avrebbe mai sposata, e questa storia non esisterebbe. 
Ma il segreto più segreto di tutti – e questo solo Betty lo conosce – è che il padre dei gemelli probabilmente è il loro nonno. 
In definitiva, c’è un mare di segreti. Betty ne è la più ricca, come è ricca di tutto il resto. Ciò nonostante ognuno, se non proprio felice, almeno non è infelice. E tira avanti.