lunedì 24 luglio 2023

UCRAINA SENZA EBREI Vasilij Grossman







UCRAINA SENZA EBREI

Vasilij Grossman

"La garanzia di una vittoria duratura - scrive Grossman in questa piccola gemma che consiglio a tutti di leggere - è nella potenza delle armi, nella forza dell'artiglieria e dell'aviazione che costringeranno i tedeschi una volta per sempre che i popoli hanno tutti il medesimo diritto di vivere sulla terra". "La vittoria vera consisterà nel fatto che, dopo aver scatenato una guerra nel nome dall'oppressione e dello sterminio, la Germania fascista sarà sconfitta non solo materialmente, ma anche nelle sue convinzioni".

Quando nel 1943, dopo due anni di occupazione tedesca, Vasilij Grossman entra al seguito dell’Armata Rossa nei territori liberati dell’Ucraina orientale, a colpirlo non sono tanto le lacrime e le grida straziate, quanto piuttosto «il silenzio della morte», il silenzio di un popolo massacrato con aritmetica ferocia. «Dov’è il popolo ebraico? ... Dov’è il milione di ebrei che tre anni fa viveva e lavorava su questa terra in pace e armonia con gli ucraini?». Ben prima di trovarsi dinanzi all’«inferno di Treblinka» e che i crimini nazisti siano svelati al mondo in tutta la loro efferatezza, Grossman non si accontenta di rispondere a questa domanda, ma scandaglia le cause di quello che già si delinea ai suoi occhi come «il crimine più grande che sia mai stato commesso nella storia».


UCRAINA SENZA EBREI 

 

Quando tra colpi di cannone e fragore di granate le nostre truppe entrano nei villaggi della Riva sinistra ucraina, le oche nelle aie si staccano da terra sbattendo le loro enormi ali bianche e volteggiano a lungo sulle case, sulla lenticchia d’acqua che copre gli stagni, su orti e frutteti.


Hanno qualcosa che turba, qualcosa di strano, quel volo greve e faticoso di uccelli da cortile e quel loro starnazzare brusco, spaurito e accorato: sembra che esortino i soldati dell’Armata Rossa a non perdersi le scene tristi e tremende della vita, e sembrano felici che siano finalmente lì, i nostri soldati, ma intanto piangono e gemono e gridano per le disgrazie tremende, per le sventure senza rimedio, per le perdite immani, per le lacrime e il sangue che hanno incanutito e impregnato di sale la terra d’Ucraina.


Lungo è l’elenco di città e villaggi in cui mi sono dovuto fermare mentre lavoravo come corrispondente di «Krasnaja zvezda». Sono stato a Starobel’sk,1 Svatovo, Kupjansk, Valujki, Vorošilovgrad,2 Krasnodon, Nežin, Gluchov, Krolevec, Černigov, Kozelec, Ostër, Jagotin, Borispol’, Baturin... Sono stato in centinaia di paesini e borgate, nei villaggi di pescatori sulle rive della Desna e del Dnepr, nei casolari della steppa circondati da pascoli, nelle casette sperdute dei cavatori di resina che vivono nella penombra perenne di enormi foreste di conifere, o in paesini da fiaba coi tetti di paglia che nemmeno si vedono, tra le chiome fitte dei frutteti.


A voler mettere insieme tutti i racconti sentiti, tutte le scene viste nei tanti giorni e mesi trascorsi in Ucraina, ne verrebbe un libro tremendo su un’ingiustizia somma: lavoro coatto, balzelli inauditi, bambini presi e portati in Germania, case incendiate, granai saccheggiati, forche nelle piazze e per le strade, fosse in cui fucilare chi era sospettato di nutrire simpatie per i partigiani e di aiutarli, e ancora offese, derisioni, insulti, corruzione, sbronze e soprusi, e la depravazione bestiale dei criminali irresponsabili che per due anni hanno avuto in pugno il destino, la vita, l’onore e i beni di milioni di ucraini. In ogni città o villaggio ucraino non c’è casa in cui non si sentano parole piene di rabbia o amarezza contro i tedeschi, in cui in questi due anni non si siano versate lacrime su lacrime, in cui non si siano levate maledizioni contro il fascismo tedesco; e non c’è casa senza orfani o vedove. Sono lacrime e maledizioni, queste, che confluiscono come ruscelli nel fiume immenso del dolore e dell’ira di tutto un popolo; giorno e notte il loro boato minaccioso e funereo si staglia contro un cielo scurito dal fumo degli incendi.


In Ucraina, però, ci sono anche villaggi in cui non si sentono lamenti né si vedono occhi bagnati di lacrime, villaggi in cui regnano il silenzio e la quiete. In uno di essi sono capitato due volte: la prima il 26 settembre, la seconda il 17 ottobre del 1943. Parlo di Kozary, sulla strada storica per Kiev, fra Nežin e Kozelec. La prima volta era di giorno, la seconda in una sera triste d’autunno. In entrambi i casi regnavano il silenzio e la quiete, a Kozary: la quiete e il silenzio della morte. Settecentocinquanta erano le case cui i tedeschi avevano dato fuoco prima di Pasqua, settecentocinquanta le famiglie che in quel fuoco erano arse. Le fiamme non avevano risparmiato nessuno: non un bambino, non una vecchia, nessuno. A quel modo i fascisti avevano punito Kozary per avere offerto ricovero ai partigiani. Sulle rovine dell’incendio la malerba era cresciuta alta e polverosa, la sabbia aveva riempito i pozzi, le erbacce gli orti, e solo qua e là fra la gramigna spuntava un fiorellino stentato. Nessuno si struggeva, a Kozary, nessuno raccontava o piangeva: sui cadaveri sepolti sotto le macerie ricoperte di malerba di quelle che erano state case e famiglie incombevano solo quiete e silenzio. Un silenzio più tremendo delle lacrime e delle maledizioni, più tremendo di pianti e lamentazioni straziate.


E mi sono scoperto a pensare che, in Ucraina, il silenzio di Kozary è il silenzio degli ebrei. Non ci sono più ebrei, in Ucraina. Da nessuna parte: a Poltava, Char’kov, Kremenčug, Borispol’ e Jagotin, nelle città, nelle centinaia di shtetl e nelle migliaia di villaggi non è dato vedere ragazze con gli occhi neri lucidi di lacrime, né sentire la nenia lamentosa delle vecchie, né incrociare la faccina scura di un bambino affamato.


Niente parole. Silenzio. Un popolo ucciso. Uccisi i vecchi artigiani, mastri d’eccezione: sarti, cappellai, ciabattini, stagnai, orafi, imbianchini, pellicciai, rilegatori; uccisi gli operai: scaricatori, meccanici, elettricisti, muratori, fumisti, fabbri; uccisi i balagula, 3 i trattoristi, gli autisti, gli ebanisti; uccisi i portatori d’acqua, i mugnai, i fornai, i pasticcieri e i cuochi; uccisi i dottori: medici generici, dentisti, chirurghi, ginecologi; uccisi gli esperti di biochimica e di batteriologia, i direttori delle cliniche universitarie, gli insegnanti di storia, di algebra e di trigonometria; uccisi i docenti senza cattedra e gli assistenti di facoltà, i dottorandi e gli addottorati; uccisi gli ingegneri metallurgici, i costruttori di ponti e di locomotive, gli architetti; uccisi gli esperti di strade e di coltivazioni, gli agronomi e gli agrimensori; uccisi i ragionieri, i contabili, i commessi dei negozi, i fornitori, i protocollisti, i segretari, i vigilanti notturni; uccise le maestre e le sartine; uccise le nonne che facevano la calza, sfornavano torte deliziose e preparavano il brodo di pollo e lo strudel con le mele e le noci, e quelle che tutte queste cose non erano capaci di farle e sapevano solo amare figli e nipoti; uccise le donne fedeli ai mariti e quelle di più facili costumi; uccise le belle ragazze, le brave studentesse e le scolarette garrule; uccise le ragazze brutte e sciocche, e quelle con la gobba; uccise le cantanti; uccisi i ciechi; uccisi i sordi; uccisi i violinisti e i pianisti; uccisi i bambini di due anni e quelli di tre; uccisi gli ottantenni con gli occhi torbidi e la cataratta, con le dita diafane e fredde e le voci flebili come carta bianca che fruscia; uccisi i neonati che urlavano, bramosamente attaccati ai seni delle madri fino all’ultimo istante. Li hanno uccisi tutti, centinaia di migliaia, milioni di ebrei ucraini. Non è come morire in guerra, arma in pugno, dopo avere lasciato casa, famiglia, campi, canzoni, libri, tradizioni, racconti. Qui hanno ucciso un popolo, hanno ucciso le case, le famiglie, i libri e una fede; hanno ucciso l’albero della vita: sono morte le radici, ma non i rami e le foglie; hanno ucciso il corpo e l’anima di un popolo, hanno ucciso un nobile retaggio di fatica che di generazione in generazione ha dato al mondo migliaia di artigiani e intellettuali di talento. Hanno ucciso la morale di un popolo, i suoi usi quotidiani, le barzellette tramandate dai vecchi ai figli, hanno ucciso i ricordi, le canzoni tristi, la poesia di una vita allegra e amara insieme, hanno devastato case, famiglie e cimiteri; è la morte di un popolo che per secoli è vissuto fianco a fianco col popolo ucraino, che sulla sua stessa terra ha sgobbato, ha peccato e ha fatto cose buone, e che su quella stessa terra è poi morto.


In tutti i libri degli autori che, fra i nostri, hanno scritto di come si vive in Ucraina, nelle opere di Gogol’, Čechov, Korolenko e Gor’kij, che parlino di epoche tristi e tremende o di altre di pace e spensieratezza, in Taras Bul’ba, nella Steppa di Čechov o nei racconti limpidi, splendidi di Korolenko, gli ebrei ci sono sempre. E non potrebbe essere altrimenti! Chi di noi, nati e cresciuti in Ucraina, non si è nutrito sin dagli anni più verdi delle scene di vita del popolo ebraico fra città, shtetl e villaggi ucraini?


Pensate ai sabati, ai vecchi vestiti per la preghiera che passeggiavano sotto i pioppi nella quiete delle sere primaverili; pensate a quegli stessi vecchi fermi agli incroci per qualche chiacchiera sagace e arguta; pensate ai ciabattini degli shtetl, tutti concentrati sui loro minuscoli sgabelli di fronte alle porte altrettanto minuscole delle loro botteghe; pensate alle insegne – ingenue, buffe – sulle botteghe di fabbri, cappellai, sarti; pensate ai facchini barbuti nei porti, cosparsi della farina dei sacchi che usavano come grembiuli; alle vecchie col fazzoletto in testa che vi offrivano mele e cioccolatini, ai bambini ricciuti con gli occhi neri che correvano tra la polvere delle strade – occhi e ricci scuri che brillavano al sole insieme agli occhi e ai capelli chiari delle testoline dei loro coetanei ucraini, alternati come i fiori che la vita spande con generosità sulla terra ricca e amorevole d’Ucraina. Qui hanno vissuto i nostri nonni, qui ci hanno partorito le nostre madri, qui sono nate le madri dei nostri figli. Tanto è il sudore, tante sono le lacrime che hanno versato gli ebrei in questi luoghi, che a nessuno verrebbe in mente di dirli forestieri, o questa terra non loro.


L’ho battuta in lungo e in largo, a piedi e con ogni mezzo, questa terra: dal Donec al Dnepr, da Vorošilovgrad nel Donbass a Černigov sulla Desna, e ancora giù fin sulla riva del Dnepr, a guardare Kiev; e in tutto questo tempo ho incontrato un solo ebreo. Il tenente Shlomo Shmilevič Kipperstein, ritrovatosi sotto l’assedio tedesco vicino a Jagotin nel settembre del 1941. Quella che sarebbe diventata sua moglie – una contadina di nome Vasilina Grigor’evna Sokur – lo aveva spacciato per moldavo; era stata portata diverse volte alla Gestapo, dove in due occasioni l’avevano pure bastonata: i tedeschi sospettavano che il marito fosse ebreo. Lei, però, aveva insistito a dire che si chiamava Stepan di nome e Novak di cognome. Io l’ho incontrato, Kipperstein, ci ho parlato, sono stato tutta una sera ad ascoltare i suoi racconti; e tutti – Kipperstein, la moglie, i contadini suoi vicini e io con loro – ci siamo stupiti che fosse ancora vivo, che non l’avessero ammazzato. Non ho incontrato altri ebrei, in Ucraina. C’è chi mi ha riferito di averne visto uno a Char’kov e uno a Kursk; lo scrittore Il’ja Erenburg mi ha detto di avere incontrato una giovane partigiana ebrea nel Nord dell’Ucraina. E basta. Dov’è il popolo ebraico? Chi la farà, la domanda funesta, al Caino del ventesimo secolo? Dove sono gli ebrei che vivevano in Ucraina? Dove sono le centinaia di migliaia di vecchie e bambini, dov’è il milione di ebrei che tre anni fa viveva e lavorava su questa terra in pace e armonia con gli ucraini?


Hanno ucciso un popolo, lo hanno calpestato.


Non ha senso né è possibile fare l’elenco dei nomi di chi è stato giustiziato: sono tutti ugualmente innocenti e di conseguenza andrebbero nominati tutti quanti, indipendentemente da chi sono stati, se scienziati celebri di fama mondiale o donne poco istruite, sconosciute che vivevano in piccoli shtetl lontani dalla ferrovia. Perché citarne alcuni e tacere di altri? È, però, impossibile mettere in fila i nomi di tutto un popolo. Non ha senso né è possibile fare l’elenco dei luoghi in cui nell’autunno del 1941 e nell’estate del 1942 gli ebrei sono stati uccisi in massa. Li hanno uccisi ovunque, in ogni città grande o piccola, in ogni shtetl. Si dovrà dire, però, che se in una cittadina c’erano cento ebrei, furono giustiziati tutti e cento: non uno di meno, mai, da nessuna parte; e che se in una città più grande gli ebrei erano cinquantacinquemila, tutti e cinquantacinquemila – non uno di meno – furono giustiziati. Si dovrà dire che le esecuzioni avvenivano sulla base di liste stilate con scrupolo e cura, liste che non hanno risparmiato né i vecchi centenari né i neonati, liste di morte in cui sono finiti tutti gli ebrei ancora in Ucraina all’arrivo dei tedeschi, tutti fino all’ultimo.


E si dovrà dire che l’eccidio di un popolo è stato compiuto con un rigore ineccepibile, seguendo istruzioni ferree e articolate che contemplavano anche i casi particolari – quello di chi non poteva camminare per l’età avanzata e quello di chi su questa terra nemmeno aveva mosso i primi passi, di chi ancora non si era staccato dalle braccia della madre.


In centinaia di città la deportazione nei ghetti è stata annunciata agli ebrei nello stesso identico istante, nello stesso istante è stato loro detto di prepararsi e di portare con sé un massimo di quindici chili di bagaglio, e da tutte quelle centinaia di città gli ebrei sono stati condotti fuori e giustiziati con gli ultimi modelli di mitra.


Coloro cui è capitato di assistere alle esecuzioni piangono e non hanno più voce né parole ancora oggi, a distanza di un anno o due, al ricordo delle scene di follia e di orrore di cui sono stati testimoni.


Non è possibile fare i nomi di tutti i colonnelli, generali, maggiori, capitani e tenenti dell’esercito tedesco, o dei funzionari della Gestapo che idearono l’eccidio mostruoso di un popolo. Non è possibile fare i nomi di tutti i soldati, Gefreiter, Obergefreiter, sottufficiali, gendarmi e polizei che quell’eccidio lo hanno messo in atto.


Che cosa lo rende diverso dagli altri eccidi che i tedeschi hanno compiuto ai danni di centinaia e migliaia di persone nell’Europa occupata?


Una differenza c’è. Francesi, danesi, serbi, ucraini, russi e cechi, i fascisti li giustiziano se violano norme e leggi fasciste. Che non ci sia nulla di più ingiusto delle leggi e delle norme fasciste, e che, piuttosto, nulla ci sia di più giusto e umano del violarle, le norme e le leggi stabilite dai fascisti, va da sé ed è chiaro a noi tutti. Nei territori occupati i tedeschi uccidono e puniscono per qualunque misfatto: perché si ha in casa un coltello o una vecchia pistola, perché a un passante scappa di bocca un commento sdegnato, perché qualcuno prova a spegnere le fiamme della sua casa mentre un soldato con la torcia le dà fuoco, perché un giovane si rifiuta di venire deportato lasciando i vecchi genitori, per un sorso d’acqua offerto a un partigiano, per il saluto mancato a un ufficiale per strada.


Gli ebrei, invece, i tedeschi li uccidono solo perché sono ebrei. Per loro non c’è ebreo che abbia il diritto di vivere. Essere ebreo è il crimine sommo, ed è un crimine che si punisce con la morte. Per questo sono stati uccisi tutti gli ebrei d’Ucraina, per questo li hanno uccisi in molti paesi d’Europa. Il grosso dei giustiziati è composto di donne anziane, vecchi, malati e bambini. La spiegazione è semplice: gli uomini, le donne e i giovani abili al lavoro hanno fatto in tempo a partire con l’Armata Rossa, e ora combattono nelle sue file o collaborano alla difesa. In Ucraina è rimasto solamente chi non era in grado di andarsene. Ed è contro di loro – vecchi, bambini e malati – che i tedeschi hanno attuato il proprio piano sanguinoso, sterminandoli tutti fino all’ultimo.


Da che esiste su questa terra, l’umanità non ha mai assistito a una strage di innocenti, di indifesi così pianificata, così massiccia, così feroce. È il crimine più grande che sia mai stato commesso nella storia, e di crimini la storia ne ha conosciuti tanti, e col sangue la storia è stata scritta per intero. Eppure né Erode, né Nerone o Caligola, né i khan tatari o i mongoli, né Ivan il Terribile – nessuno di coloro che hanno impregnato la terra di sangue (e in quanti lo hanno fatto!) – ha mai commesso un crimine tanto abnorme. Perché stiamo parlando dell’eccidio di un popolo, dell’eccidio di milioni di vecchi, donne e bambini indifesi.


Gli ebrei d’Ucraina non esistono più.


Per sua sfortuna – o fortuna, chissà – la coscienza umana è fatta in modo tale che chi legge nel giornale o sente alla radio la notizia della morte di milioni di persone non riesce a cogliere la portata di quanto è accaduto, non è in grado di figurarsi, di delineare, di comprendere o calcolare la misura tremenda del dramma che si è compiuto. Chi si trova a trascorrere qualche momento in un obitorio o vede una scolaretta di otto anni investita da un camion, invece, resterà scosso per diversi giorni, potrà perdere il sonno e anche l’appetito, mentre non c’è essere umano con una sensibilità tale, un’intelligenza tale, un senso di umanità e giustizia talmente accaniti e imperiosi da aiutarlo a cogliere la misura dell’orrore che si compie nel mondo solo sulla base di quanto pubblicano libri e giornali. Questo limite è la fortuna della coscienza umana, perché ci preserva dai tormenti morali e dalla pazzia. E questo limite è la sfortuna della nostra coscienza, perché rende il genere umano indulgente, superficiale e poco severo sul piano morale.


Nell’epoca feroce e tremenda in cui è toccato in sorte di vivere su questa terra alla nostra generazione, però, io non credo si possa essere indulgenti, indifferenti e superficiali quanto a ciò che si richiede a sé stessi e agli altri in ambito morale.


In un’epoca in cui la vita dei singoli individui e di popoli interi non vale più nulla, in cui uccisioni e torture sono la normalità per gli Stati fascisti, in cui un valore come la libertà personale finisce sotto le suole del dogma tedesco-fascista, in quest’epoca come non mai bisogna pretendere una purezza e un’intransigenza morale altissime, inarrivabili, sia in relazione alla vita personale di ciascuno di noi sia a quella degli Stati.


Perché?, mi chiederanno.


Ma perché vivere così non si può più, perché non solo l’Europa, ma l’umanità intera è sull’orlo del baratro, perché distese enormi sono già diventate deserto e migliaia di splendide città sono state fatte saltare in aria e bruciate. Perché milioni di persone già vivono come bestie in fosse e rifugi scavati nel terreno, rigettate indietro di decine di secoli nella notte dei tempi da un cataclisma mondiale; perché l’imbarbarimento generalizzato, la miseria, varie pesti ed epidemie bussano a ogni nostra porta e finestra; perché le più cupe fantasie di Wells sulla catastrofe mondiale imminente sembrano favolette innocue rispetto alla realtà dei nostri giorni.


Questa forza amorale che tutto incenerisce è arrivata dalla Germania nazionalsocialista.


È nata dall’eccezionalismo della razza germanica, dalla profonda convinzione dei tedeschi d’oggi di essere il popolo eletto e che la loro felicità, la loro pace e sicurezza siano le uniche cose sacre sulla terra. È, questa, l’ideologia dell’eccezionalismo e del disprezzo per gli altri popoli, dell’indifferenza per le sofferenze altrui e del sentimentalismo esasperato nei confronti dei propri simili. È l’idea sciovinista cullata e alimentata per decenni dal convincimento che si possa amare il proprio popolo solo se si disprezza il resto dell’umanità; è la certezza sconfinata della propria insindacabile egemonia sul mondo, del fatto che dio ha creato cielo, sole, aria, mare, fiori e campi solo per i tedeschi; è il voler credere che, su questa terra, la vita degli altri popoli dipenda solo da quanto essi possano risultare utili al popolo tedesco. La consapevolezza di un tale eccezionalismo non sonnecchia soltanto nell’animo del popolo tedesco. È piuttosto il flagello dell’umanità di oggi e non condurrà di certo alla gloria e al progresso dei popoli. Destatasi in Germania, la condurrà su una china di crimini sanguinosi, la farà precipitare nel baratro della disfatta più brutale. E, a guerra finita, possa qualunque tentativo di risvegliare in uomini e genti il disprezzo per il principio di uguaglianza fra i popoli essere considerato il crimine sommo.


L’uguaglianza, in quest’epoca, è il principio morale supremo del genere umano. All’estremo opposto c’è il razzismo.


E quindi, mi chiederanno, i tedeschi sono una nazione di assassini e criminali?


No! Noi crediamo nel principio supremo dell’uguaglianza fra i popoli. E il popolo tedesco non ha generato solamente gli Hitler, i Goebbels, i Göring e i Rosenberg, solo le dinastie degli Hohenzollern e dei Krupp, solo gli Stinnes e i Guderian, i Ley e i Ribbentrop, gli Horst Wessel e i Nietzsche.


Quello stesso popolo ha generato Kant, Goethe, Hegel e Feuerbach, Marx ed Engels e quel martire incendiario di Liebknecht, ha generato la mente lucida e l’anima pura di August Bebel e migliaia di militanti proletari, centinaia di scienziati e di uomini pubblici moderati e umani, molte brave donne e molti vecchi lavoratori onesti.


La guerra finirà.


E che cosa diremo al popolo tedesco: siete degli assassini? Occhio per occhio, dente per dente? Risponderemo all’eccidio di un popolo con l’eccidio di un altro?


No.


La vittoria della democrazia non sarà solo una vittoria delle armi.


La vittoria vera consisterà nel ridurre in cenere le forze oscure del razzismo, l’idea che una sola nazione abbia l’egemonia sui popoli della terra, l’idea che un solo popolo e un solo Stato opprimano tutti gli altri popoli e tutti gli altri Stati. L’uguaglianza fra i popoli trionferà.


La vittoria vera consisterà nel fatto che, dopo avere scatenato una guerra nel nome dell’oppressione e dello sterminio, la Germania fascista sarà sconfitta non solo materialmente, ma anche nelle sue convinzioni. Per questa guerra i tedeschi non pagheranno soltanto con indennità feroci, non dovranno solo ricostruire ciò che hanno distrutto, ma dovranno rifiutare essi stessi le idee che li hanno condotti alla guerra, alla disfatta e a una pace feroce.


Il popolo tedesco capirà che l’eccezionalismo della razza tedesca è sbagliato e criminale. Capirà che di sacro, su questa terra, non ci sono solo la sua felicità e la sua pace. Il popolo tedesco ripudierà il disprezzo e l’indifferenza per le sofferenze altrui. Ripudierà un’egemonia sul mondo che voleva decisa da dio, l’idea fallace che cielo, sole, aria e mare siano stati creati per i tedeschi e solo per loro; rinnegherà la convinzione ributtante che la vita dei popoli sulla terra dipenda solo da quanto possano risultare utili ai tedeschi. Il popolo tedesco giungerà a una morale diversa e rinnegherà la forma massima di amoralità: il nazismo, il fascismo.


La garanzia di una vittoria duratura è nella potenza delle armi, nella forza dell’artiglieria e dell’aviazione che costringeranno i tedeschi a credere una volta per sempre che i popoli hanno tutti il medesimo diritto di vivere sulla terra.


Chi di spada ferisce comprende solo ciò che dice la spada. I tedeschi hanno conosciuto il fuoco dei mortai, il peso e la potenza dei nostri carri armati, gli orrori dei bombardamenti aerei. Ciò che loro hanno inferto al mondo, il mondo l’ha inferto a loro. Questa è la logica sacra, la morale della guerra in corso. I tedeschi non potranno incolpare nessuno per le privazioni del dopoguerra: la colpa è solamente loro.


A portarli all’idea dell’uguaglianza fra i popoli saranno il sangue e l’orrore della guerra e della disfatta e la sorveglianza armata degli Stati democratici. La morale suprema dell’uguaglianza si estenderà anche ai tedeschi: il mondo li ha votati a quest’idea con la forza delle armi, e finalmente lo capiranno. Non scorderanno più che a condurli alla loro disfatta peggiore è stata la demagogia criminale del fascismo. E allora malediranno il razzismo, lo sciovinismo e l’egoismo di Stato, li malediranno nei secoli dei secoli.


Oggi, però, si combatte ancora e, asservita alla cricca d’assassini di Hitler, la Germania nazista sparge sangue innocente.


È, questa, la forma più alta e compiuta di amoralità; è un egoismo ideologico, sociale ed economico, un egoismo che repelle già nei singoli, che repelle nei giochi innocenti dei bambini, e che diventa fonte di disgrazie a livello mondiale quando si fa fondamento, pietra angolare dell’ideologia di un popolo forte che dispone di una tecnologia evoluta.


Mi è capitato di parlare con decine di prigionieri di guerra tedeschi. Ci ho parlato tra le macerie fumanti di città e villaggi distrutti, e ci ho parlato di eccidi ed esecuzioni di massa di ucraini e russi e dello sterminio capillare del popolo ebraico, ma mai una volta ho colto in loro un senso di vergogna o di disperazione, il desiderio di rinnegare i crimini ignominiosi associati all’essere tedeschi. Non riuscivano fisiologicamente a vergognarsi di quei crimini orrendi, e insistevano tutti con inusitato candore a professare l’idea che cotanti crimini contro l’umanità non fossero crimini, avendo come scopo il bene della Germania. L’unica morale che comprendevano era quella dell’utilità; piuttosto, molti di loro sostenevano che l’eccidio del popolo ebraico si era rivelato inutile, che le esecuzioni di massa e le centinaia, migliaia di villaggi dati alle fiamme non avevano portato alla Germania il beneficio atteso. Questo era l’unico motivo per cui condannavano i crimini compiuti dalla Germania.


Ma la consapevolezza arriverà, non può non arrivare.


Tutti quelli che in Germania la pensavano diversamente, quelli che rifiutavano l’egoismo di Stato, quelli che potevano contare su una morale universale, quelli che vivevano e pensavano conformemente ai pensieri, ai sentimenti, ai dolori e alle gioie dell’umanità intera, quelli con una concezione internazionale della morale, della scienza e dell’arte, quelli per cui l’amore del remoto 4 era la realtà della vita – tutti quei tedeschi sono stati sterminati o rinchiusi nei campi di concentramento, sono fuggiti dalla Germania di oggi, si sono dispersi per il mondo o tacciono, rintanati nella clandestinità più profonda, consapevoli che non solo la minima azione, ma perfino una parvenza di azione o di parola significherebbe morte certa. Nella Germania odierna non possono essere realtà, quei tedeschi paralizzati nel pensiero e nelle parole, congelati nelle azioni. Ora in Germania c’è una sola ideologia nota, l’unica vigente, l’unica che esiste e determina l’agire di cento milioni di persone, di coloro che armi in pugno stanno sterminando e rendendo schiavi i popoli europei, e di chi quelle armi le prepara.


Che ruolo ha il nazionalsocialismo nella Germania di oggi? Ha davvero reso schiava la metà di popolo che non abbraccia l’ideologia del prussianesimo, del militarismo e dell’egoismo teutonico di Stato, chiamando all’azione l’altra metà?


No, il popolo tedesco non è diviso in due metà, una bianca e una nera, e la natura del popolo tedesco non può cambiare in una decina d’anni, ingenerando nuovi tratti.


Il nazionalsocialismo non ha generato nulla di nuovo, ha solo fissato, cristallizzato e usato a proprio vantaggio tratti del popolo tedesco che sono sempre esistiti. Non li ha generati lui, quei tratti, ma vi ha fatto leva demagogicamente e provocatoriamente; esistevano prima del nazionalsocialismo, quei tratti, e di fatto lo hanno generato loro, non viceversa.


Perché la Germania nazionalsocialista si è fatta carnefice del popolo ebraico?


Se sollevo la questione non è solo perché io stesso sono ebreo, e non è solo perché le persone a me più care sono cadute vittime dei boia fascisti.


Nel modo in cui tratta gli ebrei, le peculiarità della moderna Germania fascista, la sua ideologia e i suoi metodi trovano la loro espressione più piena, rude e compiuta.


I tedeschi non avevano mai usato una violenza tanto bestiale e priva del minimo barlume di umanità contro nessun altro popolo al mondo.


Questo massacro mostruoso ha portato alla luce, esasperandoli, i tratti criminali dell’ideologia di Stato tedesca: l’egoismo nazionale.


L’odio per gli ebrei è stato la benzina che ha alimentato le fiamme del fuoco fascista.


Le alte sfere fasciste hanno deliberatamente ingannato le masse promuovendo la tesi che l’ebraismo fosse la fonte di tutti i mali del mondo, e sotto la bandiera comune della lotta all’ebraismo hanno riunito tutte le classi della società tedesca, il proletariato come la borghesia.


«L’antisemitismo è il socialismo degli imbecilli» ha detto una volta un tedesco sagace. 5 E siccome, si sa, gli imbecilli sono tanti, l’antisemitismo è diventato l’arma universale del fascismo. Dov’è il senso di un tale movimento?


Nel fatto che la lotta contro gli ebrei calza a pennello all’egoismo di Stato della Germania, all’egoismo nazionale dei tedeschi, all’idea prusso-fascista mondiale nemica di tutti i popoli del mondo, nemica di operai, contadini e borghesi, ovunque essi vivano. Le circostanze hanno voluto che gli ebrei non abbiano un proprio Stato, che siano sparsi per il mondo, che ci siano ebrei tra i capitalisti americani, tra gli attivisti inglesi, tra i comunisti russi e tra gli anarcosindacalisti francesi. E questo fa molto comodo a uno Stato e a un popolo che hanno innalzato il vessillo nero della guerra contro tutti gli Stati e tutti i popoli del mondo. Se, scatenando la sua battaglia per il dominio del mondo, il nazionalsocialismo tedesco avesse eletto qualunque altro popolo a vittima della sua demagogia e delle sue provocazioni, la portata delle sue imprese criminali sarebbe stata ridotta. Se, poniamo il caso, i fascisti avessero dichiarato nemici dell’umanità i serbi, la loro violenza sarebbe rimasta necessariamente circoscritta alla penisola balcanica. Se nemiche dell’umanità fossero state dichiarate le razze anglosassoni, il loro sabotaggio si sarebbe limitato alle isole britanniche e agli Stati Uniti d’America. Avendo invece scelto gli ebrei quali vittime della propria demagogia, il nazionalsocialismo si è tenuto le mani libere contro tutti i popoli del mondo e tutte le classi sociali.


In questo modo, a determinare la portata gigantesca dell’attacco criminoso in fieri è stata la scelta della vittima – quel popolo ebraico sparso in tutti gli Stati del mondo, un popolo che ha suoi rappresentanti in tutte le classi sociali di Inghilterra, Francia, Olanda, Grecia. Dichiarando guerra agli ebrei, il fascismo ha potuto dichiararla al marxismo e al nuovo ordine sociale russo, ma anche alla plutocrazia di Inghilterra, America e Francia; insomma, ha dichiarato guerra a tutti i popoli del pianeta.


Questo è stato il primo argomento addotto dalla demagogia criminale del nazionalsocialismo quando si è trattato di scegliere una vittima.


L’antisemitismo è sempre stato il vessillo della reazione, una sua arma, la benda scura sugli occhi di un popolo accecato.


L’antisemitismo è sempre stato il narcotico scelto in tutti i periodi bui della storia quando una minoranza ha cercato di ingannare la maggioranza del popolo, di sottrarre gli oppressori alla giusta rabbia degli oppressi.


Lo zarismo e la reazione russa hanno cercato più volte di aizzare le masse oppresse e ignoranti contro gli ebrei per ritardare lo scoppio inevitabile della rivoluzione, per sottrarre alla rabbia dell’opinione pubblica i veri colpevoli della miseria e della mancanza di diritti del popolo russo. Di questo grande ruolo tragico toccato in sorte agli ebrei sono consapevoli tutti i reazionari, che temono la coscienza del popolo e preferiscono appellarsi a pregiudizi secolari anziché alla ragione. L’ascesa del nazionalsocialismo in Germania è stata un periodo in cui la reazione si è impadronita di tutti gli strati della società tedesca, di tutte le sue classi sociali. Un periodo in cui la reazione ha trionfato nella scienza, nella filosofia, nell’arte; un periodo in cui si è insinuata nel movimento operaio e ha conquistato le cerchie del capitale industriale.


La reazione ha trionfato in Germania dopo la disfatta nella guerra del 1914, una guerra imperialista in cui tutti gli strati della società tedesca, accecati dall’egoismo di Stato, avevano riposto le loro speranze. Con una vittoria i capitalisti si aspettavano di conquistare i mercati di sbocco e delle materie prime, oltre che di estendere le colonie. I lavoratori confidavano che la vittoria avrebbe cancellato la disoccupazione e portato salari più alti, un afflusso di merci a basso costo dalle colonie e un miglioramento del tenore alimentare. Quella guerra, però, non portò la vittoria; quella guerra portò la pace di Versailles. Una pace che, negoziata dagli Alleati, fu tanto feroce quanto la guerra che la Germania aveva loro imposto. E così come la guerra non poteva risolvere le contraddizioni del mondo capitalistico moderno, non le risolse nemmeno la pace di Versailles.


La soluzione di queste contraddizioni è nei princìpi grandi e luminosi della fratellanza e dell’uguaglianza fra i popoli, nell’eliminazione delle contraddizioni imperialiste fra gli Stati e della divisione in classi al loro interno, nella proprietà collettiva dei mezzi di produzione e nell’equa distribuzione dei beni.


Suo malgrado, però, a questa soluzione l’umanità non è stata capace di arrivare. In presenza di una ragione asfittica, i pregiudizi hanno avuto la meglio, troppo coriacee si sono dimostrate le relazioni economiche di vecchio stampo.


La reazione ha preso piede così, in Germania. I capitalisti vedevano nei rivoluzionari i propri nemici ed erano terrorizzati dallo spettro di una rivoluzione che veniva da est per scuotere la Germania. Le masse disperate dei lavoratori guardavano con odio torvo alle potenze vincitrici.


È a quel punto che il nazionalsocialismo ha scelto di mandare al patibolo un nemico universale ed eterno, testato e sperimentato, indifeso e dunque perfetto, oltre che perfettamente a portata di mano: gli ebrei. Gli ebrei non hanno leggi che li proteggano, né eserciti che li difendano, e sono quindi un bersaglio formidabile per l’ira dei deboli e dei vinti.


«La rivoluzione proletaria è il vostro spauracchio,» hanno detto i nazionalsocialisti agli industriali tedeschi «e lo è anche il comunismo, che per voi è cento volte peggio di tutte le paci di Versailles. Siccome anche noi temiamo la rivoluzione proletaria, uniamo le nostre forze e combattiamo insieme gli ebrei! Perché loro sono la fonte eterna della sedizione e di rivolte sanguinose, loro istigano e aizzano le masse, loro salgono sulle tribune e scrivono libri rivoluzionari, e a loro si devono i concetti di lotta di classe e di rivoluzione proletaria».


«Le conseguenze della pace di Versailles ricadono su di voi,» hanno detto i nazionalsocialisti alle masse di lavoratori tedeschi «voi patite la fame, voi non trovate lavoro, e vostre sono le spalle stremate su cui grava il torchio delle indennità di guerra. Guardate bene, però: non lo vedete di chi sono, le mani posate su quel torchio? Sono le mani della plutocrazia ebraica, le mani dei banchieri ebrei, le mani dei re senza corona d’America, Francia, Inghilterra. Ma i vostri nemici sono i nostri nemici: combattiamoli insieme!».


«Vi sentite offesi, i vostri ideali sono stati infranti» ha detto il nazionalsocialismo agli intellettuali tedeschi. «I nemici spregiano la Germania, guardano con freddo scetticismo alla storia di un grande popolo. Il vostro pensiero è castrato, il vostro orgoglio crocifisso, i vostri talenti, il vostro sapere non servono a nessuno, e voi che siete il sale della terra vi ritroverete condannati a fare i maggiordomi o i tassisti. Davvero non vedete brillare, tra la nebbia che avviluppa la Germania, gli occhi freddi e spietati dell’ebraismo mondiale, di quei giudei che da sempre odiano il focolare della nostra nazione – gli occhi del cosmopolita, dell’usuraio che disprezza e odia il vostro povero popolo e che aspetta trionfalmente l’ascesa al potere di un’idea vecchia di quattromila anni? E allora combattiamo insieme per l’onore della Germania, per le nostre fondamenta calpestate, e insieme inceneriamo quell’ebraismo che travia il mondo».


Così, dal vicolo cieco in cui era finita, la Germania si è accodata al nazionalsocialismo. A spingerla su quella strada sono state la disfatta e la reazione. Ma non solo. No, non solo. A quella strada la Germania era stata preparata da una cultura secolare di egoismo nazionale e di Stato, dalle idee del prussianesimo e dal militarismo, dall’eccezionalismo e dal suprematismo, dall’idea della forza bruta, dal massimo disprezzo per gli altri popoli e dalla sfiducia massima nella loro forza. La Germania non ha mai voluto vedere l’origine delle proprie disfatte militari nella forza materiale e spirituale del nemico, e ha sempre cercato la spiegazione dei propri insuccessi nella statistica economica e negli sbagli individuali del suo Stato maggiore.


Così, la Germania che non aveva mai perso la fiducia nella propria capacità di rovesciare il mondo con la forza, la Germania che credeva nella santità di una guerra ingiusta e considerava il piano strategico del suo Stato maggiore la suprema morale dello Stato, quella stessa Germania dieci anni fa ha sposato il nazionalsocialismo.


La Germania si è fidata del fascismo, e si è fidata perché voleva farlo e perché da quella fiducia aveva il suo tornaconto. Dunque il secondo argomento che ha spinto i nazionalsocialisti a scegliere il popolo ebraico quale vittima della propria demagogia criminale sono state la reazione trionfante in Germania e una serie di ragioni storiche a essa intrecciate.


E infine, da ultimo, il nazionalsocialismo tedesco sapeva a priori cosa stava portando ai paesi europei asserviti. Portava loro la schiavitù, e non la semplice privazione dei diritti; portava la miseria e la morte per fame, e non la povertà; portava un terrore sfrenato, le forche e le fucilazioni, e non la severità della legge marziale. All’economia dei paesi asserviti imponeva la pompa sempre attiva di furti plateali, un meccanismo che aspirava giorno e notte beni di ogni tipo, a cominciare da orzo, ferro e manganese per finire coi dipinti e i manoscritti antichi. Il ventre senza fondo di una Germania ingorda fagocitava tutto. Il nazionalsocialismo sapeva dal principio che agli Stati sconfitti cui toglieva ogni cosa – l’onore, il colorito roseo sulle guance dei bambini, il pane, il sorriso, l’aria stessa e il sole – non avrebbe dato in cambio un bel niente, non un grammo di carburante, non un centimetro quadrato di stoffa, non un barlume di speranza nella giustizia e nell’indipendenza.


Nei paesi asserviti il nazionalsocialismo poteva esportare solo una merce, della quale la Germania di oggi è ricca e satolla: l’ostilità razziale, l’odio e l’antisemitismo. Ma qual è il senso, il tornaconto pratico dell’antisemitismo che la Germania ha scaricato a tonnellate in Ucraina?


Il nemico mortale del fascismo è la consapevolezza dell’uguaglianza fra i popoli, l’idea della fratellanza e dell’unità tra i popoli del mondo. Non per niente il fascismo si fonda sull’egemonia della razza tedesca su tutti gli altri popoli. Non per niente ha scelto di costruire una grande scala dell’oppressione dei popoli. Di aizzare i popoli l’uno contro l’altro. In cima alla scala ha messo gli olandesi e i danesi, spiegando loro che se la passavano meglio di norvegesi e francesi; ai francesi ha avvelenato la coscienza con patetici privilegi su cechi e greci; più sotto ha messo i serbi, ma li ha consolati dicendo che ucraini e bielorussi stavano peggio di loro, trovandosi come si trovavano sull’ultimo gradino della scala suddetta. Infine, il fascismo ha scelto di spaventare l’intera colonia penale dei popoli, l’intera loro scala, con il baratro tremendo del non-essere cui ha condannato il popolo ebraico.


Sterminando il popolo ebraico e lasciando agli ucraini la consolazione di un’esistenza da forzati, il fascismo non intendeva soltanto spaventare gli ucraini. Il fascismo contava di aizzarli contro gli ebrei, contava di ingannarli facendo loro credere che la responsabilità di tutte le tragedie, le sofferenze e le sventure che si erano abbattute sull’Ucraina fosse degli ebrei.


Il principio del divide et impera – il disegno di aizzare un popolo asservito contro un altro destinato alla morte – è il terzo argomento addotto da Adolf Hitler per la sua sanguinosa manipolazione, per mandare al patibolo milioni di donne, vecchi e bambini indifesi.


Ma Hitler e gli altri capifila del fascismo tedesco credono davvero che gli ebrei siano i principali nemici della Germania e che il loro sterminio sia necessario per la felicità del paese? No di certo. Questa gente ha ideato in piena consapevolezza la manipolazione più grande e cruenta che si sia mai vista. Questa gente è fisiologicamente priva di scrupoli, e chi non ha scrupoli non crede in nulla, non ne è capace. Chi non ha scrupoli si fa guidare nelle sue azioni solo dal pragmatismo e dalla contingenza, lascia che sia il vento a portarlo; è gente cinica, senza fede o ateismo, perché anche l’ateismo è una fede; è gente che non conosce verità né errore, essendo l’errore la malattia suprema di una mente che cerca. La loro morale è l’amoralità; si attengono solo a circostanze empiriche, transeunti e contingenti in funzione delle necessità del momento, e senza imbarazzo né vergogna, anzi con inimmaginabile leggerezza, non appena le necessità pratiche cambiano, non appena si convincono che gli spropositi ideologici che hanno concepito non li aiutano a conservare la posizione acquisita, rinnegano la loro stessa morale transeunte e le loro stesse leggi, così come gli accordi che hanno solennemente sottoscritto e le tradizioni che si sono inventati.


Posso non essere d’accordo con il presidente Roosevelt su alcune questioni, ma so per certo che, indipendentemente dalle circostanze, i suoi princìpi resteranno immutati; e in questa immutabilità anche riguardo a questioni su cui c’è disaccordo, in questa immutabilità nel disaccordo c’è mille volte più comunanza di interessi, mille volte più lealtà e possibilità di azione congiunta che nel conformismo, nell’incostanza, nella capacità di adattarsi proditoriamente alle circostanze che da un momento all’altro rimpiazzano la «falsa polarità di princìpi» del nazionalsocialismo tedesco. La filosofia del fascismo, la sua morale, la sua etica sono soltanto l’amoralismo più totale, l’assenza di ogni etica e – che poi è la stessa cosa – la capacità di professare qualsivoglia filosofia, qualsivoglia sistema etico e morale che risulti utile in un determinato momento della sua lotta zoologica, del suo processo di metabolizzazione e digestione.


È così che i tre argomenti suddetti e necessari alla pratica del fascismo, gli argomenti utili alla sua pratica nella fase attuale della sua lotta demagogica, lo hanno condotto senza esitazione alcuna, senza un sussulto di coscienza, senza neanche un pensiero, a calpestare leggi eterne, a mandare al patibolo e a giustiziare il popolo ebraico.


Mi sia ora concessa qualche riflessione sulla sostanza dell’antisemitismo.


L’antisemitismo esiste in ogni paese del mondo ed è esistito nelle varie epoche della storia umana. Esiste anche nelle democrazie moderne. I suoi tratti, com’è ovvio, variano da paese a paese e da epoca a epoca. L’antisemitismo inglese e l’antisemitismo della Russia zarista sono due cose diverse. La possibilità di crescita dell’antisemitismo dipende dalle reazioni dell’opinione pubblica e dalla necessità delle autorità statali di spiegare e incanalare a piacimento il malcontento sociale e la frustrazione ideologica. L’antisemitismo è la misura di contraddizioni senza via d’uscita. L’epoca della reazione postrivoluzionaria in Russia, tra il 1905 e il 1911, è stata segnata da sanguinosi pogrom e processi dimostrativi. Quello della grande Rivoluzione russa, invece, è un periodo storico che non ha conosciuto l’antisemitismo.


E intendo, qui, l’antisemitismo di Stato, vale a dire il deliberato incitamento all’antisemitismo da parte dell’apparato statale.


Oltre all’antisemitismo di Stato, però, esiste anche il cosiddetto antisemitismo «ideologico». Sempre si trova qualcuno che se ne fa portatore, così come sempre nella storia si trovano focolai di malattie epidemiche o portatori di bacilli pronti a scatenare epidemie diffuse.


L’antisemitismo ideologico è un fenomeno che nasce dal bisogno fisiologico di spiegare i mali del mondo e delle persone guardando uno specchio anziché sé stessi. E lo Stato vi ricorre ogni volta che vuole creare un’«epidemia» ad hoc nella forma che gli è necessaria.


È nella parte istruita della società che si incontrano, soprattutto, i latori dell’antisemitismo ideologico.


Che cosa c’è alla sua base?


Alla base di questo tipo di antisemitismo c’è, credo, il ruolo tragico dell’ebraismo, che in ogni paese è diventato lo specchio dei difetti intrinseci del sistema sociale e dei singoli individui.


Lasciate che spieghi questo mio pensiero. Quando un grande scrittore come Dostoevskij accusa gli ebrei di essere l’origine di ogni disgrazia per coloro che abitano alla periferia della Russia, scambia – ovviamente senza accorgersene né rendersene conto – l’ascesa dei mercanti ebrei con quell’enorme processo storico che è l’insorgere della borghesia nella società feudale russa. La metà dell’Ottocento è segnata in Russia da un incremento fortissimo dei rapporti capitalistici; il mercante, il commerciante, il piccolo industriale, l’appaltatore si fanno largo nel vecchio sistema di relazioni, lo scardinano, lo piegano ai propri bisogni, spezzano l’idillio dei rapporti servili e feudali. Tremendi, grevi e ributtanti sono i tratti e l’immagine del kulak famelico, del mercante usuraio, del forestiero spietato e impassibile che non conosce le tradizioni, è indifferente e freddo verso la terra che compra e vende, verso chi su quella terra è nato, ha sofferto, lavorato e sperato ed è infine morto, verso chi ha piantato i «giardini dei ciliegi» e da bambino, in una mattina di maggio, ha corso a piedi nudi sull’erba fredda sotto meli cosparsi di fiori color latte.


Dostoevskij aveva colto la novità di quelle relazioni, ma non aveva colto, e forse non poteva neanche coglierla, la nuova composizione umana della società russa, la sua nuova fisionomia fatta di mercanti, appaltatori e industriali rapaci, spietati, avidi e ignoranti. Qualcosa di nuovo aveva fatto irruzione nella vita russa; Dostoevskij lo aveva visto e sentito, ma per lui i russi erano rimasti uguali a sé stessi, e non poteva essere altrimenti: i russi non potevano cambiare, perché avrebbero dovuto? Dunque i responsabili di quelle novità dovevano essere ed erano stati altri, che russi non erano. E Dostoevskij li individuò, questi altri. A portare in Russia il nuovo complesso di relazioni dovevano essere stati gli ebrei, che non conoscevano l’amore per il sistema patriarcale russo, non avevano alcun attaccamento alla terra ed erano spinti solo dalla brama di profitto, indifferenti se non ostili al popolo lavoratore. Dostoevskij volle cogliere quei tratti del loro carattere, e li bollò come insensibili, affaristi, spietati. Studiò il personaggio del commerciante ebreo e lo prese in odio, ma una cosa non capì, e cioè che, mentre osservava il commerciante ebreo, l’appaltatore ebreo, l’intermediario ebreo, stava semplicemente guardando lo specchio che rifletteva i milioni di facce della nuova borghesia russa, la sua nascita spontanea in migliaia e decine di migliaia di villaggi e città di campagna russi, nei capoluoghi di provincia e di distretto, nella capitale come nei casolari più sperduti.


Così è stato lungo tutta la storia dell’ebraismo. Mettendo al rogo gli ebrei, l’Inquisizione medioevale spagnola non aveva capito che in loro, come in uno specchio, vedeva la propria intolleranza, i propri oscuri pregiudizi, la propria feroce ortodossia, e che mettendoli al rogo mirava a combattere i vizi che erano spuntati e prosperavano nel suo stesso seno. Quando i filosofi reazionari russi vedevano negli ebrei l’origine del contagio rivoluzionario, non capivano – non volevano capire, e forse nemmeno potevano – che stavano semplicemente guardando lo specchio in cui si rifletteva la vita sociale di tutta la Russia, che stava generando fisiologicamente la rivoluzione nelle sue migliaia di fabbriche, opifici e miniere, nelle sue università e nelle caserme.


Così è stato lungo tutta la storia dell’ebraismo. Gli ebrei sono stati lo specchio in cui si riflettevano tutti i processi sociali, tutti i mali, tutti i cambiamenti cui erano soggetti i sistemi sociali, le ideologie e i regimi.


Com’è ovvio che sia, gli ebrei di un qualunque paese partecipano alla sua vita, non sono estranei ai vizi e ai difetti delle persone che nell’uno o nell’altro paese vivono, sono esseri umani tanto quanto coloro che risiedono da secoli nell’uno o nell’altro luogo del pianeta. In forza della loro duttilità, gli ebrei fanno presto ad adattarsi ai cambiamenti sociali; nella loro natura si riflettono vizi, virtù e lati oscuri della società in cui vivono. Gli ebrei prendono parte a rivoluzioni e controrivoluzioni; li trovate nella borghesia, tra gli operai e tra gli intellettuali. Se interiormente si assimilano, esteriormente mantengono i tratti della loro razza. Ma sono comunque coinvolti nelle trasformazioni sociali e nei rivolgimenti economici cui è sottoposta la società che li accoglie. Questo l’antisemitismo ideologico non può e non vuole capirlo.


La si potrebbe mettere così: «Dimmi di cosa accusi gli ebrei e ti dirò quali colpe hai tu».


Questo vale non solo per la società, ma anche per i singoli individui.


Ho notato spesso che ad accusare gli ebrei di non voler combattere è chi resta vilmente nelle retrovie. Da chi è affratellato dalla prima linea, invece, certe accuse non mi è mai capitato di sentirle.


Ho notato spesso che ad accusare gli ebrei di non voler lavorare nelle fabbriche è gente che nulla produce. Da chi in fabbrica ci lavora, invece, certe accuse non le ho mai sentite.


Ma è tempo di tornare al nazionalsocialismo tedesco. Abbiamo scoperto che le leggi sono sempre le stesse, che sono leggi generiche, e che l’antisemitismo è fedele a sé stesso in ogni epoca.


Ma il nazismo di che cosa accusa gli ebrei? Di decine di peccati mortali. La cosa più paradossale e sorprendente, però, è che descrivendo i tratti peculiari degli ebrei, affibbiando loro un razzismo fanatico, la brama di potere sul mondo, quella di ridurre in schiavitù l’umanità intera, di sconfiggerla e dominarla a propria discrezione, il nazionalsocialismo ripete fatalmente quanto prima di lui avevano fatto gli antisemiti di ogni epoca: descrivendo il popolo ebraico, i nazisti descrivono sé stessi, affibbiano agli ebrei i propri tratti, i propri vizi e le intenzioni criminali che loro stessi covano in seno.


Orai tedeschi vengono cacciati dall’Ucraina. Giorno dopo giorno, questa splendida terra esausta si ritrova finalmente libera come dopo un’alluvione: l’acqua torbida e sporca dell’occupazione tedesca defluisce, il grano schiacciato si rialza, boschi e frutteti piegati dalla tempesta nera raddrizzano i tronchi, vento e sole asciugano la terra impregnata di sangue e lacrime, la gente torna a parlare a voce piena e a spalancare gli occhi sul mondo. I tedeschi hanno già perso la Riva sinistra ucraina: regioni sterminate, svariate decine di città, decine di migliaia di villaggi. Molti milioni di persone non sono più schiave.


L’imponente, colossale ritirata dei tedeschi è la prova realissima della disfatta subita dal fascismo germanico. Ogni chilometro quadrato di terra ucraina che si lasciano alle spalle è la dimostrazione matematica fredda, chiara e inappellabile dell’imminente catastrofe. E sono molti, ormai, sono centinaia di migliaia i chilometri quadrati di terra ucraina che i tedeschi si sono lasciati alle spalle. L’Ucraina era una delle principali poste in gioco per il fascismo. Che in Ucraina aveva già i suoi interlocutori nel 1933.6 E che ora la sta perdendo, l’Ucraina, l’ha già persa, anzi, lasciando solo orrore e odio nei cuori della gente, oltre che milioni di cadaveri dei suoi soldati e milioni di tonnellate di materiale bellico defunto.


Il fascismo ha sbagliato tutto; con il suo cervello da cinghiale selvatico non ha capito nulla delle grandi leggi della guerra e della vita. La sua scommessa è perduta. Tutti i suoi piani sono crollati.


Non ha capito, non ha intuito – e come poteva farlo! – la capacità di resistenza della gente, la forza di volontà, la dignità sempre viva dei popoli del nostro paese.


Non ha capito la forza del sistema sovietico! La sua solidità, testata nelle intemperie e nelle fatiche della rivoluzione, della guerra civile e dei grandi cantieri.


Non ha capito, ha mal stimato l’amicizia fra i popoli che abitano l’Unione Sovietica; si è limitato a grugnire che l’Unione Sovietica è un concetto geografico, senza comprendere che l’Unione Sovietica è l’anima nobile, coraggiosa e pronta al sacrificio, l’anima rabbiosa e gentile dell’umanità libera.


Non ha capito, ha mal stimato la forza della nostra Armata Rossa e dei suoi valorosi riservisti, il suo coraggio, la sua potenza tecnica; non ha capito che essa è immortale perché immortale è il popolo che ha generato i soldati, i generali e il fuoco dei carri armati, dell’artiglieria e dell’aviazione di questo esercito.


Non ha capito nulla e ha sbagliato tutto, quel fascismo tedesco che con il suo cervellino corto e ispido da cinghiale ha provato a capire e a determinare il corso della storia.


Il nazionalsocialismo tedesco ha sbagliato anche a scommettere sulla propria sanguinosa manipolazione, sull’eccidio di milioni di ebrei.


I tedeschi non sono riusciti a ingannarla, l’Ucraina, perché ingannare il popolo non è possibile. Le stragi assurde e tremende di vecchi, donne e bambini l’hanno fatta inorridire. E delle esecuzioni di massa degli ebrei nell’autunno del 1941 e nell’estate del 1942, in città e villaggi ucraini parlano tutti con profonda compassione per i giustiziati, e con disgusto e odio profondi per i carnefici.


Christja Čunjak, contadina quarantenne del villaggio di Krasilovka, distretto di Brovary, regione di Kiev, mi ha raccontato di quando a Brovary i tedeschi volevano giustiziare un tal Feldman, medico ebreo. Vecchio e scapolo, Feldman aveva adottato due ragazzini del luogo, e la gente gli voleva molto bene. Una torma di contadine in lacrime andò a implorare il comandante tedesco di risparmiargli la vita. E il comandante dovette arrendersi alle loro suppliche. Era l’autunno del 1941. Feldman poté continuare a vivere a Brovary e a curare i contadini. Lo hanno giustiziato nella primavera di quest’anno. Mentre mi raccontava che il vecchio aveva dovuto scavarsi la fossa da solo (e che da solo era anche morto, dato che nella primavera del 1943 non era rimasto un solo ebreo vivo, da quelle parti), Christja Čunjak tratteneva a stento le lacrime, fino a che non è scoppiata a piangere. In questa storia semplice, nelle sue parole piene di tristezza si riflette con straordinario nitore l’atteggiamento dell’Ucraina nei confronti dello sterminio degli ebrei.


Nessuno qui ha creduto agli articoli, ai discorsi e ai volantini fascisti sugli ebrei che volevano assoggettare l’Ucraina e conquistare il mondo intero. L’Ucraina conosceva bene gli ebrei, che generazione dopo generazione avevano sgobbato ed erano invecchiati e morti su questa terra. Non per niente il popolo lavoratore è sempre stato libero dall’antisemitismo, che gli è estraneo in ogni sua forma. Non per niente in città di ebrei come Berdičev l’antisemitismo non si sapeva nemmeno cosa fosse: ucraini, russi, polacchi ed ebrei vivevano e lavoravano in armonia.


Semplice e saggio e nobile d’animo, il popolo ha intuito la tragedia eterna del popolo ebraico, ha capito quello che non avevano capito fior di studiosi reazionari: la sostanza intrinseca dell’antisemitismo. Il popolo ha capito che tutti i crimini di cui i tedeschi accusavano gli ebrei erano i crimini dei tedeschi stessi, e che l’idea di dominare il mondo, il razzismo sanguinario, il disprezzo e l’odio per tutti i popoli di questa terra li aveva portati il fascismo. Il popolo sapeva chi lo torturava e lo derubava, sapeva chi lo vessava, e ha anche capito perché i tedeschi gridavano giorno e notte ai giudei criminali. E avendolo capito, triste e pietoso ha chinato il capo di fronte agli ebrei giustiziati, e ha guardato ai nazisti con disprezzo e odio, in silenzio e a denti stretti.


Il popolo ha capito l’essenza autentica dell’antisemitismo fascista, e col suo sguardo semplice e saggio ha ignorato il falso specchio della menzogna e ha guardato negli occhi il vero carnefice dell’umanità di oggi. Così il nazionalsocialismo ha perso la sua scommessa manipolatrice, una scommessa in nome della quale la Germania ha compiuto un crimine senza precedenti nella storia dell’umanità, mandando al patibolo tutto un popolo.


In burroni, dirupi e fossati anticarro, sotto la sabbia, l’argilla e la terra nera e pesante, tra fosse e paludi giacciono i corpi frettolosamente ammassati di professori e operai, medici e studentesse, vecchie e neonati.


Non si sentono lacrime né lamenti, né si vedono volti straziati dal dolore. Il silenzio degli ebrei è il silenzio tremendo del villaggio di Kozary, sulla strada storica per Kiev. Il vento porta la sabbia sulle enormi fosse comuni; l’erba è cresciuta alta su quei campi di morte, e alti sono i pioppi che frusciano come oscuri vessilli piantati nella terra, chini in segno di lutto.


Silenzio e quiete.


Ma se per un attimo quel popolo ucciso potesse tornare in vita, se la terra si aprisse nel burrone di Babij Jar a Kiev7 e intorno al memoriale di Ostraja Mogila8 a Vorošilovgrad, se un grido lancinante si staccasse da quelle centinaia di migliaia di labbra piene di terra, l’Universo intero tremerebbe.

NOTE

1

Qui e ovunque si mantengono la grafia e la denominazione russa dei toponimi ucraini, come nell’originale [Tutte le note sono della Curatrice].


2

L’odierna Luhans’k.


3

Termine yiddish per indicare una sorta di calessino e il vetturino che lo conduceva.


4

L’allusione è al Fernstenliebe di Nietzsche in Così parlò Zarathustra (I discorsi di Zarathustra, «Dell’amore del prossimo»).


5

Si indica sempre come autore dell’assunto August Bebel, che avrebbe pronunciato queste parole al Congresso socialdemocratico di Colonia nel 1893. È Bebel stesso, invece, a citare come sua fonte il politico austriaco Ferdinand Kronawetter.


6

Già nel 1933 i vertici dell’Organizzazione dei nazionalisti ucraini (OUN) sondarono il governo nazionalsocialista tedesco sperando in un sostegno per l’indipendenza dell’Ucraina.


7

Nel burrone di Babij Jar, alla periferia di Kiev, tra il 29 e il 30 settembre 1941 furono uccisi più di trentatremila ebrei.


8

Situato su un’altura della città, è un monumento ai caduti della guerra civile e della seconda guerra mondiale.


NOTA AL TESTO

È più difficile onorare la memoria dei senza nome che non quella degli uomini famosi e celebrati.




WALTER BENJAMIN,

Sul concetto di storia


 


 


 


 


 


Prima del 22 giugno 1941, giorno in cui l’esercito tedesco mise piede in territorio sovietico, in URSS vivevano circa cinque milioni di ebrei. Più della metà fu sterminata. Solo nei primi sei mesi dell’occupazione fu trucidato un milione di donne, bambini e vecchi.


«Non è odio, è aritmetica della ferocia» potremmo dire insieme al vecchio maestro dello splendido racconto omonimoa di Vasilij Grossman, che così spiegava, lapidario, la «scala della repressione» concepita dai nazisti per incasellare i popoli fino al gradino infimo, assegnato agli ebrei e al loro atroce destino.


C’è anche in Ucraina senza ebrei, quella scala. I due testi sono entrambi del 1943 e si danno la voce con accorata desolazione: il documento diventa letteratura, la letteratura attinge al documento.


Nell’agosto del 1941, prima di partire per il fronte come corrispondente di guerra e inanellare i reportage che lo avrebbero reso celebre in tutto il paese, Grossman scrive al centro di coordinamento per l’evacuazione dei civili per avere notizie della madre: Ekaterina Savel’evna era rimasta a Berdičev, che già il 7 luglio si era svegliata sotto l’occupazione tedesca.


La risposta – e la conferma ai sospetti di Grossman – arriverà nel maggio del 1942: il nome della madre non è nelle liste degli sfollati dalla sua città natale.


 


 


Nei mesi trascorsi al seguito dell’Armata Rossa fra Bielorussia e Ucraina, Grossman era già venuto a conoscenza dei massacri compiuti dalle truppe naziste. Quello dei settemila ebrei uccisi a Kerč, per esempio, il 30 dicembre del 1941. E quelli, più o meno imponenti, che finirono nel suo taccuino per confluire poi nel Libro nero curato insieme a Il’ja Erenburg.b Sarebbe anche arrivato a Treblinka, Grossman, in quell’inferno che avrebbe descritto in pagine feroci c usate poi come prova documentale durante il processo di Norimberga.


La stampa sovietica reagì lentamente alle notizie. Al silenzio sulla campagna antisemita di Hitler in Europa – silenzio imposto dai vertici comunisti durante gli anni di alleanza coi tedeschi (e che di fatto segnò il destino degli ebrei ucraini e bielorussi, ignari di quanto succedeva non lontano da lorod e perciò ben poco preoccupati per l’invasione) – sarebbero seguiti sparuti appunti nei quotidiani nazionali. Il 7 gennaio del 1942 la «Pravda» citava Molotov e il suo sdegno per le efferatezze tedesche nei territori occupati, e nel dicembre dello stesso anno la «Pravda» e le «Izvestija» azzardavano in coro i primi commenti sulla Endlösung der Judenfrage e il piano di sterminio nazista.


Quelle di Ucraina senza ebrei sono le prime pagine in cui si tenta un ragionamento articolato e storico su ragioni e radici dell’eccidio.


Non ebbero vita facile. Rifiutate da quella «Krasnaja zvezda» (Stella rossa) per cui scriveva come corrispondente di guerra, le pagine di Grossman trovarono spazio quasi contemporaneamente, pur se in forma ridotta, su due giornali a tiratura molto più limitata: in russo, il 28 novembre 1943, su «Za rodinu» (Per la patria); e tradotte in yiddish (Ukraina on yidn), il 25 novembre e il 2 dicembre, su «Eynikeyt» (Unità), settimanale del Comitato ebraico antifascista. Della pubblicazione su «Za rodinu» si perse presto memoria, tanto era circoscritta la sua diffusione, e a lungo si considerò erroneamente quale prima edizione in russo una ritraduzione dallo yiddish apparsa nel 1985.


Cinque anni dopo, il dattiloscritto completo riaffiorò dagli archivie e una rivista di Riga, «VEK» (4, 1990), poté dare finalmente alle stampe la versione originale: su questa, raffrontata per scrupolo con redazioni precedenti e altri materiali, si fonda la presente traduzione.


E di nuovo il rimprovero al Caino del ventesimo secolo ha trovato carta e inchiostro: «Dove sono finiti tutti i nostri ebrei?».


L’agronomo ucraino del Vecchio maestro la pone con un «sorrisetto furbo», questa domanda. E in quel ghigno c’è, amaro e desolante, l’annuncio di un nuovo antisemitismo di Stato (sovietico, questa volta) che in Ucraina senza ebrei Grossman aveva provato a esorcizzare, rammentando fra le righe la ferma posizione in merito di Lenin (la delibera del giugno 1918 sulla «lotta all’antisemitismo e ai pogrom», e lo scritto del marzo 1919 contro la «persecuzione degli ebrei»).


Negli anni seguenti sarebbero venute altre pagine dolentissime e intense, in cui la ricerca dell’umano nell’uomo avrebbe preteso sforzi decisamente maggiori.