lunedì 25 febbraio 2019


 REVERSIBILITÀ

Estratto da "Il mare colore del vino"
Leonardo Sciascia

"Maestà" disse il ministro Santangelo battendo dolcemente un dito sulla spalla di Ferdinando "siamo alle Grotte." 
Il re si svegliò con un singulto, in faccia al ministro aprì gli occhi acquosi di sonno e smarriti, si passò il dorso della mano sulla bocca da cui colava un filo di saliva. 
"Che c'è?" domandò. 
"Siamo alle Grotte, maestà." 
Ferdinando si affacciò allo sportello della carrozza. 
Case grige che si ammucchiavano a scivolo sul fianco di una collina, tetti di ortiche e di muschio. E donne vestite di nero affacciate alle porte, e bambini dagli occhi attoniti e affamati, e porci che grufavano nelle immondizie. 
Si ritrasse. 
"E che mi svegliate a fare?" disse al ministro. E come rivolgendosi a una terza persona: "Ventiquattr'ore che non chiudo occhio: e appena riesco a cogliere un po' di sonno, ecco questo scimunito a svegliarmi con la bella notizia che siamo alle Grotte". 
Il labbro, che pareva un rognone di vaccina, gli tremava di collera. Si affacciò di nuovo. A pochi passi dalla carrozza la gente si aggrumava silenziosa. 
"Nelle grotte ci stanno i lupi: tiriarno avanti" disse all'ufficiale di scorta. Rise, abbandonandosi all'indietro, della felice battuta che gli era venuta. Il ministro si piegò in due dal ridere. 
E tirarono avanti per altre due miglia: fino a Racalmuto, dove trovarono i balconi parati di seta come per il Corpus Domini, la guardia urbana schierata, una ricca mensa in municipio. 
Così Grotte, nei documenti del tempo chiamato Le Grotte e dai racalmutesi, ancor oggi,i i Gr~tti, non ebbe l'onore di ricevere re Ferdinando. 
Giusto un secolo dopo, dalla stazione di Grotte il treno di Mussolini passò velocemente, a filo di una folla che dal marciapiede quasi traboccava tra le ruote: e non furono molti i grottesi che per un momento intravidero la faccla abbronzata e ingrugnata di Mussolini accanto a quella olivigna e sorridente di Starace. 
Da questi due fatti, fino a pochi anni addietro, i racalmutesi traevano irrisione e disprezzo per i grottesi. E 
da parte loro, i grottesi tenevano un repertorio di mimi che comicamente rappresentavano i difetti dei racalmutesi: brevi fantasie come quelle da Francesco Lanza raccolte e ricreate, e che da Lanza ebbero appunto il nome di mtmi. 
Nelle partite di calcio tra le squadre dei due paesi, la letteratura dei ricordi storici e dei mimi, delle invettive degli insulti, durava fino agli ultimi cinque minuti della partita: e si passava poi a quelle che nei verbali dei carabi-merl erano denominate vie di fatto, cioè ai pugni, ai calci e alle sassaiole. 
In verità, a due miglia appena di distanza, i due paesi erano quanto di plU diverso ed opposto si possa immagi-nare. Grotte aveva una minoranza valdese e una maggio-ranza soclallsta, tre o quattro famiglie di origine ebraica, una forte mafia; e brutte strade, brutte case, squallide feste. Racalmuto aveva una festa, splendida e frenetica, che quasi durava una settimana: e i grottesi vi accorrevano in massa; ma era, per il resto, paese senza inquietudini, elet-toralisticamente diviso tra due grandi famiglie, con pochi socialisti, molti preti e una mafia divisa. 

A mutare i rapporti tra i due paesi, ad addolcire e spegnere le rivalità, hanno di certo contribuito, con le nuove 
norme di vita, i frequenti matrimoni tra racalmutesi e grottesi; matrimoni, in gran parte, laboriosamente me-diati e combinati da terze persone, ma quasi tutti felici. 
Uno di questi matrimoni, avvenuto qualche anno prima della fine del Regno delle Due Sicilie, è rimasto nel ricordo e nella fantasia dei racalmutesi e dei grottesi. 
Non per elementi romanzeschi, contrasti, passioni e sangue: forse solo per la bellezza di una ragazza; o forse perché, nella vicenda che ne è nata, ci sono i caratteri di una società, di un'epoca. 
Il matrimonio, tra don Luigi M., medico e benestante di Racalmuto, e una figlia di don Raimondo G., grosso proprietario terriero di Grotte, avvenne nello splendore che alle due famiglie si conveniva: e teneramente scorreva nella bella casa di Racalmuto in cui i due sposi vivevano, un marito di gigantesca e sanguigna complessione tutto pieno di timida dolcezza per la giovanissima e fragile sposa, quando accadde un terribile incidente. Don Luigi ebbe diverbio con un suo mezzadro, nella collera si lasciò andare a mollargli un calcio: che era poi un modo legittimo, per un galantuomo, di metter fine alla discussione con un villano. Ma il villano non aveva la robusta complessione di don Luigi, o forse il calcio lo prese in un punto vitale. "Fatto sta" mi racconta un discendente di don Luigi "che girò tre volte per la stanza, s'infilò a ciam-bella sotto un tavolino: e morì." 
C'era anche allora la legge: con i galantuomini più docile, più timida; ma un morto è un morto, e don Luigi non poteva scampare l'arresto. Scappò, lasciando la giovane moglie sola nella gran casa dorata. 
Nel Casino di Compagnia esplose l'indignazione dei notabili. Non, si capisce, nei riguardi del povero don Luigi. Il vecchio don Ottavio di Castro, presidente del so-dalizio e decano della nobiltà locale, accoratamente pronunciò una frase rimasta famosa e oggi usata come ironico proverbio: "Che tempi! Un galantuomo non può più dare un calcio a un contadino".
Tutti approvarono: il mondo se ne andava a sfascio, che tempi! 
Don Luigi non era certo andato lontano: può darsi se ne stesse addirittura a Grotte, in casa di parenti o di amici fldatn Ma era pur sempre un disagio: e ardeva del pensiero della giovane moglie sola e spaurita, tutta trine ed amore, nel gran letto dalle cortine damascate. E furono chiamati amici potenti a far sparire, leggera farfalla fili-granata dei borbonici gigli, quel mandato d'arresto che il Capitano d'Arme teneva infilzato ad un chiodo sul tavolo del suo ufficio. Ma per molto tempo il suocero di don Luigi, che pure era uomo di grandi risorse e di vaste ami-cizie, stentò a trovare 'il canale giusto': e fortuitamente, per puro e felice caso, lo trovò una sera di dicembre che se ne stava, in veste da camera, a leggere accanto al braciere 'Il Monitore', e la figlia Concettina stava a ricamare sul tombolo, a corallini e pagliuzze d'oro, un Bambino Gesù nudo come un bruco, con appena una fascetta da CUI pendeva, tra le gambette sformate, un campanellino Concettina copiava il ricamo da una sacra immaginetta che le aveva regalato una zia monaca: e don Raimondo non mandava giù quel campanellino tra le gambe del Bambin Gesù, ma non parlava perché non poteva né mettere m dubbio l'innocenza delle monache, che quella immagine veneravano, né turbare l'innocenza della figlia, che Sl era mvaghita a copiarla. E mentre leggeva 'Il Monitore' il pensiero del campanellino era un piccolo tarlo, e si proponeva di parlarne alla moglie, che facesse smettere a Concettina quel ricamo.
Perciò, quando furiosamente sentì bussare al portone, alzandosi per andare ad aprire disse a Concettina "Leva di mezzo il campanellino" e poiché Concettina non capiva gridò "Il coso... il Gesù Bambino" ché temeva il visitatore chiunque fosse, facesse malizia sulla purezza di Concettina. 
Il visitatore era un pezzo grosso, nientemeno che don Nicola Cirino, giurista e poeta, Procuratore Generale a Palermo: e aveva avuto alle porte di Grotte, in quella notte da lupi, un incidente alla carrozza sulla quale viag-giava, e non potendo per quella notte proseguire, alla casa di don Raimondo, che era la più decorosa del paese, era stato accompagnato. 
Era un uomo di circa sessant'anni, grigio di capelli e di barba, gracile, un po' cadente: ma gli occhi aveva vivi ed attenti, e facevano curioso contrasto con la disarticolata stanchezza cui pareva cedere il corpo. 
Don Raimondo, che era di mente pronta, levò un pensiero di ringraziamento al Signore: che aveva mandato una notte d'inferno, una pietra sulla strada, una piccola fatale distrazione al lettighiere; al quale don Nicola attri-buiva il guaio, mentre si scusava con don Raimondo dell'incomodo che veniva a dargli. 
Incomodo? Era un onore, un piacere... 
Concettina aveva messo via il ricamo. Don Raimondo la presentò a don Nicola, per timidezza la ragazza si fece rosea come una pesca. Era bellissima: il corpo armonioso, i capelli del colore di zucchero bruciato, il volto soave e trepido ma insieme espressivo della incontenibile gaiezza di chi scopre il buffo rovescio di ogni cosa e anche di ogni pena Don Nicola pensò in versi a un ramo di tube-rose, alle arance tra le foglie verdi sotto la neve, alla stella del mattino, e sempre in versi, che gli venivano facili quando si accendeva della bellezza, paragonò il suo cuore al Mongibello in improvvisa ardente colata d'amore. Da quel momento, poiché già sapeva del mandato di cui il genero di don Raimondo era oggetto, i codicl, le pandette, le requisitorie, le sentenze giacquero come ex voto ai piedi di una fanciulla di sedici anni. 
Fu una bella serata. La cena, improvvisata, riuscì benissimo. Ceralacche che portavano impresse le cifre di un anno nefasto, 1848, furono tolte alle bottiglie: ma il vino risultò eccellente. Del resto, il 1848 fu pretesto ad esprimere opinioni che don Nicola e don Raimondo avevano identiche. Si fecero brindisi. Don Nicola ne fece in versi: alla padrona di casa, spampanata come una rosa in un vestito di raso che era andata a mettersi di furia, e a Concettina. Poi, invitato da don Raimondo, dalla signora e, con timida voce, anche dalla ragazza, don Nicola recito un suo poema su Torquato Tasso; e quando giunse ai versi Ma pur la vita travagliata, oppressa 
Di quel Grande infelice avea conforto 
Di furtive dolcezze, il core, ahi lasso! 
Abbandonava alla speranza, un foco 
Lo struggeva animando, il suo sospiro 
Era d'uomo a cui il duol quasi è alimento 
Se il consoli una lacrima d'amore 
Una pietà celeste, un cuor gentile, 
Eleonora... fissò Concettina con occhi da agonizzante, e si protese sulla tavola verso di lei quando in un soffio pronunciò 'Eleonora', e avrebbe voluto dire 'Concettina' il che anche don Raimondo e la signora capirono, scambiandosi un preoccupato sguardo d'intesa. 
Dopo i complimenti al poeta, don Raimondo sottilmente insinuò il discorso sulla sventura che ad un'altra sua flglia, sposata in un paese vicino, era capitata. il marito, inseguito da un mandato d'arresto, fuggito chi sa dove; la figlia, a pochi mesi dalle nozze, rimasta sola, e tutto per un calcio dato a un contadino... Ma di questo passo il mondo sarebbe finito a testa sotto... Sì, la legge: ma un calclo dato così, in un momento di nervi Don Nicola parve chiudersi dentro una corazza: guardava Concettina e non diceva né sì né no. Stava valutando i pro e i contro di un azzardo che voleva giocare: non se giocarlo o meno, ma se giocarlo subito o se aspettare l'indomam. 
"Possiamo appartarci un momento?" domandò? improvvisamente deciso. 
Madre e figlia si alzarono, un po' confuse; ad un cenno di don Raimondo uscirono dalla stanza. 
Facendo girare un fondo di vino nel bicchiere, don Nicola Cirino disse sorridente "Don Raimondo, volete fare il Natale con vostro genero?" 
"C'è da domandarlo?" disse don Raimondo; e pensò: 
'Denaro, per uno come lui gli ci vorrà un sacco di pezzi da dodicl'. 
Stettero un momento in silenzio. 
"Non quello che pensate voi" disse don Nicola "qualcosa di più: qualcosa che per voi, e per me, è preziosa, inestimabile...Non indovinate?" 
"Sant'Antonio Abate" esclamò don Raimondo, che al protettore del paese volgeva invocazione nei momenti più terribili. Aveva indovinato: un fulmine gli si era scaricato in testa, i suoi pensieri si erano di colpo accecati. 
"Mi rendo conto delle ragioni del vostro stupore: e vi dirò che non mi stupirei di un vostro rifiuto; e la buona conoscenza che abbiamo fatto stasera resterebbe per me, anche in tal caso, un buon ricordo... Ma voi capite: al posto in cui mi trovo tutto quel che farei, che sono disposto e in grado di fare, non mi sarebbe rimproverato se per un cognato, per un parente. 'Ha tirato dalla galera suo cognato: e chi non farebbe altrettanto?':questo direbbero.  Ma per un estraneo..." 
"E giusto" disse don Raimondo. 
"Mi fa piacere che lo riconosciate. E dunque pensateci: parlatene con la signora, con vostra figlia... Domani, prima ch'io parta, mi darete una risposta. Ed ora non ne parliamo più fino a domani." 
Don Raimondo chiamò la cameriera, fece avvertire le donne che potevano ritornare. La moglie cercava di leggergli in faccia, lo scrutava con ansia. Bevvero del rosolio e Concettina suonò al piano preghiere e romanze, don Nicola imbambolato a guardarla, appoggiato al pianoforte, che pareva la testa stesse per rotolargli sulla tastiera e finire in grembo a Concettina. 
Con grande sollievo degli ospiti, don Nicola si decise finalmente, e già la pendola scoccava la mezzanotte, ad andarsene a dormire. Fece arabesco di parole per augurare la buona notte. Era appena uscito che la signora si av-ventò su don Raimondo con un "Che voleva?" avido e inquieto. 
Don Raimondo non le rispose. Si rivolse invece a Concettina e le domandò se a sua sorella volesse del bene. 
Concettina gliene voleva. 
E tra padre e figlia cominciò a svolgersi, domanda e risposta, un catechismo familiare: e Concettina rispondeva nella più pura ortodossia, senza venir meno di un punto ai principl dell'amore familiare e del sacrificio ai quali con inflessibilità e tenerezza, era stata educata. 
E infine, quand'ebbe certezza che per la felicità della sorella a qualsiasi pena la ragazza si sarebbe votata, don Raimondo le disse che bisognava sposare quel don Nicola Cirino che bastava dicesse una parola perché don Luigi M. tornasse alla giovane moglie, alle sue terre, ai suoi malati: libero dall'infamia della legge. 
Concettina si abbandonò a ridere, a ridere; e ridendo passò a un pianto convulso, disperato. Ma quando cominciò a piangere sua madre, e anche don Raimondo cedeva ad un tremito di pianto, si rasserenò: e tra le lacrime disse che sì, avrebbe sposato don Nicola. 
Per l'impazienza di tutti, di don Nicola che vampava d'amore e di don Raimondo e dei suoi che subito libero volevano don Luigi M., in gran fretta si strinsero le nozze. 
Per una settimana la casa veleggiò di tele d'Olanda, di freschissimi lini, di variopinte coltri di lana e di lucide sete: la parola 'Ietto', astratta nel plurale delle conversa-zioni e dei capitoli nuziali ('ventiquattro letti di corredo') si faceva singolare e concreta, immagine di disgusto, di febbrile repugnanza, nei pensieri di Concettina. Ma niente traspariva nel suo volto, dolcemente reclinato sul tombolo da cui fioriva il Bambino Gesù col campanellino: e don Nicola la guardava estasiato, quel campanellino squillando innocenza nei suoi pensieri di vecchio gatto in amore e aggiungendovi un tocco, appena un tocco, di gustosa oscenità. 
Così avvenne che il lavoro di ampia mole e di fonda-mentale importanza cui don Nicola attendeva, L'istituto della Monarchia in Sicilia, restò incompleto: ché l'amore per la giovanissima moglie distrasse l'illustre giurista e poeta, e poi serenamente lo spense. Una mattina sveglian-dosi, circa sei mesi dopo le nozze, Concettma se lo trovo beatamente morto accanto. Finito nella notte silenziosamente: così come una candela si consuma dopo un ultimo guizzo. 
Vedova, Concettina tornò alla casa paterna; e molto ricca. 
Non passarono sei mesi: e fuggì di casa, lunare bellezza nel nero delle vesti vedovili, e in una notte di luna, con un giovane di Racalmuto che già da prima, in silenzio, l'amava. Un giovane bello, elegante, di buona famiglia: ma liberale e scialacquatore. 
Don Raimondo li perdonò solo in punto di morte. 
Di questa storia, che da ragazzo mi fece grande impressione, mi sono ricordato entrando a Palermo nella chiesa di san Domenico: dove, tra i grandi siciliani, don Nicola Cirino è sepolto. E mi sono deciso a scrlverla per una di quelle sollecitazioni imprevedibili e gratuite che a volte ci vengono da certe sensazioni, da certi incontri, da certe letture. Rileggevo Baudelaire, ed ecco: 'Mais de toi je n'implore, ange, que tes prières, Ange plein de bonheur, de joie et de lumières!' La cattolica reversibilltà: e mi e venuto il titolo di questa breve storia, e la ragione per scriverla. Reversibilità: di un corpo che ne riscatta un altro, nella straziante religione della famiglia, di cui ancor oggi la Sicilia vive, di una ragazza di Grotte che riscatta la libertà di un uomo del vicino e nemico paese di Racalmuto.