giovedì 13 luglio 2023

LA VITA È ALTROVE Milan Kundera



LA VITA È ALTROVE 

Milan Kundera

[...] Pensate che il passato, solo perché è già stato, sia compiuto e immutabile? Ah no, il suo abito è fatto di taffetà cangiante, e ogni volta che ci voltiamo a guardarlo lo vediamo con colori diversi.[...]

[...] Anche se la storia di Jaromil e di sua madre si svolge in un'epoca storica ben definita, e descritta in maniera veridica (senza il minimo intento satirico), il mio proposito non era di descrivere un'epoca. «Se abbiamo scelto quegli anni, non è stato per tracciarne il ritratto, ma solo perché ci è parso che essi costituissero una trappola di impareggiabile efficacia per Lermontov e Rimbaud, una trappola di impareggiabile efficacia per il lirismo e la giovinezza» (p. 312). In altre parole: una situazione storica è per un romanziere un "laboratorio antropologico" nel quale egli si concentra sulla sua domanda fondamentale: "Che cos'è l'esistenza umana?" Nel caso del presente romanzo, a questa domanda ne fanno seguito molte altre ad essa collegate: Che cos'è l'atteggiamento lirico? Che cos'è la giovinezza? Che parte misteriosa ha la madre nella formazione del mondo lirico di un giovane? E se la giovinezza è il tempo dell'inesperienza, qual è il rapporto tra inesperienza e brama di assoluto? O tra brama di assoluto e fervore rivoluzionarlo? E come si rivela l'atteggiamento lirico nell'amore? Esistono «forme liriche» dell'amore? Eccetera, eccetera. 

A tutte queste domande il romanzo naturalmente non dà risposta. La risposta è già nelle domande stesse, perché, come dice Heidegger, l'essenza dell'uomo ha la forma di una domanda.[...]


Recensione

Pina Bertoli. Ilmestieredileggereblog

[...] In fin dei conti, che cosa è rimasto di quel tempo lontano? Per tutti, oggi, quelli sono gli anni dei processi politici, delle persecuzioni, dei libri all’indice e degli assassinii giudiziari. Ma noi che ricordiamo dobbiamo portare la nostra testimonianza: non fu solo il tempo del terrore, fu anche il tempo del lirismo! Il poeta regnava a fianco del carnefice. Il muro dietro il quale erano imprigionati uomini e donne era interamente tappezzato di versi, e davanti a quel muro di danzava. Ah no, non era una danza macabra. Lì danzava l’innocenza! L’innocenza col suo sorriso insanguinato.[...]  (pag. 311)

Lo scrittore ceco naturalizzato francese Milan Kundera, autore del best seller internazionale ‘L’insostenibile leggerezza dell’essere‘, è morto a Parigi all’età di 94 anni. Ripropongo oggi, per salutare questo gigante della letteratura mondiale, la recensione di uno dei suoi libri che avevo pubblicato tempo fa.

Un libro impegnativo. Bisogna stringere un patto con l’autore: leggere bene la prefazione, accettare i presupposti, e lo stile; fatto ciò, si riceve in cambio un romanzo di grande intensità e intelligenza, che ruota attorno alla figura del poeta e dell’età lirica, e che scaturisce una lunga serie di domande. Ma, attenzione, avverte l’autore: “A tutte queste domande il romanzo naturalmente non dà risposta. La risposta è già nelle domande stesse, perché, come dice Heidegger, l’essenza dell’uomo ha la forma di una domanda.”

Un “romanzo-saggio”, che alterna la narrazione romanzesca a parentesi saggistiche. Come laddove narra in maniera didascalica la vita di altri poeti famosi, come Shelley, Rimbaud e Lermontov, sottolineandone le analogie con la vita del protagonista. Poeti giovani, sostenitori di una rivoluzione, pronti ad immolarsi per una causa, e con una figura materna importante e predominante nelle loro vite. Un procedere narrativo che spiega, con dovizia di particolari – non si fida del lettore? – e un atteggiamento quasi paternalistico, tutti i risvolti di decisioni, pensieri, convinzioni maturati nei protagonisti.

Il romanzo è ambientato nella Cecoslovacchia – a Praga – che passa attraverso l’invasione nazista, la guerra e le chimere di una rivoluzione socialista che si tramuta presto in un regime poliziesco liberticida. Racconta la storia della breve vita del giovane Jaromil, ironicamente soprannominato dall’autore il poeta. Jaromil è figlio unico e viene cresciuto come un bambino viziato da una madre eccessivamente protettiva e frustrata dal rapporto col marito – costretto a sposarla e che avrebbe preferito sbarazzarsi della gravidanza.

Il rapporto con la madre è il fulcro attorno a cui si costruisce il carattere, e il futuro, del ragazzo. Lei gli costruisce e cuce addosso il suo ideale di figlio, nel quale, suo malgrado, Jaromil scivola pian piano. Vorrebbe poter e saper vivere la sua vita, ma è costretto a convincersi di essere diverso – cioè migliore, superiore – da tutti gli altri, di avere un dono che lo eleva. In realtà, tutto questo lo costringe a vivere “altrove”: nel sogno, nel futuro, nella poesia, ovunque ma non non nella realtà.

A causa di alcune ardenti delusioni e della incapacità a costruire rapporti interpersonali, il poeta ha la tendenza ad evadere dalla realtà, a trasportarsi verso un mondo immaginario straordinariamente poetico, un altrove che diventa un luogo non definito e ricorrente, avulso dalla realtà.

Sono un poeta, sono un grande poeta, dice a se stesso, e poi lo scrive anche nel diario: ‘Sono un grande poeta, possiedo una grande sensibilità, un’immaginazione demoniaca, sento quello che gli altri non sentono…

Dopo la parentesi da aspirante pittore di uomini cinocefali, nella sua fuga dalla quotidianità comincia a scrivere poesie e racconti, creando le avventure di un personaggio temerario e vincente, Xaver. Jaromil si immedesima a tal punto nel suo personaggio da arrivare a immaginare di vivere una vita parallela poetica e romantica, che fa da contraltare a una realtà che lo lascia profondamente insoddisfatto.

Primavera di Praga, 1968

Durante gli anni del secondo dopoguerra, con la presa del potere da parte dei comunisti in Cecoslovacchia, il protagonista trova una dimensione a lui congeniale. All’ultimo anno del liceo si iscrive al circolo marxista, dove riesce ad ottenere ammirazione e seguito grazie alla sua capacità di sciorinare teorie estetiche. Finalmente ottiene il successo che ha sempre cercato diventando – involontariamente – un poeta di regime, scrivendo versi in sintonia con l’imperante realismo socialista, sulla costruzione di centrali elettriche e macchinari agricoli. Aderendo all’idealismo comunista, che aveva come obiettivo quello di modellare ed educare ideologicamente la popolazione nello spirito del socialismo, e inebriato dal successo, Jaromil perde ancora di più il contatto con la realtà. Diviene un delatore del regime, tenendo sotto controllo le posizioni dei suoi insegnati all’università; impone un rapporto tirannico alla sua ragazza, insomma, agisce sulla base di ciò che ha ricevuto come educazione distorta. Quando arriva a convincersi di essersi completamente identificato con il suo eroe immaginario, Xavier, viene bruscamente riportato alla realtà dal suo vecchio maestro, che gli infligge una grottesca umiliazione; finché, poco meno che ventenne, il poeta muore.

Durante gli anni dell’adolescenza, la madre, vista la sua “predisposizione” per l’arte, lo aveva mandato a lezione da un pittore; con lui, Jaromil, archiviate le velleità figurative, costruisce un rapporto conflittuale che si acuisce quando il poeta diventa un “convinto” assertore dell’arte popolare socialista.

In uno degli incontri tra artisti, il pittore critica aspramente la rivoluzione proletaria e le sue conseguenze sull’arte: “Una rivoluzione che fa risuscitare dalla tomba l’arte accademica e fabbrica a migliaia di esemplari busti degli uomini di Stato non ha tradito soltanto l’arte moderna ma prima di tutto se stessa. Una rivoluzione del genere non vuole trasformare il mondo, ma al contrario, vuole conservare lo spirito più reazionario della storia, il fanatismo bigotto, la disciplina, il dogmatismo, la fede e le convenzioni.”

Jaromil – ormai completamente entrato nel personaggio che vuole essere – invece approva il fatto che le poesie di Baudelaire vengano messe all’indice insieme a tutta la letteratura moderna e che i quadri cubisti spariscano dalle gallerie perché “la rivoluzione è violenza e le cose vecchie devono far spazio a quelle nuove.”

Nel romanzo – come preannunciato nella prefazione – Kundera prende – provocatoriamente – una posizione rispetto al destino del poeta:

Per una sorta di satanica ironia della storia, l’ultimo breve periodo europeo nel quale il poeta recitò ancora la sua grande parte pubblica fu il periodo delle rivoluzioni comuniste dell’Europa centrale nel secondo dopoguerra. (..) Erano convinti di recitare la loro parte di sempre nel glorioso dramma europeo, ed erano ben lungi dal sospettare che all’ultimo momento il direttore del teatro avesse cambiato il programma sostituendolo con una farsa.

Lui stesso fu testimone di quella era dove “il poeta regnava a fianco del carnefice” (leggi la considerazione di Paul Éluard, cfr il Libro del riso e dell’oblio).

Dunque, “l’età lirica” – titolo originario del romanzo, poi cambiato per volere dell’editore – altro non è se non l’intreccio tra lirismo e rivoluzione, perché l’età lirica è la giovinezza, ed è nell’età lirica che la vita è sempre altrove, che deve compiersi, come la rivoluzione. Non a caso, la frase è una celebre frase di Rimbaud, citata da André Breton nel suo Manifesto del Surrealismo, ripresa nel maggio del 1968 dagli studenti della Sorbona.

Nato a Brno, nell’allora Cecoslovacchia (attualmente in Repubblica Ceca), il 1º aprile 1929, Milan Kundera era figlio di Ludvík (1891-1971), un noto pianista, direttore dell’Accademia Musicale di Brno. Milan studia musica fin da bambino, in particolare pianoforte e la passione per la musica tornerà spesso nei suoi testi letterari. Dopo aver frequentato i corsi di letteratura e filosofia all’Università Carlo di Praga, Kundera passa alla Facoltà di Cinematografia dell’Accademia delle arti drammatiche e musicali di Praga, dove si laurea nel 1958 e ne divenne docente con l’incarico del corso di Letterature comparate (1958-69).

Iscritto fin da studente al Partito comunista viene espulso due volte (nel 1950 e nel 1970) per le sue idee estranee alle linee ufficiali del canone ideologico imposto dal regime del socialismo reale. Nel 1968 si schiera con il movimento di riforma della cosiddetta ‘Primavera di Praga’: dopo l’intervento sovietico in Cecoslovacchia Kundera non poté più pubblicare e nel 1970 fu licenziato perdendo il posto di docente.

Nel 1975 è emigrato in Francia, ove ha insegnato alle università di Rennes e di Parigi, dove ha vissuto fino alla morte con la moglie Vera Hrabanková. Nel 1979, a seguito della pubblicazione de Il libro del riso e dell’oblio, gli fu tolta la cittadinanza cecoslovacca. Nel 1981, grazie a un interessamento da parte del presidente francese François Mitterrand, ottenne quella francese. Nel 2008 un documento rinvenuto a Praga negli archivi della Polizia e ritenuto attendibile testimonia di una sua delazione, nel 1950, nei confronti di un ventenne impegnato in un’ingenua operazione di “spionaggio” tra Germania Ovest e Cecoslovacchia; il giovane venne poi condannato a 22 anni di lavori forzati. Kundera ha sempre negato ogni responsabilità nella vicenda.

Dopo la Primavera di Praga le sue opere sono state proibite in Cecoslovacchia; i suoi romanzi più recenti li ha scritti in lingua francese e non ha concesso a nessuno i diritti di traduzione in lingua ceca. Per questa ragione, l’Autore ha subito forti critiche in patria, persino negli ambienti del dissenso, sin dall’atto della pubblicazione nel 1984 del suo più clamoroso successo, L’insostenibile leggerezza dell’essere, in Francia. Bisognerà attendere sino al 2006 affinché Kundera dia il permesso di pubblicazione del romanzo anche nella Repubblica Ceca, tramite un’edizione anastatica di quella pubblicata in ceco a Toronto già nel 1985.

Dopo tre volumi di poesia (i primi due alquanto radicati nella realtà politica del tempo), un testo teatrale che sembra forse risentire del pensiero sartriano, e un saggio sulla prosa di Vladislav Vančura, Kundera ottiene un certo successo a partire dal 1963 con il primo dei tre volumi di racconti degli Amori ridicoli (poi riuniti in un unico volume nel 1970), che si fanno notare per la loro satira pungente e corrosiva, e poi soprattutto col suo primo romanzo, Lo scherzo. Uscito nel 1967 mentre il paese sta attraversando i forti cambiamenti che porteranno alla cosiddetta “Primavera di Praga”, il libro è un’amara ricostruzione della realtà cecoslovacca del secondo dopoguerra, e vince il premio dell’Unione degli Scrittori Cechi.

Kundera tornerà ancora a teatro con tre opere, l’ultima delle quali sarà Jacques e il suo padrone, variazione da Jacques il Fatalista di Denis Diderot, ma sarà soprattutto il romanzo e la saggistica a interessarlo. Nei successivi romanzi, soprattutto in quelli del periodo francese, Kundera svilupperà un proprio stile personale, quello del “romanzo-saggio”, alternando cioè elementi tipicamente narrativi a vere e proprie parentesi saggistiche.


Libri pubblicati in Italia (vedi catalogo Adelphi):

Lo scherzo (1969) [Žert, 1967] [R.]

Amori ridicoli (1973) [Smešné lásky, 1969] [Rac.]

La vita è altrove (1976) [Život je jinde, 1973] [R.]

Il valzer degli addii (1977) [Valčík na rozloučenou, 1972] [R.]

Il libro del riso e dell’oblio (1980) [Kniha smíchu a zapomnění, 1978] [R.]

L’insostenibile leggerezza dell’essere (1985) [Nesnesitelná lehkost bytí, 1984] [R.]

Jacques e il suo padrone: omaggio a Denis Diderot (1986) [Jakub a jeho pán: Pocta Denisu Diderotovi ,1971 Jacques et son maître, hommage à Denis Diderot, 1985)] [T.]

L’arte del romanzo (1988) [L’Art du roman , 1986] [S.]

L’immortalità (1990) [Nesmrtelnost, 1990] [R.]

I testamenti traditi (1992) [Les Testaments trahis, 1992] [S.]

La lentezza (1995) [La Lenteur, 1995] [R.]

L’identità (1997) [L’Identité, 1997] [R.]

L’ignoranza (2001) [L’Ignorance, 2001] [R.]

Il sipario (2005) [Le Rideau, 2005] [S.]

Un incontro (2009) [Une rencontre, 2009] [S.]

La festa dell’insignificanza (2013) [La fête de l’insignifiance, 2013] [R.]

Un Occidente prigioniero (2022) [Un Occident kidnappé ou la tragédie de l’Europe centrale, 1983]


LA VITA È ALTROVE

PREFAZIONE

Di Milan Kundera

«La vita è altrove» è una celebre frase di Rimbaud. André Breton la cita nella conclusione del suo Manifesto del Surrealismo e nel maggio del 1968 gli studenti parigini l'adottarono come slogan e la scrissero sui muri della Sorbonne. Ma il titolo originale del mio romanzo era "L'età lirica". Lo cambiai all'ultimo momento, di fronte all'espressione dubbiosa dei miei editori che temevano di non riuscire a vendere un libro con un titolo così astruso.

L'età lirica è la giovinezza. Il mio romanzo è un'epica della giovinezza e un'analisi dì ciò che io chiamo «atteggiamento lirico». L'atteggiamento lirico è una potenzialità di ogni essere umano e una delle categorie fondamentali dell'esistenza umana. La poesia lirica come genere letterario è antica di secoli, perché antica di secoli è nell'uomo la capacità di assumere l'atteggiamento lirico. La sua personificazione è il poeta.

A cominciare da Dante, il poeta è anche una grande figura che attraversa tutta la storia europea. E' un simbolo di identità nazionale (Camoes, Goethe, Mickiewicz, Pushkin), è un portavoce delle rivoluzioni (Béranger, Petöfi, Majakovskij, Lorca), è la voce della storia (Hugo, Breton), è un essere mitologico cui si tributa un culto pressoché religioso (Petrarca, Byron, Rimbaud, Rilke), ma è soprattutto il rappresentante di un valore inviolabile che noi siamo pronti a scrivere con l'iniziale maiuscola: la Poesia.

Ma che cosa è accaduto al poeta europeo nell'ultimo mezzo secolo? Oggi la sua voce stenta ad arrivare alle nostre orecchie. Quasi senza che ce ne accorgessimo, il poeta ha lasciato la vasta e rumorosa scena del mondo (la sua scomparsa parrebbe uno dei sintomi della pericolosa epoca di transizione in cui si trova l'Europa e alla quale non abbiamo ancora imparato a dare un nome). Per una sorta di satanica ironia della storia, l'ultimo breve periodo europeo nel quale il poeta recitò ancora la sua grande parte pubblica fu il periodo delle rivoluzioni comuniste dell'Europa centrale nel secondo dopoguerra.

E' importante sottolineare che queste strane pseudorivoluzioni, importate dalla Russia e compiute sotto la protezione dell'esercito e della polizia, erano piene di psicologia rivoluzionaria autentica e furono vissute dai loro aderenti con grande pathos, entusiasmo e fede escatologica in un mondo assolutamente nuovo. Per l'ultima volta i poeti si trovarono sul proscenio. Erano convinti di recitare la loro parte di sempre nel glorioso dramma europeo, ed erano ben lungi dal sospettare che all'ultimo momento il direttore del teatro avesse cambiato il programma sostituendolo con una banale farsa.

Io fui testimone in prima fila di quell'èra dove «il poeta regnava a fianco del carnefice» (p. 311). Sentii un poeta che ammiravo, Paul Éluard, rinnegare pubblicamente e formalmente i suoi amici praghesi mandati al capestro dalla giustizia stalinista. Questo episodio (di cui scrissi nel "Libro del riso e dell'oblio") mi traumatizzò: quando un boia uccide, la cosa in fin dei conti è normale- ma quando un poeta (e per di più un grande poeta) accompagna l'esecuzione col suo canto, l'intero sistema di valori che noi consideriamo sacrosanto viene d'un colpo scardinato. Le certezze scompaiono. Tutto diventa problematico, discutibile, soggetto all'analisi e al dubbio: il Progresso e la Rivoluzione. La Giovinezza. La Maternità. Persino l'Uomo. E anche la Poesia. lo vedevo davanti a me un mondo di valori traballanti e nella mia mente, con gli anni, prese gradatamente forma la figura di Jaromil, con sua madre e i suoi amori.

Non dite che Jaromil è un cattivo poeta! Sarebbe una spiegazione troppo facile della storia della sua vita! Jaromil è un poeta di talento, ricco di immaginazione e di emozioni. Ed è un giovane sensibile. Naturalmente, è anche un mostro. Ma la sua mostruosità si trova in potenza in tutti noi. E' in me. E' in voi. E' in Rimbaud. E' in Shelley, in Hugo. In tutti giovani uomini, di tutte le epoche e di tutti i regimi. Jaromil non è un prodotto del comunismo. Il comunismo è servito solo a illuminare un lato altrimenti nascosto, ha liberato qualcosa che in circostanze diverse avrebbe continuato a dormire tranquillamente.

Anche se la storia di Jaromil e di sua madre si svolge in un'epoca storica ben definita, e descritta in maniera veridica (senza il minimo intento satirico), il mio proposito non era di descrivere un'epoca. «Se abbiamo scelto quegli anni, non è stato per tracciarne il ritratto, ma solo perché ci è parso che essi costituissero una trappola di impareggiabile efficacia per Lermontov e Rimbaud, una trappola di impareggiabile efficacia per il lirismo e la giovinezza» (p. 312). In altre parole: una situazione storica è per un romanziere un "laboratorio antropologico" nel quale egli si concentra sulla sua domanda fondamentale: "Che cos'è l'esistenza umana?" Nel caso del presente romanzo, a questa domanda ne fanno seguito molte altre ad essa collegate: Che cos'è l'atteggiamento lirico? Che cos'è la giovinezza? Che parte misteriosa ha la madre nella formazione del mondo lirico di un giovane? E se la giovinezza è il tempo dell'inesperienza, qual è il rapporto tra inesperienza e brama di assoluto? O tra brama di assoluto e fervore rivoluzionarlo? E come si rivela l'atteggiamento lirico nell'amore? Esistono «forme liriche» dell'amore? Eccetera, eccetera. 

A tutte queste domande il romanzo naturalmente non dà risposta. La risposta è già nelle domande stesse, perché, come dice Heidegger, l'essenza dell'uomo ha la forma di una domanda.

Milan Kundera

1

Quando la madre del poeta si domandava dove il poeta era stato concepito, si presentavano solo tre possibilità: o una sera sulla panchina di un giardino pubblico, o un pomeriggio nell'appartamento di un collega del padre del poeta, oppure una mattina in un posticino romantico nei dintorni di Praga.


Quando il padre del poeta si poneva la stessa domanda, arrivava alla conclusione che il poeta era stato concepito nell'appartamento del collega, perché quel giorno tutto gli era andato storto. La madre del poeta non voleva andare in casa del collega, avevano litigato due volte, due volte avevano fatto la pace; mentre facevano l'amore qualcuno aveva girato la chiave nella serratura dell'appartamento accanto, la madre del poeta si era spaventata, avevano smesso di fare l'amore, poi avevano ripreso a farlo, entrambi in uno stato di nervosismo al quale il padre attribuiva la colpa del concepimento del poeta. 


D'altra parte, la madre del poeta non ammetteva minimamente la possibilità che il poeta fosse stato concepito in un appartamento preso a prestito (Vi regnava il tipico disordine degli scapoli, e la madre guardava con ripugnanza il letto disfatto, col pigiama spiegazzato di uno sconosciuto gettato sul lenzuolo), e respingeva ugualmente la possibilità che il poeta fosse stato concepito sulla panchina di un giardino pubblico dove si era lasciata convincere a fare l'amore solo controvoglia e senza piacere, disgustata dall'idea che sulle panchine dei giardini pubblici fanno l'amore le prostitute. Era quindi assolutamente certa che il poeta poteva essere stato concepito solo in quell'assolato mattino d'estate, al riparo di un'alta roccia che si ergeva pateticamente tra altre rocce, nella valle dove i praghesi fanno le loro gite domenicali. 


Questo scenario si addice al concepimento del poeta per vari motivi: rischiarato dal sole di mezzogiorno, è uno scenario di luce e non di tenebre, diurno e non notturno; è un luogo situato in mezzo a uno spazio naturale aperto, e quindi fatto per il volo e le ali; infine, pur non essendo molto lontano dalle ultime case della città, è un paesaggio romantico, pieno di massi rocciosi che sporgono da un terreno selvaggiamente modellato. Tutto questo pareva alla madre un'immagine eloquente di ciò che aveva vissuto in quel periodo. Il suo grande amore per il padre del poeta non era forse stato una romantica rivolta contro la vita piatta e abitudinaria dei genitori? Il coraggio con cui lei, figlia di un ricco commerciante, aveva scelto un povero ingegnere appena laureato, non aveva forse un'intima somiglianza con quel paesaggio indomito?


La madre del poeta viveva a quel tempo un grande amore, anche se a quello splendido mattino sotto la roccia era seguita qualche settimana dopo la delusione. Infatti, quando, con gioiosa eccitazione, comunicò al suo amante che l'intima indisposizione che turbava tutti i mesi della sua vita si faceva attendere ormai da troppi giorni, l'ingegnere, con indifferenza rivoltante (pure se a noi essa appare falsa e imbarazzata), disse che si trattava di un'insignificante perturbazione del ciclo fisico, il quale non avrebbe tardato a ritrovare il suo ritmo benefico. La madre capì che l'amante rifiutava di dividere le sue speranze e le sue gioie, si offese e non gli parlò più fino al momento in cui il medico le annunciò che era incinta. Il padre del poeta disse di avere un amico ginecologo che li avrebbe discretamente liberati del loro problema, e la madre scoppiò in lacrime.


Commoventi conclusioni delle rivolte! Prima si era ribellata contro i genitori in nome del giovane ingegnere e poi corse da loro chiedendo aiuto contro di lui. E i genitori non la delusero; si incontrarono con l'ingegnere, gli parlarono con estrema franchezza, e l'ingegnere, avendo chiaramente capito che non c'era via di uscita, acconsenti a uno sfarzoso matrimonio e accettò senza obiezioni una dote considerevole che gli permetteva di aprire un' impresa di costruzioni; trasferì quindi i suoi modesti averi, che occupavano solo due valigie, nella villa dove la sposina viveva fin dalla nascita con i genitori. 


La pronta capitolazione dell'ingegnere non poteva però nascondere alla madre del poeta che l'avventura in cui si era gettata con un'incoscienza ai suoi occhi sublime non era quel grande amore reciproco al quale era fermamente convinta di avere pieno diritto. Suo padre era proprietario di due floride drogherie praghesi, e la figlia professava la morale dei conti pari; dal momento che aveva investito tutto nell'amore (non era stata pronta a tradire i genitori e la loro casa tranquilla?), voleva che il suo partner versasse nella cassa comune un'uguale somma di sentimenti. Cercando di porre rimedio all'ingiustizia, ora voleva ritirare dalla cassa dei sentimenti quello che vi aveva depositato, e dopo il matrimonio offriva al marito un viso altero e grave.


La sorella della madre del poeta aveva da poco lasciato la villa paterna (si era sposata, e aveva preso in affitto un appartamento nel centro) e così il vecchio commerciante e la moglie restarono nelle stanze al pianterreno, mentre l'ingegnere e la figlia poterono sistemarsi nelle tre stanze al piano superiore, due grandi e una un po' più piccola, arredate esattamente nel modo scelto dal padre della sposa vent'anni prima, quando si era fatto costruire la villa. Trovarsi a disposizione una casa già arredata faceva comodo all'ingegnere, giacché, a parte il contenuto delle due succitate valigie, non possedeva nient'altro; tuttavia suggerì alcuni piccoli cambiamenti per rinnovare l'aspetto dei locali. Ma la madre del poeta non poteva ammettere che l'uomo che aveva voluto mandarla sotto i ferri del ginecologo osasse sconvolgere la vecchia disposizione dell'ambiente che racchiudeva lo spirito dei genitori e molti anni di dolci abitudini, di intimità e di sicurezza.


Anche questa volta il giovane ingegnere capitolò senza resistenza e si permise solo una piccola protesta che vogliamo segnalare: nella stanza che gli sposi avevano scelto come camera da letto c'era un tavolino sul cui largo piede centrale poggiava un pesante piano rotondo di marmo grigio e su questo era la statuetta di un uomo nudo; nella mano sinistra l'uomo teneva una lira, appoggiata contro il fianco leggermente inarcato; la mano destra era sollevata in un gesto patetico, come se le dita avessero appena finito di pizzicare le cordela gamba destra era spinta in avanti, la testa leggermente inclinata, così che gli occhi erano rivolti al cielo. Aggiungeremo che il viso dell'uomo era straordinariamente bello, i capelli ricciuti, e il candore dell'alabastro in cui era stata scolpita la statuetta dava al personaggio un che di teneramente femmineo o di divinamente virginale; del resto non a caso abbiamo usato il termine divinamente: secondo l'iscrizione incisa sul piccolo piedistallo, l'uomo con la lira era il dio greco Apollo.


Ma era raro che la madre del poeta potesse vedere l'uomo con la lira senza arrabbiarsi. Quasi sempre stava girato offrendo agli sguardi il posteriore, a volte veniva trasformato in sostegno per il cappello dell'ingegnere, oppure dalla sua testa delicata pendeva una scarpa, o ancora, era rivestito di un calzino dell'ingegnere, indumento che, per il suo sgradevole odore, costituiva una profanazione particolarmente odiosa del re delle Muse.


Se la madre del poeta accettava tutto ciò con impazienza, la colpa non era soltanto del suo scarso senso dell'umorismo; aveva intuito, e aveva ragione, che mettendo un calzino sul corpo di Apollo, il marito le faceva sapere sotto il velo dello scherzo ciò che altrimenti taceva educatamente: che rifiutava il suo mondo, e che la propria capitolazione di fronte ad esso era solo provvisoria.


Così quell'oggetto di alabastro diventò un vero e proprio dio antico, e cioè un essere di un mondo soprannaturale che interviene nel mondo umano, che ne mescola i destini, che cospira e svela le cose segrete. La giovane sposa vedeva in lui un alleato, e la sua sognante femminilità ne fece una creatura viva i cui occhi prendevano talvolta i colori di iridi illusorie, e la cui bocca pareva respirare. Fini con l'innamorarsi di quel giovinetto nudo che veniva umiliato per lei, a causa sua. Guardando il suo viso leggiadro, cominciò a sognare che il bambino che le cresceva in grembo somigliasse a quel bel nemico del marito. Voleva che gli somigliasse tanto da poter pensare che fosse nato per fecondazione non del marito, ma di quel giovane; lo pregava di far ricorso alla sua magia per correggere quello sventurato feto, per trasformarlo, ritoccarlo, come fece un tempo il grande Tiziano quando dipinse un suo quadro sulla tela rovinata da un apprendista.


Prendendo istintivamente a modello la Vergine Maria, che fu madre senza la mediazione di un fecondatore umano e diventò così l'ideale di un amore materno in cui il padre non interviene a seminare lo scompiglio e non dà nessun fastidio, fu colta dal provocatorio desiderio di chiamare il suo bambino Apollo: per lei, sarebbe stato come chiamarlo Colui che non ha padre umano. D'altra parte, si rendeva conto che un nome così pomposo gli avrebbe complicato la vita, e che tutti avrebbero preso in giro sia il bambino sia lei. Così cercò un nome ceco degno del giovanile dio greco e le venne in mente Jaromil (Colui che ama la primavera o Colui che è amato dalla primavera); la scelta fu approvata da tutti. Del resto, quando fu portata in clinica, era appunto primavera e i lillà erano in fiore: li, dopo qualche ora di sofferenze, il giovane poeta sgusciò fuori dal suo corpo sul lenzuolo del mondo.


2

Poi il poeta fu messo In una culla accanto al suo letto e lei ne ascoltò gli strilli deliziosi; il suo corpo indolenzito era pieno di orgoglio. Non invidiamo al corpo tale orgoglio; fino a quel momento non l'aveva mai provato, anche se era tutt'altro che brutto: è vero che il sedere non era troppo espressivo e le gambe erano un po' corte, ma in compenso i seni erano straordinariamente freschi, e sotto i capelli fini (così leggeri che era sempre un problema tenerli a posto) Il viso aveva, se non una bellezza accecante, un suo fascino discreto.


La mamma era sempre stata molto più consapevole della propria discrezione che del proprio fascino, tanto più che aveva sempre vissuto accanto alla sorella maggiore, una ragazza che ballava splendidamente, si vestiva nelle migliori sartorie praghesi e, munita di una racchetta da tennis, poteva facilmente entrare nel mondo degli uomini alla moda, voltando le spalle alla casa natale. La vistosa impetuosità della sorella rafforzava la testarda modestia della madre, che per protesta aveva cominciato ad amare la sentimentale gravità della musica e dei libri. 


Prima di conoscere l'ingegnere certo usciva con un altro ragazzo, uno studente di medicina figlio di amici dei genitori, ma la relazione non era riuscita a dare al suo corpo una vera e propria sicurezza. Quando il ragazzo l'aveva portata a letto per la prima volta, lei lo aveva lasciato l'indomani stesso con la malinconica certezza che né al suoi sentimenti né ai suoi sensi era destinato il grande amore. E giacché proprio in quel periodo aveva preso la licenza liceale, colse l'occasione per annunciare che intendeva trovare nel lavoro il senso della propria vita, e decise di iscriversi (malgrado il parere contrario di suo padre, che era un uomo pratico) alla facoltà di filosofia.


Il suo corpo deluso aveva ormai passato quasi cinque mesi sui larghi banchi di un'aula universitaria quando, un giorno, incontrò per strada un giovane ingegnere insolente che gli rivolse la parola e ne prese possesso dopo tre soli incontri. E siccome questa volta il corpo fu grandemente (e con sua grande sorpresa) soddisfatto, l'anima dimenticò presto l'ambizione di una carriera universitaria e (come deve sempre fare un'anima ragionevole) si affrettò a venire in aiuto del corpo: acconsentì di buon grado alle idee dell' Ingegnere, alla sua allegra noncuranza, alla sua simpatica irresponsabilità. Pur sapendo che erano estranee alla sua famiglia, lei voleva identificarsi in quelle caratteristiche, perché a contatto con loro il suo corpo tristemente modesto cessava di dubitare e cominciava, con sua stessa meraviglia, a gioire di sé. 


Era dunque finalmente felice? Non del tutto: si dibatteva tra i dubbi e la fiducia; quando si svestiva davanti allo specchio, si guardava con gli occhi di lui e a tratti si trovava eccitante, a tratti insipida. Aveva dato il suo corpo in balìa di occhi altrui - e questo era causa di grandi incertezze.


Pur esitando ancora tra la speranza e il dubbio, si era comunque definitivamente affrancata dalla sua prematura rassegnazione; la racchetta da tennis della sorella non la deprimeva più; il suo corpo finalmente viveva come corpo, e lei capiva che era bello vivere così. Sperava che quella nuova vita non fosse una promessa menzognera, ma una verità durevole; sperava che l'ingegnere la strappasse ai banchi universitari e alla casa natale trasformando un'avventura d'amore nell'avventura di una vita. Per questo accolse con entusiasmo la gravidanza: immaginava se stessa, l'ingegnere e il suo bambino, e le sembrava che quella trinità giungesse fino alle stelle e riempisse di sé l'universo.


Ne abbiamo già parlato nel capitolo precedente: la madre capì presto che l'uomo che cercava un'avventura d'amore temeva di affrontare l'avventura di una vita e non desiderava affatto trasformarsi con lei in un gruppo marmoreo che arrivava fino alle stelle. Ma sappiamo anche che questa volta la sua sicurezza non crollò sotto la pressione della freddezza dell'amante. Era infatti avvenuto un cambiamento importantissimo. Il corpo della madre, che fino a poco tempo prima era stato in completa balìa degli occhi dell'amante, era entrato in una nuova fase della sua storia: aveva smesso di essere un corpo per gli occhi altrui, era diventato un corpo per qualcuno che ancora non aveva occhi. La superficie esterna non era più così importante; il corpo toccava un altro corpo con la parete interna, ancora mai vista da nessuno. Gli occhi del mondo esterno non potevano cogliere, ormai, che l'esteriorità del tutto secondaria di quel corpo, e neanche l'opinione dell'ingegnere aveva più importanza, non potendo in alcun modo influire sul suo grande destino; il corpo aveva finalmente raggiunto un'indipendenza e un'autonomia totali; il ventre che ingrossava e s'imbruttiva era per quel corpo una crescente riserva di orgoglio.


Dopo il parto, il corpo della madre entrò in un'altra fase ancora. Quando sentì per la prima volta la bocca annaspante del figlio succhiare dal suo seno, un dolce fremito le esplose in mezzo al petto e irradiò raggi frementi in tutto il corpo; era qualcosa di simile alle carezze dell'amante, ma c'era dell'altro: una grande felicità tranquilla, una grande tranquillità felice. Non l'aveva mai provata prima; quando l'amante baciava il suo seno, era un attimo che doveva riscattare ore di dubbio e di diffidenza; sapeva invece che la bocca attaccata al suo seno era la prova di una dedizione ininterrotta della quale poteva essere sicura.


E c'era qualcos'altro: Quando l'amante toccava il suo corpo nudo, lei provava sempre un senso di vergogna; il reciproco avvicinarsi era sempre il superamento di un'estraneità, e l'attimo dell'unione era inebriante proprio perché si trattava di un attimo soltanto. Il pudore non si assopiva mai, anzi rendeva l'amore eccitante, ma al tempo stesso sorvegliava il corpo perché non si abbandonasse completamente. Ora, invece, il pudore era sparito; non c'era. I due corpi si aprivano interamente l'uno all'altro e non avevano nulla da nascondersi. 


Mai si era abbandonata così a un altro corpo, e mai un altro corpo si era abbandonato così a lei. L'amante poteva godere del suo ventre, ma non vi aveva mai abitato, poteva toccarle il seno, ma non vi aveva mai bevuto. Ah, l'allattamento! Osservava amorosamente i movimenti da pesce di quella piccola bocca sdentata e si figurava che suo figlio bevesse, insieme col latte, i suoi pensieri, le sue fantasie, i suoi sogni. 


Era uno stato paradisiaco: il corpo poteva essere corpo fino in fondo e non aveva bisogno di coprirsi con una foglia di fico; erano immersi nell'infinito di un tempo sereno; vivevano insieme come avevano vissuto Adamo e Eva prima di assaggiare il pomo dell'albero della conoscenza; vivevano nei loro corpi fuori dal bene e dal male; non solo: in paradiso la bellezza non si distingue dalla bruttezza, cosicché tutto ciò di cui si compone un corpo non era per loro né bello né brutto, ma solo delizioso; deliziose erano le gengive, anche se sdentate; delizioso il petto, delizioso l'ombelico, delizioso il piccolo sederino, deliziosi gli intestini, il cui funzionamento era attentamente sorvegliato, deliziosi i peli che spuntavano da quel buffo cranio. Essa seguiva con cura tutti i ruttini, le pipì e le cacchine del figlio, e non si trattava soltanto di una sollecitudine da infermiera preoccupata della salute del bambino; no, vegliava su tutte le attività di quel corpicino con passione. 


Era una sensazione completamente nuova, giacché la madre aveva provato fin dall'infanzia una ripugnanza estrema nei confronti della corporeità, non solo altrui ma anche propria; trovava degradante doversi sedere sul water (aveva sempre cercato, almeno, di non farsi vedere mentre entrava nel gabinetto) e c'erano addirittura periodi in cui si vergognava di mangiare davanti agli altri, trovando ripugnanti la masticazione e la deglutizione. Ed ecco che ora la corporeità del figlioletto, elevata al di sopra di qualsiasi bruttezza, purificava e giustificava al suoi occhi il suo stesso corpo. Il latte di cui talvolta restava una gocciolina sulla pelle rugosa dei capezzoli le sembrava poetico come una perla di rugiada; spesso si prendeva un seno e lo stringeva lievemente per veder apparire la magica goccia; la raccoglieva con l'indice e l'assaggiava; diceva a se stessa che voleva conoscere il gusto del liquido di cui si nutriva suo figlio, ma ciò che voleva conoscere era piuttosto il gusto del proprio corpo; e poiché il suo latte le pareva dolce, quel sapore la riconciliava con tutti gli altri suoi succhi e umori, cominciava a trovarsi lei stessa gustosa, il suo corpo le sembrava piacevole, naturale buono come tutte le cose della natura, come l'albero, come l'arbusto, come l'acqua.


Purtroppo, era così felice del proprio corpo che lo trascurava; un giorno si rese conto che era troppo tardi e che le sarebbe rimasta per sempre sul ventre una pelle grinzosa con striature bianche sul tessuto sottocutaneo, una pelle che non sembrava più un saldo elemento del corpo, quanto piuttosto un suo involucro malamente cucito. Eppure, strano a dirsi, non si disperò a quella scoperta. Anche col ventre grinzoso, il corpo della madre era felice perché era un corpo riservato a occhi che del mondo percepivano ancora soltanto contorni confusi e ignoravano (erano infatti occhi paradisiaci!) l'esistenza di un mondo crudele in cui i corpi si dividevano in belli e brutti.


Ma questa distinzione, se non era vista dagli occhi del bambino, era però vista fin troppo bene dagli occhi del marito, che dopo la nascita di Jaromil aveva tentato di riavvicinarsi a lei. Dopo un lunghissimo intervallo avevano ripreso a fare l'amore, ma non era più come prima; per l'amore fisico sceglievano momenti discreti e furtivi, si amavano al buio e con moderazione. Alla madre la cosa andava benissimo: sapeva che il suo corpo era imbruttito e temeva di perdere presto, in amplessi troppo vivi e appassionati, quella deliziosa pace interiore che le veniva dal figlio. 


No, no, non avrebbe mai più dimenticato che il marito le dava un piacere pieno di incertezze e il figlio, invece, una pace piena di felicità; per questo continuava a cercare presso di lui (già sgambettava, già camminava, già diceva le prime parole) il suo conforto. Una volta il bambino si ammalò gravemente, e lei trascorse due settimane senza quasi chiudere occhio accanto al corpicino bruciante che si contorceva dal dolore; anche quel periodo lo passò in una sorta di estasi; quando la malattia finì, le parve di aver attraversato il regno dei morti con il corpo del figlio tra le braccia e di esserne uscita con lui; le parve anche che dopo quella prova comune niente avrebbe mai più potuto separarli.


Il corpo del marito, coperto da un vestito o da un pigiama, quel corpo discreto e chiuso in se stesso, si allontanava da lei, andava perdendo intimità giorno dopo giorno, mentre il corpo del figlio dipendeva costantemente da lei; non lo allattava più, è vero, ma gli insegnava ad andare al gabinetto, lo vestiva e lo svestiva, sceglieva la sua pettinatura e i suoi vestiti, entrava giornalmente in contatto con le sue viscere per il tramite dei cibi che amorevolmente gli preparava. Quando, verso i quattro anni, cominciò a soffrire di disappetenza, diventò molto severa; lo obbligava a mangiare e, per la prima volta, provò la sensazione di non essere solo l'amica, ma anche la sovrana di quel corpo; quel corpo si ribellava, si rifiutava di inghiottire il cibo, ma era costretto a farlo; con una strana soddisfazione osservava quella vana resistenza e quella capitolazione, quel collo sottile su cui si poteva scorgere l'itinerario del boccone inghiottito controvoglia. 


Ah, il corpo del figlio, sua casa e suo paradiso, suo regno.


3

E l'anima del figlio? Non era anch'essa il suo regno? Oh sì, sì! Quando Jaromil disse la prima parola, e quella parola fu mamma, impazzì di gioia; si diceva che l'intelligenza del figlio, composta ancora di un unico concetto, era occupata tutta da lei, così che anche in futuro quando l'intelligenza sarebbe cresciuta, si sarebbe ramificata e arricchita, lei ne sarebbe rimasta sempre la radice. Poi, piacevolmente incoraggiata, seguì con cura tutti i tentativi fatti dal figlio per acquistare l'uso della parola, e poiché sapeva che la memoria è fragile e la vita lunga, comprò un'agenda con la copertina rosso scuro e cominciò a registrare tutto ciò che usciva dalla bocca del figlio. 


Se ci aiutiamo col suo diario, possiamo dunque constatare che la parola mamma fu presto seguita da altre parole, e che la parola papà apparve solo al settimo posto dopo nonna, nonno, bau, popò, aam, pipì. Dopo queste parole semplici (sempre accompagnate nel diario della madre da un breve commento e da una data) troviamo i primi tentativi di frase; veniamo a sapere che un bel po' prima del suo secondo compleanno egli pronunciò: mamma è buona. Qualche settimana dopo disse: mamma totò. Per questa dichiarazione, fatta dopo che la madre aveva rifiutato di dargli lo sciroppo di fragola prima di colazione, era stato sculacciato, al che era scoppiato a piangere urlando: voglio un'altra mamma! In compenso, una settimana dopo diede alla madre una grande gioia proclamando: la mia mamma è la più bella. Un'altra volta disse: mamma, ti do un bacio a lecca lecca; la frase va intesa nel senso che tirò fuori la lingua e si mise a leccare tutto il viso della madre. 


Saltando qualche pagina troviamo un'osservazione che ci colpisce per la sua forma ritmica. La nonna aveva promesso a Jaromil di dargli una mela, ma poi s'era scordata la promessa e si era mangiata la mela; Jaromil si sentì preso in giro, si arrabbiò moltissimo e ripeté più volte: è cattiva la nonnina, mi ha rubato la melina. In un certo senso, la battuta andrebbe accostata all'altra sentenza già citata di Jaromil: mamma totò, ma questa volta il bambino non venne sculacciato, perché tutti si misero a ridere, compresa la nonna, e in seguito la frase venne spesso ripetuta con divertimento in famiglia (il che evidentemente non sfuggì al perspicace Jaromil). Certo egli allora non capì la ragione del suo successo, ma da parte nostra sappiamo benissimo che fu la rima a salvarlo dalle botte e che proprio in quel modo gli fu rivelato per la prima volta il magico potere della poesia.


Altre sentenze in rima figurano nelle pagine seguenti del diario della madre, i cui commenti mostrano con chiarezza che esse rappresentavano una fonte di gioia e di soddisfazione per tutta la famiglia. L così, a quanto pare, che fu composto il sintetico ritratto della cameriera Anna: la cameriera Anna è come la panna. Oppure, appena dopo, leggiamo: andiamo in campagna, che bella cuccagna! La mamma sospettava che questa attività poetica fosse dovuta, oltre che al talento assolutamente originale di cui era dotato Jaromil, all'influsso delle poesie per bambini, che lei gli leggeva in tale abbondanza da poterlo indurre a credere che il ceco si compone esclusivamente di trochei, ma su questo punto dobbiamo rettificare l'opinione materna: più importante del talento e dei modelli letterari era il ruolo del nonno, spirito sobrio e pratico, nonché ardente nemico della poesia, che inventava a bella posta i distici più stupidi e li insegnava di nascosto al nipotino. 


Jaromil non tardò ad accorgersi che le sue parole venivano registrate con grande attenzione e cominciò a comportarsi in conseguenza; se inizialmente aveva usato la parola per farsi capire, adesso parlava per suscitare l'approvazione, l'ammirazione o le risate. Si rallegrava in anticipo dell'effetto che le sue parole avrebbero prodotto sugli altri, e poiché gli succedeva spesso di non ottenere la reazione desiderata, cercava di dire le cose più assurde per attirare l'attenzione. Non sempre gli riusciva; quando disse ai genitori: siete tutti dei coglioni (aveva sentito la parola da un ragazzo nel giardino vicino, e si ricordava che gli altri ragazzi avevano riso), il padre gli diede uno scapaccione. 


Da allora si mise a osservare attentamente ciò che i grandi apprezzavano nelle sue parole, ciò che approvavano, ciò che disapprovavano, e ciò che li lasciava costernati; fu così che un giorno che era con la madre in giardino pronunciò una frase impregnata della malinconia dei lamenti della nonna: mamma, la vita è come l'erba cattiva. 


Sarebbe difficile dire che cosa intendesse con tale riflessione; quel che è certo è che non pensava alla vivace insignificanza e insignificante vivacità che è tipica delle erbacce ma voleva probabilmente esprimere l'idea tutto sommato abbastanza vaga che la vita è triste e vana. Comunque, se anche non disse proprio quel che voleva dire, l'effetto delle sue parole fu grandioso; la madre tacque, gli carezzò i capelli e lo guardò con gli occhi umidi di lacrime. Jaromil fu così inebriato da quello sguardo, in cui si leggeva un commosso elogio, che desiderò dì poterlo rivedere. Durante una passeggiata, inciampò in un sasso e disse alla madre: mamma, sono inciampato in questo sasso e adesso mi fa talmente pena che gli voglio dare una carezza, ed effettivamente si chinò per accarezzare il sasso.


La madre era persuasa che il figlio avesse non solo un talento particolare (già a cinque anni sapeva leggere), ma anche un'eccezionale sensibilità che lo rendeva diverso dagli altri bambini. Il più delle volte metteva i due nonni a parte di questa sua convinzione, e Jaromil, che giocava buono coi soldatini o al cavalluccio, seguiva quei discorsi con immenso interesse. Quindi affondava lo sguardo negli occhi degli ospiti e si immaginava rapito che quegli occhi lo vedessero come un bambino eccezionale, unico, che forse non era neanche un bambino. 


All'approssimarsi dei suo sesto compleanno, quando non gli restavano che pochi mesi prima di cominciare la scuola, la famiglia insistette perché avesse una camera indipendente e dormisse da solo. La madre vedeva passare il tempo con rimpianto, ma accettò. D'accordo col marito, decise di dare al figlio, come regalo di compleanno, la terza e più piccola stanza del piano superiore e di comprargli un divano e altri mobili adatti alla stanza di un bambino: uno scaffaletto, uno specchio che stimolasse all'ordine e alla pulizia, e un piccolo scrittoio. 


Il padre suggerì di abbellire la camera con disegni fatti da Jaromil e si mise subito a incorniciare certi scarabocchi infantili che rappresentavano mele e giardini. Fu allora che la madre gli si avvicinò e gli disse: «Vorrei chiederti qualcosa». Lui la guardò, e la voce di lei, energica e timida al tempo stesso, seguitò: «Vorrei dei fogli e dei colori». Poi andò a sedersi a un tavolo in camera sua, stese davanti a sé il primo foglio e per un bel po' di tempo fu occupata a disegnare una serie di lettere a matita; infine intinse un pennello nel rosso e cominciò a dipingere una L maiuscola. La L fu seguita da una A, poi da una V, e il risultato fu la scritta: La vita è come l'erba cattiva. La madre esaminò la sua opera e si sentì soddisfatta: le lettere erano dritte e più o meno della stessa altezza; ciò nonostante prese un altro foglio di carta e vi disegnò di nuovo la scritta, poi si mise a colorarla, ma questa volta in azzurro scuro, perché il colore le sembrava accordarsi meglio all'ineffabile tristezza del pensiero del figlio. 


Poi si ricordò che Jaromil aveva detto: È cattiva la nonnina, mi ha rubato la melina, e con un sorriso felice sulle labbra cominciò a scrivere (questa volta in un bel rosso vivo): Alla cara nonnina piace la melina. Quindi, con un sorriso nascosto, si ricordò anche di: Siete tutti dei coglioni, ma questa sentenza non la disegnò; in compenso disegnò e colorò (in verde): Andiamo in campagna, che bella cuccagna!, poi (in viola): Anna è come la panna (è vero che Jaromil aveva detto «la cameriera Anna», ma la madre trovava che la parola cameriera fosse volgare); poi le tornò in mente di quando Jaromil si era chinato per carezzare un sasso e dopo un istante di riflessione sì mise a scrivere (in azzurro cielo): Non farei male neanche a una pietra, e infine, con un leggero senso dì imbarazzo ma con tanto più piacere, tracciò (in arancione): Mamma, ti voglio dare un bacio a lecca lecca, e poi ancora (in lettere dorate): La mia mamma è la più bella. 


Alla vigilia del suo compleanno, i genitori mandarono l'eccitatissimo Jaromil a dormire giù dalla nonna e si misero a spostare i mobili e a decorare le pareti. L'indomani mattina, quando fecero entrare il bambino nella stanza completamente trasformata, la mamma era nervosa e Jaromil non fece nulla per dissipare il suo turbamento; se ne stava lì, impalato, e non apriva bocca; il maggior interesse (ma anche quello lo manifestò piano e timidamente) era rivolto allo scrittoio, un mobiletto curioso che somigliava a un banco di scuola: il piano (inclinato e mobile, sotto il quale sì apriva uno spazio per libri e quaderni) formava un pezzo unico col sedile.


«Allora, che ne dici, non sei contento?» domandò la madre, che non riusciva più a trattenersi.


«Sì, sono contento» rispose il bambino.


«E che cos'è che ti piace di più?» chiese il nonno, che insieme con la nonna contemplava la scena così a lungo attesa. 


«Il banco» disse il bambino; ci si sedette e cominciò a sollevare e richiudere il coperchio.


«E che ne dici dei quadretti?» domandò il padre, indicando i disegni incorniciati.


Il bambino alzò la testa e sorrise: «Li conosco già». 


«E come li trovi, così, appesi al muro?».


Il bambino, sempre seduto al suo piccolo scrittoio, mosse la testa per indicare che i disegni appesi al muro gli piacevano. 


La madre si sentiva stringere il cuore e avrebbe voluto sparire dalla stanza. Ma era lì, e non poteva passare sotto silenzio le iscrizioni incorniciate e appese al muro, perché quel silenzio sarebbe suonato come una condanna; sicché disse: «E guarda anche le scritte!». 


Il bambino aveva la testa china e guardava dentro il suo piccolo scrittoio.


«Sai,» riprese lei tutta confusa «Io volevo che tu potessi ricordarti di come sei cresciuto, dalla culla fino ai banchi di scuola, perché sei stato un bambino intelligente e hai dato gioia a tutti noi...». Diceva quelle parole come si stesse scusando e, confusa com'era, ripeté più volte la stessa cosa; infine, non sapendo più che cosa dire, tacque. 


Ma si sbagliava credendo che Jaromil non le fosse grato del suo dono. Non trovava nulla da dire, è vero, ma non era scontento; era sempre fiero delle proprie parole e non voleva che andassero perdute, adesso che le vedeva accuratamente ricopiate, colorate e trasformate in quadri provava una sensazione di successo, anzi un successo così grande e inatteso che non sapeva come reagirvi e ne aveva paura; capiva di essere un bambino che pronuncia parole degne di nota, e sapeva che quel bambino doveva dire anche in quel momento qualcosa che fosse degno di nota, solo che non riusciva a pensare a niente che fosse degno di nota, e per questo abbassava la testa. Ma quando scorgeva con la coda dell'occhio le sue parole sul muro, fissate, pietrificate, più durevoli e più grandi di lui stesso, ne era inebriato; aveva l'impressione di essere circondato da se stesso, di essere enorme, di riempire tutta la stanza, di riempire tutta la casa.


4

Già prima di andare a scuola, Jaromil sapeva leggere e scrivere, e così la mamma decise che sarebbe potuto andare direttamente in seconda; ottenne dal ministero un'autorizzazione speciale e Jaromil, superato un esame davanti a un'apposita commissione, poté prendere posto tra alunni che avevano un anno più di lui. Dal momento che tutti, a scuola, lo ammiravano, l'aula gli appariva come un semplice riflesso dell'ambiente familiare. Quando, il Giorno della Mamma, gli alunni presentarono i loro lavori alla festa scolastica, Jaromil salì per ultimo sulla pedana e recitò una breve e commovente poesia sulle mamme che gli provocò grandi applausi da parte del pubblico dei genitori.


Un bel giorno, però, si rese conto che dietro quel pubblico plaudente ce n'era un altro che lo spiava con malignità e che gli era ostile. Era dal dentista, nella sala d'attesa gremita, e lì, fra i pazienti che aspettavano, incontrò un compagno di classe. Sedevano uno accanto all'altro, con le spalle alla finestra, e Jaromil notò che un signore anziano ascoltava le loro parole con un sorriso di benevolenza. Stimolato da quel segno d'interesse, chiese al compagno (e alzò un poco la voce perché la domanda non sfuggisse a nessuno) che cosa avrebbe fatto se fosse stato ministro della Pubblica Istruzione. E poiché il compagno non sapeva che dire, si diede lui stesso a esporre le proprie considerazioni, cosa che non gli riusciva difficile, poiché bastava ripetere i discorsi che gli teneva regolarmente il nonno per divertirlo. Ecco, se Jaromil fosse stato ministro della Pubblica Istruzione ci sarebbero stati solo due mesi di scuola e dieci di vacanza, il maestro avrebbe dovuto obbedire ai ragazzi e portare loro la merenda da una pasticceria, e sarebbero successe molte altre cose straordinarie che Jaromil espose con abbondanza di particolari e a voce alta e scandita.


Poi la porta del dentista si aprì, lasciando passare un'infermiera che accompagnava, un paziente. Una signora che teneva sulle ginocchia un libro semichiuso fra le cui pagine aveva infilato un dito per segnare il punto in cui aveva interrotto la lettura, si rivolse all'infermiera in tono quasi implorante: «La prego, faccia qualcosa con quel bambino. È orribile come dà spettacolo!».


Dopo Natale il maestro chiamò gli alunni alla lavagna perché raccontassero agli altri che cosa ave vano trovato sotto l'albero. Jaromil cominciò a elencare: un gioco di costruzioni, un paio di sci, dei pattini, dei libri, ma non tardò ad accorgersi che gli altri ragazzi non lo guardavano con lo stesso fervore con cui li guardava lui e che alcuni anzi avevano un'espressione indifferente o addirittura ostile; s'interruppe, e non aggiunse parola sugli altri regali. 


No, no, non abbiate timori, non vogliamo certo ripetere per la millesima volta la storia del figlio di ricchi che si attira l'odio dei compagni poveri: nella classe di Jaromil c'erano ragazzi di famiglie più facoltose della sua, eppure andavano d'accordissimo con gli altri e nessuno gli rimproverava la loro ricchezza. Che cosa aveva dunque Jaromil che non piaceva ai suoi compagni, che dava loro fastidio, che cosa lo rendeva diverso?


Esitiamo quasi a dirlo: Non era la ricchezza, era l'amore della sua mamma. Un amore che lasciava tracce ovunque; gli restava appiccicato alla camicia, alla pettinatura, alle parole di cui si serviva, alla cartella in cui sistemava i quaderni, ai libri che leggeva a casa per svagarsi. Ogni cosa era appositamente scelta e preparata per lui. Le camicie che gli confezionava la nonna parsimoniosa sembravano, Dio sa perché, bluse da ragazzina più che camicie da ragazzo. Affinché i lunghi capelli non gli ricadessero sugli occhi, era costretto a trattenerli sulla fronte con una forcina di sua madre. Quando pioveva, la mamma l'aspettava davanti a scuola con un grande ombrello, mentre i compagni si toglievano le scarpe e sguazzavano nelle pozzanghere.


L'amore materno imprime sulla fronte dei ragazzi un marchio che allontana da loro le simpatie dei compagni. Certo, col passare del tempo Jaromil imparò a nascondere abilmente quel marchio, ma dopo il suo trionfale ingresso a scuola conobbe un periodo difficile (uno o due anni) in cui i compagni si burlavano di lui con vero trasporto e più di una volta si divertirono a riempirlo di botte. Tuttavia, anche in quel periodo, che fu il peggiore, egli ebbe alcuni amici ai quali rimase riconoscente per tutta la vita; vale la pena di parlarne brevemente. 


L'amico numero uno era suo padre: A volte prendeva un pallone (da studente aveva giocato al calcio), e metteva Jaromil fra due alberi del giardino; calciava il pallone verso di lui e Jaromil s'immaginava di essere il portiere della nazionale cecoslovacca. 


L'amico numero due era il nonno: Portava con sé Jaromil nei suoi due negozi; uno, una grande drogheria che il genero dirigeva ormai da solo, l'altro una profumeria, dove la commessa era una bella signora che sorrideva amabilmente al ragazzo e gli lasciava annusare tutti i profumi, tanto che Jaromil imparò rapidamente a riconoscere al fiuto le varie marche; chiudeva gli occhi ed esigeva che il nonno gli tenesse i flaconi sotto il naso per metterlo alla prova. «Sei un genio dell'odorato» lo elogiava il nonno, e Jaromil sognava di diventare inventore di nuovi profumi.


L'amico numero tre era Alík. Alík era un cagnolino un po' matto che da qualche tempo viveva nella villa; benché fosse disobbediente e maleducato, Jaromil gli era debitore di sogni assai piacevoli nei quali lo raffigurava come un amico devoto che lo aspettava nel corridoio della scuola davanti all'aula e lo accompagnava a casa alla fine delle lezioni, dimostrando tanta fedeltà che i suoi compagni lo invidiavano e volevano fare la strada con lui.


Sognare cani diventò la passione della sua solitudine e lo portò addirittura a un curioso manicheismo: i cani rappresentavano al suoi occhi il bene del mondo animale, la somma di tutte le virtù naturali, immaginava grandi guerre di cani contro gatti (guerre con generali e ufficiali, e con tutte le astuzie strategiche imparate giocando coi soldatini di piombo) e lui stava sempre dalla parte dei cani, così come l'uomo deve stare sempre dalla parte della giustizia. 


E poiché passava molto tempo nella stanza del padre con carta e matita, i cani diventarono il soggetto favorito dei suoi disegni: un numero incalcolabile di scene epiche nelle quali i cani erano di volta in volta generali, soldati, calciatori e cavalieri. Dal momento che con la loro morfologia di quadrupedi non potevano cavarsela in ruoli umani, Jaromil li rappresentava con corpi di uomini. Era un'invenzione grandiosa! Quando cercava di disegnare un essere umano si scontrava con una grossa difficoltà: non riusciva a disegnarne la faccia- invece la forma allungata della testa canina, con la macchia del naso sulla punta estrema, gli riusciva a meraviglia, cosìcché dalle sue fantasticherie e dalla sua scarsa abilità nacque uno strano universo di uomini cinocefali, un universo di personaggi che si potevano disegnare facilmente e rapidamente, riuniti in partite di calcio, guerre e avventure di briganti. Jaromil disegnava le sue storie a puntate, e in questo modo riempì una quantità di fogli.


Il solo ragazzo della sua età che figurasse tra i suoi amici non occupava che il quarto posto; era un compagno di classe, figlio del bidello della scuola, un ometto dal colorito bilioso che si lagnava spesso dei ragazzi col direttore; questi, poi, si vendicavano sul figlio, che era il paria della classe. Quando i compagni, uno dopo l'altro, cominciarono ad allontanarsi da Jaromil, il figlio del bidello rimase il suo unico fedele ammiratore; fu così che un giorno venne invitato alla villa fuori città. Gli offrirono la colazione, gli offrirono il pranzo, giocò alle costruzioni con Jaromil e poi fece i compiti con lui. La domenica dopo il padre di Jaromil li portò tutti e due alla partita di calcio; la partita fu meravigliosa, e altrettanto meraviglioso fu il padre di Jaromil che conosceva per nome tutti i giocatori e commentava l'incontro da vero intenditore, al punto che il figlio del bidello non gli toglieva gli occhi di dosso e Jaromil aveva di che essere fiero. 


La loro, a prima vista, era un'amicizia comica: Jaromil sempre vestito con cura, il figlio del bidello con le toppe al gomiti; Jaromil con i compiti fatti a puntino, il figlio del bidello poco portato allo studio. Eppure Jaromil si trovava a suo agio accanto a quel compagno fedele, perché il figlio del bidello era straordinariamente forte; quando un giorno d'inverno alcuni compagni li attaccarono trovarono pane per i loro denti; Jaromil era fiero di aver trionfato con l'amico su un avversario numericamente superiore, ma la gloria di una difesa ben riuscita non può certo essere paragonata alla gloria dell'attacco. 


Un giorno che vagabondavano insieme per i terreni incolti della periferia, incontrarono un ragazzetto così ben lavato e così graziosamente vestito che lo si sarebbe detto in procinto di recarsi a una festicciola per bambini. «Che cocco di mamma» disse il figlio del bidello, e gli sbarrò la strada. Gli rivolsero domande ironiche e si rallegrarono nel vederlo spaventato. Alla fine il ragazzetto si fece coraggio e tentò di spingerli da parte. «Come ti permetti? Ti costerà caro!» gridò Jaromil, ferito fin nel profondo dell'anima da quel contatto temerario; il figlio del bidello interpretò quelle parole come un segnale e colpì il ragazzetto in pieno viso.


A volte l'intelligenza e la forza fisica sanno completarsi in modo veramente mirabile. Non è forse vero che Byron amava di fervido amore il boxeur Jackson, che allenava devotamente il malaticcio lord a ogni genere di sport? «Non picchiarlo, tienilo soltanto!» disse Jaromil all'amico, e andò a cogliere un ciuffo d'ortica; poi costrinsero il ragazzetto a spogliarsi e lo fustigarono dalla testa ai piedi con le ortiche. «Chissà come sarà contenta la tua mammina quando vedrà il suo cocco così bello rosso!» gli diceva intanto Jaromil, e provava un grandioso sentimento di calorosa amicizia per il suo compagno, un grandioso sentimento di odio per tutti i cocchi di mamma del mondo.


5

Ma come mai Jaromil restava figlio unico? Forse la madre non voleva un altro bambino?


Tutt'altro: desiderava ardentemente ritrovare l'epoca felice dei primi anni di maternità, ma il marito invocava ogni volta le più svariate ragioni per rimandare la nascita di un altro figlio. Essa non provava per questo meno desiderio di un secondo bambino, ma non osava insistere, giacché temeva un nuovo rifiuto da parte del marito e sapeva che questo l'avrebbe umiliata.


Ma più si proibiva di parlare del suo desiderio di maternità, più ci pensava; ci pensava come a qualcosa di illecito, di clandestino, dunque di proibito, l'idea che suo marito potesse farle fare un figlio ormai non l'attirava più soltanto a causa del figlio, ma assumeva nei suoi pensieri un sapore di eccitante indecenza: vieni, fammi una bambina diceva col pensiero al marito, e queste parole le sembravano estremamente lascive. 


Una volta che marito e moglie erano rientrati tardi e un po' euforici da una serata in casa di amici, il padre di Jaromil, dopo essersi steso accanto alla moglie e aver spento la luce (notiamo che dal giorno del matrimonio lui la prendeva solo al buio, facendosi portare al desiderio non dalla vista ma dal tatto), buttò via le coperte e si unì a lei, La rarità dei loro rapporti amorosi e l'effetto del vino fecero si che lei gli si concedesse con una voluttà che non aveva più provato da molto tempo. L'idea che stavano facendo un bambino riempì di nuovo il suo spirito; e quando sentì che il marito si avvicinava al parossismo del piacere, non si trattenne più e nell'estasi cominciò a gridargli di rinunciare all'abituale prudenza, di non ritirarsi da !ci, di farle un figlio, di farle una bella femminuccia, e lo abbracciava con una stretta così convulsa che egli fu obbligato a liberarsi da lei con la forza per esser certo che il desiderio non venisse esaudito. 


Poi, mentre giacevano stanchi l'uno accanto all'altra, la mamma gli si avvicinò e ricominciò a sussurrargli che voleva un altro figlio da lui; no, non voleva insistere, voleva piuttosto spiegargli, come per scusarsi, perché pochi istanti prima aveva manifestato il suo desiderio di avere un figlio con tanta violenza e in modo così inatteso (e forse, era pronta ad ammetterlo, sconveniente); balbettava che stavolta avrebbero sicuramente messo al mondo una bambina, nella quale lui si sarebbe potuto riconoscere così come lei si riconosceva in Jaromil.


L'ingegnere le disse allora (era la prima volta, dal matrimonio, che glielo ricordava) che lui non aveva mai voluto figli da lei; se per il primo figlio era stato costretto a cederle, adesso toccava a lei cedere; e se lei desiderava che lui si riconoscesse in un secondo figlio, poteva assicurarle che l'immagine meno infedele di se stesso l'avrebbe trovata in un bambino destinato a non vedere mai la luce. 


Rimasero stesi l'uno accanto all'altra, e la mamma non disse più niente; dopo un attimo scoppiò in singhiozzi e singhiozzò tutta la notte e il marito non la toccò nemmeno, le disse solo poche parole per calmarla che non riuscirono neppure a penetrare sotto l'onda del suo pianto; lei aveva l'impressione di capire finalmente tutto: l'uomo accanto al quale viveva non l'aveva mai amata.


Precipitò in una tristezza più profonda di tutte quelle che aveva conosciuto fino a quel momento. Per fortuna, la consolazione che suo marito le negava gliela offri qualcun altro: la Storia. Tre settimane dopo la notte che abbiamo evocato, il marito ricevette la cartolina precetto, preparò il bagaglio e partì per la frontiera. La guerra minacciava di scoppiare da un momento all'altro, la gente comprava maschere antigas e costruiva rifugi antiaerei nelle cantine. E la madre si afferrò alla sventura della patria come a una mano salvatrice; la viveva pateticamente e passava lunghe ore con il figlio al quale dipingeva gli avvenimenti a colori vividi.


Poi le grandi potenze si misero d'accordo a Monaco e il padre di Jaromil fece ritorno da un fortino che era stato occupato dalle truppe tedesche. Da allora tutti i membri della famiglia si riunivano a pianterreno, nella stanza del nonno, e sera dopo sera passavano in rassegna i singoli passi della Storia, che essi fino a poco tempo prima credevano assopita (oppure stava in agguato, fingendo di dormire) e adesso, ecco, era balzata fuori dalla tana per oscurare tutto il resto con l'ombra della sua imponente statura. Ah, come si sentiva bene, la madre, in quell'ombra! I cechi fuggivano in massa dalla regione dei Sudeti, la Boemia restava al centro dell'Europa come un'arancia sbucciata, priva di qualsiasi difesa; sei mesi dopo, all'alba, nelle strade di Praga apparvero i carri armati tedeschi, e durante quel periodo la madre di Jaromil continuava a restare accanto al soldato a cui era proibito difendere la propria patria e aveva completamente dimenticato che quel soldato era l'uomo che non l'aveva mai amata.


Ma anche nei periodi in cui la Storia imperversa così impetuosamente, la vita quotidiana presto o tardi riemerge dall'ombra e il letto coniugale si rivela nella sua monumentale trivialità e nella sua strabiliante continuità. Una sera che il padre di Jaromil aveva posato di nuovo la mano sul seno della madre, questa si rese conto che l'uomo che la stava toccando era lo stesso che l'aveva umiliata. Respinse la mano e con una sottile allusione gli ricordò le parole brutali che lui aveva pronunciato qualche tempo prima.


Non voleva essere cattiva; con quel rifiuto voleva solo dire che le grandi avventure delle nazioni non possono far dimenticare le modeste avventure dei cuori; voleva offrire al marito l'occasione di correggere oggi le sue parole di ieri, di esaltare oggi quanto allora aveva umiliato. Credeva che la tragedia della nazione l'avesse reso più sensibile ed era pronta ad accogliere con gratitudine anche una piccola carezza come segno di pentimento e come inizio di un nuovo capitolo del loro amore. Ma, ahimè, il marito la cui mano era stata allontanata dal seno della donna sì girò sull'altro fianco e ben presto si addormentò. 


Dopo la grande manifestazione degli studenti a Praga, i tedeschi chiusero le università ceche, e la mamma attese invano che il marito facesse scivolare ancora la mano sotto le coperte per posarla sul suo seno. Il nonno scoprì che la bella commessa della profumeria lo derubava da dieci anni, montò su tutte le furie e morì di un colpo apoplettico. Gli studenti cechi furono caricati su carri bestiame e portati in campi di concentramento, e la mamma consultò un medico che deplorò il cattivo stato dei suoi nervi e le raccomandò un periodo di riposo. Le indicò lui stesso una pensione nei pressi di una piccola stazione termale circondata da un fiume e da alcuni laghetti che d'estate attiravano una folla di turisti amanti dei bagni, della pesca e delle gite in barca. Si era all'inizio della primavera, e la madre di Jaromil era estasiata all'idea di tranquille passeggiate lungo le rive del fiume e dei laghetti. Ma poi ebbe paura dell'allegra musica da ballo che, dimenticata, resta sospesa nell'aria fra i tavoli dei ristoranti all'aperto come un malinconico ricordo dell'estate; ebbe paura della propria nostalgia, e decise che non sarebbe potuta andare da sola in quel luogo.


Ah, ma certo, seppe subito con chi ci sarebbe andata! Per i dispiaceri che le procurava il marito e per il suo desiderio di un secondo figlio, da qualche tempo l'aveva quasi dimenticato. Come era stata sciocca, quanto male aveva fatto a se stessa dimenticandolo! Pentita, si chinò su di lui: «Jaromil, tu sei il mio primo e il mio secondo bambino» disse premendo il viso contro quello del figlio, e continuò quella frase insensata: «Tu sei il mio primo, il mio secondo il mio terzo, il mio quarto, il mio quinto, il mio sesto e il mio decimo bambino...» e gli copriva il viso di baci.


6

Sul marciapiede della stazione li accolse una signora alta dai capelli grigi e dal corpo eretto; un robusto contadino si chinò sulle due valigie le portò davanti all'uscita, dove era già in attesa una carrozza nera con un cavallo; l'uomo sedette a cassetta e Jaromil, sua madre e la signora alta presero posto su due panchette messe una di fronte all'altra e si lasciarono portare lungo le strade della cittadina fino a una piazza, chiusa su un lato da portici rinascimentali e sull'altro da una cancellata oltre la quale si vedeva un giardino con un vecchio castello dai muri ricoperti di vite selvatica; poi scesero verso il fiume; Jaromil scorse una fila di cabine di legno giallo, un trampolino, dei tavolini bianchi con le sedie e, in fondo, un filare di pioppi che costeggiavano il fiume, ma già la carrozzella proseguiva verso alcune ville sparse in prossimità dell'acqua.


Davanti a una di queste ville il cavallo si fermò, l'uomo scese da cassetta, prese le due valigie, e Jaromil e la madre lo seguirono attraverso un giardino, un vestibolo, su per una scala, finché si trovarono in una stanza con due letti accostati come fossero un letto matrimoniale e due finestre, una delle quali si apriva a mo' di porta, su un balcone da cui si vedeva il giardino e in fondo il fiume. La mamma si accostò alla balaustra del balcone e si mise a respirare profondamente: «Ali, che pace divina!» disse e di nuovo inspirò ed espirò a fondo guardando verso il fiume dove una barchetta rossa si dondolava ormeggiata a un pontile di legno.


Quello stesso giorno, durante la cena servita nella saletta a pianterreno, fece amicizia con una vecchia coppia che occupava un'altra camera della pensione, così che ogni sera nella saletta risuonava a lungo il brusio di conversazioni tranquille; tutti volevano bene a Jaromil e la madre ascoltava con piacere le sue chiacchiere, le sue trovate, le sue birichinate discrete; sì, discrete: Jaromil non dimenticherà mai la signora nella sala d'attesa del dentista e cercherà sempre uno scudo dietro il quale ripararsi dal suo sguardo malevolo; certo, era sempre desideroso di essere ammirato, ma aveva imparato a guadagnarsi l'ammirazione con frasi brevi pronunciate con ingenuità e modestia. 


La villa nel giardino tranquillo, il fiume scuro con la barca alla fonda che faceva sognare di lunghe traversate, la carrozza nera che di tanto in tanto si fermava davanti alla villa per far salire la signora alta, simile alle principesse dei libri nei quali si parla di castelli e di palazzi, i bagni deserti nei quali si entrava direttamente scendendo dalla carrozza, così come si passa da un secolo a un altro secolo, da un sogno a un altro sogno, da un libro a un altro libro, la piazza rinascimentale con gli stretti portici le cui colonne nascondevano cavalieri impegnati in un duello, tutto questo creava un mondo nel quale Jaromil penetrava incantato.


Anche l'uomo col cane faceva parte di questo splendido mondo; quando lo videro per la prima volta era immobile in riva al fiume e guardava la corrente; portava un soprabito di pelle e al suo fianco era accucciato un cane lupo nero; nella loro immobilità, sembravano tutt'e due personaggi di un altro mondo. Lo incontrarono un'altra volta nello stesso posto; l'uomo (sempre col suo soprabito di pelle) gettava davanti a sé dei sassi e il cane glieli riportava. Al loro terzo incontro (lo scenario era sempre lo stesso: i pioppi e il fiume), l'uomo accennò un breve saluto alla mamma e poi, come accertò il curioso Jaromil, rimase a lungo voltato a guardarla. L'indomani, ritornando dalla passeggiata, videro il cane lupo nero seduto davanti all'ingresso della villa. Quando entrarono nel vestibolo, sentirono parlare all'interno e non ebbero dubbi: la voce maschile era quella del proprietario del cane; la loro curiosità era così eccitata che restarono qualche attimo immobili nel vestibolo a chiacchierare e a guardarsi intorno, finché da una stanza uscì la signora alta, proprietaria della pensione.


La madre indicò il cane: «Di chi è? Lo incontriamo ogni giorno quando andiamo a passeggiare». «È del professore di disegno del nostro liceo». La mamma osservò che sarebbe stata molto felice di parlare con un professore di disegno, perché a Jaromil piaceva molto disegnare e sarebbe stato interessante conoscere il parere di un esperto. La proprietaria della pensione presentò l'uomo alla madre, e Jaromil dovette correre in camera a prendere il suo album di disegni.


Poi si sedettero tutti e quattro nella saletta, la proprietaria della pensione, Jaromil, il padrone del cane, che esaminava i disegni, e la mamma, che accompagnava l'esame con una serie di commenti: Jaromil, spiegava, diceva sempre che non gli interessava disegnare paesaggi o nature morte, ma azioni, ed effettivamente a lei sembrava che quei disegni possedessero una vitalità e un movimento sorprendenti, anche se non riusciva a capire perché i protagonisti fossero sempre uomini con la testa di cane; forse, se Jaromil avesse disegnato vere figure umane, la sua modesta produzione avrebbe avuto qualche valore, ma così, purtroppo, lei non era in grado di dire se tutto il lavoro del piccolo avesse o no un senso.

Il padrone del cane esaminò i disegni con compiacimento; poi dichiarò che era proprio quel connubio di teste animali e di corpi umani ad affascinarlo. Perché quel connubio fantastico non era un'idea casuale, ma, come veniva dimostrato da una quantità di scene disegnate dal bambino, un'immagine ossessiva, qualcosa che affondava le radici nelle insondabili profondità della sua infanzia. Per giudicare il talento del figlio la madre di Jaromil non doveva basarsi soltanto sulla sua abilità di riprodurre il mondo esteriore; quel tipo di abilità era alla portata di tutti; come pittore (adesso lasciava intendere che l'insegnamento, per lui, non era che un male necessario, per sopravvivere), ciò che lo interessava nei disegni del bambino era proprio quell'originale mondo interiore che il bambino proiettava sulla carta. 


La mamma ascoltava con piacere gli elogi dell'uomo, la signora alta carezzava i capelli di Jaromil affermando che il bambino aveva davanti a sé un grande avvenire e Jaromil guardava sotto il tavolo e registrava nella memoria tutto quello che sentiva. Il pittore disse che l'anno prossimo avrebbe avuto il trasferimento in un liceo di Praga e che sarebbe stato felice se la madre fosse venuta a mostrargli altri disegni del figlio.


Il mondo interiore! Erano parole altisonanti, e Jaromil le ascoltò con immensa soddisfazione. Non aveva mai dimenticato che già a cinque anni veniva considerato un bambino eccezionale, diverso dagli altri; anche il comportamento dei suoi compagni di scuola, che lo prendevano in giro per la cartella o per la camicia, gli aveva sempre confermato (seppure amaramente) la sua eccezionalità. Ma fino ad ora quella eccezionalità per lui non era stata altro che una nozione vuota e incerta; era stata una speranza incomprensibile o un incomprensibile rifiuto; adesso invece aveva ricevuto un nome: un originale mondo interiore; e la definizione aveva subito trovato un contenuto ben preciso: disegni di uomini con la testa di cane. Certo, Jaromil sapeva di essere arrivato a quella ammirevole scoperta degli uomini cinocefali per puro caso, perché non sapeva disegnare volti umani; questo gli suggerì l'idea confusa che l'originalità del suo mondo interiore non fosse il risultato di uno sforzo laborioso, ma che consistesse in tutto ciò che passava casualmente e involontariamente nella sua testa; che gli fosse data come un dono. 


Da quel momento seguì con molta più attenzione le proprie idee e cominciò ad ammirarle. Gli venne per esempio in mente che alla sua morte il mondo in cui viveva avrebbe cessato di esistere. Era stato dapprima un pensiero fugace, ma questa volta, sapendo ormai che si trattava della sua originalità interiore, non se lo lasciò sfuggire (come prima s'era lasciato sfuggire tante altre idee), se ne impadronì subito, l'osservò, l'esaminò sotto ogni aspetto. Camminava lungo la riva del fiume; ogni tanto chiudeva gli occhi e si chiedeva se il fiume esisteva anche quando lui aveva gli occhi chiusi. Naturalmente ogni volta che riapriva gli occhi il fiume continuava a scorrere come prima, ma la cosa sorprendente era che in quel modo il fiume non riusciva a provare a Jaromil di essere realmente lì anche quando lui non lo vedeva. La cosa gli parve oltremodo interessante, consacrò almeno una mezza giornata a osservazioni del genere e infine ne parlò alla madre.


Più il soggiorno si avvicinava alla fine, più aumentava in entrambi il piacere che trovavano nelle loro conversazioni. Ora uscivano insieme al crepuscolo, sedevano vicino all'acqua su una panchina di legno mezzo marcio, si tenevano per mano e restavano a guardare le onde su cui oscillava una grossa luna. «Ah, com'è bello» sospirava la mamma, e il bambino vedeva il cerchio d'acqua rischiarato dalla luna e pensava sognando al lungo corso del fiume; e allora la mamma pensò alle giornate vuote alle quali sarebbe tornata fra pochi giorni e disse: «Bambino mio, dentro di me c'è una tristezza che non potrai mai capire». Poi vide gli occhi del figlio e le sembrò che in quegli occhi ci fosse un grande amore e il desiderio di capirla. Provò paura; non poteva certo confidare i suoi problemi di donna a un bambino. Ma al tempo stesso quegli occhi comprensivi la attiravano come un vizio. Madre e figlio giacevano vicini nei letti gemelli, e la madre ricordava di aver dormito così, accanto a Jaromil, fino a quando lui aveva compiuto sei anni, e di essere stata felice; pensò: è il solo uomo con cui sono felice a letto; all'inizio il pensiero la fece sorridere, ma quando vide di nuovo lo sguardo tenero del figlio si disse che quel bambino era capace non solo di distrarla da ciò che l'affliggeva (di darle cioè il conforto dell'oblio), ma anche di ascoltarla attentamente (di darle cioè il conforto della comprensione). «La mia vita, voglio che tu lo sappia, è tutt'altro che piena d'amore» gli disse; e un'altra volta arrivò a confidargli: «Come mamma, sono felice, ma una mamma non è soltanto una mamma, è anche una donna». 


Sì, queste confidenze incompiute la attiravano come un peccato, e lei se ne rendeva conto. Un giorno che Jaromil le rispose, inaspettatamente: «Mamma, non sono mica così piccolo, io ti capisco», ne fu quasi spaventata. Il ragazzino, beninteso, non indovinava nulla di preciso, e voleva soltanto suggerire alla madre che era capace di dividere con lei qualsiasi tristezza, eppure le sue parole significavano molte cose e la madre vi affondò lo sguardo come in un abisso spalancatosi all'improvviso: l'abisso dell'intimità proibita e della comprensione illecita.


7

E in che modo continuava a fiorire l'originale mondo interiore di Jaromil?


La situazione non era brillante; gli studi nei quali riusciva con tanta facilità alle elementari erano diventati ora più difficili alle medie, e in questo grigiore la gloria del mondo interiore andava scomparendo. La professoressa parlava loro di libri pieni di pessimismo che quaggiù nel mondo scorgevano solo miseria e rovina, sicché la massima sulla vita che somiglia all'erba cattiva diventava offensivamente banale. Jaromil non era più tanto sicuro se tutto ciò che un giorno aveva pensato e sentito appartenesse solo a lui, oppure se tutte le idee esistono nel mondo già bell'e pronte da sempre e gli uomini si limitano a prenderle in prestito come alla biblioteca pubblica. Ma allora, chi era lui? Quale poteva essere in realtà il vero contenuto del suo io? Si piegava su quell'io per scrutarlo, ma non riusciva a trovare altro che l'immagine di se stesso piegato su di sé per scrutare il proprio io...


Fu così che cominciò a pensare con nostalgia all'uomo che due anni prima aveva parlato per la prima volta della sua originalità interiore; e poiché in disegno aveva appena la sufficienza (quando dipingeva all'acquerello l'acqua trasbordava sempre dai contorni tracciati a matita), la madre decise che poteva esaudire la richiesta del figlio, cercare l'indirizzo del pittore e del tutto legittimamente pregarlo di dare delle lezioni private a Jaromil per rimediare alle carenze che gli guastavano la pagella.


Un bel giorno, dunque, Jaromil entrò nell'appartamento del pittore. L'appartamento era stato ricavato nel solaio di una casa popolare ed era composto di due locali: nel primo si trovava una grande biblioteca; nell'altro, invece delle finestre, c'era un grande vetro smerigliato incassato nel tetto spiovente, e c'erano cavalletti con tele non finite, un lungo tavolo dov'erano sparsi fogli e boccette di colore e, appese al muro, strane facce nere che a detta del pittore erano copie di maschere africane; un cane (quello che Jaromil già conosceva) era sdraiato in un angolo del divano e fissava immobile il visitatore. 


Il pittore fece sedere Jaromil al lungo tavolo e sii mise a sfogliare il suo album da disegno: «È sempre la stessa roba,» disse poi «così non arrivi a nulla».


Jaromil avrebbe voluto replicare che erano esattamente gli stessi personaggi con la testa di cane che erano tanto piaciuti al pittore, e che li aveva disegnati proprio per lui e a causa delle sue parole, ma era così deluso e amareggiato che non riuscì a dire nulla. Il pittore gli stese davanti un foglio bianco, aprì una boccetta di inchiostro di china e gli mise in mano un pennello. «Adesso, disegna quel che ti passa per la testa, non stare troppo a pensarci e disegna...». Ma Jaromil era talmente impaurito che non sapeva assolutamente che cosa disegnare, e poiché il pittore insisteva dovette ricorrere di nuovo, con la morte nell'anima, a una testa di cane sopra un corpo informe. Il pittore era scontento e Jaromil, imbarazzato, gli disse che avrebbe voluto imparare a dipingere all'acquerello, perché a scuola, quando dipingeva, il colore gli macchiava sempre i disegni.


«Tua madre me ne ha già parlato,» disse il pittore «ma per il momento dimenticalo, e dimentica anche i cani». E posato un grosso libro davanti a Jaromil gli mostrò alcune pagine dove una goffa linea nera serpeggiava capricciosamente su un fondo colorato, suscitando nella fantasia di Jaromil immagini di millepiedi, di stelle di mare, di scarafaggi, di astri e di lune. Il pittore voleva che lui disegnasse qualcosa di simile, affidandosi alla sua immaginazione. «Ma che cosa devo disegnare?» chiese il ragazzo, e il pittore gli disse: «Traccia una linea; disegna una linea che ti piaccia. E ricorda che il compito del pittore non è di riprodurre i contorni delle cose, ma di creare sulla carta il mondo delle proprie linee». E Jaromil tracciò linee che non gli piacevano per niente, ne riempì alcuni fogli, e infine consegnò al pittore, secondo le istruzioni di sua madre, un biglietto di banca e tornò a casa. 


La visita si era svolta in modo abbastanza diverso da come lui se l'era immaginata, e non era stata affatto l'occasione per riscoprire il suo perduto mondo interiore; al contrario, lo aveva privato della sola cosa che gli appartenesse veramente, i calciatori e i soldati con la testa di cane. Eppure, quando la madre gli chiese se la lezione di disegno gli era piaciuta, ne parlò con entusiasmo- non mentiva: se la visita non gli aveva procurato la conferma del suo mondo interiore, gli aveva però fatto scoprire un singolare mondo esteriore che non era accessibile a chiunque che gli assicurava fin dall'inizio alcuni piccoli privilegi: aveva visto strani dipinti che lo avevano sconcertato, ma che presentavano il vantaggio (aveva capito subito che si trattava di un vantaggio!) di non avere nulla in comune con le nature morte e i paesaggi appesi alle pareti della villetta dei suoi genitori; inoltre aveva avuto modo di ascoltare riflessioni degne di nota, di cui s'era appropriato senza indugio: aveva capito, per esempio, che la parola borghese è un'ingiuria; borghese è chi vuole che i quadri siano come la vita e imitino la natura; ma dei borghesi ci si può far beffe perché (questa idea gli piaceva molto!) sono morti da un pezzo e non lo sanno.


Insomma, andava volentieri dal pittore, e sperava appassionatamente di rinnovare il successo che gli avevano procurato un tempo i suoi disegni di uomini cinocefali; ma invano: gli scarabocchi, che dovevano essere variazioni sui quadri di Miró, erano voluti e del tutto privi del fascino che emana dal giochi infantili; i disegni di maschere negre restavano maldestre imitazioni del modello e non stimolavano in alcun modo, come sperava il pittore, l'immaginazione personale del ragazzo. E Jaromil, non sopportando di essere già stato parecchie volte dal pittore senza raccogliere il minimo segno d'ammirazione, prese una decisione: gli portò il suo album segreto dove disegnava corpi di donne nude. 


I modelli di cui s'era per lo più servito erano fotografie di statue che aveva trovato su riviste illustrate nella biblioteca che era stata del nonno; erano dunque (soprattutto nelle prime pagine dell'album) donne mature e robuste in atteggiamenti alteri, come sono le allegorie del secolo scorso. Solo le pagine successive offrivano qualcosa di più interessante: c'era una donna senza testa; non solo, il foglio aveva un taglio all'altezza del collo, e questo dava l'impressione che la testa fosse stata mozzata e che il foglio serbasse ancora l'impronta di una scure immaginaria. L'incisione era dovuta al temperino di Jaromil; il fatto è che lui aveva una compagna di scuola che gli piaceva e che lui contemplava spesso nel vano desiderio di vederla nuda. Per realizzare questo desiderio si procurò una foto della ragazza e ne tagliò la testa, che poi inseriva nell'incisione fatta sul foglio. Per la stessa ragione, a partire da quel disegno, tutti i corpi di donne erano decapitati, con lo stesso segno lasciato dalla scure immaginaria; alcuni erano rappresentati in situazioni molto insolite, per esempio a gambe piegate nell'atteggiamento della minzione; ma anche sul rogo, in mezzo alle fiamme, come Giovanna d'Arco; questa scena di supplizio, che potremmo spiegare (e forse anche scusare) con le lezioni di storia, inaugurava una ricca serie: altri disegni mostravano una donna senza testa impalata su un palo aguzzo, una donna senza testa e con una gamba tagliata, una donna senza testa amputata di un braccio e altre ancora in situazioni sulle quali è meglio sorvolare.


Evidentemente Jaromil non poteva essere certo che quei disegni sarebbero piaciuti al pittore; non assomigliavano affatto a ciò che vedeva nei suoi grossi libri o nelle tele sui cavalletti dello studio; eppure, gli sembrava che nei disegni del suo album segreto ci fosse qualcosa che li avvicinava a quello che faceva il suo maestro: era la loro natura di cose proibite; era la loro diversità dai quadri appesi alle pareti di casa sua; era la disapprovazione che avrebbero riscosso sia i suoi disegni di donne nude, sia le incomprensibili tele del pittore, se fossero stati sottoposti al giudizio di una commissione composta dai membri della famiglia di Jaromil e dai loro ospiti abituali. 


Il pittore sfogliò l'album, non disse nulla e porse a Jaromil un grosso libro. Poi sedette un po' discosto e schizzò qualcosa su dei fogli mentre Jaromil vedeva sulle pagine del grosso libro un uomo nudo con un gluteo così lungo che doveva essere sostenuto con un puntello di legno; vedeva un uovo dal quale spuntava un fiore; vedeva una faccia coperta di formiche; vedeva un uomo con una mano che si mutava in roccia. 


«Guarda» disse il pittore tornandogli vicino «in che modo straordinario disegna Salvador Dalì», e gli posò davanti la statuetta di gesso di una donna nuda. «Abbiamo trascurato il mestiere del disegno, ed è stato un errore. Bisogna prima conoscere il mondo così com'è per poterlo poi trasformare radicalmente», e l'album di Jaromil cominciò a riempirsi di corpi femminili di cui il pittore correggeva e ridisegnava le proporzioni.


8

Quando una donna non vive abbastanza del proprio corpo, il corpo finisce per apparirle un nemico. La mamma non era molto soddisfatta degli strani scarabocchi che suo figlio riportava a casa dalle lezioni di disegno, ma quando vide gli schizzi di donne nude corretti dal pittore, provò un violento disgusto. Qualche giorno dopo, affacciata alla finestra, vide in giardino Jaromil che, reggendo una scala, era intento a guardare sotto le gonne della cameriera Magda che vi era salita su per raccogliere le ciliegie. Le parve di venir aggredita da ogni parte da reggimenti di sederi femminili nudi e decise di non aspettare oltre. Quel pomeriggio Jaromil aveva la sua solita lezione di disegno; la mamma si vestì in fretta e lo precedette.


«Io non sono affatto una puritana,» disse dopo essersi accomodata in una poltrona dello studio «ma lei sa che Jaromil sta entrando in un'età pericolosa».


Aveva preparato con tanta cura tutto quello che avrebbe detto al pittore, e ora ne restava così poco. Aveva preparato quelle frasi nella sua cornice familiare, nella stanza dove la finestra aperta lasciava entrare il tenero verde del giardino, che applaudiva sempre tacitamente a tutti i suoi pensieri. Ma qui non c'era verde, c'erano tele bizzarre appoggiate al cavalletti, e sul divano era sdraiato un cane che, con la testa fra le zampe, la guardava fisso come una sfinge incredula. 


Il pittore respinse con poche frasi le obiezioni della mamma, quindi proseguì: preferiva confessare francamente che non gli interessavano affatto i buoni voti che Jaromil poteva ottenere a scuola in lezioni di disegno buone solo a uccidere il talento dei bambini. Ciò che lo interessava, nei disegni di suo figlio, era quell'immaginazione originale, quasi folle.


«Osservi questa curiosa coincidenza. I disegni che lei mi ha mostrato qualche anno fa rappresentavano uomini con la testa di cane. I disegni che suo figlio mi ha mostrato recentemente rappresentavano donne nude, ma tutte senza testa. Non trova significativo questo rifiuto ostinato di riconoscere all'uomo un volto umano, di riconoscere all'uomo una figura umana?»


La mamma osò obiettare che suo figlio non era certo tanto pessimista da arrivare a negare la natura umana dell'uomo.


«S'intende, i suoi disegni non sono certo il risultato di un ragionamento pessimistico» disse il pittore. «L'arte attinge a fonti ben diverse da quelle della ragione. A Jaromil l'idea di disegnare uomini con la testa di cane o donne senza testa è venuta spontaneamente, senza che lui ne sapesse il perché o il come. È l'inconscio che gli ha suggerito queste figure, strane e tuttavia non prive di senso. Non le sembra che ci sia un legame segreto tra questa visione di suo figlio e la guerra che sconquassa ogni ora della nostra vita? La guerra non ha forse privato l'uomo del viso, della testa? Non viviamo forse in un mondo nel quale uomini senza testa sanno ormai solo desiderare un pezzo di donna senza testa? Una visione realistica del mondo non è forse la più effimera delle illusioni? I disegni infantili di suo figlio non sono forse molto più veri?».


Era andata lì per rimproverare il pittore e adesso era imbarazzata come una ragazzina che ha paura di essere sgridata; non sapeva che cosa dire e taceva.


Il pittore si alzò dalla poltrona e andò verso un angolo dello studio dove alcune tele senza cornice erano appoggiate contro il muro. Ne prese una, la voltò verso l'interno della stanza, indietreggiò di quattro passi, si accoccolò e si mise a guardarla. «Venga qui» le disse, e quando lei si fu (docilmente) avvicinata, le posò una mano su un fianco e la attirò verso di sé, così che adesso erano entrambi accoccolati a terra, uno accanto all'altra, e la mamma contemplava un curioso impasto di bruni e di rossi che creava una sorta di paesaggio deserto e carbonizzato, pieno di fiamme soffocate che potevano anche essere interpretate come macchie di sangue; in mezzo al paesaggio, scavata con la spatola, c'era una figura umana, una strana figura che sembrava fatta di fili bianchi (la sagoma era data dal colore della tela messa a nudo) e più che camminare si librava a mezz'aria, diafana più che presente. 


La mamma non sapeva ancora una volta che cosa dire, ma il pittore parlava da solo, parlava della fantasmagoria della guerra che, diceva, superava di gran lunga la fantasia della pittura moderna, parlava dell'immagine atroce offerta da un albero nei cui rami sono intrecciati brandelli di corpi umani, un albero con le dita e con un occhio che guarda dall'alto di un ramo. Poi disse che più nulla al mondo lo interessava, ormai, che non fossero la guerra e l'amore; l'amore che affiorava dal mondo insanguinato della guerra come la figura umana che la madre poteva distinguere sulla tela. (Per la prima volta dall'inizio di questa conversazione la mamma ebbe la sensazione di capire il pittore, perché anche lei vedeva sulla tela una sorta di campo di battaglia, e nelle linee bianche le pareva di vedere una figura umana). E il pittore le ricordò la stradina lungo il fiume dove si erano visti la prima volta e dove, in seguito, si erano incontrati tante volte, e le disse che lei allora era sorta davanti a lui dalla nebbia, dal fuoco e dal sangue come il timido e bianco corpo dell'amore.


Poi attirò verso di sé la mamma accoccolata e la baciò. La baciò prima ancora che lei potesse pensare che stava per baciarla. Questa era, del resto, la caratteristica di tutto l'incontro: gli avvenimenti la prendevano alla sprovvista, superavano sempre la sua immaginazione e i suoi pensieri; il bacio era già un fatto compiuto prima che lei avesse avuto il tempo di riflettere, e ogni ulteriore riflessione ormai non poteva più cambiare ciò che era avvenuto; ebbe appena il tempo di dirsi, molto in fretta, che era successo qualcosa che non sarebbe dovuto succedere; ma neanche di questo lei era poi così sicura, per cui rimandò a più tardi la soluzione della controversa questione e si concentrò tutta su ciò che era, prendendolo per quello che era. 


Sentì la lingua del pittore nella sua bocca e in una frazione di secondo capì che la propria lingua era impaurita e molle e che doveva fare al pittore lo stesso effetto di uno straccetto umido; ne provò vergogna e pensò per un attimo e quasi con rabbia che non c'era da meravigliarsi se la sua lingua si era trasformata in uno straccetto, considerando da quanto tempo non baciava più; si affrettò a rispondere alla lingua del pittore con la punta della sua e lui la sollevò da terra, la portò al divano (il cane, che non li aveva lasciati un attimo con lo sguardo, saltò giù e andò ad allungarsi vicino alla porta), ve l'adagiò, si mise ad accarezzarle il seno, e lei provò soddisfazione e orgoglio; il viso del pittore le appariva avido e giovane, e pensò che da tanto tempo lei non si sentiva più né avida né giovane, ed ebbe paura di non esserne più capace, ma proprio per questo si impose di comportarsi da donna avida e giovane finché d'un tratto (anche questa volta la cosa avvenne prima che lei avesse il tempo di pensarci) capì che quello era il terzo uomo che sentiva nel proprio corpo da quando era nata.


E si rese conto di non sapere affatto se lo voleva o no, si rese conto che lei era sempre una ragazzina stupida e inesperta e che se le fosse passato anche solo per un angolino del cervello che il pittore l'avrebbe baciata e amata, ciò che era successo non sarebbe mai potuto succedere. Questo pensiero costituiva per lei una scusa rassicurante, giacché voleva dire che lei era stata portata all'adulterio non dalla sua sensualità, ma dalla sua innocenza; al pensiero della sua innocenza si mischiò subito dopo un senso di rabbia contro colui che l'aveva sempre tenuta in uno stato di innocente semimaturità, e questa rabbia ricadde come una tenda sui suoi pensieri, sicché ben presto non sentì altro che il proprio respiro affrettato e rinunciò a esaminare ciò che stava facendo. 


Quando il ritmo dei loro respiri si fu calmato, i pensieri si risvegliarono e lei, per fuggirli, posò la testa sul petto del pittore; si lasciò accarezzare i capelli, respirava l'odore inebriante dei colori a olio e si chiedeva chi avrebbe rotto per primo il silenzio. Ma non fu nessuno dei due, fu il campanello. Il pittore si alzò, si abbottonò rapidamente i pantaloni e disse: «È Jaromil». 


Lei ne fu terrorizzata.


«Stai pure tranquilla» le disse lui, le accarezzò i capelli e uscì dallo studio.


Apri la porta al ragazzo e lo fece sedere nella prima stanza. «Ho una visita nello studio, oggi resteremo qui. Fammi vedere cosa hai portato». Jaromil porse il suo album al pittore, il pittore esaminò i disegni che Jaromil aveva fatto a casa, poi gli mise davanti dei colori, gli diede carta e pennello e gli assegnò un tema da illustrare. 


Quindi ritornò nello studio dove trovò la mamma rivestita e pronta ad andarsene. «Perché l'ha fatto restare? Perché non l'ha mandato via?». 


«Hai tanta fretta di lasciarmi?».


«È una follia» disse la mamma, e il pittore la strinse di nuovo tra le braccia; questa volta lei non oppose resistenza né rispose alle sue carezze; stava tra le sue braccia come un corpo privato dell'anima,e il pittore sussurrò nelle orecchie di quel corpo inerte: «Sì, è una follia. L'amore è folle, altrimenti non è amore». La fece sedere sul divano e la baciò e le accarezzò il seno.


Poi tornò nell'altra stanza per vedere che cosa aveva disegnato Jaromil. Questa volta il tema assegnato non mirava a esercitare l'abilità manuale del ragazzo; gli aveva chiesto di disegnare la scena di un sogno fatto di recente e rimastogli impresso nella memoria. E il pittore, ora, dissertava sulla sua composizione; la cosa più bella, nel sogni, è l'incontro incredibile di uomini e cose che non potrebbero mai incontrarsi nella vita comune; in sogno, una barca può entrare dalla finestra in una stanza da letto, nel letto può esserci una donna morta da vent'anni, eppure ecco che sale sulla barca la quale subito si trasforma in una bara e la bara comincia a scendere sul filo della corrente tra le rive fiorite di un fiume. Citò la celebre frase di Lautréamont sulla bellezza che c'è nell'incontro di un ombrello e di una macchina per cucire su un tavolo operatorio, e aggiunse: «E tuttavia, questo incontro non è certo più bello dell'incontro di una donna e di un ragazzo nello studio di un pitto re».


Jaromil aveva notato che il suo professore era un po' diverso dal solito, non gli era sfuggita l'esaltazione che c'era nella sua voce mentre dissertava di sogni e di poesia. Non solo la cosa gli faceva piacere, ma era lusingato di esser stato proprio lui, Jaromil, il pretesto per quel discorso infuocato, e soprattutto aveva compreso perfettamente l'ultima frase dei suo professore a proposito dell'incontro di un ragazzo e di una donna nello studio di un pittore. Poco prima, quando il pittore gli aveva detto che sarebbero rimasti nella prima stanza, Jaromil aveva capito che nello studio doveva esserci una donna, e sicuramente non una qualsiasi, dal momento che non gli era permesso di vederla. Ma era ancora troppo lontano dal mondo degli adulti per cercare di risolvere quell'enigma; piuttosto lo interessava il fatto che il pittore, con la sua ultima frase, lo avesse messo sullo stesso piano della donna che per lui era di sicuro molto importante e il cui arrivo era stato chiaramente reso più bello e importante proprio da lui, Jaromil, e da tutto questo dedusse che il pittore gli voleva bene, capì di contare molto per lui, forse per qualche profonda e misteriosa somiglianza interiore che Jaromil, essendo ancora un bambino, non poteva scorgere con chiarezza, ma di cui il pittore, uomo adulto e saggio, era ben conscio. La cosa lo riempì di un sommesso entusiasmo, e quando il pittore gli assegnò un altro compito si chinò febbrilmente sul foglio.


Il pittore tornò nello studio e vi trovò la mamma in lacrime. 


«La prego, mi lasci andar via!».


«D'accordo, potete andarvene insieme, Jaromil ha quasi finito il suo compito».


«Lei è un demonio» disse la mamma sempre piangendo, e il pittore la abbracciò e la baciò. Poi tornò nella stanza vicina, lodò senza riserve il lavoro del ragazzo (ah, quel giorno Jaromil fu molto felice!) e lo rimandò a casa. Quindi tornò nello studio, distese la mamma piangente sul vecchio divano sporco di colori, baciò le sue labbra molli e il suo volto umido e la amò di nuovo.


9

L'amore della mamma e del pittore non riuscì mai a liberarsi dei presagi che avevano segnato il loro primo incontro: non era un amore che lei avesse a lungo cercato, sognato, guardandolo fisso negli occhi; era un amore inatteso, che l'aveva colpita alle spalle. 


Quell'amore le ricordava di nuovo la sua impreparazione amorosa: non aveva esperienza, non sapeva mai che cosa fare né che cosa dire; davanti al viso originale ed esigente del pittore si vergognava in anticipo di ogni parola e di ogni gesto; né il suo corpo era meglio preparato; per la prima volta rimpiangeva amaramente di essersene occupata così male dopo il parto, ed era terrorizzata dall'immagine del proprio ventre riflessa nello specchio, quella pelle vizza, tristemente rilasciata. 


Ah! Aveva sempre sognato un amore entro cui invecchiare armoniosamente, col corpo e l'anima che si tenevano per mano (sì, questo era l'amore di cui lei aveva a lungo fantasticato, guardandolo negli occhi con aria sognante); ma qui, in questo incontro difficile in cui era entrata di colpo, l'anima le sembrava penosamente giovane e il corpo penosamente vecchio, così che avanzava nella sua avventura come se sì fosse trovata a percorrere con passo tremante un'asse sottile, senza sapere se sarebbe stata la giovinezza dell'anima o la vecchiaia del corpo a provocare la caduta.


Il pittore la circondava di una stravagante sollecitudine e si sforzava di introdurla nel mondo dei suoi quadri e dei suoi pensieri. Lei ne era felice; per lei era una prova che il loro primo incontro non era stato soltanto una congiura di due corpi che avevano approfittato della situazione. Ma quando l'amore occupa insieme l'anima e il corpo vuole per sé molto più tempo: la mamma dovette inventare l'esistenza di nuove amiche per giustificare (soprattutto con la nonna e con Jaromil) le sue ripetute assenze da casa.


Quando il pittore dipingeva, gli si metteva accanto su una sedia, ma questo a lui non bastava; le aveva spiegato che la pittura, così come lui la concepiva, era solo uno dei tanti modi per estrarre il meraviglioso dalla vita; e il meraviglioso lo può scoprire anche un bambino nei suoi giochi, anche un uomo qualunque trascrivendo un suo sogno. La mamma ricevette un foglio di carta e dei colori, e dovette fare delle macchie sul foglio e poi soffiarci sopra; raggi disuguali si mettevano a correre in tutte le direzioni sulla carta coprendola di una rete colorata; il pittore esponeva quelle sue operette dietro i vetri della libreria e le mostrava con orgoglio ai suoi ospiti.


Già durante una delle sue prime visite le diede, al momento del commiato, alcuni libri. La mamma dovette leggerli a casa sua, e leggerli di nascosto, perché temeva che Jaromil le chiedesse da dove venivano o che un altro membro della famiglia le facesse la stessa domanda, e difficilmente lei avrebbe trovato una bugia soddisfacente, giacché bastava un'occhiata per capire che quei libri erano diversi da quelli che si potevano trovare nella biblioteca delle sue amiche o dei parenti. Fu dunque costretta a nascondere i libri nell'armadio della biancheria, sotto i reggiseni e le camicie da notte, e a leggerli nei momenti in cui era sola. Erano certo la sensazione di fare una cosa proibita e la paura di essere colta in fallo a impedirle di concentrarsi su ciò che leggeva, perché non riusciva a tenere a mente gran che delle sue letture e anzi non sembrava comprendere quasi nulla, pur leggendo molte pagine due o tre volte.


Dopo, andava dal pittore con la stessa angoscia di una scolara che ha paura di essere interrogata, perché il pittore le chiedeva subito se il libro le era piaciuto e la mamma sapeva che lui voleva sentire qualcosa di più di una semplice risposta affermativa, sapeva che per lui un libro era il punto di partenza per una conversazione e che in un libro c'erano frasi a proposito delle quali lui voleva trovarsi d'accordo con lei, come se si fosse trattato di una verità professata insieme. La mamma sapeva tutto ciò, ma questo non l'aiutava a capire che cosa ci fosse di tanto importante nel libro. Come una scolara maliziosa, ricorreva a giustificazioni: si lagnava di essere costretta a leggere i libri di nascosto per non essere scoperta e di non riuscire perciò a concentrarsi come avrebbe voluto.


Il pittore accettò questa scusa, ma trovò una soluzione ingegnosa: alla lezione seguente, parlò a Jaromil delle correnti dell'arte moderna e gli diede da leggere alcuni libri che il ragazzo accettò volentieri. La prima volta che la madre vide quei libri sulla scrivania di Jaromil, e capì che era merce di contrabbando destinata a lei, ebbe paura. Fino a quel momento aveva preso su di sé tutto il fardello della sua avventura, ed ecco che di colpo suo figlio (questa immagine di purezza!) diventava l'ignaro messaggero di un amore adulterino. Ma ormai noti c'era più nulla da fare, i libri erano lì sullo scrittoio, e alla mamma non restò altro che dar loro un'occhiata con il pretesto di una comprensibile sollecitudine materna.


Un giorno osò dire al pittore che le poesie che le aveva prestato le sembravano inutilmente oscure e difficili. Appena gli ebbe detto queste parole se ne pentì, perché il pittore considerava la più piccola divergenza di opinione conte un tradimento. Cercò subito di riparare alla gaffe. Quando il pittore, accigliato, si girò verso la tela, lei si tolse non vista la camicetta e il reggiseno. Aveva un bel seno e lo sapeva. adesso lo portò fieramente (ma non senza un residuo di timidezza) attraverso lo studio e infine andò a mettersi di fronte al pittore, nascosta per metà dalla tela posata sul cavalletto. Il pittore, con aria tetra, passava il pennello sulla tela e a più riprese le lanciò uno sguardo cattivo. Poi lei strappò il pennello dalla mano del pittore, se lo mise tra i denti, gli disse una parola che fino ad allora non aveva mai detto a nessuno, una parola volgare e oscena, e la ripeté più volte a bassa voce finché vide che l'ira del pittore si trasformava in desiderio. 


No, non era abituata a comportarsi in quel modo; era nervosa e tesa; ma fin dall'inizio della loro intimità aveva capito che il pittore esigeva da lei forme libere e sorprendenti di effusioni amorose e voleva che con lui si sentisse completamente libera e a suo agio, sciolta da tutto, da ogni convenzione, da ogni pudore, da ogni inibizione; amava dirle: «Voglio solo che tu mi regali la tua libertà, la tua libertà intima e totale!», e ad ogni istante voleva accertarsi di quella libertà. La mamma era arrivata più o meno a capire che quel modo disinibito di comportarsi era bello, ma a maggior ragione temeva che non ne sarebbe mai stata capace. E quanto più si sforzava di sapere la propria libertà, tanto più essa le diventava un compito arduo, un dovere, qualcosa che era costretta a preparare a casa (riflettere per sapere con quale parola, con quale desiderio, con quale gesto avrebbe sorpreso il pittore e gli avrebbe dimostrato la propria spontaneità), di modo che già si piegava sotto l'imperativo della libertà come sotto un peso gravoso. 


«Il peggio non è che il mondo non sia libero, ma che la gente abbia disimparato la libertà» le diceva il pittore, e lei pensava che l'osservazione sì riferisse proprio a lei, che apparteneva completamente a quel vecchio mondo che, come dichiarava il pittore, andava rifiutato in blocco. «Se non possiamo cambiare il mondo, cambiamo almeno la nostra vita e viviamola liberamente» le diceva. «Se ogni vita è qualcosa di unico, traiamone tutte le conseguenze; rifiutiamo tutto ciò che non è nuovo. Bisogna essere assolutamente moderni» le diceva citando Rimbaud e lei lo stava ad ascoltare religiosamente, piena di fiducia nelle sue parole e piena di sfiducia in se stessa.


Ogni tanto pensava che l'amore del pittore per lei nasceva sicuramente da un malinteso, e più di una volta gli chiese perché la amava. Lui le rispondeva che l'amava come un pugile ama una farfalla, come un cantante ama il silenzio, come il brigante ama la maestrina del villaggio; le diceva che la amava come il macellaio ama gli occhi spauriti della mucca e il fulmine l'idillio dei tetti; le disse che l'amava come una donna amata rapita a uno stupido focolare.


Lei lo ascoltava in estasi e andava da lui appena riusciva a trovare un momento libero. Si sentiva come una turista che ha davanti agli occhi i paesaggi più belli, ma è troppo stanca per apprezzarne la bellezza. Non traeva alcuna gioia dal suo amore, ma sapeva che era un amore grande e bello e che non doveva perderlo.


E Jaromil? Era fiero che il pittore gli prestasse i libri della sua biblioteca (più di una volta il pittore gli aveva detto che non prestava libri a nessuno e che lui era il solo a godere di questo privilegio), e siccome aveva molto tempo a disposizione passava lunghe ore a fantasticare su quelle pagine. L'arte moderna, a quei tempi, non era ancora diventata patrimonio delle folle piccoloborghesi e aveva ancora il fascino irresistibile della setta, un fascino così comprensibile per un'età in cui si fantastica di romantici clan e confraternite. Jaromil sentiva profondamente quel fascino e leggeva quei libri in modo completamente diverso dalla madre, che li studiava dalla a alla zeta come libri di testo su cui sarebbe stata interrogata. Jaromil, che non era minacciato da interrogazioni di sorta, in realtà non lesse mai da cima a fondo nemmeno uno dei libri del pittore; li scorreva pigramente, li sfogliava, qui attardandosi su una pagina, lì fermandosi su un verso senza prendersela se il resto della poesia non gli diceva niente. Ma quell'unico verso o quell'unico paragrafo di prosa bastavano a renderlo felice, non solo per la loro bellezza ma soprattutto perché gli servivano da lasciapassare per il regno degli eletti cui è dato capire ciò che agli altri resta nascosto.


La mamma sapeva che il figlio non si accontentava del semplice ruolo di messaggero e che leggeva con vero interesse quei libri solo in apparenza destinati a lui; cominciò così a discutere di quello che entrambi leggevano e gli faceva le domande che non osava fare al pittore. Quasi con terrore, constatò che il figlio difendeva i libri avuti in prestito con ostinazione ancora più implacabile di quella del pittore. Si accorse che in un libro di poesie di Éluard era stato sottolineato a matita il verso dormire, la luna in un occhio e il sole nell'altro. «Che cosa ci trovi di bello? Perché dovrei dormire con la luna in un occhio?». Gambe di pietra dalle calze di sabbia. «Come possono essere di sabbia le calze?». Jaromil ebbe l'impressione che la madre si facesse gioco non solo della poesia, ma anche di lui, come se fosse convinta che alla sua età non potesse capire nulla, e così le rispose bruscamente. 


Mio Dio, non era riuscita a tener testa neanche a un ragazzo di tredici anni! Quel giorno uscì per andare dal pittore nello stato d'animo di una spia che indossi l'uniforme di un esercito straniero; temeva di essere smascherata. Il suo comportamento aveva perduto ogni residuo di spontaneità, tutto ciò che diceva e faceva ricordava la recitazione di un attore dilettante che, paralizzato dalla paura, dice le sue battute col terrore di essere fischiato.


Fu proprio in quei giorni che il pittore scoprì il fascino della macchina fotografica; mostrò alla mamma le sue prime fotografie, nature morte composte da strani assortimenti di oggetti, scorci bizzarri di cose dimenticate e abbandonate; poi la fece mettere sotto la luce della vetrata e cominciò a fotografarla. All'inizio lei provò una sorta di sollievo perché non aveva bisogno di parlare, bastava che restasse in piedi o seduta, che sorridesse e ascoltasse le istruzioni del pittore e le lodi che di tanto in tanto lui faceva al suo viso. 


Poi a un tratto gli occhi del pittore si illuminarono; prese un pennello, lo immerse nel nero, girò delicatamente la testa della mamma e tracciò due linee oblique sul suo viso. «Ti ho cancellata! Ho distrutto l'opera di Dio!» disse ridendo, e si mise a fotografarla con quelle due grosse righe che si incrociavano sul suo naso. Poi la portò nel bagno, le lavò la faccia e la asciugò con l'asciugamano.


«Un attimo fa ti ho cancellata per poterti ora ricreare» disse, quindi prese di nuovo il pennello e ricominciò a disegnare su di lei. Questa volta erano cerchi e linee che ricordavano antiche scritture ideografiche; «un viso-messaggio, un viso-lettera» diceva il pittore; la riportò sotto il tetto raggiante e ricominciò a fotografarla. 


Dopo la fece stendere per terra e le posò accanto alla testa il calco in gesso di una statua antica sul quale tracciò gli stessi segni che aveva tracciato sul suo viso, fotografò le due teste, quella viva e quella inerte, e di nuovo le lavò il viso, vi tracciò altri segni, poi la fotografò di nuovo, la fece stendere sul divano e cominciò a spogliarla, la mamma aveva paura che le dipingesse anche i seni e le gambe, arrischiò perfino un'osservazione scherzosa per fargli capire che non doveva dipingerle il corpo (le ci volle un bel coraggio per arrischiare un'osservazione scherzosa, perché aveva sempre paura che i suoi tentativi di scherzo sbagliassero obiettivo rendendola ridicola), ma il pittore ormai era stanco di dipingere e invece di dipingere fece l'amore con lei, sempre tenendo nelle mani la sua testa coperta di segni, come fosse particolarmente eccitato dall'idea di fare l'amore con una donna che era una sua creazione, una sua fantasia, un suo quadro, come se fosse stato Dio che faceva l'amore con la donna che aveva appena creato solo per sé. 


E in effetti in quei momenti la mamma non era altro che una sua invenzione, un suo quadro. Lei lo sapeva e ricorreva a tutte le sue forze per controllarsi, per non lasciar capire che non era assolutamente la partner del pittore, la sua controparte miracolosa, la creatura degna del suo amore, ma solo un riflesso senza vita, uno specchio docilmente offerto, una superficie passiva sulla quale il pittore proiettava l'immagine del suo desiderio. Riuscì a controllarsi; il pittore raggiunse il piacere e scivolò via felice dal suo corpo. Ma poi, una volta tornata a casa, si sentì come chi ha compiuto un grande sforzo, e la notte pianse prima di dormire.


Quando, qualche giorno più tardi, ritornò nello studio, le sedute di disegno e di fotografia ricominciarono. Questa volta il pittore le denudò i seni e si diede a coprire di disegni le loro belle curve. Ma quando fece per spogliarla completamente, lei si oppose per la prima volta al suo amante.


È difficile farsi un'idea dell'abilità, dell'astuzia addirittura, con cui aveva saputo fino a quel momento, durante i giochi amorosi col pittore, nascondere il proprio ventre! Molte volte non si era tolta il reggicalze, sottintendendo che quella seminudità era più eccitante, molte volte era riuscita a ottenere di fare l'amore nella penombra piuttosto che in piena luce, molte volte aveva delicatamente allontanato le mani del pittore che volevano accarezzarle il ventre, posandosele sul seno; una volta esauriti tutti i trucchi, aveva invocato la propria timidezza, che il pittore conosceva bene e adorava (proprio per questo le diceva così spesso che per lui lei era l'incarnazione del bianco e che la prima volta che aveva pensato a lei aveva espresso i suoi pensieri in un quadro con linee bianche scavate con la spatola).


Ma adesso doveva restare in piedi al centro dello studio come una statua viva, in balìa degli occhi e del pennello del pittore. Si oppose e quando, come durante la sua prima visita, gli disse che la sua pretesa era folle, lui le rispose come allora che sì, l'amore è folle, e le strappò gli abiti di dosso.


E così adesso stava lì, al centro dello studio, e pensava soltanto al proprio ventre; aveva paura di abbassare lo sguardo, ma se lo vedeva davanti agli occhi così come lo conosceva per averlo guardato mille volte disperata nello specchio; le sembrava di essere solo ventre, solo orrenda pelle rugosa e si vedeva come una donna stesa sul tavolo operatorio, una donna che non può pensare a nulla, che deve solo abbandonarsi e credere che tutto questo passerà, che l'operazione e il dolore finiranno e che intanto deve solo resistere.


E il pittore prese un pennello, lo immerse nel colore nero e glielo passò su una spalla, sull'ombelico, sulle gambe, poi indietreggiò di qualche passo e prese la macchina fotografica; la portò in bagno, dove lei dovette stendersi nella vasca vuota, e le posò sul corpo, di traverso, il serpente metallico che terminava col pomo perforato della doccia, e le disse che da quel serpente metallico non usciva acqua ma un gas mortale e che il serpente si allungava sul suo corpo come il corpo della guerra sul corpo dell'amore; poi la fece rialzare, la portò in un altro posto e ricominciò a fotografarla, e lei lo seguiva docilmente, ormai non si sforzava più di nascondere il ventre, ma l'aveva sempre davanti agli occhi, e vedeva gli occhi del pittore e il proprio ventre, il proprio ventre e gli occhi del pittore...


E quando lui la fece stendere sul tappeto, tutta coperta di disegni, e la amò accanto alla testa antica, bella e fredda, lei non ce la fece più e scoppiò in singhiozzi fra le sue braccia, ma il pittore probabilmente non comprese il senso di quei singhiozzi, convinto com'era che il suo selvaggio potere di seduzione, trasformato in un bel movimento regolare e martellante, non potesse suscitare altra risposta che un pianto di voluttà e di benessere.


La mamma si rese conto che il pittore non aveva capito il motivo del suo pianto, si dominò e smise di piangere. Ma quando arrivò a casa, sulle scale le girò la testa; cadde e si fece male a un ginocchio. La nonna, spaventata, la portò nella sua stanza, le toccò la fronte e le mise il termometro sotto l'ascella.


La mamma aveva la febbre. La mamma aveva l'esaurimento nervoso.


10

Qualche giorno dopo paracadutisti cechi mandati dall'Inghilterra uccisero il dominatore tedesco della Boemia; fu proclamata la legge marziale e agli angoli delle strade comparvero manifesti con lunghi elenchi di persone fucilate. La mamma era a letto, e il medico veniva ogni giorno a farle un'iniezione nel didietro. Ora era venuto il marito a sedersi al suo capezzale; le prese una mano tra le sue e la guardò lungamente negli occhi; lei sapeva che attribuiva il suo esaurimento nervoso agli orrori della Storia, e si vergognava al pensiero che lo stava ingannando mentre lui era gentile con lei e voleva esserle amico in quel periodo difficile. 


Anche la cameriera Magda, che viveva nella villa ormai da molti anni e di cui alla nonna, nello spirito della buona tradizione democratica, piaceva dire che la considerava più come un membro della famiglia che come una dipendente, un giorno rincasò in lacrime: il suo fidanzato era stato arrestato dalla Gestapo. Difatti alcuni giorni dopo il nome del fidanzato apparve scritto in lettere nere su un avviso rosso scuro, in mezzo ad altri nomi di morti, e Magda ottenne alcuni giorni di permesso per poter andare a trovare i genitori del suo ragazzo.


Quando tornò, raccontò che la famiglia del fidanzato non era riuscita ad avere neanche l'urna con le ceneri e che probabilmente non avrebbe mai saputo dove erano sepolti i resti del figlio. E di nuovo scoppiò in lacrime, e da allora piangeva quasi ogni giorno. Di solito piangeva nella sua cameretta, così che i suoi singhiozzi arrivavano attutiti dalla parete divisoria, ma a volte si metteva a piangere all'improvviso anche a pranzo: perché da quando era successa la disgrazia la famiglia la ammetteva alla tavola comune (prima, mangiava da sola in cucina), e il carattere eccezionale di questo favore le ricordava giorno dopo giorno, all'ora del pranzo, che era in lutto e che tutti avevano pietà di lei, e i suoi occhi si facevano rossi e una lacrima spuntava sotto la palpebra e cadeva sugli knedlíky con la salsa; Magda si sforzava di nascondere le lacrime e gli occhi arrossati, abbassava la testa, desiderava non essere vista, ma proprio per questo gli altri la notavano e c'era sempre qualcuno che le rivolgeva una parola di conforto alla quale lei rispondeva con un sonoro singhiozzo.


Jaromil osservava tutto ciò come uno spettacolo esaltante; gioiva all'idea di veder spuntare una lacrima nell'occhio della ragazza, all'idea che il pudore della ragazza avrebbe tentato di vincere la tristezza e che alla fine la tristezza avrebbe avuto ragione del pudore e avrebbe lasciato scorrere la lacrima. Beveva (di nascosto, giacché aveva la sensazione di fare una cosa vietata) quel viso, si sentiva invadere da una tiepida eccitazione e dal desiderio di ricoprire di tenerezze quel viso, di accarezzarlo e di confortarlo. E la sera, quando restava solo avviluppato nelle coperte, si immaginava la testa di Magda con i suoi grandi occhi castani, si immaginava di accarezzare quella testa e di dirle non piangere, non piangere, non piangere, giacché non trovava altre parole da dirle.


Più o meno nello stesso periodo la madre terminò la sua cura neurologica (per una settimana aveva fatto la terapia del sonno in casa), si alzò e ricominciò a occuparsi della casa e della spesa, pur lamentandosi in continuazione di mal di testa e palpitazioni. Un giorno sedette al tavolino e cominciò a scrivere una lettera. Non appena ebbe scritta la prima frase, capì che il pittore l'avrebbe trovata sentimentale e stupida ed ebbe paura del suo giudizio; ma poi si rassicurò: si disse che per quelle sue parole non chiedeva e non voleva risposta, che erano le ultime che gli rivolgeva, e incoraggiata da questa idea continuò a scrivere; con una sensazione di sollievo (e con una strana ostinazione) creava frasi come se fosse veramente lei a crearle, lei com'era stata prima di conoscerlo. Scrisse che lo amava e che non avrebbe mai dimenticato il periodo miracoloso che aveva trascorso con lui ma che era venuto il momento di dirgli la verità: era diversa, completamente diversa da come il pittore la pensava, in realtà era una donna comune, all'antica, che temeva di non riuscire, un giorno, a guardare negli occhi innocenti di suo figlio.


Si era dunque finalmente decisa a dirgli la verità? Ah no, neanche per sogno. Non gli scrisse che quello che chiamava la felicità amorosa per lei era stato solo uno sforzo terribile, non gli scrisse quanto si vergognasse del proprio ventre deturpato, né che aveva avuto l'esaurimento nervoso e che si era fatta male a un ginocchio e aveva dovuto dormire per una settimana. Non glielo scrisse perché una simile franchezza non era mai stata nella sua natura, e perché lei voleva finalmente tornare ad essere se stessa, e poteva essere se stessa solo mentendo; se gli avesse confidato tutto con franchezza, sarebbe stato come trovarsi ancora una volta distesa davanti a lui nuda col suo ventre rugoso. No, non voleva più mostrarsi a lui, né esteriormente né interiormente, voleva ritrovare la sicurezza del proprio pudore, e per questo doveva mentire e parlare soltanto di suo figlio e dei sacri doveri di una madre. Alla fine della lettera era lei stessa convinta che la causa del suo crollo nervoso non fossero stati né il suo ventre né la fatica spossante per seguire le idee del pittore, bensì i suoi grandi sentimenti materni che si erano rivoltati contro quell'amore grande ma colpevole.


E in quel momento non solo si sentì infinitamente triste, ma si sentì nobile, tragica, forte; la tristezza, che qualche giorno prima la faceva solo soffrire, ora che l'aveva dipinta con grandi parole le procurava un confortante piacere; era una bella tristezza, e lei si vedeva rischiarata dalla sua luce malinconica e si trovava tristemente bella. 


Strane coincidenze! Jaromil, che nello stesso periodo spiava per intere giornate l'occhio piangente di Magda, conosceva molto bene il fascino della tristezza e vi si immergeva completamente. Sfogliava ancora il libro che gli aveva prestato il pittore, leggeva e rileggeva senza fine le poesie di Éluard e si lasciava rapire da alcuni versi: Aveva nella pace del suo corpo una pallina di neve del color dell'occhio; oppure: in lontananza il mare che il tuo occhio bagna; e: Buongiorno tristezza sei inscritta negli occhi che amo. Éluard divenne il poeta del placido corpo di Magda e dei suoi occhi bagnati dal mare delle lacrime; tutta la propria vita gli pareva racchiusa nella magia di un solo verso: Tristezza bel volto. Sì, era Magda: tristezza bel volto. 


Una sera tutti andarono a teatro e Jaromil restò solo con lei nella villa; conosceva ormai a memoria le abitudini di casa e sapeva che, essendo sabato, Magda avrebbe fatto il bagno. Poiché i genitori e la nonna avevano organizzato la serata teatrale con una settimana d'anticipo, aveva avuto il tempo di preparare tutto; già qualche giorno prima aveva sollevato il copritoppa della porta del bagno e con l'aiuto di un po' di mollica di pane sporca l'aveva incollato al legno, facendolo così restare in posizione verticale; poi aveva sfilato la chiave, perché con la sua presenza non riducesse la prospettiva offerta dal buco della serratura, e l'aveva nascosta; nessuno si accorse di quella sparizione, dato che i membri della famiglia non avevano l'abitudine di chiudersi a chiave nel bagno e solo Magda lo faceva.


La casa era silenziosa e deserta e il cuore di Jaromil batteva forte. Era su in camera sua, si era messo davanti un libro, come se qualcuno potesse sorprenderlo e chiedergli cosa stava facendo, ma non leggeva, era tutto teso all'ascolto. Finalmente si sentì il rumore dell'acqua che passava lungo i tubi e poi lo scroscio del getto che colpiva il fondo della vasca. Spense la luce delle scale e scese silenziosamente,- era stato fortunato: la toppa era rimasta scoperta, e quando vi mise l'occhio vide Magda piegata sulla vasca, già svestita, col seno nudo e le sole mutandine addosso. Il cuore si mise a battergli ancora più forte, perché vedeva quello che non aveva mai visto fino ad allora e sapeva che presto avrebbe visto ancora di più e nessuno avrebbe potuto impedirglielo. Magda si rialzò, si avvicinò allo specchio (la vedeva di profilo), si guardò per qualche istante, poi si girò (ora la vedeva di faccia) e si diresse alla vasca; si fermò, tolse le mutandine, le gettò via (la vedeva sempre di faccia) ed entrò nella vasca.


Anche quando fu nella vasca, Jaromil continuò a vederla dal suo posto d'osservazione, ma poiché l'acqua le arrivava, alle spalle, era tornata ad essere solo un volto; il solito) volto conosciuto, triste, bagnato da un mare di lacrime, ma un volto, al tempo stesso, completamente diverso; un volto a cui doveva aggiungere mentalmente (adesso, in futuro e per sempre) un seno nudo, un ventre, delle cosce, un sedere; era un volto illuminato dalla nudità del corpo; continuava a suscitare in lui tenerezza, ma anche quella tenerezza era diversa dal solito, perché in essa riecheggiavano i battiti affrettati del suo cuore. 


Poi, a un tratto, si accorse che Magda lo fissava negli occhi. Ebbe paura di esser stato scoperto. Magda guardava verso il buco della serratura con un lieve sorriso (un po' imbarazzato e un po' affettuoso). Si staccò subito dalla porta. Lo vedeva o no? Aveva fatto molte prove, ed era sicuro che un occhio che spiava al di qua della porta non poteva essere visto dall'interno del bagno. Ma come spiegare lo sguardo e il sorriso di Magda? O forse aveva guardato solo per caso in quella direzione e aveva sorriso semplicemente all'idea che Jaromil potesse essere lì a guardarla? Comunque fosse, l'incontro con lo sguardo di Magda l'aveva tanto turbato che non osò più avvicinarsi alla porta. 


Ma quando, dopo qualche istante, ritrovò la calma, gli venne un'idea che superava tutto ciò che aveva visto e provato fino a quel momento: la stanza non era chiusa a chiave e Magda non gli aveva detto che andava a fare il bagno. Poteva dunque fingere di non saperlo ed entrare come se nulla fosse. E di nuovo il cuore riprese a battergli all'impazzata; già si vedeva mentre si arrestava con espressione sorpresa sulla soglia, e diceva volevo solo prendere il mio pettine, passava accanto a Magda, tutta nuda, che sul momento non sapeva che cosa dirgli; la vergogna si dipingeva sul suo bel viso, come quando scoppiava in lacrime tutt'a un tratto durante il pranzo, e lui passava accanto alla vasca e andava al lavandino sul quale era posato il pettine, prendeva il pettine, poi si arrestava davanti alla vasca e si chinava su Magda, sul suo corpo nudo che traspariva dal filtro verdastro dell'acqua, e di nuovo guardava quel volto pieno di vergogna, e accarezzava quel volto pieno di vergogna... Ah, quando con l'immaginazione arrivò a questo punto, fu avvolto da una nube di eccitazione in cui non vedeva più nulla e non riusciva a immaginare più nulla.


Perché la sua entrata sembrasse del tutto naturale, risalì zitto zitto al piano di sopra e poi ridiscese pestando rumorosamente su ogni scalino; si accorgeva di tremare e aveva paura di non trovare la forza per pronunciare con voce tranquilla e naturale volevo solo prendere il mio pettine; tuttavia scese e quando fu quasi arrivato alla porta del bagno e il suo cuore si mise a battere così forte che riusciva appena a respirare, sentì: «Jaromil, sto facendo il bagno! Non entrare!». Rispose: «Ma no, sto andando in cucìna!», e veramente attraversò il corridoio nella direzione opposta, entrò in cucina, aprì e chiuse la porta come se avesse preso qualcosa, e poi risalì in camera sua. 


Solo allora gli passò per la mente che le inattese parole di Magda non erano un pretesto sufficiente per una capitolazione così repentina, che avrebbe potuto dire lo stesso Magda, devo solo prendere il pettine ed entrare, perché Magda non sarebbe certo andata a lamentarsi di lui, Magda gli voleva bene e lui l'aveva sempre trattata con gentilezza. E di nuovo si immaginò di entrare nel bagno e Magda era distesa nuda nella vasca, e diceva non ti avvicinare, vattene subito, ma non poteva fare nulla, non poteva difendersi perché era impotente come era impotente di fronte alla morte del fidanzato, perché giaceva imprigionata nella vasca e lui si chinava sulla sua testa, sui suoi grandi occhi... 


Ma l'occasione era irrimediabilmente perduta e Jaromil ormai sentiva solo il debolissimo gorgoglio dell'acqua che defluiva dalla vasca verso fogne lontane; l'irrevocabilità di quella splendida occasione gli straziava il cuore perché sapeva che non avrebbe avuto tanto presto la fortuna di restare solo con Magda di sera e poi, anche se l'avesse avuta, la chiave sarebbe stata ormai da tempo al suo posto e Magda si sarebbe chiusa dentro. Stava disteso sul letto ed era disperato. Ma più dolorosa dell'occasione perduta era la disperazione che provava al pensiero della propria timidezza, della propria debolezza, di quegli stupidi battiti al cuore che l'avevano privato di ogni presenza di spirito e avevano rovinato tutto. Fu invaso da un violento disgusto di se stesso. 


Ma a che serviva quel disgusto? Perché il disgusto è una cosa completamente diversa dalla tristezza, anzi forse ne è l'esatto contrario; quando veniva trattato male Jaromil si chiudeva nella sua stanza e piangeva; ma si trattava di lacrime felici, quasi voluttuose, quasi lacrime d'amore con cui Jaromil compativa e consolava Jaromil, affondando gli occhi nella sua anima; questo improvviso disgusto che rivelava a Jaromil la sua ridicolaggine lo allontanava e lo respingeva dalla sua anima! Era univoco e laconico come un insulto; come uno schiaffo; si poteva sfuggirgli solo con la fuga. 


Ma dove fuggire quando si ha la subitanea rivelazione della nostra piccolezza? Solo con una fuga verso l'alto si può sfuggire all'umiliazione. Sedette dunque al suo scrittoio, aprì un libro (quel libretto prezioso che il pittore gli aveva confidato di non aver mai prestato a nessun altro) e tentò con un immenso sforzo di concentrarsi sulle poesie che preferiva. E di nuovo ecco in lontananza il mare che il tuo occhio bagna e di nuovo si vide davanti Magda, c'era anche la palla di neve nella pace del suo corpo, e il gorgoglio dell'acqua penetrava in quella poesia come il rumore del fiume entrava nella stanza dalla finestra chiusa. Jaromil si sentì invadere da un desiderio languoroso e chiuse il libro. Poi prese carta e matita e cominciò a scrivere anche lui. Come aveva visto in Éluard, Nezval, Biebl1, Desnos, scriveva brevi righe una sotto l'altra, senza ritmo né rime. Era una variazione su quanto aveva letto, ma in quella variazione c'era quello che aveva appena vissuto, c'era la tristezza che si scioglieva per mutarsi in acqua, c'era l'acqua verde, la cui superficie sale e sale e arriva fino ai miei occhi, c'era il corpo, il corpo triste, il corpo che io seguo, seguo attraverso l'acqua infinita.


Rilesse molte volte di seguito la sua poesia ad alta voce, una voce melodiosa e patetica, e ne fu entusiasta. Nel fondo di quella poesia c'era Magda nella vasca e c'era lui col viso premuto contro la porta; non si trovava dunque fuori dei limiti della sua esperienza, ne era però molto al di sopra; il disgusto che aveva provato verso se stesso era rimasto in basso; lì in basso le sue mani si erano coperte di sudore per la paura e il suo respiro si era fatto più veloce; qui in alto, nella poesia, lui era molto al di sopra del suo squallore; l'episodio del buco della serratura e della sua vigliaccheria era ormai diventato il trampolino da cui prendeva lo slancio per il volo; non era più sottomesso a ciò che aveva appena vissuto, ma era piuttosto ciò che aveva vissuto a essere sottomesso a ciò che aveva scritto.


Il giorno dopo chiese alla nonna di prestargli la macchina da scrivere; ricopiò la poesia su una carta speciale: era ancora più bella di quando l'aveva letta ad alta voce, perché adesso non era più una semplice successione di parole, ma era diventata una cosa; la sua autonomia era ancora più incontestabile; le parole ordinarie sono fatte per sparire appena vengono pronunciate, giacché servono solo al momento della comunicazione; sono assoggettate alle cose, sono solo la loro designazione; ecco invece che ora quelle parole erano diventate loro stesse cose e non erano assoggettate a niente; erano destinate non al momento della comunicazione e a una rapida sparizione, bensì alla durata. 


Certo, ciò che Jaromil aveva vissuto il giorno prima era racchiuso nella poesia, ma al tempo stesso questa esperienza vi andava lentamente morendo, come il seme muore nel frutto. Sono sotto l'acqua e i colpi del mio cuore fanno cerchi in superficie; questo verso parlava del ragazzo tremante davanti alla porta del bagno, ma al tempo stesso in quel verso i tratti del ragazzo si andavano lentamente cancellando; quel verso lo superava e lo trascendeva. Ah, mio liquido amore, diceva un altro verso, e Jaromil sapeva che quell'amore liquido era Magda, ma al tempo stesso sapeva che nessun altro avrebbe potuto trovarla in quelle parole, che in esse lei era perduta, invisibile, sepolta; la poesia che aveva scritto era assolutamente autonoma, indipendente e incomprensibile, altrettanto indipendente e incomprensibile quanto la realtà che non è complice di nessuno e si accontenta solo di essere; l'autonomia della poesia offriva a Jaromil uno splendido rifugio, la sognata possibilità di una seconda vita; la cosa gli piacque tanto che già il giorno dopo cercò di scrivere altri versi e a poco a poco sì diede tutto a questa attività.


11

Anche se si è ormai alzata dal letto e gira per la casa come una convalescente, non è affatto allegra. Ha rifiutato l'amore del pittore ma non ha ritrovato in cambio l'amore del marito. Il padre di Jaromil è a casa così di rado! Ormai tutti si sono abituati al fatto che rientri a notte tarda, si sono abituati anche al fatto che spesso annunci assenze di qualche giorno, perché deve viaggiare molto per il suo lavoro, ma questa volta non ha detto assolutamente nulla, la sera non è tornato a casa e la madre non ha sue notizie.


Jaromil vede così raramente il padre che ormai non ne nota neanche l'assenza e, chiuso in camera sua, pensa ai suoi versi: Perché una poesia tale, bisogna che venga letta da un'altra persona; solo allora dimostra di non essere solo un diario cifrato e di poter vivere una vita propria, indipendente da chi l'ha scritta. A tutta prima ebbe l'idea di mostrare i propri versi al pittore, ma attribuiva loro troppa importanza per rischiare di sottoporli a un giudice così severo. Sognava di vedere qualcuno che si entusiasmasse ai suoi versi quanto lui stesso e ben presto capì chi era quel primo, predestinato lettore delle sue poesie; lo vedeva girare per casa con gli occhi tristi e la voce afflitta e gli pareva che andasse incontro ai suoi versi- in preda a una grande emozione diede alla mamma alcune poesie accuratamente battute a macchina e poi corse a rifugiarsi in camera sua, ad aspettare che le leggesse e lo chiamasse.


Lei lesse e pianse. Forse non sapeva perché piangeva, ma non è difficile indovinarlo; dal suoi occhi sgorgavano quattro tipi di lacrime: 


per prima cosa fu colpita dalla somiglianza tra i versi di Jaromil e le poesie che era solito prestarle il pittore, e dai suoi occhi sgorgarono lacrime di rimpianto per l'amore perduto;


poi avvertì la generica tristezza che emanava dai versi del figlio, ricordò che il marito mancava da casa ormai da due giorni senza neanche averla avvisata, e versò lacrime di umiliazione; 


subito dopo, tuttavia, furono lacrime di consolazione quelle che sgorgarono dai suoi occhi, giacché la sensibilità del figlio, che con tanta fiducia ed emozione era corso a mostrarle le sue poesie, stendeva un balsamo su tutte le sue ferite; 


infine, quando ebbe letto alcune volte le poesie, le salirono agli occhi lacrime di ammirazione, perché quei versi le sembravano incomprensibili e pensò dunque che in essi c'era più di quanto lei potesse capire e che quindi lei era la madre di un ragazzo prodigio.


Poi lo chiamò, ma quando il figlio le fu davanti, si sentì come quando il pittore la interrogava sui libri che le aveva prestato; non sapeva cosa dirgli a proposito delle poesie, vedeva davanti a sé la sua testa china, in avida attesa, e non seppe fare altro che stringerlo a sé e baciarlo. Jaromil aveva paura, e per questo fu felice di poter nascondere la testa sulla spalla materna, e la madre, quando sentì tra le braccia la fragilità del suo corpo infantile, respinse l'opprimente fantasma del pittore, si fece coraggio e cominciò a parlare. Ma non riuscì a liberare la voce da un tremito e gli occhi da un umido velo, e questo fu per Jaromil più importante delle sue parole; quel tremito e quelle lacrime gli davano la sacrosanta certezza che i suoi versi avevano un potere; un potere reale e fisico.


Ormai imbruniva, il padre non tornava e la mamma pensò che il viso dì Jaromil aveva una tenera bellezza con la quale non potevano competere né il marito né il pittore; quel pensiero fuor di luogo era così tenace che non riusciva a liberarsene; cominciò a raccontargli che quando era incinta guardava con occhi imploranti la statuetta di Apollo. «Ed ecco, vedi, sei veramente bello come quell'Apollo, gli somigli. C'è del vero nella credenza che in un bambino resti sempre qualcosa di ciò a cui pensa la madre quando è incinta. Anche la lira hai preso da lui». 


Poi gli raccontò che la letteratura era sempre stata il suo più grande amore, che si era iscritta all'università per poter studiare letteratura e solo il matrimonio (della gravidanza non parlò) le aveva impedito di dedicarsi completamente a quella sua profonda aspirazione; scoprire oggi che Jaromil era un poeta (sì, fu lei la prima a incollargli addosso quel titolo altisonante) era per lei una sorpresa ma insieme qualcosa che si aspettava da molto tempo.

Quel giorno parlarono ancora a lungo, e madre e figlio, quei due amanti delusi, trovarono infine consolazione l'una nell'altro.

1 Nezval e Biebl, grandi poeti cechi surrealisti