martedì 19 febbraio 2019


DONA FLOR E I SUOI DUE MARITI 
Jorge Amado


Il filo conduttore che rende unica  e piacevole la lettura sta nell'interrogativo che dona Flor, come ogni donna, come ogni essere umano, pare nasconda dentro di sé.
Due mariti, due amori. E non uno dopo 
l´altro, in sequenza cronologica. Ma tutti e due insieme, contemporaneamente, senza tuttavia dover sottostare, almeno nella realtà quotidiana, alle ambiguità del sotterfugio. Perché solo lei,  dona Flor dos Guimares, e sicuramente  l'autore, del romanzo,  conoscono la verità di quanto succede al mattino nel suo letto di legittima e timorata sposa del dottor Teodoro Madureira, dopo l´uscita di quest´ultimo. 

PARTE PRIMA

    Della morte di Vadinho, primo marito di dona Flor, della veglia funebre e della sepoltura del suo corpo.

    (al chitarrino il sublime Carlinhos Mascarenhas)

    I

    Vadinho, il primo marito di dona Flor, morì a Carnevale, una domenica mattina, mentre ballava un samba vestito da baiana in Largo 2 Luglio, non lontano da casa sua. Non apparteneva al gruppo, ci si era semplicemente aggregato, con altri quattro amici tutti vestiti da baiana, e tutti provenienti da un bar della zona del Cabeça, dove il whisky correva a fiumi, alle spalle di un certo Moysés Alves, piantatore di caffè, ricco e spendaccione.
    Del gruppo faceva parte una piccola ma affiatata orchestra di violini e flauti: al chitarrino Carlinhos Mascarenhas, un tipo magrolino, celebre in tutti i bordelli della città, ah! un chitarrino divino. I giovanotti erano vestiti da zingari, le ragazze da contadine ungheresi o romene; mai tuttavia ungherese, romena, e fosse anche bulgara o cecoslovacca, seppe sculettare con tanto brio come quelle baiane puro sangue, nel fiore dell’età e della seduzione.
    Vadinho, il più scatenato di tutti, vedendo il gruppo che spuntava all’angolo, e udendo il pizzicato dello scheletrico Mascarenhas al chitarrino sublime, s’avanzò rapidamente e piazzandosi di fronte alla romena dalla pelle più scura — una ragazzona monumentale come una chiesa (e doveva trattarsi della Chiesa di San Francesco[5] visto che era coperta da una cascata di paillettes d’oro) annunziò:
  «Eccomi, mia bella russa del Tororó.»[6]
    Lo zingaro Mascarenhas, coperto anche lui di perline e paillettes, con allegri anellini alle orecchie, raddoppiò di virtuosismo al chitarrino; i flauti e i violini sospirarono e Vadinho si gettò nella danza con l’entusiasmo esemplare che metteva in qualsiasi cosa facesse, tranne lavorare. Volteggiava in mezzo al gruppo, intrecciava passi complicati davanti alla mulatta, avanzava verso di lei con figure e contorsioni; quando d’improvviso gli sfuggì una specie di rantolo sordo, vacillò sulle gambe, pencolò da un lato e si abbatté per terra, una bava giallastra alla bocca, dalla quale lo spasmo della morte non era riuscito a cancellare completamente il sorriso soddisfatto del viveur di professione che era stato.
    Gli amici pensavano ancora che si trattasse dell’effetto dell’acquavite: non del whisky del piantatore, non sarebbero bastate quelle quattro o cinque dosi ad aver ragione d’un bevitore della forza di Vadinho; ma che tutta la cachaça accumulata dal giorno avanti a mezzogiorno, quando al bar Triunfo della piazza del Municipio si era inaugurato ufficialmente il Carnevale, salendogli alla testa di colpo, l’avesse buttato a terra, addormentato. La mulattona però non si lasciò ingannare: infermiera di professione, conosceva bene la morte, la frequentava giornalmente all’Ospedale. Non era però sua intima al punto da sculettarle davanti, farle l’occhiolino, danzare con lei un samba. Si curvò su Vadinho, gli appoggiò la mano sul collo, sussultò e un brivido freddo le corse per il ventre e per la schiena:
    «Mio Dio, è morto!»
 Anche gli altri toccarono il corpo del giovane, gli tennero alta la testa dalle ciocche bionde scomposte, cercarono il battito del cuore. Niente da fare, non trovarono nulla. Vadinho aveva disertato per sempre il Carnevale di Bahia    

    II

    Fu una confusione generale nel gruppo delle maschere e in tutta la strada, un’iradiddio fra i frequentatori del Carnevale e, come se non bastasse, quella piazzaiola dell’Anete, maestrina romantica e isterica, approfittò dell’occasione per farsi venire un deliquio, con gridolini acuti e minaccia di svenimento. Rappresentazione questa ad esclusivo beneficio dell’indifferente Carlinhos Mascarenhas, per il quale sospirava la delicatina dallo svenimento facile, che si proclamava ultrasensibile e si raggricciava tutta come una gatta quando lui pizzicava il chitarrino.
    Lo strumento, ora silenzioso, pendeva inutile dalle mani dell’artista, come se Vadinho ne avesse portato con sé all’altro mondo gli ultimi accordi.
    Accorse gente da ogni parte, la notizia si sparse velocemente per le vicinanze, arrivò fino a S. Pedro, all’Avenida 7 Aprile, al Campo Grande, richiamando una folla di curiosi. Intorno al cadavere s’era riunita gomito a gomito una piccola folla che commentava il fatto. Fu convocato un medico del Sodré, mentre un vigile, tirato fuori il fischietto, ci soffiava dentro senza posa, come per avvisare la città intera e tutto il Carnevale della fine di Vadinho.
    «Eccome se è Vadinho, poverino!» commentò un tizio mascherato con una calza, persa ormai ogni vivacità. Tutti riconoscevano il morto, popolarissimo per la sua scintillante gaiezza, per i suoi baffetti ben curati, per la sua fierezza di vagabondo: benvoluto soprattutto dove si giocava, si beveva, si faceva bisboccia; e là, così vicino a casa sua, non c’era nessuno che non lo conoscesse.
    Un altro tipo in maschera, vestito con una pelliccia e un testone d’orso, s’aprì un varco nel gruppo compatto, riuscì ad avvicinarsi, a vedere il morto. Si strappò la maschera, mostrando un viso costernato dai baffi cascanti, una testa calva:
   «Vadinho, fratellino, che t’hanno fatto?» mormorò.
    «Che gli è successo, di che è morto?» si chiedevano gli altri fra loro, e ci fu anche chi, scegliendo la spiegazione più facile per una morte così inattesa, rispose: «E stata la cachaça.» Una vecchia curva si fermò con gli altri, dette un’occhiata, constatò:
    «Ancora così moderno,[7] perché è morto così giovane?»
    Domande e risposte s’incrociavano, mentre il medico appoggiava l’orecchio al petto di Vadinho, in un’ultima inutile constatazione.
    «Stava ballando un samba con una vivacità scatenata, e senza dir niente a nessuno è cascato da una parte, già tutto pieno di morte,» disse uno dei quattro amici, completamente guarito dalla sbronza, improvvisamente sobrio e commosso e vagamente imbarazzato dalle sue vesti femminili da baiana, il viso imbrattato di rossetto, nere occhiaie tracciate col nerofumo intorno agli occhi.
    Il fatto che si fossero mascherati da baiana non deve indurre ad illazioni maliziose sui cinque giovani, tutti di mascolinità comprovata. Si vestivano da baiana per divertirsi di più, per farsa e monelleria, non a causa di tendenze effeminate o di stranezze sospette. Non c’erano froci fra loro, Dio li benedica. Fra l’altro Vadinho, sotto il sottanone bianco inamidato, s’era legato una enorme radice di tapioca e ad ogni passo alzava la gonna, mostrando l’imprevedibile trofeo fallico, obbligando le donne a nascondere fra le mani il viso ridente, con maliziosa vergogna. La radice pendeva ora abbandonata sulla coscia scoperta del morto, e non faceva più ridere nessuno. Un amico venne e la tolse; ma neppure così Vadinho divenne un defunto decente e morigerato. Era un morto del Carnevale, ma non ostentava neppure ferite d’arma da fuoco o di coltello che, coprendogli il petto di sangue, riscattassero la sua aria fatua da maschera.
    Dona Flor, naturalmente preceduta da dona Norma, che dava ordini e faceva strada, arrivò contemporaneamente alla polizia. Quando apparve all’angolo, sostenuta dalle braccia solidali delle amiche, tutti indovinarono in lei la vedova, poiché avanzava sospirando e lamentandosi, senza neppur tentare di trattenere i singhiozzi, sopraffatta da un pianto irrefrenabile. Inoltre portava un abitino da casa molto usato, che adoperava per fare le pulizie e aveva ai piedi delle pantofoline ricamate con un muso di gatto. Anche così però appariva graziosa, piacevole da guardarsi, piccolina e rotondetta, di una rotondità senza grasso superfluo, colorito olivastro bronzeo, i capelli lisci e così neri da sembrare azzurrati, gli occhi languidi, le labbra carnose, leggermente aperte sui denti bianchissimi. Appetitosa, com’era solito definirla Vadinho nei suoi rari momenti di tenerezza: rari ma indimenticabili. Era forse a causa dell’attività culinaria della moglie, che in quei momenti d’idillio Vadinho la chiamava il suo «manuè»[8] di granturco fresco, il suo «acarajé profumato» la sua «pollastrella grassa», e tali similitudini gastronomiche davano un’idea esatta del fascino sensuale e casalingo di dona Flor, occulto sotto un aspetto docile e tranquillo. Vadinho conosceva e portava alla luce le debolezze di lei, quell’impazienza controllata di timida, quel desiderio represso che si trasformava in violenza e perfino incontinenza liberandosi nell’amplesso. Quando Vadinho era in vena, non esisteva uomo più incantevole di lui, né una donna capace di resistergli. Dona Flor non riusciva mai a sottrarsi a quel fascino, neppure quando tentava risolutamente, piena d’indignazione e di rabbia recente. Eppure più volte era arrivata ad odiarlo, a maledire il giorno in cui s’era legata a quello sciagurato.
    Ma andando, angosciata, incontro alla morte prematura del marito, dona Flor si sentiva venir meno, svuotata d’ogni pensiero, incapace di ricordare: né tenerezze, né tanto meno, i giorni crudeli d’angustia e solitudine, come se, esalando l’ultimo respiro, il marito si fosse spogliato di tutti i difetti, o come se mai ne avesse avuti durante il suo «breve passaggio per questa valle di lacrime».
    «Breve è stato il suo passaggio per questa valle di lacrime,» recitò il rispettabile prof. Epaminondas Souza Pinto, commosso ed esagitato, tentando di bloccare la vedova e farle le sue condoglianze prima ancora che fosse arrivata presso il corpo del marito. Dona Gisa, anche lei professoressa — e fino ad un certo punto anche lei rispettabile — trattenne l’irruenza del collega, e una risata. Se in verità era stato breve il passaggio di Vadinho per la vita — aveva appena compiuto trentun anni — per lui, dona Gisa ben lo sapeva, il mondo non era stato certo una valle di lacrime, ma piuttosto il palco delle sue farse, beffe, imbrogli e peccatucci. Alcuni di essi, senza dubbio capaci di apportare afflizioni e confusione, sottomettendo il suo cuore a prove ardue, ad angoscie e soprassalti: debiti da pagare, cambiali da scontare, avallisti da ammansire; impegni assunti formalmente, scadenze improrogabili, protesti, uffici di esazione, banche e strozzini, facce scure, amici che lo evitavano, per non parlare delle sofferenze fisiche e morali di dona Flor. Poiché, come faceva notare dona Gisa nel suo portoghese sbilenco — era vagamente americana, si era naturalizzata e si sentiva brasiliana, ma quell’accidente della lingua, ah! non ce la faceva a dominarla — se delle lacrime erano state versate durante il breve passaggio di Vadinho per la vita, era stata dona Flor a piangerle, ed erano state molte, ce n’era d’avanzo per tutti e due.
    Di fronte a una morte così improvvisa, era solo con rimpianto che dona Gisa pensava a Vadinho. Malgrado tutto le era simpatico, aveva un lato gentile e cattivante. E tuttavia, non perché lui si trovava al Largo 2 Luglio, sdraiato a terra morto, vestito da baiana, non per questo dona Gisa si sarebbe prestata a santificarlo, a distorcere la realtà, inventando un nuovo Vadinho tutto d’un pezzo. Questo spiegò a dona Norma, sua vicina ed intima amica, senza però ottenere da lei l’approvazione sperata. Dona Norma più d’una volta aveva detto a Vadinho il fatto suo: ci litigava, gli faceva delle prediche chilometriche, una volta l’aveva perfino minacciato di chiamare la polizia. Ma, giunta per lui l’ultima ora, in quel momento d’afflizione non aveva voglia di parlare dei lati negativi, predominanti nel carattere dell’estinto, voleva soltanto esaltarne i lati buoni, la naturale gentilezza, la solidarietà sempre pronta a manifestarsi, la lealtà verso gli amici, l’indiscutibile generosità (specie se praticata con denaro altrui), l’irresponsabile ed infinita gioia di vivere. D’altronde era così occupata ad accompagnare e soccorrere dona Flor, che non aveva orecchie per dona Gisa con le sue dure verità. Ma dona Gisa era fatta così: la verità avanti a tutto, a volte al punto di farla apparire aspra e inflessibile: atteggiamento forse di difesa per la sua buona fede, dato che era assurdamente credulona e si fidava di tutti. No, non rievocava le malefatte di Vadinho per criticarlo o condannarlo: anzi lui le piaceva e spesso i due s’intrattenevano in lunghe conversazioni, dona Gisa interessata ad imparare qualcosa sulla psicologia di quel mondo sotterraneo che Vadinho frequentava, lui a raccontarle fatti avvenuti e a spiarle giù per la scollatura l’attacco dei seni fiorenti e lentigginosi. Forse dona Gisa capiva Vadinho meglio di dona Norma ma, contrariamente all’altra, non gli faceva grazia neppure di un solo difetto, non intendeva mentire, solo perché lui era morto. Dona Gisa non mentiva neppure a se stessa, a meno che la cosa non fosse strettamente indispensabile. E questo, evidentemente, non era il caso.
    Dona Flor fendeva la folla nella scia di dona Norma che si faceva largo con i gomiti e con la sua vasta popolarità:
    «Coraggio gente, fate largo, lasciate passare questa poverina...»
    Ed ecco Vadinho, sdraiato per terra sull’acciottolato, la bocca sorridente, tutto bianco e biondo, circonfuso di pace e d’innocenza. Dona Flor rimase un istante ferma a contemplarlo come se tardasse a riconoscere il marito o, più probabilmente, ad accettare il fatto, ormai indiscutibile, della sua morte.
    Ma fu solo un istante. Con un grido strappato dal più profondo delle viscere si gettò su Vadinho, s’aggrappò al corpo immobile, baciandogli i capelli, la faccia dipinta, gli occhi spalancati, i baffetti insolenti, la bocca morta, per sempre morta.

    III

    Era una domenica di Carnevale: chi non aveva in programma per quella notte una corsa d’automobili cui partecipare, una festa dove divertirsi, un programma per le ore piccole? Eppure, malgrado tutto, la veglia funebre di Vadinho fu un successo, «un autentico successo», come orgogliosamente constatò e proclamò dona Norma.
    I  barellieri scaricarono il corpo sul letto, in camera, e solo più tardi i vicini lo trasportarono in salotto. Quelli dell’obitorio avevano fretta, il loro lavoro aumentava col Carnevale. Mentre gli altri si divertivano, loro avevano da occuparsi dei defunti, vittime di incidenti e risse. Strapparono via il lurido lenzuolo che copriva il cadavere, consegnarono alla vedova l’attestato di morte.
    Vadinho restò nudo come Dio l’aveva fatto, sul letto matrimoniale, un letto di ferro con la testiera e la parte davanti lavorate, che dona Flor aveva comprato ad un’asta di mobili quando s’erano sposati sei anni prima. Dona Flor, sola in camera, aprì la busta, studiò il referto dei medici. Scosse la testa, incredula. Chi l’avrebbe mai detto? Apparentemente così forte e sano, ancora così giovane!
    Vadinho si vantava di non essere mai stato malato, d’esser capace di passare otto giorni e otto notti senza dormire, giocando e bevendo, oppure con donne. E forse che a volte non passava otto giorni senza farsi vedere in casa, lasciando dona Flor nella disperazione, come pazza? Eppure, ecco lì il referto dei medici dell’Istituto di Medicina Legale: un uomo condannato, fegato incapace di funzionare, reni sfiancati, cuore a pezzi. Poteva morire, com’era morto, in qualsiasi momento. Così, all’improvviso. La cachaça, le notti passate a giocare, le sbornie, l’insensato correre alla ricerca di denaro per il gioco, avevano minato quell’organismo bello e forte, lasciandone intatta solo l’apparenza. Sì, perché guardandolo, chi l’avrebbe giudicato così irrimediabilmente spacciato?
    Dona Flor contemplò il corpo del marito, prima di chiamare i servizievoli vicini per il delicato compito di vestirlo. Eccolo là, nudo come gli piaceva stare al letto, una peluria dorata che gli copriva braccia e gambe, un cespuglio di peli biondi sul petto, la cicatrice d’un colpo di rasoio sulla spalla sinistra. Così bello e maschio, così esperto nel piacere! Di nuovo le lacrime velarono gli occhi della giovane vedova. Cercò di scacciare i pensieri che le occupavano la mente, non erano cosa propria per un giorno di veglia funebre.
    E tuttavia, vedendolo così, abbandonato sul letto, completamente nudo, dona Flor non poteva per quanti sforzi facesse, fare a meno di ricordarlo com’era al momento del desiderio sfrenato: Vadinho non tollerava alcun indumento sui loro corpi, né lenzuolo pudibondo a nasconderne le nudità, il pudore non era il suo forte. Quando la invitava al letto «andiamo a spassarsi, ragazza,» le diceva; l’amore era per lui una festa, fatta d’infinita gioia e libertà, cui egli s’abbandonava con l’abituale entusiasmo, alleato ad una competenza attestata da innumerevoli donne di diverso ceto e condizione. Nei primi tempi del matrimonio, dona Flor se ne stava tutta vergognosa e timida, poiché lui la voleva completamente nuda:
  «Quando mai s’è visto qualcuno spassarsi in camicia? Perché ti nascondi? Lo spasso è una cosa santa, inventata da Dio in Paradiso: non lo sapevi?»
   Non solo la spogliava, ma toccava e giocherellava con ogni dettaglio del suo corpo dalle curve ampie e le rientranze profonde, dove ombre e luci s’incrociavano in un gioco di mistero. Dona Flor cercava di coprirsi, Vadinho le strappava di dosso il lenzuolo, fra scoppi di risa, mettendole allo scoperto i seni sodi, le natiche ben fatte, il ventre quasi privo di peluria. La prendeva come se fosse stata un suo giuoco, od un bottone di rosa che lui faceva sbocciare ad ogni notte di piacere. Dona Flor andava perdendo, a poco a poco la timidezza, abbandonandosi a quella festa lasciva, crescendo in violenza, diventando un’amante animosa e audace. Mai tuttavia aveva abbandonato compieta- mente il suo pudore, la sua timidezza: era necessario riconquistarla ogni volta, perché, ridesta appena da quelle pazze audacie, dai sospiri d’estasi, lei tornava ad essere la sposa timida e pudica di sempre.
    In quel momento, sola con la morte di Vadinho, dona Flor si rese conto, allora e completamente, della sua vedovanza, che mai più l’avrebbe avuto accanto, né mai più sarebbe venuta meno fra le sue braccia. Perché dal momento in cui la tragica notizia era giunta, trasmessa di bocca in bocca, fino all’arrivo della barella verso la fine del pomeriggio, la maestra d’arte culinaria era vissuta in una specie d’in- cubo, sinistro ma eccitante al tempo stesso: il colpo della notizia, la corsa in pianto fino al Largo 2 Luglio, l’incontro col corpo, la folla che la circondava, si prendeva cura di lei, le offriva solidarietà e conforto; il ritorno a casa quasi sulle braccia di dona Norma e dona Gisa, del prof. Epaminondas e di Mendez, lo spagnolo del caffè: tutto così rapido e confuso da non lasciarle il tempo di pensare e di rendersi effettivamente conto della morte di Vadinho.
   Il corpo era stato trasportato dal Largo 2 Luglio all’obitorio, ma neppure allora dona Flor aveva avuto un istante di tranquillità. Improvvisamente era diventata il centro dell’interesse non solo della strada in cui abitava, ma anche delle vie adiacenti, e questo in una domenica di Carnevale. Fino al momento in cui le riportarono il marito avvolto in un lenzuolo, col costume da baiana in una piccola borsa a colori vivaci, dona Flor non aveva fatto altro che ricevere condoglianze, testimonianze d’amicizia, gentilezze, in un pellegrinaggio ininterrotto di vicini, amici e conoscenti. Dona Norma e dona Gisa abbandonarono completamente le faccende delle rispettive case, già un tantino trascurate a causa del Carnevale, i pasti lasciati a discrezione di donne di servizio frettolose. Nessuna delle due abbandonò un istante dona Flor, gareggiando in dedizione e consolazioni.
    Là fuori il Carnevale con le sue maschere, i gruppi folcloristici, le bande, i costumi a volta a volta lussuosi o divertenti, la musica d’innumerevoli orchestre, le grancasse i tamburelli, i gruppi di candomblé con i loro tamburini e i loro atabaques.[9] Ogni tanto dona Norma non resisteva e correva alla finestra, s’affacciava, arrischiava un’occhiatina, scambiava parole scherzose con qualche conoscente in maschera, dava la notizia della morte di Vadinho, applaudiva un costume originale o un gruppo folcloristico ben riuscito. A volte, se appariva da dietro l’angolo della strada una banda particolarmente vivace, chiamava anche dona Gisa. E quando, già a pomeriggio inoltrato, apparve nella strada l’Afochè[10] dei Figli del Mare, con la sua indimenticabile coreografia, accompagnato da una folla enorme che danzava il samba, perfino dona Flor s’avvicinò alla finestra trattenendo a stento le lacrime, e dette un’occhiata nascosta dietro le larghe spalle di dona Gisa. Dona Norma, dimentica del morto e delle convenienze, batteva le mani entusiasta.
    Così era stato per tutto il giorno, dal momento in cui era giunta la notizia. Perfino dona Nancy, un’argentina riservata che abitava da poco in quella strada, sposata col proprietario della fabbrica di ceramiche, un certo Bernabò dalla pronuncia ingarbugliata, era scesa dal suo ricco villino e dalla sua alterigia, per offrire a dona Flor condoglianze e aiuto, rivelandosi una persona simpatica ed educata e scambiando con dona Gisa considerazioni sulla brevità della vita e la sua precarietà.
    Come si vede, non aveva avuto, dona Flor, neppure il tempo di riflettere sul suo nuovo stato e sulla trasformazione della sua esistenza. Fu solo quando riportarono Vadinho dall’obitorio e lo lasciarono nudo sul letto matrimoniale dove tante volte avevano fatto l’amore, allora e solo allora, che si trovò sola con la morte del marito e si sentì vedova. Mai più lui l’avrebbe rovesciata sul letto di ferro, strappandole di dosso vestito, sottabito e biancheria intima, buttando il lenzuolo sulla specchiera, prendendola in ogni dettaglio del suo corpo, facendola delirare.
    Ah! mai più, pensò dona Flor, e si sentì un nodo alla gola, le gambe tremanti, capì allora che tutto era finito. Restò là ferma, senza parole e senza lacrime, deserta di ogni eccitazione, distante da tutte le esteriorità che circondano la morte. Solo lei e il cadavere nudo, lei e l’assenza definitiva di Vadinho. Mai più l’avrebbe dovuto aspettare oltre l’alba, né nascondergli il denaro lasciato dalle alunne, né sorvegliare le sue relazioni con le più carine, mai più prender botte nei giorni di sbronza o malumore, né ascoltare gli acidi commenti dei vicini. E mai più si sarebbe rotolata con lui sul letto, aprendosi tutta al suo desiderio, spogliandosi di vestiti, lenzuola e modestia per la sua festa d’amore, festa indimenticabile. Il nodo alla gola che la strangola; un dolore al petto, acuta pugnalata.
    «Flor, non è tempo di vestirlo?» la voce di dona Norma, dal salotto, suonava urgente. «Fra poco cominciano ad arrivare le visite...»
    La vedova aprì la porta, seria, ormai, silenziosa, senza singhiozzi né gemiti, fredda e austera. Sola al mondo. I vicini entrarono ad aiutare. Il sor Vivaldo delle Pompe Funebri «Paradiso in fiore», era venuto personalmente a consegnare la bara da poco prezzo (aveva fatto un bello sconto, era compagno di Vadinho alla roulette e al baccarà, dove si giocava bare e lapidi) e collaborò con efficienza ed esperienza per fare del bohémien un morto presentabile. Dona Flor presenziò senza parole, senza una lacrima. Era sola al mondo.



    Il corpo di Vadinho fu depositato nella bara e portato in salotto dove era stato improvvisato un catafalco con delle sedie. Il sor Vivaldo aveva portato dei fiori, contributo gratuito delle pompe funebri. Dona Gisa sistemò una pansé violacea fra le dita intrecciate di Vadinho. Il sor Vivaldo considerò fra sé e sé l’assurdità del gesto: quel che avrebbero dovuto mettere fra le dita del morto era una fiche da gioco, quella sì. Una fiche invece della pansé viola, e se al posto della musica e delle risate del Carnevale si fosse fatto udire il rumore dei tavoli della roulette, la voce arrochita del croupier, il tintinnio delle fiches, le esclamazioni nervose dei giocatori, sarebbe stato ben possibile che Vadinho si alzasse dalla bara e, scuotendosi dalle spalle la morte com’era solito scuoter via in un suo gesto caratteristico le difficoltà che lo perseguitavano, si dirigesse al tavolo per deporre la sua fiche sul 17, suo numero preferito. Che se ne faceva d’una pansé viola? Fra poco sarebbe stata moscia e appassita, nessuna roulette l’avrebbe accettata.

    Il sor Vivaldo non si trattenne; patito del Carnevale, aveva aperto le pompe funebri quella domenica di festa solo per servire un amico come Vadinho. Fosse stato un altro defunto, che si arrangiasse; lui, Vivaldo non si sarebbe lasciato turbare il Carnevale.

    Furono in molti, invece, a disturbare il Carnevale del sor Vivaldo. Tutta una sfilata di gente, durata tutta la notte, per la veglia funebre del bohémien. Alcuni vennero perché Vadinho apparteneva al ramo povero e bastardo di una famiglia importante, i Guimarães. Uno dei suoi antenati era stato senatore e un pezzo grosso in politica. Un suo zio, soprannominato Chimbo, aveva occupato per pochi mesi il posto di delegato ausiliare. Questo zio, uno dei pochi Guimarães a riconoscere Vadinho come parente, gli aveva procurato un impiego al Municipio: ispettore dei giardini pubblici: posto dei più modesti, salario misero, insufficiente a finanziare sia pure una sola notte al Tabaris. Inutile sottolineare la totale negligenza del giovane funzionario municipale: mai in vita sua aveva ispezionato un solo giardino, si presentava all’ufficio unicamente per ricevere i pochi spiccioli del mensile, o per cercare di strappare al caporeparto un impossibile avallo di cambiale e infliggere ai colleghi stoccate di venti o cinquanta cruzeiros. I giardini non lo interessavano, potevano sparire tutti dalla faccia della terra, non ne avrebbe sentito la mancanza. Da uccello notturno qual era, le sue aiuole erano i tavoli da gioco, i suoi fiori, come aveva giustamente osservato il sor Vivaldo, le fiches e le carte.

    Quelli che erano venuti in omaggio al nome dei Guimarães si potevano contare sulle dita, vaghi e frettolosi parenti. Tutti gli altri invece, quella sfilata incontabile di gente, erano venuti per accomiatarsi da Vadinho, guardarlo un’ultima volta in viso, sorridergli per un piacevole ricordo, dirgli addio. Poiché gli volevano bene scusavano le sue pazzie, valorizzavano i suoi lati buoni.

    Uno dei primi ad arrivare quella sera, in smoking perché doveva accompagnare le figlie, tre ragazze da marito, al ballo di un club elegante, fu il commendator Celestino, portoghese di nascita, banchiere ed esportatore. Non era passato in fretta come uno che compie un dovere fastidioso. S’era trattenuto in salotto a parlare, ricordando successi di Vadinho, dopo aver abbracciato dona Flor ed averle offerto i suoi servigi. Da dove veniva la sua simpatia per il piccolo funzionario municipale, per il bohémien di cabaréts di seconda categoria, per il giocatore perennemente squattrinato?

    Vadinho aveva parlantina, e che parlantina! Una volta aveva strappato al prospero lusitano una firma per una cambiale di alcune migliaia di cruzeiros. Non dimenticò di pagare, visto che mai dimenticava le date di scadenza dei vari effetti da lui firmati, e sparpagliati per le banche o in mano a strozzini. Non potè pagare, il che era diverso. In generale non poteva mai pagare, e non pagava; tuttavia ogni giorno aumentava il circolante delle cambiali da lui emesse, aumentava il numero degli avallisti. Come faceva?

    Celestino non aveva mai più avallato nulla, non cascava due volte nella stessa trappola. Ma gli mollava banconote di cento, duecento e perfino cinquecento cruzeiros, quando Vadinho gli si presentava disperato, senza un soldo e con la certezza che era quello il giorno in cui avrebbe fatto saltare il banco. Altri tuttavia avallavano due e anche tre volte, come se Vadinho fosse stato il pagatore più puntuale e il tipo dalle più impeccabili referenze bancarie. Vinti tutti dalla sua scaltrezza, dalla sua parlantina drammatica e convincente.

    Lo stesso Zé Sampaio, marito di dona Norma, proprietario d’u- na calzoleria nella Città Bassa, un tipo di poche parole, musone, poco disposto a visite, rapporti e intimità con i vicini, proprio il contrario della moglie, perfino lui era stato raggirato alcune volte da Vadinho, e ciò malgrado non gli aveva tolto l’amicizia né il credito al negozio. Neppure quando scoprì l’incredibile porcheria: Vadinho una mattina aveva comprato a credito nel suo negozio varie paia di scarpe delle più fini e care per poi rivenderle immediatamente, quasi sotto gli occhi inorriditi dei commessi del Sampaio, e a prezzo minimo, ad un negozio concorrente installatosi da poco nelle vicinanze. A pronti contanti — si trattava di un Vadinho bisognoso di denaro urgente per giocare al bicho.[11]

    Il commerciante tenne certamente conto, malgrado le responsabilità dell'’imbroglione di certe attenuanti capaci di spiegare e scusare il fallo.

    Un Vadinho allegro e spensierato gli raccontò quello stesso pomeriggio d’aver sognato tutta la notte dona Gisa, trasformata in struzzo, che lo rincorreva per una pianura sconfinata, non sapeva esattamente se con l’intenzione di sollazzarsi con lui sui prati verdi — era una struzza femmina e nei suoi occhi brillava una luce mascalzona — oppure di divorarlo, visto che lo rincorreva coll’enorme becco aperto e minaccioso. Si svegliava angosciato, scuoteva via il sogno, tentava di riaddormentarsi pensando a qualcosa di più allegro, e rieccoti la petulante professoressa a rincorrerlo con l’occhio libertino e il becco aggressivo. Si fosse trovata, dona Gisa, nel suo quotidiano involucro carnale, Vadinho non sarebbe fuggito; avrebbe affrontato la situazione e avrebbe fatto un figlio a quel demonio della gringa, lì sull’erbetta, malgrado tutto il suo accento inglese e le sue conoscenze di psicologia. Ma di fronte a lei vestita di penne, trasformata in una struzza fuori del comune, non gli restava altra alternativa se non la vergognosa ritirata. Quattro, cinque volte s’era ripetuto l’incubo e la mattina, stanco da tanto correre e sudato fradicio, Vadinho s’era svegliato col presentimento giusto e senza un soldo in tasca. Rastrellò la casa, dona Flor era a zero: la sera prima lui le aveva portato via perfino gli spiccioli. Uscì nella speranza di dare una stoccata a qualche conoscente, la piazza si rivelò fiacchissima, ultimamente Vadinho aveva abusato del suo parco credito. Fu allora che, passando di fronte alla Casa Stella, il ben fornito negozio di Zé Sampaio, gli venne l’idea luminosa e divertente di dedicarsi per breve tempo all’onesto commercio delle scarpe, unico modo per ottenere rapidamente qualche spicciolo.

    Non avesse intrapreso quell’operazione, disonesta e disastrosa in apparenza, in realtà sottile e lucrosa, non se lo sarebbe mai perdonato, poiché uscì effettivamente lo struzzo — dona Gisa non mentiva neppure in sogno — e Vadinho mise insieme una bella sommetta. Grato e degno andò subito a cercare Zé Sampaio in negozio e, davanti ai commessi stupefatti, gli pagò le scarpe comprate la mattina e lo invitò per una bevuta commemorativa. Zé Sampaio declinò l’invito, ma non se la prese con Vadinho, continuò a trattarlo amichevolmente e a vendergli le scarpe con lo sconto e a credito. Sconto del dieci per cento sul prezzo, credito limitato a un paio di scarpe per volta, e solo dopo aver liquidato la fattura precedente.

    Una prova ancor più impressionante del prestigio di Vadinho fu il fatto che Zé Sampaio fosse intervenuto alla veglia funebre. Per pochi minuti, è vero, ma era quella la prima veglia funebre del commerciante negli ultimi dieci anni. Aveva in orrore gli impegni sociali di qualsiasi specie, ma particolarmente le cerimonie funebri, veglie, cimiteri, messe di suffragio, il che spingeva dona Norma a gridargli, quando si rifiutava d’accompagnarla ad uno dei suoi vari funerali settimanali:

    «Quando muori tu, Sampaio, non ci sarà un cane neppure per portare la bara... Sarà una vergogna.»

    Zé Sampaio le lanciava un’occhiata torva, non rispondeva, il dito pollice della mano destra infilato fra i denti in un suo gesto abituale di rassegnazione dinanzi al perpetuo mulinìo della moglie.

    Vennero gl’importanti come Celestino e Zé Sampaio, come il parente Chimbo, l’architetto Chaves, il dottor Barreiros, eminente figura di magistrato, ed il poeta Godofredo Filho. Vennero, inquadrati, i colleghi d’ufficio — a tutti Vadinho doveva piccole somme — e alla testa del drappello, oratorio e solenne, venne l’illustre direttore del Dipartimento Parchi e Giardini, tutto in nero. Vennero i vicini ricchi e i poveri, ed anche i benestanti. E vennero tutti coloro che a Bahia in quel tempo frequentavano i casinò da gioco, i nights, i banchi del bicho, le case di donnine allegre: Mirandão, Curvelo, Pié-di-Mulo, Waldomiro Lins e il suo fratello più giovane Wilson, Anacreon, Cardoso Pereba, Arigof, Pierre Verger col suo profilo d’uccello e i suoi misteri d’Ifà.[12] Alcuni, come il dottor Giovanni Guimarães, medico e giornalista, appartenevano a tutti e due i gruppi, intimi dei grandi e dei piccoli, dei rispettabili e degli irresponsabili.

    Gli importanti ricordavano Vadinho fra risate, le sue storie piene d’impertinenza e di malizia, le sue imprese divertenti, i suoi raggiri sfacciati, i suoi pasticci e imbrogli, e il suo buon cuore, la sua gentilezza, la sua grazia inconseguente. Anche i vicini lo ricordavano cosi: un bohémien senza orari e senza limiti.

    Gli uni e gli altri esageravano la realtà, inventavano dettagli, gli attribuivano fatti e avventure: la leggenda di Vadinho cominciava a nascere là, vicino al suo corpo, quasi al momento stesso della sua morte. Il succitato dottor Giovanni Guimarães inventava brani interi di storie, infiorava quelle realmente avvenute, era incline a qualche bugiola ben appoggiata a date e luoghi precisi.

    «Un giorno, quattro anni fa, nel mese di Marzo, alla casa da gioco dei Tre Duchi incontrai Vadinho che stava puntando sul 17. Era vestito con un impermeabile di gomma, sotto non aveva niente, completamente nudo. Aveva impegnato tutto, calzoni e giacca, camicia e mutande, per poter giocare. Ramiro, quello spagnolo spilorcio del Settantasette, voleva accettare solo i pantaloni e la giacca, che diavolo se ne poteva fare d’una camicia col colletto liso, d’un vecchio paio di mutande, d’una cravatta da quattro soldi? Ma Vadinho riuscì ad appiccicargli anche i calzini, si tenne soltanto le scarpe. E aveva tanto miele sulla lingua che riuscì a convincere Ramiro, quella belva che tutti conoscete, a prestargli un impermeabile di gomma quasi nuovo, visto che non poteva uscire per strada come Dio l’aveva fatto per andare ai Tre Duchi...

    «E vinse?» volle sapere il giovane Arthur, figlio del sor Sampaio e di dona Norma, studente ginnasiale e ammiratore di Vadinho, che ascoltava a bocca aperta il racconto del giornalista.

    Il dottor Giovanni guardò il ragazzo, fece una pausa, sorrise, illuminandosi tutto:

    «Macché... all’alba aveva perso anche l’impermeabile dello spagnolo puntando sul 17 e fu accompagnato a casa avvolto nelle pagine d’un giornale...» Il sorriso si trasformava in una risata sonora, contagiosa, nessuno come il dottor Giovanni per animare una veglia funebre.

    E poiché in quell’istante entrava in salotto l’incommensurabile Robato, il giornalista aggiunse come prova definitiva, le parole ancora intrise di riso:

    «Ecco chi può confermare le mie parole... Ti ricordi, Robato, di quando Vadinho tornò a casa nudo, avvolto in un giornale?»

    Robato non era tipo da vacillare: volse lo sguardo intorno, esaminando il gruppo seduto in un angolo della sala da pranzo, timoroso di indiscrete orecchie femminili, che tali ricordi non avessero ad arrivare alla desolata vedova; ma vacillare non vacillò, non era uomo da rifiutare una sfida, aveva l’improvvisazione facile, raccolse nell’aria la battuta:

    «Nudo, avvolto in un giornale? Eccome che me ne ricordo...» Tossicchiò per schiarirsi la voce barocca e dare il via all’immaginazione. «Ma se il giornale era mio... Successe nella “casa” di Eunice-Un-Dente-Solo; oltre a noi due e Vadinho mi ricordo che c’erano Carlinhos Mascarenhas, Jenner e Viriato Tanajura... Avevamo bevuto tutta la notte, una sbronza monumentale...»

    Questo Robato era un nottambulo della forza di Vadinho, ma d’altra razza. Il gioco non lo tentava, né fuggiva il lavoro; al contrario, uomo dai mille mestieri, aveva fama d’essere laborioso e capace. Fabbricava dentiere, accomodava radio e giradischi, faceva foto per documenti, metteva le mani in qualsiasi tipo di macchina, pieno di curiosità e di abilità. La sua roulette era la poesia, dalla metrica rigorosa e ben rimata (rime abbondanti) il suo casinò i bar e cabaréts dove si tratteneva oltre l’alba nell’amena compagnia di altri letterati tenaci, e di donzelle simpatizzanti delle muse e dei loro cultori, a declamare odi, canti libertari, poemi lirici e lubrici, sonetti d’amore. Il tutto composto da lui. S’era autoproclamato «re mondiale del sonetto», aveva battuto tutti i records conosciuti, avendo composto fino a quel momento ventimilaottocentosessantacinque sonetti fra decasillabi e alessandrini, semplici e caudati ed anaciclici. Un principio di calvizie minacciava la sua vasta capigliatura bruna da vate, senza sminuire la sua radiosa simpatia.

    Prese la parola e di nuovo Vadinho traversò il salotto avvolto in giornali: mai più l’avrebbe dimenticato il giovane Arturo, di lui avrebbe conservato un eterno ricordo: avvolto nelle pagine di «A Tarde», Vadinho, eroe di un mondo proibito e affascinante.

    Le storie seguivano alle storie, mentre dona Norma, dona Gisa e Regina, fanciulla da marito, insieme con altre signore e signorine, servivano il caffè con focaccine, bicchierini di cachaça e di liquore di frutta. I vicini avevano provveduto acché alla veglia funebre non mancasse nulla.

    Gl’importanti seduti in sala da pranzo, in corridoio, sulla porta, ricordavano Vadinho fra aneddoti e risate. Gli altri, i compagni di gioco e d’imbrogli, lo ricordavano in silenzio, seri e commossi, si fermavano in salotto in piedi vicino al corpo. Entrando si trattenevano dinanzi a dona Flor, imbarazzati come se fossero stati loro i responsabili della cattiva condotta di Vadinho. Molti non la conoscevano neppure, non l’avevano mai vista, ma da tanto sentirne parlare sapevano come a volte Vadinho le portasse via perfino i soldi della spesa per andare a giocarseli al Palace, al Tabaris, all’Abaixadinho, nell’antro di Zezé Meningite, in quello di Abílio Moqueca, nelle molte roulettes illegali della città, ivi compresa la malfamata casa da gioco del negro Paranaguá Ventura, dove per principio solo il banco poteva vincere.

    Figura torva e minacciosa quella del negro Paranaguá Ventura, con i suoi innumerevoli arresti, una lista di accuse mai compieta- mente provate, la sua fama di ladro, stupratore e assassino. Per assassinio era stato anche processato ed era stato assolto più per mancanza di coraggio dei giurati che per mancanza di prove. Lo dicevano autore di altri due assassini, senza contare la donna accoltellata in pieno Largo San Michele, poiché quella se l’era cavata per un pelo. Il covile di Paranaguá lo frequentavano solo imbroglioni di professione specializzati in carte marcate, truffatori, scippatori, bidonari, gente che non aveva più niente da perdere. Eppure fin là si spingeva Vadinho col suo scarso denaro e la sua risata allegra, e forse era uno dei pochi eletti che potessero vantarsi d’aver vinto qualche volta con i dadi truccati del Paranaguá. A quanto pareva, ogni tanto il negro permetteva a qualche giocatore che gli restava particolarmente simpatico di vincere una mano.

    Vennero anche le alunne di dona Flora, quasi tutte. Alunne ed ex-alunne, unanimi nel desiderio di consolare la stimata e competente maestra, così buona, poverina! Di tre in tre mesi si succedevano i gruppi, nei corsi di culinaria in generale (di mattina) e cucina baiana (nel pomeriggio); si diplomavano in forno-e-fornelli. Con tanto di diploma stampato e tabellone dei diplomati esposto nella vetrina d’un negozio dell’Avenida 7 Aprile, fin dal tempo d’un gruppo antico di cui aveva fatto parte dona Oscarlinda, infermiera di prima categoria presso l’Ospedale Portoghese, svelta e attiva, e pazza per inventare qualche complicazione. Aveva richiesto diploma e tabellone, aveva messo in agitazione le colleghe, fatto il diavolo a quattro, raccogliendo contributi, trovando un disegnatore che facesse il lavoro gratis; di tutti i colori ne aveva fatte quella sciagurata. Di fronte a tante pressioni, dona Flor si era dichiarata d’accordo con tutto, compresa la scelta del disegnatore, un amico di dona Oscarlinda, non senza però aver proclamato l’abilità di suo fratello Heitor — che aveva disegnato il cartellone col nome della scuola, ancora ai tempi della Ladeira Alvo — attualmente purtroppo residente in Nazareth das Farinhas. In ogni modo si era sentita lusingata, leggendo sul diploma e sul tabellone, in grosse lettere a stampatello:

    SCUOLA DI CULINARIA SAPORE E ARTE

    e sotto, in caratteri svolazzanti

    Direttrice: Florípedes Paiva Guimarães.

    Vadinho, le rare volte che si alzava più presto e rimaneva in casa, girava intorno alle alunne, immischiandosi nelle lezioni di culinaria e disturbandole. Riunite intorno alla maestra, alacri e graziose, le ragazze annotavano le ricette: la quantità esatta di gamberoni, olio di dendê, cocco grattugiato, un pizzico di pepe; imparavano come trattare il pesce, come preparare la carne, come battere le uova. Vadinho interrompeva con una barzelletta a doppio senso sulle uova, e giù a ridere, quelle sfacciate.

    Delle sfacciate, quasi tutte. Molta amicizia e molti complimenti per dona Flor, ma con gli occhi interessati addosso al mascalzone. Lui se ne stava là, con la sua aria ribalda e distaccata, buttato su una sedia, o semi-sdraiato su uno scalino della porta di cucina, alla godereccia, squadrandole dalla testa ai piedi, soffermandosi insolente sulle gambe, le ginocchia, su per le cosce, all’altezza dei seni. Le ragazze abbassavano gli occhi, lui, il non-so-come-chiamarlo non abbassava i suoi.

    Dona Flor preparava i piatti salati e le focacce, torte e dolci, nelle lezioni pratiche. Vadinho elaborava concetti, motteggiava, mangiava i manicaretti, ronzando intorno a loro, attaccando discorso con le più carine, arrischiando la mano scostumata, se qualcuna più audace gli si avvicinava.

    Dona Flor diventava nervosa, angosciata, al punto di sbagliare le dosi di burro fuso in un manuè difficile, pregando Iddio che Vadinho se ne andasse fuori ai suoi imbrogli, alla disgrazia del gioco, ma lasciasse in pace le alunne.

    Che ora, alla veglia funebre, circondavano dona Flor e la confortavano; ma una di loro, la piccola Ieda dalla faccia di gatta selvatica, a malapena riusciva a trattenere le lacrime e non distoglieva gli occhi dal viso del morto. Dona Flor s’accorse subito di quel sentimento esagerato, senti un colpo al petto. C’era forse stato qualcosa fra di loro? Non aveva mai notato niente di sospetto, ma chi avrebbe potuto garantire che i due non s’incontrassero fuori dalla scuola, che non andassero a terminare la serata in qualche bordello? Vadinho, dal tempo della sua relazione con quella puttanella della Noèmia, apparentemente aveva smesso di pascolare fra le alunne. Ma era un tipo molto astuto, avrebbe potuto benissimo aspettare l’ingenua all’angolo, invischiarla con le sue chiacchiere, e qual’era la donna capace di resistere alla parlantina di Vadinho? Dona Flor seguiva lo sguardo di Ieda, osservava le labbra tremanti della ragazza. Non le restavano più dubbi, ah! Vadinho senza giudizio!...

    Di tutti i dispiaceri che le aveva dato il marito, nessuno poteva paragonarsi alla storia con la donzella Noèmia, puttanella di buona famiglia, e fidanzata, un orrore! Ma dona Flor non voleva ricordare quell’antico dispiacere la notte della veglia funebre, quando per l’ultima volta guardava in viso Vadinho. Era tutto passato, distante, la tizia s’era sposata, era partita con lo sposo, un tipetto con fumi da giornalista, talento precoce — così giovane, infatti, e già così cornuto — di nome Alberto. Per di più col matrimonio quell’uggiosa era imbruttita definitivamente, era diventata una panciona monumentale.

    Quando quella volta tutto era finito bene quasi per miracolo, Vadinho le aveva detto, nel calore del letto e della riconciliazione:

    «Donna permanente, solo te sono capace di sopportare. Il resto è tutto xixica per passare il tempo.» Là alla veglia funebre, circondata da tanta gente e da tanto affetto, dona Flor non desidera ricordare quella storia ormai dimenticata, né sorvegliare i gesti e le occhiate della piccola Ieda, col suo pianto a malapena trattenuto, il suo segreto messo a nudo dalle lacrime. Scomparso Vadinho, niente più importava, perché chiarire, verificare, accusare e lamentarsi? Lui era morto, aveva pagato tutto, e con gl’interessi, visto che era mancato così giovane. Dona Flor si sentì in pace col marito, non aveva conti in sospeso con lui.

    Abbassò la testa, smise di sorvegliare i movimenti della ragazza. Abbassando gli occhi vedeva solo Vadinho che le percorreva il corpo con la mano, nel letto di ferro, dicendole all’orecchio: «Tutto xixica per passare il tempo, permanente solo tu, Flor, mio fiore di maggiorana; tu e nessun’altra.» Che diavolo voleva dire «xixica»? D’improvviso dona Flor desiderò saperlo. Peccato, non gliel’aveva mai chiesto, ma cosa buona certamente non era. Sorrise. Tutto xixica, permanente solo lei, Flor, fiore di Vadinho sfogliata dalla sua mano.

    V

    Il giorno seguente, alle dieci del mattino, ci fu il funerale, con grande concorso di gente. Non c’era in quel lunedì di Carnevale, gruppo né banda carnevalesca, comparabile per numero e animazione al funerale di Vadinho. Neppur lontanamente comparabile.

    «Guarda... almeno guarda dalla finestra,» disse dona Norma a Zé Sampaio, rinunciando a trascinarselo dietro al cimitero, «... guarda e vedi un po’ com’è il funerale di un uomo che sapeva occuparsi delle sue relazioni con gli altri, non era una bestia selvatica come te... Era un’imbroglione, un giocatore, un vizioso senz’arte né parte, eppure guarda... Guarda quanta gente, e quanta gente per bene... E per di più in un giorno di Carnevale... Tu, Sampaio, quando muori, non avrai neppure chi regga le maniglie della bara...»

    Zé Sampaio non rispose, né guardò dalla finestra. Avvolto in un vecchio pigiama, al letto con i giornali del giorno prima, rispose solo con un debole gemito e si ficcò il pollice in bocca. Era un malato immaginario, aveva una paura insensata della morte, una repulsione profonda per le visite agli ospedali, per le veglie funebri e i funerali, e in quel momento si trovava sull’orlo di un infarto. Si sentiva cosi fin dal giorno prima, da quando sua moglie gli aveva spiegato che il cuore di Vadinho era scoppiato d’un tratto. Aveva passato una notte da cani, aspettando l’esplosione delle coronarie, rotolandosi nel letto, coperto di sudore freddo, le mani che comprimevano il lato sinistro del petto.

    Dona Norma, mettendosi sulla bella capigliatura castana uno scialle nero adatto per l’occasione, completò spietata:

    «Io, se non avrò almeno cinquecento persone ad accompagnare il mio funerale, mi sentirò una fallita. Da cinquecento persone in su...»

    Partendo da quel principio, Vadinho avrebbe dovuto considerarsi pienamente vittorioso e realizzato. Mezza Bahia aveva infatti accompagnato il suo funerale e perfino il negro Paranaguá Ventura aveva abbandonato il suo sinistro covile ed era lì, in un completo bianco brillante di amido, cravatta nera, fascia nera alla manica sinistra, in mano un mazzo di rose rosse. Si preparava a prendere una delle maniglie della bara, e, nel presentare le sue condoglianze a dona Flor, riassunse il pensiero di tutti nella più bella e succinta orazione funebre per Vadinho:

    «Era un dritto!»


    

    INTERVALLO

    Breve relazione (apparentemente inutile) sulla polemica accesasi intorno all’autore d’un poema anonimo, circolante di bettola in bettola, nel quale l’autore piangeva la morte di Vadinho, rivelandosi qui ed infine la vera identità dell’ignoto bardo, sulla scorta di prove irrefutabili.
(declamato dall'’incommensurabile Robato Filho)

    No, col passar del tempo il caso non si sarebbe trasformato in un mistero indecifrabile delle lettere brasiliane, in un nuovo oscuro enigma della cultura universale, capace di sfidare, dopo secoli, università e letterati, studiosi e biografi, filosofi e critici e, trasformandosi in materiale di ricerca, di dar da fare a borsisti, istituti, professori, storiografi e lazzaroni di vario tipo, in cerca di un sistema facile per sbarcare comodamente il lunario.

    Non sarebbe divenuto un nuovo «caso Shakespeare», non sarebbe stato che un piccolo dubbio, insignificante quanto il piccolo evento che gli era servito da tema e ispirazione: la morte di Vadinho.

    Nei circoli letterari di Salvador, tuttavia, sorse l’interrogativo, e intorno ad esso la polemica, su quale dei poeti locali avesse composto e fatto circolare l’«ELEGIA SULLA DEFINITIVA MORTE DI WALDOMI- RO DOS SANTOS GUIMARÃES, VADINHO PER LE PUTTANE E PER GLI AMICI». Rapida s’allargò la discussione, non tardò a inacidirsi, a diventare motivo di inimicizia, rappresaglie, epigrammi, e qualche schiaffone. Circoscritti sempre, tuttavia, dibattiti e rancori, dubbi e certezze, affermazioni e negazioni, insulti e beffe, ai tavoli dei bar dove, intorno a birrine ghiacciate si ritrovavano a notte avanzata i giovani geni incompresi (intenti a demolire e radere al suolo tutta la letteratura e l’arte antecedenti al felice apparire di quella nuova e definitiva generazione d’artisti) ed i sotto-letterati tenaci, incalliti e resistenti a qualsiasi innovazione, con i loro giochi di parole, i loro epigrammi, le loro frasi reboanti — gli uni e gli altri — i giovani geni imberbi e i mal sbarbati cultori delle belle lettere, — impugnando, con la stessa violenta inclinazione a leggerli, i loro ultimi componimenti in prosa o in versi, ognuno dei quali, e i quali tutti, avrebbero rivoluzionato, a Dio piacendo, le lettere brasiliane.

    Né il dibattito perde d’interesse per il fatto di essersi svolto nell’ambito dello Stato di Bahia (dello Stato, intendiamoci, non soltanto della Capitale[13], visto che il dibattito si ripercosse fino in alcuni municipi della Zona del Cacao. Negli annali dell’Accademia di Belle Lettere d’Ilhéus, per esempio, si trovano riferimenti sicuri ad un saggio dedicato allo studio del problema), e neppure per non aver trovato posto nel supplemento letterario di giornali e riviste, esaurendosi in discussioni orali. Non è per tutte le ragioni suelencate che il dibattito, singolare e a momenti acido, può perdere d’interesse e non meritare la dovuta attenzione, ove si narri la storia di dona Flor e dei suoi due mariti — della quale storia Vadinho è un personaggio importante, un eroe di primo piano.

    Eroe? O non sarà piuttosto il cattivo, il bandito che fa soffrire la fanciulla — nella fattispecie dona Flor — sposa devota e fedele? Questo è già un altro problema, avulso dalla questione letteraria che occupa poeti e prosatori e di essa forse più grave e difficile, e toccherà al lettore risolverlo, se ostinata pazienza lo condurrà fino al termine di queste modeste pagine.

    Dell’elegia — non sussistevano dubbi — l’eroe indiscusso era Vadinho.

    «Mai un altro vi sarà / così amico delle stelle / e di dadi e puttane, / magico menestrello,» cantavano i versi, in una lode sperticata. E se il poema, allo stesso modo della polemica, non trovò spazio nelle riviste letterarie, ciò non fu per mancanza di merito. Un certo Odorico Tavares, poeta nazionale, gravitante in sfere ben al disopra del cicalio dei vati regionali — i quali, tutti, per di più, gli mangiavano in mano a briglia corta, visto che il despota controllava due giornali e una stazione radio — leggendo una copia dattiloscritta dell’elegia, lamentò:

    «Peccato che non si possa pubblicare...»

    «Se non fosse anonima...» aggiunse un altro poeta, Carlos Eduardo.

    Quel Carlos Eduardo, un tipo con pretese a bel giovane, intenditore d’antiquariato, era socio del Tavares in un affare un tantinello scabroso di santi antichi. I subletterati più frustrati e i giovani geni più aggressivi, quelli ormai privi di ogni speranza di vedere apparire il loro nome nel supplemento domenicale del Tavares, l’accusavano

    —   e con lui il Carlos Eduardo — di ricettazione di antiche statue di santi, racimolate per le chiese da un agguerrito gruppetto di ribaldi specializzati, al comando d’un tipo di dubbia reputazione, un chiacchierato Mário Cravo, del resto compare e amico di Vadinho. Magro e baffuto, passava il tempo, l’astuto Cravo, trafficando con pezzi d’automobile, lamiere di ferro, macchine scassate, torcendo e rammendando tutti quei rottami, per poi attribuire al risultato un gran valore artistico, fra gli applausi dei due poeti e di altri «esperti», unanimi nell’etichettare quei ferri vecchi come scultura moderna, e nel- l’indicare in quell’imbroglione un artista singolare e rivoluzionario, una vera rivelazione. Ecco un altro problema, la cui discussione non è materia per queste pagine: quello del valore reale dell’opera del maestro Cravo, del quale non discuteremo l’opera. Ci basti sottolineare — a titolo di cronaca — che in seguito la critica ha riconosciuto la validità dei suoi lavori, oggetto, fra l’altro, di studi di giornali stranieri. A quel tempo, tuttavia, il tipo non era ancora un artista stimato, era ancora agli inizi, e se già aveva una certa notorietà, questa era dovuta unicamente alla sua discutibile attività fra altari e sacrestie.

    A quanto consta, lo stesso Vadinho aveva partecipato, in un momento di particolare penuria, ad un segretissimo pellegrinaggio notturno ad un’antica chiesa del Recôncavo, devota visita organizzata dall’eretico Mário Cravo. Il saccheggio della chiesa sollevò un vespaio perché una delle opere sgraffignate, un San Benedetto, era attribuita a Frate Agostino della Pietà, ed i frati strillarono come aquile. Oggi la prestigiosa immagine si può ammirare in un museo del Sud[14] dove si trova, se si deve credere alle malelingue dei subletterati, per i buoni uffici ed in grazia dei due — allora magri — soci in voli lirici e devoti commerci.

    Quella mattina, poco prima di pranzo, chiacchieravano i due in redazione, parlando appunto di statue di santi e di quadri, quando Carlos Eduardo tirò fuori di tasca la copia dell’elegia e la passò al poeta Odorico.

    Rimpiangendo di non poterla pubblicare — non per l’anonimato, il nome si poteva rimpiazzare con uno pseudonimo qualsiasi, ma per via delle parolacce —Tavares ripetè «che peccato...» e rilesse ad alta voce ancora un verso:

    Sono in lutto i giocatori e le negre di Bahia.

    Chiese all'’amico:

    «Hai capito subito chi è l’autore, no?»

    «Credi che sia sua? Mi sembrava, però...»

    «Si sente subito... Ascolta: “Un momento di silenzio in tutte le roulettes, bandiere a mezz’asta sui bordelli, natiche disperate singhiozzanti”.»

    «Può darsi...»

    «Può darsi, no. È, sicuramente,» rise. «Vecchio scostumato...»

    La stessa certezza non si trovava presso i circoli letterari. L’elegia fu attribuita a diversi poeti — vati già famosi o giovani alle prime armi —. La fecero passare per un’opera di Sosigenes Costa, di Carvalho Filho, di Alves Ribeiro, di Hélio Simões, di Eurico Alves. Molti indicarono Robato come l’autore più probabile. Non declamava forse l’elegia con entusiasmo, modulando la voce ricca d’inflessioni?

    Con lui partì l’aurora cavalcando la luna.

    Non potevano capire perché mai Robato avrebbe declamato versi altrui, gesto poco abituale in quell’ambiente, dimenticando la generosità del sonettista, la sua capacità di ammirare ed applaudire gli altri.

    Si può anche datare l’inizio della popolarità dell’elegia e della polemica da essa suscitata a partire da un’allegra serata nella casa di Carla — la grassa Carla — abile professionista venuta dall’Italia, la cui cultura travalicava i limiti del mestiere (nel quale del resto eccelleva, se si deve credere a Nestor Duarte, cittadino di notoria intelligenza e con viaggi al suo attivo, un conoscitore). La grassa Carla aveva letto D’Annunzio, andava pazza per le rime. «Romantica come una mucca» la definiva il baffuto Mario Cravo, col quale aveva avuto una relazione per qualche tempo. Carla non poteva vivere senza una passione drammatica, e navigava da spiantato a spiantato, sospirando e gemendo, straziata dalla gelosia, con i suoi tremendi occhi azzurri, i suoi seni da primadonna, le cosce spettacolari. Anche Vadinho ne aveva meritato le buone grazie e qualche spicciolo, benché le sue preferenze andassero ai poeti, verseggiatrice anche lei, «nella dolce lingua di Dante con molto estro e ispirazione», secondo le parole adulatrici del Robato.

    Tutti i giovedì sera Carla riuniva nelle sue ampie stanze una specie di salotto letterario. Intervenivano poeti, artisti, vagabondi, qualche tipo importante come l’avvocato Airosa, e le ragazze della casa, pronte ad applaudire i versi e a ridere delle barzellette. Si serviva da bere e dei dolcetti.

    Carla presiedeva la serata, semisdraiata su di un divano ingombro di cuscini, vestita di una tunica greca o carica di monili fantasia, ateniese copiata da un figurino o egizia di Hollywood, uscita fresca fresca dal palcoscenico di un’opera. I poeti declamavano, si scambiavano battute, epigrammi, giochi di parole, l'avvocatone sputava un assioma preparato con dura fatica durante la settimana.

    Il clou della festa si aveva quando la padrona di casa, la grande Carla, si sollevava di fra i cuscini, con tutta la sua tonnellata di carne bianca coperta di pietre false, e con un filo di voce, sorprendente in una donna di quel calibro, proclamava in zuccherosi versi italiani il suo amore per l’eletto del momento. Intanto l’artista Cravo ed altri grossolani materialisti della stessa risma, approfittavano della semioscurità — luci velate in sala acciocché nella penombra meglio si potesse udire e gustare la poesia — e, senza alcun rispetto per un ambiente di così alta spiritualità, di sentimenti così elevati, palpeggiavano senza pudore le ragazze, tentando d’ottenere favori gratuiti a detrimento delle finanze della casa: dei filibustieri.

    Il convivio terminava immancabilmente decadendo verso la fine della nottata, dalla poesia alle barzellette licenziose. Brillavano allora Vadinho, Giovanni, Mirandão, Carlinhos Mascarenhas e soprattutto Lev, architetto all’inizio della carriera, figlio d’immigrati, una anima lunga come una giraffa, titolare d’un repertorio inesauribile, e per di più buon narratore. Portava un nome russo impronunziabile e le ragazze l’avevano soprannominato «Lev-Lingua d’Argento», forse a causa delle barzellette. Forse.

    Fu durante uno di questi «eleganti convegni dell’intelligenza e della sensibilità», che Robato declamò con voce tremula l’elegia in morte di Vadinho, introducendola con poche parole commosse sullo scomparso, amico di tutti i frequentatori di quel «delizioso rifugio dell’amore e della poesia». Menzionò di passaggio che l’autore aveva preferito «le nebbie dell’anonimato al sole della gloria». Lui, Robato, aveva avuto il poema da un ufficiale della Polizia Militare, il capitano Crisostomo, anche lui amico fraterno di Vadinho. E tuttavia non aveva saputo, l’amico militare, dargli informazioni sull’identità del poeta.

    Molti attribuirono il poema allo stesso Robato, ma di fronte al suo rifiuto sistematico d’accettarne la paternità, si misero ad indicarne come autori quanti in città si dilettassero di verseggiare, soprattutto i nottambuli e quelli di più comprovata scapigliatura. Vi fu tuttavia chi non volle mai credere alle negazioni del Robato, attribuendole ad un eccesso di modestia e continuarono a fare il suo nome. Ancor oggi c’è gente che pensa che le controverse strofe siano di sua mano.

    Il dibattito divenne così acido che in un caso oltrepassò i limiti della letteratura e della buona creanza, degenerando in un conflitto a base di schiaffoni, quando il poeta Clóvis Amorim, lingua viperina in bocca epigrammatica, succhiante senza soluzione di continuità un sigaro puzzolente comprato al mercato, negò al bardo Hermes Climaco ogni possibilità d’essere l’autore dei dibattuti versi, a tanto mancandogli genio e grammatica.

    «Del Climaco? Ma non diciamo scemenze... Quello con molto sforzo partorisce una quartina di settenari. Un poeta stitico...»

    Per colmo di sventura il poeta Climaco appariva in quel momento sulla porta della bettola, col suo eterno completo nero, l’impermeabile di gomma e l’ombrello, eterni anche quelli.

    «Stitica sarà la puttana che t’ha fatto...»

    S’acciuffarono, fra insulti e sergozzoni, con evidente vantaggio dell'’Amorim, miglior verseggiatore e atleta più robusto.

    Ugualmente singolare e degno di essere riportato è ciò che accadde ad un tipo, autore di due magri quadernetti di versi, al quale alcune persone poco esperte avevano attribuito la paternità dell’elegia. Dapprima egli negò con fermezza, poi, visto che perseveravano, fu meno reciso nelle sue negazioni e alla fine reagiva in maniera così timida e confusa, che la negazione sembrava piuttosto un’affermazione imbarazzata.

    «È sua, non c’è dubbio,» dicevano vedendolo fregarsi le mani abbassando gli occhi, sorridendo in un bisbiglio:

    «Che sembrano versi miei, è un fatto. Ma non lo sono...»

    Negò sempre, ma al tempo stesso non permise mai che si attribuissero i versi ad altri. Quando ciò accadeva si faceva in quattro per dimostrare l’impossibilità dell’ipotesi. E se qualche ostinato perseverava nell’attribuzione, terminava borbottando in tono definitivo e misterioso:

    «A me lo vuoi dire?... Ho buone ragioni per sapere...»

    E quando sentiva declamare l’elegia non mancava mai d’accompagnare la recitazione, correggendo se qualche parola risultava scambiata, geloso del poema, zelante come per un’opera sua. Solo più tardi, con la rivelazione del nome del vero autore, giunse per lui il momento di spogliarsi della gloria non dovuta. Cominciò allora, ed immediatamente, a dire peste e corna dell’elegia, alla quale negava qualsiasi merito o bellezza:

    «Poesia postribolare e stercoraria.»

    In mezzo a tante discussioni, l’elegia seguì il suo cammino, letta e imparata a memoria, sospirata ai tavoli dei bar verso l’alba, quando la cachaça risveglia i sentimenti più nobili. I declamatori cambiavano aggettivi e verbi, a volte scompigliavano o inghiottivano strofe intere. Ma, corretta o deturpata, intrisa d’acquavite o trascinata per terra nei ritrovi notturni, essa circolava tessendo le lodi di Vadinho, facendone l’elogio funebre.

    Chiunque l’avesse composta rifletteva uno stato d’animo generale nel mondo sotterraneo in cui Vadinho si muoveva fin dall’adolescenza, e del quale aveva finito per essere una specie di simbolo. L’elegia rappresentò il culmine del fiume di parole spese in lode del giovanotto. Avesse potuto sentirle, tutte quelle parole d’elogio e di rimpianto, Vadinho non le avrebbe credute. Giammai in vita sua era stato fatto segno ad encomi e laudazioni, anzi: non facevano che martellargli le orecchie con rimproveri e consigli, con prediche sulla sua vita dissipata e sui suoi cattivi sentimenti.

    D’altronde, l’indulgenza per i suoi misfatti, l’accettazione di quell’esibizione pubblica delle sue pretese qualità, tendente a fare di Vadinho un eroe da saga, una figura quasi leggendaria, durò poco.

    Trascorsa una settimana dalla sua morte, le cose già cominciavano a tornare al loro posto: l’opinione delle classi conservatrici, custodi della morale e della decenza, cominciò a manifestarsi per bocca di comari e vicine, al disopra dell’anarchico panegirico corruttore del costume, tessuto dai teppisti sovversivi delle case chiuse e dei casinò, nel tentativo criminale di sovvertire la moralità ed il regime stesso.

    Sorgeva quindi un nuovo ed appassionante problema, come se quello della paternità dei versi non bastasse. Riferendoci a quest’ultimo avevamo promesso di produrre prove della vera identità dell’autore, ora infine rivelata e per sempre inscritta nell’albo d’oro delle patrie lettere.

    Quando, anni dopo la morte di Vadinho, il poeta Odorico ricevè la sua copia delle «Elegie Impure» — una delle tre uniche offerte gratis dall’autore — magnifica edizione di lusso, tiratura limitata a cento esemplari autografati, illustrata con xilografie di Calazans Neto, egli si volse a Carlos Eduardo, porgendogli il libro prezioso.

    I due amici si trovavano nella stessa stanza di redazione dove, un giorno lontano, avevano letto e discusso insieme l’elegia. Solo che ora erano grassi signori rispettabili — e ricchi, molto ricchi, proprietari d’immobili e collezioni.

    Odorico ricordò:

    «Non te l’avevo detto già allora? Era sua...» e concluse con lo stesso sorriso e con le stesse parole di un tempo: «Vecchio scostumato...»

    Anche Carlos Eduardo rise del suo riso cordiale d’uomo arrivato e tranquillo, e ammirò l’edizione raffinata. Sulla copertina, a lettere incise nel legno, il nome del poeta: Godofredo Filho. Pian piano si mise a sfogliare le pagine, chiedendosi con una certa invidia quali vie ed erte scoscese, quali oscuri sentieri crepuscolari, quali buie grotte odorose avessero scoperto ed amato insieme il poeta celebre ed il povero vagabondo, al punto che fra loro fosse sbocciato il fiore raro dell’amicizia. Pian piano, riflettendo sull’enigma, Carlos Eduardo accarezzava le pagine come fossero una morbida epidermide femminile; forse pelle nera, velluto notturno. La quarta delle cinque elegie era quella dedicata alla morte di Vadinho, la «fiche azzurra dimenticata sul tappeto».

    Si dà così soluzione al problema, com’era stato promesso. Ma un altro ne sorge e s’impone, e chissà che non sia possibile trovare la soluzione anche di questo. Alla vostra perspicacia esso resta affidato quello del mistero di Vadinho.

    Chi era Vadinho? Quale la sua fisionomia reale; le sue esatte proporzioni? Bagnato di sole od oscuro d’ombra il suo volto d’uomo? Chi era lui? Il poetico giullare dell’elegia, il dritto della frase di Paranaguá Ventura o lo spregevole imbroglione, lo stoccatore incorreggibile, il cattivo marito di cui parlavano i vicini, gli amici di dona Flor? Chi lo aveva conosciuto meglio: le pie frequentatrici della messa delle sei alla chiesa di Santa Teresa, o gli irrecuperabili habitués del Tabaris «la palla a girar sulla roulette, le carte, i dadi, l’ultima giocata»?


    PARTE SECONDA

    Del tempo iniziale della vedovanza, tempo di dolore, di lutto strettissimo, con il ricordo di ambizioni e inganni, di fidanzamento e sposalizio, della vita matrimoniale di Vadinho e dona Flor, con fiches e dadi e la dura attesa ormai senza speranza (con in più la scomoda presenza di dona Rozilda)

    (con Edgard Cocô al violino, Caymmi alla chitarra e il dottor Walter da Silveira col suo flauto magico)

    I
    Ora, alla messa di suffragio officiata alla chiesa di Santa Teresa da Don Clemente Nigra — la navata splendida avvolta in una luce mattinale azzurrata e trasparente, proveniente dal mare giù di fronte, quasi la chiesa stessa fosse stata una nave pronta a mollare gli ormeggi — la simpatia e la solidarietà generale, espresse in commenti a mezza voce, andavano a dona Flor, inginocchiata nella prima panca davanti all’altare, tutta in nero, una mantiglia di pizzo nero prestata da dona Norma a coprirle i capelli e le lacrime, un rosario fra le dita. Ma quel bisbiglio pietoso non compativa dona Flor per aver perduto il marito, bensì per averlo avuto. Piegata sull’inginocchiatoio dona Flor non udiva nulla, come se nessun altro fosse stato presente nel santuario, tranne lei, il prete e l’assenza di Vadinho.

    Un coro di beghine, vecchi topi di sacrestia, rancide nemiche dell'’allegria e del riso s’innalzava, insieme con l’incenso, in un acido bisbiglio:

    «Non valeva due soldi di preghiere, quel miscredente.»

    «Se lei non fosse una santa, non una messa avrebbe fatto celebrare, ma una festa, con danze e tutto...»

    «Per lei è stata una liberazione...»

    All’altare, celebrando la messa per l’anima di Vadinho, Don Clemente, macerato dalle veglie su libri antichi, sentiva una specie di perturbazione nell’atmosfera magica del mattino appena ridesto, come se un diavolo qualsiasi, Lucifero o Exu — più probabilmente Exu — stesse vagando libero per la navata. Perché non lasciavano in pace Vadinho, non gli permettevano di riposare? Don Clemente l’aveva conosciuto bene: gli piaceva venire a chiacchierare nel cortile del convento; si sedeva sul muro e raccontare fatti che non sempre s’addicevano a quelle mura, ma che il frate ascoltava con attenzione, curioso e comprensivo com’era di ogni tipo d’esperienza umana.

    C’era nel corridoio fra la navata e la sacrestia una specie d’altare, con un angelo intagliato in legno, scultura d’un ingenuo anonimo, forse del XVII secolo: ed era come se l’artista avesse preso per modello Vadinho. La stessa fisionomia innocente e impertinente, la stessa insolenza, la stessa tenerezza. L’angelo era inginocchiato dinanzi all’immagine ben più recente e barocca d’una Santa Chiara e le tendeva le mani. Una volta Don Clemente aveva condotto Vadinho davanti all’altare con l’angelo, per vedere se si sarebbe accorto della somiglianza. Appena messi gli occhi sulle due immagini Vadinho si mise a ridere.

    «Perché ridi?» chiese il frate.

    «Dio mi perdoni, padre, non sembra che l’angelo stia facendo il filo alla santa?»

    «Stia che cosa? Che modo di esprimersi è questo, Vadinho?»

    «Scusi, Don Clemente, ma è che quest’angelo ha una faccia patita da gigolò... Non pare neanche un angelo... Guardi che occhi... per me le sta facendo l’occhiolino...»

    Voltandosi con le mani alzate, per dare la benedizione dall’altare, Don Clemente vide le beghine che borbottavano; ecco da dove venivano le perturbazioni, da dove proveniva il Maligno! Ah! bocche di fango e malvagità, acide verginità ammuffite, zitellone avide e meschine, al comando di dona Rozilda, «Dio le perdoni, poiché infinita è la sua bontà!»

    «La poverina ha sofferto per colpa di lui. Ha mangiato pane amaro...»

    «Perché l’ha voluto. Non perché le siano mancati consigli da parte mia... Non fosse stata così precipitosa, mi avesse ascoltato... Ho fatto tutto quel che potevo...»

    Così perorava dona Rozilda, madre di dona Flor, nata con la vocazione di matrigna, in uno sforzo diligente per seguire la sua vocazione.

    «Ma lei aveva il tarlo addosso, il fuoco aveva; Dio liberi, non volle ascoltar consigli, si ribellò... E trovò anche chi le dette una mano... trovò una casa dove rifugiarsi...»

    Disse guardando verso la panca dove pregava inginocchiata dona Lita, sua sorella. Completò il suo pensiero:

    «Far dire una messa per quell’avanzo di galera son soldi buttati via, serve solo a riempire la saccoccia del frate...»

    Don Clemente prese il turibolo e lanciò l’incenso contro il fetido alito del demonio che spirava per la bocca delle beghine. Scese dall’altare, si fermò davanti a dona Flor, le mise una mano affettuosa sulla spalla, disse, in modo da essere udito dal sinistro coro delle vecchie pinzochere: «Anche gli angeli traviati trovano posto al lato di Dio, nella sua gloria.»

    «Angelo!... vade retro... quello era un demonio d’inferno,» ringhiò dona Rozilda.

    Don Clemente, un po’ curvo, traversò la navata in direzione alla sacrestia. Nel corridoio si fermò a contemplare quella strana immagine in cui l’artista aveva trasfuso grazia e cinismo ad un tempo. Spinto da quale sentimento, per trasmettere quale messaggio? Posseduto da passioni umane, l’angelo divorava con occhi cupidi la povera santa. Le faceva l’occhiolino, come aveva detto Vadinho nel suo colorito linguaggio: sorriso indecente, faccia sfrontata, nessuna compostezza. Identico a Vadinho, tale somiglianza non s’era mai vista. Non aveva esagerato, lui, Don Clemente, a collocare Vadinho vicino al trono di Dio, nella sua gloria?

    S’avvicinò alla finestra scavata nella pietra, guardò giù nel cortile. Là era solito sedersi Vadinho, sul muro a strapiombo sul mare solcato dai pescherecci. «Padre,» diceva Vadinho, «se Dio voleva davvero far vedere la sua capacità, faceva uscire il 17 dodici volte di fila. Questo sì che era un miracolo di quelli buoni. Allora io venivo e riempivo tutta la chiesa di fiori...»

    «Dio non s’interessa al gioco, figliolo...»

    «Allora padre lui non sa quel che è buono e quel che non è. Quell’angoscia di vedere la pallina che gira, gira e gira, e uno gioca l’ultima fiche col cuore che gli scoppia...»

    E in tono confidenziale, con l’aria di parlare d’un segreto solo suo e del sacerdote:

    «Possibile che Dio non lo sappia, padre?»

    Nell’atrio, dona Rozilda alzava la voce: «Denaro buttato, non c’è messa capace di salvargli l’anima a quel maledetto. Dio è giusto!»

    Dona Flor, lo scialle a nasconderle la faccia dolorosa, appariva dal fondo appoggiandosi a dona Gisa e dona Norma. La chiesa, nella chiarità del mattino, sembrava una nave di pietra a navigare.

    II

    Fu solo il martedì di Carnevale a sera che la notizia della morte di Vadinho raggiunse Nazareth das Farinhas, dove abitava dona Rozilda, col figlio sposato impiegato delle Ferrovie, amareggiando la vita della nuora, schiava al suo dittatoriale comando. Senza por tempo in mezzo si trasportò a Bahia, dove piombò il mercoledì delle ceneri, giorno a lei molto affine, se si deve credere alle parole dell’altro suo genero, Antonio Morais.

    «Quella non è una donna, è un mercoledì di ceneri, stermina il buon umore di chiunque.» Era stato senza dubbio il desiderio di mettere la maggior distanza possibile fra la sua casa e quella della suocera una delle ragioni per cui il Morais risiedeva già da vari anni in un sobborgo di Rio de Janeiro. Abile meccanico, aveva accettato l’invito d’un amico ed era andato a tentare la fortuna al Sud, dove i suoi affari avevano prosperato. Si rifiutava di rimetter piede a Bahia, fosse pure in visita, finché «quella megera appestasse i luoghi».

    Dona Rozilda, tuttavia, non detestava Morais, così come non detestava la nuora. Detestava invece Vadinho, e non aveva mai perdonato a dona Flor quel matrimonio, risultato d’una vile cospirazione contro la sua autorità e le sue decisioni. Per il matrimonio di Morais con la figlia più grande, Rosàlia, se non aveva incoraggiato la faccenda, neppure l’aveva ostacolata, non aveva opposto obiezioni al fidanzamento. Non andava d’accordo né con lui né con la nuora, perché per sua natura dona Rozilda si dedicava attivamente ad infernizzare la vita del suo prossimo. Quando non stava contrariando qualcuno, si sentiva vuota ed infelice.

    Con Vadinho era diverso: l’aveva in avversione fin dai tempi del suo idillio con Flor, dal momento in cui aveva scoperto la rete d’imbrogli e raggiri che l’indesiderabile pretendente le aveva teso. L’aveva preso in odio per sempre, non poteva neppur sentire il suo nome. «Ci fosse una polizia come si deve in questo paese, quella canaglia sarebbe in prigione,» ripeteva a chi le parlava del genero, a chi le chiedeva notizie del mariuolo o lo mandava a salutare. Le rare visite che faceva a dona Flor, erano solo per rovinarle la giornata, parlandole in continuazione ed esclusivamente delle bricconate di Vadinho, della sua vita scostumata, della vergognosa cronaca dei suoi misfatti, scandalo quotidiano e permanente.

    Gridando dalla murata del vaporetto dava libero sfogo alla sua acrimonia, interpellando dona Norma, che su richiesta di dona Flor era venuta ad aspettarla sulla banchina:

    «Finalmente quello scomunicato ha tirato il calzino, eh!»

    Il postale aveva attraccato, affollato d’una moltitudine di gente impaziente, intralciata da pacchi, ceste, borse, fagotti e fagottini, con frutta, farina di tapioca, igname e aipo, carne secca, chuchu e zucche. Dona Rozilda sbarcava vociferando:

    «Gli è venuto un accidente, avrebbe già dovuto schiattare da un pezzo!»

    Dona Norma si sentiva sconfitta: dona Rozilda aveva la capacità di ridurla all’inazione, nello scoraggiamento più totale. La servizievole vicina s’era precipitata sulla banchina di buon mattino, il viso buono traspirante compassione, pronta a consolare una suocera in lutto e in lacrime, a lamentare — in duetto con lei — la precarietà delle cose di questo mondo: oggi uno è vivo e saltellante, domani in una cassa da morto. Avrebbe accolto le lamentazioni di dona Rozilda, le avrebbe servito il lenitivo della rassegnazione alla volontà di Dio: Lui sa quel che fa! insieme avrebbero discusso — la madre e l’amica intima — del nuovo stato di dona Flor, vedova, sola al mondo e ancora cosi giovane. A questo era venuta preparata dona Norma: gesti, parole, atteggiamenti, e tutto sincero e sentito; nel suo modo di essere e di agire non esisteva la benché minima sfumatura d’artificio. Dona Norma si sentiva un po’ responsabile di tutti, era la provvidenza del quartiere: una specie di pronto soccorso del vicinato. Da ogni parte correvano a battere alla sua porta, la miglior casa della strada era la sua — solo quella dell’argentino della fabbrica di ceramiche, quella dei Bernabò, le si poteva paragonare, forse un pochino più lussuosa. Venivano a chiederle in prestito dal sale e dal pepe fino ai piatti per colazioni e pranzi, al vestiario per qualche festa.

    «Dona Norma, dice mamma se le può prestare una tazza di farina, che è per una torta che sta facendo. Poi gliela rende...»

    Era Aninha, la figlia più piccola del dottor Ives, vicino e buon conoscente, la cui moglie, dona Êmina, cantava canzoni arabe accompagnandosi al piano.

    «Ma bambina, la tua mamma non è andata al mercato ieri? Ma che donna smemorata! Una tazza ti basta? Dille che se ne vuole ancora non faccia complimenti...»

    Oppure era il ragazzino di casa di dona Amélia, con la sua voce stridula:

    «Dona Norma, dice la padrona se le può prestare la cravatta nera a farfalla del sor Sampaio, che quella del signor Ruas l’hanno mangiata le tignole...»

    Quando non era dona Risoleta che compariva, drammatica, con la sua solita aria da macerata:

    «Norminha aiutami per amor di Dio.»

    «Che c’è?»

    «Un ubriaco s’è piazzato davanti alla porta di casa e non c’è modo di farlo andar via, come faccio?»

    E dona Norma accorreva, sorridendo riconosceva il tipo:

    «Ma è Bastião Cachaça, un amico... coraggio Bastião, vieni via di lì, va’ a fare un sonnellino nel garage di casa mia...»

    E così il giorno intero: biglietti per chiedere un prestito in denaro, una chiamata urgente per accudire ad un pazzo, per soccorrere un ammalato, senza contare i clienti per le iniezioni: dona Norma faceva concorrenza gratuita a medici e farmacie, per non parlare dei veterinari, visto che tutte le gatte del vicinato venivano a partorire in fondo al suo giardino, dove non mancava mai loro né assistenza né cibo. Distribuiva campioni di medicinali — forniti dal dottor Ives — tagliava abiti e modellini — era diplomata in taglio e cucito — scriveva lettere per le domestiche, dava consigli, ascoltava lamentele, assecondava progetti matrimoniali, favoriva innamoramenti, risolveva

    i  problemi più diversi, sempre di corsa, il che spingeva Zé Sampaio a constatare: «È una che fa di corsa perfino i suoi bisogni, non ha tempo neppure di sedersi sul water...» e s’infilava il pollice in bocca, rassegnato.

    S’era dunque preparata, la buona vicina, a ricevere una dona Rozilda lamentosa, a proteggerla ed accoglierla sul suo petto; e lei invece veniva fuori con quelle assurdità, quasi che la morte del genero fosse stata una notizia festiva. Eccola che scendeva la scaletta, in una mano il classico pacchetto di farina di Nazareth, ben tostata, odorosa, insieme ad una cesta in cui si muoveva indocile una fila di granchi[17] comperata a bordo, e nell’altra l’ombrello ed una valigetta.

    Meno male, pensò dona Norma, non era una grossa valigia da far prevedere un lungo soggiorno; era la valigetta di legno dei viaggi brevi: qualche giorno ed arrivederci alla prossima volta. Si fece avanti per aiutarla ed abbracciarla cerimoniosamente, presentandole le sue condoglianze: per nulla al mondo avrebbe omesso quel triste dovere.

    «Condoglianze... »

    «Condoglianze? A me? No, cara non sprechi la sua cortesia. Per me poteva esser crepato già da un pezzo, non sento la sua mancanza. Ora posso nuovamente battermi la mano sul petto, e dichiarare che nella mia famiglia gente disonorata non ce n’è. E che vergogna, eh? Ha scelto per morire proprio il centro della gazzarra del carnevale, vestito in maschera... per me l’ha fatto apposta.»

    Si piantava davanti a dona Norma, posava in terra la valigetta, la cesta, il pacco, per guardarla meglio, squadrandola da capo a piedi, per poi dirle, in un elogio vigliacco:

    «Eh, sì, sissignora, non è per farle un complimento, ma è ingrassata un bel po’... Ha un bell’aspetto, giovanile, grassoccia ch’è un piacere, Dio la benedica e liberi dal malocchio...»

    Sistemava la cesta, da cui i granchi tentavano di fuggire, proseguiva imperterrita:

    «Così mi piacciono le donne: senza preoccupazioni per tutte le stupidaggini della moda. Quelle che si mettono a fare cure dimagranti finiscono tutte tisiche. Invece lei...»

    «Non me lo dica dona Rozilda. E io che pensavo d’essere dimagrita! Sto facendo un regime di quelli severissimi... La cena l’ho abolita, è un mese che non sento il sapore dei fagioli...»

    Dona Rozilda tornò a squadrarla con occhio critico:

    «Be, non si direbbe...»

    Aiutata da dona Norma recuperò i pacchi; si dirigevano all’Ascensore Lacerda,[18] dona Rozilda senza mai smettere di cicalare.

    «E il sor Sampaio? Sempre ficcato nel letto? Non ho mai visto un uomo più deprimente. Sembra un vecchio cane.»

    Dona Norma non gradì molto il paragone, protestò sorridendo:

    «È il suo carattere... un po’ abulico...»

    Dona Rozilda non era donna da scusare le debolezze di chicchessia:

    «Dio ci liberi, un marito noioso come il suo dev’essere un impiastro. Il mio... il povero Gil... bé, non dirò che fosse una gran cosa, non era certo un santo. Ma in confronto al suo... Ah, gliel’assicuro: io al suo posto non l’avrei sopportato... Un uomo che non esce, non va mai da nessuna parte, imbronciato, sempre ficcato in casa...»

    Dona Norma cercava di riportare la conversazione nella sua direzione logica: in fin dei conti dona Rozilda aveva perduto un genero, era questa la causa del suo viaggio alla Capitale: era di quell’argomento così palpitante e drammatico che dovevano discorrere: a questo era preparata dona Norma:

    «Flor è molto triste e abbattuta, ha risentito molto...»

    «Perché è una debole, una scioccona. È sempre stata cosi, non sembra neppure mia figlia, ha preso tutto dal padre. Lei non l’ha conosciuto il povero Gil: non faccio per vantarmi, ma l’uomo di casa ero io. Lui non apriva bocca, chi decideva di tutto era la sua umilissima serva. E Flor gli somiglia, è venuta fuori una smidollata senza volontà: altrimenti come avrebbe fatto a sopportare per tanto tempo quel bel marito che s’era trovata?»

    Dona Norma considerò fra sé e sé che se il povero Gil non fosse stato anche lui una pera cotta, uno smidollato senza volontà, certamente non avrebbe sopportato per tanto tempo una moglie simile, e compatì la sorte del padre di dona Flor. E quella di dona Flor, minacciata ora da frequenti visite della madre, capace perfino — chissà — di venire a stabilirsi in casa della figlia vedova, corrompendo l’atmosfera cordiale del Sodré e dintorni.

    Al tempo di Vadinho, quando dona Rozilda appariva, era di corsa, in rapido passaggio: giusto il tempo di parlar male del genero e riprendere la via del ritorno, prima che arrivasse il maledetto con i suoi scherzi di cattivo gusto. Perché con Vadinho dona Rozilda non era mai riuscita ad avere la meglio; non lo aveva mai dominato, non era neppur mai riuscita ad innervosirlo, ad irritarlo. Come la vedeva in atto di spettegolare, s’abbandonava alle risate, mostrando la più grande soddisfazione, quasi fosse stata, la suocera, la sua visita preferita, quello scostumato:

    «Guarda guarda chi c’è: la mia suocerina santissima, la mia seconda mammina; questo cuor d’oro, questa colomba senza fiele. E la linguina come va? Sempre ben affilata? Sieda qui santa donnina, vicino al suo generino preferito, che ci mettiamo a razzolare in tutta l’immondizia di Bahia...»

    E rideva, di quella sua risata sonora e allegra d’uomo smaliziato e soddisfatto della vita: se neppure tante cambiali in scadenza, tanti debiti in giro, tanta penuria di denaro e tanta urgenza di contante per il gioco riuscivano a rattristarlo, o esasperarlo, come poteva dona Rozilda alimentare qualche speranza in proposito? Per questo lo odiava, e per ciò che aveva combinato nei primi tempi in cui amoreggiava con dona Flor.

    Con un rabbioso voltafaccia abbandonava il campo di battaglia, accompagnata dalla risata di Vadinho; andava a vendicarsi su dona Flor, accusandola in piena strada, in tempestosi comizi:

    «Mai più rimetterò piede in questa casa, figlia maledetta! Tieniti quel cane di tuo marito, permettigli d’insultare tua madre, dimentica il latte che hai succhiato... me ne vado prima che mi metta anche le mani addosso. Non sono come te che ci provi gusto a prenderle...»

    Con la risata di Vadinho che la inseguiva per gli angoli delle strade, scoppiando nei vicoli, in un arpeggio di scherno, dona Rozilda perdeva la testa. Una volta la perse del tutto e, dimentica della sua condizione di signora vedova e decorosamente riservata, si piantò nel bel mezzo della strada piena di gente, e voltandosi verso la finestra vicino a cui il genero si buttava via dalle risate, gli sbucciò col braccio un grappolo, se non addirittura un casco intero di banane.[19] Accompagnava il gesto grossolano con una pioggia d’insulti e maledizioni, pronunziati con voce strangolata:

    «Prendi su, sporcaccione, indecente, prendi e mettitelo...»

    Scandalizzati i passanti, il grave professor Epaminondas, l’imperturbabile dona Gisa.

    «Che donna scomposta...» criticava il professore.

    «Un’isterica,» diagnosticava la professoressa.

    Pur conoscendo bene dona Rozilda, per aver presenziato a quella e ad altre scene furibonde, abituata com’era al carattere difficile, all’acidità congenita dell’altra, dona Norma, facendo la fila davanti all’Ascensore Lacerda, tornava ancora una volta a stupirsi. Non avrebbe mai immaginato che l’antipatia fra suocera e genero potesse durare oltre la morte, senza che dona Rozilda concedesse al defunto una sola parola di rimpianto, ancorché vuota di sentimento, pura formalità, pronunziata solo con la bocca. Ma neppure quella:

    «Perfino l’aria che si respirava qui è diventata più leggera da quando quel disgraziato ha tirato le cuoia.»

    Dona Norma non ce la fece a trattenersi:

    «All’anima! Ce l’aveva proprio con Vadinho, eh?»

    «Diamine, e non ce la dovevo avere? Un vagabondo senz’arte né parte, un ubriacone giocatore che non valeva niente... E s’insinuò in casa mia per far girare la testa a mia figlia, portò via di casa quella sciagurata per vivere alle sue spalle...»

    Giocatore, beone, vagabondo, cattivo marito, tutto vero, rifletté dona Norma pensierosa. E tuttavia, come si poteva continuare ad odiare oltre la morte? Non è forse vero che si deve spazzar via e seppellire, ogni risentimento, ogni discordia, col funerale del defunto? Nossignori, non era affatto questa l’opinione di dona Rozilda:

    «Mi chiamava vecchia ficcanaso, non mi ha mai portato rispetto, mi rideva in faccia. M’ingannò fin dall’inizio, mi fece passare da scema, mi trascinò sulla via dell’amarezza... Perché mai me ne dovrei dimenticare? Solo perché è morto e seppellito? Solo per questo?»

     

    III

    Nel dipartirsi da questa per passare a miglior vita, il compianto Gil, lo smidollato privo di volontà di cui sopra, lasciò la famiglia in gravi ristrettezze, in situazione precaria. Nel suo caso l’espressione «partì da questa per passare a miglior vita» non era semplicemente una frase fatta, un luogo comune, ma la pura verità. Qualsiasi cosa l’aspettasse nel mistero dell'Aldilà: un paradiso di luci, musiche, angeli radiosi; un tenebroso inferno con pentoloni in ebollizione, o un umido limbo; un vagabondare senza fine per gli spazi siderali, o il nulla, il non-essere e basta, qualsiasi cosa avrebbe rappresentato un notevole miglioramento, a paragone della vita con dona Rozilda.

    Magro e silenzioso, ogni giorno più magro e più silenzioso, il sor Gil sostentava la sua tribù con i magri proventi di certe rappresentanze modeste: articoli di scarsa domanda, scarso guadagno: appena il sufficiente per la spesa: la sbobba giornaliera, l’affitto dell’appartamento al 1° piano della Ladeira[20] do Alvo, il vestiario dei bambini, le pretese borghesi di dona Rozilda, con la sua mania di grandezza, la sua ambizione a convivere con le famiglie più importanti, a penetrare nei circoli della gente abbiente. Dona Rozilda aveva a noia la maggior parte dei vicini, gente dimenticata dalla fortuna: commessi di negozio, impiegatucci, commessi viaggiatori, sartine. Disprezzava tutta quella gentaglia, incapace di nascondere la propria povertà; si dava un sacco d’arie, piena di boria, e cortese solo con pochi eletti fra gli abitanti della Ladeira, le «famiglie di rappresentanza», come andava ripetendo al povero Gil, quando lo prendeva in flagrante a bere una birretta nella poco raccomandabile compagnia di Cazuza Imbuto, giocatore e stoccatore che posava a filosofo, uno degli inquilini più discutibili della Ladeira do Alvo. Imbuto, sarà necessario chiarirlo? non era il suo cognome, ma un soprannome fin troppo significativo, con chiara allusione alla sua gola sempre aperta, alla sua sete insaziabile.

    E perché Gil non frequentava invece il dottor Carlos Passos, medico di vasta clientela, l’ingegner Vale, pezzo grosso dell’Assessorato ai Lavori Pubblici, il telegrafista Peixoto, signore d’una certa età, alla vigilia della pensione, dopo aver raggiunto i più alti gradi nell’amministrazione delle Poste, o il giornalista Nacife, giovane ancora, ma capace di mettere insieme un bel po’ di soldini con la sua pubblicazione Il Negoziante Moderno dedita, a suo stesso dire, alla «intransigente difesa del commercio baiano». Tutti questi, vicini anch’essi della Ladeira, i vicini «di rappresentanza»? Quello sprovveduto del marito non era neppure capace di scegliersi le amicizie quando non si trovava al «Ponto Fino», bar della Baixa dos Sapateiros, con Imbuto, s’infilava in casa di Antenor Lima, a giocare a tric-trac o a dama, forse il solo vero divertimento della sua vita. Antenor Lima, proprietario d’un negozio al Taboão, e uno dei clienti più importanti di Gil, avrebbe anche potuto essere classificato fra i vicini di rappresentanza, non fosse stato il suo legame, pubblico e notorio, con la negra Juventina, un tempo sua cuoca, ora installata alla finestra della casa del negoziante, con una donna a farle i servizi, insolente e linguacciuta: i suoi battibecchi con dona Rozilda avevano fatto epoca alla Ladeira do Alvo. Orbene, sul marciapiede di quel rifiuto andava a far salotto Gil, tutto salamelecchi per quell’ordinaria, come se fosse stata una vera signora, sposata davanti al prete e davanti al sindaco.

    A nulla servivano gli sforzi di dona Rozilda per farsi delle amicizie influenti: la famiglia Costa, discendente d’un vecchio politico e proprietaria di terreni immensi nel Matatu — il vecchio uomo politico era diventato perfino nome d’una strada e il nipote, Nilson, era banchiere e industriale; i Marinho Falcão di Feira de Sant’Ana nel cui magazzino aveva fatto il suo apprendistato il sor Gil da ragazzo — era stato il signor João Marinho a prestargli la somma necessaria per iniziare la sua attività nella Capitale; il dottor Luis Henrique Dias Tavares, Capo Divisione in un ministero, una testa fina che firmava articoli sui giornali, e il cui nome sonoro dona Rozilda si faceva rotolare in bocca con un sapore di parentado:

    «È mio compare, ha battezzato il mio Heitor.»

    Citando tali sue relazioni altolocate per schernire quelle di Gil, dona Rozilda interrogava drammatica i vicini, la ladeira, la città, il mondo intero: che male aveva mai fatto per meritarsi da Dio il castigo di quel marito incapace di procurarle un livello di vita degno di lei, all’altezza del suo lignaggio e di quello dei suoi amici? Tutti i rappresentanti del mondo prosperavano, ampliando studio e clientela, vedendo crescere le vendite di mese in mese, ottenendo nuove importanti rappresentanze. Molti si compravano una casa, o almeno un terreno, per costruirci la casa più tardi. Alcuni si permettevano anche il lusso della macchina, come un loro conoscente, Rosalvo Medeiros, un alagoano sbarcato pochi anni prima da Maceió con una mano davanti e l’altra dietro, mani che si appoggiavano ora, ambedue, sul volante d’una Studebaker. Ed era diventato così signore, quel Rosalvo, che un giorno, passando per la via Cile, non aveva riconosciuto dona Rozilda e per poco non l’aveva messa sotto quando lei, a piedi e tutta amabilità, s’era buttata davanti alla macchina, ansiosa di salutare il prospero collega del marito. Non solo il tipo le aveva fatto prendere uno spavento del demonio attaccandosi al clacson, ma l’aveva anche insultata, gridandole dietro parole ingiuriose:

    «Ti puzza la vita, pidocchio di cobra?»

    In tre o quattro anni, a forza di prodotti farmaceutici, chiacchiere e cordialità, quel villanzone s’era fatto la macchina, era socio del Club Baiano di Tennis, intimo di politici e ricconi, un hidalgo, signori miei, pieno di boria come se si portasse un re in pancia. Dona Rozilda digrignava i denti dalla rabbia: e quello stupidone di Gil?

    Ah, Gil vegetava, a piedi o in tram, con il suo campionario di stringhe, bretelle, colletti e polsini duri, specializzato in prodotti fuori moda, ridotto ad una piccola clientela di negozietti dei sobborghi, di mercerie antiquate. Non si espandeva in altre direzioni, aveva segnato il passo tutta la vita. Nessuno credeva nelle sue capacità, neppure lui.

    Un giorno si sentì stanco di tante lamentele e reclami, di tanto applicarsi senza risultato e senza gioia. Pòrto, cognato di sua moglie, marito di Lita, la sorella di Rozilda, faceva anche lui una gran fatica a combinare il pranzo con la cena, andando ad insegnare disegno e matematica in un istituto statale per artigiani, sperduto nelle lontananze del Paripe. Tutte le mattine un viaggio in treno, alzandosi col sole per rientrare solo a pomeriggio inoltrato.

    Ma la domenica usciva per le vie della città con una cassettina di colori sotto il braccio a dipingere case ed edifici a tinte vivaci, e da quella occupazione gli derivava tanta gioia, che non lo si vedeva mai di malumore o malinconico. È anche vero che aveva sposato Lita, non Rozilda, e Lita, l’opposto di sua sorella, era una cara donnina la cui bocca non si era mai aperta per fare della maldicenza su chicchessia.

    Gil non faceva progressi neppure alla dama ed al tric-trac, e Antenor Lima lo accettava come avversario solo quando non ne aveva sotto mano uno più forte; quanto al sor Zeca Serra, campione della Ladeira, neppure così per passare il tempo: non c’era gusto a giocare con un avversario così mediocre, maldestro e disattento. E come se non bastasse, dona Rozilda aveva preteso che troncasse definitivamente le sue relazioni con Cazuza Imbuto, proprio nel momento in cui l’amico, molto giù di morale e appena fuori di prigione, aveva più bisogno di solidarietà. E lui, Gil, totalmente spregevole, tagliava per vie traverse allo scopo di evitarlo, ligio agli ordini della moglie.

    Ne concluse che il suo faticoso arrangiarsi non serviva a niente, e approfittò d’un giorno d’inverno più umido degli altri per prendersi una piccola polmonite di quelle a buon mercato — neppure una polmonite doppia, ironizzò il dottor Carlos Passos — ed emigrare verso la zona astrale. Lo fece silenziosamente, con una tosse discreta e timida. Fosse stato un altro ce l’avrebbe fatta, avrebbe superato la malattia, poco più d’una banale influenza. Ma Gil era stanco, così stanco! Non aveva voglia d’aspettare una malattia rispettabile e grave. E poi non si faceva illusioni; le malattie importanti, di qualità, malattie alla moda, care, di cui i giornali parlano, non erano fatte per lui: meglio contentarsi della sua meschina polmonite. Così fece e, senza dir nulla, abbandonò il corpo, si mise a riposo.


    IV

    Da tempo dona Rozilda controllava con mano ferrea gli scarsi proventi delle rappresentanze del marito, consegnando ogni settimana al rappresentante i pochi spiccioli necessari per il tram e per il pacchetto delle sigarette «Aromatic»: un pacchetto ogni due giorni. Ma malgrado ciò il denaro economizzato bastò a malapena per le spese del funerale, dei vestiti a lutto, dei giorni di lutto stretto. Commissioni da ritirare sulle ultime vendite quasi non ce n’erano, una bagattella, e dona Rozilda si trovò con un ragazzino ginnasiale e due figlie giovinette da tirar su — delle quali Flor appena adolescente — e senza nessuna fonte di guadagno.

    Né perché la brava donna era quella che era, agra, rude, di convivenza sgradevole e difficile, non per questo si debbono negare od occultare le sue qualità, la sua decisione e forza di volontà, e tutto ciò che essa fece per completare l’educazione dei figli e mantenerli almeno nella posizione in cui li aveva lasciati l’improvvisa morte del marito, senza dover rotolar giù dalla Ladeira do Alvo, giù per angoli di strada, o per le sordide stanzucce dei casermoni del Pelourinho.

    Si attaccò alla casa con tutta la sua violenta ostinazione. Cambiar casa, traslocando di là per andare a vivere in un’abitazione più a buon mercato, avrebbe significato la fine di tutte le sue speranze d’ascesa sociale. Bisognava mantenere Heitor agli studi fino alla fine della scuola secondaria, poi impiegarlo e sposare le ragazze: sposarle bene. Ma per questo era necessario non scendere, non lasciarsi trascinare dalla povertà senza maschera, senza pudore né vergogna, esposta e sfacciata. Lei, dona Rozilda, si vergognava della povertà, come di un delitto che meritasse castigo.

    Doveva restare ad ogni costo nell’appartamento della Ladeira do Alvo. Questo spiegò al cognato, quando lui venne ad offrire in prestito le economie di dona Lita (che dona Rozilda restituì poi, soldo su soldo, sia detto a suo onore). Niente casa ad un fitto ragionevole nelle plaghe deserte del quartiere della Plataforma, né sottosuolo abitabile alla Lapinha, né una camera e salottino in subaffitto alle Porte del Carmine: si mantenne piantata alla Ladeira do Alvo, nella casa dall’affitto relativamente alto, specie per chi, come lei, non disponeva di entrate, né consistenti né scarse.

    Di là, dagli ampi balconi del primo piano, poteva guardare all’avvenire con fiducia: non tutto era perduto. Avrebbe modificato leggermente i suoi piani, senza peraltro desistere dalle sue pretese. Se avesse ceduto subito, abbandonando la casa ben messa, con tappeti e tende, per andare ad abitare in un ghetto qualsiasi, non le sarebbe stato più possibile nutrire speranze né illusioni. Avrebbe visto Heitor dietro il banco d’un negozio di alimentari o, al gran massimo, picco

    lo commesso di negozio, per tutta la vita; avrebbe visto le ragazze assoggettate allo stesso destino, se non addirittura garçonnettes di bar o caffè, esposte alla libidine di padroni e clienti, in cammino sicuro verso la zona del porto, verso l’orrore delle strade delle donne di vita. Di là, da quella casa poteva resistere a tutte le minacce. Abbandonarla avrebbe significato abbandonare la lotta.

    Per questo rifiutò l’offerta di un posto di commesso per Heitor, fatta da Antenor Lima. Così come non volle neppur discutere con Rosàlia, quando questa s’offrì d’accettare una specie d’impiego di reception girl o segretaria, alla «Foto Elegante», dove Andrés Gutiérrez, uno spagnolo bruno dai baffetti ben curati, sfruttava l’arte fotografica nelle sue forme più molteplici: dalle istantanee 3x4 per documenti (consegna in 24 ore) agli «incomparabili ingrandimenti a colori, vere meraviglie», passando per i ritratti dei più diversi formati e le foto per immortalare battesimi, matrimoni, prime comunioni ed altri eventi festivi, degni d’essere consegnati all’eternità ingiallita degli album di famiglia. Ovunque vi fosse una foto da scattare, compariva il Gutiérrez, con la sua macchina ed il suo aiutante, un chiacchierato cinese, tanto vecchio da non aver neppure più età, incartapecorito e sospetto. Circolavano strane voci, che erano giunte alle orecchie di dona Rozilda, sempre dritte per captare tali chiacchiere, a proposito di quell’Andrés, la sua «Foto Elegante», il suo aiutante e l’estensione dei suoi affari. Dicevano fossero di produzione della ditta certe cartoline che il cinese vendeva in busta chiusa, espressione sublime della più pura arte naturalistica, «nudi artistici» di grande successo. Per quelle foto, a detta delle comari, posavano ragazzine povere e facili, in cambio di qualche spicciolo. Di passaggio usava di loro l’Andrés e forse, chissà, anche il cinese: le beghine riportavano cose orripilanti su quell’atelier fotografico. Non c’è quindi da meravigliarsi se dona Rozilda saltò addosso alla figlia quando questa, entusiasta ed ingenua, le rivelò l’offerta dello spagnolo:

    «Se mi riparli di questa storia ti strappo la pelle di dosso, te ne dò tante che finisci all’ospedale...»

    Ad Andrés minacciò carcere e morte, sbattendogli sul muso tutte le relazioni influenti che aveva: venisse a stuzzicare sua figlia e avrebbe visto, gallego porco d’una figa, con tutte le sue zozzerie, il suo libertinaggio; lei, dona Rozilda, sarebbe andata alla polizia...

    Andrés, con la mosca al naso anche lui, caratteraccio di spagnolo, l’aveva ripagata della stessa moneta. Cominciò col puntualizzare che gallego era quel cornuto del padre di dona Rozilda: ma come, lui, mosso a compassione dalla situazione della famiglia dopo la morte del signor Gil, uomo educato e dabbene, meritevole d’una moglie migliore, veniva ad offrire un impiego alla ragazza che conosceva a malapena, al solo scopo di aiutarla, e come tutta ricompensa eccoti quella vacca isterica a gridare davanti alla porta del suo atelier, a minacciare dio e il mondo, inventando storie, calunnie miserabili? Se non chiudeva immediatamente quella latrina che usava come bocca (andasse all’inferno, e piuttosto alla svelta anche) a chiamare la polizia sarebbe stato lui, Andrés, cittadino rispettabile, con ditta propria, ossequiante alle leggi, in pari con le tasse; lui, andaluso di buon ceppo — e quella strega a chiamarlo gallego... indifferente alla disputa, il cinese si puliva le unghie con un fiammifero, unghie lunghe come artigli che, secondo le malelingue...

    Vere o non vere quelle storie eccitanti, dona Rozilda non aveva allevato le figlie, non le aveva tirate su abili nei lavori di casa e gentili, per gli appetiti di nessun Andrés Gutiérrez, andaluso, gallego o cinese poco le importava... le figlie erano ora il suo timone per cambiar rotta al destino; la sua scala per salire, per elevarsi. Rifiutò altri impieghi da gente meglio intenzionata, per Rosàlia e Flor: non voleva che le ragazze fossero esposte al pubblico e ai pericoli. Luogo adatto per le fanciulle è in casa, loro mèta il matrimonio — questo pensava dona Rozilda. Mandare le figlie dietro al banco d’un negozio o alla cassa d’un cinema, nella sala d’aspetto d’un medico o d’un dentista, significava arrendersi, confessare la propria povertà, metterla in mostra, piaga repellente e pestifera. Avrebbe fatto lavorare le ragazze, questo sì, ma in casa, alle faccende destinate loro in vista d’un futuro fidanzamento e matrimonio. Se prima lavori domestici e matrimonio occupavano un posto importante nei piani di dona Rozilda, essi si trasformavano ora nella chiave di volta dei suoi progetti.

    Quando Gil era vivo, dona Rozilda aveva progettato di mandare il figlio all’Università, di farne un medico, un avvocato, un ingegnere e, appoggiata al suo diploma di medico, diploma universitario, ascendere all’élite, brillare fra i potenti del mondo. L’anello professionale[21] splendente al dito di Heitor, sarebbe stata la chiave che le avrebbe aperto la porta della gente di alto bordo, di quel mondo chiuso e distante delle zone residenziali della Vitória, del Canela, della Graça. Insieme a questo, e sua diretta conseguenza, sarebbero venuti i bei matrimoni delle ragazze con colleghi del figlio, dottori di alto lignaggio e di grande avvenire.

    La morte di Gil rendeva inattuabile quel piano a lunga scadenza: Heitor era ancora al ginnasio, gli mancavano due anni per completare gli studi secondari — era rimasto indietro, aveva ripetuto qualche anno. Come fare a mantenerlo all’Università per altri cinque o sei anni, studi lunghi e costosi? Con sforzo e sacrificio si sarebbe potuto continuare a mandarlo a scuola — frequentava il ginnasio Statale di Bahia, statale e quindi gratuito — fino a quando non avesse completato il corso secondario. Con in mano il diploma del corso secondario, gli sarebbe stato possibile sfuggire ai miseri impiegucci del commercio, la vita intera passata a segnare il passo col metro in mano. Avrebbe potuto ottenere un posto in banca oppure, perché no? una sinecura ufficiale, un impiego statale con diritti e garanzie, gratifiche e aumenti, promozioni, abbuoni ed altri vantaggi. Per questo, dona Rozilda contava sulle sue relazioni influenti.

    Più non contava, tuttavia, sul titolo di dottore, l’anello, emblema della categoria, splendente — smeraldo, rubino o zaffiro — al dito del figlio, per raggiungere le sospirate altezze. Un peccato, ma non c’era nulla da fare; ancora una volta quel pezzo di sterco di suo marito le aveva rovinato i piani con quella sua morte idiota.

    Non poteva più, però, mandare a monte i suoi nuovi piani, ri- strutturati durante i giorni di lutto più stretto. In quei nuovi piani, la chiave maestra per aprire le porte del comfort e del benessere era il matrimonio, quello di Rosàlia e di Flor. Sposarle («sistemarle» diceva dona Rozilda) meglio che fosse possibile, con ragazzi di grande nome, progenie di famiglie distinte, figli di colonnelli[22] proprietari di terre, o di grossi commercianti (possibilmente all’ingrosso) — solidamente stabiliti, con denaro e credito in Banca. Se questa era la mèta da raggiungere, perché esporre le ragazze in impiegucci da quattro soldi, perché esibirle come poveracce la cui grazia e giovinezza malvestite avrebbero risvegliato nei ricchi e negli importanti unicamente gli istinti più bassi, i desideri peccaminosi, procurando loro proposte, certamente, ma di ben diversa natura da quella di un onesto fidanzamento e matrimonio?

    Dona Rozilda voleva le figlie in casa, riservate, ad aiutarla, col loro lavoro e col loro comportamento, a conservare quell’apparenza di benessere, a rinsaldare quella maschera di gente, se non opulenta, almeno abbastanza agiata e di buona educazione. Quando le ragazze uscivano, in visita a qualche famiglia amica, per le matinés domenicali al cinema, o per qualche festicciola in casa di amiche, andavano tutte in ghingheri, ben vestite, con l’aspetto illusorio di ereditiere ben abituate. Dona Rozilda era economa, contava fino gli spiccioli, ma non tollerava sciatteria nel vestiario delle figlie, neppure nell’intimità domestica. Le esigeva impeccabili, in grado di accogliere in qualunque momento il principe azzurro, quando questo si fosse presentato. A tale scopo dona Rozilda non risparmiava sforzi.

    Una volta Rosàlia fu invitata ad una festicciola per il compleanno della figlia più grande del dottor João Falcão, un pezzo grosso: palazzina con lumiere di cristallo, posaterie d’argento, camerieri in giacca bianca. Gli altri invitati, tutta gente fine, ricca da non saper che fare dei soldi, appartenente alla miglior società: bisognava vedere che lussi. Ebbene, Rosàlia ebbe un gran successo, era quella che si presentava meglio, la più chic; al punto che la gentile padrona di casa, dona Detinha, ne fece gli elogi:

    «La più bella di tutte... Rosàlia, deliziosa... una bambola...»

    Sembrava effettivamente la più ricca ed aristocratica di tutte. Eppure là si trovavano le ragazze più ricche e di miglior famiglia della crème locale: figlie di laureati e medici, alti funzionari e banchieri, grossi commercianti e negozianti. Col suo colorito olivastro, soave e pallido, era la più autenticamente bianca di tutte quelle bianche raffinatissime, baiane pure in tutti i toni del bruno, detto qui fra noi — e che nessuno ci senta — meticce della più fine e bella qualità mulatta!

    Nessuno, vedendola così elegante, avrebbe immaginato che quel vestito, il più elegante della festa, fosse opera sua e di dona Rozilda: il vestito e tutto il resto, non escluso un paio di scarpe vecchie trasformate in un capolavoro di raso. Fra le abilità di Rosàlia la più eminente era il cucito: tagliava e cuciva, ricamava e lavorava a maglia.

    Sì, erano loro, le ragazze, con le loro molteplici attività, sotto la ferrea direzione di dona Rozilda, le autrici di quel miracolo di sopravvivenza: Heitor intento a terminare il ginnasio, l’affitto dell’appartamento del primo piano pagato sempre alla scadenza, così come le rate della radio e del fornello nuovo, e per di più qualche soldo messo da parte per terminare il corredo delle ragazze, per gli abiti di nozze, il velo, il diadema di fiori; così che lenzuola e federe, camicie e sottovesti, s’andavano a poco a poco accumulando nei bauli.

    Erano loro, le ragazze. Rosàlia a pedalare alla macchina cucendo per fuori, tagliando abiti, ricamando bluse raffinate. Flor da principio preparando vassoi di dolci e salatini per qualche festicciola familiare, piccole riunioni, compleanni, prime comunioni. Se il cucito era il forte di Rosàlia, la cucina era il debole della sorella più giovane: aveva per natura la scienza del punto giusto di cottura, il dono di saper scegliere gli ingredienti. Fin da bambina faceva torte e manicaretti, sempre intorno ai fornelli ad imparare i misteri dell’arte suprema con zia Lita, donna esigente. Lo zio Pòrto, a parte la pittura domenicale, non aveva altri vizi se non il gusto per la buona cucina. Era un frequentatore di carurus[23] e sarapateis,[24] perso dietro a una buona feijoada[25] o un buon lesso con molte verdure. Dai vassoi di sfogliatelle e polpettine, dalle ordinazioni per i pranzi del vicinato, dona Flor avrebbe preso l’avvio per la compilazione di ricette, per le lezioni e, finalmente, per la Scuola di Culinaria.

    Una delle ragazze alla macchina, a tagliare e cucire, l’altra in cucina ai fornelli, dona Rozilda al timone, proseguivano la traversata. Modestamente, mediocremente, in attesa dei cavalieri erranti che sarebbero apparsi d’improvviso, durante una festa o una passeggiata, coperti di denaro e di titoli. Il primo avrebbe rapito Rosàlia, il secondo avrebbe condotto via Flor, ambedue al suono della marcia nuziale, verso l’altare e il lieto mondo dei potenti. Rosàlia per prima perché era la più grande.

    Pertinace dona Rozilda stava in vedetta, aspettandosi di veder spuntare all’angolo quel genero d’oro e d’argento tempestato di brillanti. A volte la prendeva lo scoraggiamento: e se il principe incantato non fosse mai venuto? Era già tempo che si facesse vedere, non si poteva aspettare tutta la vita, le ragazze stavano arrivando all’irrequieta età del maschio. Rosàlia, vent’anni sciorinati in sospiri alle finestre, stufi del pedale della macchina da cucire, reclamava con urgenza quel duca, quel conte, quel barone. Quando aveva intenzione di venire a liberarla? Un così gran ritardo, un’attesa così faticosa che Rosàlia non avesse a trovarsi d’improvviso negletta e dimenticata, zitellona, donzella incallita, con quell’odore inacidito di verginità stantia, cui alludeva sorridendo il bonario zio Pòrto, ogni volta che si burlava dei pruriti aristocratici della cognata.

    Di tanto in tanto Rosàlia se lo figurava l’atteso pretendente: alle feste da ballo più esclusive, durante le visite a casa dello zio Pòrto al Rio Vermelho, in matinés al cinema, oppure al volante d’una piccola automobile veloce; tutto in bianco in una domenica di regate, universitario dalla goliardia scatenata o studioso dalle braccia cariche di grossi volumi di scienza; agile nelle acrobatiche figure d’un tango argentino danzato con perfezione; romantico al suono d’una serenata notturna.

    Anche dona Rozilda aspettava, aumentava d’impazienza: quando, quando sarebbe arrivato lui, il genero annunziato, il milionario, il lord, il dottore in toga e tocco, il commerciante della città bassa, il piantatore di caffè o tabacco, il proprietario di negozio, e sia pure anche di merceria; nella peggiore delle ipotesi il laborioso straniero col suo negozio di pizzicagnolo, quando?

     

    V

    Tanto tempo aspettarono: settimane, mesi, anni, così ben messe ed accomodate, e nessun cavaliere si fece vivo; né giovani aristocratici della Barra o della Graça, né figli di colonnelli del cacao; nessun signore del commercio più raffinato e neppure un portoghese arricchito nel duro lavoro della drogheria o della panetteria. Chi si presentò, invece fu Antonio Morais, con la sua officina meccanica, la sua abilità di autodidatta, la sua onesta tuta macchiata di grasso. Arrivò al momento giusto e perciò fu ben accolto. Già Rosàlia piangeva lacrime di fanciulla condannata alla solitudine e alla bigotteria, dona Rozilda non ebbe la forza di opporsi. Non era quello il genero prefigurato durante le lunghe veglie di lavoro alla macchina da cucire o nel calore dei fornelli. Tuttavia non poteva più, con considerazioni varie o con la sua ira minacciosa, trattenere l’impeto frustrato di Rosàlia, con i suoi venti (e passa) anni fiorenti che reclamavano un marito.

    Inoltre, pur se Antonio Morais non era né ricco né importante, tuttavia almeno non dipendeva da un padrone, aveva una piccola officina in proprio con buona clientela, guadagnava abbastanza da poter mantenere moglie e figli. Dona Rozilda s’inchinò dinanzi ai decreti del destino. Un po’ a forza, ma s’inchinò, che altro poteva fare?

    A quell’epoca, grazie all’intervento del suo padrino, dottor Luis Henrique, Heitor aveva già avuto il posto alle Ferrovie di Nazareth, ed era andato a vivere nella piccola città del Recôncavo, da dove solo raramente si muoveva per venire nella Capitale. L’impiego offriva buone prospettive, dona Rozilda non aveva di che preoccuparsi per lui. Anche Flor aveva cominciato a dar lezioni di culinaria a ragazze e signore, guadagnando denaro e fama di ottima insegnante. Ora era lei che sosteneva la maggior parte delle spese di casa, perché Rosàlia, spaventata dal correre del tempo, spendeva tutto ciò che guadagnava in abiti, scarpe, profumi, trine.

    Antônio Morais aveva notato Rosàlia alla matiné del cinema Olimpia, in un giorno di avanspettacolo quando, oltre ai due film e al filmetto a puntate, l’impresario, il signor Motta, presentava al suo pubblico alcuni artisti di passaggio da Bahia, resti di troupes di guitti dissolte durante qualche tournée in provincia, stelle affamate dalla luce offuscata. Mentre «Mirabel, sogno sensuale di Varsavia», polacca veneranda rotta a tutte le guerre, a tutte le ribalte, ai letti di tutte le «case», agitava un antico deretano avvizzito, per maggior gaudio degli adolescenti ivi convenuti ad educarsi, Antonio Morais avvistò nelle prime file dona Rozilda, con le due figlie: Rosàlia nel pieno della sua eccitata attesa, Flor dai seni e le anche appena sbocciami.

    Non più il meccanico ebbe occhi per il logorato sculettare del «sogno di Varsavia». Lo sguardo petulante di Rosàlia incrociò la sua occhiata supplice. All’uscita il giovane accompagnò a prudente distanza madre e figlie, localizzando l’abitazione borghese della Ladeira do Alvo. Rosàlia comparve un istante sul balcone. Lasciò dietro di sé, svolazzante, un sorriso.

    Il giorno seguente dopo pranzo Antonio Morais penava su e giù per l’Erta, si attestava sul marciapiede di fronte alla casa. Dalla finestra occhieggiava Rosàlia, incoraggiante. Il meccanico passeggiava su e giù, gli occhi incollati al balcone, fischiettando. Dopo un po’ Rosàlia, scortata da Flor, apparve sulla scala. Col passo furtivo d’un predone s’accostò il Morais.

    Dona Rozilda, sempre all’erta, già al cinema s’era accorta della manovra. E vedendo Rosàlia focosa e indocile era andata a chiedere informazioni sul tipo. Antenor Lima lo conosceva, fornì notizie concrete e favorevoli: meccanico abilissimo, officina propria al- Galés, un mostro sul lavoro. Ancora bimbo, a nove anni, Antonio Morais aveva perso padre e madre in un incidente d’autobus, s’era trovato solo in mezzo ad una strada. Ma invece d’unirsi ai piccoli delinquenti dell’arenile e partire alla ventura per una vita di vagabondaggio e d’illegalità, s’era messo a servizio di Pié di Mola, un negro più alto della Cattedrale, meccanico di mestiere e brav’uomo. All’officina il ragazzino faceva un po’ di tutto, utensile per tutti i servizi, intelligente come non ce n’era un altro. Senza un salario fìsso, ma col diritto di dormire in officina, per non parlare delle mance alcune delle quali consistenti. Da solo aveva imparato a leggere e scrivere, con Pié di Mola aveva imparato il mestiere, ed ancora giovane aveva cominciato a lavorare per conto proprio, facendo del lavoro straordinario. Aveva le mani agili ed una buona testa: i motori delle macchine non avevano segreti per lui, per la sua curiosità. Non era certo né un dottore né un figlio di famiglia ricca, ma pochi meccanici potevano gareggiare con lui. Aveva un guadagno sicuro, sarebbe stato un ottimo marito, che diavolo poteva pretendere di più Rosàlia, che non era né una principessa né una proprietaria di terreni da cacao? Questo chiedeva senza tanti complimenti il Lima alla vicina attaccabrighe e brontolona.

    Altri conoscenti confermarono l’ampia cronaca del commerciante e dona Rozilda, dopo essersi consigliata col compare, dottor Luís Henrique, un ruybarbosa[26] di sapienza — consigli inestimabili i suoi — e dopo aver lungamente pesato i prò e i contro, decise a favore del meccanico.

    Non era quello, come andava ripetendo, il genero dei suoi sogni, il principe di sangue nobile dai forzieri pieni d’oro. Sangue nobile il Morais ne aveva ereditato soltanto da un antenato distante, Obitikò, principe africano sbarcato a Bahia da una nave negriera: sangue blu che si sarebbe mischiato col sangue plebeo di portoghesi deportati e mercenari olandesi. Dal miscuglio era venuto fuori un mulatto chiaro dal sorriso facile, un moretto simpatico.

    Quanto ai forzieri d’oro, nella calza dei risparmi del meccanico non c’era neanche abbastanza per metter su casa immediatamente. Ma Rosàlia s’era barricata nella sua così lungamente desiderata passione; non accettava neppure che si discutessero le oscure origini, l’onesto lavoro e le scarse economie del giovanotto, e di fronte a quella Rosàlia spinosa, dalle risposte insolenti e il broncio facile, dona Rozilda si arrese. Fu così che alla quarta o quinta apparizione notturna del Morais, — tutto inamidato, in bianco, il cappello inclinato su di un occhio, scarpe a due colori, irresistibile — lo interpellò.

    I  due amorosi se ne stavano rapiti, gli occhi negli occhi, la mano nella mano, dicendosi le solite cretinerie quando, inattesa e inquisitoria, dall’ombra della scala irruppe dona Rozilda, dura voce terrorista:

    «Rosàlia, cara, mi vuoi presentare al signore?»

    Fatte le presentazioni — Rosàlia che inciampava nelle parole, il Morais tutto intimidito, — dona Rozilda partì immediatamente all’attacco, senza complimenti né discrezione:

    «Le mie figlie non amoreggiano sulle scale o negli angoli bui, non escono da sole a passeggio con gl’innamorati; non allevo le figlie per il divertimento di nessun poco di buono, io...»

    «Ma io...»

    «Chi vuol parlare con mia figlia deve prima dichiarare le sue intenzioni.»

    Antonio Morais riaffermò la purezza matrimoniale delle sue: non era più un ragazzino per abusare delle figlie del prossimo. Prontamente e con modestia rispose al minuzioso interrogatorio, mediante il quale dona Rozilda cercava conferma alle informazioni ricevute, specie quelle concernenti le entrate dell’offìcina.

    Il meccanico fu promosso: ufficialmente permessa la sua presenza notturna alla porta di casa, presso la quale, a partire da quella conferenza a tre, Rosàlia lo avrebbe aspettato seduta su una sedia. Alla finestra dona Rozilda, per il controllo della morale di famiglia: le sue figlie non erano fatte ad uso di nessun vagabondo. Così, quando Morais allungava la mano tenera verso la tenera mano della fanciulla, eccoti, sputato dall’alto da dona Rozilda in tono di rimprovero, un:

    «Rosàlia!»

    Con questo sistema affrettò il fidanzamento, essendo Morais desideroso di maggior libertà, di un’intimità meno vigilata. Come fidanzato, cominciò a frequentare la casa, ad uscire con Rosàlia per le matinés della domenica, portandosi dietro come contrappeso Flor, che aveva ordini severissimi di vigilare e controllare gl’innamorati, impedendo sbaciucchiamenti ed altre manifestazioni. Ma Flor non era nata per fare lo sbirro; comprensiva e solidale voltava le spalle alla sorella e al futuro cognato, s’immedesimava nel film masticando dolciumi, lasciando in pace i fidanzati con la loro urgenza di ritrovarsi, bocche e mani affaccendate.

    Durante l’amoreggiamento e il fidanzamento dei due giovani, dona Rozilda si mostrò amabile quanto più potè, nascondendo i lati più agri del suo carattere. Aveva necessità di sposare le figlie, Rosàlia aveva raggiunto il limite d’età; ragazze in cerca di marito ce n’erano d’avanzo, scarsi invece i giovanotti disposti al matrimonio. Ardua battaglia, quella per sposare le figlie, dona Rozilda ben lo sapeva. Le sue conoscenti, quasi tutte, consideravano il meccanico un buon partito. Anzi una di loro, una certa dona Elvira, madre di tre donzelle incartapecorite e cispose, destinate al celibato definitivo, aveva perfino scatenato le tre racchione addosso al pretendente, ad assediarlo con sorrisi ed occhiate promettenti: mancava solo che lo trascinassero al letto, quelle tre maneggione scostumate. Per di più Morais era un tipo lavoratore e morigerato, dopo il matrimonio alla suocera non sarebbe stato difficile comandado a bacchetta, dirigerlo a piacer suo. In questo, tuttavia, sbagliò i suoi calcoli: il genero le avrebbe riservato una sorpresa.

    Fu così che la verità su dona Rozilda, l’artigiano venne a conoscerla solo dopo il matrimonio. Avevano deciso d’abitare tutti insieme al primo piano della Ladeira do Alvo, soluzione economica e sentimentale ad un tempo, visto che così avrebbero speso meno e sarebbero stati insieme ed altro non sembravano desiderare Morais e dona Rozilda se non continuare a vivere insieme per sempre. Rosàlia s’era opposta a questi piani temerari: «chi sposa vuol casa», ricordava; ma come resistere a quella luna di miele fra la madre e il fidanzato?

    Non durò sei mesi, la luna di miele; si ruppe il patto solenne, visto che, come informò il genero, «solo Cristo riuscirebbe a sopportare di vivere con dona Rozilda e non è neppure del tutto sicuro; sarebbe stato opportuno provare per vedere se lo stesso Nazareno avesse capacità sufficienti, ché forse neppure lui ce l’avrebbe fatta a sopportarla».

    Traslocarono ai confini del mondo, nel Cabula, quasi zona rurale. Morais preferiva ancora affrontare quel tram lungo lungo e lento (un viaggio che non finiva mai), che ogni poco usciva dalle verghe, eternamente in ritardo; preferiva alzarsi all’alba per poter arrivare in orario all'’officina situata nella vicinanze della Ladeira dos Galés; entrare per quelle macchie impraticabili, dove sibilavano i serpenti a sonagli, e tutti i diavoli evocati dai molti candomblé delle vicinanze se n’andavano liberi per strada facendo miserie, piuttosto che sopportare la convivenza con la suocera. Meglio i serpenti e i diavoli.

    Al primo piano della Ladeira do Alvo erano rimaste solo Flor adolescente, in via di trasformarsi in una bella ragazza dal viso delicato, i seni alti, le anche fiere, e dona Rozilda, una Rozilda di giorno in giorno più agra, limitata ora alle grazie e abilità di quell’unica figlia rimasta, che rappresentavano i suoi ultimi atout nella battaglia per l’ascesa sociale, battaglia già tante volte persa.

    Non aveva tuttavia perduto la resistenza, la ferma volontà di elevarsi, di calcare i gradini che l’avrebbero condotta al mondo dei ricchi. Nelle sue notti faticose d’insonnia (dormiva poco, restava sveglia a ruminar progetti) aveva deciso di non concedere la figlia più giovane a nessun altro Morais.

    Destinava Flor a un partito migliore, a un giovane di qualità, a un bianco di famiglia fine; ad un dottore, un laureato, oppure ad un ben avviato commerciante. Avrebbe difeso quell’ultima trincea con le unghie e coi denti, non si sarebbe ripetuto ciò che era accaduto con Rosàlia. Non solo Flor era molto più docile e sottomessa, ma per di più non temeva, come Rosàlia, di restare zitella. Non parlava di matrimonio, non si ribellava alla madre quando questa le proibiva di amoreggiare con impiegatucci, rappresentanti d’articoli di merceria, garzoni di panetteria. Obbediva senza protestare, non si ribellava urlando, non si rinchiudeva in camera minacciando il suicidio, con un muso lungo così, come faceva Rosàlia ogni volta che dona Rozilda, preoccupata per il suo avvenire, le proibiva qualche amorazzo da quattro soldi.

    Risultato: s’era sposata con quella mezza calzetta del Morais, un signor Nessuno, neppure rappresentante: un artigiano, un semplice operaio, che orrore. Socialmente parlando ancor meno importante di loro. Poteva anche essere un colosso sul lavoro, poteva guadagnare, essere un buon marito, un allegro compagno, la verità, tuttavia, era che sua figlia, anziché avanzare nella scala sociale, era scesa più in basso; o almeno così pensava con amarezza dona Rozilda, che ambiva a ben altre altezze. Con Flor era differente, l’errore non si sarebbe ripetuto.

    Mentre dona Rozilda metteva a punto i suoi piani, Flor si faceva una buona fama come maestra d’arte culinaria, specializzata in cucina baiana. Aveva avuto da madre natura il dono di saper scegliere gl’ingredienti, occupata fin da bambina fra ricette e sughi, imparando a fare piatti fini nel campo del dolce come in quello del salato. Da tempo riceveva ordinazioni per piatti baiani, era regolarmente chiamata ad aiutare nella preparazione di vatapa[27] ed efó,[28] di moquecas e xinxin,[29] per non parlare del famoso caruru di San Cosma e Damiano, come quello che si faceva in casa di sua zia Lita, o da dona Dorothy Alves, che serviva decine d’invitati, restando ancora di che dar da mangiare ad altrettante persone. Caruru tutti gli anni, per voto fatto agli spiriti mabaças, agli ibejes.[30] Col tempo il suo nome cominciò ad essere conosciuto; venivano a chiederle ricette, la invitavano in case ricche perché insegnasse il giusto punto di cottura e gli ingredienti della salsa di qualche piatto particolarmente diffìcile. Dona Detinha Falcão, dona Ligia Oliva, dona Laurita Tavares, dona Ivany Silveira ed altre «signore di rappresentanza», della cui amicizia dona Rozilda si vantava, la raccomandavano alle loro amiche; Flor non sapeva più dove mettere le mani. Fu una di quelle signore snob e danarose a darle l’idea della scuola: nel pagarle il suo lavoro di ricette e lezioni pratiche, sottolineò che stava remunerando l’ottima maestra e la buona amica, non gratificando una cuoca. Gentili sfumature di dona Luisa Silveira, sergipana, discendente d’una grande famiglia, piena di raffinatezza e di classe.

    Facendo le cose seriamente e con la scuola montata, Flor cominciò a dar lezioni solo dopo la partenza di sua sorella Rosàlia e Morais. Il meccanico aveva deciso che la distanza fra il Cabula e la Ladeira do Alvo non era ancora sufficiente, e preferito porre fra la propria casa e quella della suocera addirittura l’Oceano. Aveva ormai un sacro orrore di dona Rozilda, «quella», diceva, «è peste, fame e guerra».

    La scuola ebbe subito successo: perfino signori del Canela e del Garcia, e perfino della Barra, vennero da lei a svelare i misteri dell’olio dolce[31] e dell’olio di dendê. Una delle prime a venire fu dona Magà Paternostro, una riccona piena d’amici, propagandista entusiasta delle abilità di Flor.

    Il tempo correva, passavano gli anni, Flor non aveva fretta di trovarsi un fidanzato: ora era dona Rozilda che cominciava a preoccuparsi: in fin dei conti la figlia più giovane non era ormai più una bambina. Flor si stringeva nelle spalle: solo la scuola le interessava realmente. Il fratello, durante una delle sue visite, le aveva disegnato un’insegna ad inchiostri di vari colori — tutti elogiavano la sua abilità nel disegno — e l’aveva appesa al balcone:

    Scuola di culinaria sapore e arte

    Fleitor aveva letto sul giornale un lungo articolo a proposito di una certa scuola «Sapere e Arte», frutto dell’esperienza d’un tizio venuto dagli Stati Uniti, un certo Anisio Teixeira. Con il semplice cambio d’una lettera aveva adattato il titolo di moda alle esigenze di sua sorella. Accanto alle lettere svolazzanti dell’insegna, un cucchiaio, una forchetta ed un coltello, artisticamente disposti a treppiede, completavano l’opera dell’artista. (In un’epoca come la nostra, Heitor avrebbe potuto già programmare un’esposizione personale e la vendita dei suoi quadri ad un prezzo interessante; ma erano altri tempi ed il funzionario della Ferrovia si contentò degli elogi di sua sorella, di sua madre e di una delle alunne di Flor, una tale dagli occhi liquidi che rispondeva al nome di Celeste.)

    Le lezioni di culinaria fornivano il necessario per la casa, per le limitate spese di madre e figlia, ed anche per qualche economia in vista d’un futuro matrimonio. Ma soprattutto esse occupavano il tempo di Flor, la liberavano per un po’ da dona Rozilda, col suo costante ritornello su quanti sacrifici le fosse costato allevare ed educare i figli, allevare ed educare quella sua figlia minore, su quanto fosse necessario ora trovare un marito ricco che la tirasse fuori di li, dalla Ladeira do Alvo e dai fornelli, per trasportarla verso le delizie della Barra, della Graça, della Vitória.

    Ma Flor non sembrava occuparsi di amoreggiamenti e fidanzati. Alle feste danzava con questo e con quello, ascoltava le frasi galanti, sorrideva ringraziando, ma niente più. Non rispose neppure agli appelli appassionati d’un laureando in medicina, un paraense allegro, festaiolo e ben vestito. Non gli diede corda, malgrado l’eccitazione di dona Rozilda: finalmente uno studente, per di più quasi dottore, che aspirava alla mano di sua figlia.

    «Non mi piace,» dichiarò Flor perentoria, «è brutto come il diavolo.»

    Non ci fu consiglio né scenata di dona Rozilda furibonda che servisse a farle cambiare idea. La madre entrò in panico: non si sarebbe ripetuta la stessa storia di Rosàlia, visto che Flor si rivelava uguale alla sorella, ostinata, intenzionata a decidere per conto suo qual era il fidanzato e il marito che voleva? Mentre lei credeva d’avere nella figlia più giovane la copia esatta del carattere del povero Gil, sempre ossequiante alla sua volontà, eccoti che invece quella si metteva a prendere in antipatia il dottorino alla vigilia della laurea, figlio di padre latifondista del Pará, proprietario di navi e isole, di piantagioni di gomma e castagne,[32] tribù di indios selvaggi e fiumi immensi. Incorniciato d’oro! Dona Rozilda si era lanciata a raccogliere informazioni e, dopo aver parlato con alcuni conoscenti, già si vedeva in Amazzonia, regina d’un vasto territorio, a dare ordini e contrordini a indios e caboclos.[33] Finalmente era arrivato il principe azzurro, la sua attesa non era stata vana, né il suo sacrificio male speso. Su di un battello fluviale del Rio delle Amazzoni avrebbe fatto vela verso le case superbe dei quartieri residenziali della Barra, le palazzine esclusive della Graça, i cui padroni l’avrebbero corteggiata pieni di salamelecchi e complimenti. Flor sorrideva col delicato visino color del tè, sorrideva con le graziose fossette delle guance, con gli occhi meravigliati, ripeteva con voce stanca, voce schizzinosa e distante:

    «Non mi piace... è più brutto della miseria.»

    «Che diavolo si pensava?» dona Rozilda cominciava ad arrampicarsi sui vetri. Flor agiva come se il matrimonio fosse stato una questione di piacersi o non piacersi, come se esistessero uomini belli e brutti, come se i pretendenti come Pedro Borges si vedessero a dozzine per la Ladeira do Alvo.

    «L’amore viene con la convivenza, cara contessa della titica, viene con la comunione d’interessi, con i figli. Basta che non ci sia antipatia. Ce l’hai con lui?»

    «Io? No, Dio ci liberi. Anzi, lo trovo un bravo ragazzo. Ma io mi sposo solo con qualcuno che amo... Quel Pedro sembra un bestione da tanto è brutto...» Flor divorava i romanzetti della Biblioteca delle Giovinette, provava un’inclinazione speciale per i giovani poveri ma belli, biondi ed insolenti.

    Dona Rozilda schiumava di rabbia e di eccitazione, la voce strozzata che trasvolando sulla strada portava ai vicini echi della disputa: «Brutto! Ma quando mai è esistito un uomo brutto o bello? La bellezza di un uomo, infelice, non sta nella faccia, ma nel carattere, nella posizione sociale, nel patrimonio che ha. Quando mai s’è sentito dire che un uomo ricco sia brutto?

    Quanto a lei, non avrebbe scambiato Borges, benché bruttino (e in fondo non era poi così orribile, un tipo alto e forte — la faccia magari un po’ foruncolosa, questo sì) con tutti quei ragazzotti sfacciati ed insolenti del Rio Vermelho, senza un soldo in tasca, senza un posto dove cascar morti; dei veri vagabondi. Il dottor Borges (gli anticipava il titolo) era un ragazzo perbene, si vedeva subito dai modi, proveniva da una famiglia distinta del Parà, distinta e ricca. Lei, dona Rozilda, aveva saputo che la loro casa di Belém era un vero palazzo: solo di servitori ce n’erano più di dodici — una dozzina, capisci, figlia sconoscente, capricciosa e sciocca, oltre che fatua ed irragionevole. Tutti i pavimenti di marmo, di marmo anche le scale. Gesticolava, teatrale:

    «Quando mai s’è visto che un uomo ricco sia brutto?»

    Flor sorrideva, le fossette del viso erano uno splendore; non aveva fretta di sposarsi. Tappava la bocca alla madre:

    «Parli come se fossi una donnaccia che misura gli uomini per il denaro che hanno... non mi piace e basta.»

    La lotta fra dona Rozilda, irritata e irritante, presa da un nervosismo di malata, e Flor serena come se niente fosse successo, tenzone di cui il Borges rappresentava la causa e il premio in palio, raggiunse il culmine alla consegna dei diplomi ai laureati di quell’anno. Il dottorino le aveva invitate alla cerimonia e al ballo che seguiva.

    Per la cerimonia, nell’Aula Magna dell’Università, dona Rozilda si vestì da suocera, tutta chiusa in un’armatura di taffetas, maestosa come un tacchino che facesse la ruota, sorridente perfino dalle gale delle maniche, un pettine spagnolo infilzato nella crocchia. Al ballo Flor splendeva tutta trine e tulle, non si fermò un momento, non perse una sola contraddanza, tanti furono i cavalieri ad invitarla. Ma neppure allora dette speranza al neo-dottore.

    E neppure quando, alla vigilia della partenza per la lontana Amazzonia, lui venne a farle visita, in compagnia del padre per far migliore impressione. Si chiamava Ricardo, il pezzo grosso paraense, un gigante con un vocione da temporale, le dita coperte di anelli. Dona Rozilda per poco non sviene alla vista di tante pietre preziose. C’era un diamante smisurato, doveva valere almeno cinquanta milioni, ahi mio Dio!

    Il vecchio parlò delle sue terre, degli indios civilizzati, delle piantagioni di gomma, delle leggende del Rio delle Amazzoni. Parlò anche della sua felicità nel vedere il figlio dottore, col diploma di medico. Ora non gli restava più da desiderare che il vederlo sposato con una brava ragazza, modesta e sincera; non gl’importava che avesse denaro, denaro ne aveva fatto abbastanza lui — muoveva le dita e i brillanti sfolgoravano, illuminando il salotto. Voleva una nuora che gli desse nipoti e nipotini che riempissero col loro chiasso e il loro calore l’austera casa di marmo, dove il vecchio Ricardo, vedovo, aveva vissuto da solo per tutti quegli anni che Pedro aveva studiato all’Università. Parlava e guardava Flor come in attesa di una parola, di un gesto, di un sorriso: se quello non era il preambolo per una formale domanda di matrimonio, dona Rozilda non capiva più niente di tali argomenti. Tremava, di commozione e d’ansia: era dunque giunto il momento benedetto, mai prima d’allora era stata così vicina al suo obiettivo; fissava quella scioccherella di sua figlia, aspettando un cenno d’assenso, timido ma entusiasta. Ma Flor disse solo, con la sua voce sognante:

    «Non mancherà certo una bella e brava ragazza per sposarsi con Pedro, che se la merita. Vorrei solo che il matrimonio si facesse qui a Bahia per preparare io stessa il banchetto.»

    Pedro Borges ripose senza rancore l’anello d’oro già comperato, il vecchio Ricardo si schiarì la gola, cambiò argomento. Dona Rozilda si sentì male, boccheggiante, il cuore al galoppo. Uscì dal salotto in uno scatto indignato, temeva che le venisse un accidente. Desiderò vedere la figlia morta e sepolta, quell’ingrata scioccona, idiota, nemica della propria madre, maledetta! Come s’azzardava a rifiutare la mano del dottore — questa volta realmente dottore, del ragazzo ricco, futuro erede di isole, fiumi e indios, di tutti quei marmi, degli anelli sfolgoranti, ahi come s’azzardava, quella bastarda sciagurata?

    Ah! che muro di odio e inimicizia, d’incomprensione incapace di perdono, di rancore insormontabile, si sarebbe alzato allora fra madre e figlia, unite per sempre e per sempre separate se, all’inizio del nuovo anno, poco dopo la partenza del rifiutato Borges, non fosse spuntato all’orizzonte Vadinho! Ché, in confronto ai titoli, alla posizione, al patrimonio di Vadinho — dona Rozilda era stata ampiamente e dettagliatamente informata dallo stesso Vadinho e da certi amici suoi — il paraense altro non era che un poveraccio, con tutti i marmi del suo palazzo ed i suoi dodici servi. Un indigente, malgrado tutta la sua terra e la sua acqua.

     

    VI

    Con un breve e cortese inchino, Mirandão, il viso splendente di cordialità, chiese permesso e si sedè vicino a dona Rozilda. Le sedie di paglietta di Vienna erano accostate al muro. Lo studente cronico («perseverante» correggeva lui, alludendo ai suoi sette anni di agraria) allungò le gambe, s’aggiustò con cura la piega dei pantaloni, esaminando le coppie che con applicazione danzavano un tango: figure difficili, passi quasi acrobatici. Sorrise con aria d’approvazione: nessun ballerino era paragonabile a Vadinho, nessuno aveva la sua classe, Dio lo benedica e lo liberi dal malocchio — e vade retro! — Mirandão era superstizioso. Mulatto chiaro sui ventott’anni, la figura più popolare delle «case» e delle bische di Bahia.

    Sentendo lo sguardo di dona Rozilda che seguiva il suo, si volse verso di lei, aprendo ancor di più il sorriso cattivante, esaminandola allo stesso tempo con occhio critico per valutarla. «Un budello senza speranza,» concluse alla fine con tristezza, niente da fare. Non era per via dell’età. Da tempo nel codice che regolava i rapporti di Mirandão con le donne, esisteva un paragrafo che affermava nessuna dover essere mai disprezzata perché matura o vecchia, a scanso di errori fatali. Le donne già oltre i cinquanta mantenevano a volte una forma e una giovinezza ammirevoli, erano capaci di performances sorprendenti, d’incredibili record. Lo sapeva per sua esperienza diretta e ancora adesso, osservando l’ammasso di macerie di dona Rozilda, ricordava lo splendore crepuscolare di Célia Maria Pia dos Wanderleys e Prata; tutti questi nomi per designare un donnino alto così, signora di grande lignaggio, piccola, impertinente e scavezzacollo. A più di sessantanni confessati, ancora attivamente occupata a mettere una foresta di corna al marito e agli amanti, insaziabile. Nipoti già di mezz’età, bisnipoti in età da marito, e lei a fare la carità

    e che carità, da quell’ardente e magnanima femmina che era — a giovani studenti bisognosi. Mirandão abbassò le palpebre per non vedere la sua vicina, carcassa senza rimedio né scampo, ed anche per meglio ricordare gl’indimenticabili furori uterini di Célia Maria Pia dos Wanderleys e Prata, nonché i bigliettoni da cinquanta e da cento che lei, grata, ricca e spendacciona, gl’infilava di nascosto nelle tasche della giacca. Ah, bei tempi quelli! Mirandão che s’iniziava agli studi ed ai misteri della vita, matricola della Facoltà di Agraria e nottambulo, e Maria Pia dos Wanderleys che nelle rughe del collo e nelle zone accidentate usava autentico profumo francese.

    Riapri gli occhi sulla sala, sentendo ancora nelle nari il profumo della nonnetta indimenticabile. Accanto a lui, il rottame dalla faccia di strega — guance cascanti, capelli a crocchia — continuava a fissarlo con i suoi occhietti. Un vero spauracchio; sotto le sottane si doveva sentire un lezzo di carne passata; Mirandão aspirò rapido i resti del profumo francese delle sue distanti memorie. Ah, nobile Wanderleys, dove sei tu, ormai settuagenaria? Quella vecchia sulla sedia, che zoticaccia senza misericordia!

    Ma, educato come si pregiava di essere, lo studente permanente d’agraria non smise di sorridere a dona Rozilda. Una racchiona, una vecchia barcaccia, un resto di pesce secco, inutilizzabile per qualsiasi azione o pensamento lubrico, ma non per questo meno degna di rispetto e considerazione, esausta madre di famiglia, probabilmente vedova; e Mirandão era in fondo un moralista, dirottato verso le case da gioco. Per di più, era giunto il suo momento d’euforia.

    «Festa animata, non trova?» chiese a dona Rozilda, dando inizio allo storico dialogo.

    Era sempre così, ad ognuna delle sue frequenti sbronze. All’inizio aveva quella fase di giubilo sfavillante. Gli pareva che il mondo fosse perfetto, la vita allegra e facile: in quei momenti Mirandão sapeva tutto comprendere, tutto apprezzare. Si stabiliva fra lui e le altre creature un clima di comunione totale: perfino fra lui e quella zotica puzzolente sua vicina di sedia. Diventava cortese, buon conversato- re, la fantasia in eruzione, senza limiti. La figura dello studente povero, «eterno studente eternamente al verde» che s’era costruito, e di cui viveva, cedeva il posto a quella dell’uomo giovane, importante e vittorioso, promosso ad ingegnere agronomo, quando non addirittura a libero docente della Facoltà di Agraria, che passava di promozione in promozione e conquistava centinaia di donne. Si faceva in quattro a raccontare i suoi successi, e come raccontava! Era un maestro della narrativa orale, un creatore di tipi e di suspense, un classico della buona prosa.

    Se però le bevute continuavano, verso la fine della notte quell’ottimismo e quell’euforia sfumavano e alla fine della sbronza Mirandão si lasciava andare a recriminazioni e lamentele, flagellandosi dolorosamente in una spietata autocritica, ricordando la moglie, vittima della sua degradazione, i quattro figli affamati, la famiglia intera minacciata di sfratto, mentre lui si sollazzava negli antri del giuoco e nei postriboli. «Sono un miserabile, un corrotto, una canaglia,» comunicava ai presenti Mirandão, un Mirandão pungente, pieno di rimorsi e privo di malizia, il moralista.

    Questa seconda e lamentevole fase si verificava tuttavia piuttosto raramente: solo in occasione di sbronze monumentali.

    Ma alle ventitré e trenta, nella casa in festa del Maggiore Pergentino Pimentel, pensionato della Polizia Militare, si trovava un Mirandão soddisfatto delle cose del mondo, incline ad un cordiale e profittevole scambio d’idee con dona Rozilda. Aveva appena terminato di mangiare e bere in modo assolutamente soddisfacente, assaggiando tutti i piatti, di alcuni servendosi una seconda volta. In sala da pranzo, in una profusione di cibi da benedire e santificare, facevano bella mostra di sé i pezzi forti della cucina baiana: vatapá ed efó, abará[34] e caruru, moqueca di granchi, di gamberoni, di pesce, acarajé[35] ed acaçá,[36] xinxim di gallina e haussà di riso,[37] oltre a montagne di polli e tacchini arrosto, cosciotti di maiale, fritto misto di pesce per qualche ignorante incapace d’apprezzare l’olio di dendê (infatti, come rifletteva Mirandão a bocca piena e con disprezzo, esiste a questo mondo ogni sorta di bruti, gente capace di qualsiasi ignominia). Tutto quel ben di dio innaffiato da aluá,[38] cachaça, birra, vini portoghesi. Da più di dieci anni il Maggiore dava quella festa, in adempienza ad un voto severo di candomblé, da quando gli orixás gli avevano salvato la moglie, in pericolo di vita per via dei calcoli renali. Non badava a spese, metteva da parte il denaro l’anno intero per spenderlo con soddisfazione la notte della festa. Mirandão ci si era tuffato: forchetta di tutto rispetto, bicchiere ancora migliore. Ora, pieno fino agli occhi, esausto da tanto mangiare e bere, aveva proprio bisogno d’una bella chiacchierata per aiutare la digestione.

    In sala, le coppie ce la mettevano tutta in quel tango argentino. Al piano Joãozinho Navarro. Dicendo Joãozinho Navarro, per chi se ne intende si è già detto tutto; non esisteva a quell’epoca a Bahia un pianista più ricercato e alcuni, come un certo giudice, di nome Coqueijo, grande intenditore di musica, aprivano la radio solo per ascoltare lui che si esibiva in un programma di musica popolare. E nelle ore piccole, non era forse il suo piano l’attrazione principale del Tabaris? Non era facile averlo alle feste private, poiché non gli restava tempo per queste esibizioni dilettantesche. Indefettibile, tuttavia, alle feste del Maggiore, al quale non poteva far torto per un antico debito di cortesia.

    Mirandão guardava compiaciuto i ballerini, approvava con la testa l’esecuzione di Joãozinho — un dio! — sorrideva alla vicina constatando l’assenza dalla festa di qualsiasi altro clandestino, a parte lui e Vadinho. Nessun altro eroe! Penetrare di straforo alle feste del Maggiore Tiririca, (come i monelli avevano soprannominato il buon Pergentino) era una prodezza impossibile, oggetto di sfide e scommesse. Mirandão si considerava arrivato: finalmente lui e Vadinho erano riusciti a sfondare la barriera alzata dal Maggiore e ad ottenere che la pesante porta di quercia chiusa a chiavistello, solo passaggio possibile per gli invitati, e solo per quelli, — tutti facce note ai padroni di casa, amici di lunga data — si aprisse e desse loro entrata. Non solo, ma accolti ambedue con grandi abbracci dal Maggiore e da dona Aurora, sua moglie, ancor più pignola del marito quanto alla qualità e identità dei suoi invitati. Là fuori, in animatissima seduta a cielo aperto, i guappi del rione assaporarono amaramente la loro sconfitta, nel vederli penetrare, dopo brevissima conversazione col Maggiore, oltre la soglia invalicabile, fra vivaci esclamazioni di dona Aurora. Come diavolo avevano fatto?

    Mirandão, a pancia piena, sospirò con un sorriso beato. Vadinho volteggiava per la sala con una bella fanciulla fra le braccia, una morettina grassoccia ben in carne — e chi ama gli ossi è un cane — con certi occhi languidi e una pelle color di tè bronzodorato, di anche e seni ben messi.

    «Un bel pezzo di figliola da perderci la testa, tentazione di mora!» lodò Mirandão, indicando la ragazza che danzava con l’amico.

    Lo spaventapasseri si mise sulla difensiva, si drizzò sul busto incartapecorito, gracidò con voce battagliera:

    «È mia figlia...»

    Mirandão non si scompose:

    «Allora le faccio le mie congratulazioni, signora, si vede subito che è una ragazza come si deve, di buona famiglia. Il mio amico...»

    «Quello che sta ballando con lei è un suo amico?»

    «Se è mio amico?... Intimo, signora mia, fraterno...»

    «E chi è, si può sapere?»

    Mirandão s’accomodò meglio sulla sedia, trasse dalla tasca un fazzoletto profumato, tergendosi alcune goccie di sudore dalla vasta fronte, sempre più sorridente e felice: non c’era cosa al mondo che gli desse tanta soddisfazione quanto metter su una panzana ben congegnata, una storia particolarmente divertente.

    «Mi permetta prima di presentarmi: dottor José Rodrigues de Miranda, ingegnere agronomo, comandato presso il gabinetto del Delegato Ausiliare...», tendeva la mano, cordialissimo.

    In un ultimo sprazzo di diffidenza, dona Rozilda squadrò l’interlocutore con occhio ostile. Ma la fisionomia paciosa ed il sorriso franco di Mirandão cancellavano qualsiasi sospetto, smantellavano qualsiasi resistenza, disarmavano e conquistavano qualsiasi avversario, fosse pure malignetto e meschino come dona Rozilda.

     

    VII

    Parentesi, con Chimbo e con Rita de Chimbo

    Quel giorno, verso la fine del pomeriggio, quando più pesante era la caligine — un’atmosfera solida come il cemento — mentre Vadinho e Mirandão si trovavano in rione São Pedro a bere le prime dosi di cachaça al bar Alamèda, facendo piani per la festa della sera al Rio Vermelho, eccoti apparire sulla porta del locale la faccia congestionata di Chimbo, il parente importante di Vadinho, investito in quel momento della carica di Delegato Ausiliare, vale a dire, il secondo assoluto di tutta la polizia. Benché assessore e figlio di un uomo politico governista di rilievo, senza rispetto per la tradizionale austerità del padre né per le convenienze, questo lontano cugino di Vadinho, Guimarães di quelli legittimi e ricchi, era un festaiolo, un playboy inveterato, gagliardo per le bicchierate, i dadi e le puttane, per dirla in due parole un classico bon vivant. Ora un po’ più riservato, forzando la sua natura, per rispetto alla carica. Carica nella quale del resto, proprio per questo, non avrebbe durato a lungo, preferendo, come preferiva, a qualsiasi posizione brillante la sua libertà, che non avrebbe scambiato con lo stipendio più alto, né con alcun titolo.

    Già in precedenza aveva rinunziato al governo di Belmonte, sua città natale, dove l’aveva fatto nominare Intendente suo padre, senatore e feudatario locale, dopo un simulacro di elezione. Abbandonò posto e titolo, onori ed oneri: troppo alto era il prezzo da pagare. Non si contentavano i belmontesi delle sue effettive capacità amministrative, esigevano anche un governatore di illibati costumi: un abuso intollerabile.

    Ne era venuto fuori un bla-bla-bla di tutti i diavoli, uno scandalo fuori misura, solo perché, audace e progressista, egli aveva importato da Bahia alcune allegre fanciulle, nell’intento d’interrompere la monotonia della cittadina e la sua propria solitudine. Aveva convocato Rita de Chimbo, prestigiosa animatrice delle notti al Tabaris, soprannominata «de Chimbo» proprio in grazia del legame antico — e persistente — che li univa, amore cantato in prosa e in versi dagli scapigliati locali. Litigavano, s’insultavano, si separavano per sempre, e pochi giorni dopo facevano la pace, continuavano il loro idillio, irrimediabilmente legati. Per questo Rita al suo nome aveva aggiunto il nomignolo del suo amore, così come la sposa adotta il cognome dello sposo. Al saperlo Intendente, signore di scure e verghe, esercitante diritto di vita e di morte su di una popolazione indifesa, impose, con messaggio telegrafico, d’esser chiamata a partecipare alla sua autorità. Qual piacere al mondo si può paragonare con quello del comando, del potere? Voleva assaporarlo, la voluttuosa Rita. Chimbo, solitario nelle notti di Belmonte, lunghe per non aver che fare, assolutamente vuote, ascoltò l’ardente supplica, fece venire la ragazza.

    Chimbo Intendente, un re nella sua città. Rita de Chimbo non poteva sbarcare come una qualsiasi nel di lui impero: era la favorita, la concubina reale. Ecco perché invitò al suo seguito tre bellezze, fra loro diverse ma eccezionali tutte e tre: Zuleika Marron, mulatta raffinata e piuttosto lubrica, le cui anche ondulanti fermavano il traffico, stendevano i pedoni; Amalia Fuentes, enigmatica peruviana dalla voce morbida, tendente al misticismo, e Zizi Culhudinha, una spiga di grano fragile e dorata, birichina quant’altre mai. Questa ristretta e formosa carovana, ci pesa dirlo!, non ebbe in Belmonte l’accoglienza entusiastica che meritava; al contrario, fu oggetto di aperta ostilità da parte di signore e perfino di gentiluomini. Eccezion fatta per alcuni gruppi sociali: studenti imberbi, i pochi nottambuli,

    i  bevitori di cachaça in generale, più qualche sporadico caso individuale, siamo obbligati a riconoscere che la popolazione si mantenne distante e sospettosa.

    Per di più Rita de Chimbo fu vista a mezzanotte, sul marciapiede dell’Intendenza, sbronza da non reggersi in piedi, a salutare la città col suo ricco e variato repertorio di parolacce. Circolavano voci spaventose: il vecchio Abraão, commerciante e già nonno, si trascinava, coprendosi di ridicolo, ai piedi di Zuleika Marron, dilapidando il patrimonio dei nipoti in baccanali con quella bagascia. Bereco, giovane fino a quel momento casto e di morigerati costumi, funzionario delle Poste, presidente delle Opere Pie, si era innamorato di Amàlia Fuentes, avendone scoperto le segrete radici di purezza e religiosità, le offriva l’anello di fidanzamento, trascinando la sua timorata famiglia alla disperazione. Il culmine dello scandalo si ebbe quando la Culhudinha divenne la beneamata di tutti i ragazzini delle scuole medie, il loro sogno e la loro regina, la loro bandiera di combattimento, il loro pulcro ideale. Passava ella tutta bionda nelle notti di Belmonte, assediata da uno stuolo di ragazzini, e il poeta Sosìgenes Costa le dedicava sonetti. Oh, ignominia!

    Perfino quel frocio del padre vicario, prete arrogante dalla voce stridula, aveva predicato contro Chimbo: una violenta requisitoria contro la sua scandalosa incontinenza. Aveva classificato le sue dilette donzelle come «immondizie del meretricio della metropoli», «serve del demonio», quelle povere bambine! Sermone incendiario, la chiesa affollatissima per la messa domenicale, e il reverendo ad accusare Chimbo di star trasformando la morigerata Belmonte in Sodoma e Gomorra; case rovinate, famiglie in dissoluzione, o città infelice cui era capitata la disgrazia di un Intendente così depravato, quel «Nerone in mutande lunghe». Chimbo era dotato di senso dell’umorismo, e rise della virulenza del prete. Piansero invece le ragazze, Rita de Chimbo esigeva vendetta, e Miguel Turco, un arabo esaltato segretario dell’Intendenza, devoto anima e corpo ai Guimarães e notorio adulatore, si offrì di eseguirla: avrebbe mandato due gorilla di fiducia ad insegnare le buone maniere a quel sovversivo d’un vicario spolverandogli la sottana.

    Chimbo asciugò le lacrime di Rita, ringraziò il siriano per la sua devozione, gratificò i due gorilla — due assassini fuggiti da Ilhéus. Dietro la sua apparente indifferenza, Chimbo era un individuo prudente e abile, non gli mancava il senso dell’opportunità politica. Figurarsi la reazione del Senatore se lui fosse entrato in guerra con la Chiesa, spolverandole un curato per dar soddisfazione a una donnina allegra! Per di più il reverendo aveva le sue buone ragioni per avercela con lui. Definendolo un «Nerone in mutande lunghe», alludeva alla notte in cui, vestito solo d’un paio di mutandoni a righe, l’illustre Intendente aveva dovuto attraversare tutta la città, dato che il vicario l’aveva appena sorpreso in avanzato idillio con la candida Maricota, la stimabile domestica che assicurava i servizi di tavola e letto al reverendo — la sua pecorella preferita.

    A Chimbo non era rimasta altra scelta se non riunire le sue oltraggiate ospiti, dare il braccio a Rita de Chimbo, e con loro imbarcarsi su di un vaporetto della Compagnia Baiana. Rinunziava così alla carica, agli onori e alla ricca percentuale sul gioco del bicho. Orfana restò Belmonte delle sue capacità amministrative e dell’affabilità delle tre bellezze della Capitale. A testimonianza dell’efficiente amministrazione di Chimbo restavano il pontone d’attracco restaurato, l’ampliamento della Scuola Elementare e la riparazione del muro di cinta del cimitero. Delle donzelle rimase la fuggitiva visione a perturbare, ancora per molto tempo, i sonni di Belmonte.

    Chimbo si ritirò nell’anonimato del suo redditizio incarico di servitore della Giustizia, dove nessuno spiava i suoi passi. Si reinserì nella vita notturna; dal Tabaris (dove Rita de Chimbo tornò a regnare) al Palace, dall’Abaixadinho, alla bisca dei «Tre Duchi», dalla «casa» di Carla a quella di Helena Colibrì. Alle feste notturne ed all’incarico remunerativo e anodino lo strappava di tanto in tanto il padre senatore, per servirsene nelle sue manovre politiche, appiccicandogli incarichi ed onori che altri ambivano, ma non lui, Chimbo, desideroso soltanto di vivere libero e tranquillo.

    Chimbo voleva bene a Vadinho, non solo in grazia della loro lontana e spuria parentela, ma anche per le qualità del giovane compagno di roulettes e cabarets. Per cui sentendo una volta qualcuno che lo tacciava di essere un vagabondo, senza lavoro né mezzi di sussistenza, gli procurò un posto modesto d’ispettore dei Parchi e Giardini del Municipio, visto che «un Guimarães deve avere un posto ben definito nella società».

    «Nessun Guimarães è un vagabondo...»

    Contraddizioni del simpatico Chimbo, così poco attaccato a convenzioni e protocollo, e al tempo stesso dotato di un così profondo senso della famiglia, zelante per il buon nome del potente clan dei Guimarães.

    Orbene, quella sera Vadinho e Mirandão incontrarono Chimbo a São Pedro, nel momento esatto in cui il Delegato Ausiliare era diretto dal Capo della Polizia. Un Chimbo inferocito, ficcato in un completo scuro e pesante da cerimonia, tenuta da funerale o da sposalizio: colletto duro con le punte girate, plastron, gilet, ghette, bastone da passeggio con il pomo d’oro. Un Chimbo tutto in ghingheri, in una giornata calda come quella, di caligine asfissiante, di canicola mortale, quando tutte le bocche anelavano ad una birra ghiacciata.

    «Solo una birra a temperatura polare può salvarci la vita,» disse Vadinho, abbracciando il parente e protettore.

    In linguaggio forte e plastico Chimbo maledisse la sorte, distribuendo aggettivi con acida prodigalità: «Merda di vita stronza, impiego figlio di puttana; obbligato ad accompagnare il Governatore dappertutto, a tutte quelle cerimonie, a tutte quelle merdate e quelle schifezze...» Non lo vedevano, mascherato da Commendatore portoghese? Quella sera, in grazia dell’impiego, era obbligato a presenziare all’inaugurazione d’un congresso scientifico alla Facoltà di Medicina: il Congresso Nazionale di Ostetricia, con discorsi, saggi, dibattiti e relazioni a proposito di parti e aborti; una scocciatura monumentale. Chimbo vuotava d’un fiato il suo bicchiere di birra, tentando di placare la sete e la rabbia; suo padre e la sua eterna mania di servirsi di lui per la maledetta politica!

    E per di più, — s’immaginassero un po’ che razza di iella — l’infernale congresso decideva d’inaugurarsi giusto la sera della festa del Maggiore Pergentino, il Maggiore Tiririca del Rio Vermelho — certo sapevano di che festa si trattava. Lui aveva fatto un favore al militare: su sua richiesta aveva fatto metter fuori di galera un facinoroso; e ora il Maggiore non lo mollava più, voleva a tutti i costi dimostrargli la sua gratitudine, farlo segno dei suoi omaggi. La festa di Tiririca a quanto dicevano faceva epoca, valeva la pena andarci: si mangiava e beveva splendidamente. E lui, Chimbo, invitato d’onore, si figurassero un po’ che scherzetto!

    «Al posto della festa mi toccherà ascoltare dei medici che dissertano sui parti... Mio padre mi prepara di quelle prebende!»

    Come fare a convincere il Senatore a lasciarlo in pace nel suo angolino, se il vecchio era un satrapo di fronte al quale tremava lo stesso Governatore? Brillarono gli occhi di Vadinho, si schiusero al sorriso le labbra di Mirandão: Chimbo aveva appena terminato di aprire loro le porte della gloria e della casa del Maggiore.

     

    VIII

    La sera, davanti alla magione in festa, i due filibustieri scommisero con altri della stessa risma: sarebbero penetrati nella sala da ballo, e vi sarebbero stati ricevuti come invitati d’onore. Vi penetrarono, in effetti, e furono ricevuti con tutti gli onori, trattati in palma di mano, poiché Vadinho si fece riconoscere dal Maggiore e da dona Aurora come nipote del Delegato Ausiliare, assente per ragioni di forza maggiore, e allo stesso tempo investì Mirandão della carica, inesistente, di segretario personale di Chimbo.

    «Il dottor Airton Guimarães, mio zio, ha dovuto accompagnare il Governatore ad un Congresso di Ginecologia, ma siccome ci teneva a non venir meno al suo invito, ha mandato me e il suo segretario, dottor Mirandão, a rappresentarlo. Sono il dottor Waldomiro Guimarães...»

    Il Maggiore dichiarò che la gentilezza del Delegato lo commuoveva, troppo amabile a scusarsi e a farsi rappresentare. Rimpiangeva di non averlo alla festa, sarebbe stato un piacere per lui presentargli i suoi ossequi; ma intanto lui e sua moglie ricevevano a braccia aperte il rappresentante dello stimato amico. Stava tendendo la mano a Vadinho, quando Mirandão, in estasi e sfrontato, corresse rimettendo le cose al loro posto:

    «Perdoni, Maggiore, l’intromissione, ma a rappresentare il signor Delegato Ausiliare sta la mia modesta persona; io, dottor José Rodrigues de Miranda, libero docente della Facoltà d’Agraria, comandato presso il dottor Airton. Il mio amico, dottor Waldomiro, benché nipote del Delegato, non rappresenta lui, bensì il Signor Governatore...»

    «Il Governatore?» esclamò il Maggiore, abbagliato da tanti onori.

    «Sì,» rincarò Vadinho, quando il Governatore aveva sentito il Delegato Ausiliare chiedere a suo nipote ed al suo segretario di rappresentarlo alla festa del Maggiore, l’aveva incaricato (poiché era addetto al Gabinetto di Sua Eccellenza) di portare i suoi saluti al «buon amico Pergentino» e porgere i suoi omaggi «alla di lui degna sposa».

    Il Maggiore e dona Aurora, gonfi di vanità, facevano strada, presentavano gli ospiti, facevano riempire i bicchieri, preparare i piatti: niente era abbastanza per Vadinho e Mirandão.

    Là fuori, sbalorditi, i compagni di bricconate non credevano ai loro occhi. Che astuzia diabolica avevano messo in atto i due compari per essere ricevuti a quel modo? Non s’aveva ricordanza che nessun invitato spurio avesse mai varcato le soglie della porta del Maggiore, il quale faceva una questione di principio di mantenere la festa entro la ristretta cerchia dei suoi invitati, dei suoi amici: garanzia di decoro e buon nome. Giurando sui suoi gloriosi galloni si vantava: «nessun intruso alle mie feste, a meno che non passi sul mio cadavere». Ed i più esimi assalta-feste della città, capaci d’intrufolarsi, ed essendosi effettivamente intrufolati, in feste estremamente esclusive ed imponenti, con sbarramento di polizia — perfino al Palazzo del Governo ed in casa del dottor Clemente Mariani — feste in confronto alle quali quella del Maggiore non era che una festicciola improvvisata, un piccolo ballo di poveri, una danza di sobborgo, quattro salti in confidenza; questi famosi assalta-feste, tutti senza esclusione di uno, avevano fatto cilecca nei loro tentativi, rinnovati ogni anno, di intrufolarsi alla festa del Maggiore. Nessuno era riuscito a varcare la ben vietata soglia.

    Nessuno, è in verità un’esagerazione. Édio Gantois, astuto studente in combutta con un altro manigoldo della stessa specie, il già menzionato Lev-Lingua-d’Argento, a quei tempi ancora universitario, era riuscito una volta ad intrufolarsi alla festa del Maggiore, e per circa mezz’ora aveva mantenuto col compare la posizione conquistata, per poi essere espulsi a spinte e sganassoni: il muscoloso Édio in corpo a corpo con gl’invitati, il mingherlino Lev scambiando pedate col Maggiore.

    Come avevano potuto trionfare e, subito dopo aver assaporato il trionfo, fallire così miseramente? Benché questa sia un’altra storia, vale la pena raccontarla, per valorizzare meglio la prodezza di Vadinho e Mirandão. A quel tempo era sbarcato a Bahia, per dare due soli recitais al Conservatorio, con molta pubblicità sui giornali, un concertista stravagante, che armeggiava con uno strumento ancor più singolare: una sega, melodiosa quanto il pianoforte meglio accordato. Si trattava di un russo dal nome ostrogoto, il «russo dalla sega magica», come annunziavano i manifesti dei suoi concerti ed i giornali. Édio aveva in casa una vecchia sega da falegname, Lev, figlio di russi, il nome stramboide. Pazzi l’uno e l’altro per combinare qualche tiro, impacchettarono la sega in carta da pacchi, buttarono giù un paio di dosi di cachaça per tirarsi su il morale, si presentarono alla porta del Maggiore come il russo famoso e il suo impresario.

    Il Maggiore Tiririca aveva un sesto senso per gli intrusi: li annusava nell’aria a distanza. Come posò gli occhi su Lev ed Édio, una voce interna gli diede l’allarme. Ma già gl’invitati, all’annunzio della presenza del «russo dalla sega magica», salutavano con entusiasmo la possibilità di sentirlo suonare. In silenzio, dilaniato dai dubbi, il Maggiore aprì la porta, permettendo l’accesso ai due malandrini. Ma rimase ad osservarli. I due appoggiarono la sega dietro ad un mobile, dando modo al Maggiore di notare con che avidità si dirigevano verso la sala da pranzo, la loro fretta di mettersi a mangiare e a bere. Scambiando un’occhiata con dona Aurora, che anche lei trovava la scena piuttosto sospetta, il Maggiore intimò, appoggiato dalla totalità degl’invitati ansiosi di ascoltarlo, che si desse esecuzione immediata al recital musicale. Prima il concerto, poi la mangeria. Per quanto Édio tentasse, con chiacchiere temporeggiatrici, di ritardare il momento del disastro, non ci fu niente da fare, non ottenne né dilazione né appello.

    Per di più, per una qualche misteriosa metamorfosi, Lev s’era sentito subitamente ispirato, viveva il suo ruolo in modo cosi realistico che si considerava l’autentico russo dei concerti. Cosi, senza più farsi pregare, prese in mano la vecchia sega, fra grida di bravo! e battimani. Fu così perfetto, la lunga e magra persona piegata ad angolo retto, la chioma arruffata, gli occhi vaganti in zone astrali, che ingannò tutti, facendo vacillare per un istante perfino il Maggiore e dona Aurora. Questo fino al momento in cui con un cucchiaino da caffè ferì il bordo della sega. Infatti — come ebbe poi a raccontare Édio — non appena vibrò il primo colpo, tutti i presenti, senza eccezioni, capirono che si trattava d’una commedia. Solo Lev continuava, sempre più autentico e ispirato, a vibrare colpi di cucchiaino contro la sega, senza che né il Maggiore, né sua moglie, né gl’invitati dimostrassero la minima simpatia per tanto impegno artistico.

    Il Maggiore s’avanzò, seguito da alcuni amici fra i più sensibili a questi scherzi di cattivo gusto. La risalita del corridoio in direzione alla porta d’entrata fu lunga ed epica, realmente indimenticabile: Édio e Lev almeno l’avrebbero ricordata per tutta la vita. Sergozzoni, pedate, spinte, cadute. Dona Aurora voleva cavar gli occhi a tutt’e due; il Maggiore si contentò di buttarli fuori, in mezzo agli esclusi (e sui corpi stesi a terra fu gettata la sega, sempre meno sonora).

    Con Vadinho e Mirandão non era accaduto niente del genere; né il Maggiore né dona Aurora avevano avuto il più vago sospetto. I due avevano mangiato e bevuto splendidamente ed ora stavano, Vadinho a strusciare i piedi per il salotto in un valzer, Mirandão a domandarsi se avrebbe dovuto o no alzare il bicchiere alla salute del Maggiore e di dona Aurora in nome di Chimbo. Sorrideva dalla sua sedia, sentendo dona Rozilda chiedergli chi era il giovanotto che ballava con sua figlia. Per fare maggior effetto rispose con un’altra domanda:

    «Il Maggiore non gliel’ha presentato?»

    «No, ero di là, non l’ho visto arrivare.»

    «Ebbene, gentile signora, ho il piacere d’informarla: si tratta del dottor Waldomiro Guimarães, nipote del dottor Airton Guimarães, Delegato Ausiliare, e nipote del Senatore...»

    «Non sarà il famoso Senatore Guimarães?»

    «Proprio lui, distinta signora. L’onnipotente, il Capo dei capi, il Gesù Bambino della politica; proprio lui, il mio padrino.»

    «Suo padrino?»

    «Di cresima. E nonno di Vadinho.»

    «Vadinho?»

    «È il vezzeggiativo che gli davano da bambino. Lui è il nipote preferito del Senatore.»

    «Studente?»

    «Non le ho già detto che è dottore? Laureato, signora mia, avvocato. Ufficiale di Gabinetto del Governatore, alto funzionario municipale, ispettore...»

    «Ispettore delle Imposte?...» quell’informazione trascendeva ai più arditi sogni di dona Rozilda.

    «Ispettore delle Case da Giuoco, illustrissima,» e a voce bassa: «è il tipo d’ispezione che rende di più: una fortuna tutti i mesi... senza contare le regalie: una piccola fiche qui, una là... E ora per di più ha preso servizio nel gabinetto del Governatore...»

    Si sentiva generoso:

    «Non ha qualche parente povero cui desideri procurare un impiego? Se ce l’ha, basta che lo dica, che mi dia il nome,» respirò profondamente, soddisfatto di sé, proseguì indomito:

    «Lo vede, là che balla? Non si meravigli se alle prossime elezioni viene eletto Deputato...»

    «Ancora così giovane...»

    «Cosa vuole, signora mia, è nato in una culla dorata, ha trovato il piatto già pronto, il suo cammino è cosparso di rose.» Mirandão si sentiva poeta in quella notte di gloria; di lì a poco avrebbe improvvisato un discorso monumentale, che avrebbe strappato le lacrime perfino a dona Aurora, la belva del Rio Vermelho.

    Dona Rozilda strinse gli occhietti, una fiamma di ambizione le accendeva lo sguardo. Joãozinho Navarro terminava il suo tango con virtuosismi in grande stile, Vadinho e Flor si sorridevano. Dona Rozilda rabbrividì dall’emozione: mai aveva visto quell’espressione in viso alla figlia, e la conosceva bene. E lui? si chiedeva, era stato colpito anche lui, segnato per sempre? C’era, nel viso di Vadinho, un’espressione d’innocenza, un candore, una tale sincerità; dona Rozilda si sentì commossa. Ah miracoloso Signor del Bonfim, che fosse quello il genero ricco e importante che i cieli le avevano destinato? Ancor più ricco ed importante del paraense Pedro Borges, con le sue miglia di terra e di fiume, le sue dozzine di servitori. Un genero nipote d’un senatore, intimo del governo, parte del governo lui stesso: «Ahi, Nostra Signora di Capistola aiutatemi! Concedetemi, Signor del Bonfim, la grazia di questo miracolo, e prometto d’accompagnare scalza la processione del Lavaggio della Scala,[39] portando fiori e una mezzina d’acqua pura.»

    Il Maggiore s’avvicinava, dona Rozilda ringraziò Mirandão, si volse al padrone di casa mostrando il gruppo formato da Vadinho e Flor, Lita e Pòrto in un angolo del salotto. Mirandão osservò la manovra della vecchia maneggiona, facendo uno sforzo s’alzò anche lui, andò a prendersi una birra. Dona Rozilda chiedeva al Maggiore:

    «Maggiore, mi presenti a quel giovanotto...»

    «Non lo conosce? È un parente del dottor Airton Guimarães, il Delegato Ausiliare, grande amico mio...» sorrideva vanitoso: «Per gli amici intimi Chimbo... Me l’ha detto lui stesso: “Pergentino, chiamami Chimbo; siamo amici o no?” Un uomo alla mano, bravo ragazzo... M’ha fatto un favorone...» parlava per tutti, volendo rendere pubblica la sua amicizia per il Delegato.

    Dona Rozilda stringeva la mano al giovane, Flor presentava:

    «Mia Madre, il dottor Waldomiro...»

    «Vadinho per gli amici...»

    «Il dottor Waldomiro vive all’ombra del nostro eminente Governatore, lavora nel suo gabinetto....»

    «Il Governatore ha molta stima di lei, Maggiore. Proprio oggi mi ha detto: “Porta il mio abbraccio al mio amico Pergentino, un grande amico”.» Dalla felicità il Maggiore si sentiva perfino imbarazzato:

    «Grazie, dottore...»

    Pòrto, che quell’intimità a Palazzo intimidiva un po’, commentò:

    «Molta responsabilità, ma anche molta importanza...»

    Vadinho faceva il modesto:

    «Per carità... Non so neppure se resterò a Palazzo...»

    «E perché?» volle sapere donna Lita.

    «Mio nonno,» confidò Vadinho, «il senatore...»

    «Il Senatore Guimarães,» sussurrò piano dona Rozilda.

    Vadinho le sorrise, con un’aura di candore che gli circonfondeva il viso, sorrise malinconico a Flor, così bella:

    «Mio nonno vuole che vada a Rio, mi offre un posto...»

    «E lei accetta?» smoriva Flor negli occhi liquidi.

    «Niente mi trattiene qui... niente e nessuno... sono così solo...»

    Flor sospirava:

    «Così sola...»

    Dalla sala da pranzo chiamavano il Maggiore: non aveva un attimo di riposo per attendere a tutti i suoi ospiti, anfitrione perfetto. Qualcuno entrò subito dopo battendo le mani per chiedere silenzio: il dottor Mirandão avrebbe rivolto un saluto al padrone di casa. S’udì il botto d’una bottiglia di champagne, il tappo che sbatteva contro il soffitto.

    Vadinho e Flor s’avviavano sorridenti ad ascoltare il discorso di Mirandão: «Un discorso di Mirandão non è cosa che si possa perdere,» avvisò Vadinho. Dona Rozilda, il cuore che le saltava in petto, commentò con dona Lita e Thales Pòrto, suo marito, vedendo i ragazzi che s’imbarcavano definitivamente verso il loro idillio:

    «Non è una coppia perfetta? Non sembrano nati l’uno per l’altro? Se Dio vuole...»

    «Accidempoli! Si sono appena conosciuti e stai già architettando il matrimonio?» Lita scosse la testa: sua sorella doveva proprio essere ammattita, con quella smania del fidanzato ricco per la figlia.

    Dona Rozilda si drizzò sul busto, fissò con arroganza la sorella pessimista. Dalla sala da pranzo, ampia, intrisa di birra, giungeva la voce dell’oratore, nel brindisi ai padroni di casa. Verso quella voce s’incamminò la vedova, parata di speranze. Scrosci di mani salutavano una frase felice di Mirandão, che proseguiva impavido:

    «Nelle pagine immortali della storia, signore e signori, impresso in fulgenti lettere d’oro, resterà il nome onorato del Maggiore Pergentino, cittadino di virtù esponenziali (vibrava la voce nell’aria, pronunziando la parola sofisticata) e quello della sua nobilissima sposa, ornamento della società di Boa Terra, dona Aurora, un angelo... si, signore e signori, angelo d’incontaminata (incontaminata, ripeteva la voce cantilenante)... virtù, sposa devota, bronzea vergine...»

    Al centro della sala Mirandão, l’intruso, impugnando a braccio levato la coppa di champagne, dominava padroni di casa ed invitati, tutti abbagliati dalla sua eloquenza. Il Maggiore sorrideva beato; la devota sposa, la bronzea vergine, abbassava gli occhi commossa: mai una sua festa aveva raggiunto le superbe altezze di quel trionfo.

    «... dona Aurora, essere amorevole, santa, santissima creatura.» Le lacrime bruciavano gli occhi della santissima creatura.